Grice e Contestabile: l’implicatura
conversazionale di BRVNO al rogo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Teano).
Filosofo italiano. Grice: “I love Contestabile; I love a philosopher with a
sense of humour! At Oxford, it has become increasingly difficult to laugh at
people’s surnames! But ‘grice’ means ‘pig,’ in Norwegian! – Anyway,
Contestabile contests a revisionist account of Bruno’s life – “surely he wasn’t
a coward – I know because of his links with the Campanella whom my family
supported in his fight against the furriners!” Cacciato con una telefonata»
Intervista di Dino Martirano, Corriere della sera. Con il Psi non ho ricoperto
grandi incarichi ma ho avuto l'onore di essere stato amico di Craxi. Mi
mancherà la politica ma non è una tragedia. Torno ai miei studi, alla filosofia
medioevale. Mi mancheranno certi momenti. Io, che ero stato nel Psi fin quando
la procura della Repubblica lo ha sciolto, ricordo bene i mesi trascorsi al
ministero della Giustizia: col ministro Biondi fummo i protagonisti del
tentativo fallito, però generoso, di riportare la giustizia sui binari della
normalità. Sciolto il partito [Psi], chi si è fatto maomettano, chi ebreo, chi
cattolico. Però sempre socialisti siamo rimasti. Avvocato
e politico italiano Sottosegretario di Stato del Ministero della Giustizia
Presidente Berlusconi Predecessore Sorice Successore Mirone Vicepresidente del
Senato della Repubblica Presidente Mancino Senatore della Repubblica Italiana
Legislature Gruppo parlamentare Forza Italia Circoscrizione Lombardia Collegio Cinisello
Balsamo, Vigevano Incarichi parlamentari Sottosegretario di Stato per la grazia
e giustizia Sito istituzionale Dati generali Partito politico FI Titolo di
studio Laurea in giurisprudenza Professione avvocato. Avvocato e politico
italiano. Laureato in giurisprudenza,
esercita la professione di avvocato. Entra in politica iscrivendosi al Partito
Socialista Italiano (partito a cui è appartenuto fino agli eventi che hanno
travolto tale formazione politica)[1]. In seguito aderisce a Forza Italia,
affermando che in tale movimento politico l'area socialista era ben accolta e
rappresentata. Viene eletto senatore ed è rieletto anche nelle due successive
legislature. Vicepresidente del Senato. Incarichi parlamentariModifica Ha fatto
parte delle seguenti commissioni parlamentari: Affari costituzionali e
giustizia; Difesa. Membro, inoltre, della giunta per le elezioni e immunità
parlamentari. Sottosegretario di StatoModifica È stato sottosegretario di
Stato per la Grazia e giustizia nel primo governo di Silvio Berlusconi. Tutti i
figli e i figliastri del garofano. su qn.quotidiano.net. Adnkronos - Psi: C. a
De Michelis, noi stiamo bene in FI ^ Senato - XIII legislatura Voci correlate Modifica
Governo Berlusconi I Partito Socialista Italiano C., su Senato.it - XII legislatura, Parlamento
italiano. C., su Senato.it - XIII legislatura, Parlamento italiano. Domenico
Contestabile, su Senato.it - XIV legislatura, Parlamento italiano. Biografie
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CORRELATE Fabrizio Cicchitto politico italiano Maceratini politico e
avvocato italiano Scamarcio politico italiano Altre saggi:
Bruno: una revisione contestata” – La storia della
filosofia è continua revisione, e non mi scandalizzo per il revisionismo
bruniano. Mi sembra però che questi non colga nel segno. La vita diBruno, dalla
fuga da S. Domenico Maggiore a Napoli fino al rogo di Campo dei Fiori a Roma, è
di singolare coerenza. È una vita “contro”. L’accusa implicita di opportunismo mi
sembra perciò singolare. E’ vero che, durante il processo, ritratta molte sue
tesi, e avrebbe avuto salva la vita se continua in questo atteggiamento. Alla
fine però si stanca, e scolge lucidamente di morire. È opportunista chi
cerca solo di salvare la pelle, e poi decide di morire perché ritiene che il
suoi giudice ha esagerato? In quanto alla tesi sul Bruno spia elisabettiana,
essa non è provata, anzi è smentita dalla comparazione tra la grafia di Bruno e
quella dei biglietti di spionaggio. Infine, la tesi a proposito della relazione
tra Campanella e Bruno non mi ha mai convinto. Campanella (la sua rivolta e finanziata
dalla nobile famiglia C., come ricorda Firpo nel suo ottimo saggio sul processo
a Campanella) vuole poi un regime “comunista”? A leggere “La città del sole”
non si direbbe. (CA ui i) e iui Mia ba, VA dai ‘agi
LS it Il EGR Ln i \ LA va Di = | Pome Rm
Te ti n. i Li I e Aa Kt Hlirpogt] lb pi n 9 ha So Rif [a E Ji
> a ILLE di pe LIS ia
Giordano Bruno DRAMMA MILANO
Tipografia Commercial n als dtt , TORIO
EMANUELE , Carnevale 1881 -82. {Resta sapore * T'ERSONAGGI
BRUNO —. . . Sig. G. SALASSA LORENZO (figlio naturale di
GIORDANO BRUNO, «dot- tato:da).. ... ». > A.D'ANDRADE
ROMANO DEI LOMBARDI «+. > F. MIGLIARA LEANDRO giovine patrizio.
S.ra ANGIOLETTI LAURA figlia di ROMANO. >» A. Busi
IL GRANDE INQUISITORE . Sig. SALVARANI — ROCCO LILLE DAMIANI
ANDREA . Ni agN° UNGUARDIANO) che nonparlano —N. N. UN
OsTE .. Ni Ni Giovani e Nobili Veneziani, Servi di Romano,
Gondolieri, Seguaci di Bruno, Soldati, In- quisitori, Si Servi del S.
Uffizio, Frati e Popolo. L'azione del 1.° e 2.° Atto è in
Veni quella del:3.° e 4.° Atto in Re Anno 1600
ber a pieni Sofee bi; pece
SUIT ZIA Fitto Primo PIAZZA
IN'VENEZIA Un’Osteria e alcune seggiole. — In fondo un
canale praticabile, che traversa la scena. — Sul canale un ponte,
che mette in un viottolo, sull'angolo del quale sorge a destra, un
magnifico Palazzo illumi— minato a festa, prospiciente sul Canale. —.Un
in- gresso laterale, illuminato da faci fisse ai muri, con- ducedal
viottolo nel Palazzo. La porta principale verso . il Canale è aperta;
durante la scena seguente, visi ve- dono approdare gondole, dalle quali
scendono persone ragguardevoli, che, ricevute dai servi, entrano
nel Palazzo. — Sera. i SCENA TI, GIOVANI e
NOBILI VENEZIANI, parte ‘in abiti fanta- stici con mezza maschera al
volto, e parte in abiti comuni, vengono da sinistra, traversano il
ponte, e dalla strada entrano nel Palazzo. LEANDRO, ROCCO ed altri
Giovani vanno e vengono ferman- dosi sulla Piazza, cantando e ridendo,
Poi LQ- RENZO e LAURA. Leandro (accompagnandosi colla
ghitarra) A te, Venezia bella, adorata, A te, mia sposa, la
serenata. HEVVPETIAIAMITEREZI LIA VITE RENTAL rara rr
ovinantosinezineneisevazize vecio sinioneee IVTIPRErTA:Itr rara
rirevenaatos aes szereris cva:i0e vice vi’ veve’ ’avurecovio sr 0uIvI vare ri
[tti STA Hocco (Volgendosi all’osteria)
Leandro, scuotiti! Le mura adori?... Vieni ove brillano
Divini amori, Ove donzelle Cotanto belle Potrai mirar.
Coro dei nobili Al convito n’andiam! alla festa!
Leandro Prima di venir alla gran festa Distruggere io vo’
un'idea funesta! Oste, su via porgetemi Vino di Cipro; a questo
petto ardente - - Occorre del più vecchio e più potente.
Vivan le belle Danzanti; volano.... Gli occhi fiammeggiano
Più che le stelle; Ne’ Joro vortici Mi ruban Vanima.... sui Crudo
gioir! «__°—’—Più non mi muovo — Suolo dolcissimo, ir
belt —r__F—rrrrrr n -___
a-rt-rvreorosoeeriovoe nueva zeranen sonia mise
eeerarmierereriiovnieteacivoteote0ie Nido mio nuovo!
Muoio in tue braccia... Santo delir! | A te, Venezia
bella, adorata, A te, mia sposa, la serenata,
Coro AI Convito! n’andiam alla festa. (S'appressano in una gondola
LAURA e LORENZO) Eaurna Sul mare immenso — più non
impera Nè sulla terra — che la circonda... Venezia, è fango —
la tua bandiera! Lutto e non feste! — Pianga e s’ asconda.
Core (con alto di cu iosità) E un amante e la sua Della Che
passeggiano alla luna; Laura sembra la sua stella, Ma egli fa poca
fortuna. Seguiam tutti i vaghi amanti, E vediam, se pur n’ è
dato, In fra i suoni, i balli e i canti Di trovar
l’innamorato. È Lorenzo di Giordano, Che fuggì dal
sacro tempio ; lì Lorenzo... il vil, l’insano Che ne porge un
triste esempio. Lorenzo (con ira) .
È rivolta a me l’offesa? L’alma freme, batte il core!
- Già suonaron l’ultim’ ore; - E voi tutti io sfiderò.
Laura E rivolta a te I’effesa; rato L’alma freme, batte il
core!... Già suonaron l'ultim’ ore Io con te li sfiderò.
(LORENZO furente si scaglia contro ROCCO, e gli toglie la spada.
Gli altri NOBILI sguainano. le proprie e si schierano în fondo)
SCENA II. Detti, ROMANO dei LOMBARDI entra frettoloso
dalla casa di destra, seguito da servi con torce accese,
Bomano Chi grida? Chi chiama? Qual chiasso villano? Non son
cîttadini, ma plebe briaca ! Lorenzo, tu?... Il ferro in mano hai
snudato?.... Parla! Che avvenne! Sei pazzo ?... Ti placa!...
Laura (atterrita alla vista del padre) Che mai dirà Al
Genitor?... pa Voce non ha, Non ha più cor. Lorenzo
(con timore) Che mai dirò AI Genitor?... Voce non
ho, Non ho più cor. Leandro (con circospezione)
Il segno di croce facciamoci... e andiam via! Quel vecchio è uno sgherro
dell’ Inquisizione. Partiamo, fuggiamo... La belva più ria, E un
angelo a petto di questo demòne. Romane (ai Nobili)
Non chiedo ragioni di vostra contesa, Fra tenebre nacque... in tenebre
resti; E calmi la notte col sonno gli. ardori Di giovani folli, di
stolti furori.... Partite! Or è cauto lontani restar. Coro
di Nobili (infimoriti da Romano). Fuggiam dal feroce
Vegliardo Romano : Col fiato ne ammorba Il truce, l’insano;
nea Qui tutto è sospetto.... Amici, fuggìam.
1 NOBILI, it CORO, LEANDRO e LAURA sì riti- rano pel ponte ed
entrano nel Palazzo. L’OSTE ha chiuso ed è scomparso durante la rissa,
ROMANO fa un cenno ai Servi di allontanarsi. SCENA
III. ROMANO e LORENZO Romano Vengo, tu il sai,
da Roma; e il Santo Re e Pontefice armava il braccio mio. ‘Or sotto
il ferreo terribil manto Della suprema Città di Dio L’ Inquisizione
veneta sta; E a Roma solo ubbidirà. Dell’ eresia le vampe
infeste Soffocherò —. tutte le teste D’ un colpo all’ idra io
troncherò. Lorenzo Fu il Campanella scoperto e preso?
Romano Libero ei 8° agita... Ma il gran sovrano De’ rei, che
Italia e il mondo ha acceso Contro la Chiesa santa, è
Giordano. Presso i suoi complici quì ascoso stà!
Lorenzo Odio quel uomo tanto... tel giuro. Romano
Non basta odiarlo: questo io non curo; Tu quì arrestarlo ora
dovrai: (Musica da ballo neil’interno del Palazzo) In
fra le maschere lo scoprirai, Ed il porrat — nelle mie man.
Lorenzo Si chiede un atto di traditor?... Romano Queste ai
novizi prove si dan. Lorenzo Tradir ricuso; son uom d’onor.
Romano (con sdegno) A me tu, folle, devi?... RANA
RARA pinete Lorenzo Obbedienza ! Homano Ed alia
Chiesa! Trema... . Lorenzo (soffocando il furore) Obbedienza!
Romano Dunque ?... Lorenzo (con sottomissione) Giordano io
scoprirò! Eomano (ricomponendosi) Tuci giovanili e schictti
Modi ti gioveran, se manca il senno Di età maggior, Tuo sguardo onestà;
ispira, K assai tua voce ad ascoltarti attira. Per la grand’ opra
non sarai solo, D’altri miei fidi 1’ aiuto avrai; Pronto a
miei cenni sempre sarai, Uno per ‘tutti sia il mio voler.
Lorenzo (con dolore) L’iniqua trama ahi mi
colpisce! La terra, il cielo pur n’ hanno orror!... Vile è
colui, ch’ altri tradisce, Nè v' ha pietade pel traditor.
ERomano (imperioso) Come voglio, sia fatto. Or d’ altro; è m'’
odi. Dal dì che ardenti e improvidi Sguardi su Laura hai
posti, Travolto dalla subita Cicca passion tu fosti; N
| Una rea febbre 1° agita Tutte le membra o siolto, E
vedo nel tuo volto Il fuoco del delir. Bada! io ti scruto, o
giovine, E leggo il tuo desire; Guai se tal fiamma ignobile
Io non vedrò svanire. Tu sogni; ma chi vigila l'e per tuo ben
consiglia; Dimentica mia figlia, O trema del tuo ardir.
(parte da sinistra mentre sì volge ancora con fiero sguardo su
LORENZO). Lorenzo (con dolore): SO Solo alfin... solo
quì sono... Piangere, impallidir, tremar t’è dato sa Povero cor! Ma
dannate in eterno ei Son mie lacrime in lor foco d'inferno. Ci
i . . 0 cielo, perchè l’aere Fa A ._ ©. Spargi de’ tuoi profumi?
CRT a O terra perchè il giubilo. SA Delle tue stelle
assumi? © nare: A me negata è l'estasi. da D’ ogni dolcezza
umana, No: ae d'ogni gioia lè vana (ale EZIO Larva, che fugge
ognor; TERIOS L’ amor che è riso d’ angioli, 0; Di Nel povero
mio cor. i Strazio divien di dèmone, WA Delirio agitator. pr
| Amar non posso... 0° AARON] eta P, ‘L'odio mi restag» SS CE ao ag
Son stretto a questa to; LR 1 sur aRatalità. EI _: Vò di te
vincere. | Con santo zelo, .. Servir vo’ il Cielo... E questa
l’ ultima . «Mia volontà. (parte con fretta per il ponte). ‘
Cala la Vela. arnie, Affo Secondo onere
ge oi SALA NEL PALAZZO LOREDANO Una splendida sala da
Ballo nel Palazzo di Lore- dano a Venezia, con colonnato per modo che si
possa figurare l’accesso in altre sale. Illuminazione splen-
didissima. SCENA L Coro degl’Invitati ($
acc incanto dell’ebbre sale! Che ballo immenso! Sarà
immortale. Quest’ è la reggia della letizia; Il, paradiso. d’ ogni.
delizia. Deh! non fuggire, tempo; t’ arresta; Bearsi al lungo delir
giocondo Della fatata splendida festa Tutto in. Venezia vorrebbe il
mondo. {Gl’invitati s'allontanano in varie parti) SCENA
ILL GIORDANO entra con cautela e colla maschera in mano, poi
gli amici. drrezadzanzecezanconca n ionici oc. c0100
dna enricicondiizeotentoro neo dan'ontooarcrroniòolo /Tasos signor cecanzara anee
Giordano Quì ognun danza e delira Spensierato e
demente. E niun ragiona, E senno e cuore ha niuno. x
tutto quì è in periglio, ove il Leone Alato di San Marco
Prostrato dalla Santa Inquisizione Ai piè, scordò il
ruggito Di cui tremò per secoli ogni lito (volgendosi in
fondo) Ecco gli amici: ma assai lenti e scarsi. Alcuni dei
Primi Luce! Giordano Giustizia a tutti! E Primi E
verità! Alcuni dei Secondi [venendo oltre) Luce
! Giordano Giustizia a tutti
E Secondi E libertà! Giordano Grazie
diletti ! Sian pochi i detti; Molta l’opra. A ingannar V'astuta
Corio Dei biechi Inquisitori Ho scelto queste sale Di
Loredano. È pronto ognuno ? Coro Ognuno!
Giordano L’ ardir pari del vero alla grandezza? Ed
uniti? Coro Siam tuoi, Giordano Bruno! Giordano
e Coro Nel popol vero s’ incominci 1’ opra: S°
illumini! Bugiarda è la parola Di Roma e il suo Re, che Dio si
noma, Sull’ alma i Papi vogliono l’ impero Per posseder la
terra; E coi libri e col braccio tt
Viva facciasi ovunque eterna guerra Allo spirito, al verbo,
a ogni menzogna, Con che farci suoi schiavi Roma agogna
SCENA III. DETTI e LAURA che entra anelante dalla sinistra
colla maschera in mano. Enura Signor, fuggite! Giordano
Io? no! non fuggo. Coro (insospettito) Fuggiamo.... È pazzo!
(fuggono da va»ie aio Giordano (con ira) Vili! Tu hai fede? (a
Laura) ERaunna (sempre ancelante) Gran Dio! In queste
sale Circondavi un estremo ‘ Periglio. Per voi tremo...
Fuggite per pietà. IIIEEZZZERETET TEZIEXIZZELUPPEE PE CETO CE TI CE CES
CECI ICI IA CIT ALIZICI AZIO LETO EI Va besasnza rea dI gra rirvarai
tion Giordano (simulando) Fuggir?... Da chi fuggire?
Laura Da tutti! I delatori, Cui fia virtù
tradire, Vi cercano là fuori... Son mille a me ben
noti, Fierissimi e devoti Al sacro Tribunal.
Giordano (sorpreso) Mi conoscete? Eguana A
Padova Vi scorsi il«dì che ardito Nel fiume vi gettaste, E un
fanciullin tornaste Vivo al materno sen. L’ Inquisizion
seguiavi Co’ mille sgherri suoi Per arrestarvi; e voi Tra il
popolo festante Poteste in un istante Securo allor fuggir.
Giordano (simulando la calma) Bruno era quegli, che allor
miraste! Io non lo sono!... Mal giudicaste, . —
20— i Laura (sorpresa) Credetti... ho
divinato! © ; Voi siete il gran filosofo. Giordano
Oh certo s’ è ingannato Il vostro giovin cor.
Laura Perdonate se un lembo alzo del velo, Che a me vasconde...
(solleva: dl velo) Io v' ho scoperto!... siete... Celarvi non potete...
Giordano E chi son io? Laura Giordano Bruno,
cittadin di Nola! SCENA IV. (Durante quest’ultimo
colloquio, LORENZO entra da destra, LEANDRO da sinistra; si fermano in
- fondo, e, non veduti funno alto di attenzione).
“erimmiberarisisaorizeoeee — Mi — nisi bro
aravrariszazazezea ripa paio : Lorenza ngi Ho.
in mani, alfin 1, dai i ‘Ch’ ha Italia avvelenato; ‘Salvo da Ini
mille: anime! a Il mondo mi sia. EH 9 Leandro (4. LormNZO |
con simulata ironia) % TAL il salverài, mia “tnamo, | 79)
È quegli'il gran? ; Filosofo) di Il celebre Giordanb. VESTA
Dal Tribunal del Dèmoni Ù 401 1 PR. E O ARNO E ‘J
RARE. | Baura (| ‘801 ‘presa vi ala PISAE) | dia 39 DS
IDE Lorenzo! dui GicoL.. (a o pi di te-che mai sarà?
F a iI Gietiala (con dolore) Fui tradito
!..-Oh cerudoltà So IV I Santo phrto) Tana ‘in Cactpnse deg
Di palpiti, di ladina , Tempo,non è, mio cuore; .: .
‘ Salvarlo, fat Miracoli. DERE eo -0t devo ame l'amore. OL
DI Giordano © La luce tua mi sfolgora,
Fanciulla, nel pensiero; Se il mio profeta! Libero
Trionferà il mio vero. (poi fissando LORENZO) Quel
volto! V° è 1’ immagine Impressa di Teresa... Misto è quel
volto... e annunziami La gioia ed il dolor! (Prendendo per
mano LORENZO) Giovane, dimmi: sei tu di Roma? La tua favella
mel dice... Parla! Dimmi: tua madre come sì noma? Teresa
forse? Lorenzo Teresa?... Sì! SCENA V.
(In fondo appare ROMANO con SERVI e SOLDATI poi vengono gl’Invitati).
Giordano L’ inquisizione! Oh quale orror! (a Lorenzo)
E tu con essa? Ah traditor! o Io a te la vita diedi... e la morte -
Tu, iniquo, appresti al Genitor!... A te l’ inferno schiuda le porte...
Sii maledetto, vil delator.
fekresrey=neoan0enencastec pregsoneeaossog @zor—rorerovrse ereeeericrone
cer csvpirtetronertpariosonnen contiene nanenene Lorenzo
Tu... padre mio? Che mai feci io!... Padre, perdonami
_Se pur ancora ‘ Merto pietà. SCENA VI.
GU INVITATI che riappariscono da destra e sinistra e detti.
GI Envitati e Leandro La festa è orrenda! Fuggiamo
tutti; Qual tradimenti! > > Keco distrutti --- Degl’
innocenti Gli almi piacer. HEomano Grazie, o Ciel!
Nelle mie mani Or Giordane io vedo tratto! Roma esulti...! Il suo
desìo Finalmente è soddisfatto. Lerenzo Orrenda
infamia! Tu il. padre mio?... Ah me infelice! Che mai fec? io!
Padre, perdonami... O Ciel, pietà! 2 ERA
EeIOrtitiezast:nuvo cene cen vinariesazyaza cc uPONPPA PESSANO MT RI
Laura (a GIORDANO) Delle amarezze il calice
Berrò con te, Giordano; Già in seno il duolo squarciami
Il core a brano a brano; Peno per te, pel figlio Mio
primo e solo amor. Leandro Oh come ovunque
penetra La santa Inquisizione ! Come sarà terribile La
sua imputazione ! In lui perdiamo un figlio, Che della patria
è onor. Giordano (4 LAURA) Ah no! Laura, non
piangere... Giordano ha l’alma forte ! Pel Vero è pronto a
vincere Il duolo pur di morte! Dio deh! ritorna il
figlio A Laura e al Genitor, Lorenzo
Sento nel seno piovermi D'un aspro duol le stille!... Il padre...
oh! il padre scorgere ab 0); Temon le mie
pupille! Com'è infelice un figlio Ribelle al genitor !
Romano Entro mi serpe un fremito, Che mi sconvolge il
core, Veggendo quest’ eretico Di scismi banditore,
Che, della Chiesa*figlio, Divenne traditor!
Leandro Tu piangi?... Incauto, a Lui {affida Pel suo perdono;
ma l’alma infida Nel suo rimorso gran pena avrà. Coro
(a LORENZO) Che piangi?... Ognuno vile ti grida; Se’ un
traditor; se’ un parricida! Nè Dio, nè il mondo n’avran pietà.
(I SOLDATI circondano GIORDANO e cala la tela/.
IITTTTAAEIAIII RA CORTI Affo Cerzo
IN ROMA Sala nel palazzo
dell’Inquisizione. — In fondo, nel mezzo della parete una cortina nera
che chiudela scena, — A sinistra una finestra aperta con ferriata. In
fondo un tavolo coperto con un tappeto nero, a cui siedono il
grande INQUISITORE e DUE SCRIVANI; ai lati siedono gl’INQUISITORI, e, di
fronte, GIORDANO, R0- MANO e LORENZO, — Porte a destra e a
sinistra. SCENA I. Romano {> iordano!
Voi siete’ D’innanzi ai vostri giudici, al supremo Tribunal
della terra! E qui dovete, Smésso l’antico stile, Risponder
vero, obbediente, umile. “cà ra G. Inquisitore
Vostro nome è Giordan Bruno? Giordano Di Nola.
mrantsiorizea nano (199 AMDI ATTI ANI ANAZANAZA NZ RATTI TIT IATA
TERI ri prenpaniananan ananarenaenzana G. Inquisitore
Vi conosciamo! Voi correste in terre D’eretici; lè in Praga, in
Francoforte. ‘ E predicaste spesso agl’ infedeli La
santissima Chiesa dileggiando Di Roma, tutti i novator
germani Esaltando. D’ Iddio 1’ essenza in false Forme sponeste;
come v’ inspirava Mal talento. D’ Iddio la legge in pubblici
E in segreti convegni commentaste; Le coscienze fùr guaste.
Giordano Mentite! Solo io dissi agli uomini Il
mondo ha una visiera Di antiche, immense tenebre ; Cerchi la luce
vera. Dio vuol che l’uomo spinga L’acuta sua pupilla Fin dove
in cielo brilla L’eterno suo splendor. Coro
d’Inquisitori D’ anime felle Empia utopia! Il tuo,
ribelle, Un Dio non è. Non ha che larve - Tua
fantasia; .0 & gi ver disparve ; “Se in eresia ft fo i AI
fuoco, ‘al fuoco: © Sia condannato! 1 “REP carcer. poco, s ra
! tal OmpIO, egli de (Si apre la cortina’ dalla’ quale ‘escono
pina DTA io GRANDE INQUISITORE, quindi ROMANO, poi gli SCRIVANI,
‘gi ISQUISITORI, ed sea pIoR-SSf DANÒ accompagnato, dalle GUARDIE. : Gala
la cortina e solo LORENZO rimane în ‘scend), SCENA DÒ
dt e Laura 01,3 (LAURA entra dalla' sinisird e presi itasi) di
LORENZO | in atto supplichevole). SÉ Roe dia eor ATI
v Rat Laura! moi (HI dÉ tia Koi i È &
Loréiizo i «105 si vo MREPSRI RATA GIL
Lorenzo Di ea DO Ur PA Ale 2 i sd Met: la "I
Che vuoi tut ot Raid) fai I nSetdi o SERRA 2
Senti la ToRe.e. un uomo Rico tu soi. “ rE:
Lorenzo Tinura! Da me che brami? Sento straziarmi il
cuore... Laura Ah! tu il padre salvar déi, Se
una belva ancor non sei. Lorenzo Tact Laura! Il ver
dicesti È mio padre! Io lo sentìa Quando'.il labbro suo:
terribile. Me colpevole maledia. È mio padre! Ancor lo
sento AI perenne! e fier tormento.‘ ©’ Che m’ opprime e strazia il
cor. Laura | Pietà del misero. Tuo
genitor. Lorenzo L’accento tuo terribile E un dardo al
traditor. ebic Laura Lorenzo. it i #1) Ma
shananorazi scenza sanacenencacaee cena sane
oeanconeesccnionaacea—ea—e@ce0cui0reò’npsQa”ncceinci’’’ ne Agp
ipmpasrssssso— Lorenzo Nol posso! Laura
Va da me lungi, o perfido, Se nieghi al genitor
Salvar la vita. E sorga il dì terribile Che
ognuno, o traditor, Ti nieghi aita. Lorenzo
Taci!.... e che far poss’ io? Laura Aiutarmi a
salvarlo; tu lo puoi! ‘Ei fugga da quell’ orrida Fossa in serena
terra, Ove su lui degli uomini Taccia sì cruda guerra.
Ove un demén carnefice Non trovi nell’ amico, Nel figlio, un
traditor; Ove il sovran suo spirito Onnipotente e pio
Possa inalzarsi libero Di tutti al Padre, a Dio; E
riabbracciar qui un figlio, Che traviò pentito, Stringendolo al suo
cor. . pra, im masasena nanasasesc’poossoncostor09posporooscoesaesose®
Lorenzo Quell’ardire, che in volto a
te brilla, La speranza, la fede m' ispira: E una sacra,
divina favilla Della fiamma, che tarde nel cor. Raura
e Lorenzo (assieme) Con te nutro la credula speme, Che a
giustizia il trionfo sorrida; Siamo uniti per vincere insieme Od
insieme da forti morir. (partono). Muta la scena. — Carcere di GIORDANO
con porte in fondo: dentro vedesi un giaciglio di pietra, una seg-
giola ed un tavolo su cuì arde una lampada. — A sinistra una scala
da cui si accede agli Uftizii del- l’ Inquisizione. SCENA
III. Giordane (seduto sul giaciglio) «Ecco, o Roma,
l’eretico In questo tetro carcere rinchiuso !.... Del
sangue suo dissetinsi I tuoi Inquisitori Ebbri di gioia
in lor ciechi furori! (Gleaso Sul rabido rogo dall’empio
innalzato La fiamma divampa sanguigna e stridente, Ma
in mezzo all'incendio securà possente Del martire invitto la voce
s’ udrà. Il rogo non strugge — la libera idea; Ma, eterna fenice —
risorge o sfavilla; Del vasto creato — nel verbo
s'inslilla Te dense tenebre — del mondo a fugar. In mano ai
carnefici — chi, miser, mi trasse, Tu fosti, mio figlio; — tu sli
maledetto ' 9 Ma no maledirti, + ma no, nol poss’io: La morte è un
trionfo — per me, figlio mio! SCENA IV. LORENZO apre
con furia la porta del fondo che mette nel carcere; indi entra anche
LAURA. Entrambi «$0NO Raealii in domino nero come i servi del-
V’ Inquisizione. Lorenzo (di piedi di GIORDANO) Padre
mio! Tuo figlio... Giordano Non sogno! Lorenzo
Si, son io, ch’ hai maledetto ; Ma figlio tuo! Ripeti un altra
volta La tua maledizione i Coll’ accento d’ un padre, ed al mio
cuore Più cara suonerà di quel che fora Del sacerdote la
benedizione ; Ah! lasciami morir a pieid tuoi. TIrCItIVISIÀ
poorrcensersantisaazuztt=veSnII=TIERERA TATE conuaca riv ertaziori (apusa ra
rara zar sara ra bist enaneronesane ‘Giordano Felice è un tal
momento! A me t’ adusse Iddio; Ora tu sei redento! M’
abbraccia, o figlio mio. Lorenzo Padro' i] mio cuore un
balsamo Nella tua voce trova! Col tuo perdon risorgere
Mi sembra a vita nuova. Laura Redento il figlio,
accoglierlo Ben può il paterno core; Quale inattesa grazia
!.., Disparve ogni terrore. Mutti (inginocchiandosi)
Gran Dio, che fra le angoscie Apri a quest’ alma il riso,
E mesci ai loro spasimi In terra un paradiso. A
te, che i santi vincoli Riannodi di natura, Salga da queste
mura L’ inno de’ nostri cor. Giordano (STO ER Dal
fondo del cor mio 2/0 SARA Grazie a te sien, gran Dio! a
Pi E | SCENA V. re k » à, s ER wr: DETTI,
e ROMANO, che presentasi in cima della >° dente.
Fissa collo sguardo LORENZO, indi scende rapidamente. Lo seguono il
GUARDIANO Retles va x carceri e i SERVI del S. UHEIZIO: - da
si ‘Romano < È Come tu qui?... La figlia ancor Di vedo, ea Oh
mio furore ' eco 3 F : x Laura e Lorenzo 00 o O qual terror! >
ua | » Romano È ‘ Giiordano..- Questa ou fatale a me una
figlia nn dio Spa ma a te la vita. (LEANDRO, il GUARDIANO delle
carceri ei SERVI. del S. UFFIZIO mascherati ed armati si ap-
d pressano). Lg i VEL 7 Pi AE Li
unisoseorevrespropeosovo ” Romano (a GIORDANO) Trencar ti
voglio, qual vile stelo; Delle tue carni la terra e il Cielo Io
colle fiamme consolerò. Lorenzo Ed io fidato m’ ero a tal
jena ? Tutto l’inferno qui si scatena, E cielo e terra han di te
orror. Laura e Leandro Sublime martire! La tua gran
vita Tronca in un lampo tra l’infinita Gioia... Qual strazio sento
nel cor! Giordano Del mio carnefice sul volto scritto Sta col
livore il suo delitto; Solo dal Cielo giustizia avrò. Romano
(a° Soldati) Innanzi al Tribunal condotto sia. Coro (Servi e
Soldati) S'innalza un turbine Di guai novelli. Su de’
fratelli — Tratti in error. E l’empio eretico < «N°
è lavcagionez 9:13 <L Maledizione Sul corruttor! Al rogo
ignifico ‘ Condotto Sia. © Chi l’eresia Tra noi portò. Legge
inviolabile Il turbolento A tal tormento Già condannò.
RIC FROCIO RA ATONTAITA Atto
Quarto Gran sala nel Palazzo dell’Inquisizione in Roma... —. Nel
fondo una Galleria apertà sostenuta da colonne, fra ile quali: si, aprono
grandi fin:stre che lasciano tra- vedere le cupole e i colli di Roma. —
Porta: a de- stra e a sinistra. — Nelmazzo un tavolo con quattro
candelabri. — Siedono al tavolo il grande INQUI- SITORE, ROMANO e ) UE
SCRIVANI. — DUE SERVI «ai. lati, quindi gl’ INQUISITORI, i
SCENA I. Coro d'Inquisitori || |) eo nembo dall’aere piove
Lupa ' Di Giordano su:l’empia cervice! "Non v'ha niun che
l’appelli infelice, Non v'ha cor che si muova a pietà. Pronto
è il rogo, la fiamma divampa... E pur essa la vittima è pronta
! AI gran Nome Cristiano quest’onta. Or. dal fuoco purgata
sarà. } SCENA II, Giordano (appressandosi). O
sommo Inquisitor! Giunta è l'estrema Ora, che me a
gran prova... al rogo.... appella! G. Inquisitore (alle guardie)
Fuor della porta vigilate ! (le guardie e i servi partono)
O Bruno Di Nola! Quest’ è 1’ ora che vi chiama Alla prova
del fuoco.... a morte.... 0 a vita Lieta d'ogni uom nel mondo! E a voi
concesso Ciò e’ ha nessuno fu giammai; la scelta Fra la vita e la
morte! Scegliete. E in, vostre man la vostra sorte!
Giordano (Mi tentan!) Che si vuol da ms? Parlate. G.
Inquisitore Qui in faccia a tutti, dichiararvi figlio Della
Romana Chiesa ora e in eterno E vi doniam la vita; rimarrete
Prigion; ma al figlio libertà darete! Giordano. Dèmone tentator! Nol
vò.... nol posso! G. Inquisitore (qa RomaANO)] Perduto!
Udiste ?... La sentenza è data! (Parte coi servi, Le guardie
circondano GIORDANO e partono). i SCENA II. Romano (in
preda a soffocato sdegno). Cieco sirumento io sono all’empie
voglie Di costoro! Ubbidir sempre... e frattanto Spezzare di mia
figlia il vergin core, Serbando la mia vita al lutto e al pianto! O
Laura, tu l’adori D’averno il rio Filosofo, Che con l'accento
magico Tuo cuor conquise già. Or ei morrà sul rogo!... Ma
temo per mia figlia. Dal duol trafitta, all’empio Vicina ella
cadrà!... Senza la figlia, il padre Più viver non potrà. To
l’adoro! In lei Tiposi Ogni speme ed ogni alta; La mia luce, la mia
vita Con la sua si spegnerà. Volgi, o Dio su me, su lei Un
tuo sguardo protettor, E la figlia, che perdei Deh! ridona al
genitor. (ROMANO parte da sinistra e nell'uscire si. moontra con
LAURA). CA SCENA IV. Laura
(apprdssandosi ‘a ROMANO) Ah! padre caro, mi benedici! Quel
divin spirto, che t’empie il core, Io pur lo sento! Odio i nemici
Di quel gran ùomo;-che' giùsto muore. Ma tu, che. il puoi, deh! tu lo
salva;; Se Do, «con Lui io morirò. : (Romano La
rea fiamma, che in cor ti VE Per chi scuote de’ Papi l’impero,
Sulla fronte il delitto’ ti Stampa Che tu svolgi nel cupo pensiero...
“Salvo tu vuoi Giordano ? Iniqua ! Nol sperar... tu Il chiedi >
invano. i (parte) Laura (con disperazione) Più
di salvarlo non v' ha speranza! L’ ala nel tempo batte spietata!
Ah! la fatale ora 8° avanza. i Con te Giordano io morirò. ( prende
il veleno) A morte infame traggono. ; L’ apostolo del vero;
Ma dal suo rogo. pallida; | La fiamma sorgerà. Che sovra. il cieco
popolo... La luce porterà; COLERE Nè più potrassi spegnere
Quel fuoco che foriero Sarà di libertà. | Coro frecta
judicate filù hominum Laura Quai voci ascolto! Lugubre
E questo il canto estremo, Ch’ ora al supplizio adduce- L’apostolo
del Ver. Coro Recta judicate fili hominum Laura
Con te Giordano! Morir voglio! Al gaudio tuo volar desio. SCENA
Ve {LORENZO e LEANDRO col corteo funebre s’inol- trano nella scena.
GIORDANO Tifo, le guardie si fa avanti nel mezzo). Giordano. Gran
Dio! la vittima. Tu vedi pronta Il rogo a scendere \a 1
1 Per la tua, fe; CERRI TERA ee L'ira de’ perfidi,
Ovunque. conta, Oggi terribile Piombò su di me.
Coro Etenim in corde iniquilates operamini; Injustitias
manus vestrae concinnant. Lorenzo. Si squarcino le tenebre Or
dell’uman pensiero, E torni vivo a splendere Il sol di
verità, Che strugga alla tirannide L’ atroce maestà, E’
incenerisca i fulmini Del mistico nocchiero Nella futura
età.. Giordano e Leandro Da’ rei carnefici Il rogo
ardente Pel nuovo martire E posto là; Ma la giustizia
Di Dio clemente Le braccia schiudere A Lui vorrà. GIORDANO
circondato ddlle guardie parte col corteo. Leandro, Cero (partendo)
In terra injustitias manus. vestrae concinnant. (LORENZO s’appressa
a LAURA, che si troverd, vicina. a ROMANO), i Lorenzo (con
disperazione) O Padre, addio. Per me l’estrema Ora fatale
suonata è già? Guarda tuo figlio, che più non trema Nel
vendicare la verità. A me di Laura l’amor fu tolto : Perchè
un mistero buio sognai... Ah! padre, credilo, tutto: ignorai; Solo
or la luce scorgo del Ver. ER omamno Lorenzo!
Lorenzo [trattosi dall’ abito uu pugnale, si ferisce. Laura!
Laura (riavendosi avvicinasi a LORENZO) Al gaudio Ei vola.
Romane (sorreggendo LORENZO) Serbate a quanti spasimi
E il povero mio cor? o aaravai -ercerecote e
————merie—i ve oraconcorsoee «n - peacee -LilsSTFri= pone rete na dor
e. Lorenzo È tardi, o padre, il piangere... . Anche
Lorenzo... muor! (gli cadde ai piedi). Romano. /Odesi “una campana a
lenti rintocchi; avvicinandosi a LAURA e sorreggendola/
Orribil pena mi strazia il core... Un disumano fui genitore...! Non
v’ha infelice al par di me! Laura (presso LORENZO)
Lieta è quest’ ora... della mia vita... Bel paradiso la via... m’ addita
Giordano.... Io volo... In ciel... con tel (Da una finestra
vedonsi le fiamme del rogo, ed un urlo di popolo annunzia la fine
dello spettacolo. Cala la tela], op de nia - oe
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Contestabile. Keywords: BRVNO, nobilita italiana, la famiglia Contestabile
financia la rivolta di Campanella -- filosofia medioevale, Bruno, il
melodramma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contestabile” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Conti: l’implicatura
conversazionale VIRGILIANA – La nudità eroica d’Enea -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Conti is a good one
– he reminds me of Bosanquet and Pater – the decadents in Italy came AFTER them
at Oxford! Conti philosophised on many aesthetic subjects, such as man,
masculinity, and maleness --!” Di una famiglia originaria di Arpino, dove
frequenta il locale liceo. Si ccupa di filosofia estetica. D'Annunzio lo cita
nel “Giovanni episcopo” e si ispira a lui per ‘Daniele Glauro’ in “Il fuoco”. Insegna
a Firenze presso la Galleria degli Uffizi ed a Venezia presso l'Accademia di
Belle Arti. Saggio: “Zorzi; o Giorgione – l’estetica di Zorzi” -- Tornato a
Firenze, “La beata riva”, raccolta di saggi che delineavano la sua concezione
critica ed estetica, ispirata dichiaratamente a Platone, Kant e Schopenhauer. La
prefazione fu curata d’Annunzio, il quale scrive di stimare molto Conti e di
ammirare il suo “ascetismo” estetico. Direttore
delle Antichità di Roma. Direttore della Reggia di Capodimonte a Napoli. Si
ispirò alla poetica del filosofo oxoniese Pater e Ruskin. Altre saggi: “Giorgione, Firenze, F.lli
Alinari, “Catalogo raggionato delle regie gallerie di Venezia, Venezia, Tip. L.
Merlo); La beata riva, Milano, F.lli Treves); Sul fiume del tempo, Napoli, R.
Ricciardi); “Dopo il canto delle Sirene, Napoli, R. Ricciardi); Domenico
Morelli, Napoli, Edizioni d'arte Renzo Ruggiero); “San Francesco, con un saggio
di Giovanni Papini, Firenze, Vallecchi); “Virgilio dolcissimo padre, Napoli, R.
Ricciardi). Praz nota che Parodi era solito leggere La beata riva di Conti
prima di addormentarsi; quando morì, la lettura non era stata ancora terminata. Dizionario Biografico degli Italiani, Forme
del tragico nel teatro italiano. Modelli della tradizione e riscritture originali,Romantici,
vittoriani, decadenti – filosofo decadente – decadentismo -- e museo
dannunziano, in Bellezza e bizzarria – il bello e il bizzarro., Croce, La
letteratura della nuova Italia, Marcello Carlino.C., Due conviti di Mattia Preti,
Bollettino d'Arte. Io vengo dal mare di Napoli
e sono tornato qui a rivedere la primavera. Non c'è nessuna altra città in cui,
come in questa, il rifiorire degli alberi e delle siepi si accordi con la
giovinezza delle opere del genio umano, nessuna ove, come qui, la Primavera
sembri rimanere per un istante velata, per poi riapparire pili fulgida e piìi
lieta, al ritorno dei venti che spirano dalle colline e recano i nuovi fiori.
Sono anche giunto fra voi, per parlarvi della pittura di Leonardo. Ma il mio
compito, dopo la lettura deirillustre scrittore francese che m' ha preceduto,
sarebbe oggi, non dico diffìcile, ma quasi vano, se le mie idee fossero affini
alle sue ed egli fosse vicino al mio pensiero come io sono vicino al suo
aff'etto per questa nobile terra toscana, ove l'arte ha continuato la grazia
gentile e la pura bellezza della natura. Diversità di pensare e anche
d'immaginare mi rendono oggi possibile esprimere qualche cosa a voi forse non
detta, e combattere qualche affermazione troppo lontana dalla mia sicura fede.
Leonardo è il discepolo del Vermocchio. Ora, che cosa poteva egli apprendere
dal suo grande maestro? Non certamente l'arte, la quale non si apprende e non
si insegna. Quale uomo, che sappia che cosa è l'arte, potrà mai pensare alla
possibilità di creare con l'insegnamento un pittore, un musicista, un poeta? La
natura sola genera gli artisti, e l'uomo al pili può aiutarli a trovare i mezzi
d'esprimere la parola ch'essi son destinati a pronunziare nel mondo. Il
maestro, al discepolo suo, nato artista, può dire: " Il tuo cuore è
impaziente d'indugi, tu sei nato per il canto o per la espressione plastica o
per la espressione mediante il colore della tua gioia o della tua amarezza;
guarda, ecco il dizionario che contiene le parole di ogni umano discorso, ecco
la tavolozza sulla quale io appresi a mescolare i colori che imitano la
bellezza del cielo, della terra e del mare; ecco in qual modo si modella la
creta, affinchè dall'informe materia apparisca viva dinanzi a noi l' immagine
dell'uomo. Questi sono i mezzi, che io ti posso indicare; ma il discorso, il
canto, il soffio debbono essere tuoi, né io te li posso insegnare „. Ogni opera
d'arte è, rispetto alle opere precedenti, una cosa diversa e nuova, nella
quale, se pure sono entrati, alcuni elementi precedenti e preesistenti, hanno
mutato natura, si sono trasformati in parti di quel tutto inatteso e prodigioso
che si chiama la creazione artistica. Chi non sa che in Leonardo appare un'
immagine del sorriso che si mostra appena accennato sulle labbra del giovinetto
Davide del Verrocchio? Si, appare, ma è un riHesso che illumina un altro mondo;
poiché questo riso, ricomparendo dalle labbra dell'eroe adolescente sul viso e
negli occhi della Gioconda, diviene il mistero della seduzione femminile, una
grazia insidiosa e un periglio, un'armonia che nasce dall'espressione d'iin
volto, si diffonde verso il paese lontano e attira il contemplatore. Il sorriso
verrocchiesco è in Leonardo come nn brano di Plutarco in Shakespeare. Or chi
oserebbe dire che l'immortale tragico inglese derivi da Plutarco? Leonardo e il
Yerrocchio sono due artisti assolutamente distinti, che parlano un linguaggio
interamente diverso e che, se somigliano esteriormente in qualche cosa, hanno
due anime quasi opposte, chiusa l'una nella sua idea di bellezza e di stile,
l'altra aperta a tutte le manifestazioni della natura e della vita, in una
continua ansietà di fissarne l'immagine mutevole con la semplicità del segno
rivelatore. Noi viviamo pur troppo in un triste momento della vita, poiché la
maggior parte degli uomini ai quali parliamo non sanno che cosa sia l'arte, e
lo Stato crede a chi meno vede. Non è forse ancora possibile vincere una così
detta scuola di critica scientifica, fondata sull' errore già accennato e
chiusa nella rete del pregiudizio cronologico. A coloro che ancora credono alle
influenze sugli spiriti geniali e alla necessità in arte di una classificazione
come in botanica, noi possiamo trionfalmente rispondere con Leonardo che
l'artista genera le sue opere qual fanno le cose. Egli deve creare come fa la
natura, e le sue opere superare e cancelUxre i segni del tempo che passa. Un
quadro, una statua, un edifizio debbono nascere come le selve e apparire come
le albe. Or chi penserà all'epoca d'una primavera o d'un ciclo stellato? Non
c'è opera d'arte geniale che venga per noi dal passato lontano, come non e' è
indizio di vetustà nelle montagne e nella aerea architettura delle nubi.
Dinanzi all'umanità che passa, il genio si ferma e rende eterna la sua traccia
come è nel cielo il cammino delle stelle. Avete udito il canto dcirusignolo? Lo
riudirete in tutte le primavere. Il genio vi farà sempre udire la sua voce
fresca e giovanile come nella stagion nuova della terra il canto dell'usignolo.
Aprite Virgilio: ecco, è l'alba e cantano le allodole, è una notte serena, e
l'uomo si perde nella luce lunare. Aprite Dante, e siete nell'eternità della
vita. Ivi nulla dilegua, nessuna cosa invecchia o perisce, e noi stessi,
-accanto a quelle grandi anime, siamo per un istante fuori del tempo. Questo
momento di liberazione provai per la prima volta alcuni anni or sono a Milano,
trovandomi dinanzi alla Cena, nel convento di Santa Maria delle Grazie. Vidi il
capolavoro nella medesima ora indicata dalla luce clie lo illumina dal fondo,
tanto che mi fu d'un tratto facile superare i mille e piìi anni passati e
trovarmi presente alla scena Gesù era seduto nel centro del convito e da poco
avea prò nunziato le parole: qualcuno di voi mi tradira. I convitati a destra e
a manca s'erano ritratti e aggruppati in tumulto lasciando nel mezzo Gesù solo,
con la sua tristezza infinita La sala era piena di gesti concitati e di ansiose
interrogazioni. Il Maestro solo era calmo e la sua figura, sul paese che gli
s'apriva lontano alle spalle, era immobile. Ma qual dramma in quella immobilità
! Mentre la sua mano destra, lievemente contratta, esprimeva un istante di
ribellione e come un istintivo moto d'ira, la sinistra nel momento successivo
s'abbandonava col dorso poggiato sulla tavola e le dita allungate, esprimendo
la rassegnaziona e il perdono. Gli occhi abbassati non guardavano e non
vedevano nulla di ciò che era presente, ma contemplavano internamente il grande
spettacolo del dolore e della miseria umana, mentre la sua anima sembrava essersi
già rifugiata in quel fondo di paese luminoso e lontano, dove abitavano una
grande speranza e una eterna pace. Nessun uomo avevo veduto mai così solo come
Gesù in mezzo a quel tumulto. Era un'isola in mezzo a un mare procelloso. Le
onde fragorose del tempo, che travolgono^ uomini e cose, mi avevano forse
spinto ad approdare ad una riva ove splendono i fiori eterni della vita? Mai
infatti, come quel giorno, ebbi, per virtìi dell'arte, la visione della vita,
in un oblio piti completo. Quando il custode del Cenacolo venne ad annunziarmi
Fora della chiusura, io riudii nuovamente, dalla strada vicina, il rumore delle
carrozze e il rombo dell'esistenza; e ritornai fra gli uomini. Pochi anni or
sono Annunzio scrisse una bella pagina di poesia per rimpiangere la rovina del
Cenacolo. Voi infatti sapete, che, come della antica e celebrata pittura dei
greci, fra pochi anni della Cena vinciana non resterà se non il ricordo ^ Il
doloroso avvenimento non ^ Questo studio su Leonardo lìiitore era già stato
scritto, quando fu compiuta in Milano dal pittore prof. Luigi Cavenaghi l'opera
di ristauro del Cenacolo, salutata da tutti i cultori ed amatori d'arte con
gioia e gratitudine. Il Cenacolo, compiuto da Leonardo nel 1497, cominciò ben
presto a guastarsi; ì primi provvedimenti per salvare il capolavoro risalgono
al cardinale Borromeo, poi nei secoli si susseguirono alternative di lunghi
abbandoni, di fallaci rimedi empirici, di studii incompleti e riparazioni deturpatrici,
fin che il prof. Cavenaghi fuincaricato delle ricerche scientifiche e tecniclie
che, precisando le cause e l'entità dei guasti, portassero ai rimedii più
efficaci. Egli trovò — sono sue parole riprodotte naìVIllustrazione Italiana,
n. 41, dell'I 1 ottobre 1908 — che il dipinto, coperto da polvere di secoli, si
screpolava e la crosta di colore si sollepoteva non commuovere e non far
riapparire la visione tragica del fato clic incombe sui capolavori. Ma è forse
una illusione. In realtà la natura non distrugge ne i fiori o le selve della
terra ne le opere del genio: la Minerva criselefantina di Fidia è passata
dall'avorio e dall'oro nelle pagine immortali dei poeti e nella eterna memoria
degli uomini. Quando un capolavoro scompare, noi non dobbiamo pensare che il
tempo lo abbia distrutto, ma semplicemente che si sia oscurato lo specchio che
ci proiettava la sua imagine nel tempo e nello spazio. Nella profonda unità
dell'anima umana, clie rende i poeti e i filosofi simili ai figli d'una madre
sola, l'ispirazione da cui esso nacque riman pura e vivente come una forza
della terra non ancor vestita della sua forma. Se avessi la virtù del canto,
vorrei lodare e far comTava dall'intonaco, a squame di varia misura, di modo
clie parecchie di quelle i grandi, accartocciandosi, formavano altrettante
sacche che si riempivano con al- tre piccole squamette che vi cadevano
dall'alto. Vuotare ad una ad una le sac- che senza scuoterle, senza quasi
toccarle, mediante una pagliuzza resa attaccaticcia da una sostanza adatta, poi
fare aderire le sacche e le croste all'intorno, togliendone, con un certo
liquido dal Cavenaghi ideato, la polvere alla superficie, questo
sostanzialmente fu il lavoro paziente, mirabile, nel quale, per più di due mesi
durò il Cavenaghi, rendendo più tonica la fibra in isfacelo, facendole riac-
quistare un po' di colorito, così che il dipinto non debba peggiorare e possa
vi- vere ancora a lungo, con infiniti riguardi ed amorose cure. Ma — disse il
Cavenaghi — sarà sempre un organismo precario, e per le condizioni sue, pieno
come è di cicatrici, e per l'ambiente. Ad ogni modo questo del Cavenaghi è
•stato pel Cenacolo Vinciano il ristauro essenziale, decisivo, nei secoli; e
grandi manifestazioni di gratitudine ed ammirazione sono state tributate
all'assoluto disinterewse, pari all'amore grande per l'arte, spiegati dal
benemerito ristauratore, al quale Caravaggio, sua terra natia, ha consacrato
una targa artistica a memoria del fatto; ed i cultori ed amatori d'arte,
auspice Luca Beltrami, gli hanno conferita, davanti al capolavoro vinciano, una
bellissima medaglia d'oro. Il prof. Cavenaghi inoltre è stato chiamato dal
Papa, in sostituzione 4el defunto prof. Seitz, all'onorifico ufficio di
direttore delle pinacoteche vaticane. prendere la vita maravigliosa che il
Cenacolo leonardesco chiude nella sua rovina. Come la rovina d'ogni cosa
grande, essa equivale ad una purificazione e ad una apoteosi. Finche resterà un
sol frammento della parete prodigiosa, finche un sol disegno, una sola stampa,
una sola fotografia, custodiranno un riflesso lontano della sua bellezza,
quella creazione del genio sarà per noi piìi potente che se il tempo e gli
uomini l'avessero rispettata in tutte le sue parti caduche. E un errore credere
che il tempo non rispetti i capolavori; e noi molto spesso parliamo, spinti
dall'abitudine, contro l'eterna verità delle cose. Il tempo, artista
maraviglioso, è il solo degno collaboratore del genio umano. Dove sembrava che
l'opera geniale sì fermasse, egli la continua, mutilandola: dove appariva ciò
che è chiuso e preciso, egli apre una via infinita all' imaginazione; dov' era
un aspetto freddo e muto della realtà, egli fa nascere i segni del mistero. Ciò
che sembra una distruzione e invece una rivelazione e una consacrazione. E la
natura che riprende l'umana opera interrotta, che fa apparire la sua forza dove
la mano dell'uomo cadde stanca, e che, dove l'ispirazione di questo si oscurò e
si confuse, fa cantare le sue eterne aspirazioni. Ma non bisogna lodare il
tempo soltanto per le sue rovine; è necessario esaltarlo anche per tutte le
opere d'arte che, in compagnia del fato e della umana malvagità, ha impedito di
compiere al genio umano. Alludo principalmente alle cosi dette sculture non
finite di Michelangelo e ad un quadro, che è ancora considerato un abbozzo, di
Leonardo. Come i capolavori in rovina appariscono vicini a rientrare Leonardo
da Vinci.Conti, Leonardo pittore nella iiuiversalitìi della vita, i capolavori
incompiuti seml)rano usciti da poco dal seno stesso della natura. L'artista ne
segnò l'imaginc non fra i tormenti del lavoro consapevole, ma come in sogno,
obbedendo ad una volonth oscura che per qualche istante abolì la sua volontà
individuale. Poche tracce di pentimenti in quei primi segni, ma l'espressione
d'una beata obbedienza, come di chi si affidi al mare, e una ricchezza e una
esuberanza di vita uguale a quella di cento uomini felici. * Mi limito a
parlarvi del quadro di Leonardo, oggi nella Galleria degli Uffizi, e che
rappresenta l'Adorazione dei Magi. La prima cosa che ci colpisce è il
movimento. Noi sentiamo subito che il pittore ha voluto rappresentare un
avvenimento straordinario, un grande fatto della natura e della vita. Quasi
tutte le figure vanno, strisciano, accorrono verso la parte centrale della
rappresentazione, ove si fermano prostrate e come atterrate dallo stupore e
dalla maraviglia. Fra i gruppi in movimento, alcune figure stanno diritte e
immobili a guardare la scena. Nel centro una calma assoluta. La Madonna vi
appare seduta in una attitudine piena di grazia materna, e sulle sue ginocchia
il bambino si china e protende una mano per toccare il 'dono che un vecchio
genuflesso gli porge. Intorno si raccoglie e si concentra tutto ciò che nel
quadro raggiunge la maggiore intensità d'espressione e la maggior forza di
vita. Questi vecchi che vengono da lontano, guidati dal mistero, sono una
Conti, LeonarJo j)ittore 91 fra le più potenti creazioni del genio umano. Tutta
la scena, piena della loro commozione e del loro sbigottimento, sembra
irradiare come un vento di tempesta che, dall'anima dei vecchi, giunga sino ai
punti piti lontani del quadro. Ed ecco che noi vediamo gli effetti dell'onda
invisibile. Dietro il gruppo centrale è un accorrere disordinato di gente: uno
ha le mani levate e grida come per un ignoto pericolo, un cavaliere non riesce
a contenere lo spavento del suo cavallo, altri gruppi di cavalli nel fondo
appariscono spinti dalla furia d'una battaglia; qua e là, sotto archi crollati,
uomini che corrono e s'interrogano ansiosi, altri che salgono discendono a
frotte e smarriti per una gradinata. Si sente che un grande avvenimento si
compie, e per tutta l'ampia scena notturna è diffusa l'atmosfera del miracolo,
come in un giorno sereno la luce del sole sulle campagne. E questa è appunto
l'idea che Leonardo ha espressa nel suo quadro con una potenza e una eloquenza
suprema. Mai infatti, sino a questi anni, la pittura aveva rappresentato il
miracolo, mai lo stupore e il terrore di ciò che sembra turbare le leggi della
natura e far presentire agli uomini un rinnovellamento del mondo, erano stati
resi visibili nell'opera d'arte. Leonardo, con questa composizione sintetica,
con questo semplice suo disegno a chiaroscuro, nel quale non un sol particolare
h compiuto, è riuscito a rappresentare il miracolo come non sarebbe stato
possibile con l'opera piìi meditata e più coscienziosamente finita. E la
ragione mi sembra questa. Vi sono idee e sentimenti che le arti plastiche non
possono rappresentare se non con mezzi somraarii, se non giovandosi di ciò che
comiincmcnte si chiama V incomplitto. L' incompiuto è spesso un mezzo
meraviglioso dì espressione per il genio umano; è, a rovescio, il mezzo stesso
che la natura adopera per purificare e per consacrare nei secoli i capolavori
degli uomini. In questi la natura procede per eliminazione, nell'opera rimasta
incompiuta il genio lavora in uno stato di concentrazione suprema. Li^
Adorazione dei Magi non solo rappresenta un miracolo; ma è essa stessa un'opera
miracolosa. La notte che vi si addensa è piena di luce per l'anima umana. Fra
tutti i quadri della Galleria degli Uffizi è il più vivo, il piìi drammatico e
il più profondo per significazione. Continuando per voi la enumerazione delle
opere pittoriche vinciane e per mostrarvi che, come allora mi fu possibile liberarmi
dal tempo, posso anche oggi, e mi piace, spezzare le catene della cronologia,
passerò a parlare della Gioconda. La vidi alcuni anni or sono, e feci, quasi
per lei sola, il mio pellegrinaggio da Firenze a Parigi. Quando entrai nella
pinacoteca del Louvre, la giornata era grigia e le sale quasi in una penombra.
Nella sala dei capolavori gli occhi delle figure dipinte da Tiziano, da
Raffaello, da Yelasquez mi guardavano fiso. Cercai la Gioconda, corsi verso di
lei. Entro la fioca luce indovinai il sorriso e sentii il fascino dello sguardo;
vidi anche il candore del seno. Ogni altra cosa era indistinta. In una
pinacoteca non è possibile abbandonarsi all'oblio, Angelo Coxti, Leonardo
piUore 93 come in una chiesa o in nn cenacolo. Coloro che entrano a visitare le
collezioni dei dipinti vanno per lo più a fare confronti, ad osservare
particolari, a cercare note caratteristiche, e portano con sé libri e
fotografie. Io, qnando mi dispongo ad andare o a tornare al cospetto d'nn
capolavoro, m'affatico a togliermi di dosso ogni peso, affinchè mi sia dato
procedere con passo leggero e mi trovi dinanzi all'opera geniale, con l'anima
semplice e serena. Sono abituato a contemplare un quadro, come se fosse una
costellazione. Nella notte ir cielo è pieno di silenzio e le stelle splendono
armonizzando ciascuna il suo ritmo alla musica del cielo. Guardando gli occhi
di Monna Lisa del Giocondo, li vidi palpitare in ritmo, in armonia con la
musica del suo sorriso. Il quadro m'era ancora ignoto, e pensavo a Leonardo. Mi
pareva vederlo, mentre nel suo studio fiorentino aspettava l'arrivo della
sfinge ridente. Poco dopo ella entrava e si sedeva accanto alla finestra. In
fondo apparivano le colline di Fiesole, Monte Morello, l'Appennino lontano, e
l'Arno serpeggiava scintillando nel mattino, mentre le torri della città
uscivano dalla nebbia al primo sole. Anch'egli si sedeva, e, presa la lira
d'argento che s'era fabbricata con le sue mani, cominciava a cantare. La bella
donna, udendo la laude melodiosa, sorrideva, mentre l'Arno da lungi diveniva
più ricco di scintille. Poi cominciava a dipingere, e, dopo i primi tocchi una
orchestra invisibile di liuti riprendeva la canzone interrotta. La donna
sorrideva in una calma regale: i suoi istinti di conquista, di ferocia, tutta
l'eredità delia specie, la volontà della seduzione e dell'agguato, la grazia
dell'inganno, la bontà che cela un prò- 9i An'gelo Conti, Leomrdo pittore
posito crudele, tutto ciò appariva alternativamente e scompariva dietro il velo
ridente e si fondeva nel poema del suo sorriso. Per un momento usci un raggio
di sole; ed io die m'ero allontanato dal prodigio, corsi e lo vidi intero. La
donna era viva dinanzi a me, in tutta la sua vita reale e ideale. Buona e
malvagia, crudele e compassionevole, graziosa e felina, ella rideva, e il suo
riso si prolungava nel paese lontano e nell'anima mia; sino a darle l'oblio die
viene dalla presenza delle cose immortali. Pochi istanti dopo, il sole
scomparve e la penombra regnò nuovamente nella sala. Lì presso un sol quadro
ardeva come una lampada e in esso cantava, non affievolita, la musica del
colore. Era la Festa campestre: fra due donne nude, un suonatore di liuto
svegliava alcuni accordi e pareva che la Gioconda ne sorridesse come quando
Leonardo cantava, per rendere piìi intensa la sua vita e per tradurre col
disegno la sua misteriosa bellezza. Questo ritratto non esprime soltanto
ciò che l'occhio vede, ma è il riflesso d'una creatura amata da uno spirito che
per oltre quattro anni si affaticò a penetrarne a rivelarne la vita. Come
dinanzi alla Gioconda, Leonardo si pone dinanzi ad ogni cosa vivente col
medesimo ardore di conoscenza, con la stessa ansiosa curiosità e lo stesso
desiderio invincibile di fissarla con segni semplici e definitivi. Tutto questo
poema della sua anima, questo dramma intimo che si chiude in una alternativa di
tentativi d' espressione e di istanti di tregua contemplativa, di rapimenti e
di lotte con la sorda materia, d' ansietà e scoramenti e di calma trionfale, è
raccontato nei suoi disegni, che sono 1' immagine più completa della sua
potenza non solo intuitiva ma creativa. Per lo scultore il disegno è appena un
segno, uno scliema, un presentimento dell'opera futura. Lo chiamiamo disegno,
perchè ijon abbiamo altre parole per significare le notazioni figurative degli
scultori; ma esso non è se non un appunta ideale, un mezzo per ricordare un
sentimento. Ricordate i disegni di Michelangelo per le sue statue, ricordate
gli odierni disegni di Rodin per i suoi gruppi e per i suoi monumenti. Qm^tì
disegni, benché esprimano una visione di movimento, non sono pittura e non sono
scultura perchè non illuminano una idea che potrà essere espressa, come
chiaroscuro e come colore sopra una superficie e che sia per apparire come
forma nello spazio. La scultura comincia soltanto col bozzetto in cera, in
creta o in gesso, cioè a dire quando V idea, destinata a manifestarsi come
forma nasce a somiglianza d'una cosa viva fra le altre cose viventi e sorge
nello spazio, nell' aria e nella luce, sottoposta alle leggi del peso e chiusa
nelle sue dimensioni. Per parlare con esattezza, la scultura non ha disegno.
Nella pittura il disegno è tutto, è il primo segno che nota la visione ancora
vaga sopra una superficie, ed è il chiaroscuro e il colore che pili tardi la
renderanno eloquente, che le daranno una voce che parla e che canta, come in
una musica e come in un poema. Per Leonardo, genio universale, il disegno non è
soltanto linguaggio pittorico, ma è il mezzo adeguato d'espressione di tutto
ciò che appare e che passa nel suo pensiero, nella sua memoria, nella sua
imaginazione e nella sua fantasia. Tutti gli aspetti e tutti i momenti della
multiforme ed inesaiiribilc attività del suo spirito trovano la loro
espressione negli innumerevoli disegni che egli traccia in margine e fra le
linee dei suoi manoscritti, la precedono e spesso la superano con la loro
potenza di linea intuitiva e divinatoria. Mai come in Leonardo il disegno ha
avuto la virtìi d'esprimere tante cose, dalle più athni alla pittura alle pili
lontane, dalle pili concrete alle più astratte; mai come in Leonardo e giunto
ad una cosi vasta e così intensa forza di analisi e di concentrazione. I disegni
di Leonardo non sono solamente una testimonianza del suo amore per la natura,
non sono soltanto un dialogo fra la sua anima e V anima delle cose, ma
principalmente sono un mezzo di cui egli si è servito per conoscere l'universo.
Invece di consultare i trattati scientifici ed i sistemi di filosofìa, Leonardo
disegna. I disegni sono i suoi pensieri, le sue meditazioni, le sue
osservazioni, le sue intuizioni, le sue scoperte. Ogni suo disegno contiene un
segreto svelato, è una verità conquistata, è il segno d' un nuovo trionfo della
indagine umana, è un lembo del mistero dell'universo sollevato dal genio umano.
Dinanzi a ciò che noi chiamiamo il vero e può essere ugualmente chiamato il
mistero, Leonardo ha lo sguardo limpido, sereno, nuovo, lo sguardo meravigliato
del fanciullo, ha quella innocenza del genio, senza la quale, come afferma
Bacone, non si può entrare ne nel regno della verità ne nel regno dei cieli. La
differenza fra l'uomo di genio e l'uomo comune sta p principalmente in questo:
dinanzi ai fatti e agli aspetti della natura e della vita V uomo comune si
abitua e finisce con l'abolire in se il senso della maraviglia; le sue
impressioni, invece d'avere sempre un carattere loro proprio, invece d'es-
Leonardo da Yisci Pai'ig;], Museo del Lonvie. J-'ot. X. LA GIOCONDA. sere
sempre eccitatrici di sentimenti nuovi, gradatamente si attenuano, si
affievoliscono; finche si adattano e si sottopongono al modo di sentire
individuale, finche si scolorano e muoiono davanti alla monotonia dei bisogni
quotidiani. L'uomo guidato dalle abitudini è un addormentatore di se stesso, è
uno schiavo di ciò che nel suo spirito è meno degno di comandare. Il genio
invece è sempre libero, è sempre desto, e il sonno dell'abitudine non può far
discendere un velo sui suoi grandi occhi puri. Leonardo è appunto della
famiglia di coloro che non conoscono lo stato di sonno e d'indifferenza, ma che
vivendo sempre in una ansiosa curiosità vedono il continuo apparire delle cose
e l'infinito rinnovellarsi dei fenomeni, e che sembrano veramente nascere ogni
mattina. In questo stato di attesa dell'ignoto e del nuovo, ogni osservazione è
per Leonardo una visione, ogni analisi è una scoperta. Guarda un ramo con le
sue foglie, ne cerca la vita col suo disegno, e gli appare la legge di filotassi;
canta accompagnandosi con la sua lira d' argento, e scopre la legge di
risonanza delle corde negli accordi. In ogni fenomeno egli sente e vede una
confessione fatta dalla natura al suo genio divinatore. I suoi disegni sono la
traduzione grafica di queste confessioni fatte alla sua anima dall' anima delle
cose. Ciascuno d'essi pili che studio dal vero è opera d' immaginazione, è
figurazione intuitiva, destniata ad illuminare la realtà e a fare apparire,
dietro ciò che passa, l'aspetto immutabile delle idee eterne e delle eterne
verità. Ogni loro contorno e una ricerca, ogni linea una interrogazione, ogni
luce un riflesso del vivente chiarore del mondo, ogni ombra Leoxakdo da Vixci.
lii 98 un'eco d'un vivente mistero; e tutta quella sua opera della penna, del
carbone, della matita non è se non un mezzo potente da lui adoperato per
stringere d' assedio la natura e per costringerla a rivelare il suo segreto.
Sempre mediante le imagini, i paragoni e le analogie egli trova il cammino che
deve condurlo verso la verità. Ricordate in un suo manoscritto e in un suo
disegno il movimento dell'acqua veduto simile al movimento d' una capigliatura,
ricordate in qual maniera i movimenti del nuoto lo aiutino a comprendere quelli
del volo, in quel maraviglioso trattato che ha la virtìi di metterci in segreta
comunicazione con 1' anima e con la forza delle creature volanti. In questo
modo, sempre per mezzo di imagini e di indagini grafiche, di analogie, di forma
e di movimento, osservando e studiando l'aria e l'acqua, il suono e la luce, e
paragonando le loro proprietà essenziali, egli giunge ad intuire l'unità delle
forze fisiche precorrendo Cartesio. E la sua conoscenza, alla quale appariscono
come intuizioni le principali conquiste della scienza moderna, è figlia della
sua imaginazione. Più ancora che nei suoi manoscritti è espresso nei suoi
disegni il cammino fatto dalla sua conoscenza, guidata dall'amore e resa più
profonda dalla sua infantile maraviglia. Chi non ricorda, fra gli altri
innumerevoli, i suoi disegni di foglie e di fiori? Sono questi fra tutti gli
altri, esclusi quelli solo che ritraggono la figura umana, i più precisi. Pure
in questa precisione è l'infinito della vita. A prima giunta potete pensare o
credere che quei segni corrispondano a qualche cosa di limitato e di esteriore;
poi sentiamo che ciascuno di essi ha la potenza di continuarsi in noi. La sua
precisione non è il segno rigido e freddo fatto da una mano abile, ma è la
linea sicura del genio che ha trovato la vita. Però egli non trascura mai un
solo particolare, non lascia mai nulla incompiuto e sembra dir tutto sino
all'ultima parola. Infatti egli dice tutto; ma il suo linguaggio è come il mare
e come l'infinito, e, nelF udirlo, la nostra piccola anima sembra farsi vasta
come 1' anima del mondo. In qua! modo ha potuto egli raggiungere questa potenza
d'espressione? In un modo semplice e grande: imitando la natura. L'imitazione
della natura è il principio che Leonardo proclama in tutti i suoi scritti e
mette in pratica in tutte le sue opere. Ma che cosa significa imitar la natura?
Ciò non vuol dire copiare le sue apparenze esteriori, come fanno oggi la
maggior parte dei nostri artisti, ma imitarla nelle sue leggi di vita. Imitar
la natura, per Leonardo come per tutti i geni dell'umanità, significa divenire
come la natura, acquistando la potenza di creare 1' opera d' arte nel modo
stesso nel quale la natura crea le sue vite innumerevoli: qual fanno le cose.
Voi sapete benissimo che i disegni vinciani fanno parte dei manoscritti di
Milano, di Parigi, di Londra, che sono aiizi un complemento, uno sviluppo e
un'irradiazione del testo. Poiché dunque l' uno e 1' altro sono connessi
intimamente, non m' è possibile, dopo parlato dei disegni, non dirvi due parole
dei manoscritti e significarvi in tal modo tutto il mio pensiero. Voi sapete
che nei manoscritti sono pagine di ogni scienza. Perchè? Volle forse Leonardo
coltivare r una dopo 1' altra le varie discipline scientifiche e contribuire al
loro sviluppo? A questa domanda risponde Leonardo medesimo. L'uomo non
dev'essere " solo un sacco dove si riceva il cibo e donde esso esca „, non
deve essere soltanto un " transito di cibo „ e avere della specie umana la
sola voce e la figura, e tutto il resto " essere assai manco che bestia „.
Il vero scopo della vita umana è per Leonardo il pensiero. Il pensiero, per
conoscere il passato e la nostra dimora terrena; ecco il mezzo per vivere
nobilmente liberandoci dalla illusione del piacere. Il tempo che fece piangere
Elena allorché ^ guardandosi nello specchio, vide i primi segni della
vecchiezza, il tempo non può colpire il pensiero. Il conoscere la sapienza
degli antichi e la vivente realtà delle cose presenti, ecco il decoro e l'
alimento degli spiriti umani. Ma perchè un tal desiderio di conoscere? Questo e
per me il punto capitale, il vero nodo della questione. Il sapere perchè
Leonardo ha voluto studiare tante forme ed ha cercato il segreto di tanti fatti
della vita universale, ci farà conoscere la qualità essenziale del suo genio.
Nella sua indagine instancabile d'ogni fenomeno del cielo e della terra, nel
suo ininterrotto colloquio con la natura, Leonardo non è animato da curiosità
puramente scientifica, non da vanità di dottrina, né dalla naturale tendenza
d'un intelletto analitico cui l'esercizio delia osservazione doni la gioia più
intensa. Spirito sostanzialmente intuitivo e sintetico, egli si sottopone in
tutta la sua vita al rigore e spesso al martirio dell' analisi, per acquistare
una conoscenza pili ricca, più vasta e piti profonda. Le sue innumerevoli osservazioni,
i suoi continui esperimenti sono i gradini che debbono condurlo colà dove,
entro una luce inestinguibile, appare l'eternità della vita. Soffrire la
disciplina del ragionamento e dell'esperimento per aver in fine, come premio,
la visione della vita, non h forse una divina aspirazione? Più la sua
conoscenza, nel quotidiano osservare e meditare, gli svelava nuove leggi e
nuovi segreti, più cresceva in lui l'amore per tutta la natura; ne vi fu mai al
mondo, dopo l' umile frate d'Assisi, chi l'abbia amata d'amore più puro e più
ardente. Chi più conosce 'pia ama^ sono le sue parole. In questo amore generato
dalla conoscenza è tutto il segreto dell'opera di Leonardo, dai manoscritti e disegni
alle pitture. Il suo realismo è un mezzo per giungere all'idea, è il modo
ch'egli adopera per ricomporre ciò che prima ha scomposto, in maniera che la
natura stessa sembri formarsi dinanzi a noi e farci assistere alla sua stessa
creazione. Chi conosca i manoscritti di AYindsor, nei quali i disegni hanno
un'importanza assai maggiore del testo, può convincersi agevolmente di questa
verità e può anche comprendere (cosa che in questo momento deve particolarmente
interessarci) che quando Leonardo parla di anatomia o di fisiologia, come nei
così detti trattati che si vanno ora pubblicando, egli non è mai un anatomico
vero e proprio, ne un vero fisiologo, ma è sempre prima d' ogni altra cosa e
sopra ogni altra cosa pittore. Tutta la sua opera di scienza, tutti i suoi
disegni d'anatomia, d'embriologia, di botanica, non ser- vono se non a rendere
più vasta, più profonda e più ricca la sua visione pittorica dell'uomo e della
natura. La scienza non è se non un mezzo d'espressione della sua visione del
mondo, ed egli se ne giova per dare un carattere di precisa realtà agli
ardimenti del suo sogno. Scopo del suo immenso lavoro e di giungere a creare
ima- 102 Angelo Conti, Leonardo pittore g'ini clic sembrino nate con le stesse
leggi con le quali la natura produce le sue forme: qual fanno le cose. E
doloroso che nella sua vasta opera essenzialmente pittorica, nella quale "
non fu impedito „, come egli dice, " da avarizia o da negligenza, ma solo
dal tempo „, manchi irreparabilmente una fra le pagine piti vive e più grandi:
La Battaglia d'Anghiarl. Scrivo queste parole vicino a Santa Maria Novella, a
pochi passi dal luogo nel quale egli disegnò r opera maravigliosa. Le campane
che suonano nel campanile roseo al primo sole del mattino, sembrano diffondere
sul mio ricordo una voce dì pianto. Li pochi mesi il lavoro fu compiuto, e
immediatamente cominciata la pittura a fresco per la sala del Consiglio in
Palazzo Vecchio. Leonardo vi dipinse dal 1504 al 1506. Poi l'opera fu da lui
abbandonata. Nel 1559 il cartone di Leonardo era ancora nella sala del Papa,
mentre il cartone della Guerra di Pisa disegnato da Michelangelo era nel
Palazzo dei Medici, l'uno e l'altro esposti all'ammirazione del mondo. Da queir
anno manca ogni notizia. Della pittura incominciata in Palazzo Vecchio si sa
soltanto che nel 1513 esisteva ancora, ma cadente a causa della cattiva
preparazione dell'intonaco e dei colori. Cito, contro il mio solito, dati di
fatto e date, perchè l' opera pur troppo manca. Se l'opera esistesse, il suo
linguaggio renderebbe insostenibile la voce della cronologia; ma poiché è
perduta, ci è necessario contentarci delle parole di chiunque ce ne parli. I
due tre ricordi pittorici rapidi e sommari dell' episodio centrale della
battaglia, non bastano a dare un'idea di ciò che fece Leonardo. Chi sa in qual
modo maraviglioso e straordinario egli avrà rappresentato la mischia, la furia
guerresca intorno allo stendardo, che sappiamo fosse nel centro, qnal prodigio
di scorci, quale evidenza di movimenti, nobiltà ed impeto di gesti e quale
perfezione di cavalli, dei quali egli conosceva la vita come nessuno dei suoi
tempi ! Di tutto ciò nulla e rimasto. Io imagino che nell'anno in cui ogni
traccia dell'opera scomparve, la natura, per compensare il mondo, dovè creare
una primavera favolosa, non veduta mai. Poiché nel mondo nulla si perde, e
quando una bellezza è distrutta, sia essa una selva che arda, un' isola che si
sommerga, un capolavoro che cada in rovina, la natura provvida fa nascere nuovi
germogli, suscita nuove bellezze e nuove energie, e la sua forza di creazione
rimane intatta in virtii della sua maggiore attività: il mutamento. Doctor
Mysticus. Iride, mandata da Giunone, scende sulla
terra per consigliare TURNO a idare l’assalto al campo troiano, finchè è assente
ENEA. Turno, avendo provocato invano i Troiani rinchiusi, pensa di dar fuoco
alle navi, le quali si salvano per l’intervento di Cibele che le trasforma in
ninfe del mare. TURNO, interpretato. favorevolmente quel portento,
idispone l’accampamento. Durante la notte, NISO confida ad EURIALO il’proponimento
di andare in cerca d’ENEA. Ma Eurialo lo vuole seguire. Ascanio e i capi li
lodano, e prometton loro grandi doni. Entrati nel campo dei Rùtuli, ne
fanno strage. Ma quando, uski- tine, si avviano per i boschi, sono
scoperti da Volscente - che veniva con trecento cavalieri di Laurento.
Fuggono. NISO SI SALVA, MA EURÌALO È RAGGIUNTO ED UCCISO, NONOSTANTE L’INTERVENTO
DI NISO, TORNATO INDIETRO A SALVARE IL COMPAGNO. Le teste recise dei due
giovani, infilzate in una picca, son portate sotto il campo troiano, fra i
disperati lamenti della madre di Eurialo. Turno assale i Troiani con
grande strage. E poichè Numano insolentiva i nemici vantando le
virtù della stirpe italica, Ascanio compie il suo primo eroismo idi
guerra, e lo trafigge con una freccia.Pandaro e Bizia, fratelli, tentano la
riscossa lanciandosi sui Rùtuli; ma Bizia è ucciso da Turno, che riesce a
en- trare nel campo nemico, dove fa strage; finchè, eopraf- fatto
dalla folla dei Troiani, si salva lanciandosi armato a nuoto nel Tevere. Atque
ea diversa penitus dum parte geruntur, Irim de caelo misit Saturnia
Iuno audacem ad Turnum. Luco tum forte parentis Pilumni Turnus
sacrata valle sedebat. Ad quem sic roseo Thaumantias ore locuta
est: « Turne, quod optanti Divum promittere nemo auderet,
volvenda dies en attulit ultro. Aeneas urbe et sociis et classe
relicta sceptra Palatini sedemque petit Evandri. Nec satis:
extremas Corythi penetravit ad urbes 10 Lydorumque manum collectos armat
agrestes. Quid dubitas? nunc tempus equos, nunc poscere currus.
Rumpe moras omnes et turbata arripe castra. Dixit, et in caelum paribus se
sustulit alis ingentemque fuga secuit sub nubibus arcum. A&novit
iuvenis duplicesque ad sidera palmas sustulit ac tali fugientem est voce
secutus: « Iri, decus caeli, quis te mihi nubibus actam detulit in
terras? unde haec tam clara repente tempestas? medium video discedere
caelum palantesque polo stellas: sequor omina tanta, quisquis in arma
vocas. » Et sic effatus ad undam processit summoque hausit de gurgite
lymphas, multa Deos orans, oneravitque aethera votis. lamque
omnis campis exercitus ibat apertis 25 dives equum, dives pictai vestis
et auri. Messapus primas acies, postrema céoercent Tyrrhidae
iuvenes, medio dux agmine Turnus E mentre tutto questo in ben diversa
parte succede, Iride giù da cielo mandò la Saturnia Giunone a Turno
audace. Allora a caso sedeva Turno nel bosco dell’avo Pilumno * entro
alla sacra valle; e a lui con la rosea boc- ca la figlia di Taumante *
parlò: « Turno, quel che nes suno dei numi oserebbe promettere al tuo
desiderio, ec- co che il giorno che volge te l’offre spontaneamente. Énea
lasciò la città e i compagni e la flotta, ed è salito alla reggia del
Palatino ed alla sede di Evandro. Nè ba- sta: è penetrato nell’ultime
ville di Còrito *, e raccoglie ed arma agresti schiere di Etruschi. Che
indugi? Il tem- po è questo, è questo, di chiedere i cocchi e i
cavalli. Rompi ogni indugio, turba ed assali il suo campo ». Dis-
se, e nell’alto del cielo si alzò con le ali levate, e nel fuggire segnò
sotto le nubi un grande arco. La riconobbe il giovane, e alzò ambe le
palme alle stelle, e, mentr’ella volava, la seguiva con queste parole. Ìri,
ornamento del cielo, chi dalle nubi a me ti fece discendere sopra
la terra? E come mai, improvvisa, tanta chiarezza di cie- lo? A
mezzo vedo dischiudersi i cieli e in alto vagare le stelle. Chiunque tu
sia, che mi chiami alle armi, ob- bedisco ad un tanto presagio ». E, così
detto, al fiume si accostò, ed attinse a fiore del gorgo le acque,
molto pregando gli Dei, colmando il cielo di voti. E già
l’esercito intiero andava per le aperte pianure, ricco di cavalli, ricco
di vesti intessute nell’oro (all’a- vanguardia è Messapo, ultimi vengono,
i figli di Tirro ‘, ed a capo del grosso sta Turno: s’avanza brandendo
ie LI [vertitur arma
tenens et toto vertice supra est]; ceu septem surgens sedatis
amnibus altus 30 per tacitum Ganges, aut pingui flumine Nilus
cum refluit campis et iam se condidit alveo. Hic subitam
nigro glomerari pulvere nubem prospiciunt Teucri ac tenebras
insurgere campis. Primus ab adversa conclamat mole Caicus: Quis globus, o
cives, caligine volvitur atra? Ferte citi ferrum, date tela,
ascendite muros, hostis adest, heia. » Ingenti clamore per
omnes condunt se Teucri portas et moenia complent.
Namque ita discedens praeceperat optimus armis 40 Aeneas, si qua
interea fortuna fuisset, neu struere auderent aciem, neu credere
campo; castra modo et tutos servarent aggere muros. Ergo etsi
conferre manum pudor iraque monstrat, 6biciunt portas tamen et praecepta
facessunt armatique cavis exspectant turribus hostem. Turnus, ut
ante volans tardum praecesserat agmen viginti lectis equitum comitatus,
et urbi improvisus adest: maculis quem Thracius albis
portat equus cristaque tegit galea aurea rubra. Ecquis erit, mecum,
iuvenes, qui primus in hostem? En » ait et iaculum intorquens emittit in
auras, principium pugnae, et campo sese arduus infert. Clamorem
excipiunt socii, fremituque sequuntur horrisono; Teucrum mirantur inertia
corda: 55 non aequo dare se campo, non obvia ferre arma
viros, sed castra fovere. Huc turbidus atque huc lustrat equo muros
aditumque per avia quaerit. Ac veluti pleno lupus insidiatus
ovili cum fremit ad caulas, ventos perpessus et imbres, 60
nocte super media: tuti sub matribus agni armi, e supera gli altri
del capo); come tacito scorre il Gange profondo, ingrossato da sette
fiumi tranquil. li, o il Nilo dalla pingue corrente, quando rifluisce
dai campi e già se ne torna al suo letto. Qui addensarsi una nube
di negra polvere i Teucri scorgono all’improvviso, e i campi oscurarsi;
Caico, primo dalla torre di fronte, si mette a gridare: « Che turbine, o
cittadini, si aggira di negra caligine? Presto, alle armi, recate le
armi, sali- te alle mura! Ecco il nemico, olà! ». E i Teucri con
grande schiamazzo si afiollan per tutte le porte, e col. man le mura.
Giacchè così, nel partire, Enea, esperto di guerra, aveva ordinato: se
intanto si offriva una qual- che sorpresa, non osassero uscire in
ischiera nè accet- tare battaglia; solo, tenessero il campo e 1 muri al
ri- paro del vallo *. Or, benchè ira e vergogna li spingano a dare
battaglia, pure rinserran le porte, ed obbedisco- no agli ordini, ed
aspettano armati dentro le torri il ne- mico. Turno, siccome volando
davanti avea preceduto il tardo suo stuolo, con venti cavalieri più
scelti, ecco appare improvviso davanti alle mura: lo porta un ca-
vallo di Tracia pezzato di bianco, e il capo gli copre un elmo d’oro con
rosso il cimiero. « E chi sarà con me, o giovani, chi primo incontro il
nemico? Ecco! » esclama, e un dardo vibrando, lo lancia per l’aure,
segnale della battaglia, ed alto si avanza nel campo. L'acclamano a
gran voce i compagni, e con un grido lo seguono che orribile suona: e
stupiscono dei cuori inerti dei Teucri, e come non escano in campo aperto
e non cozzin le ar- mi con loro, ma stiano accovacciati là dentro.
Turno, ora qua ora là, esplora a cavallo le mura, e cerca — ma
impenetrabile è il luogo — un accesso. E come quan- do un lupo che
insidia l’ovile ricolmo, freme là presso al recinto, esposto al vento e
alla pioggia, nel cuor della 2balatum exercent, ille asper et
improbus ira saevit in absentes, collecta ‘fatigat edendi ex longo
rabies et siccae sanguine fauces; haud aliter Rutulo muros et castra
tuenti ignescunt irae, duris dolor ossibus ardet, qua tentet
ratione aditus et qua vi clausos excutiat Teucros vallo atque effundat in
aequor.. Classem, quae lateri castrorum adiuncta latebat, aggeribus
septam circum et fluvialibus undis, invadit sociosque incendia poscit
ovantes atque manum pinu flagranti fervidus implet. Tum vero
incumbunt (urget praesentia Turni), atque omnis facibus pubes accingitur
atris. Diripuere focos; piceum fert fumida lumen taeda et commixtam
Vulcanus ad astra favillam. Quis Deus, o Musae, tam saeva incendia
Teucris avertit? tantos ratibus quis depulit ignes? Dicite. Prisca
fides facto, sed fama perennis. Tempore quo primum Phrygia formabat in
Ida Aeneas classem et pelagi petere alta parabat, ipsa Deum fertur
genetrix Berecyntia magnum vocibus his adfata Iovem: « Da, gnate,
petenti, quod tua cara parens domito te poscit Olympo. Pinea silva
mihi, multos dilecta per annos; lucus in arce fuit summa, quo sacra
ferebant, nigranti picea trabibusque obscurus acernis. Has ego
Dardanio iuveni, cum classis egeret, laeta dedi: nunc sollicitam timor
anxius angit.Solve metus, atque hoc precibus sine posse parentem: 90
ne cursu quassatae ullo neu turbine venti vincantur: prosit
nostris in montibus ortas. » Filius huic contra, torquet qui sidera
mundi: « O genetrix, quo fata vocas? aut quid petis istis?
notte: sotto le madri, al sicuro, vanno belando gli agnel- li, ed
esso, inasprito e feroce per l’ira, infuria contro i lontani; e lo tormenta
la lunga rabbia adunata del cibo con le fauci che han sete di sangue; —
non altrimenti nel Rùtulo, a guardare i muri ed il campo, ardono
lire, il dolore nell’ossa dure lo brucia: come tentare l’accesso, e
come scacciar con la forza i Teucri dal vallo e spar- gerli nella
pianura. Allora investe la flotta, che stava al riparo di fianco al
campo, recinta all’intorno dagli ar- gini e dall'onde del fiume, e invita
all'incendio i com- pagni esultanti, e furibondo impugna una fiaccola
ar- dente; ed essi si accaniscono all’opera: li sprona la pre-
senza di Turno, e tutta di negre faci la gioventù si for- nisce.
Saccheggiano i focolari; le torce fumose una luce spandon color della
pece, e Vulcano lancia fumo e fa- ville alle stelle. | Qual
Dio, o Muse, un così fiero incendio allontanò dai Troiani? chi discacciò
dalle navi sì grandi fiamme? Voi ditelo. Antica è la fede nel fatto, ma
la sua fama è pe- renne. Nel tempo che dapprima fabbricava nell’Ida
di Frigia Enea la sua flotta e si accingeva a prendere il mare
infinito, dicono che essa stessa, la Berecinzia * ma- dre dei numi, al
gran Giove volgesse queste parole: « Ascolta, o figlio, il mio prego, il
primo che io, la tua cara madre, ti chiedo, da quando domasti l'Olimpo.
Ho una selva di pini, da lunghissimi anni a me cara; ed era il
sacro mio bosco sulla cima del monte, ia dove si eser- citava il mio
culto, di nereggianti abeti ombroso e di alti tronchi di aceri. Ed io ben
lieta li ho dati al dàr- dano eroe, allorchè aveva bisogno di navi; ma
ora il ti- more mi rende ansiosa e sollecita: toglimi da questo
af-. fanno, e fa che questo ottenga la preghiera di una ma- dre: fa
che non siano mai schiantate da viaggio nes- 2Mortaline manu
factae immortale carinae fas habeant? certusque incerta pericula
lustret Aeneas? cui tanta Deo permissa potestas? Immo ubi defunctae
finem portusque tenebunt Ausonios olim, quaecumque evaserit undis
Dardaniumque ducem Laurentia vexerit arva, mortalem eripiam formam
magnique iubebo aequoris esse Deas, qualis Nereia Doto et Galatea
secant spumantem pectore pontum. » Dixerat, idque ratum Stygii per
flumina fratris, per pice torrentes atraque voragine ripas adnuit,
et totum nutu tremefecit Olympum. Ergo aderat promissa dies et tempora
Parcae debita complerant, cum Turni iniuria Matrem admonuit ratibus
sacris depellere taedas. Hic primum nova lux oculis effulsit, et
ingens visus ab Aurora caelum transcurrere nimbus Idaeique chori:
tum vox horrenda per auras excidit et Troum Rutulorumque agmina
complet. « Ne trepidate meas, Teucri, defendere naves, neve armate
manus: maria ante exurere Turno, quam sacras dabitur pinus. Vos ite
solutae, ite Deae pelagi; genetrix iubet. » Et sua quaeque continuo
puppes abrumpunt vincula ripis delphinumque modo demersis aequora
rostris ima petunt: hinc virgineae (mirabile monstrum) [quot prius
aeratae steterant ad litora prorae] reddunt se totidem facies pontoque
feruntur. Obstupuere animis Rutuli, conterritus ipse turbatis
Messapus equis, cunctatur et amnis rauca sonans revocatque pedem
Tiberinus ab alto. At non audaci Turno fiducia cessit; ultro animos
tollit dictis atque increpat ultro: suno o da turbinose tempeste; e a lor
giovi sui nostri monti esser nate ». E a lei di rincontro il figliuolo,
che volge le stelle del cielo: « Madre, perchè vuoi tu cam- biare
il destino? e che cosa domandi per loro? Forse che navi foggiate da mano
mortale potranno avere una sorte immortale? Ed Enea al sicuro affronterà
i malsi- curi perigli? E quale dei numi ha così grande potere?
Bensì, quando compiuto il lor corso si fermeranno un giorno nei porti
d’Ausonia, qualunque ne sia scampata dall’onde ed abbia portato il duce
dardànio nei campi laurenti, io le toglierò la sua forma mortale, e
vorrò ch’elle sieno dee dell’ampie marine, come Doto e Gala- tea
nereidi, che fendono il mare spumante col petto ». Disse; e giuratolo per
il fiume dello stigio fratello * e per le sponde bollenti di pece
dall’atra voragine, cen- nò, ed al cenno, tutto fece tremare l’Olimpo.
Era dunque arrivato il giorno promesso, e avevan le Parche compiuto
il debito tempo, quando l'offesa di Turno indusse la Madre a cacciar
dalle sacre navi le fiaccole. Allora da prima una luce novella agli occhi
ri- fulse, e immenso fu visto trascorrere dall'Oriente un nim- bo
pel cielo, e con esso i cori dell’Ida: così tremenda una voce cadde per
l’aria, e le schiere riempì dei Troiani e dei Ruùtuli: « Non vi affannate
a difendere i miei na- vigli, o Troiani, e non afferrate le armi: prima potrà
ar- dere il mare, Turno, che bruciare i pini a me sacri. È voi
andatene sciolte, andatene, Dee del mare; la vostra madre lo vuole ». E
tosto ad una ad una ie poppe tron- can le corde dal lido, e a guisa di
delfini, tuffati i ro- stri, scendon nel fondo del înare: e di qui
(meraviglioso prodigio), quante prore di bronzo eran state prima
alla riva”, ricompaiono volti alirettanti di fanciulle, e si av-
vian sul mare. 2« Troianos haec monstra petunt, his Iuppiter
ipse auxilium solitum eripuit; non tela nec ignes exspectant
Rutulos. Ergo maria invia Teucris, 130 nec spes ulla fugae; rerum pars
altera adempta est; terra autem in nostris manibus: tot milia
gentes arma ferunt Italae. Nil me fatalia terrent, si
qua Phryges prae se iactant, responsa Deorum. Sat fatis Venerique
datum, tetigere quod arva 135 fertilis Ausoniae Troes. Sunt et mea
contra fata mihi, ferro sceleratam exscindere gentem,
coniuge praerepta; nec solos tangit Atridas iste dolor
solisque licet capere arma Mycenis. Sed periisse semel satis est;
peccare fuisset 140 ante satis penitus modo non, genus omne perosos
femineum? quibus haec medii fiducia valli fossarumque morae, leti
discrimina parva, dant animos. An non viderunt moenia Troiae
Neptuni fabricata manu considere in ignes? 145 Sed vos, o lecti,
ferro quis scindere vallum adparat et mecum invadit trepidantia
castra? Non armis mihi Vulcani, non mille carinis est
opus in Teucros. Addant se protinus omnes Etrusci socios. Tenebras
et inertia furta ; 150 [Palladii caesis summae custodibus arcis]
ne timeant; nec equi caeca condemur in alvo: luce palam
certum est igni circumdare muros. Haud sibi cum Danais faxo et pube
Pelasga esse putent, decimum quos distulit Hector in annum.
159 Nunc adeo, melior quoniam pars acta diei, quod superest,
laeti bene gestis corpora rebus procurate, viri, et pugnam sperate
parari. » Interea vigilum excubiis obsidere portas cura
datur Messapo et moenia cingere flammis.
Stupiron nel cuore i Rùtuli, atterrito è lo stesso Mes- sapo e i
suoi cavalli s'impennano; il Tiberino fiume an- cor esso s’indugia, rauco
‘sonando, e ritrae il piede dal ‘ mare. Ma non a Turno audace vien meno
l’ardire, chè anzi rianima 1 cuori coi detti e li garrisce così: «
Con- tro i Toiani, comparvero questi portenti; a loro, il so- lito
scampo lo stesso Giove ha strappato: non v'è più bisogno delle armi e dei
fuochi dei Rùtuli. Così i Teu- cri non hanno più vie sul mare nè alcuna
speranza di fuga: son tolte loro le acque, e la terra è in nostro
po- tere: tante migliaia di armati mandano l'itale genti! Non mi
atterriscono, no, i fatali responsi dei numi, di cui i Frigi si vantano.
Basti a Venere e ai fati, che della fertile Ausonia toccarono i campi i
Troiani. Ho i miei destini io pure: esterminar con la spada la
scellerata gente, poichè mi ha rapita la sposa; e un tale dolore
non tocca soltanto gli Atridi‘°, nè soltanto a Micene e lecito l’armi
brandire. Ma esser periti una volta, po- teva bastare; e non sarebbe
bastato aver peccato una volta, per odiar tutto il sesso femmineo? Certo,
a lo- ro dan forza il vallo interposto e dei fossati l’ostacolo,
breve ritardo alla morte. Ma non vider le mura di Troia — e le aveva
costrutte Nettuno! — ruinare in mezzo alle fiamme? Ora di voi, o eletti,
chi si prepara a rom- pere il vallo e ad assaltare con me gli
accampamenti tremanti? Non ho bisogno dell’armi, io, di Vulcano, e
di mille carene, per combattere contro i Troiani. E a loro si aggiungano
pure alleati tutti quanti gli Etru- schi. Le tenebre e gli assalti
infingardi [del Palladio, e dei custodi della rocca la strage]! non
tornano essi, chè noi non ci chiuderemo nel ventre oscuro del
cavallo: alla luce, all’aperto, circonderemo ie mura di fiamme. Io
farò sì che non si credano in guerra coi Dànai e con Bis
septem Rutuli, muros qui milite servent, delecti: ast illos centeni
quemque sequuntur purpurei cristis iuvenes auroque corusci.
Discurrunt variantque vices fusique per herbam indulgent vino et vertunt
crateras aénos. Collucent ignes: noctem custodia ducit insomnem
ludo. Haec super e vallo prospectant Troes et armis alta tenent,
nec non trepidi formidine portas explorant, pontesque et propugnacula
iungunt, 170 tela gerunt. Instant Mnestheus acerque Serestus, quos
pater Aeneas, si quando adversa vocarent, rectores iuvenum et rerum dedit
esse magistros. Omnis per muros legio, sortita periclum, excubat,
exercetque vices, quod cuique tuendum est. 175 Nisus erat portae custos,
acerrimus armis, Hyrtacides, comitem Aeneae quam miserat Ida
venatrix iaculo celerem levibusque sagittis; et iuxta comes Eurialus, quo
pulchrior alter non fuit Aeneadum Troiana neque induit arma, 180 ‘
ora puer prima signans intonsa iuventa. © His amor unus erat, pariterque
in bella ruebant; tum quoque communi portam statione tenebant.
Nisus ait: « Dine hunc ardorem mentibus addunt, Euryale, an sua cuique
Deus fit dira cupido? 189 Aut pugnam aut aliquid iamdudum invadere magnum
mens agitat mihi nec placida contenta quiete est. Cernis, quae Rutulos
habeat fiducia rerum. Lumina rara micant: somno vinoque soluti
procubuere; silent late loca. Percipe porro, _ 190 quid dubitem et quae
nunc animo sententia surgat. Aeneam acciri omnes, populusque patresque,
exposcunt, mittique viros, qui certa reportent. la gente Pelasga, che
Ettore per ben dieci anni tardò. Ora dunque, poichè è scorsa la parte
migliore del gior- no, quel tanto che avanza, lieti dei primi successi,
con- cedetelo, o prodi, a ristorarvi le membra, e aspettate che
venga la pugna ». Frattanto si affida a Messapo di guar- dar con le
scolte le porte !* e di cinger le mura di fuo- chi. Due volte sette
Rùtuli son scelti a custodia dei mu- ri coi loro guerrieri; ed ognuno da
cento armati è se- guito, con cimieri purpurei ed armi che brillano
d’oro. Corron di qua e di là, si danno il cambio, e sdraiati su
l'erba tracannano il vino e lo versan dai crateri di bron- zo. Splendono
i fuochi; e le guardie passano la notte insonne giocando. -
Di sopra al vallo i Troiani stanno a osservare, e con l’armi
guardan le mura, e così, in fretta, per il timore, vanno studiando le
porte, congiungon coi ponti le torri, ammucchiano l’armi. Stanno su loro
Mnèsteo ed il fiero Seresto, che il padre Enea, se mai lo chiedesse il
peri- colo, avea destinati a guidare l’esercito e a governare lo
stato. Tutti, lungo le mura, al rischio che la sorte ha voluto, i
guerrieri vegliano, n scambiano i turni, secon- do che tocca ad ognuno.
Niso era a custodia di una por- ta, d’Irtaco il figlio, che, a compagno
d’Enea, Ida aveva sini la cacciatrice, ed era destro a gettare
veloci saette; e accanto gli era compagno Eurìalo, il più bello fra
tutti gli Enèadi e quanti vestivano l’armi troiane; fanciullo ancora, gli
fioriva sulle gote intonse la prima lanugine. Stretto un amore li univa,
e insieme si preci- pitavano in guerra; ed anche allora, compagni di
scol- ta, guardavan la porta. Niso disse: « M'ispirano forse gli
Dèi questo mio ardor nella mente, o Eurialo? o il suo fiero desìo diviene
a ciascuno il suo Dio? Già da gran tempo il mio cuore mi spinge alla
pugna o a ten- Si tibi quae posco promittunt (nam mihi facti
fama sat est) tumulo videor reperire sub illo 195 posse viam ad muros et
moenia Pallantea. » Obstupuit magno laudum percussus amore
Euryalus: simul his ardentem adfatur amicum: « Mene igitur socium summis
adiungere rebus, Nise, fugis? solum te in tanta pericula mittam?
200 non ita me genitor, bellis adsuetus Opheltes, Argolicum
terrorem inter Troiaeque labores sublatum erudiit, nec tecum talia gessi
> magnanimum Aenean et fata extrema secutus. Est hic, est animus
lucis contemptor et istum 205 qui vita bene credat emi, quo tendis;
honorem. » Nisus ad haec: « Equidem de te nil tale verebar, nec
fas, non: ita me referat tibi magnus ovantem luppiter, aut quicumque
oculis haec adspicit aequis. Sed si quis (quae multa vides discrimine
tali), 210 si quis adversum rapiat casusve Deusve, te superesse
velim: tua vita dignior aetas. Sit, qui me raptum pugna pretiove
redemptum mandet humo; solita aut si qua id fortuna vetabit,
absenti ferat inferias, decoretque sepulchro; 215 neu matri miserae tanti
sim causa doloris, quae te sola, puer, multis e matribus ausa
persequitur, magni nec moenia curat Acestae. » Ille autem: « Causas
nequidquam nectis inanes, nec mea iam mutata loco sententia cedit.
220 Adceleremus » ait. Vigiles simul excitat. Illi succedunt
servantque vices: statione relicta, ipse comes Niso graditur, regemque
requirunt. Cetera per terras omnes animalia somno laxabant
curas et corda oblita laborum; 225 ductores Teucrum primi, delecta
iuventus, a è o so pn tare qualche gran
fatto, e non sa placarsi a un tranquillo riposo. Tu vedi quale fiducia
s'è impadronita dei Rù- tuli. Rari lampeggiano i lumi; immersi nel sonno
e nel vino giacquero; tutto all’intorno è silenzio. Odimi dun- que
quello ch’io penso, ed il disegno che ora mi sorge nel cuore. Tutti, il
popolo e i padri, chiedon che Enea si richiami e gli si mandino messi che
gli raccontino il vero. Se mi promettono quello ch’io chiedo per te
(per mia parte, mi basta la gloria del fatto), credo, la, sotto a
quel colle, di ritrovare la via che mena del Pallantèo alle mura ».
Stupì, colpito da grande amore di gloria, Eurìalo; e con queste parole si
volge all’ardito compa- gno: « Niso, dunque rifuggi dal prendermi teco
all’im- presa sì grande? Ti lascerò andar solo in mezzo a co- tanti
perigli? Ah, non così mio padre, Ofelte assuefatto alle guerre, fra lo
spavento argolico ed i travagli di Troia mi allevò, m’istruì; e non così
mi mostrai accanto a te, nel seguire il magnanimo Enea fino
all’estreme fortune. C’è qui, c'è qui un animo che sa disprezzare
la vita, e crede che ben con la vita si acquisti questa gloria che agogni
tu pure ». E Niso di rincontro: « Non io certo dubitavo di te, nè lo
potrei, oh no: così a te mi riconduca in trionfo il grande Giove o
chiunque dall’alto ci guarda con occhio propizio. Ma se, come
spesso accade in rischi sì grandi, se un qualche caso, o un Dio, mi
tragga a morire, vorrei che tu rimanessi; ti dà più diritto alla vita la
tua giovinezza: e vi sia chi mi sottragga alla mischia o mi ricompri al
nemico per sotterrarmi, e se, come accade, lo vieterà la fortuna, mi
renda i funebri offici, anche lontano, e di un sepolcro mi onori. Ah,
ch’io non sia cagione di un sì grande dolore alla tua povera madre, che
sola, o fanciullo, fra tante madri osava seguirti, e non ristette del
grande 3 - Vircuro - Eneide - Vol. III consilium
summis regni de rebus habebant, quid facerent quisve Aeneae iam
nuntius esset. Stant longis adnixi hastis et scuta tenentes
castrorum et campi medio. Tum Nisus et una ‘230 Euryalus confestim
alacres admittier orant: rem magnam, pretiumque morae fore. Primus
Iulus accepit trepidos ac Nisum dicere iussit. Tunc sic
Hyrtacides: « Audite o mentibus aequis, Aeneadae, neve haec nostris
spectentur ab annis, 235 quae ferimus. Rutuli somno vinoque soluti
conticuere: locum insidiis conspeximus ipsi, qui patet in
bivio portae, quae proxima ponto; interrupti ignes, aterque ad sidera
fumus erigitur; si fortuna permittitis uti 240 quaesitum
Aenean et moenia Pallantea, mox hic cum spoliis ingenti caede
peracta adfore cernetis. Nec nos via fallet euntes:
vidimus obscuris primam sub vallibus urbem venatu adsiduo et
totum cognovimus amnem. » 245 Hic annis gravis atque animi maturus
Aletes: « Di patrii, quorum semper sub numine Troia est,
non tamen omnino Teucros delere paratis, cum tales animos iuvenum
et tam certa tulistis pectora. » Sic memorans umeros dextrasque tenebat
250 amborum et vultum lacrimis atque ora rigabat: « Quae
vobis, quae digna, viri, pro laudibus istis, praemia posse rear solvi?
pulcherrima primum Di moresque dabunt vestri; tum cetera
reddet actutum pius Aeneas atque integer aevi 259 Ascanius,
meriti tanti non immemor umquam. » «Immo ego vos, cui sola salus genitore
reducto, excipit Ascanius, per magnos, Nise, Penates
Assaracique Larem et canae penetralia Vestae Aceste alle mura ». Ma
quegli: « Tu indarno intessi i tuoi vani pretesti, e il mio voler non si
muta e non ce- de. Presto!» soggiunge. E risveglia le scolte;
queste subentrano al cambio; lasciata la guardia, ei s’accom- pagna
con Niso, e vanno in cerca del re. Gli altri animali per tutte le
terre placavan nel son- no i loro affanni nei cuori dimentichi d’ogni
travaglio; ma i duci primi dei Teucri, fior dei guerrieri, tenevan
consiglio sul grave momento del regno: che fare? e chi mandar messaggero
ad Enea? Stanno poggiati alle lun- ghe aste, e reggon gli scudi, nel
mezzo alla piazza del campo. Quand’ecco Niso, e con lui Eurìalo, pronti,
chie- dono d’essere uditi, subito: grande è la cosa, e d’inter-
rompere vale la pena. Iulo per primo li accolse ansiosi, e a Niso ordinò
di parlare. Così allora l’Irtàcide: « Udite con menti benigne, o Enèadi;
e quel che portiamo non lo giudicate dagli anni. I Rùtuli, immersi nel
sonno e nel vino, tacciono tutti; noi, un luogo abbiam scorto,
propizio alle insidie, che si scopre là al bivio della porta ch’è
prossima al mare. Son mezzo spenti i fuochi, e cu- po il fumo si erge
alle stelle; se ci lasciate tentare la sorte a ricercare Enea e le mura
del Pallanteo, presto qui con le spoglie nemiche ed onusti di strage ci
rive- drete tornare. E non smarriremo la via: sotto le oscu- re
valli, nelle continue cacce, vedemmo lassù la città e tutto il fiume
esplorammo ». Allora, grave d’anni, e maturo di senno rispose Alete: «O
Dei della patria, sotto il cui nume è ancor Troia, certo voi non
pensate di distruggere i Teucri del tutto, poi che c'inviaste tali
anime e petti sì fermi di giovani! ». Questo dicendo, stringeva
d’entrambi le spalle e le mani, rigando le guance di pianto: « Oh, quale
premio, o prodi, che de- gno premio per questa impresa vi potremo noi
dare? obtestor: quaecumque mihi fortuna fidesque est, in vestris
pono gremiis; revocate parentem, reddite conspectum; nihil illo triste
recepto. Bina dabo argento perfecta atque aspera signis pocula, devicta
genitor quae cepit Arisba, et tripodas geminos, auri duo magna
talenta, cratera antiquum, quem dat Sidonia Dido. Si vero
capere Italiam sceptrisque potiri contigerit victori et praedae ducere
sortem, vidisti quo Turnus equo, quibus ibat in armis aureus: ipsum
illum, clipeum cristasque rubentes excipiam sorti, iam nunc tua praemia,
Nise. Praeterea bis sex genitor lectissima matrum corpora
captivosque dabit, suaque omnibus arma: insuper his, campi quod rex habet
ipse Latinus, Te vero, mea quem spatiis propioribus aetas
insequitur, venerande puer, iam pectore toto accipio, et comitem casus
complector in omnes. Nulla meis sine te quaeretur gloria rebus:
seu pacem seu bella geram, tibi maxima rerum verborumque fides. »
Contra quem talia fatur Euryalus: « Me nulla dies tam fortibus
ausis dissimilem arguerit; tantum fortuna secunda haud adversa
cadat. Sed te super omnia dona unum oro: genetrix Priami de gente
vetusta est mihi, quam miseram tenuit non Ilia tellus mecum
excedentem, non moenia regis Acestae: hanc ego nunc ignaram huius,
quodcumque pericli est, inque salutatam linquo; nox et tua
testis dextera, quod nequeam lacrimas perferre parentis; at
tu, oro, solare inopem et succurre relictae. Hanc sine me spem ferre tui:
audentior ibo in casus omnes. » Percussa mente dedere
290 Il primo ve lo daranno, e il più bello, gli Dèi e le vo-
stre virtù; gli altri ben presto li avrete dal pio Enea e da Ascanio, il
giovinetto in fiore, che di un così gran- de servigio non sarà immemore
mai ». « Anzi io, sog- giunse Ascanio, che altra salvezza non ho se non
il ri- torno del padre, questo vi giuro, o Niso, per i grandi
Penati, per il lare di Assàraco e per l’altare della anti- chissima
Vesta: ogni mia sorte ed ogni mia speranza, in vostre mani io pongo;
riconducetemi il padre, fate che io lo riveda: se lo ricupero, nulla sarà
più triste per me. Due coppe vi darò, cesellate in argento e scol-
pite a bassorilievi, che il padre ebbe alla presa di Ari- sba; e due
tripodi, e due grandi talenti di oro, ed un cratere antico, dono della
sidònia Didone. Se poi vin- citore potrò prender l’Italia e tenere lo
scettro e sorteg- giare le prede, certo tu hai veduto quel destriero su
cui Turno veniva, e le ammi che lo vestivano d’oro: ebbene, quel
suo cavallo, e lo scudo e il cimiero vermiglio, li sottrarrò dal
sorteggio; fin d’ora è un tuo premio, o Niso. Inoltre, mio padre darà due
volte sei corpi di donne, fra le più belle, ed altrettanti prigioni, con
le sue armi ciascuno: e oltre a ciò, proprio i campi che or sono
del rege Latino. Te poi, che sei vicino a me per età, o venerando
fanciullo, con tutto il cuore ti accolgo, fin d’ora, e ti abbraccio,
compagno per ogni fortuna. Non cercherò per me gloria nessuna senza di
te; ed in pace ed in guerra, nei fatti e nelle parole, in te fiderò
sopra ognuno ». A lui di rincontro Eurìalo rispose così: « Non verrà mai
un giorno che mi palesi diverso da que- sto mio forte sentire: mi basta che
la fortuna di secon- da non muti in avversa. Ma sopra ogni altro dono,
solo una cosa t’imploro: ho una madre, della stirpe di Priamo
vetusta, che, misera, quando partii, non si fer- Dardanidae
lacrimas, ante omnes pulcher Iulus, atque animum patriae strinxit
pictetie imago. Tum sic effatur: 295 « Sponde digna tuis
ingentibus omnia coeptis; | namque erit ista mihi genetrix nomenque
Creusae solum defuerit, nec partum gratia talem parva manet.
Casus factum quicumque sequentur, per caput hoc iuro, per quod
pater ante solebat: 300 quae tibi polliceor reduci rebusque
secundis, haec eadem matrique tuae generique manebunt. »
Sic ait illacrimans: umero simul exuit ensem auratum, mira
quem fecerat arte Lycaon | Gnosius atque habilem vagina aptarat eburna.
305 Dat Niso Mnestheus pellem horrentisque leonis exuvias: galeam
fidus permutat Aletes. Protinus armati incedunt; quos omnis
euntes primorum manus ad portas iuvenumque senumque prosequitur
votis. Necnon et pulcher Iulus 310 ante annos animumque gerens curamque
virilem, multa patri mandata dabat portanda. Sed aurae omnia
discerpunt et nubibus irrita domant. Egressi superant fossas,
noctisque per umbram castra inimica petunt, multis tamen ante futuri
315 exitio. Passim somno vinoque per herbam corpora fusa vident,
arrectos litore currus, inter lora rotasque viros, simul arma
iacere, vina simul. Prior Hyrtacides sic ore locutus: «
Euryale, audendum dextra: nunc ipsa vocat res. 320 Hac iter est. Tu, ne
qua manus se attollere nobis a tergo possit, custodi et consule longe.
Haec ego vasta dabo et lato te limite ducam. » Sic memorat
vocemque premit; simul ense superbum Rhamnetem adgreditur, qui forte
tapetibus altis mò nella terra di Ilio nè fra le mura di Aceste. Or io
qui l’abbandono ignara di questo mio rischio, qual che si sia, e
insalutata: la notte e la tua destra mi sian te- stimoni che io non
potrei sostenere le lacrime della mia madre. Ma tu, te ne prego, consola
la misera, soccorrila, se resta sola. Lascia ch'io porti meco questa
speranza di te; poi, anderò più audace incontro ad ogni ventura ».
Commossi nel cuore i Dardànidi lagrimarono, il bel Iulo anzi tutti, chè
il cuore gli strinse il ricordo dell’a- more paterno. È così disse: «
Attenditi pur tutto quan- to si deve alla tua grande impresa; chè essa
sarà la mia madre, e soltanto il nome le mancherà di Creusa: pic-
colo dono, a colei che generò un tal figlio. Qualunque si sia l’evento,
per questo mio capo ti giuro sul quale soleva giurare mio padre: quello
che io ti promisi se tornerai vittorioso, alla tua madre sarà serbato ed
alla tua stirpe ». Così diceva piangendo, e dalla spalla si tolse
la spada d’oro che aveva foggiata con arte stu- penda Licàone di Cnosso,
scorrevole entro la guaina di avorio. Mnèsteo a Niso donava di un irsuto
leone la pelle e la apoglia, e il fido Alete scambia il suo elmo
con lui. Tosto s’avviano armati; e tutta ia schiera dei grandi, giovani e
vecchi, alle porte li accompagnan coi voti. E intanto il bello Iulo, che
ha cuore e senno virile, oltre l’età, affidava molti messaggi al suo
padre. Ma l’aura tutti li sperde inutili in mezzo alle nuvole.
Usciti, varcano i fossi, e per le ombre notturne ven- gbno al campo
fatale; ma prima, a molti daranno la morte. (Qua e là sparsi tra il sonno
ed il vino scorgono i corpi sull’erba, e i cocchi alzati sul lido, e, tra
le bri- glie e le ruote, giacere i guerrieri, e con loro le armi,
ed i vini con loro. Primo il figlio di Irtaco così disse: « Eurìalo, qui
bisogna osar con la destra: l’oecasione lo exstructus toto proflabat
pectore somnum, rex idem et regi Turno gratissimus augur;
sed non augurio potuit depellere pestem. Tres iuxta famulos
temere inter tela iacentes armigerumque Remi premit aurigamque sub ipsis nactus
equis, ferroque secat pendentia colla. Tum caput ipsi aufert
domino, truncumque relinquit sanguine singultantem; atro tepefacta
cruore terra torique madent. Necnon Lamyrumque Lamumque, et
iuvenem Sarranum, illa qui pluritha nocte 335 luserat, insignis facie,
multoque iacebat membra Deo victus: felix, si protinus illum
aequasset nocti ludum in lucemque tulisset. Impastus ceu
plena leo per ovilia turbans, suadet enim vesana fames, manditque
trahitque 340 molle pecus mutumque metu, fremit ore cruento.
Nec minor Euryali caedes; incensus et ipse perfurit, ac
multam in medio sine nomine plebem, Fadumque Herbesumque subit Rhoetumque
Abarimque ignaros, Rhoetum vigilantem et cuncta videntem, sed magnum
metuens se post cratera tegebat; pectore in adverso totum cui
comminus ensem condidit adsurgenti et multa morte recepit.
Purpuream vomit ille animam et cum sanguine mixta vina refert
moriens: hic furto fervidus instat. 350 lamque ad Messapi socios
tendebat: ibi ignem deficere extremum et religatos rite
videbat carpere gramen equos: breviter cum talia Nisus
(sensit enim nimia caede atque cupidine ferri. Absistamus, ait, nam lux inimica
propinquat. Poenarum exhaustum satis est, via facta per hostes. » Multa
virum solido argento perfecta relinquunt armaque craterasque simul
pulchrosque tapetas. vuole. Di qua è la via. Ora tu, perchè un qualche
drap- pello non ci si levi alle spalle, fa guardia e sta attento
all’intorno. Io qui farò largo, e ti guiderò per un ampio cammino >».
Così dice, poi smorza la voce; ed il superbo Ramnete con la sua spada
colpisce; ed egli, sui tappeti ammucchiati giacendo, dormiva lì a pieno
petto, rus- sando. Re egli pure, ed al re Turno il più grato degli
àuguri; ma non potè con la scienza profetica allontana- re la morte. Lì
presso, uccide tre servi che a caso gia- cevan fra l’armi, e lo scudiero
di Remo, ed il suo auri- ga sorpreso sott’essi i cavalli, e col ferro
taglia le gole rovescie. Poscia anche al signore tronca il capo, ed
il busto lascia singhiozzante nel sangue; intiepiditi la terra ed i
letti di negro sangue s’imbevono. E poi Là- miro, e Lamo, e il giovin Sarrano,
che fino a tardi la notte aveva giocato, bello di volto, e giaceva vinte
le membra dal vino: felice, se avesse giocato tutta la notte ed
infino all’aurora! Così un leone digiuno imperver- sando tra gli ovili
ricolmi — la fame rabbiosa lo istiga — sbrana e trascina la greggia molle
e per il terrore ammutita, e rugge con bocca sanguigna. Nè minore è
la strage d’EURÌALO; ardendo anch'egli infuria, e alla rinfusa sorprende
molta ignobile plebe, e Fado, ed Erbeso, e Reto, ed Abari, inconsapevoli;
Reto, era desto e tutto vedeva, ma per paura si stava nascosto dietro un
grande cratere: ma mentre si alzava, gli immerse fino all’elsa nel
petto la spada, e la ritrasse grondante di sangue. Ed egli in un fiotto di
porpora esala la vita, ed il vino, morendo, rigetta col sangue. L’altro,
più ardente, con- tinua la strage furtiva. E già si volgeva ai compagni
di Messapo; ivi vedeva languire gli ultimi fuochi, e i ca- valli al
guinzaglio, com’è uso, pascere l’erba, allorchè NISO, che trascinato lo
vide da brama soverchia di stra- EURYALVS
phaleras Rhamnetis et aurea bullis cingula (Tiburti Remulo
ditissimus olim quae mittit dona hospitio, cum iungeret absens,
Caedicus; ille suo moriens dat habere nepoti, post mortem
bello Rutuli pugnaque potiti), haec rapit, atque umeris nequidquam
fortibus aptat. Tum galeam Messapi habilem cristisque decorum induit. Excedunt
castris, et tuta capessunt. Interea praemissi equites ex urbe
Latina, cetera dum legio campis instructa moratur, ibant et
Turno regi responsa ferebant, tercentum, scutati omnes, Volscente
magistro. 370 lamque propinquabant castris murosque subibant,
cum procul hos laevo flectentes limite cernunt, et galea
Euryalum sublustri noctis in umbra prodidit immemorem, radiisque
adversa refulsit. Haud temere est visum. Conclamat ab agmine
Vol. [scens: 375 « State, viri: quae causa viae? quive estis
in armis? quove tenetis iter? » Nihil illi tendere contra;
sed celerare fugam in silvas et fidere nocti. Obiciunt
equites sese ad divortia nota hinc atque hinc,omnemque aditum
custode coronant. Silva fuit, late dumis atque ilice nigra horrida,
quam densi complerant undique sentes, rara per occultos lucebat
semita calles. Euryalum tenebrae ramorum onerosaque praeda
impediunt, fallitque timor regione viarum. NISVS abit: iamque imprudens
evaserat hostes atque locos, qui post Albae de nomine dicti
Albani (tum rex stabula alta Latinus habebat). Ut stetit et
frustra absentem respexit amicum: « Euryale infelix, qua te regione
reliqui? ge, così brevemente. parlò: « Fermiamoci, chè oramai la luce
nemica si appressa. Li abbiamo puniti abbastanza, e aperta in mezzo ai
nemici è la via ». Lasciano lì molte armi di guerrieri lavorate di
argento massiccio, ed i crateri insieme ed i belli tappeti. Eurìalo si
toglie i fregi di Ramnete ed il balteo dall’auree borchie, e,
invano!, sugli omeri forti lo adatta. A Rèmolo, il tiburtino, li
aveva mandati una volta il ricchissimo Cèdico, in segno di ospitalità
ch’egli stringeva da lungi; e quegli moren- do li diede al nipote, e,
questo morto, i Rùtuli se ne im- padronirono in guerra. Poi l’elmo di
Messapo si cinge, agevole, e adorno di creste. Escon dal campo e
s’avvia- no in salvo. Frattanto i cavalieri mandati innanzi
dalla città di Latino, mentre i pedoni attendono armati nella
campa- gna, venivano per riportare al re Turno un responso:
trecento, tutti scudati, ed era lor duce Volscente. E già erano. presso
al campo e varcavan le mura, quando da lungi li scorgono che piegavano
verso sinistra; e l’elmo, nella penombra notturna tradì EURÌALO immemore,
a un raggio di luna splendendo. È non fu vana la vista. Grida dalla
sua schiera Volscente: « Fermi, voi! perchè siete in via? chi siete così
armati? e dove andate? ». Ma quelli non rispondono, anzi si affrettano in
fuga pei boschi e fidano nell’oscurità. 1 cavalieri si gettano di qua, di
là ai bivi ben noti, e tutte circondan di gnardie le uscite. Era
una selva spaziosa e orrida di nere querce e di pruni, densa da ogni
parte di sterpi; e tra le peste occulte, raro si apriva un sentiero. L'ombre
dei rami e il carico del bottino ritardavano Euriìalo, e il timore gli fa
smar- rire la via. Niso è fuggito; e di già, senza pensare all’a-
mico, altrepassati aveva i nemici ed i luoghi che poi dal nome di Alba
furon chiamati Albani (allora, v’era- Quaque sequar, rursus
perplexum iter omne revolvens fallacis silvae? » Simul et vestigia
retro observata legit dumisque silentibus errat. Audit equos,
audit strepitus et signa sequentum. Nec longum i in medio tempus,
cum clamor ad aures pervenit ac videt EURYALVM, quem iam manus omnis
fraude loci et noctis, subito turbante tumultu, Oppressum rapit et
conantem plurima frustra. Quid faciat? qua vi iuvenem, quibus audeat
armis eripere? an sese medios moriturus in hostes inferat, et pulchram
properet per vulnera mortem? Ocius adducto torquens hastile
lacerto, suspiciens altam Lunam, et sic voce precatur: Tu,
Dea, tu praesens nostro succurre labori, astrorum decus et nemorum
Latonia custos: si qua tuis umquam pro me pater Hyrtacus aris dona
tulit, si qua ipse meis venatibus auxi, supendive tholo aut sacra
ad fastigia fixi: hunc sine me turbare globum et rege tela per
auras. Dixerat, et toto conixus corpore ferrum conicit. Hasta volans noctis
diverberat umbras, et venit adversi in tergum Sulmonis,
ibique frangitur, ac fisso transit praecordia ligno.
Volvitur ille vomens calidum de pectore flumen frigidus et longis
singultibus ilia pulsat. 415 Diversi circumspiciunt. Hoc acrior
idem ecce aliud summa telum librabat ab aure. Dum trepidant,
it hasta Tago per tempus utrumque stridens, traiectoque haesit tepefacta
cerebro. Saevit atrox Volscens nec teli conspicit usquam 420
auctorem nec quo se ardens immittere possit. Tu tamen interea calido mihi
sanguine poenas persolves amborum » inquit: simul ense recluso
i no i pascoli
incolti del re Latino). Come ristette, ed in- vano si volse a cercare l’amico:
« O infelice EURIALO, e dove mai t'ho lasciato? dove ti cercherò, ancor
rifacendo il cammino tortuoso per la selva fallace? ». E tosto nota
e ricalca all’indietro le tracce, ed erra silenzioso tra i pruni. Ode i
cavalli, ode lo strepito e i segnali degl’inse- guitori. E ben presto
agli orecchi un grido gli giunge; ed Eurìalo vede, cui già tutta quanta
la schiera, ingan- nato dal luogo e dal buio, turbato dall’improvviso
tu- multo, circonda ed incalza; ed invano ei tenta in mille modi la
fuga. Che fare? con quali forze, con quali armi tentar di salvare il
fanciullo? O non è meglio lanciarsi in mezzo ai nemici a morire, e bella
cercare con le fe- rite la morte? E subito, vibrando col braccio
all’indie- tro un lanciotto, guarda la Luna nell’alto e così le ri-
volge una prece: « Tu, dea, tu, propizia, nel nostro peri- glio
soccorrici, o Latònia, onore degli astri e delle selve custode, se mai ai
tuoi altari doni per me ti recò Irtaco, il padre, se mai con le mie cacce
anch’io ne aggiunsi, e li sospesi alla volta o li infissi ai sacri
pinnacoli '*, lascia che io disordini questa schiera, e guidami i dardi
per l’aria ». Disse, e con tutto il suo corpo puntando, lan- ciò il
ferro. E l’asta volando sferza le ombre notturne, e trapassa nel petto
fino alle spalle Sulmone, ed ivi si spezza, e attraversa, infittavi
dentro, i precordi. Cade di sella colui, vomitando un caldo fiume dal
petto, gia freddo, ed i fianchi gli scuotono lunghi singhiozzi.
Guar- dano gli altri qua e la; e Niso ne prende coraggio, e
dall’altezza del capo, ecco, un altro dardo librava. E, nella trepida
attesa, l’asta attraversa stridendo a Tago le tempia, e s’infigge tiepida
in mezzo al cervello. Atro- cemente infuria Volscente, chè non vede
l'autore del eolpo per potersi lanciare ardente contro di lui. «
Eb- de ibat in EURYALVM. Tum vero exterritus,
amens conclamat Nisus, nec se celare tenebris . amplius, aut tantum
potuit perferre dolorem: « Me me, adsum qui feci, in me convertite
ferrum, o Rutuli! mea fraus omnis: nihil iste nec ausus, nec potuit:
caelum hoc et conscia sidera testor. Tantum infelicem nimium dilexit
amicum. Talia dicta dabat: sed viribus ensis adactus transabiit costas et
candida pectora rumpit. Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per
artus it cruor, inque umeros cervix collapsa recumbit: purpureus
veluti cum flos succisus aratro 435 languescit moriens, lassove papavera
collo demisere caput, pluvia cum forte gravantur. At NISVS ruit in
medios solumque per omnes Volscentem petit, in solo Volscente
moratur. Quem circum glomerati hostes hinc comminus spe {hbinc
440 proturbant. Instat non secius ac rotat ensem fulmineum,
donec Rutuli clamantis in ore condidit adverso et moriens animam abstulit
hosti. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus placidaque
ibi demum morte quievit. 445 Fortunati ambo! si quid mea carmina
possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae
Capitolii immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit.
Victores praeda Rutuli spoliisque potiti | 450 Volscentem exanimum
flentes in castra ferebant. Nec minor in castris luctus, Rhamnete
reperto exsangui, et primis una tot caede peremptis Sarranoque
Numaque. Ingens concursus ad ipsa corpora seminecesque viros tepidaque
recentem bene, tu pagherai intanto col caldo tuo sangue per am- bedue »
gridò; e, sguainata la spada, senz’altro si av- venta ad Eurìalo. Ma
allora, atterrito, fuor di sè, con un grido, non potè più celarsi nelle
tenebre Niso, e sopportare un sì grande dolore: « Me, me! Son qui,
so- no io il colpevole; in me rivolgete le armi, o Rùtuli! È mia
ogni frode; costui non osò, non poteva; pel cielo, lo giuro, e per le
consapevoli stelle. Sola sua colpa, che troppo amò l’infelice suo amico
». Così diceva; ma il ferro, vibrato con forza, attraversò le coste e
ruppe il candido petto. S'abbattè Eurìalo morendo, e per le mem-
bra leggiadre il sangue si spande, ed il collo si piega ab- bandonato
sopra le spalle: come quando un fiore pur- pureo che l’aratro ha reciso,
languisce morendo: o co- me quando i papaveri sul collo stanco la testa
piegano, se per caso li grava la pioggia. Ma Niso si slancia
nel mezzo, e solo, fra tutti, Volscente cerca, e sol di Volscente si cura. Gli
si affollano intorno i nemici, e d’ogni parte, da presso, lo
ricaccia- no; e nondimeno egli incalza ruotando la spada fulmi-
nea, finchè la piantò nella bocca del Rùtulo, che schia- mazzava, e, già
morente, rapì al nemico la vita. Poi. si gettò, crivellato di colpi sopra
l’esanime amico, ed ivi, infine, trovò in placida morte riposo. Fortunati
ambe- due! Se qualche valore ha il mio canto, giorno nessuno mai vi
torrà alla memoria dei tempi, finchè la stirpe di Enea terrà del
Campidoglio l’incrollabile rupe, e il padre della patria romana avrà qui
l'impero !. Vincitori i Rùtuli, con la preda e con le spoglie, pian-
gendo portavano esanime nell’accampamento Volscen- te. E non minore fu il
lutto nel campo, allorchè si sco- perse esangue Ramnete, ed insieme con
lui tanti duci uccisi alla strage, e Sarrano, e Numa; la folla si
accalca caede locum et plenos spumanti sanguine rivos. Agnoscunt
spolia inter se galeamque nitentem Messapi, et multo phaleras sudore
receptas. Et iam prima novo spargebat lumine terras Tithoni
croceum linquens ‘Aurora cubile; iam sole infuso, iam rebus luce
retectis, Turnus in arma viros, armis circumdatus ipse,
suscitat, aeratasque acies in proelia cogit quisque suas, variisque
acuunt rumoribus iras. Quin ipsa arrectis (visu miserabile) in hastis
praefigunt capita et multo clamore sequuntur Euryali et Nisi.
Aeneadae duri murorum in parte sinistra apposuere aciem, nam
dextera cingitur amni, ingentesque tenent fossas et turribus altis
stant maesti; simul ora virum praefixa movebant, nota nimis miseris
atroque fluentia tabo. Interea pavidam volitans pinnata per
urbem nuntia Fama ruit, matrisque adlabitur aures EURYALI. At
subitus miserae calor ossa reliquit: excussi manibus radii revolutaque
pensa. Evolat infelix, et femineo ululatu, scissa comam,
muros amens atque agmina cursu prima petit, non illa virum, non illa
pericli telorumque memor; caelum dehinc questibus implet: 480 « Hunc
ego te, EURYALE, adspicio? tunc illa senectae sera meae requies,
potuisti linquere solam, crudelis? nec te, sub tanta pericula
missum, adfari extremum miserae data copia matri? Heu, terra ignota
canibus data praeda Latinis alitibusque iaces, nec te, tua funera
mater produxi pressive oculos aut vulnere lavi, veste tegens, tibi
quam noctes festina diesque ai loro corpi, e ai guerrieri moribondi, ed al
luogo ancor caldo di strage recente, ed al sangue schiumante che
scorre in ruscelli. Riconoscon fra loro le epoglie, e di Messapo il
lucido elmo, e i fregi con grande sudore riavuti. ! E già di
nuova luce spargeva la terra la prima Aurora lasciando il giaciglio
croceo di Titone; già sorto il sole, già scoperte le cose alla luce, Turno,
già chiuso nell’armi, chiama alle armi i guerrieri; ed ordina ognuno in
battaglia le sue schiere coperte dî bronzo, e raccontan- do il fatto ne
acuisce gli sdegni. Anzi, o miserabile vieta!, piantan sull’aste i capi, e li
seguono forte gridando, di EURIALO e di NISO. Gli Enèadi saldi sulla
parte einistra dei muri ordinan la resistenza — chè la destra è
recinta dal fiume —, e difendono gli ampi fossati e stan mesti in cima
alle torri; e li sgomentano i volti con- fitti dei due guerrieri, ahi troppo
noti a loro infelici, e gocciolanti di marcia e di sangue.
Intanto messaggera la Fama volando alata per la città spaventata va
scorrendo, e agli orecchi giunge del- la madre di Eurìalo. Subitamente il
calore lasciò del- l’infelice le ossa: le cade di mano la spola e rotolan
giù i gomitoli. Esce correndo la misera, e, come donna, ur- lando,
stracciate le chiome, folle, raggiunge di corsa le mura e le prime
avanguardie; e non si cura, essa, dei guerrieri e del rischio dell’armi,
e il cielo riempie con i suoi lamenti: « Così ti rivedo, o Eurialo?
Ultimo ri- . poso alla mia vecchiezza, o crudele, lasciarmi sola
hai potuto? E non fu dato a tua madre infelice parlarti l’ultima
volta, quando movesti ad un rischio sì grande? Ahi, in terra ignorata,
preda ai cani latini ed agli uc- celli tu giaci; ed io, tua madre, non ho
seguito i tuoi resti mortali, e non ti ho chiusi gli occhi e lavate le
tue 4 - VircILI9 - Eneide - Vol. III urgebam et tela
curas solabar aniles. Quo sequar? aut quae nunc artus avulsaque
membra et funus lacerum tellus habet? hoc mihi de te, nate, refers?
hoc sum terraque marique secuta? Figite me, si qua est pietas, in
me omnia tela conicite, o Rutuli: me primam absumite ferro:
aut tu, magne pater Divum, miserere, tuoque 495 invisum hoc detrude
caput sub Tartara telo, quando aliter nequeo crudelem abrumpere
vita. » Hoc fletu concussi ariimi, maestusque per omnes
it gemitus; torpent infractae ad proelia vires. Illam
incendentem luctus Idaeus et Actor 500 Jlionei monitu et multum lacrimantis
Iuli corripiunt interque manus sub tecta reponunt. At
tuba terribilem sonitum procul aere canoro increpuit; sequitur clamor,
caelumque remugit. Accelerant acta pariter testudine Volsci et fossas
implere parant ac vellere vallum. Quaerunt pars aditum et scalis
ascendere muros, qua rara est acies interlucetque corona
non tam spissa viris. Telorum effundere contra omne genus
Teucri ac duris detrudere contis, 510 adsueti longo muros defendere
bello. Saxa quoque infesto volvebant pondere, si qua
possent tectam aciem perrumpere: cum tamen omnes ferre iuvat subter
densa testudine casus. Nec iam sufficiunt; nam, qua globus imminet ingens,
515 immanem Teucri molem volvuntque ruuntque, quae stravit
Rutulos late armorumque resolvit tegmina. Nec curant caeco contendere
Marte amplius audaces Rutuli, sed pellere vallo
missilibus certant. 520 Parte alia horrendus visu quassabat
Etruscam ferite, avvolgendoti poi nella veste che, giorno e notte,
per te, sollecita io tesseva, consolando al telaio i miei affanni senili.
Dove cercarti? Qual terra ha ora le tue membra troncate e la tua lacera
salma? Questo, o mio figlio, mi riporti di te? Questo, questo, per terra
e per mare, ho seguito? Me trafiggete, se in voi è alcuna pietà; su
me tutte l’armi scagliate, o Rùtuli; me prima uccidete col ferro! E se
no, abbimi misericordia tu, o gran padre dei numi, e col tuo dardo
scagliami questo mio capo odioso giù nel profondo del Tàrtaro, se in
al- tro modo non posso troncar questa vita crudele ». Si
consumarono i cuori a quel pianto, e mesto fra tutti un singhiozzare si
spande; si fiaccano infrante le forze dei guerrieri; ma Attore e Idèo,
per ordine di Ilionèo e di lulo molto piangente, la presero, chè
suscitava troppo dolore, ed a braccia la riportarono in casa.
Ma da lontano la tromba per il suo bronzo canoro squillò con
terribile suono; e la segue il grido di guerra e ne rimbombano L cieli.
Vengono i Volsci all'assalto, sotto la testuggin ‘!* serrati, e
s'accingono a colmare le fosse e a svellere il vallo '”. Altri cercano un
varco per la scalata alle mura, là dove rada è la schiera, e vi
tra- luce meno spessa di eroi la corona. Dall’altra' parte i Teucri
rovesciano ogni sorta di dardi, e li ricacciano giù con le lor dure
picche; chè erano avvezzi a difen- dere in lunga guerra le mura. E
rotolavano in basso ad offesa pesanti macigni, per tentar di spezzare la
schie- ra coperta: ma questa, sotto la densa testuggine, sop- porta
ogni colpo. Ma ormai non possono più; chè lad- dove più folta e
perigliosa è la schiera, un masso im- menso i Troiani rotolano e piombano
giù, che per un ampio tratto schiacciò i Rùtuli e ruppe il riparo
di scudi. Allora non pensano più, i Rùtuli audaci, a farpinum et
fumiferos infert Mezentius ignes. At Messapus equum domitor Neptunia
proles, rescindit vallum et scalas in moenia poscit. Vos, o
Calliope, precor, adspirate canenti, 525 quas ibi tunc ferro strages,
quae funera Turnus ediderit, quem quisque virum demiserit Orco, et
mecum ingentes oras evolvite belli; let meministis enim, Divae, et
memorare potestis). Turris erat vasto suspectu et pontibus altis,
530 opportuna loco, summis quam viribus omnes expugnare Itali
summaque evertere opum vi certabant, Troes contra defendere saxis
perque cavas densi tela intorquere fenestras. Princeps ardentem
coniecit lampada Turnus 535 et flammam adfixit lateri, quae plurima
vento | corripuit tabulas et postibus haesit adesis.
Turbati trepidare intus frustraque malorum velle fugam. Dum
se glomerant, retroque residunt in partem, quae peste caret, tum
pondere turris procubuit subito, et caelum tonat omne fragore.
Semineces ad terram, immani mole eecuta, confixique suis
telis et pectora duro transfossi ligno veniunt. Vix unus
Helenor et Lycus elapsi, quorum primaevus Helenor, Maeonio regi
quem serva Licymnia furtim sustulerat vetitisque ad Troiam miserat
armis, ense levis nudo parmaque inglorius alba. Isque,
ubi se Turni media inter milia vidit, hinc acies atque hinc acies
adstare Latinas; ut fera, quae, densa venantum saepta corona,
contra tela furit seseque haud nescia morti inicit et saltu
supra venabula fertur: haud aliter iuvenis medios moriturus in
hoetes guerra così al coperto, ma lanciano dardi al nemico per
discacciarlo dal vallo. In altra parte, orrendo a vedersi, squassava la
fiaccola etrusca '* Mesenzio, e fuochi fu- manti lanciava. E intanto
Messapo, il domator di cavalli, prole nettunia, rompeva il vallo e chiedeva
le scale a salir sulle mura. Voi '’, o Calliope, ti prego,
ispirate il mio canto: quali stragi ivi col ferro, e che lutti Turno
spargesse, e chi ogni guerriero laggiù nell’Orco respinse; e meco il
gran quadro della guerra svolgete. Chè tutto voi ricordate, o Dee,
e agli altri ricordarlo potete. °° V’era una torre, altissima a
guardarla dal basso, con erti ponti, opportunamente disposta; e tutti con
ogni forza lottavano gli Itali per espugnarla, e con estrema |
violenza tentavan di abbatterla: ma di rincontro i Tro- iani fitti la
difendevan coi sassi e scagliavano dardi pei vani delle finestre. Primo
Turno lanciò una fiaccola ar- dente, e nel fianco vi confisse una fiamma,
che, nutrita dal vento, invase le tavole, e alle imposte corrose si
apprese. Spaventati, quelli di dentro, si scompigliano, e invano cercan
fuggendo lo scampo. E mentre si affol- lano, e s’arretrano in una parte
ancora illesa dal fuo- co, allora a quel peso la torre improvvisamente si
schian- ta, e tutto a quel fragore il cielo rintuona. A terra semi-
vivi, sotto l'enorme mole, cadono, dalle lor armi trafitti o trapassato
il petto dal duro legno. Due soli appena, Elènore e Lico, scamparono; dei
quali il giù giovine, Elènore, Licinnia, una schiava, avea generato ad un
re Meonio con amore furtivo: e, con armi vietate ?!, a Troia
l’aveva mandato, alla leggera, con sola la spada, oscuro, e con un
semplice scudo. Ma egli, come si vide in mezzo ai mille di Turno, e
d’ogni parte incalzarlo schiere e schiere latine: come una belva che
cinta da un denso irruit et, qua tela videt densissima tendit. 559
At pedibus longe melior Lycus inter et hostes inter et arma fuga
muros tenet altaque certat prendere tecta manu sociumque attingere
dextras. Quem Turnus, pariter cursu teloqye secutus, increpat
his victor: « Nostrasne evadere, demens, 560 sperasti te posse manus? »
simul arripit ipsum pendentem, et magna muri cum parte revellit:
qualis ubi aut leporem ‘aut candenti corpore cycnum sustulit alta
petens pedibus Iovis armiger uncis, quaesitum aut matri multis balatibus agnum
965 Martius a stabulis rapuit lupus. Undique clamor tollitur;
invadunt et fossas aggere complent; ardentes taedas alii ad
fastigia iactant. Ilioneus saxo atque ingenti fragmine montis
Lucetium portae subeuntem ignesque ferentem, : 570 Emathiona Liger,
Corynaeum sternit Asylas, hic iaculo bonus, hic longe fallente
sagitta; Ortygium Caeneus, victorem Caenea Turnus,
Turnus Ityn Cloniumque, Dioxippum Promolumque et Sagarim et
summis stantem pro turribus Idam: Privernum Capys. Hunc primo levis hasta
Themillae strinxerat; ille manum proiecto tegmine demens ad
vulnus tulit; ergo alis adlapsa sagitta et laevo infixa est lateri
manus abditaque intus spiramenta animae letali vulnere rupit. Stabat in
egregiis Arcentis filius armis, pictus acu chlamydem et ferrugine
clarus Ibera, insignis facie, genitor quem miserat Arcens eductum
Matris luco Symaethia circum flumina, pinguis ubi et placabilis ara
Palici. Stridentem fundam, positis Mezentius hastis ipse ter
adducta circum caput agit habena, cerchio di cacciatori, infuria contro le
armi, e conscia si slancia a morire, e con un balzo sopra gli spiedi
si lancia, non altrimenti il giovane morituro si getta nel mezzo ai
nemici, e, dove vede più folte le armi, là ten- de. Ma, più veloce alla
corsa, Lico, fra i nemici e fra l’armi fuggendo è già presso alle mura, e
cerca di af- ferrarsi là al sommo, e di aggrapparsi alle mani dei
com- pagni;. ma Turno, a corsa, e con l’armi, lo segue e lo giunge,
e, vincitore, l’oltraggia: « Folle, sperasti tu dun- que dalle mie mani
scampare? » e sì dicendo lo affer- ra penzoloni e lo svelle con una gran
parte del muro: come quando una lepre o un cigno dal candido corpo
si porta nell’alto l’armigero di Giove °° con piedi arti- gliati, o come
quando il marzio lupo rapisce dalla stal- la un agnello, e lo cerca con
lunghi belati la madre. Si alzan da ogni parte le grida; vanno
all’assalto, e col. man di terra i fossati; altri fiaccole ardenti
lanciano verso le cime. Ilioneo con un sasso, un enorme pezzo di
monte, abbatte Lucezio, che già era sotto alla porta per appicarvi il
fuoco; Lìgero atterra Emazione: Asila, Corineo; l’uno valente nell’asta,
l’altro nel dardo che coglie da lungi. Cèneo uccide Ortigio; e Turno, il
vin- citore Cèneo; Turno, Iti e Clònio e Diossippo e Pròmolo e
Sàgari e Ida, che guardava le altissime torri. Capi uccise Priverno.
L’aveva sfiorato da prima lievemente la lancia di Temilla; ed egli,
gettato lo scudo, folle por- tò la mano alla ferita: e allora, volando,
una freccia gli piantò nel fianco sinistro la mano, ed entrando gli
rup- pe con mortale ferita i polmoni. Stava nell’armi egre- gie il
figlio di Arcente, con ricamata la clàmide, spleu- dente di porpora ibèra
#, bello di aspetto, che il padre Arcente aveva mandato; ed allevato lo
aveva di Cibele nel bosco, presso alle correnti del Simeto, là dove
è et media adversi liquefacto tempora plumbo diffidit ac multa
porrectum extendit harena. Tum primum bello celerem intendisse
sagittam dicitur, ante feras solitus terrere fugaces, Ascanius,
fortemque manu’ fudisse Numanum cui Remulo cognomen erat, Turnique
minorem germanam nuper thalamo sociatus habebat. Is primam ante
aciem digna atque indigna relatu vociferans, tumidusque novo praecordia
regno ibat et ingentem sese clamore ferebat: « Non pudet obsidione
iterum valloque teneri, bis capti Phryges, et morti praetendere muros?
En qui nostra sibi bello conubia poscunt! Quis Dens Italiam, quae vos
dementia adegit? Non hic Atridae nec fandi fictor Ulixes: durum ab
stirpe genus natos ad flumina primum deferimus saevoque gelu duramus et
undis: venatu invigilant pueri silvasque fatigant, flectere ludus
equos et spicula tendere cornu. At patiens operum parvoque adsueta
iuventus aut rastris terram domat aut quatit oppida bello. Omne
aevum ferro teritur, versaque iuvencum terga fatigamus hasta; nec tarda
senectus debilitat vires animi mutatque vigorem; canitiem galea
premimus, semperque recentes comportare iuvat praedas et vivere
rapto. Vobis picta croco et fulgenti murice vestes, desidiae cordi;
iuvat indulgere choreis, . et tunicae manicas et habent redimicula
mitrae. O vere Phrygiae, neque enim Phryges, ite per alta Dindyma,
ubi adsuetis biforem dat tibia cantum. Tympana vos buxusque vocant
Berecyntia matris Idaeae: sinite arma viris et cedite ferro. » pingue
di doni e mite l’altar di Palìco **. Posate le aste, tre volte rotando la
fune al suo capo, Mesenzio stesso lanciava la fionda stridente; e con il
piombo disciolto *. gli ruppe nel mezzo le tempie, e lo rovesciò lungo
di- steso sul suolo. Dicon che allora, la prima volta
scagliasse in guerra il suo agile dardo Ascanio, già assuefatto a
spaventare in fuga le fiere, e di sua mano abbattesse il forte Numano,
Rèmolo detto, che aveva da poco sposata la sorella minore di Turno. Quegli,
davanti a tutti, vociferando a diritto e a rovescio, gonfio nel cuore della fresca
real parentela, andava avanzando borioso gridan- do: « E non vi
vergognate, o Frigi acchiappati due vol. te, di stare un’altra volta
dentro ad un vallo assediati, e di opporre alla morte le mura? Eccoli,
quelli che chie- dono le nostre spose con l’armi! Qual Dio vi ha
spinti in Italia o quale vostra follia? Non sono qui gli Atridi, nè
Ulisse spacciatore di frottole. Dura razza fin dalla ra- dice, i nostri
figli tuffiamo appena nati nei fiumi, e li induriamo al crudo gelo
dell’onde. Fanciulli, si danno alle cacce e stamcan le selve, ed è lor
gioco domare ca- valli e tender dall'arco le frecce. Poi, pazienti al
lavoro e paghi di poco, i giovani doman la terra coi rastri, o
scrollano in guerra le mura. Ogni età si consuma tra il ferro, e con
l’asta a rovescio pungiamo le terga dei buoi; nè la vecchiaia, ancor
tarda, indebolisce le forze del- l’animo o ne muta il vigore; premiamo
con l’elmo i ca- pelli canuti, e sempre ci giova portar via prede novelle
e vivere della rapina. Ma voi amate le vesti dipinte di croco e di
porpora splendida; vi piace badare alle dan- ze, con tuniche adorne di
maniche e mitre guarnite di nastri. O veramente Frige, e non Frigi,
andate per l’alto del Dìndimo ?‘, dove solete ascoltare il canto del
flauto Talia iactantem dictis ac dira canentem non tulit Ascanius,
nervoque obversus equino intendit telum, diversaque bracchia ducens
constitit, ante lovem supplex per vota precatus: « Iuppiter omnipotens,
audacibus adnue coeptis, = 625. ipse tibi ad tua templa feram sollemnia
dona et statuam ante aras aurata fronte iuvencum, candentem,
pariterque caput cum matre ferentem, iam cornu petat et pedibus qui
spargat harenam. » Audiit et caeli genitor de parte serena intonuit
laevum, sonat una fatifer arcus. Effugit horrendum stridens adducta
sagitta perque caput Remuli venit et cava tempora ferro traicit. «
I, verbis virtutem illude superbis! bis capti Phryges haec Rutulis
responsa remittunt. Hoc tantum Ascanius. Teucri clamore sequuntur,
laetitiaque fremunt animosque ad sidera tollunt. Aetheria tum forte plaga
crinitus Apollo desuper Ausonias acies urbemque videbat, nube
sedens, atque his victorem affatur Iulum: 640 « Macte nova virtute, puer:
sic itur ad astra, Dis genite et geniture Deos. Iure omnia bella
gente sub Assaraci fato ventura resident: nec te Troia capit. » Simul
haec effatus ab alto aethere se mittit, spirantes dimovet auras,
645 Ascaniumque petit. Forma tum vertitur oris antiquum in Buten.
Hic Dardanio Anchisae armiger ante fuit fidusque ad limina custos.
Tum comitem Ascanio pater addidit. Ibat Apollo omnia longaevo similis,
vocemque coloremque 650 et crines albos et saeva sonoribus arma;
atque his ardentem dictis adfatur Iulum: « Sit satis, Aenide, telis
impune Numanum a due canne. Vi chiamano i timpani del Berecinto e il
flauto di bosso della gran Madre idèa; lasciate agli uo- mini l’armi e
rinunciate alla guerra ». Le vanterie e gli insulti non tollerò
Ascanio, e men- tr’egli sbraitava, di fronte a lui incoccò sul nerbo
equi- no °° una freccia, e con le braccia aperte stiè fermo, pri-
ma levando a Giove, supplichevole, il voto: « O Giove onnipotente,
consenti all'audace mia impresa. Ed io solenni doni ti recherò ai tuoi
templi, ed agli altari un giovenco t'immolerò, dalle corna dorate,
candido, che porti il capo alto al par della madre, e già cozzi e
coi piedi sparga all’intorno l’arena ». L’udì il Padre, e dalla
plaga serena del cielo tuonò da sinistra: ed insieme ri- suonò il suo
arco fatale. OCrribilmente stridendo fuggì la scagliata saetta, e dentro
il capo di Rèmolo s’infisse e trapassò col ferro le concave tempia. « Va,
schernisci il valore con le parole superbe! I Frigi, due volte
acchiap- pati, questa risposta ai Rùtuli inviano ». Nè altro disse
Ascanio; ma i Teucri lo applaudon gridando, e fremon di letizia, ed
alzano il cuore alle stelle. Proprio allora, dall’alto del cielo Apollo
crinito stava mirando le schie- re ausonie ed il campo, seduto sopra una
nube; e a Iulo vittorioso volgeva queste parole: « Bene, o valoroso
fanciullo! Così si ascende alle stelle, o progenie di nu- mi che dovrai
generare altri numi. Ben tutte le guerre future, per volere dei fati, sotto
la stirpe di Assàraco dovranno aver fine °°: troppo poco è Troia per te
». Ciò detto, dall’alto dell’etere si getta, e fende le aure
vitali, e viene ad Ascanio, mutando l’aspetto del volto in quello
di Bute, l’anziano. Questi già era stato di Anchise dar- danio scudiero e
fido custode alle soglie. Poscia il padre lo diede compagno ad Ascanio;
ed Apollo veniva simile in tutto a quel vecchio, la voce, il colore, i
capelli canoppetisse tuis: primam hanc tibi magnus Apollo concedit
laudem et paribus non invidit armis:cetera parce, puer, bello. » Sic orsus
Apollo mortales medio adspectus sermone reliquit, et
procul in tenuem ex oculis evanuit auram. Agnovere Deum proceres
divinaque tela Dardanidae, pharetramque fuga sensere sonantem.Ergo
avidum pugnae dictis ac numine Phoebi Ascanium prohibent: ipsi in
certamina rursus succedunt animasque in aperta pericula
mittunt. It clamor totis per propugnacula muris:
intendunt acres arcus amentaque torquent. 665 Sternitur omne
solum telis; tum scuta cavaeque dant sonitum flictu galeae; pugna
aspera surgit; quantus ab occasu veniens pluvialibus Haedis .
verberat imber humum: quam multa grandine nimbi in vada
praecipitant, cum Iuppiter horridus Austris torquet aquosam hiemem et caelo
cava nubila rumpit. Pandarus et Bitias, Idaeo Alcanore creti,
quos Iovis eduxit luco silvestris Iaera abietibus iuvenes
patriis et montibus aequos, portam, quae ducis imperio commissa,
recludunt, freti armis, ultroque invitant moenibus hostem. Ipsi
intus dextra ac laeva pro turribus adstant, armati ferro et cristis
capita alta corusci: quales aériae liquentia flumina circum,
sive Padi ripis Athesim seu propter amoenum, 680 consurgunt
geminae quercus intonsaque caelo | attollunt capita et sublimi
vertice nutant. Irrumpunt, aditus Rutuli ut videre patentes.
Continuo Quercens et pulcher Aquicolus armis et praeceps
animi Tmarus et Mavortius Haemon agminibus totis aut versi terga dedere,
didi e l’armi ferocemente sonanti: ed all’ardente Iulo si volge con
queste parole: « Ti basti, o figliuolo d’E- nea, che sia caduto Numano
per il tuo colpo e senza tuo male; questa prima lode a te il grande
Apollo concede, e non t’invidia se tu lo eguagli nell’ arco; ma d’ora
in poi, o fanciullo, astieniti dal guerreggiare ». Così di- cendo
Apollo, a mezzo il discorso lasciò l'aspetto mor- tale e lontano svanì
dagli occhi nell’aria leggera. Rico- nobbero il Dio gli anziani dei
Dàrdani, e l’armi divine, e sentiron sonare, mentr'egli fuggìa, la
faretra. Onde ai detti e al volere di Febo allontanavano. Ascanio,
avi- do ancora di pugna; ritornano essi a combattere, ed espongono
nell’aperto periglio la vita. S'alza da tutte le mura per tutte le torri
un clamore: tendono gli ar- chi gagliardi e lanciano i giavellotti. Il
suolo tutto si copre di strali; ai colpi risuonan gli scudi e i
concavi elmi; insorge dura la pugna. Così al venir da ponente,
sotto i Capretti piovosi °°, sferza la pioggia la terra; così con la
grandine precipitano i nembi sul mare, quando orrido Giove con gli Austri
turbina l’acque a diluvio, e nel cielo le concave nubi dirompe.
Pàndaro e Bizia, da Alcànore Idèo generati, che nel bosco di Giove
allevòo la silvestre Ièra *, giovani pari agli abeti dei monti paterni,
apron la porta, che il duce aveva a loro affidata, fiduciosi nell’armi, e
il nemico provocano a entrar nelle mura. Ed essi là dentro, a destra e a
sinistra, si rizzano a guisa di torri, di ferro armati, e corruschi gli
erti capi di creste; come aeree lunghesso 1 fiumi correnti, sulle sponde
del Po o presso l'Adige ameno, sorgon due querce gemelle, e innalzano le
chio- me intonse nel cielo, con le cime sublimi ondeggiando.
Irrompono i Ruùtuli, poi che videro aperte le porte; ma tosto Quercente e
Aquìcolo bello nell’armi e Tmaro aut ipso portae posuere in limine
vitam. Tum magis increscunt animis discordibus irae: et iam
collecti Troés glomerantur eodem et conferre manum et procurrere longius
audent. 690 Ductori Turno diversa in parte furenti
turbantique viros perfertur nuntius, hostem fervere caede nova et portas
praebere patentes. Deserit inceptum atque immani concitus ira
Dardaniam ruit ad portam fratresque superbos. 695 Ét primum Antiphaten
(is enim se primus agebat), * Thebana de matre nothum Sarpedonis
alti, coniecto sternit iaculo: volat Itala cornus aéra per tenerum,
stomachoque infixa sub altum pectus abit: reddit specus atri vulneris
undam 700 spumantem, et fixo ferrum in pulmone tepescit. Tum
Meropem atque Erymanta manu, tum sternit [Aphidnum:
‘tum Bitiam ardentem oculis animisque frementem, non iaculo (neque
enim iaculo vitam ille dedisset). Sed magnum stridens contorta phalarica
venit,, 705 fulminis acta modo, quam nec duo taurea terga nec
duplici squama lorica fidelis et auro sustinuit. Collapsa ruunt immania
membra. Dat tellus gemitum, et clipeum super intonat ingens. Talis
in Euboico Baiarum litore quondam 710 saxea pila cadit, magnis quam
molibus ante constructam ponto iaciunt; sic illa ruinam prona
trahit penitusque vadis illisa recumbit; miscent se maria et nigrae
attolluntur harenae; tum sonitu Prochyta alta tremit, durumque cubile
715 Inarime Iovis imperiis imposta Typhoeo. Hic Mars
armipotens animum viresque Latinis addidit et stimulos acres sub pectore
vertit l’impetuoso ed il marziale Emone, con tutte le schiere, o
volser fuggendo le spalle, o sulla soglia stessa della porta lasciaron la
vita. Allora crescon vie più nei cuori discordi le ire; e già ammassati i
Troiani si stringon colà, ed osan venire alle mani e avanzarsi fuori
più lungi. Al duce Turno, che in altra parte infuriava e
sgomi- nava i guerrieri, giunge la nuova: il nemico arde di strage
novella, e aperte si offron le porte. Lascia l’im- presa e spinto
dall’ira tremenda, contro la porta darda- nia si scaglia e i fratelli
superbi. E per il primo Antifate (poichè avanzava pel primo) di madre tebana
ba- stardo di Sarpèdone alto, colpisce ed abbatte col dardo: vola
il corniolo italico *' per l’aria leggera, e piantatosi in gola scende
nel fondo del petto; sgorga dalla caver- na della negra ferita un'onda
spumante, e nel polmone trafitto intiepidisce il ferro. Poi Mèrope ed
FErimante abbatte, poi Afidno, poi Bizia che Iampeggiava con gli
occhi e con il cuore fremeva; ma non con un dardo, chè quegli con un
dardo non dava la vita! Ma fortemen- te stridendo una falàrica **° venne,
lanciata a guisa di un fulmine, cui le due pelli taurine non ressero, nè
la fe- dele corazza di doppia squama dorata. Le membra immani
stramazzano; la terra ne geme, e di sopra lo ecu- do immenso rintuona.
Tale nel lido euboico di Baia . cade talora un blocco di macigni che
costruiscon prima con grandi massi e poi gettan nel mare; così esso
rovina all’ingiù, e scagliato nel più profondo si arresta: ma
ribollon le onde e negre si sollevan le arene, e a quel fragore l’alta
Pròcida trema, ed Ischia, che per co- mando di Giove, fu posta, duro
letto, sopra Tifèo. Qui Marte signore dell’armi coraggio e forza ai
La- tini crebbe ed acuti gli sproni rivolse loro nel cuore, e immisitque
Fugam Teucris atrumque Timorem. Undique conveniunt, quoniam data copia
pugnae, bellatorque animo Deus incidit. Pandarus ut fuso
germanum corpore cernit, et quo sit fortuna loco, qui casus agat
res, portam vi magna converso cardine torquet, obnixus latis
umeris; multosque suorum moenibus exclusos duro in certamine
linquit; ast alios secum includit, recipitque ruentes, demens, qui
Rutulum in medio non agmine regem viderit irrumpentem, ultroque incluserit
urbi, immanem veluti pecora inter inertia tigrim. Continuo nova lux
oculis effulsit, et arma horrendum sonuere: tremunt in vertice
cristae sanguineae, clipeoque micantia fulmina mittit. Agnoscunt
faciem invisam atque immania membra turbati subito Aeneadae. Tum Pandarus
ingens emicat, et mortis fraternae fervidus ira effatur: «
Non haec dotalis regia Amatae, nec muris cohibet patriis media
Ardea Turnum: castra inimica vides; nulla hinc exire potestas. »
Olli subridens sedato pectore Turnus: « Incipe, si qua animo
virtus, et consere dextram: hic etiam inventum Priamo narrabis Achillem.
» Dixerat. Ille rudem nodis et cortice crudo intorquet summis
adnixus viribus hastam. Excepere aurae: vulnus Saturnia luno
detorsit veniens, portaeque infigitur hasta. At non hoc telum, mea
quod vi dextera versat, effugies: neque enim is teli nec vulneris auctor.
» Sic ait, et sublatum alte consurgit in ensem, et mediam
ferro gemina inter tempora frontem dividit impubesque immani vulnere malas.
contro i Teucri lanciò la Fuga ed il cupo Terrore. Ac- corrono da ogni
parte quelli, poichè si combatte da presso, ed il guerriero Iddio entrato
è a loro nel cuore. Pandaro, come vede a terra disteso il fratello, e che
la fortuna è per gli altri ed è contrario l'evento, a gran forza,
puntando l’ampie spalle, la porta spinge sui car- dini e serra; e molti
dei suoi lascia fuor delle mura in aspra battaglia; ma altri riesce a
chiuder con sè e li accoglie che precipitavano dentro. Folle, che il
rùtulo ‘re non vide, che in mezzo alla schiera dentro irrompeva, ed
anzi lo serrava nel campo, come, tra un gregge im- belle, feroce una
tigre; di sùbito, gli sfavillo dagli oc- chi una luce novella, e le armi
orribilmente suonarono: si squassan sull’'elmo le creste sanguigne, ed
agitando lo scudo vibra bagliori di lampi. Riconoscon la faccia
odio- sa e le membra giganti, di subito _sgomenti gli Enèadi.
Allora gli sbalza davanti Pàndaro immenso, e fremendo d’ira pel morto
fratello, grida: « Non è questa la reggia dotale di Amata, nè qui è
Ardea, che Turno rinchiuda fra le mura paterne. Campo nemico è questo che
vedi; ed uscir non potrai ». A lui sorridendo Turno con cuore
pacato: « Orsù, se hai coraggio, combatti con me: rac- conterai a Priamo
che anche qui s’è trovato un Achil- le ». Sì disse; e quegli, con ogni
sua forza poggiando, aspro di nodi e di ruvida scorza un giavellotto
lanciò. Ma colpì l’aria, chè la saturnia Giunone deviò il colpo
mortale, e l’asta contro la porta s’infisse. « Ma non tu questa spada,
che ruota la mia destra a gran forza, sfug- girai: chè di un altro è
l’arma ed è la ferita ». Così dis- se, e si alzò con tutta la spada
levata; e con il ferro la fronte gli spaccò in mezzo alle tempie, e, con
orrenda ferita, ancora imberbi le guance. Fu un fragore, e la terra
fu scossa al cader del gran peso; stende egli a 5 - VirciLio -
Eneide - Vol. III Fit sonus, ingenti concussa est pondere
tellus: collapsos artus atque arma cruenta cerebro sternit
humi moriens, atque illi partibus aequis. huc caput atque illuc
umero ex utroque pependit. 755 Diffugiunt versi trepida formidine
Troés; et si continuo victorem ea cura subisset,
rumpere claustra manu sociosque immittere portis, ultimus
ille dies bello gentique fuisset. Sed furor ardentem caedisque
insana cupido 7160 egit in adversos. Principio Phalerim
et succiso poplite Gygen excipit: hinc raptas fugientibus ingerit
hastas in tergum. Iuno vires animumque ministrat; addit
Halym comitem et confixa Phegea parma, 765 ignaros deinde in muris
Martemque cientes Alcandrumque Haliumque Noémonaque
Prytanimque. Lyncea tendentem contra sociosque vocantem ©
vibranti gladio conixus ab aggere dexter occupat: huic uno
deiectum comminus ictu 170 cum galea longe iacuit caput. Inde ferarum
| vastatorem Amycum, quo non felicior alter ungere tela
manu ferrumque armare veneno, et Clytium Aeoliden, et amicum
Crethea Musis, Crethea Musarum comitem, cui carmina semper
775 et citharae cordi numerosque intendere nervis:
semper equos atque arma virum pugnasque canebat. Tandem ductores,
audita caede suorum, conveniunt Teucri, Mnestheus acerque
Serestus, palantesque vident socios hostemque receptum. 780
Et Mnestheus: « Quo deinde fugam, quo tenditis? inquit. Quos
alios muros, quae iam ultra moenia habetis? Unus homo et vestris, o
cives, undique saeptus aggeribus, tantas strages impune per
urbem terra morendo le membra prostrate e le armi sozze di sangue e
di cèrebro; e da ambedue le spalle gli pen- zola un capo e di qua e di
là. Fuggon respinti da pau- roso terrore i Troiani; e se il vincitore
pensava, in quel momento, a spezzare i cancelli e a far entrar per
la porta i compagni, l’ultimo giorno era quello della guer- ra e
del popol troiano. Ma il suo furore e un folle desi- derio di strage lo
scagliò impetuoso in mezzo ai nemici. Prima egli affronta Fàlari, e a
Gige recide il garretto; poi toglie loro le aste e le lancia alle spalle
ai fuggenti. Forze e coraggio gli somministra Giunone. Hali dà lor
per compagno, e, trafittogli lo scudo, Fegeo; poi, mentre ignari sulle
mura incitavano a guerra, Alcandro, ed Alio, e Noèmone, e Prìtani.
Lìnceo, che gli veniva incontro e chiamava i compagni, egli previene,
rotando la epada, dallo steccato a destra: e d’un sol colpo da presso,
il capo troncato si giacque insieme con l’elmo lontano. Poi, Amico,
il distruttore di fiere, di cui altri non era più esperto ad unger gli
strali e avvelenare le armi; poi, Clizio l’eòlide, e amico alle Muse
Creteo, Creteo alle Muse compagno, che sempre i carmi e le cetre ebbe
a cuore, e l’armonia delle corde: sempre i corsieri e le ar- mi e
le pugne eroiche cantava. Alfine i Teucri duci, udita la strage dei
loro, accor- rono, Mnèsteo ed il padre Seresto, e vedono rotti i
com- pagni, e, fra le mura, il nemico. E Mnèsteo: «E poi, dove
fuggite? dove andare volete? — diceva. — E che altre mura, che altra
città vi rimane? Un uomo solo, e d’ogni parte rinchiuso dai vostri
steccati, potrà, o cit- tadini, di stragi riempir la città, impunemente?
Tanti fra i primi guerrieri manderà giù nell’Orco? Non della misera
patria e degli antichi Iddii, e del magnanimo Enea, codardi, vi tocca
misericordia o vergogna? » Ac- ediderit? iuvenum primos tot miserit
Orco? 785 Non infelicis patriae veterumque Deorum et magni Aeneae,
segnes, miseretque pudetque? » Talibus accensi firmantur et agmine
denso consistunt. Turnus paulatim excedere pugna “et
fluvium petere ac partem, quae cingitur unda: 790 acrius hoc Teucri
clamore incumbere magno et glomerare manum, ceu saevum turba
leonem cum telis premit infensis, at territus ille asper,
acerba tuens, retro redit, et neque terga ora dare aut virtus
patitur, nec tendere contra, 795 ille quidem, hoc cupiens, potis est per
tela virosque: haud aliter retro dubius vestigia Turnus
improperata refert, et mens exaestuat ira. Quin etiam bis tum
medios invaserat hostes, bis confusa fuga per muros agmina vertit;
800 sed manus e castris propere coit omnis in unum: nec
contra vires audet Saturnia luno sufficere, aériam caelo nam
luppiter Irim demisit, germanae haud mollia iussa ferentem, ni
Turnus cedat Teucrorum moenibus altis. Ergo nec clipeo iuvenis subsistere
tantum, nec dextra valet; iniectis sic undique telis
obruitur. Strepit adsiduo cava tempora circum tinnitu galea,
et saxis solida aera fatiscunt, discussaeque iubae capiti, nec sufficit
umbo ictibus; ingeminant hastis et Troès et ipse fulmineus
Mnestheus. Tum toto corpore sudor liquitur et piceum (nec respirare
potestas) flumen agit: fessos quatit acer ànhelitus artus.
Tum demum praeceps saltu sese omnibus armis — 815 in fluvium dedit.
Ille suo cum gurgite flavo accepit venientem ac mollibus extulit
undis et laetum sociis abluta caede remisit. cesi da tali parole,
riprendono cuore, e in ischiera ser- rata lo affrontano: e Turno a passo
a passo si ritrae dal- la battaglia, volgendo verso il fiume e la parte
che n’era ricinta; e però più accaniti i Troiani lo incalzan con
grande clamore, addensando le schiere. E come quando un feroce leone
stringon da presso con l’armi ostili i cac- ciatori, e quello, fiero, e
torvo lo sguardo, retrocede, ma nè l’ira o il valore non gli lascian
voltare le spalle; ma neppure potrebbe, benchè desioso, lanciarsi in
mezzo alle armi e alla turba: non altrimenti Turno, dubbioso,
lentamente si arretra, e il cuore per l’ira gli bolle. Anzi, due volte si
era gettato in mezzo ai nemici, due volte volse in fuga per le mura le
schiere sconvolte; ma tutto rapidamente si accoglie dal campo l’esercito
contro lui solo, nè altre forze formirgli osa la Saturnia Giunone,
giacchè aerea dal cielo Giove Iride inviava, con suoi bruschi comandi
alla sorella **, se Turno non lasciasse le mura alte dei Teucri. Dunque
non può il giovane con lo scudo o con la mano resistere ancora: son
troppi i dardi che d’ogni parte gli piovono giù. Senza riposo
tinnisce intorno alle concave tempie l’elmo, ed il solido bronzo
s’incrina alle pietre, e le creste si rovescian dal capo, e ai colpi non
basta lo scudo; raddoppian l’assalto i Troiani con l’aste, e primo, fulmineo,
Mnèsteo. Da tutto il corpo il sudore allora gli gronda, e gli cola
— omai il respiro gli manca — in un fiume color della pece. E
finalmente allora, a precipizio, di un salto, con tutte le armi, nel
fiume si lanciò; e quello, con la sua bionda corrente l’accolse, e lo
tenne sopra le onde tran- quille, e, della strage asterso, lieto ai
compagni lo rese.Angelo Conti. Keywords: VIRGILIANA, decadente, decadenza,
divina decadenza, filosofia decadente, filosofo decadente, decadentismo,
divinely decadent – d’annunzio, museo d’annunziano, il bello e il bizzarro, il
bello bizzarro, estetica, sensatio, senso, sensum, sentior, sentitum,
perceived, perceptum – sense and sensibilia, estetico/noetico (nihil est in
intellectu qui prior non fuerit in sensu), propieta estetica, proprieta di
secondo grado, secondary quality, Grice, Sibley, Scruton, Platone, Kant,
Schopenhauer, Ruskin, Pater, Antichita, antico e moderno, il fascino dell’antico,
from the antique, from life, Uffizi, Accademia Venezia, RegieAccademiadiVenezia,
Capodemonti, Napoli, Antichita Roma, il fiume d’Eraclito, Ulisse e il canto
delle sirene, Morelli, Francesco, Virgilio, dolcissimo padre, ascetismo,
ascecis, zorzi, riva beata, Pater, Essay on Style by Pater, Da Vinci, Morelli,
la nudita eroica d’Enea – Luigi Ratini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti”
– The Swimming-Pool Library.
Grice e Conti: l’implicatura converseazionale
del dialogo filosofico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Grice: “Conti is
a good one; for one he is a ‘patrizio veneziano,’ for another he like Alexander
Pope and detests Newton! (Italian temper there!) – My favourite are his
“Dialoghi filosofici,’ full of implicata as they are!” Patrizio veneto,
classicista, famoso per essere stato arbitro nella controversia tra Leibniz e
Newton, circa l'invenzione del calcolo infinitesimale (keyword: infinito). Si
lege in amicizia con Fay, noto per gli
esperimenti fisici che conduce all'Accademia delle Scienze. Di lui esiste una
statua in Prato della Valle, fatta da Chiereghin. Scrive saggi riguardanti la
struttura della tragedia, e nel “Trattato del fantasma poetico” discute la
funzione del coro: monologo, dialogo, coro (terza persona?). Tra le sue
tragedie, la più significativa fu il “Giulio Cesare”. Ne scrive altre tre,
tutte di soggetto romano: “Marco Bruto”, “Giunio Bruto”, e “Druso”. Altre
opere: “Opere” (Venezia, presso Giambatista Pasquali); “Versioni poetiche”
(Bari, Laterza). Dizionario biografico degli italiani. Della nascita del C. sono
r’ſuoi veri pu dj. Principio de’ suoi studi scritto da lui stero. Disputa col
Nigrisoli e altre particolarità de’ suoi studi sono al primo viaggio di
Francia. Primo viaggio in Francia. Primo viaggio in Inghilterra e prime
conversazioni col Newtono. Mediazione tra il Newtono e il Leibnizio Studi e
altre occupazioni di Conti a Londra. Suoi sudj di belle lettere. Viaggio
d'Ollanda e d'Allemagna. Nuova dimora in Inghilterra. Ritorno in Francia e ſuoi
pudi. Amicizie. e converſazioni in queſti anni in Francia. Querela col Newtono.
Suo ritorno in Italia. Edizione del Cesare. Studi e commerzi. Edizione delle
ſue Prose e Poesie. Sue Tragedie. Illustrazione del Parmenide di Velia di
Platone; fima e onori di C.. Traduzioni. Altri suoi fudi. Progetti di nuove
opere. Ultimi ſtudi. Edizione del Druso; ſua morte. Rifleli Jul carattere di C.,
e notizie particolari della sua vita private. Relazione de’ Manoscritti
lasciati da C. Dell' Imitazione. Del Fantasma Poetico. La Poesia Greca.
Allegoria dell'Eneide di Virgilio. Illuſtrazione dello Scudo di Enea.
Illustrazione del Poema di Catullo intitolato le Nozze di Teride e di Peleo.
Dissertazione sopra la Tebaide di Stazio. Discorso ſopra la Italiana Poesia.
Illustrazione del Dialogo di Fracastoro intitolato il Na. wagero, o fia della
Poesia. Disertazione sopra la Ragion Poetica del Gravina. Della Potenza
conoscitiva dell'Anima. Della Fantasia. Poesie Tradotte dall' Inglese. Al Sig. Marcheſe
Manfredo Repeta sopra il Poema del Riccio Rapito. Il Riccio Rapito. Prose
Franceſe Italiane a Monſieur Perel. Dialogue ſur la Nature de l' Amour. Lettre
à Madame la Preſidente Ferrant. Lettera al Sig. Cavalier Vallisnieri. Al sig.
Marcheſe Maffei. Al N. U. Sig. Benedetto Marcello. Al P. D. Bernardo Piſenti C.
R. Somaſco.A Monſignor Cerarti. L’allegoria dell’Eneide
di Virgilio propone una cosa per farne intender un'altra, che ſeco è in
proporzione, se l’ “Eneide” per consenso di tutti i più abili commentatori é un
panegirico *allegorico* d'Augusto, convien necessariamente che la cosa proposta
sieno l’azione d’Enea (l’explicatura), e la cosa che deve intendersi ed è loro
proporzionata, l’azione d'Augusto (implicatura) più memorabile e più degna di
lode. Per çiò con una ſuccinca narrazione pone prima sotto gli occhi l’azione
d'Enea, che e il primo termine (l’explicatura) su cui l’allegoria o metafora o
implicatura (& fonda, o come l'originale del ritratto; indi fa il confronto
dell’azione di Augusto. Nell'istoria d'Enea, basta quloſſervare l’oggetto
dell’epica, e il carattere stoico dell'eroe. L'oggetto tutto tende alla nuova
colonia di Roma o al Principato ch'Enea (via Ascanio e Romolo e Remo) ha da
fondare nel Lazio e Italia. Questo gli predisse Creusa, Febo, i Penati; questo
le Arpie, Eleno e la Sibilla; e perchè fi compisca l’oracolo della
predeterminazione e del fatalismo stoico, Enea li salva dagl in incendi e dalla
strage di Troja. Ettore lo dichiara Pontefice. I compagni lo eleggono Re.
Avvisato o protetto schiva i tradimenti, gli scogli, i ciclopi; non è sommerso
nelle tempeste, non trattenuto dall’africana Didone più pericolosa delle stesse
tempeste. Finalmente arrivato in nel Lazio trova il re latino dispoſto a
riceverlo per genero, Evandro e i toscani pronti a dargli soccorso; sebben
abbia a fronte Torno, un nimico feroce e collegato coi vicini, lo vince e
l'uccide. Gli oracoli fatalisti predeterminati stoichi dunque, i viaggi, e le
guerre d’Enea non riguardano se non lo stabilimento d'un regno o principato. Il
carattere poi d’Enea o dell'eroe si vede in tutta l'Eneide composto della
*virtù* stoica convenevoli al capo e fondatore d'un regno. La virtu e pietà
verso l’uomo e verso Diuspater, senno nel provvedere a’pericoli e prevederli,
valore da soldato e da capitano. La pietà (o compasione) verso l’uomo e la carità
– l’imperativo della carita conversazionale, verso Diuspater religione. Della
carita o benevelonza o compasione, o compieta verso l’uomo Enea dà esempi
illustri per tutto. Salva il padre Anchise dalle fiamme portandolo sulle spalle
dirige sempre il viaggio secondo i di lui consigli, celebra il suo anniversario
co'giochi conſiderati da’ pagani come una parte della eeligione, e per
ubbidirlo discende fino all’inferno! Quanto è tenero per il figliuolo Ascanio,
e sollecito e della salute e de gli avanzamenti di lui! E quando Creusa sua
moglie si smarrisce, non va egli a ricercarla tra gl'incendi e le stragi? Che
dirò della sua pietà, carita, compassione, compieta, benevolenza, verso il suo
compagno (o d’EURIALO verso NISO), verso l’amico, e verso Torno, il nemico
stesso? Nella tempesta più s’affligge della loro perdita che della propria, gli
consola e gl’incoraggisce negli affanni, li provvede di cibo, li divertisce e
premia co’giochi, fa l’esequie a Polidoro suo parente, a Miseno suo
trombettiere, a Gaeta sua nutrice; piange la morte di Palinuro e più quella di
Pallante (Patroclo), e ne manda il cadavere ad Evandro con magnificenza e con
lutto degno di un re. Avendo ferito a morte Lauro che l’assalì, gli itende la
destra, lo solleva, e lascia che a Mesenzio se ne porsi il corpo. Vuol
perdonare a Turno, e non l’uccide *che* per vendicar suo amante Pallante; ciò
ch'era un atto di carita. Verso Diuspater sempre fervida e pronta è la sua
pietà. Come stoico perfetto e negatore del libre arbitrio, nulla intraprende
senza consultare l’oracolo, e non comincia alcun’azione senza offrir un voto,
una preghiera e sacri fizj, ch’egli offre egualmente al Diuspater propizio, che
alle Diuspater nonpropizio o Giunone e Pallade. Per ubbidir Diuspater supera la
passione che la strega Didone invoca, cede rispettoso alla sua collera
nell'incendio di Troia; conosce Apollo per principal protettore; ascolta
attento i cantici d'Ercole, e invoca Berecintia che l'allista nella nuova
guerra. Alla sua pietà corrisponde il suo senno. Tosto ch'entra in un paese
vuol conoscere i liti, i luoghi, e la gente che l'azbita; così fa in Affrica, e
nel regno d'Evandro, e scoperto l'assaſlinio di Polinestore fugge il pericolo
di cadervi: fa metter in aguato i soldati per lorprender l'Arpie; egli steſſo
dirige la nave che manca di piloto; manda ambasciatori al re del Lazio; cerca soccorso
nella guerra; ricevuto lo distribuisce in due corpi per più imbarazzare il
nemico ciò ch'è una parte della virtu o prudenza militare, non meno che
assediar la città mentre il nemico è sospeso. Questo o quello segno (manifestazione
secondo Vitters) del valore poi non dà nell'attaccare i nimici, nel farne
stragi di sua mano? uccide i più forti e tra gli altri Lauso, Mesenzio, lo
stesso Turno. Più comparisce il valore d'Enea, se col P. Boſsù fi confronti con
quello di Turno, antagonista, avversario, dell’epica, ardente, milantatore,
prepotente e buono sol per la guerra che vuole giusta od ingiusta, ed in questa
è incauto e senza direzione. Enea all'opposto grave – la gravita romana --, misurato
e non peccatore o essecivo, parla poco, laconico, opera molto, sempre consigliato
e forte colla gloria del consiglio e dell'esecuzione. Di questo o quello segno
della virtu -- pietà, senno, e valore, c’e un intreccio mirabile, sicche
comparisce Enea saggio e paziente capitano come Agamennone, valoroo vincitor
del nimico come Achille, destro a maneggiar lo spirito ed a condur una
negoziazione o consenso cooperative conversazionale come Nestore e Ulise:
giugne a questa virtù una pietà sincera, una probità esatta che mai non ſi
ſmente, una compassion tenera per il suo amico e il suo suddito. Enea è buon
figlio, buon padre, buon amico, buon amante, e tutto ciò per motivi superiori
di dovere e di ragione morale kantiana alla luce del stoicismo fatalism del
predeterminismo. Sopra tutto pero domina la specie della virtù più convenevole
d’ogni altra specie al fondatore della dinastia di Romolo, perchè per essa si
merita la protezione di Deuspater, si rende l’amico o il popolo che deve
ubbidire, l’alleato, ed il vicino con cui si deve patteggiare e con-federarsi
in cooperazione conversazionale verso un fine comune. Vi sarebbero il carattere
degli altri personaggi e dei dell'epica, ma essendo scritti di mano dell’autore
sono come non scritti. Anche la seconda parte che riguarda le azione del primo
imperatore romano, Ottavio detto l’augusto è molto imperfetta; eccone qualche
confronto. Nella rovina di Troja li ravvisano la rovina della Roma repubblicana
di Cesare ed Catone. Da questa rovina, Ottavio, come Enea era stato preservato
dalla provvità, 1 videnza del fato, come dice Orazio nel Carmie Secolare. Enea
porta in ispalla suo padre Anchiee; Ottavio prende la vendetta del suo padre addotivo
Cesare. Enea e in Troja maricato a Creusa da cui ha Julo; Ottavio e maricato a
Scribonia da cui ha Giulia. Ma Creusa per ordine de’ Fati è colia ad Enea, come
Scribonia ad Ottavio; e nel dir che ad Enea si apparecchia moglie, da cui
doveano discendere tanci Re, adula cacitamente Livia. Didone che s’oppone al
disegno (de-segno – plannificazione) d’Enea magnifica e vana dell'impero ha del
carattere superbo, impecuo lo, ed astuto di questa altra Africana, Cleopatra,
che impiegò cutre l'arti femmini li per impegnar Ottavio. Ma v'è un tratto
finissimo di lode nella comparazione che poteano i romani fare d’Enea e
ďOttavio, perchè laddove Enea cesse alle lusinghe di Didone, e dopo averla
posseduta l’abbandona scorteſemente in preda alla disperazione, biasmo da cui
poco lo scusanu gli ordini degli Dei; quanto più dovea stimarli Ottavio che mai
non si lasciò vincere dalle tante arti di Cleopatra? In Evandro, che accoglie
Enea, si puo ravvisar Cicerone, che col suo credito e colla sua eloquenza reſe
tanti servigj a Ottavio. L’epica, però per non rimproverargli la disgrazia di
Cicerone, fa che non Evandro ma il figliuolo di lui resti ucciso da Turno, nel
quale *senza dubbio* vien “simboleggiato” Marc’Antonio, valoroso bensì, ma
imprudente, e che le in molte cose mostra fortezza d’animo chiaro ed
eccellente, in molte altre, come Turno, li governa malissimo, e da quello o
questo segno non meno di magnanimità che di pulsanimità. Nulla dimostra più la
finezza cortigianesca di Orazio e di Virgilio come il loro non nominar mai
Cicerone. S'astennero dal risvegliar in Ottavio un'idea che gli dava de’ rimorsi.
All'incontro nominarono Giunio Bruto e Catone, per mostrare che Ottavio non ha
usurpata la libertà, ma che anzi ne era il protettore, l’imperatore, come negli
ultimi tempi lo volea Cromuvelo (Lord Protector) in Inghilterra. Antonio stesso
molto si risparmia, esi può osservare in Orazio che mai non si parla d’Antonio
senza congiungerlo a l’africana Cleopatra per far cadere in lei l’odio e la
colpa; e cosi fa Virgilio fagacemente nella battaglia d’Azio, quando parla
d’Antonio palesemente, e quando ne parla per allegoria, supprime quell vizio
che avrebbero dispiaciuto ai suoi partigiani ch’erano molti, ed a’figliuoli
elevati da Ottavio a sommi onori. Queſta è pur la ragione prammatica, per la
qual Virgilio non dipinta le guerre che fece Ottavio con Bruto, Callio e cogli
altri, che per modo di peregrinazioni, onde non offender quei ch’erano ancora
del partito di questi ultimi difensori della pubblica libertà. Il re del Lazio,
Latino, che ammonito dall’oracolo vuol dar la figliuola più ad Enea, che a
Turno, è il vero ritratto del senato romano, che vecchio (senior, senatore) ed
impotente non potendo più regolar la repubblica, benchè per ispirazione divina
egl’inchini più a lasciarsi governare d’Ottavio che da Marc’Antonio, atterrito
nondimeno dagli apparecchi di guerra, lascia disputar la vittoria a’ due rivali,
come appunto il re Latino fuggendo lascia terminar la guerra a Turno ed Enea.
In Mesenzio ed in Lauso si veggono Cassio e Giunio Bruto, e l'empietà data a
Mezenzio e la virtù data a Lauso lo persuadono. Muore Laulo ed Enea lo
compiagne, come Ottavio compianse Bruto, al dir di Plutarco. Quando Lauro
combatceva, era Mesenzio con la persona appresso di un tronco per posarvi
appoggiato, e gli stava intorno un cerchio de’ più eletti e de’ più fidi; e
quando vide Lauso ucciso, comincia a disperarsi, e a lagnarsi, e andar incontro
alla morte. Queſta deſcrizione concorda molto con quella che fa Plutarco di
Cassio, allora che ritirato sul colle stava rimirando l’esercito di Bruto, e
credendo ch’egli fosse rotto, disperato si confiſſe nel le reni la spade. Non
occorre cercare rassomiglianza perfetta tra questo o quello accidente vero e
questo o quello accidente finto. Baſta che uno si ravvif nell'altro. I ritratti
della Poesia, e particolarmente epica, sono “simili” a quelli che i gran
pittori introducono ne’ quadri istoriati; negli Dei, negli eroi, ne’ capitani
ritengono le fattezze del volto de viventi che vogliono onorare ma variano le
attitudini, o le velti per variare le imagini, e produr nello spettatore maggior
maraviglia ed affetti più vivi. Con questa regola si pollono ritrovare molti
altri confronti nelle cose dell'Eneide colla vita d’Ottavio. Nè par probabile
che tanta corriſpondenza sia effetto del caso, attesa spezialmente la sagacità
del poeta, e l'idea generale dell'opera. Parte di questa corriſpondenza fa
vedere nello scudo d' Enea la seguente illuſtrazione, che si dà intera. Come
nell'Iliade d'Omero Teti porge ad Achille uno scudo fabbricato da Vulcano così
nell'Eneide di Virgilio Venere porge ad Enea uno scudo fabbricato dallo stesso
Dio. Quì non s'intraprende d'illuſtrare ſe non ciò che appartie. ne allo Scudo
d'Enea, oſſervando prima generalmente, qual ne foſſe la materia, la faldezza,
la figura, l'intreccio e i colori, ed indi particolarmente l' ordine e' i fiti
delle coſe ſcolpite, le loro ſtorie, cd allegorie. I'Ciclopi impiegarono
nell'armatura d'Enea il rame, l'ac ciajo, l'oro, e l'argento, ma fecero che ivi
abbondante più dell'uno o dell'altro metallo ove era biſogno di maggior die
feſa, o di più raro ornamento. L'Elmo che dovea abbagliando minacciare i nimici,
riſplen dea per la terſezza dell'acciajo, non altrimenti che ſe fiam. me
ſpargeſſe. La Lorica era ſcabra per i rilievi del rame e del bronzo, che quanto
più maſſicci'ſi fingono, ed incurva ii, tanto più le faette e le ſpade
ſpuntavano. Ben è vero che per la miſtura degli altri metalli, i colori della
Lorica ſi mi ſchiavano con quei del bronzo e dell'oro, ond'ella riſplende va
come un Iride in faccia al Sole. Nell'aſta e nelle ſchinie re abbondava
particolarmente l'elettro che è un compofto d ' oro e ' una quinta parte
d'argento, ma purgato più volte da'Ciclopi; l'oro nel foco avea ſvaporato
l'argento, onde la compoſizione riuſciva più prezioſa, più denſa, ed impene.
trabile. Nello Scudov'erano tutti e quattro i metalli tra loro op portunamente
fuſi e temperati. I Ciclopi ne aveano appiana ta la maſſa in ſette piaſtre
rotonde, che a guiſa dei ſette cuoi attorti dello Scudo d' Ajace implicarono
l'une nell'altre, perchè lo Scudo refifteffe a tutte l'armi de' Latini.
Miſterioſo era il numero di ſetre appreſſo gli Antichi per la relazione ch'egli
avea al numero de Pianeti. Forſe credea no, che gli aſpetti di cucci e ſette
influendo nella fabbrica d' uno Scudo gli deffero una tempra immortale. La
figura dello Scudo d'Enea era ovale, nè a cid forſe an cora mancava il ſuo
miſtero. Gli Scudi ancili chc fi fingea. no 177 no caduti dal Cielo a tempi di
Numa, aveano la ſteſſa figura, Or lo Scudo d' Enea non era men celeſte di loro;
ed Enea, che doveva portarlo, non ſi fuppone men pio di Numa. I Ciclopi nel
fabbricar lo Scudo avendo poſta in opera per comando di Vulcano tutta la loro
arte maeſtra, collocarono, intrecciarono, limetrizzarono, e colorirono le
figure ſcolpite in maniera, che lo Scudo emulava la reflicura di un arazzo. Nè
queſta a mio credere è un'Iperbole poetica, ma un'imi tazione di quell'idee che
Virgilio, avea vedute ne'baſi rilievi di Roma, ove ſoggiornava, ed in quelli
delle Città della Gre cia, ove per profittarlı dello ſtudio delle bell'arti
avea viag giato. A Roma nelle Biblioteche e ne' Tempj ſtavano appeli certi
Scudi tutti ſtoriati, e tra gli altri Plinio racconta, che nel Tempio di
Bellona Appio Claudio confacrò uno Scudo, ove in picciole figure era
rappreſentata tutta la Genealogia dell'antica famiglia de' Claud). Nel conveſſo
dello Scudo di Minerva avea Fidia ſcolpita la battaglia delle Amazoni, e nel
concavo la guerra degli Dei e de'Giganti. Offerva Plinio, che Fidia, volendo
moſtrar l'arte nelle minimeparti, avea elpela ſo ne' Sandali della Dea la
battaglia de' Lapiti e de'Centauri, e nella baſe della ſtatua la naſcita di
Pandora con quella di trenia Dei. Ne'baſſi rilievi delle lamine che cingevano
la ſe dia della fatura di Giove Olimpico, lo ſteſſo Fidia in oro ſcol pito avea,
da una parte il sole che conduceva il cocchio, e dall'altra Giove e Giunone; a
lato di Giove v'era una delle Grazie, indi Mercurio e Veſta., Venere pareva,
uſcir dal ma re, l'Amore l'accoglieva, e la Dea Pito la coronava. Nello ſteſſo
baſſo rilievo li vedeva Apollo e Diana, Minerva ed Er; cole, e nel piedeſtallo
da un canto Anfitrite e Nettuno, e dall'altro la Luna, che galoppaya ſopra un
cavallo. Qual mol ticudine, qual varietà ed intreccio di figure in poco ſpazio?
Or è molto verifimile, che come lo Scudo d'Achille diede a Virgilio la prima
idea dello Scudo d'Enea, così į baſli rilie vi da lui yeduti a Roma in Atene e
in Olimpia gl'inſegnal ſero a perfezionarlo. Nella deſcrizione delle figure ben
fi ſcor ge che l'artifizio dell'imitazione, non deriva dagli alerui fan tasmi,
ma da un'acurata oſſervazione del ſenſo, che regold la fantaſia del Poeta
fino · lo ſpingo oltre la conghiettura, e pretendo che alle figu. se veduce da
Virgilio ſcolpite o nell’avorio, o nell'oro, od in altro metallo negli vi
applicalle la forza e la leggiadrią Tomo II. 2 de' 3 178 ra 1 1 de colori da
lui veduti nelle pitcure encauſtiche: Plioio ne annovera di tre fpezie, e non
ſaprei fuggerirne una miglior idea che raſſomigliandole alle picture che
vediamo, non dirò fulle porcellane di troppo fragil materia a confronto del me
tallo, ma su fmali di più dura tempra, e su vaſi e ſulle cop pe antiche, ove la
varietà del colore riſultò dal vario grado del foco, che lor fu dato nel
fondere e nel tingere il metal lo. Difficile è proporzionare il grado del foco
ad ogni colo re, ma difficiliſſimo ove i colori lieno per conſiſtenza e viva
cità differenti, e ſi debba nello ſteſſo tempo abbrugiandoli laſciarli ſecondo
il biſogno o floridi, od auſteri, ed a tutti imprimere quello fplendore che
ſecondo Plinio non è lo ſtef To che il lume, ma di'mezzo tra il lume e l'ombra,
ed è propriamente l'intenſione d'ogni colore nella ſua ſpezie. Il Sig. Abate
Fraguier, la cui memoria mi ſarà ſempre ca. offerva, che nello Scudo d'Achille
la terra fenduta in folco dall'aratro cangia in nero il color d'oro, che i
grappo li d'uva ſono neri e la vigna d'oro, che le giovenche ſono rappreſentate
al vivo col bianco e col giallo, cioè collo lta gno e con l'oro, e che
veriſſimo è il langue trangugiato da due Leoni che lacerarono il bue. Da ciò
inferiſce che l'arte encauſtica fioriva a'tempi d'Omero; ma quando anche i Cro
nologi che non convengono dell'età d'Omero glielo conce deffero, molto più
debbono elli concedere, che nel tempo d' Omero quell'arte era molto imperfetta
a paragone dell'eccel lenza a cui la portarono i Greci nel secolo d'Aleſſandro,
e ne’ſuſſeguenti. Le picture de' più celebri artefici encauſtici e rano ſtate
portate dalla Grecia a Roma da' Capitani Romani, é poſcia conſecrate ne! Tempi.
Virgilio che avea ſotto gli oc chj de'modelli così perfecti, gli ha
verifimilmente adombra ti ne ' colori del ſuo Scudo yine queſta ſpezie
d'imitazione pud negarſi ad ua Poeta sì doito, e d'on guſto così eſquiſito in
ogni genere d'arte • Per reftarne convinti bafta riflettere alla varietà ed
armonia de? colori delle figure deſcritte j ai sfuma menti, 0, come parla
Plinio, alle commiſſure de culoriftel fi, ai fecreti più mirabili della
perſpectiva introdotti negli ac» tidenti delle imagini, e finalmente
all'efpreffione degli affec ti de coſtumidegli Uomini rappreſentation La
varietà e larmonia de'colori appariſce nell'Oca d'ar gento che vola ne' portici
d'oro, ne' flutti biancheggianti per lai fpuma ini un mare cerulco Larrei ſono
i colli de'Galli, mentre le loro chiome fon d'oro, e vergate d'oro le veſti; il
langue di Mezio è vermiglio e gocciola dalle ſpine che lo no verdi. Per gli
sfumiamenti de colori, ed inſieme per l'eſpreſſione degli affetti e de' coſtumi,
diverſi nell' arni e nelle veſti fo no i colori de' Barbari condotti in trionfo;
il limitar del Tem. pio d'Apollo è bianco come la neve, ma più bianco è lo
ſteſſo Dio; Cleopatra è pallida per la morte futura; il Nilo al ſembiante ed al
geſto moſtra la doglia che lo crucia e l' impazienza di ſalvare i fuggitivi
ſuoi figli. Che dirò della forza della perſpectiva? Parrafio dipinle, al dir di
Plinio, il Demone degli Atenieſi vario, iracondo, in giuſto, incoſtante..
Virgilio rappreſenta Porſenna che nello Iteſſo tempo comanda, li ſdegna, e
minaccia. Nel Portico a. vanti la Curia di Pompeo era dipinto, ſecondo lo
ſteſſo Plinio, un Soldato che non ſi fapea ſe con lo Scudo aſcendeſſe o di
Icenderſe. Virgilio fa che i bambini attaccati alle poppe del. la Lupa fieno da
queſta alternaniente accarezzati; ciò che il Tallo imirò nelle figure delle
porte d'Armida ove Marcanto nio nel ſeguir Cleopatra che fugge, Mirava
alternamente or la crudele Pugna ch'è in dubbio, or le fuggenti vele. Ma
paſſando a coſe più particolari, io per far meglio in tender l'ordine,
l'intreccio, ed i fici delle figure, divido in quattro parii lo Scudo. La prima
contiene la diſcendenza d ' Enca fino alla Lupa incluſivamente. La copula o,
cioè an cora dimoſtra che tutto era nello ſtello baſſo rilievo. La ſeconda
parte contiene molte coſe memorabili fotto i Re e ſotto la Repubblica. La terza
la battaglia d' Azio. La quarta i tre Trionfi d'Auguſto. Queſte parti, ſi fanno
ſenſibili dividendo l'ovale in quattro altre ovali concentriche che io ſegnerò
co'numeri 1. 2. 3. 4. Nello spazio segnato i. ch' è come l'orlo dello Scudo io
pongo le figure che rappreſentano i diſcendenti d'Enea anno verati da Virgilio
nel primo libro e nel ſeſto: queſti ſono A Scanio, Silvio padre di molci Re,
Proca, Capi, Silvio, Enea, i due giovani coronati di quercia, Numitore, e la
Lupa che allatra i due bambini. De quindici Re d'Alba, di cui parla 2 2 Dio 186
Dionigi d’Alicarnaſſo e Tito Livio, Virgilio non nomina che queſti, perchè,
come egli accenna, furono fondatori di colo. nie, avendo edificato Nomento,
Gabia, Fidene, Collazia full? állo d'una montagna, ed il caſtello d'Inuo o di
Pane. Fon darono ancora Bola e Cora, e queſte ed altre nominate Cit rà eſſendo
nel Paeſe de' Sabini e de' Volſci, avranno dato oc caſione alle guerre e
battaglie nello Scudo eſpreſſe. Nel baf ſo rilievo d'Alcanio dev'egli
rappreſentarſi a guiſa d’un Ca. pirano o d'un Re che comanda di fabbricare una
Città qual era Alba lunga. Altri prendono gli ordini, ed altri gli eſegui
ſcono, ed i Soldati ſtanno riguardando l'opra. La pittura d ' Aſcanio è ſulla
cima dello Scudo; nella parte oppofta, o nel ballo v'è la Lupa che allatta i
bambini, e biſogna rappre ſentaría qual è in molte medaglie. Ne' lati dell'orlo
dello Scudo toſto ſi vede un bambino in mano d'un paſtore ch' eſce da una ſelva;
lo ſiegue in Re circondato da molti bam bini coronati, indi un Ře che guida un
eſercito, un altro che eſpugna una Città, un altro che è in mezzo a Sacerdo ti
e a Veltali, molti giovani Re cinti il capo di quercia che combattono e fondano
colonie, o su monti, o nelle pianu. se. Nè Tito Livio, nè Dionigi d'Alicarnaſſo
parlano in par ticolare di queſte battaglie, onde ſi poſſono ſcolpire a fanta
ſia, ma devono eſſer ſcolpice in medaglie appeſe a rami od alle foglie d'un
albero genealogico che ſerpeggi nell'orlo. Nello ſpazio ſegnato 2. io pongo da
una parte due baſſi ri lievi di forma ellittica, ma incaſtrati di varj fogliami
che riempiono i vuoti. Elli rappreſentano il ratto delle Sabine, e la pace cra
Romolo e Tazio. Pongo dall'altra parte altri rilievi della ſteſſa forma che
rappreſentano Mezio ſquarciato da ' cavalli, e Porſenna che afledia Roma. Nel
ſommo dell'ovale ſi vede nelle figure più rilevate il Campidoglio affalito
da’Galli, e difeſo daManlio; e nelle più lontane i Salj e le Matrone che
eſulcano; nella parte oppo. fta che è la più baſſa dello Scudo v'è il Tartaro
con Catili na affiffo allo ſcoglio, e ſopra il ſotterraneo (chiamato da Vir
gilio la bocca profonda di Dite ) verdeggiano gli Elisj, ove Catone dà la legge
all'anime pie. Le figure di queſto ſpazio ſono maggiori di quelle dell' orlo
perchè le parti più vici ne al centro dello Scudo ove fi fogliono diriger i
colpi, devo no eſſer più maſſiccie per più reliftere. Lo ſpazio è percid
maggiore Nel i 81 5 Nello ſpazio ſegnato 3. v'è la battaglia d' Azio. Apollo
ſaettante è ſul Promontorio, ove Auguſto gl’inalzò un Tem pio. Le navi
d'Auguſto ſono alla deſtra ſchierate in arco; nel deftro corno v'è Augufto
colla ftella in fronte e co' Pe. nati in mano, nel finiftro Agrippa cinto le tempia
della co rona roftrata. Dirimpetto vi fono le Navi torreggianti d'An tonio.
Secondo Plutarco, Antonio con Publicola reggeva il corno deſtro, e Clelio il
ſiniſtro. Cleopatra è nel mezzo in atto di percuotere il fiftro, ſtromento
dedicato ad Ilide che Cleopatra voleva emulare in curto. Tra i due ſemicerchi
del. le navi ve ne ſono alcune diſtaccate che tra loro combatto no. Soggiunge
Plutarco, che Ceſare non ſolamente non or dina ferir le prode dure e ferrate
d'Antonio, ma nè anco inveſtirle per fianco, perciò che gli ſproni facilmente
ſi ve nivano a romper urtando nelle cravi quadre incaſtrate infie me col ferro:
Era dunque queſta battaglia (ſegue egli) mol to ſimile a una giornata per terra,
anzi piuttoſto all'aſfalco d'una Cicà. Perciocchè tre o quattro navi di Ceſare
com battevano intorno a una nave d'Antonio con partigiane, piche, e con fuoco.
D'altra parte gli Antoniani ftando ſulle gabbie di legno traevano dardi e
pietre contro i nimici. Così ap punto Virgilio rappreſenta le navi che
combattono. Sulle navi di Cleopatra vi ſono i Dei moſtruoſi d'Egitto, in atto
di ſaettar Neituno, Venere, Minerva, che ſtanno ſulle navi d'Auguſto, e contro
alle quali egli diſſe al Senato che Antonio avea moſſo la guerra, non meno che
contro al. la Patria. Marre è in mezzo della batcaglia, la Diſcordia,
e Bellona, ed in aria ſtanno le Furie. Tutto ciò è ſotto la fi. gura del
Campidoglio o nella parte ſuperior dell'ovale, men tre a'lari ſono le navi
ſchierate. Nella parte inferiore vi fo no le navi di Cleopatra che fuggono
ſpinte dal vento Japiga, che ſoffia dal capo di Salentino; non lungi è la
figura del Nilo, che allargà la veſte, e chiama i vinci a ricovrarli ne? ſuoi
naſcondigli: egli è d' una figura giganteſca appoggiato ſull'urna che verſa i
ſette fiumi nel mediterraneo, nel reſto dello ſpazio ſi diffonde il mare coi
delfini che ſcherzano. Le figure di quello ſpazio ſono maggiori per la ragione
ſopraccen nata, ed è maggiore lo ſpazio ſteſſo. Nello ſpazio ſegnato 4. vi ſono
eſpreſli i tre trionfi d'Au guſto. Egli trionfo, dice Svetonio, in tre giorni
l'uno dietro all'alcro; la prima volta per la vistoria Dalmacica, la ſecon da 4
182 1 da per l'Aziaca, e la terza per l'Aleſſandrina. Dione Caffio
particolareggia i trionfi. Trionfo Ceſare, dic'egli, il primo giorno de' popoli
Pannoni, Dalmatini, Japidi, ed altri loro circonvicini, e d'alcuni popoli della
Gallia e della Germania ancora, perciocchè Cajo Carina avea già vinti e
ſoggiogati i Morini e gli alıri popoli appreſſo, che nella ribellione da lo. Fo
fatta gli erano ſtati compagni, ed oltre ciò avea dato una rolta a'Svevi, ed a
quelli che aveano già paſſato il Reno; laonde ed egli e Ceſare feco rappreſentò
il Trionfo percioc chè la vittoria folevaſi attribuire ſempre all'Imperatore, e
l' Imperatore era Ceſare, è teneva in mano il governo di tut, 10. Il ſecondo
giorno Ceſare rappreſentò il Trionfo della bat taglia fatta al promontorio d'
Azio nel mare. Il terzo poi dell'Egitto ſoggiogato. Le ſpoglie in queſte guerre
acquiftare furono baſtanti ad ornar tutto l'apparato di que' Trionfi; quel. Je
però d'Egitto avvanzavano di gran lunga curti gli aliri ap parati d'ornamenti
di ricchezza e di rarità; tra l'altre coſe vi fi vedea Cleopatra fteſa ſopra
una colore in alto di morire, onde in un cerio modo queſta Reina era condotta
in trionfo cogli altri prigioni, tra'quali v'era Aleſſandro ſuo figliuolo, e
Cleopatra fua figliuola chiamati da lei col nome del Sole e della Luna.
Gl’interpreti fi vanno inutilmente affaricando a cercar le ragioni della
qualità de'prigioni, e particolarmente perchè ne' cocchi ſi vedeſſe l'imagine
dell' Eufrate e dell’A. raſſe fiumi dell'Armenia e della Meſopotamia non
conquiſtati da Auguſto. Il P. Arduino nelle ſue rifleſioni fopra Virgilio non
ritrovando queſte vittorie d'Auguſto ne trae degli argo menti diſavantaggioſi
all'Eneide. Io non perderò inutilmente il tempo a riſpondergli in particolare.
Ciò che poſſo dire a coloro che ammettono l'autorità di Dion Callio, è far loro
oſſervare, che Antonio dopo aver chiamara Cleopatra Reina dei Re, Ceſarione Re
dei Re, ed aggiunto alla loro giuriſdi. zione l’Egico, donò la Siria a Tolomeo,
e lutte le Provin cie di quà dall'Eufrate fino all'Elleſponto; donò l'Africa
fino alla Cirenaica a Cleopatra, ed al fratello di coſtoro chiama to Aleflandro
dond l'Armenia con tutto il rimanente del pae fe al di là dell'Eufrate Gno
all'Indie. Or non è verifimile che Auguſto da cutti queſti Paeſi fcieglieſſe
de' prigioni, che egli doveva aver fatti o nella battaglia d'Azio, o nella ſcon
fiila data ad Antonio in Aleſſandria? Quanto al Reno, Agrip pa l'avea paſſato
nel 717. nė fi curò del Trionfo, ma egli è pro. 183 probabile che Auguſto
voleſſe che Agrippa trionfare ſeco co me Cajo Carina. Non v'era. ſegno
d'amicizia e d'onore che non gli deſſe, perciocchè oltre la corona roſtrata,
con cui lo fregið dopo aver vinto Seſto Pompeo in Sicilia, volea ch'egli avelle
una cenda e l'altre inſegne militari ſimili a quelle dell' Imperatore, e, come
dall'Imperatore, da lui ſi prendeſſe il ſegno della milizia, ed egli era in
forſe di dargli per moglie Giulia: canto grande, gli diſſe Mecenate, tu faceſti
Agrippa, che o biſogna ucciderlo, o ch'egli ſia tuo Genero. Dopo il Trionfo
Auguſto inalzò molti Tempj; uno ad A. pollo ſecondo Svetonio ſul monte Palarino,
al quale aggiun ſe una Loggia con una Biblioteca Greci e Latina; un altro ne
edificò a Marte vendicatore per il voto fatto nella guerra contro Bruto e
Caſſio per vendicare il Padre, ed un altro a Giove Tonante nel Campidoglio.
Secondo Dione egli ancora conſecrò il Tempio di Minerva, ornò il Tempio di
Giulio ſuo Padre ſoſpendendovi molti e molti doni della preda por tata d'Egitco,
e molti ne conſecrò ed offerſe a Giove Capi. tolino, a Giunone, a Minerva. Non
è da traſcurare che po fe l'imagine della vittoria ſecondo Dione nel Tempio di
Mi nerva, e ſecondo Plinio nel Tempio del Padre Celare, il qua le era nel Foro;
aggiunge Plinio, che vi poſe ancora i Ca ſtori che forſe ſimboleggiavano
Auguſto ed Agrippa, nel pri mo libro aſſomigliati da Virgilio a Romolo ed a
Remo, come interpreta Servio. Poſe ancora Augufto nel foro due quadri, uno
della guerra, e l'altro del Trionfo; e s’io non m'ingan doveano queſti
rappreſentare coſe alluſive alla battaglia d' Azio, ed ai trionfi dello ſteſſo
Ceſare. Comunque la coſa ſia, ove è il centro dello Scudo che è la parte più
alta, io pongo la Cupola del Tempio d'Apollo, alle cui porte Augufto affig ge
le corone d'oro che erano i doni offertigli da’ Popoli dalle Provincie
confederate. Tutto all'intorno vi ſono le are e gl’incenſi colle vittime, e
quindi la pompa e la lecizia del trionfo. In quel giorno che Auguſto entrò in
Roma, dice Dio ne, gli fu conceduto un Arco nella Piazza di Roma, e in o nor di
lui li celebrarono i giuochi quinquennali, e gli anda rono incontro le Vergini
Veítali, il Senaco ed il Popolo, colle mogli, e il figliuoli: mi par ſoverchio (ſoggiunge
Dio. ne ) di raccontar i voti e le imagini ed altre coſe fatte per lui · La
pompa del Trionfo conſiſte ne' prigioni Nomadi, o Numidi, Affricani, Lelegi,
Cari popoli dell'Alia minore Ge no, e 184 Geloni ſpezie di Sciti, Morini popoli
della Gallia Belgicà fi tuati verſo l' Oceano Britannico. Tra queſti vi ſono
molti cocchi colle imagini dell'Eufrate, del Reno, e dell'Araffe col ponte che
Auguſto vi fabbricò. Tali ſono i baſli rilievi e le figure di tutto lo Scudo; elle
s'ingrandiſcono a proporzione ch'egli ſi va rilevando, e le miniature devono
render ſenſi bili i colori di cui ſono in Virgilio dipinte. I colori domi nanti
ſono il giallo e il bianco che rappreſentano l' acciajo ed il rame. Marte però
deve eſſer dipinto con un colore fer rigno, o fia di ferro, non raffinato in
acciajo; diverſi ſono i gradi de colori o floridi od auſteri che biſogna
lumeggiare ed onibreggiare; ma ſopra tutto convien dar alle figure lo ſplen
dore, o ſia quel grado vigoroſo di colore di cui s'è parlato. Spiegato in
queſta maniera ciò che concerne la parte ma teriale e ſtorica dello Scudo, egli
è tempo di ragionare delle relazioni che le figure hanno ad Auguſto, al quale
tutto il Poema è diretto, come a lungo eſpoſi nell'altra diſſertazione. Biſogna
quì ricordarſi che l'adulazione, ingegnoſiſlima nelle fue compiacenze, or
impiega le lodi dirette e manifeſte, or l'indirette ed occulte, ſecondo che
l'une e l'altre per le cir coſtanze fono più grate a colui che fi loda. Lodar
Augufto per la ſua ſtirpe, lodarlo per la vittoria che gli diede l'Imperio, e
per i tre trionfi, ne' quali fece tanto riſplender la ſua pietà, erano lodi che
Auguſto fonima mente defiderava che ſi pubblicaſſero, onde eſſo poteſſe ritrar:
ne più venerazione ed ubbidienza. Conviene a parte a parte moſtrarlo. Giulio
Ceſare nel far l'Orazione funebre in lode di Giulia ſua Zia: La firpe materna,
diſſe, di Giulia mia Zia ha origi ne dai Re, é la paterna è congiunta cogli Dei
immortali, im perciocchè da Anco Marzio derivano i Re Marxj del cui nom fu mia
Madre, da Venere i Giulj della cui gente è la noſtra Fa miglia. Trovaſ dunque
nel ceppo antico della caſa noſtra la fantità dei Re la quale appreſſo gli
Uomini è di grandiflima autorità e la Religione degli Dii nella podeſtà de'
quali ſono el Re. Sin quì Svetonio. Non potea dunque che molto pia. cere ad
Augufto che Virgilio noftraſſe e nel primo enel ſe fto e nell'ottavo che nella
ſua genealogia verano i Re, gli Dei, e gli Eroi. Virgilio dice nel primo libro:
il giovine A ſcanio che porta oggidiil cognome di Giulio e che ſi chiamava Ilo,
mentre Ilio era in piedi, governerà Lavinio per trent'anni 1 in. 185 intieri
etraſporterà la sede del Regno in Alba lunga di cui faa rà una forte Città. Nel
feſto egli dice: uſcirà dal ſangue Tro jano miſto all' Italico Silvio ſuo
figlio poſtumo che perpetuerd in Alba il ſuo nome, e ſarà egli fello Re e padre
di molti Re,. per lui la noſtra ftirpe dominerà in Alba. Virgilio ſcaltro nul
la parla delle guerre che ſecondo Dionigi d'Alicarnaſſo vi fu rono tra Giulio
figliuolo d'Aſcanio e Silvio, e molto meno che per i ſuffragj del popolo ſi
deſſe a Silvio il Regno che apparteneva a ſua madre, ea Giulio per contentarlo
la fo vranità ſulle coſe della Religione, per cui, ſoggiunge Dionigi, la
Famiglia Giulia ha goduto fin al mio tempo del ſovrano Pontificato, e s'è
chiamata Giulia a cagion d' Julo da cui u ſciva. Io non so accordar queſto
paſſo di Dionigi d'Alicarnaſ ſo con quell'altro di Plutarco e di Svetonio, ove
ſi vede che Giulio Ceſare non per dricco di ſangue, ma per i ſuffragidel popolo
in competenza di Catulo ottenne il ſommo Pontifica to. Laſciando cid, baſta quì
oſſervare, che Virgilio confonde Aſcanio con Silvio figliuolo di Lavinia e gli
altri diſcendenci da lui, poichè dice, che v'era ſcolpita tutta la ftirpe
d'Enea cominciando da Aſcanio. Io così interpreto quel Ab Aſcanio. Di tutti
queſti Re e di queſti Eroi Virgilio nefa come del le imagini trionfali, che
pone nell'orlo del ſuo Scudo, come negli atrj delle caſe de' Romani ſi poncano
le imagini degli Avi loro, ſulle quali Giuvenale e Plinio fanno sì gravi riflet
fioni intorno al biasmo ed alla lode de' diſcendenti. Ciò ba fi intorno la lode
manifeſta della ftirpe d'Auguſto. Palliamo alle lodi indirette. Nelle medaglie,
ove fi legge Reft. o reſtitui, ſi vede l'ima. gine o d'un Bruto, o d'un Coclite,
o della libertà, o d'al tre coſe alluſive alle azioni celebri de' Romani
antichi, che gl' Imperatori Romani aveano imitate o reftituite. Il P. Ar duino
vuole che queſte allegorie nelle medaglie cominciaſſero ſotto Tito, di cui ſi
contano fino 22. medaglie di queſta ſpe. zie e terminaſſero ſotto Trajano, di
cui ſe ne contano 24. ma non, perchè queſte medaglie non ci reſtino, ſi può
dedur che ſotto gli altri Imperatori e particolarmente ſottoAuguſto, che
vantavafi d'effere il difenſore della libertà del Senato e dei popolo,
l'adulazione non aveſſe inventate l'allegoric; certo è almeno, che con
queſt'ipoteſi ſi rileva il ſenſo del ratto del. le Sabine, e della pace ira
Tazio e Romolo. Prima che Planco determinaffe il Senato a dar ad Occavio Tomo
II. il 186 9 il nome d'Auguſto, molti volcano che ſi chiamafle Romolo. In fatti
Auguſto l'imicava non ſolo nella fondazione d'un nuovo Impero, ma ancora in
molte circoſtanze della ftella fon dazione. Come Romolo col ratto delle Sabine
avea provvedu to al mantenimento della Città, così Auguito con la legge di
maricar gli ordini che Orazio chiama legge Marita; due ne fece Auguſto., la
prima nell' anno 736. e ſi chiamava legge Giulia, e l'altra dell'anno 762. e li
chiamava legge Popea perchè fatta ſotto i Conſoli Sulpizio e Popeo. Con queſte
leg. gi fi rinovarono l'antiche rammemorate da Cicerone e da Aulo Gellio, e
Dion Caſſio merte in bocca d'Auguſto una lunga arringa su queſta materia al
Senato, nella quale dopo d'aver cogli eſempj delle nozze degli Dei eſaltato il
vantaggio e la giocondità de'figli, l'utile della Repubblica, e il biasmo di
viver ſenza moglie, gli fa dire: Romolo autor noftro, e da cui diſcendiamo, non
li ſdegnerà con tagione conſiderando il fuo naſcimento e i coftumi introdotti?
Orazio nel Carme ſecolare lodando per queſta legge il Se nato obliquamente loda
Auguſto; ma Virgilio nella lode obli. qua involge l'argomento del minore al
maggiore come s'egli diceffe: fe tanta obbligazione hanno i Romani a Romolo che
con una violenza provvide al mantenimento della Città, mol to maggior
obbligazione i Romani hanno ad Auguſto che ſen. za danno de' vicini vi provvide
con una legge si ſaggia. Romolo dopo le guerre con Tazio ai rapacificò
ſolennemen. te con lui, e diviſe feco il Regno; ed Auguſto dopo molte guerre
con Marcantonio conciliatoſi ſeco per l'opera de' co muni amici diviſe l'Impero,
del quale il termine ſecondo Plu tarco era il Mar Jonio. Tutta la parte,
dic'egli, verfo Levan te fu conceſſa ad Antonio, e l'alira verſo Occidente a
Ceſare. Pegno della pace fu Ottavia maritata ad Antonio, e certamente ella è
rappreſeatata nella vittima che ſi ſcanna nella ceremo nia del giuramento tra
Romolo e Tazio: ne deve far difficol tà il noine della vittima, poichè tutto
ciò che li confacrava agli Dei era fanto, e la Scrofa è ſtata ad Enea d'indizio
del paeſe che ricercava. La pittura di Mezio non è meno allegorica; egli tradi
Tul lo Oſtilio come Antonio tradì la Repubblica, e tradi Ottavio con la guerra
che all'uno ed all'altra intimo per far piacere a Cleopatra. Mezio ne fu
ſquarciato a viſta di Tullo; ed An. tonio fu coſtretto a darſi la morte quafi
agli occhi d'Augufto. An 187 Antonio mentre s'incamminava al ſepolcro ove s'era
rinchiuſa Cleopatra, andava verſando il ſangue per le Atrade come ap punto il
corpo di Mezio per la ſelva. Non ſi potevano eſpri mer da Virgilio coſe sì
delicate che in un quadro allegorico, Due volie, dice Svetonio, entrò Auguſto
in Roma vitto rioſo e ſenza trionfare, una, poichè egli ebbe vinto Bruto e
Caffio ne'campi Filippici, l'altra avendo vioto Seſto Pompeo in Sicilia; il che
moftra, qual foſſe la modeſtia politica d ' Auguſto; queſta ſteſſa egli usò con
Marcantonio del quale e gli non crionfo, ma di Cleopatra, come ſi può
raccoglier dal Trionfo deſcrito da Dion Callio. Egli ſollevò i figliuoli d'
Antonio alle prime dignità, nè col moſtrar odio e vendetta con Antonio dopo
ch'egli era morto voleva offender Octavia a cui era ſempre grata la memoria del
marito. Orazio e Vir gilio ben ſapendolo non mai parlarono di Marcantonio ſc
non mettendolo in compagnia di Cleopatra su cui fecero ca der l'odio e la colpa;
ma nel tempo ſteſſo, conoſcendo forſe che Auguſto ſi compiaceva, che negli
animi de' Romani non ſi ſmarriſſero l'idee di quanto avea fatto contra
Marcantonio per la finta difeſa della libertà, eſli procurarono di maſcherar ne
l'azioni con l'allegoria, della quale Auguſto poteva abba ſtanza intenderne il
ſenſo, e non offenderſi i partigiani d'An tonio per le varie interpretazioni
che poteano darle. Nelle mie note su l’Odi d'Orazio io ſpiego con ciò molte
coſe in intelligibili ſenza queſta ſuppoſizione, nè ſarà diſcaro che ne moſtri
l'uſo nelle ſtorie di Porſenna e di Manlio ſcolpite da Virgilio nella ſeconda
ovale dello Scudo. Porſenna voleva riſtabilire in Roma la tirannia traſportan
dovi i Tarquinj, e nonmeno Antonio voleva riſtabilirla tra ſportandovi
Cleopatra. Se Antonio, dice Dione, foſſe ſtato ſuperiore e ſignore del tutto,
era per dare a Cleopatra la Cit tà di Roma; è poco dopo ſoggiunge, che
Cleopatra era venu ta in ſperanza d'acquiſtar l'Impero Romano, e che quando al
cuno le dimandava giuſtizia, ella riſpondeva che gliela fareb be in Campidoglio:al
che pur allude Orazio nell'Ode 37. l. 1. dicendo ch'ella era ebbra di folli
ſperanze non meno che di vino mareorico. Io non so ſe troppo raffini nel
ritrovar in Clelia che ſi falva a nuoto, Ottavia che al dir di Plutarco eſce
precipitoſamente dalla caſa d'Antonio; ma certamente Coclite che rompe il ponte
è un ſimbolo d'Agrippa che con la vittoria navale interrompe l'avvanzamento
d'Antonio. AQ 2 Tito 188 Tito Manlio è difenſore della libertà del Campidoglio
con tra i Galli, come Antonio fu difenſore della preteſa libertà contra Caſſio
e Bruto e gli altri nimici di Giulio Ceſare. Non mancarono, dice Plinio, i
fregi delle coſe militari in Manlio Capitolino, ſe non gli aveſſe perduti
nell'eſito della vita; e Tito Livio ſoggiunge, che lo ſteſſo luogo nell'Uomo
ſteſſo fu un monumento e d'inſigne gloria e di ultima pena. Anto nio difeſe il
popolo Romano ne' Campi Filippici, e il popo lo Romano in Azio ed in
Aleſſandria l' inſeguì e fu cagione della ſua morte. I Salj ed i Luperci
eſultano, e le matrone ne loro cocchi agiati conducono le coſe ſacre per la
Città per dimoſtrare che non ſono ammeſſe in Roma le ſuperſtizio ni Egiziache,
abborrite eſtremamente da' Romani ne'cempi d ' Auguſto e di Tiberio. Catilina
tormentato nell' Inferno non moſtra egli le pene dovute a Marcantonio? e per la
ragion de contrarj quante lo di meritava Auguſto per la ſalvata libertà? In
grazia di que fta ſoffriva Augufto che fi lodaſſe Catone Uticenſe. Orazio
nell’Ode 12. c. 1. lo mette tra gli Eroi di Roma. Loderò di Caton la nobil
morte? Il P. Catrou pretende, che il Catone che negli Elisj dello Scudo dà
legge agli ſpiriti, non fia altrimenti Catune Uricen ſe, ch'era troppo odioſo
a'Ceſari, ma Catone il Cenſore, di cui dice Seneca, che tanto giovo co'ſuoi
coſtumi al popolo Romano, quanto Scipione colle ſue guerre. Il P. della Rue é
per il Carone Uticenſe, ma non ne aſſegna la ragione, la quale è manifefta, ſe
ſi riflette al paſſo di Taciro da me nell' alıra diſſertazione addotto e che
qui ancora ſoggiongo, perchè cgli moſtra quanto Ottavio fi vantafle, come
Cromuello fece a' noſtri tempi, di paſſar per difenſore della pubblica libertà.
Tito Livio (così fa dir Tacito a Cremuzio Cordo in Senato ) chiariffimo tra
tutti gli Scrittori e per eloquenza e per fedel tà, celebrò con tante lodiGnco
Pompeo che Auguſto lo chia mava Pompejano, nè perciò gli fu meno amico. Nelle
Opere di Aſinio Pollione (cui Virgilio dedicò l'Egloga terza ) li fa
onoratiflima memoria di Callio e Bruto: Meffala Corvino pre dicava Caffio per
ſuo Imperatore, e l'uno e l'altro viſſero lun. gamente pieni di ricchezze e
d'onori, ed Auguſto, non ſi sa le con maggior lode di manſuetudine o di
prudenza, laſciò 1 cor 189 correr le lettere d'Antonio, e l'orazioni di Bruto,
che molto lo diſonoravano; nel che forſe volle imitar Ceſare Dittatore che
tollerò i verſi di Bibaculo e di Catullo, ed al libro di Marco Cicerone nel
quale s' inalza Catone al Cielo, riſpoſe perorando come ſe foſse avanti i
Giudici. Con queſto paſſo di Tacito ſi può dar la ragione per la quale Virgilio
ed Ora zio non temerono, dedicando l'Opere loro ad Auguſto, di no. minar Giunio
Bruto, Marco Bruto, e Callio, Catone, e Pom peo. Maquale ſcaltrezza
cortigianeſca v'è in Virgilio nell' introdur Catone a dar legge agli ſpiriti?
Par, ch'egli accen ni, che Carone meritava ſolamente grado in quella Repubbli
ca ideale di Platone, la quale ſecondo Cicerone egli cercava nella feccia di
Romolo. Ed ecco ciò che dovea dirſi intorno alle lodi indirette ed allegoriche.
Le figure del quarto e del quinto ſpazio contengono lodi di rette, perchè cuite
ripiene delle coſe di cui si compiaceva Auguſto che i Romani continuamente
acclamaffero. Egli ſteſ ſo, come ſi diffe, avea nel Foro di Ceſare conſecrata
l'ima gine della battaglia, e del Trionfo, nè io dubito punto che Virgilio ne
aveſſe eſpreſli i tratti della pittura nello Scudo in quella guila, che nel
primo libro nel rappreſentar il Furore alliſo ſopra i trofei e con le mani
annodate al tergo imita la pittura ch'era nel Tempio di Giano. Tutto poi nella
deſcrizione e della battaglia, e del Trion fo, è diretto alla lode d'Auguſto.
Nella battaglia, Auguſto è coi Padri, col Popolo, coi Penati, e co'magni Dei,
ed ha in fronte la ſtella paterna; ciò ſignifica, che la guerra era in trapreſa
per la libertà del Popolo, del Senato e coll'alliſtenza di Giulio Ceſare già
Deificato. All'incontro Antonio non ha ſeco che de' Barbari, ed un'effeminata
Reina; Auguſto è di feſo da Venere genitrice, da Minerva, e da Apollo, Dei del
la prudenza e del conſiglio, e da Nettuno, che gli era ſtato favorevole nelle
guerre in Sicilia contro Seſto. All'incontro Antonio non ha ſeco che Dei
moſtruoſi ed odiati da' Romani. Quanto cgli deſcrive più feroce la pugna, tanto
maggior mente eſalta il valore d'Auguſto e d' Agrippa, ch'egli ſempre
accompagna per le ragioni di ſopra accennate. Le Furie e la Diſcordia con
Bellona liriferiſcono a Cleo patra; ma qual mai v'è ſagacità poetica nell'accennare
la fu ga e la morte di queſta Reina? Mentre ella ſuona il filtro non vede i due
ſerpi che la minacciano alle ſpalle; ella con fida iyo fida in vano nelle forze
dell'Egitto, e in vano tenta di rifu. giarſi nelle più occulte ſpiagge delNilo.
Tutto allude al.con higlio ed alle azioni di Cleopatra. Perchè poi Virgilio non
nc introducefle nel Trionfo l'effigie, e tra i prigioni non poneſ ſe i
figliuoli di lei, la cagione n'è forſe ſtata il timore d'ec citar nell'animo
altrui con queſte imagini qualche grado di ammirazione e di compaffione, e
perciò ſcemar in parte la lode d'Auguſto, e tra l'altre quella della pietà.
Ne'gran Poe. ti biſogna egualmente riflettere e a quel che dicono e a quel che
tacciono, onde molto male s'argomenta dalla Poeſia alla Storia, e dalla Storia
alla Poeſia, quando non s'attende al fi ne a cui tutto vuol accomodare il Poeta.
Il fine delle figure ſcolpite nei vari ſpazi dello Scudo ha relazione al fine
gene rale dell'Eneide. Le figuredel ſecondo ſpazio riguardano il ſenno
d'Auguſto, le figure del terzo il valore, le figure del quarto riguardano la
ſua pierà. Queſte ſono le tre virtù do. minanti dell'Eneide. Dionigi
d'Alicarnaſlo, che ſcriveva nel tempo d'Augufto, le ſtabiliſce come neceſſarie
ai fondatori d ' un Impero, e Virgilio vi fabbrica ſovra l'Eneide. Molte altre
coſe io potrei addurre intorno l'artifizio poeti. €0, la chiarezza, e la
brevità, colla quale Virgilio in sì po chi verſi eſprime tante coſe, nè mai per
oftentazione o d’in. gegno o di dottrina o d'erudizione, maſempre relativamente
al diſſegno del tutto e delle parti, ciò che deve ſervire a' Poe. ti moderni di
precetto e d'eſempio. atentat
nesatentratata L A ſecca della Filoſofia Italica fondata da Pitcagora ebbe nome
e ſede nella Magna Grecia, tra le cui Provincie fu per l'eccellenza
de'Filoſofi, che vi fiorirono, celebre la Lucania, ed in queſta la Città di
Velia, o d'Elea così denomi nata dal fiume che l'irrigava. Quivi Senofane di
Colofone, Cit tà della Jonia nell'Alia minore, ſtabilì e perfezionò la fecta,
che dalla Città d'Elea fi diffe Eleacica, e meritò d'avere tra gli al tri
diſcepoli Parmenide nato di Pireto, e quel Filoſofo grave e venerabile, che con
Zenone paſsò in Atene, ove tenne la con ferenza con Socrate eſpreſſa in queſto
Dialogo. Ora avendomi propoſto io d'illuſtrarlo nella ſua parte ſtori ca e
Filoſofica, credo diſoddisfar quanto baſta al mio impegno ſe prima tento
d'accordar l'erà controverſa dei tre Filoſofi nomi nati, indi ſe della dottrina
Eleatica ſpiego l'origine e l'effetto, o la Filoſofia Pittagorica, e la
Platonica; finalmente ſe mi fer punto che Platone in queſto Dialogo n'eſpoſe, e
dichiaro l'artifizio filoſofico, e poetico dello ſteſſo Dialogo. lo difli, che
Senofane ftabili, e perfezionò la ſecca Eleacica perchè Platone dice nel
Sofiſta, la gente d ' Elea incomincia appref ſo di noi da Senofane, anzi da più
antichi, i quali non poteano eller che Talete, o Pittagora, oi difcepoli loro;
non regnando, allora alıra Filoſofia nella Grecia, ſe non l'introdotta dai due
fondatori, o profeſſata da i loro allievi. Alcuni però fecero Se nofane
poſteriore a Talete, ma più antico di Pittagora, nè fo dove prendeſſero le loro
congetture cronologiche, alle quali oltre l'autorità di Platone, s'oppongono le
ſcoperte dei due Fi loſofi, e i viaggi loro. Taletecalcolo il primo l' eccliſli
lunari, ma come poteva egli calcolarle ſenza conoſcere la propolizione, che
Euclide poi fe ce la 47 del primo libro degli Elementi, e di cui s'aſcrive or
dinariamente l'invenzione a Pitcagora? I calcoli aſtronomici ſo mo ſul. no (4 )
no dedotti da trigonometrici, principio de' quali è il triangolo rettangolo
miſura diſe ſteſſo, e de gli altri triangoli. Pittagora dunque, che l'invento,
o fu contemporaneo di Talete, o fiori prima di lui., Io credei, che queſta
foſſe una dimoſtrazione in cronologia, finchè in Plutarco (a ) ritrovai che gli
Egizj ſimboleggiavano co? tre lati del triangolo rettangolo miſurati da 3, 4, e
s le loro principali divinità Ilide, Oliride, ed Oro; aſſegnando ad Oſiri de la
perpendicolare, la baſe ad Ilide, e ad Oro l'ipotenuſa; L'antichità del ſimbolo
manifeſta quella della cognizione, tan to più che gli Egizi coltivarono l'
aſtronomia da poi che eb bero inventato la geometria per miſurare i terreni, e
non par veriſimile, che ſenza conoſcere il triangolo rettangolo, il pri mo e il
più facile ad immaginarſi de gli altri, poteſſero riu ſcire nella pratica di
queſte due ſcienze. V'aggiungo, che fe condo Platone (6.) noci erano, agli
Egizi gl' incomenlurabili, la prima idea de' quali naſce dall' impoſſibilità di
eſtrar la radice dal quadrato dell'ipotenuſa del triangolo; I lati del
retcangolo Pitta gorico ſono i numeri accennati, e queſta è la prova che dagli
E giz lo toglieſſe Pittagora, e nello ſteſſo tempo o poco prima l' aveſſe colto
Talete, benchè poi Talete ſi contentaffe di moſtrare all'Aſia minore l'ulo
aſtronomico della propoſizione, e Pictagora ne deſſe alla Magna Grecia la
dimoſtrazione Geometrica, ed è forſe quella regiſtrata da Euclide nel primo
libro diverſa dalla 8 del libro 6 dedotta dalle proporzioni delle linee, e che
nel progreſſo del tempo Eudoffo, che fiori nel tempo di Placone, portò dall'
Egitto col s elemento. Or fe i gradi delle cognizioni dello fpirito umano ſono
fema pre gli ftefli, dall'analogie dell' Epoche moderne ſi poſſono de durre le
antiche, e particolarmente quelle che hanno relazione agl'inventori de'
principjmatematici. Nel paſſato ſecolo ſi trova prima dal Toricelli la Cicloide,
e l' Ugenio l'applicò a regola re il moto dell'orologio a pendulo; il Newtono
fi limitò all'altrace ta Teoria della luna, e l' Hallejo l'applico a correggere
le Tavo le aſtronomiche. La ſeconda congettura della contemporaneità di
Pitragora, e di Talete, ſi prende da coſe più facili. Vuol Jamblico, che Ta
lete ſcriveſſe una lettera a Ferecide maeſtro di Pittagora, e gli legaſſe certi
fcritti morendo, e par che Plinio convenga che i due Filoſofi foſſero ſtati in
Egitto al tempo che regnava il Re Amaſi. La queſtione non cade più dunque ne ſu
tutto il ſecolo, ne (a) Trattato d'Ilide, ed Oſiride. (6 ) Nella Rep. e nelle
leggi. (5 ) 1 4 ne ful mezzo ſecolo, ma su l'età dell'uno e dell'altro di pochi
anni diſtante; Talete par più vecchio ſe ſcriſſeuna lettera al maeſtro di
Pittagora, machi sa poi ſe Pitragora non era allora in Egitto? queſta lieve
differenza non toglie però, che ſe Talete' fu più d'un ſecoloprima di Senofane,
non lo foſſe ancora Pittagora: Io ritrovo bensì, che Senofane era contemporanco
d'Epicar mo, e diEmpedocle. Secondo Timeo lo Storico, Senofane paſsò in Sicilia
al tempo di Gerone, ſotto il cui Regno Epicarmo era illuſtre per le ſue
commedie, e Plutarco (a) ci conſervò la memo ' ia d'una riſpoſta, che diede
Senofane ad Empedocle. Non è facile il determinare, nè qui lo cerco, quanto
Epicar mo, ed Empedocle foſſero diſtanti da Pittagora, e quindidà Ar chita
Tarentino il vecchio, da Peritione, da Timeo di Locri, da Ocello Lucano, e da
altri, che ſi dimandavano Piccagorei (6 ) perchè udirono Pittagora, a
differenza deglialtri, che ſi chiamava no Pittagoriſti. Quando cominciò
Senofane a ſtudiar la Filoſofia, quella di Ta lete era già diffuſa nella Jonia,
e quella di Pittagora nella Magna Grecia,e nella Sicilia; su queſto fondamento
altri fecero Seno fane diſcepolo di Anaſimandro, ed altri di Archelao diſcepolo
di Anafagora, il quale avea il primo traſportata la Filoſofia dalla Jonia in
Atene, ove paffato Senofane ftudiò ſotto (c ) un certo Bottone Ateniere. Dalla
povertà cacciato Senofane dalla Grecia, paſsò nella Sici lia e quà s'abbandono
alle doctrine Pittagoriche, più delle Joniche conformi all'ingegno di lui acre,
e profondo. Dalla Filoſofia Jo nica, e dall' Italica traſſe un nuovo liftema, è
meritò ď' effer ca po della ſecta Eleatica primo fonte dell'Accademica, e della
Pla tonica, delle quali poi furono rami lo ſcetticismo, e lo ſtoicismo, Nulla
ancora s'è fatto, ſe non ſi dimoſtra accordarſi l'ecà di Senofane con quella di
Parmenide, e queſta con quella di Socra te. Tralaſciare dunque molte epoche
inverifimili, io m'arreſto a quella che aſſegna Timeo a Senofane, ed è che egli
fiorille nell'olimpiade 76. Parmenide, ſecondo Laerzio ſeguito dallo Stan lejo,
e da altri, fiorì nell' olimpiade 69 diſtante dalla 76 di 7 olimpiadi, che
importano 28 anni, calcolando ogni olimpiade per 4 anni compiuti. La voce
fiorire è molto vaga o ſteľa nel la Cronologia, perchè non ſempre moſtra, che
un Filoſofo fof ſe nel punto più alto della ſua fama, ma che ſolo aveſſe un no
meilluſtreacquiſtato. Il Newtono, che cosi rapidamente ſi per fezionò nelle
matematiche, fioria del pari in Inghilterra nel 1662 quando ſcriſſe al
Leibnizio la lettera in cui gli dichiarava lo ſvi luppo, (a ) Plut. de vit.pud.
(6) Patr. diſcuſs. prop. 1. 6. (c) Laerzio vit.di Sen. (6 ) 3 8 luppo, e l'uſo
del Binomio eſaltato ad una potenza indetermi nata, e nell'anno 1716 in cui
molte coſe aggiunſe al ſuo libro de' colori, e n'illuſtrò molte altre nei
principj naturali della Fi loſofia matematica, Senofane, che lo Scaligero fa
vivere 104 an ni, ed altri almeno fino a 100, potea fiorire in olimpiadi mol to
diftanti, perchè per la forza della ſua mente facilmente riu fcendo nelle fue
applicazioni, in breve acquiſtava fama di lomme Filoſofo, e la ſua fama tanto
più ſpargeali per le bocche degli Uomini, quanto egli abbelliva le ſue
meditazioni filoſofiche con la Poelia per farle ricercare, e leggere con più
d'avidità. Parmenide fece i ſuoi ftudi in Elea (a ) ſotto Amenia, e Dio cheta
Pictagorici, i quali lo riduſſero a laſciar le ricchezze, ecol tivar la vita
privata, e darſi tutto alla Filoſofia. Biſogna dun que che in eſſa molto
riuſciſſe, o la Filoſofia foſſe la paſſione, che più lo dominava, ſe nato de'
più ricchi, e de’più nobili di Elea ebbe tale coraggio; ma ciò molto applauſo
dovea avergli acquiſtato appreſſo de'ſuoi Cittadini, ſe fin d'allora
cominciarono a celebrarlo in guiſa, che al dir di Ermipo Empedocle l'emuld.
Nulla vieta il ſupporre, che Empedocle avelTe molto ſoggiornato in Elea, e poi
foſſe ritornato in Agrigento ſua Patria. In Elea era ſtato emulator di
Parmenide doctiſſimo nelPittagoriſmo, e lo fu in Sicilia di Senofane, che lo
profeſſava con qualche cangiamento', dopo gli anni 28 che è l'intervallo
frappoſto tra l'olimpiade 69 e 76. Paſso Senofane in Elea, ed ivi Parmenide
conſecrato agli ſtudi corſe ad udir Senofane, come i giovani nobili, e ben
educati ſo leano far nella Grecia, quando nelle loro Circà udiano entrar un
Filoſofo illuſtre, e che potea inſtruirli in qualche nuovo liſte ma, del che
chiari gli eſempi ne vediamo nel Protagora, nelGor gia, ed in altri Dialoghi di
Platone. Quando Parmenide udi Se nofane, queſti poteva eſfer molto vecchio; ma
qualunque età dia ſi a Senofane, mi baſta, che nel pricipio dell' olimpiade
76Parme nide imparaſſe da lui il fiſtema dell'uno immobile, e non aveſſe allora
che 36, e ancor 40 anni, la ſteſſa età che avea Zenone quando diſputò con
Socrate in Acene. Socrate nacque al fine dell'olimpiade 77, ed avea 4 anni com
piuti o 5 anni cominciati, quando nella noſtra ipoteſi Parmeni de ne avea 40.
Se zo anni dopo ſi fuppone, che Parmenide con Ze none paſlaffe da Elea in Atene,
come vuol Platone, non avea che 60 anni, e Socrate che 25, onde era egli molto
giovane relativa mente a Parmenide. Semplici, e al fommo veriſimili ſono queſte
ipoteſi degli ſtudi, 1 e dei (a ) Laerzio vita di Parmenide. 1 (7 ) e dei
viaggi dei due Filoſofi, e ſe s'accordano facilmente con le olimpiadi, perchè
oftinarſi a rigettarle, e rinunziare all'au corità di Platone, che potea molto
meglio al fuo tempo cono fcere l'epoche dell'era filoſofica, che non ſi
conobbero 6oo an ni dopo, e ben più? Le circoſtanze, con cui Platone accompagna
l'abboccamento di Socrate con Parmenide, accoppiano in guiſa alla verità del
fatto la veriſimiglianza ſtorica del Dialogo, che pare non do ver laſciarſi
alcun ſoſpetto. Io le eſtrarro dal Dialogo. Parmenide, e Zenone fuo diſcepolo
favorito o fuo figlio a dottivo abitavano fuor delle mura di Atene in caſa di
un cer to Pitidoro. Nelle ſolennità de grandi Panatenei, itofene So crate a
ritrovar Parmenide, ritrovò folo in caſa Zenone, e comia cid a diſputar feco fu
l'idee. Entrato poco dopo Parmenide in caſa con Pitidoro, ſi proſeguì la
diſputa incominciata alla pre fenza di molti, tra' quali Ariſtotele non lo
Stagirita, ma uno dei 30 Governatori, o Tiranni di Atene. Tali ſono le circo
ftanze del luogo, del tempo, e dei teſtimoni della diſputa. Socrate non avea
allora che 25 anni; or eſſendo egli mor to nell'età di 72 anni,
dall'abboccamento alla morte non vi fo no che 47 anni di diſtanza, e tanti
appunto o pochi più dall' abboccamento al Dialogo, ſe Platone lo ſcriffe dopo
la morte di Socrate: ma poniamo che l' aveſſe compoſto anche 20 anni dopo; la
memoria di un Uomo così illuſtre qual era Parmeni de non potea più ignorarli in
Atene, di quel s'ignori ora a Parigi la dimora che vi fece il Leibnizio, e
l'Ugenio, e le di fpute che ebbero nell' Accademia reale. Alle verilimiglianze
ſtoriche s'aggiungono le poetiche necef ſarie all' ornamento del Dialogo, che è
una ſpecie di Poeſia Dramatica: così lo teſse Platone.: Cefalo per bocca di
Antifone ſuo fratello uterino, e figliuo lo di Pirilampo, racconta ad A dimanto,
e Glaucone, tutto ciò che avea udito da Pitidoro fu la diſputa che ebbero
Zenone pri ma, e poi Parmenide con Socrate. ' Antifone avea converſaco
familiarmente con Pitidoro compagno di Zenone, ma poi laſcia ta la Filoſofia
coltivava l'arte equeſtre, e quando Cefalo ad in ſtigazione de' compagni andd a
ritrovarlo, egli dava certo fre no ad accomodare ad un fabro; circoſtanza che
io credo finta per dar rilievo al racconto, é fiffar la fantaſia del lettore
con qualche coſa di ſtrano. Par toſto che Antifone occupato in un volgare
eſercizio, non debba favellare ſe non di coſe volgari, nè mai s' aſpetta, che
egli ſia per ſalire nell' ultime aſtrazio ni della metafiſica; quindi il
lettore reſta ſorpreſo dalla mera viglia (8 ) 1 > e di viglia, allora che
egli racconta il principio della diſputa tra So crate e Zenone, e che poi
s'interrompe alla venuta di Parme nide, che fattoſi pregar un poco la continua
fino al fine. Quan te menzogne, ſe Socrate non parld mai con Parmenide ! All
incontro qual arte fina di veriſimiglianza poetica, per dar or namento alla
verità del fatto di cuiCefalo, Adimanto, e Glau cone vivendo poteano renderne
teſtimonianza? Come immagi narſi, che un Filoſofo il qual volea render accetta
la lettura de ſuoi Dialoghi, cominciaſſe a diſguſtar il lettore con bugie le
più sfacciate? Ariſtotele, che calunnia il ſuo Maeſtro in tante parti
dell'opere ſue fue, e che parld ſovente di Parmenide Socrate non attaccò mai
Platone ſul loro abboccamento, e pur ne poteva trar degli argomenti, per
renderne la dottrina ſoſpetta. Non ne parlano altri autori Greci più vicini a
Platone, non gli autori Latini, che più ſtudiarono i Greci, e tra gli altri
Cicerone e Plinio, che tante coſe ci conſervarono fu l' iſtoria ed Era
Filoſofica. Non v'è che il ſolo Ateneo il qual viſſe a' tempi di Marco Aurelio,
che vuol dir quaſi più di 600 anni dopo Platone. (a ) Egli dice: Appena
permette l' età che Socrate aveſe veduto, ed udito Parmenide, non dover però
noi meravigliar ſene, perchè Platone ſuppoſe che Fedro vivere al tempo di
Socrate; che Paralo, e Zantippo figliuoli di Pericle, e morti nella peſtilenza,
ragionaſſero nel Protagora, e che Gorgia diceſſe nel Dialogo del ſuo nome quel
che mai s'era fognato di dire. Molte altre accuſe contro Platone vibra Ateneo,
e s'affatica a dipingerlo tanto mordace, e maledico quanto bugiardo. Non so
perchè i Cronologi attenti a peſare ogni minuzia de'te fti non oſfervino, che
Ateneo nel dire vix ætas permittit dichiara, che poco intervallo di tempo v'era
ſtato tra la morte di Parme nide, e l'età di Socrate, maqueſto vix qual ha poi
forza cronologica poſto in bocca di Guriſconſulti, di Oratori, diPoeti, di
Filologi, non di Cronologi, che avrebbono diminuito l'allegrezza del convito
coi loro calcoli, e colle lor aſciutte illazioni? Il Calaubono il qual nel ſuo
comentario d'Ateneo in un'altro libro in foglio sfoga tanta eru dizione ſu
l’erbe, ſu ipeſci, ſui coſtumidel convito, elu mille altre coſe inutiliffime a
ſaperli nulla degna di dire ſu le accuſe colle qua li uno dei Dinnoſofiſti
morde Platone. Io per me credo, che A teneo vedendoſi incapace d' emulare
l'immenſità della dottrina Platonica, e l'arrificioſa maniera con cui l'eſpone
Platone ne'ſuoi Dialoghi, teſſe lunga ſerie d'accuſe, e lo condanna di menzogne
ro, e maledico per accreditar ſe non altro la veracità, e la mo deſtia colla
quale caratterizza i ſuoi Dinnoſofiſti. Il buon Grama cico (a ) Ateneo lib. 14.
Sympt, 9 ) tico ne goda egli pure, e ſen ' applauda; non per queſto io crede rò,
che Parmenide non poteſſe ragionare con Socrate, e ſtard immobile nelle mie
ipoteſi cronologiche, che a ben peſarle non vagliono meno di tante altre, che
in queſto ſecolo fi ſpacciano, e fi difendono come i Teoremi diGeometria:
Candidamente perd confeſſo, che io farò per ſacrificarle a colui, che
all'autorità di Ateneo ne aggiungere qualchealtra più dimoſtrativa, e meno ſo
fpecta; finalmente malgrado le congetture eſpoſte io ſon perſua ſo, che ſe
Platone tutto finſe, il Dialogo è più ammirabile per la menzogna poetica tutta
opera della ſua fantaſia, che non è per la verità del fatto, di cui poteano
farſi onore i men dotti. Platone fcriffe in Filoſofia più ditutti gli antichi
che lo precede rono, e come da Eraclito le coſe fiſiche, da Socrate le morali,
così tolle da' Pittagorici lemetafiſiche, le quali non ſi correffero che nel
fecondo ſecolo della Religione, per le varie diſpuce che, nacquero tra
iPlatonici, e tra i Criſtiani. Eſaminerò dunque prima d'ogni altra coſa la
natura della difpu ta, dopo di cui proporrò generalmente l'antica Filoſofia, ed
in di la particolareggierò in Pittagora, e ne'Pittagorici, tra'quali Se nofane
e Parmenide, e la terminerò con Platone. A queſte due coſe io riduco l'origine,
e l'effetto dell'Eleatiça Filoſofia.. Gli antichi Filoſofi, ſenza eccettuarne
nè pur uno, convennero nel principio, che di nulla fi fa nulla, e ciò gl'
impedì di poter conoſcere che Dio era un ente ſingolariſlimo, uno, onnipoten re,
buono, e libero; in ſomma di tutte quelle perfezioni dotato le quali o per
negazione, o per caſualità, o per eminenza gli at tribuirono i SS. Padri, e
cuti'i Teologi. Era Dio ſtato ſempre con la materia? Dunque altro non gli
competea, che eſſer un modo di efla od un ente, che ſolo per preciſion di
ragione dalla materia ſi diſtingueva; era egli per metà uno, per metà
onnipotente, fe dipendea da un principio, ſenza il quale operar non potea, non
più che il Pitcore dalla tela e dai colori, e lo Scultore dal marmo. La
diminuzione della potenza toglieva a Dio la bontà, perchè non poteva egli
vincer in guiſa la contumacia della materia, che non regnaſſe a ſuo malgrado il
male miſto col bene. Come dunque Mosè per opporſi al politeiſmo del ſuo tempo
dalla creazione cominciò la ſtoria del mondo; così per opporſi a tutti gli
errori che derivarono dall'eternità della mate ria fi cominciò nel ſimbolo
Apoftolico da Dio creatore, inſiſten do al dogma di S. Paolo, il quale nella
Epiſtola agli Ebrei: In tendiamo; (a ) dice egli, per la fede eſſere ſtati
connelli i ſecoli Tom. II. b dalla (a ) Epiſt. agli Ebrei cap. 11. Fide
intelligimus aptata eſſe ſecula ver bo Dei. (10 ) dalla parola di Dio. I Padri
nelle loro diſpute co'Gentili lo dichia rarono. Noi, dice Atenagora,Jepariam
Diodalla materia, lamateria crediamo un ente diverſo ---- (m ) Dio è uno, ed
ingenito, ed eterno; la materia è corruttibile; e poi celebriamo tutti un Dio
ſolo crea tore di tutte le coſe. - -.- la fua forza immenſa non poterono abbrac
ciar coloro con l'animo, che la notizia di Dio non cercarono nello ſtef fo Dio,
ma dentro fe fteſi. Taciano (6 ) pur dice: Dio non s'inſi nua nella materia e
negli spiriti materiali e nelle forme, ma egli è artefice inviſibile ed
intangibile di tutte le coſe. Teofilo d'Antiochia (c) parlando ad Autolico,
dice, ſe Dio è ingenito e la materia è pur tale, non è più Dio fabricatore e
creatore di tutte le coſe. Queſti Pa dri viſfero tutti e tre nel ſecondo ſecolo
non molto diftanti l' uno dall'altro. Gli errori de' Marcioniti, de'
Valentiniani, de' Baſiliani, chefuronopur cutti e tre che in queſto ſecolo
diedero occa fione a' Padri d'illuſtrare il lor zelo, dichiarando con la crea
zione della materia il principio fondamentale della Religione Criſtiana. Anzi
Taciano dimoſtro, che i Greci ne avevano ri cevute l'idee da'Barbari, ed i
Barbari dagli Ebrei, benchè poi le aveſſero oſcurate e corrotse. Affaccendati
gli altri Padri a purgarle, oſſervarono che Dio, autore del pari della Fede,
che della ragione, non le avea ſeparate in un modo caliginoſo ed impenetrabile,
ma le avea in maniera accordate, che dall'aurora dell'una fi potea paſſare al
pieno giorno dell'altra, cogliendo però dalla ragione quanto e Platonici e
Pittagorici e Stoici, ed Epicurei v aveano im preſſo col lor proprio carattere.
Si compiacquero dunque della ſetta Eclerica, ed il primo che l'abbracciale fu
Atenagora il primo de' Catechiſti d'Aleſſandria, poi S. Clemente ed Origene dal
Veſcovo Uezio chiamato Pocamonico (d ) anzichè Platoni ço, San Clemente ſpinſe
tant'oltre la condiſcendenza, che pro poſe come poflibile un ſiſtema
filoſofico, il quale raccoglieſſe tut te le verità ſcoperte dalla ragione umana
fin dal principio del mondo, ed agevolaſſe il metodo di far ricever i dogmi
della fede, e quello della creazione. Amonio Sacca conciliator di Ariſtotele e
di Platone, ritrovando che in Ariſtotele l' eternità del mondo ſi conciliava con
l'eter nità di Dio, ſe ben egli nulla ſcriveſſe, laſcid tuttavia a' ſuoi
diſcepoli, onde ſtabilire tal dogma. Diſtinſe egli l' eternica in due gradi o
in due ſegni, nell' uno dei quali poneva Dio, nell'altro le coſe bensì create,
ma da lui dipendenti, come il raggio dalSole, o l'ombra dal corpo. S'accorſero
i Padri, che iFi (a ) Apologia pro Chriftianis. (6) Tat. allir, cont. Græc. (c
) Teof. Aut, lib. 2. (d ) Iftor. del Moeffenio nel finedelCuduortio. (11 ) e
tras i Filoſofi mettendo con la creazione eterna una dipendenza tra la materia
é tra Dio, coglievano a Dio la libertà, perché cacitamente fupponevano, che da
Dio neceffariamente foſſe emanato il mondo come il raggio dal Sole e l'ombra
dal corpo. Far di Dio un Agente neceſſario, è lo ſteſſo che farlo per metà
Signore, per che ſe fi confeſſa da una parte, che da Dio dipenda la coſa che
egli fa, fi nega dall' altra che da lui dipende il farla ed il non farla. La
libertà è la maggiore delle perfezioni. Perchè dun que corla a un ente
infinitamenteperfetto? Lafcio S. Ireneo, S.Cirillo, ed altri, cheſoddisfarono
ampia mente a tutte l' obbiezioni; ma quello, che più degli altri le
ſcDIonvolſe ed atterrò, è ſtato Lattanzio Firmiano, che con au reo ftile nel
quarto ſecolo ſcriſe. In queſto ſecolo ancora ſcriffe ro Eufebio nella
Preparazione evangelica, e poi S. Agoſtino nel la Città di Dio, l'uno ſegut l'
ormeaccennace da Taziano, 1 alţro con erudizione più vigorofa, e più filoſofica
ſcriffe contro l'eternità, l'animazione, la divinica del mondo, e l'immutabi
lità del Fato. Apparve Proclo (as nel príncípio del V1. fecolo fondendo nella
ſua Teologia molto di quella de' nomiDivini at tribuita a S. Dionigi Areopagita,
rinovd il fiſtema di Amonio Sacca riſtoro il Platoniſmo caduto. Nel fecolo dopo,
Zac caria di Mitilene, ed Enea di Gaza, ſcriſſero' pure contro l'eter nità del
Mondo. E da' loro fcritii ſi raccoglie, che l'idea di Dio, combinata col
policeiſmo era un'idea nugatoria, non men di quel la del bilineo rettilineo,
che rappreſenta alla mente una figura, é non è che una contraddizione. Il P.
Balto, nel ſuo dotuiffimo libro contro il Platoniſmo ſvelato, lo dimoftra; e
dopo il Balto fe de fece dal Moeſfenio quella circoſtanziata iſtoria ſul
Platonis la quale è nel fine dell' opere del Cuduortio, da lui tradotre dall'
Ingleſe in Latino. lo nell’eſpor la doctrina de Filoſofi antichi non mi feryi
rò dell'autorita de' Platonici recenti, non più, che fe non aveſ ſero mai
ſcritto, ſalvo allora, che s'accordano cogli antichi, e ci confervano qualche
circoſtanza ſtorica indifferente. Cercherò prima ne' teſti de' Filoſofi ftefli
il ſenſo, che naturalmente preſen iano, e dove ſia queſto oſcuro, ed equivoco,
ricorrerà all'in terpretazione o di Cicerone, o di Plutarco, o di Sefto
Empirico, o di Laerzio Viſle Cicerone molti anni prima del Crifianeſimo, e
Plutar co viffe a Roma ſotto Adriano, o Trajano, dopo d'aver ſtudiato in Egitto
forro Amonio, diſcepolo di Potamone, e del quale egli b 2 par (a ) Pachimero in
Suida, Vedi Fabrizio Bibliot. art, Proclo. e mo,. (12 ) parla nella vita di
Temiſtocle ed altrove. Laerzio e Seſto Empi rico, fiorirono in circa ſotto
Severo, che vuol dire molto prima di Amonio Sacca, di Plotino, di Porfirio, e
di molti alori nimici del nomeCriſtiano; non rifiuterd dall'altro lato i
ſoccorſi, che i Padri m'offrono allora particolarmente, che non hanno certa
indulgenza alle opinioni filoſofiche, ſcrivendo agl’Imperatori, o non
argomentano ad hominem contro coloro, che gl'inſultava no. La mecafiſica di
Platone non è diverſa da quella de' Pittago rici, e ſe una volta io dimoſtro,
che queſti e particolarmente Pitta gora, Senofane, e Parmenide conobbero bensì
un principio intel ligente, ma non ſeparato dalla materia, anzi con effa non
facen do che un tutto, avrò dimoſtrato, io mi perſuado, che queſto pur era il
ſiſtema Platonico. Cominciero da Cicerone che in poche ma ſoſtanzioſe parole
compendio tutto il ſiſtema de' primi Accademici o di Platone, e lo craſſe da'
Pittagorici, come da Placone purtraſsero il loro gli Stoici, e i ſecondi e
verzi Acca demici, poichè quanto a' Peripatetici (a ) eli convenendo nelle cafe
non differivano, che ne' nomi. Gl’antichi, dice egli, divideano (b )lanatura in
due coſe, l'una delle quali era efficiente, e l'altraad eſsa quafi preſtandoſi
quella di cui ſi fa ceano le coſe.. Incid che facea riponevano la forza, in ciò
di cui ſi fa cea, una certa materia, ma l'una e l'altra era nell' una e nell'
altra perchè nè la materia può aver coerenza, ſe non ſia da qualche forza
ritenuta, ne v'è la forza ſenza qualche materia, poichè nullo v'è che non fic
in qualche luogo.. Se la forza e la materia erano indiviſibilmente unite, la fola
mente le ſeparava, e perciò conſiderar l'una ſenza l'altra era un?: aſtrazione,
una preciſion della menee. Cid che riſulta (c ) dall'uno e dall'altro, o ſia
dall'accoppiamento, lo chiamavano corpo, e quafi certa qualità...--. Di queſte
qualità al tre fono principali, ed altre derivate da queſte. Delle principali
ſono ognuna [CICERONE, QUÆST. ACAD. -- Peripateticos', & Academicos
nominibus differentes, & re congruentes lib. 2. (b ) De natura autem ita
dicebant, ut eam dividerent in res duas, ut altera eſſet efficiens, altera
autem quaſi huic fe præbens ea qua effi ceretur aliquid: in eo, quod efficeret
vim eff: cenſebant; in eo au tem quod efficeretur materiam quamdam: in utroque
tamen utrum, que: neque enim materiam ipfam cohærere potuiſſe, ſi nulla vi
contineretur; neque vim line aliqua materia: nihil eft enim quod non alicubi
eſſe cogatur. (c ) Sed quod ex utroque id jam corpus, & quaſi q uandam
qualitatem nominabanc Earum igitur qualitatum ſunt aliæ Principes, aliæ ex his
ortæ. Principes ſunt uniuſmodi, & ſimplices, ex iis au tem ortæ variæ funt,
& quafi multiformes: itaque aer quoque (uti niur (13 ) ognuna della ſteſſa
ſpecie, e ſemplici. Da queſte qualità, altre ne for no nate, e quaſi
moltiformi. L'aere, il fuoco, l'acqua, ela terra for no primi, e da queſti
nacquero le forme degli animali, e le altre coſe, che ſi generano dalla terra.
Dunque que' principi, per tradurlo dal Greco, ſi dicono elementi, de' quali l'
aria, il fuoco, banno la for za di muovere, e di fare, le altre parti di
ricevere, e quaſi di pati re, l'acqua, dico, e la terra. La parola ſemplice quì
non ſignifica indiviſibile, e Seſto (a ) Em pirico pur la prende in queſto
ſenſo. Vè un quinto genere, b )di cui ſono gli aſtri, e le menti ſingolari, ed
Ariftotele lo pone diſimile dagli altri quattro. Se le menti ſono tratte dallo
ſteſſo elemento, che gli altri, non ſon eſſe ſemplici nel ſenſo d'indiviſibile,
ciò che CICERONE dice altrove. Teniamo noi che l'animo abbia tre parti, come
piacque a Platone, o ſia ſemplice ed uno; ſe ſemplice ſia egli come il foco, il
fangue, l'anima, cioè il ſoffio. Queſte coſe conſtando di parti non ſono
ſemplici. Continua CICERONE. (c ) Ma penſano, che di tutte ſia ſoggetto una
certa materia priva di ogni specie, e d ogni qualità, e da eui Butte le coſe
ſono eſpreſſe e fatte, e che può ricever in sè tutte le coſe. Se la materia era
prima d'ogni fpecie, d'ogni qualità, non cra corpo, e perciò conſiderata dalla
mente, indipendentemen te dalla forza, ella era incorporea; Selto Empirico
chiama per. incorporei i punti, le linee, e le ſuperficie... Platone nel Timeo,
la chiama difficile ed oſcura fpecie, e il recercacolo d'ogni generazione, e
quali nutrice; aggiunge, che ella non fi diparte mai dalla propria potenza,
perciocchè tut te le coſe riceve, nè prende maiper alcun modo, alcuna forma a
queſte fimile, e prova eller convenevole, che di tutte le ſpecie ſia privo
quel. che ha in sè da ricever tisti'i generi, comequelli che hanno da fa re
unguenti odorofi, l'umida materia, che vogliono di certo odore, cori dire di
tal guiſa preparano ', che ella non abbia alcun proprio odore e colore eziandio,
vogliono in materie molli imprimere alcune pgure, los niuna mur' n. pro latino
) ignis, & aqua, & terra prima ſunt. Ex iis au tem' orræ animantium
formæ earumque rerum quæ gignantur è ter ras, ergo illa initia, ut è Greco
vertam, elementa dicuntur; è qui bus aer, & ignis movendi vim habent &
efficiendi; reliquæ par tes accipiendi & quafi patiendi, aquam dico &
terram. a ) Contra Mathematicos. (b ) Quintuin genus e quo eſſent aſtra
mentesque ſingulares earum quatuor quæ ſupra dixi diſſimiles, Ariſtoteles
quoddameſſe rebatur. (6 ) Sed Salicetam putant oinnibus fine ulla fpecie, atque
carentem omni illa qualitate o... materiam quandam ex qua omnia eſptela, atque
effecta lipt qux'- tota omnia accipere pofito (14 ) 1 njuna figura affatto
laſciano primieramente apparire in quelle, ma cer cano pria di renderle
quantopoſſibil fra polite. Molte altre coſe aggiunge Placone, che Ariſtotele in
una de finizione riduce, dicendo che la materia non è alcuna di quelle co fe,
di cui l'ente fi determina, e tra l'altre coſe annovera la qua lica, e la
quantità, che par Cicerone ridurre alla ſola qualità; ma che l'idea del corpo,
e della materia foffero diverſe ſecon do gli antichi, lo dimoſtrano le diverſe
parole, con cui l'eſpri mevano, chiamando la materia ùns, ed il corpo owllde.
Chi po ne un nome, dice Platone nel Sofiſta, dalla cofa diverſo, introdu ce
veramente due coſe. La materia dunque, non eſſendo il corpo, ella era
incorporea, ed incorporea la chiama in molti luoghi Sesto Empirico, e Plotino,
la cui autorità qui è tanto più for te, quanto che egli ſteſo col nome
d'incorporeo, non ſignifi cava la ſteſſa coſa che noi chiamšamo fpirituale.
Stobeo (a ) lo conferma col dire: Si nega effer corpo lamateria non tanto,
perchè manchi degl'intervalli del corpo, o delle tre dimenſioni, quanto perchè
ſia priva d'altre coſe appartenenti al corpo, figura, co lore, gravità,
leggerezza, ed ogni altra qualità, e quantità. La materia pud (b ) in tutti i
modi mutarfi, ed in ogni parte non mai ridurſi al niente, ma ſolo in parti che
poſsono all' infinito partir li, e dividerſi, nulla eſſendo di minimo in natura,
che divider non fi pola. Le coſe poi che ſi movono tutte', moverſi con
intervalli, che all'infinito ſi poſſono dividere, e cosi' movendoſi quella
forza, cheab bian detta qualità (cioè il corpo ) e di qud, e di là verſando per
fano, che tutta affatto la materia fi muti, efi faccian le coſe, che chix miam
quali, dalle cui nature coerenti, e continue in tutte le ſue parti è fatto il
mondo, fuori di cui non v'è alcuna parte di materia, nè abas cun corpo. Quante
coſe raduna CICERONE in poche parole ! Con la divi fibilità all'infinito della
materia, eſclude gli atomi forſe ammeſ da Empedocle ne' minutiſſimi corpicelli,
che componevano gli elementi, e da Eraclito nelle mondature piccioliflime, ed
indivi fibi (a ) Stobeo. I. 1. Egl. fil. cap. 14. 16 ) Omnibusque modismutare
atque ex omni parte eoque etiam interi se non in nihilum ', ſed in ſuas partes
quæ infinite lecari, atque di vidi pollint, cum ſit nihil omnino in rerum
naturam minimum quod dividi nequeat: quæ autem moveantur omnia intervallis
moveri; quzintervalla item infinite dividi poſfint, & cum ita moveatur il
la vis, quam qualitatem effe diximus, & cum fic ultro citroque verfetur:
& materiam ipfam totam penitus commutari putant, & ita effici quæ
appellant qualia, e quibus in omninatura cohærente, & confirmata cum
omnibus fuis partibus effectum elle mundunt, extra quem nulla pars materiæ fit
nullumque corpus. (15 ) Ibili. Con la coerenza delle parti della materia, CICERONE
eſclu de il vuoto negato da tutti, da Talece fino a Platone, onde dif ſe
Empedocle: Nulla di vuoto vė, nulla che abbondi. Accenna pur CICERONE le leggi
coſtanti che conſervano icore pi movendoſi, e nel dir che fi movono con certi
intervalli, i quali all' infinito ſi poffon dividere, non applica egli le leggi
del moto a' corpi minimi come a'fenfibili? Le parti (a) del mondo effer tutte
le coſe che fono in eso, e tutte occupate da una natura che ſente, e nella
quale v'è una ragione per fetta, e la ſteſsa fempiterna, nulla effendovi di più
forteche poſsa diſtruggerla, e la steſſadirfi mente, ſapienza perfetta, e
chiamarfi Dio, ed eſer.quafi certaprudenza di tutte le coſe, cheprovede alle
coſe celefti, ed a quelle che in terra appartengono agli uomini. Se queſto Dio
degli antichi Filoſofi rifultava dalle nature coerenti e continue di tutte le
parti del mondo, ſe egli era il ſenſo, la ragione perfetta, la ſapienza, la
providenza che reg gea queſte parti, era egli altro che una modificazione della
forza e della materia, giacchè non v'era forza ſenza materia, nè materia fenza
forza, e non era egli ſeparatamente dalle co ſe conſiderato che un ente di
ragione? Qual relazione ha que fto Dio al noſtro, che è un ente ſingolariſtimo
in sè, e fepa rato non per preciſion di ragione, ma realmente dalla forza e
dalla materia, della quale egli è il Creatore? Alle volte lochiamiamo (b )
neceſſità, perchè null' altro pud farſi, ſe non ciò che da lei è coſtituito
nella quafi fatale, e immutabile con tinuazione d'un ordine fempiterno; alle
volte poi lo chiamiamo fortu na, la qual fa molte coſe improvvife, nè da noi
penſate per l'oſcuri. tà, ed ignoranza delle cagioni; ed ecco Dio rappreſentato
come agente neceſſario, o ſenza libertà; ecco diſegnato l' ordine fa tale e
ſempiterno delle coſe; ecco come per la noſtra igno ranza non poſſiamo
conoſcere la conneſſione, e le conſeguenze delle (a ) Partes autem mundi effe
omnia quæ infint in eo quæ natura ſentiente teneantur, in qua ratio perfecta
inſit quæ fit eadem ſem piterna: nihil enim valentius eſſe a quo intereat, quam
vim ani mam effe dicunt mundi eandemque effe mentem fapientiamque per fectam
quem Deum appellant, omniumque rerum quæ ſunt ei fub jedtæ quafi prudentiam
quandam procurantem cæleftia maxime dein de in terris, eaque pertinent ad
homines. 16 ) Quam interdum neceſitatem appellant quia nihil aliter poſfit, at
que ab ea conftitutum fit inter qual fatalem, &immutabilem conti nuationem
ordinis fempiterni; nonnunquam quidem eandem fortu nam, quod efficiat multa
improviſa hæc nec optata nobis propter obſcuritatem ignorationemque cauſarum, (16
) delle cagioni, e degli effetti loro. In ſomma l'antica Filoſofia aveva
adotata l' eternità, l' animazione, la divinità del mondo, e l'immutabilità del
Fato, le quattro coſe che Santo Agoſtino ha egregiamente combattute nella Città
di Dio. Comparando il trattato d' Ilide, e d' Ogride di Plutarco col paſſo di CICERONE,
non è difficile di raccogliere, che la Filoſo fia Egizia ne' principi
eſſenziali non era diverſa dalla Greca, ſe non nella maniera di ſpiegarſi o ne'
ſimboli. La materia, di cui parla CICERONE, era Ilide, la quale in ogni coſa
potea tramu. tarſi, e di tutte le coſe eſer capace, della luce, delle tenebre,
del giorno, della notte, della vita, della morte, del principio, e del fi ne.
La forza è Oſiride, la cui veſte ſi facea ſenza ombra, e ſenza varietà, d'un
color ſemplice, e rilucente; perchè ella è il principio dalla noſtramente ſolo,
intefo, puro, e ſincero, tutt' iſimbolicontrarj a quelli delle proprietà
dipendenti dalle qualità de' corpi diſegnati per Oro. Riſultava queſti
dall'accoppiamento d'Ilde, e d'Oſiride, e chiamavaſi parto o creatura,
rappreſentandoſi per l'ipotenuſa del triangolo miſurata dal 5; per cui ſi
chiamava con la voce Pente, da cui deriva Panta, o l'Univerſo, che gli Egizi
penſavano eſſer la ſteſſa coſa con Dio, nel che, come egli dice, s'accordava Ma
netone Sebenita con Ecateo Abderita. Diodoro di Sicilia nel principio della ſua
Storia, ſcrive coſa pen {aſſero gli Egizj su la generazione del mondo, ſul
principio del le coſe, ſul naſcimento dell'Uomo. Par che Euſebio afcriva a Tot,
che è il Mercurio degli Egizj, quanto ſcriſſe Sanconiatone ſul caos, e ſulla
formazione della Luna, delle Stelle, degli Elementi. La Teologia miſtica dei
Fenici, che dagli Ebrei, ſecondo Euſebio ed altri Padri, ſi preſe, reftd in
guila alterata e confuſa, che nel caos poſero prima i principj delle coſe, ed
introduſſero poi l'arte fice o l'amore, per opra del quale ordinarono il caos,
é fabbrica rono il mondo. Orfeo il primo la portò nella Grecia e L'Inno criſto
canto del caos vetufto, E come agli elementi, e come al Cielo Origin deffe, ed
alla vaſta terra, E alla profondità del mar Amore Antichiſſimo, e ſaggio. Il
caos era la materia, l'amore, o la forma, ed i prodotti, i compoſti, ed i
corpi, ed in queſte tre coſe conſiſtea la fiſica generale degli antichi. La
ſcienza che n'eftraſſero o la metafi fica rappreſentandola in una maniera molto
indeterminata, la ſciava infeparata la materia da Dio, e dai compoſti, ed era
molto perciò differente dalla noſtra metafiſica, la quale nell' en te include
eſſenzialmente le creature, nè s'eſtende che per un ' 9 1 5 analogia molto
lontana al Creatore. Io lo dimoſtrerò partita mente ne' liſtemi di Pittagora,
di Senofane, e di Parmenide, e ſarà facile ad applicarne l'uſo a Platone.
Pittagora e Platone (a ) giudicano, che il mondo ſia ſtato fatto da Dio: dunque
le Platone fece da Dio generar il mon do ordinando la materia fluctuante, egli
imparò ciò da Pitta gora, che l'avea imparato dagli Egizi, da Orfeo, anzi dal
pro prio maeſtro (6 ) Ferecide Sciro. Avea egli ſoſtenuto, che in tut ta l'eternità
Giove, il tempo, e la terra erano ſtati. Facciali pur di Giove, la cagione di
tutte le coſe, e gli ſi dia ſomma pruden za, e fomma ſapienza, egli non ſarà
mai che la forza, e l'amore che eguaglieraffi al tempo, e alla terra; vi ſi
aggiunga, che poi chè Giove diede il premio alla terra ſi chiamò queſta
Tellure, (c ) non altro mai ſi concluderà, ſe non che prima la forza, e l'amo
re temperaffe, digeriſſe, ed ornaſſe quella mole indigeſta, che chiamavali
terra. Pittagora generò il mondo dal foco, e a guiſa di foco ſotti liſſimo (d )
Iparſo, e rinchiuſo nel mondo, volea Placone, che foffe Dio. L'ornamento, (e )
l'unione, l'ordine di tutte le coſe furono chiamate da Pittagora Coſmos, o il
mondo, e diffe egli, che il mondo viſibile era Dio. Stimò il primo, dice
Cicerone (f) l'animo per tutta la natura delle coſe eſer diffuſo, e per la
mente da cui gli animi noftri ſono tratti, ne vide per la detrazione di que fti
diſtaccarſi, e ſquarciarſi Dio, e farſi miſera una parte di lui, mentre queſti
ſoffrivano. Dio dunque era il mondo, e l'anime era no parti di Dio, effetto
della Metempficoſi, ſe pur non era queſta una coſa affatto poetica, come Timeo
di Locri lo dice. VIRGILIO espresse il sentimento di CICERONE nelle Georgiche. Della
mente di Dio parci efſer l' api, E forfi eterei differo, che Dio Va per tutte
le terre, e tutti i mari, E pel profondo Ciel; quindi gli armenti, E le pecore,
e gli Uomini, e ogni ftirpe Di fere, e ogni altra, che da se rimove La tenue
vita allorchè naſce. Tomo II. E nell (a ) Plut. de Ifid.& Ofir.car. 374.
Franc. Edit. Vechel. (6 ) Laert. (C ) S. Clem. Aleſs. (d ) San Giuſtino apolog.
Ermia nel fine dell'opere di S. Giuſtino. (e) Plut,plac.lib.2. (1) De Natura
Deor. I. 1. Elle apibus partem divinæ mentis, & hauſtus Æthereos dixere:
Deum namque iré per omnes Terrasque tractusque maris Columque profundum. Hinc
pecudes, armenta, viros, genus omne ferarum Quemque fibi tenues naſcentem
arceſſere vitas. 1.4. Georg.. C (18 ) E nell' Eneide, Nel principio le terre,
il Cielo, e i campi Liquidi, e della Luna lo fplendente Globo, e gli aſtri
Titanj, interno fpirco Alimenta, ed infuſa in ogni membro Tutta la mole n'agica
la mente E fi framiſchia nel gran corpo; quindi E di pecore, e d'Uomini la
ftirpe, De volanti la vita, e'l mar che i moftri Sorco la liſcia ſuperficie
porta. no, Pittagora fu l'autor dell'idee; (a ) oſervd il primo tra'Greci che
la mente non potendo rappreſentarſi ſingolari, perchè ſono in numerabili nel
compararli, ne traſfe igeneri, e le ſpecie, ne'qua li ſi ravviſano le coſe
ſparſe. Così ravviſava tutti gli individui umani nell'animal ragionevole. Nel
far queſti aſtratti conſide rò, che la materia era mutabile, alterabile,
Auflibile in ogni gui fa, ma che non vi ſono ſpecie, che s'accreſcano, o che
perifca e perciò gli Uomini oſſervandole coſtantemente in tutti i tempi, e in
tutti i Paeſi le credono eterne ed immutabili. La que ſtione era di
rappreſentar queſt'idee. I numeri convengono all'Uomo, al cavallo, alla
giuſtizia, al la caſa, e a che so io; dunque i numeri ſono univerſali, perchè
atti alla rappreſentazione de' molti. L'oſſervazione è d'Ariſtotele, (c ) e
molto più la ſtende Poſſidonio, riferito da Seſto Empirico, (d ) il qual
dimoſtra per i numeri aſſimigliarſi cutte le coſe, e ſen za queſti non poterſi
intendere nè gli elementi, nè l'armonia, nè alcuna delle tre dimenſioni del
corpo, nè ciò che riſulta da corpi uniti, coerenti, diftánti, nè tutti i
calcoli delle quantità fùccef five, nè ciò che appartiene alla vita, ed all'
arti fondate su propor zioni ſolo intelligibili per i numeri. Pitragora dunque
ſi ſervì del numero, per dar un ſimbolo dei due principj delle coſe, la forza,
e la materia, di cui chiamò l'una l'uno, e l'altra il due. L'unità, diceva egli,
è Dio, (e ) ed anche il bene che è di natura * Principio Coelum, ac terras
camposque liquentes Lucentemque globum Lunæ Titaniaque altra Spiritus intus
alit: totamque infuſa per artus Mens agitat molem, & magno ſe corpore
miſcet. Inde hominum pecudumque genus vitæque volantum, Et quæ marmoreo fert
monſtra ſub æquore pontus. (a ) Plut. plac. Phil. l. 1. (6 ) Plut. ib. l. 1.
c.9. (c ) Metaf. lib. 10. (d ) Contra Logicos. (e ) Plut. plac. Phil. lib. 2. (19
) un ſolo, e lo ſteſso intelletto, il due infinito, e genio triſto, d'inser
torno il qual due ſi fa la quantità della materia. Chiamava uno la forza perchè
noi la concepiamo a guiſa d'un non ſo che d'indi viſibile; chiamava due la
materia, perchè ella è fempre divil bile in due, Di queſti due principj, uno è
quello del bene, e l'altro del male, già l'ha inſinuato Plutarco. Archelao
Veſcovo (a ) di Cara dice; Širiano introduce la dualità contraria a ſe ſteffa,
la quale egli preſe da Pittagora, ſiccome tutti gli altri ſettatori di tak
dogma,; quali difendono la dualità declinando dalla via retta della ſcrittura.
Tutte in ſommal'ereſie, che vi ſono nel compendio della filosofia di CICERONE,
che vuol dir l'eternità, l'animazione, la divis nità del mondo, Piccagora le
raccolfe in un ſiſtema, ed in vano fi dice, che egli nulla fcriveſſe. Liſide
diſcepolo (b ) di Pittagora in una lettera fcnca ad Ip parco, dopo la morte del
maeſtro ſignifica non voler comuni care ad alcuno i precetti, e dimoſtra che
delle coſe, le quali di ceano i ſeguaci di Pitcagora, non ve n'era nè pur
ombra. Por firio nella vita di Pittagora dice, che agli Uomini oppreſli da tale
calamitat, (cioè dalla morte di Piccagora ): manca lo ſciens di lui, la quale
arcana e recondita cuſtodida in petto, nè vi reftas fono che certe coſe
difficili da intenderſi imparate a memoria dagli udi tori dell'eſterna
Filoſofia, poichènon v'era alçun ſcritto di Pittagora; ed aggiunge,che dopo la
morte di lui „ Lilide, Archippo,ed altri furono folleciti, chei
penſieridiPiccagora non ſi pubblicaffero, onde eutti gli arcani della ſua
Filoſofia con lui perirono'. To dubito aſſai del la vericà della lettera di
Liſide, la quale con quel che dice Porfirio pud eſſere ſtata finta,perchè i
Criſtiani nontraeſfero argomenti da quanto ci reſta diPitagora, in CICERONE in
Plutarco, in Laer zio: ma ſe non v'era coſa alcuna della Filoſofia di Pittagora,.co
me poi Jamblico poeea gloriarſi di riftabilirla; e non è manifeſto che egli la
riſtabili a fuo modo per combattere i Criſtiani de'quali fu accerbo' nimico; lo
ſteſſo Porfirio, che dice nulla aver fcric to Pittagora, come poi ebbe fronte
d'afferire, che egli avea ſcrit to fu l'ente, il che Euſebio (c ) riferiſce?
Diſcepoli di Pitcagora furono Archita Tarentino il vecchio, Pe ritione, Timeo
di Locri, ed Epicarmo. Archita il vecchio (d ), che Simplicio confonde col
giovine, fcriſſe delle dieci voci corriſpondenti ai dieci concetti dell'animo,
i quali s'eſtendono a cutte le cole, potendoſi d' ognuna cercar la (a )
Zaccagna collect. monumentorum veterum Eccleſiæ Græcæ, atque Latinæ. Archelai
Epiſcopi acta. (6 ) Galeo. (c ) Propof. Evang, lalg. (d ) Patrizia diſcuſ,
Peripa,1 (20 ) la ſoſtanza, la quantità, la qualità, l'azione, e gli altri
acciden ti regiſtrati a lungo da Ariſtotele nella ſua Logica, in cui copiò il
trattato di Archita. Lo Stanlejo, che pretende di numerare tutte le donne
Pitcago riche, omette Peritione, e pur eſser ella dovea la più celebre,le da
lei trafse Ariftotele (a ) tutta l'idea della ſua metafiſica. Lo prova con
molta erudizione il Patrizio, allegando la definizio ne della fapienza di
Peritione, e comparandola con quella di Ariſtotele. La ſapienza, diceva ella,
verſa in tutt'i generi degli en ti, perchè verſa intorno tutti gli enti, come
la viſione intorno tutti i viſibili. Ariſtotele definì la metafiſica, per la
ſcienza che contem pla l'ente, in quanto ente, e le coſe che per sè gli
convengono. Peritione egregiamente ſpiegò gli accidenti dicendo: delle coſe che
accadono agli enti, alcune univerſalmente accadono a tutti, alcu ne altre a
molti di loro, e certe ad un ſolo, ma riguardar univerſal mente, e contemplar
tutti gli accidenti appartiene alla ſcienza. Que. fte ed altre cole che
ilPatrizio aggiunge, danno idea della preci fione, e nettezza di Peritione, e
nel tempo ſtefso quanto tra' Pittagorici erano familiari l'idee Pittagoriche,
ſe le donne ſtef ſe ne ſcriveano con tanta eleganza filoſofica · Non dobbiamo
tuttavia meravigliarſene, di poi cheabbiam veduto ne’noftri gior ni Madama la
Marcheſa di Chatelet, ſcrivere ſulla natura del. le monadi Leibniziane,
queſtione molto più oſcura di quella dell'ente. Timeo di Locri nel ſuo
ragionamento ſull'anima del mondo, in queſta univerlità di natura, dice egli,
v'è un certo che, il qual rimane, ed è l intelligibile eſemplare delle coſe,
che ſono in un fuſo perpetuo di mutazioni, e queſto nelle vicende delle coſe
ſingolari, co ftante, e perpetuo eſemplare ſi chiama idea, ed è dalla mente
compre fo. Nell'univerſità dunque delle coſe, che vuol dir dentro le coſe o in
cutti i compoſti v'è quel non ſo che, che mai non cangia, e può dalla mente
eſtrarli qual idolo. Le coſe ſenſibili eſser in un perpetuo fluſso lo
diſsegnarono, al dir di Platone, nell'Omero, ed Eſiodo ſotto l'imagine
dell'Oceano, e di Te ti, e di queſte non aſsegnarono fcienza i Pictagorici, ma
ſolo di quelle, che nè col ſenſo, né coll' immaginazione ſi ravviſa no, e
queſta fu la prima differenza tra la Filoſofia Jonica, e l'Italica. Epicarmo
ſommo Poeta, come Omero al dir di Platone, so all' una grandezza d'un cubito (diceva
egli ) altra tu voglia aggiun gervi o ſottrarsi, non avrai mai certo la Nera
miſura; gli Uomini pa rimen (a ) Patriz. l. 2. cap. 1. diſcuſ. Perip. (6)
Ragion, ſu l'anima del Mondo. (21 ) rimente conſidera or accrefcere, ed or
decreſcere, tutti ſoggiaciono ai cambiamenti del tempo. (a ) Jeri tu fofti un
altro, io pur vi fui, E un altro ſiamo in queſto tempo, e fieno Di nuovo gli
altri, che non mai gli ſteſſi Noi ſiamo, come la ragion lo predica. Per
l'Intelligibile così parlo: A. L'arte tibicinal è qualche coſa? B. Perchè no.
A. Forſe è l' Uom queſta tal arte? B. Non mai A. Vediam, che coſa queſto ſia
Tibicine B. Egli è un Uom; non dico il vero? A. Il ver ma ftimi che non debba
diri Ciò pur del bene? Io voglio dir che il bene Una coſa pur ſia, ma s'altri
impari Ad effer buon ei già dirafli buono; Il Tibicine è quegli che la tibia A
ſuonar imparò. Quel che a ſaltare Salvatore, e ceſtor quegli che a teſſere
Impararo, e così d'ogni altro l'arte Certamente non è, ma ben l'artefice. Nel
dir Epicarmo, che il bene è una coſa come l'arte, e che nè il buono, nè l'arte
ſono gli uomini che la partecipano, egli c ' inſegna a far le aſtrazioni della
mente, la qual avendo comparato tra loro molti Uomini che fien buoni, molti
tibicini, molti falcatori e teſtori, ne ha compoſto quell'idea, che poi convie
ne a tutti. Queſt'idea reſtando ſempre la ſteſſa in tutti i tem pi, ed in tutti
i caſi, per quanto variano i temperamenti, e le figure degli Uomini, li
confidera ſempre nello Iteſſo modo, ed è principio del diſcorſo, o di ciò che
nel Teeteto ſi chiamano analogie ſcoperte, le quali nel raccogliere le coſe col
mezzo de' ſenli, le fanno comprendere la ragione. Epicarmo era contemporaneo di
Senofane, come ſi diffe, ed eccoci a ' Filolofi più vicini a Socrate, ed indi a
Platone, i qua li a poco preffo ſi trasfuſero le ſtelle idee non diverſificate,
che dalla maniera d'eſporle, e di colorirle. Senofane, dice Euſebio, e quelli (6
) che lo ſeguirono, moſfero così con (a ) Laerzio Vita di Platone. (6 ) Lib.
11. cap. 1. Prep. Evang. (22 ) 1. 1 contenzioſe ragioni, che piuttoſto
arrecareno a' Filoſofanti confuſio ne, che ajuto. Pittagora volea che il mondo
foffe eterno, benst come gli altri Filoſofi, quanto alla materia, ma non quanto
alla forma, poichè credea che foſſe ſtato generato dal foco; Se nofane pofe il
mondo non generato, ma eterno, 'aderendo ad Ocello Lucano, che fcriffe fu
l'eternità del mondo prima d'A. riſtotele; ecco la prima differenza tra
Senofane, e Pittagora Un'altra più forte ve n' era; Pittagora avea pofti per
principj l'uno, e il due, Senofane riduſſe tutto all'uno, Senofane", dice CICERONE,
è più antico di Anafagora; vuel che uno fieno tutte le coſe, nè queſto uno è
mutabile, ed è Dio non mai nato, e ſempiter no, e di conglobata figura. Seſto
Empirico (b ) parlando per bocca di Timone foggiunge, che fecondo Senofane l'
Univerſo era una fola coſa, che Dio eſiſteva in tutte le coſe, e che era di
figura sfe rica, e di ragione dotato. Ad Empirico ſi conforma Laerzio (c )
dicendo, che ſecondo Senofane, Dio nella materia tutto udiva tutto vedeva,
ſebben non reſpirale, e che tutte le coſe inſieme erano la prudenza, la mente,
l'eternità. Io dimando, ſe nel far Dio fparfo per tutte le coſe, e fen ſitivo,
e prudente, e intelligente, differiva egli dall' opinione che CICERONE eſpoſe
nel compendio della Filoſofia? Non v'è che la figura sferica che gli aſſegna
Senofane, e per cui non infinito, ma finito lo rende; ma chi fa, fe nel
concepir gli antichi la figu ra sferica, comela più ſemplice, intendeſſero
ſimbolicamente d'ac tribuir a Dio tutte le perfezioni? converrebbe faper fe
Senofane fcriſſe ciò in profa, od in verſo, e ben eſaminare tutto il conte fto
della fua dottrina. Non reſtandoci che conghietture, io m'at tengo a quella del
ſimbolo per accordar CICERONE con se stesso, il quale nella natura degli Dei
combatte Senofane, che aggiunſe la mente all'infinito. Queſt'infinità era una
conſeguenza del fuo ſiſtema, perchè ſup poſta l'eternità della materia cost
argomentava: (d ) Eterno è cid che è, se è eterno è infinito, fe infinito uno,
ſe uno fimile a sèl. Di nuovo ſe l' uno è eterno e ſimile, egli è ancora
immobile, fe immobile non ſi trasfigura per poſizioni, non ſi altera per forme,
non ſi miſchia con altri. Ariſtocele elamina i ſoffiſmi contenuti in queſto
ragio namento; il principale è; da ciò che il mondo è ecerno, infini to, uno,
non ne fiegue che egli lia effettivamente immobile, per che le coſe eſiſtono nella
maniera che poſfono eſiſtere, e la materia ſe ſteſſa il principio del moto non
v'è contradizione a cont (a ) Queſt. Acad. lib. 1. (6 ) Lib. 1. dell'ipotipoſi.
(c ) Laert. lib. 9. idí Arift. contra Xenof, Zenon. & Gorgiam. eſſendo per
i 2 (23 ) a concepire, che il moto ſia eterno come la materia. Coloro che
ammettevano il caos eterno, davano eterno il moto, ſebben ſen za regola o forma.
Non ſi cerca qui però, ſe concludeſſe l'argomento di Seno fane, ma ſolo qual
foſſe la ſua ſentenza, e coſa egli ne dedu ceſse. Come poi accordarla colla ſua
fifica? Ammetteva egli per principj (a ) delle coſe naturali la terra, il foco,
l'aria, e l' acqua, e dalle alterazioni di queſti elementi, rendea tutti i
miſti a generazione, e corruzione ſoggetti. Grand uſo fece di quefte due coſe,
perchè, ſecondo lui, conſiſteva il So le negl'ignicoli raccolti dall umida (6 )
eſalazione in una nuvola ignita, e la Luna in una nuvola coſtipata. Manon era
poſſi bile decerminare il grado di verilimiglianza filoſofica ch'egli da va
all'Ipoteli, poichè nelle ſentenze filiche di Senofane y' è mani. feſta
contradizione. Poneva egli de' Soli innumerabili, e la Lu na abitata. I ſoli
innumerabili erano quelli de' Pitcagorici, e di Orfeo (C ); ma come abitar una
nuvola? La terra (d ) la quale per immenſa profondicà fi ftendea di ſotto, era
coſa ri pugnante alla sfera armillare che Anaſimandro forſe di lui, maeſtro
avea inventata o propagata per cutta la Grecia. Cor revano allora tali
dottrine, e Senofane, in Colofone, in Atene, in Sicilia, e in Elea le avea
ſtudiate; avea Talęce calcolate l'eccliffi del Sole, e della Luna, avea
Pittagora applicare al liſtema celeſte le conſonanze Muſicali, e nella lira a
lette corde determinato il pu mero, e le diſtanze de' Pianeti; non è poſſibile,
che Senofane in un tempo così illuminato voleſſe diſcredicare il ſuo ingegno
con ipoteſi aſſurde e ad ogni ragione contrarie; non erano dunque, che idoli
fantaſtici, iperboli poetiche, o ſimiglianze groſſolane, in cui ſi deve più
badare al color, che alla coſa. La grande difficoltà di Senofane era nel
combinare il fiſico col metafiſico, o lo ſtato ideale con l'obiettivo. Avea già
ſtabilito Pictagora, l'intelletto altro non eſſer che (e ) mente, ſcienza, opi
nione, ſenſo, da cui tutte l' arti, e le ſcienze nacquero. Egli diſse gnava la
mente per l'uno, ciò che adeſſo noi chiamiamo lemplice intelligenza; diſegnava
la ſcienza pel due, poichè s'acquiſta la ſcienza deducendo una coſa da un'altra;
diſsegnava l'opinione per il tre, poichè nel trar la conſeguenza da un
principio proba bile ſe ne riguarda nello ſteſſo tempo due, in uno de'quali
v'èla ragion ſufficiente d'affermare, nell'altro di negar la coſa. I Pit 3 ta (a
) Laert. vit. di Xen. Plut. plac. (6) Plutar. lib.... Origenes Philoſ. (c )
Veggali Moefenio ſu l'eſiſtenza d'Orfee. Plutar. plac. de Fil. lib.i. (d)
Gregorii Aſtronomici Pref. (c ) Plutar. lib. 1. de plac. (24 ) tagorici furono
tutti dogmatici, o per dar credito alle ſentenze del ſuo maeſtro, o perchè
pareſſe loro, che la fapienza non do veſſe mai eſſer miſtad'ignoranza, come
accade nell' opinione milta dell' una, e dell' altra. Senofane fu il primo ad
introdur il dubbio nella Filoſofia, e quindi l'opinione. (a ) Chiaro l'Uomo non
ſa, nè ſaprà mai Degli Dei coſa alcuna ed altre coſe Che da me dette fur, ſiaſi
perfetto Pur quanto ei dice, tuttavia non fallo, E v'è opinion in tutte queſte
coſe. Da queſti verſi Seſto Empirico inferiſce, che Senofane non to glica la
comprenſione, ma ſolamente quella che dalla ſcienza de riva; nel dire in tutte
queſte coſe d'è opinione accenna il proba bile, e l'opinabile, onde conclude
che Senofane deve porſi tra coloro, che negano darſi criterio della verità, e
non tra gli ac cattalecici, che negavano alcuna coſa poterſi da noi compren
dere. L'autorità di Selto Empirico è d'un gran peſo, ove ſi tratta di
determinare i gradi della cognizione, ma non è da ſprezzar fi ciò che dice CICERONE:
Senofane e Parmenide quan tunque con non buoni verſi però con certi verſi
accufano quaſi irati d'ignoranza coloro, che ofano dir di ſaper qualche coſa
allo ra che nulla fanno. Chi dice nulla eſclude ogni ſcienza, ed ogni opinione.
Senofane ſi diſtinſe per la Logica, (c ) e ſecondo la Cro nologia di Euſebio,
(d ) egli fu udito da Protagora, e da Nef ſa; Metrodoro udi Nefra; Diogene
Metrodoro; Anaſarco Diogene, e coſtui Pirro d' Elea, dal qual ebbero nome i
Filo ſofi Scercici fino a Gorgia, il qual diceva: Non v'è nulla;,fe anche vi
foſe qualche coſa, non ſi potrebbe comprendere, e ſe compren dere, non mai
ſpiegare con le parole. Come inoltrarſi dopo tale raf finamento di dubbj? Tra i
diſcepoli però di Senofane il più illuſtre fu Parmeni de deſcritto da Platone
nel Teeteto qual vecchio grave, e vene rabile e di una profondità al tutto
generoſa, il che vuol dire, ſe mal non m'appoogo, che egli nella diſputa non
era oſtinato, ſu perbo, rozzo ed agreſte, come Ariſtotele (e ) dipinge Senofane
è Meliſſo. Socrate in quel Dialogo, ed in altri s'aſtiene quanto pud (a)
Xenoph. ap. Seſt. Emp, adv. Matem. (6 ) QUEST. ACAD.; Eufeb.1.6. C. 19. (d )
Id. l. 12, c. 7. (c ) Metaf. lib.... (25 ) può di ragionare contro le ſentenze
di Parmenide per la rive renza che ad eſſo portava. Euſebio (a ) caratterizza
la dottrina di Parmenide, qual via contraria a quella di Senofane. Ermia però,
dice Parmenide in bei verſi, c'inſegna che queſto Univerſo è eterno, immobile,
e ſempre ſimile a ſe ſtero. Lo ſteſſo Euſebio credeva, che ſecondo Parmeni de
l'univerſo foſſe ſempiterno, ed immobile. Stobeo riferiſce, che Senofane,
Parmenide, e Meliſſo colſero affatto la generazio ne, e la corruzione. In che
dunque diſconvenia Parmenide da Se nofane, (6 ) Ariſtotele chiaramente lo
ſpiega nell' accennar la dif ferenza che v'era tra Parmenide e Meliſſo, dicendo:
volea Par menide, che tutto foſe uno ſecondo la ragione, e Meliſo ſecondo la
materia, e da queſti due differiva Senofane, che chiaramente non dif ſe nè
l'uno, nè l'altro. Eſer uno ſecondo la materia, è il medeſimo che ritrovar nell
eſſenza della materia la ragion ſufficiente dell'unità della ſteſſa. Ed in
fatti una è la materia, fe in tutte le parti e nel tutco e nella medeſima
fpecie è omogenea, qual CICERONE la deſcrit ſe nel compendio della filoſofia, e
l'ammiſero Platone, ed Ariſto tele. CICERONE rammemora ancora la forza,
utrumque in utroque, ma conſiderando forſe Meliſſo, che gli effetti della
forza, o ſieno le forme, ed i modi aggiunti ſucceſſivamente alla materia, non
mai erano continuamente cangiando, gli eſcluſe dall'eſſenza, e in con ſeguenza
dall'unità della materia; ma ſe una era eſſenzialmente la materia, uno era il
mondo o l'univerſo, che da eſſa riſultava e ſe uno in ſe ſteſſo indiviſibile,
eterno, ed immutabile. Malgrado dunque le continue aggregazioni delle parti ne'
loro tutti, e le continue diſſoluzioni de'tutti nelle lor parti, malgrado le
altera zioni, le generazioni, e le corruzioni, contemplando Meliſo l' univerſo
nella parte effenziale lo credeva uno, e immutabile in quella guiſa che è
ilmare, non oſtante le continue agitazioni che foffre da innumerabili flutti.
Se tal era la ſentenza di Meliſo, ella non è men empia ri ſpetto a noi, che
ridicola preſo i Pagani, perchè la materia, fe condo lo ſteſſo CICERONE, non
può aver coerenza, e in conſeguen Tomo II. d za (a ) Cap. 5. l. t. Præp. Evang.
(6 ) Parmenides unum fecundum rationem attigiffe videtur, Meliſſus vero
fecundum materiam, quare id & ille quidem finitum, hic ve ro infinitum ait
effe, Xenophanes autem quando prior iſtis unum poſuerat (nam Parmenides hujus
auditor fuiffe dicitur ) nihil tamen clarum dixit, & neutrius eorum naturam
attigiſſe videtur, ſed ad folum coelum refpiciens ille unum ait effe Deum.
Metaf, Arift. l. 1. cap. 5. ediz, Parigi (20 ) 1 1 1 4 > za unità, ſe non è
ritenuta da qualche forza, e la continua ſuccef fione delle forme conſiderata
affolutamente in ſe ſteſſa, non è me no eſſenziale al mondo, che alla materia.
Ragionava dunque più ſottilmente Parmenide; dalla materia, e dalla forza, dalla
ſoſtanza, e dall'accidente, avea coll'aſtra zione della mente dedotta l'idea
dell'ente e dell'uno, e preten dea che l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo
preſcindeffe da tutte le forme, e le differenze dell'ente ſteſſo. Il P. Maſtrio
quali tre mille anni dopo ebbe una fimile idea, poichè egli vuole che l'en te
in quanto tale preſcinda dal finito, e dall'infinito, da Dio, e dalle creature
e la ſentenza è ſeguita da tutti gli Scotiſti. Qualunque ella fiali, certo è
che come quella di Parmenide curta opera della ragione più raffinata, e che ben
diſſe Arifto tele, che l'uno di Parmenide di VELIA era tutto ſecondo la
ragione, non che la ſentenza di Meliſſo ancor non lo foffe, ma egli nel
fondarla tutta ſulla materia croppo s'accomodava ai pregiudizi del ſenſo. Da
Parmenide, e da Meliſſo ſi diſtaccava Senofane, il quale ef ſendo il primo a
ragionare dell'immobilità dell'ente e dell'uno, s'at tenne alla concluſione
ſenza ſpiegar il metodo con cui la deduſſe. Ariſtotele (a ) che avea diviſe le
loro fentenze nella metafiſi ca, par che nella fiſica le confonda dove diffe',
che altri di lo ro tolfero la generazione', e la generazione, e la corruzione,
i quali come ben dicano in altre coſe non ſi deve perd penſare che parlino da
Fifici, poichè l'efervi alcuni enti immobili è più inſpezione di una ſcienza
ſuperiore, che della Fiſica. Non condanna dunque PARMENIDE DI VELIA, e MELISSO
DI VELIA, perchè aveſſero tratcato dell'unità, ed immo bilità dell'ente, ma
perchè ne aveano fatto un punto di Fiſica, dalla quale egli eſclule il trattato
delle coſe eterne, e immuta bili, onde credendo che il mondo, e il Cielo lo
foffero, parte ne trattò nella ſteſſa metafiſica, e parte ne' libri del Cielo;
na chi può credere che Parmenide non diſtingueffe queſte due ſcien ze, avendo
aſſegnati due principi delle generazioni, il foco, e la terra? e determinato
che un foco ſottiliſſimo, o lia l'etere cingeſſe gli altri, e che movendoſi in
vortice raffrenaffe colla ſua rotazione ſe ſteſſo, e le coſe contenute, ciò che
è il principio de' più moderni FILOSOFI (6 ) Egli componeva il mondo di molte
ghirlande tra loro teſſüste, una rara, e l'altra' denfa; fra le ghirlan de ne
poneva dell'altre meſcolate di tenebre, e di luce, e volea che la coſa la qual
a guiſa di muro le circondava forje foda, e maliccia. Queſte ghirlande, e
corone erano i vortici di Empedocle, dei qua li egli dice parlando de caſtighi
de'genj. Quelli (a ) Ariſt. Fiſic. lib. 1, (b ) Plut, lib. 2. cap. 7. (17 ) (*
) Quelli nel mar ſollicitante forza Dell' etere rifpinge, e fola ſpucali
Ne’ſotterranei abimi, e nella lampada Dell'almo Sole dalla terra cacciali, E il
Sole infaticabile tramandali Ne' wortici dell'etere. Accoppiando il paffo di
Parmenide con quel di Empedocle, par che tutti due deſſero vortici alle Stelle,
raffigurando Parinenide nella luce le fiffe, e nelle tenebre i Pianeti; chi sa,
che queſta coſa maf ſiccia non foſſe il moto del vortice tutto luminoſo, perchè
tutto etereo, il quale impediffe con la ſua forza di rotazione lo sfaſcia mento
del mondo viſibile? il moto della Luna, dice Plutarco, (a ) ol'impero con cui
gira, l'impediſce di cadere in quella guiſa, che la fionda torta in giro
dalbraccio impediſce la caduta del faffo. Vuol Favorino, che Parmenide primo
ſcopriſſe, che la ſteſſa Stella pre cede il Sole la mattina, e lo fiegue la
fera, o che il Veſpero è lo ſteſſo che il Fosforo. PLINIO ne attribuiſce la
ſcoperta a Piccago ra, il quale veriſimilmente la portò d'Egitto, col ſiſtema
cele fte; ma forſe Parmenide, nella Teoria di queſta ftella, più che gli altri
Pittagorici ſi diſtinſe, come Filolao nel moto della ter ra. Filolao la facea
gira r in cerchio intorno alSole, ed Ecfan to volea, che movendoſinon
partiſſe dal proprio luogo, ma fer mata a guiſa di ruota, ſopra l'aſſe proprio
intorno quello giraffe da Occidente in Oriente; non (6 ) aderiva Parmenide, nè
a Filo lao, nè ad Ecfanto, ma conſiderando la terra d'ogni intorno egualmente
lontana dalCielo, la ponea in equilibrio, e voleva che ſenza eſſer fpinta da
alcuna forza a queſto, o quell'altro verſo, ella fi ſquaſfaſe bensì, ma non ſi
moveſſe. Parmenide feparò il primo le parti abitate della terra fuor de' cerchj
fol ftiziali, indizio manifeſto, che egli avea proficcato delle teorie di
Anaſimandro, di cui ſi ſuol far ignorante Senofane. Tal era: il ſiſtema
aſtronomico di Parmenide: nel fiſico egli divinizzò la guerra, la difcordia,
l'amore, e diffe: Di tutti gli altri Dei cauſa è l'amore. * Αιθέριον μεν γαρ
σφεμένος πόντον δε διώκει, Πόντος δέσχθονος έδας απέπτυσε, γαία δ' εσαύθις
Η'ελία ακαμαντος, ο δ αιθέρος εμβαλε δίνεις. Α'λος δ' εξ άλα δέχεται και
συγένεσι δε πάντες. Plut. de Ifide, & Ofiride. (a ) De facie Lunæ. 16 )
Plut,deplac. Phil. lib. 3. d 2 Cosi (28 ) 1 Così gli attribuiſce Simplizio, ed
Ariſtofane colle da Par menide l'amore che ordina, e fabbrica le coſe nella
commedia degli uccelli, gli altri Dei non erano, che gli elementi già di
vinizzati da Parmenide. (a ) Empedocle l' emulò, benchè egli quattro elementi
poneſse, e due Parmenide, il foco, e la ter ra, principali architetti delle
corruzioni, e delle generazioni, e che rarefatti, o condenſati, ſi cangiano in
aria, ed in acqua. I principj, ſecondo Ariſtotele, devono eſser tra loro
contrari, e nulla v'è di più contrario, che il caldo, e il freddo, a quali
corriſpondono il raro, ee ilil denſo denſo,, ilil moto moto,, e la quiete.
Tutto queſto ſiſtema fiſico di Parmenide eſpreſse Platone nel Sofiſta. Le mu je
Jadi, ele Siciliane, dice, a queſte poſterioriſtimaronocoſa più ſicura
d'annodare le coſe inſieme, in modo che l'ente ſia molte coſe ed uno, e ſi
tenga colla diſcordia, e colla concordia, perchè diſcordando (6 ) fem pre
s'accoſta egli come dicono le più forti muſe, ma le più molli non hanno voluto,
che ciò ſe ne ſia ſempre così, ma privatamente alcuna volta dicono che l'Univerſo
ſia uno, ed amica per Venere, altra volta molte, e con sè per ſeco diſcordanſi
con certa conteſa. S'io non m'in ganno, qui s'allude all'amicizia, e alla
diſcordia, o all’amore, e alla lite, che Parmenide poſe come principj
efficienti delle genera zioni, e corruzioni; molti Poeti ſtaccando ciò dalle
Poeſie di Par menide, e di Empedocle, non ifpiegarono con la lite, e con l'ami
cizia, ſe non alcunifenomeni particolari, come chi dalſiſtemadel Newtono, il
quale poſe per principio univerſale l’ attrazione; al tri ſolo la prendeſse per
iſpiegare i fenomeni del magnetiſmo, e poi per iſpiegare l'eletricità, la
gravità ec. fi valeſse d'altro prin cipio. Non può dirſi dunque, che Parmenide
non foſse eccellente Fi fico, ſe egli allora penſava a ciò che il Newtono pensò
tanti ſeco li dopo; ſcriſſe in verſi il trattato della Natura, come Lucre zio,
ma il Poema s'è perduto, e non ce ne reſta che il principio conſervatoci da
Seſto Empirico. (c ) Mi portano i deſtrier, e quant'io voglio Traſcorrono; che
già m'aveano tratto Nella celebre via del Genio; via Di cui m'aveano
ammaeſtrato appieno Gľ (a ) CICERONE. 6 ) Nel Gítema Newtoniano in tanto una
parte di erta fugge da un' altra parte, in quanto ella è attratta con più forza
da un altro corpo; quindi dall'attrazione ſi deduce l'a repulfione. () I verli
ſono in Seſto Empirico contra Logicos. (29 ) 1 Gl'infigni coridori, e dalla
fama. Correndo il cocchio ſquaſsano, cui Duce Le fanciulle precedono, ma l'aſſe
Splende ſtridendo nell'eſtrema parce De' raggi tra due fiſso orbi torniti.
Allorchè s'affrettaro le fanciulle Eliadi, e della notte abbandonando Le café
tenebroſe oltrepaſsarle, Nella via della luce al fine entraro; Da i ſpiragli
rimoſsero le vele Con man robuſta dove ſon le porte Delle vie della notte, e
della luce; L'une e l'altre circonda un arco immenſo, E il pavimento tutto n'è
di marmo; Agiliffime corronvi, e s'appreſsano Colà dove tenea Dice le chiavi,
L'ultrice Dea, che premj, e pene imparte. Con parole molcendola ottennero Le
fanciulle, che all'uſcio ella fmoveſse L'interna leva. L'adattata chiave
Spalancando le porte per immenſo Foro i chioſtri ſcoperfe, mentre l'affe Si
rivolgeva, e l'orbita del cocchio, Facilmente reggean l'alme fanciulle, A cui
ben pronti il cocchio, ed i cavalli Ubbidiro. La Dea liera m’accolfe, E per la
deſtra preſomi usd meco Tali parole. Dio ti ſalvi, o figlio Dilecto figlio, che
alla noſtra Řeggia Guidarono que' nobili deſtrieri Che hanno in forte di
reggere il divino Cocchio, nè rea fortuna ti conduſse In tal via. Non è trita a
paſſi umani Ma audacemente di pregare è d'uopo I Numi, onde ti laſcino le leggi
Inveſtigar della natura, in grembo Di veritade, che a ubbidire è proſta, E de'
mortali tu fuggir potrai Le opinion, di cui non vera fede, Ma tu rimovi il tuo
penſier da queſta Via di ricerca, nè ti sforzi lunga Eſperienza delle coſe gli
occhi Figgere accenti o pur aperte orecchie Ai (30 ) Ai dogmi che ragion non
prova. Quello Che ti preſcrive eſperienza lunga La ſola mente dall'error
corregge. Seſto Empirico, comentando queſti verſi oſſerva, che Parmeni de
chiama gli appetiti dell'animo i cavalli, la ragione il genio, o demone, e gli
occhi le fanciulle Eliadi; tutto il reſto è fancaf ma poetico, e, comeSenofane,
egli penſava intorno alla ricer ca del vero; concludendo il giudizio appartener
alla ragione, e non ai ſenſi, ſenza eccettuare i due delladifciplina, o l'udi
to, e la viſta; dogma che fu poi quello dell'accademia, come a lungo Cicerone
lo prova. I verſi fe hanno per oggetto cofe fublimi, e leggiadramente accoppino
l' allegoria all' imitazione, e all' armonia, foddisfanno in un tempo ſtesſo,
al fenſo, alla fantaſia, e all'incellecco, ono de queſte potenze coſpirando
inſieme a ben rappreſentarci le co fe cantase, a preſtano ſcambievolmente le
loro cognizioni, affin chè troppo sfumando nelle aſtrazioni, non ſvaniſca
l'idea, e le ſenſazioni, e i fantasmi non l'offuſchino, ma ſervino alla mente
di ſpecchio per ben contemplarla. La grande arte è, che lo ſpec chio non abbia
troppo d'aſprezze, le quali non diſpergano ſover chiamente, ed affortiglino il
raggio, che turbaco non ci laſci diſcernere, dove è l'oggetto. Alla proſa
dunque, ma proſa poe tica ricorre Platone volendo appagare tutte le potenze
della anima. Ed eccoci finalmente a Platone, dopo d' aver eſaminato come
Pittagora dall'eternità, divinità, animazione del mondo racco glieſe l'idee; le
divideſfero in certe claſſi generali i Pittagorici le diſtaccaſſero dal tutto,
e ne faceſſero degli enti a parte; come Senofane, il primo ricavaſſe la
concluſione dell'ente uno ed im-. mobile, come Parmenide contemplaſse ſecondo
la ragione queſt' idea, e nelle coſe fiſiche s'uniformaffe a Senofane,
diſtinguendo ľ opinabile dal vero. Tutta queſta fabbrica era fondata ſu la
maniera di penſar di Pictagora, maniera falla, e pienamente diſtrutta da Padri,
che molto al di là del IV. fecolo non combatterono collo fteffo Pit tagora, ma
con Platone, di cui ſi debbe adeſſo rintracciare qua li influenze aveſſero nel
Dialogo la dottrina dell'idee, dell'uno immobile, e dello ſcetticismo, perchè
egli vi parla, e dell'idee, e dell'uno, e tutto proponendo per iporeli nulla
conclude. Prima però di ſviluppar queſte cofe l'ordine della doctrina ricerca,
che favelliamo dello ſtile Platonico in generale. Profonda e delicata
cognizione della lingua Greca ſi ricerca per (31 ) e per ben intendere la
bellezza, la forza, e l'armonia dello ſti le poetico di Płacone; lFraguier, che
in tutto il cor ſo della ſua vita, l'avea con un ſpirito molto colto nella POESIA
LATINA, ed in ogni altro genere di belle lettere ſtu diato, ben eſaminando il
ſuo ſtile, ritrovava che Platone avea trasfuſo ne' Dialoghi l' Epico, il Lirico,
ed il Dramatico. Com parava egli la profopopea, colla quale Dio nel Timeo ra
giona agli Dei inferiori 'all' ode più ſublime di Pindaro travedeva nelle
narrazioni dello ſteíſo Timeo, e in alcune del la Repubblica, la magnificenza
Epica dell'Iliade. Nel paſſo cita so di ' Ateneo ', Gorgia mal ſoddisfatto di
quel Dialogo intito lato col ſuo nome, ci dice, che un giovane, e Lepido
Archilo co regnava in Atene; allude egli a Platone, che irritato con tro i
Sofifti, non riſparmid le accucezze, ed i ſali contro di lo ro, ma i ſali di
Platone non erano aſpri, ed ulcerofi, come quelli di Archiloco, e di Ariſtofane,
ma eſtratti dallo ſteſſo mare, in cui nacque Venere. Così Plutarco dice di
Menandro, e con non men di ragione io poſſo dirlo di Platone, che tut to
comicamente condiſce con le grazie, e con le luſinghe della Poeſia di Omero, ed
ingentiliſce in guiſa le accuſe de Sofiſti, che non mai gli affronta con quell'
ingiurie, colle quali il Re de'Re alla preſenza dell'eſercito rinfaccia Achille.
L' ironia di Socrate a ' è la chiave, ed ella è così ben maneggiata, che da
alcuni ſi crede nel Menedemo (a) lodarſi le orazioni funebri, e pure vi ſi
condannano. L'allegoria è perpetua in tutti i Dialoghi; allegorici ſono i nu
meri armonici, di cui teſſuta è l'anima del mondo; allegoriche le Sirene degli
orbi celeſti; allegorico il carro dell'anima, l'ali e il coc chiere; allegorici
gli Androgini, la naſcita dell' amore, la gradazionedegli animali di Prometeo,
e di Epimeteo, la guerra de gli Atenieſi contro i popoli del mar Atlantico, e
quanto diſſe dell'Iſola Atlantica, e ſulle leggi, esu i coſtumidegli abitanti;
tutto vi è finto per preparar l'idea della Repubblica, il cui modello cerca
Platone nella fabbrica ſteſſa del mondo, ed ordiſce così la men zogna poetica,
che molti s'affaticarono di ſpiegare ſtoricamente l'Iſola Atlantide, come il
Ciro di Senofonte. Più s'occulta Pla tone in certe allegorie incluſe nelle
frafi poetiche, per le qua li ſimboleggia molte coſe, e politiche, e morali, e
metafiſiche, diſegnando l'ulcime con coſe colte, o dalla muſica, o dall'altro
nomia, o dalla geometria; tre ſcienze (6 ) nelle quali era fo mamente dorto al
ſuo tempo. Certo è, che ſe giuſtamente non retro s'ap (a ) CERONE, Acad. (6 ) Ab, Fleurì nella lode di Platone. s'apprezzano
le fraſi poetiche riducendole al ſenſo filoſofico, li corre riſchio di non
intender mai, nè le parti, nè il tucco di un certo Dialogo, e ne vedremo nel
Parmenide ſteſso gli eſempj. Ebbe dunque Platone comune la poeſia con Parmenide,
ma molto egli l'accrebbe col Dialogo, modo più naturale per iftrui re, più
comodo per illuminare, adoprato da Socrate, da Seno fonte, da Stilfone,
daEuclide, da Glaucone, e al dire d'Ariſto tele da un certo Aleffamene
inventato. S'imitano col Dialogo i ragionamenti degli Uomini, come ne? drami
s'imitano le azioni. Platone che voleva emular in tutto la poeſia di Omero, ſi
sforzo d'imitar le diſpute de Filoſofi, in quella guiſa che Omero avea imitate
le azionidegli Eroi. Ciò che al Drama è la favola e l'epiſodio, è la queſtione
al Dialogo, e la digreffione, e' nell'una, e nell'altra riuſcì egregiamente
Plato ne. Non v'è Tragedia antica, che meglio eſprima il principio, la
percurbazione, il ſcioglimento dell'azione, di quel che Platone proponga,
diſcuta, termini la queſtione, in cui ſebben nulla concluda, però gli bafta
d'aver conſumate le ragioni dall' una, e dall'altra parte. Nelle digreffioni
comincia per lenti gradi ad allontanarſi dalla queſtione, poi ſpazia o nella
Geometria nella muſica, od in altra ſcienza a fuo talento, e ſenza che il
lettore fe ne accorga, il riconduce alla prima propoſizione non per ſalti, ma
per gradi. Anche in cid imitd Omero, che al dir del Gravina (a ) traſcorre
tallora alſoverchio, tallora moſtra ď abbandonare, ma poi per altra ſtrada
ſoccorre. Platone non imita meno Omero nel carattere degl'interlocu tori, e
delle ſentenze; io ravviſo in Alcibiade un non so che del carattere di Paride,
l'uno e l'altro è milapcatore, fuperbo, e laſcivo; il carattere di Neftore è
trasfuſo in quella parte del carattere di Socrate, ove queſto conſiglia, ma
Neſtore auto rizza i ſuoi diſcorſi con l'eſperienze acquiſtare nell'uſo della
vita, e Socrate con l'impreſſioni del genio che il dominava. I caratteri de'
Sofiſti ſono preli da quei dei Trojani, che ſenza ordine, e ſen za diſcipliita
s'avanzano come le Gru ſchiamazzando, e poi reſta no ſconfitti da' Greci, il
cui coraggio e valore era ſoſtenuto dalla ſapienza, e dal consiglio, e fino da
Minerva. Molti. pretendono che Platone ſpieghi la ſua ſentenza nel far
ragionare Socrate, Timeo, Parmenide, l'Oſpite Arepieſe, e l' Eleatico, due
perſone anonime, e che gli faccia dire a Gorgia, a Traſimaco a Claride., a.
Protagora, & Eucidemo, ciò che non approva e vuol rifiutare, ma coſtoro non
avvertono, che nel (2 ) Ragion Poetica. (33 ) nel far Platone ſiſtematico lo
fanno peſlimo Dialogiſta, e talor peffi moFiloſofo, perchè egli concraddice a
ſe ſteſſo in diverſiDialoghi, o almeno le coſe vi ſono così ſconneſſe, che non
ſi può raccoglierle, non più che le membra di Penteo (a ) diſunite e sbranate.
Tratto di cutte le parti della Filoſofia, or Logica, or Fiſica, or Metafiſica,
accennomolte ſcoperte de' ſuoi tempiintorno alla mufica, all'aſtro nomia,
all'ottica, ma imitando poi la ſetta Eleatica ne'dubbj, e nell'opinioni, tutto
propoſe ſenza nulla concludere. CICERONE lo conſidera come il primo degli
Accademici, o quel che diede ad Arceſilao, ed indi a Carneade il metodo di
dubitare. Seſto Empirico ſenza altro lo pone tra' Pirronici nelle materie an
cora più gravi, come in quelle dell'anima,del mondo, di Dio; nè a ciò CICERONE è
contrario. Conveniamo dunque che Platone, co me nello ſtile poetico convenne
colla ſcola Eleacica, così vi conven ne nel metodo di opinare,che egli col
Dialogo reſe più problematico. Confideriamolo adeſſo nelle fentenze, e
principalmente in quelle che riguardano l'idee ſulla Divinità, e ſulla materia.
S'è già dimoſtrato, che i Pitcagorici riducevano tutto all'idee, ed ai numeri.
Platone ſcielſe, e perfezionò ilmetodo dell'idee, econ duffe lo ſpirito alla
cognizione del bene per l'idea del bene, della bellezza per l'idea della
bellezza, e cosìfece del valore, della tem peranza, della ſcienza, e dell'altre
virtù morali ed intellettuali, com ponendo tra loro l'idee n'eſtraffe l'idea
della Repubblica, o l'idea del giuſto conſiderato nell'amminiſtrazione d'una
Repubblicazimmagine di quella amminiſtrazione, che delle potenze dell'anima fa
la ragione. Credevå egli, che ſpiegar le coſe particolari per le univerſali,
fof ſe il metodo chela natura leguiva, allorchè procede dalle cagioniagli
effecti. Parve ad Ariftotele, che foſſe più facile, e più ſendibile nelle
inſegnar le ſcienze, ſeguir l'ordine dello ſpirito, chealla cagionevi per
l'effetto. Non ſono più oppofti queſtimetoditra loro, che la ſin teſi, e
l'analių, di cui l'una comincia dalle coſe generali, per difcen dere alle
particolari, e l'altra dalle particolari, peraſcendere alle ge nerali; l'uno e
l'altro Filoſofo nell'inveſtigar l'idee delle coſe, adoprò il metodo ſteſſo di
comparare i ſingolari,e di farnele aſtrazioni oppor. rune, e lo dimoſtrerd a
lungo pel ragionamento dell'idee Placoniche. CICERONE riduce l'idea alla terza
parte della Filoſofia, che ver ſa nel difputare. Così l'idea trattavasi dagli
antichi, che ſebbene ac cordavano ella naſcer de ſenſi, però volevano che il
giudizio nonfoſe ne fenſi, ma che la mente fore giudice delle coſe, ſtimandola
ſola atta a di ſcopriril vero, perchèfola diſcopriva cid cheera ſemplice, della
ſteſanas tura, o tal qual era, e queſto lo chiamavano idea già così nominata da
Platone, e noi poſiamo (conclude egli ) rettamente chiamarla la lpecie. Non
erano perciò l'idee Platoniche, a ben comprenderle, che le fpe cie, eigeneri
che noi facciamo, comparando ed altraendo, eche, Tom. II. (a )
Eufeb.Prop.Evang. (6 ) De Natura Deorum. (c ) Lib.1.Accad. 2 e come (34 ) 1
come ſi diffe, cappreſentavano i Pittagorici per l'unità, poichè la mente tutto
va unificando per ſua natura. Una ſpiegazione sì facile, e breve dell'idee
Platoniche, perfectamente s'accorda co' principi d'Ariſtotele. Egli tratta
nella Merafilica l'idee Platoniche da metafc re poetiche, e queſto nome gli
avrebbe pur dato Platone, se avelle dogmaticamente ſcritto come Ariſtotele', ma
nel Dialogo ſpecie di Poelia Dramatica egli eguagliò la compoſizioneallo ſtile.
Morco Platone, ed offeſo Ariſtocele di vederſi poſpoſto a Pfeufipo „ a lui
tanto inferiore in ingegno, e in dotcrina vi oppoſe un'altra ſcuola di cui ſi
fece capo, e per accreditarla cominciò a combattere le fentenze del ſuo
antagoniſta, attaccandoſi alla parte più difficile, e più equivoca o alla
quiſtionedell'idee, alle quali Preuſipo imitando.forſe il metodo di Platone
dovea dar troppo di realità. Ariſtotele ſcriſe dunque contro l'idee ſeparate,
ma Platone avendo già nel Par menide conſumato quanto potea dirli contro di
loro, Ariftotele ne copiò gli argomenti dipeſo, ed al ſuo ſolito con brevica ed
oſcurità di ſtile, fingendo di combatter Placone critico Preuſipo, ed i ſuoi di
i fcepoli. Dital congettura è mallevadore il Patrizio nelle ſue diſcuſ fioni
peripatetiche. S'elle ſon vere, non che verifimili, verifimile è pure che fin
d'allora ſi ſpargeſſero i ſemi che prima Ammonio Sacca, ed indiPlotino,
Porfirio coltivarono, e Jamblico, e Procloridul fero in regolato fiftema.
S.Giuſtino, che avea più ſtudiatii Platoni ici, che Platone era perfuafo, che
l'idee foſſero ſoſtanzeſeparate, collocate con Dio nella sfera più alta. S.
Cirillo rifiuţa Giuliano A poſtaca, che credeva il Sole, la Luna, egli
altrieller l'idee viſibili e comporre gli Dei. 11 P. Balto riferiſce a lungo
ipaſſi di S. Ireneo, di S. Bafilio e d'altri, i quali impugnarono l'idee
ſeparate, che introdu cendo il politeismo rovinavano ne'ſuoiprincipj la
Religione Criſtia pa. Soſpetta il P. Balto, che Eufebio difendere l'idee
Platoniche persè ſuffiftenţia pro dell'Arianismo da lui profeſfaco. Negli
ultimi tempi il Clerico ne rinovd la ſentenza, e molto più l'anonimo Soci niano
nel tuo Platonismo ſvelato, ove ſi confondono con l'idee di Platone, gli Eoni
rami de'Seffirotii cabaliſtici adottati da' Valencia niani e da' Baſiliani, e
de'quali nella concinuazione dell'iſtoria degli Ebrei parla a lungo il Basnage,
I comentatori di Platone abbagliatidatante autorità, nè avendo forza di critica
fufficiente per reliltervi, s'abbandonarono ai fantasmi di Proclo, e di
Jamblico, anziche abbadarea'ceſti di Platone, ne s ' avviſarono di ben pelare
le dottrine del Parmenide contro l'idee ſeparate aggiunte da Ariſtotele alla
metafiſica. S. A goſtino è il primo de' Padri Latini, che non fepara l'idee Pla
toniche da Dio; dando a Dio la creazione del mondo non poteva egli non
concepire nell' intelletto divino la ragione dell'ordine del le coſe create, e
queſte appunto ſono l' idee su le quali poi San Tommaſo ſeguito da' Teologi, ne
fece molti articoli, of. feryando che l'idee divine ſono univerſali, onon
rappreſentano a Dio (35 ) 2 € Dio ſolo le ſpecie, ma ancora gl'individui, col
rappreſentargli le coſe non quali noi per la limitazione della noſtra mente le
veggiamo, ma quali ſono in fé ſteſſe. Il Padre Balco riprende a dritto su
queſto punto il Dacier, che per difender malamen te Platone, cade non volendo
in un errore. Ma fe Platone preſe da’ Pitragorici l' idee nel ſenſo, che le
propoſero Pitcagora, ed Archira, pare che egli ancora come queſti ſentiſſe
intorno la Divinità. S'è già dimoſtraco che dopo Pitcagora, Senofane e
Parmenide conſideravano Dio non altrimenti, che l'anima del mondo. Lunga cofa,
dice Ci cerone, (a ) ſarebbe a dire dell'incoſtanza di Platone intorno a Dio;
nel Timeo nega, che porta nominarſi il Padre del mondo; nel libro delle leggi,
ſtima non doverfa ricercar affatto coſa ſia Dio. Lo stesſo nel Timeo, e nelle
leggi, dice eſſer Dio, il mondo, e gli altri e la terra, e gli animi, e gli
altri Dei, che abbiamo ricevuti dagl' iftitu ti de' Maggiori. Il Padre Arduino
raccolſe tutti i paffi, ove Pla tone parla degli Dei nel ſenſo ſtero. Dio nel
Timeo ſi chiama bensì il Padre, e l'artefice del mondo, ma non mai il Signore,
il Sovrano; ſi chiamava il mondo un Dio generato, il quale ba una perfetta
ſomiglianza con Dio; figliuolo, e figliuolo unico di Dio; un Dio completo, un
Dio generato da un altro Dio, un Dio felice, im magine del Diointelligibile,
perfetta copia d un originale perfetto Dio ottimo malimo, qual appunto i Romani
doceano diGiove, per cui folo intendevano il deſtino inviſibile delle coſe.
Molci alcri paſſi ſpiega l' Arduino, e da cutii ſi raccoglie, che Placone non
co noſceva Dio, che come principio intelligente, qual lo conobbe Pittagora,
Senofane, PARMENIDE DI VELIA, e cant alori, a' quali può ben applicarſi il
pallo di S. Paolo, in un ſenſo filoſofico, che cono ſcendo Dio, non come Dio
l'onorarono (non ſeparandolo affacco dal la materia, o, ponendolo ad eſsa
coeterno. ) Pitcagora avea generato il mondo, e lo generarono i Fenici, Orfeo,
ed Eliodo. A queſt'idea poetica, Platone aggiunſe le Fi loſofiche accennate da
Timeo di Locri nel fuo ragionamento della natura, e dell'anima del mondo, e ne
compofe il Timeo, nel qual volea nell'ordine oſſervato dalla ſapienza nella fabbrica
del mon do, dar un modello di quella Repubblica, che poſcia propoſe nel Dialogo
del Giuſto. Ariſtocele pur comparava la coſtituzione del mondo ad una
Repubblica, in queſta v'è il Principe, che comanda ai Magiſtrati militari, e
civili, e nel mondo v'è Dio, che col miniſtero degli Dei inferiori, compie,
conſerva, ed ordina cuc te le coſe. S'è © e di lo Lei li i e lo i e (a ) D:
Natura Deorum lib. I. 3 (36 ) s'è gia dimoſtrato, che i Platonici recenti nel
divider in due punti, o ſegni, l'eternità, neaſſegnavano il primo ſegno a Dio,
in quanto a Dio, ed il ſecondo a Dio creatore della materia la difficoltà è di
ritrovare in Platone qualche coſa che s'av vicini a queſta dottrina. Teofilo (a
) non ve la ritrovd altri menti dicendo, che Platone coi ſuoi ſeguaci poneva
Dio, e la materia ingenita; con che non venia a porre Dio, nè uno; nè ſolo. lo
qui ſtenderò un lungo paſſo di Plutarco, perché fe 'ne giudichi. Il mondo, dice
egli,è bensì ſtato fabbricato da Dio, perchè fra tutte le coſe è bellißimo il
mondo e Dio fra le cagioni l'ottimo, ma la ſoſtanza, e la materia, della quale
è ſtato formato, non eſſer mai nata, ma ſempre averſi trovata ſottopoſta ab
Maeſtro, ed ubbidiente a ricever quell'ordine, e quella diſpoſizione, che fore
in quanto ella potelle comportare a lui fimigliante, percbè il mondo non fu
creato dinulla, ma di ciò che era privo, di bellezza, di leggiadria, e di
perfezione, ſiccome la caſa, la veſte, la ſtatua, perciocchè tutte le cose,
primache naſceſe il mondo, foffero confuſe, e diſordinate, nondimeno le coſe
confuſe non erano ſenza corpo, ſenza fora ma, ſenza regola, moſle da movimento
a caſo, e ſenza ragione. Que sto altro non era; che la ſproporzione dell'
anima, di ragione Spoglia ta, perciocchè Dio di coſa ſenza corpo non fece corpo,
nè anima di coſa d'anima priva, nella maniera che noi vediamo, cbe il Maeſtro
di muſica, e dell armonia, non fa egli la voce, bensì la voce acconcia, e il
moto proporzionato; così parimenti Dio non fece il corpo trattabile, e ſodo, nè
l'anima atta a moverſi, ed in gannarſi, ma preſo l' uno, e l'altro principio,
quello oſcuro e pienodi tenebre, queſto confuſo e pazzo, amendue più rozzi, e
più difformidel convenevole ordinandoli; e diſponendoli, e congiungendoli formd
un animal beltiſſimo, e perfettiſſimo. Dunque la natura del corpo non è punto
diverſa da quella natura, come dice Platone, che abbraccio il tutto, ed è
fondamento e nutrice di tutte le coſe che naſcono; non dimeno la natura delp
anima fu da Platone nel Filebo nominata infini to, il quale non riceve numero,
nè proporzione, nè vi ſi trova miſu ra, o termine alcuno di mancamento, di
ſoverchio, di ſimiglianza, o di differenza. Così parla Plutarco ed è facile il
dedurne, che ſecondo Pla tone eterna era bensì la materia del mondo, ma nuova
la for ma, (a ) Teophil. ad Autolicum 1.2. Plato cum ſuis aſſeclis Deum quidem
confitetur ingenitum, patrem præterea & conditorem hominum, at que deinde
fubjicit, live ſupponit Deo materiam quoque ingenitam, quæ fimul cum Deo
prodiderit five extiterit; verum fi Deus cen ſetur ingenitus, & materia
perhibetur ingenita, jam nec amplius Deus conditor & creator eſt hominum
etiam fecundum Platonicos, nec quod unus & folus ſit ab his vere
demonftratur. nè il moto, ma 1 1 (37 ) má, ed in queſto Platone differiva da
Ariftotele, il quale, come s'accennd, fece ad un tempo eterne, e la materia, e
la forma; Ariſtotele rimprovera perciò Platone, d' aver fuppofto, che la
materia con cuiDio compoſe le coſe, foſſe in moto, e loda Anaf fagora, che la
poſe in quiete. Vuole egli ignorare, che affatto poetico foſſe il Timeo; pure
non è credibile,che egli non l'aveſſe udito dir più volte da Placone ſteſſo,
che nel Dialogo finſe Socra te a favellar con Timeo di Locri contemporaneo
forſe a Pittagora; parla dell' abboccamento che Solone ebbe coi Sacerdoti
d'Egitto, iutta ſpaccia la favola dell'Iſola Atlantide., ſtempera in una taz za
i numeri armonici dell'anima del mondo compoſta di cre ſo ftanze, ne ſparge le
reliquie su le ſuperficie de glòbi', conſidera come coſa reale la mecemplicoſi,
che Timem (a ) nel ſuo ragiona. mento introduce come coſa politica. In ſomma
ben eſaminan do tutte le frafi Platoniche e tutto il conteſto della dottrina
Filoſofica poeticamente maſcherata, io ſon perſuaſo, che in Platone, comene
Pictagorici, Dio vi s'introduca qual animadel mondo, o la ſteſſa mente, e
ſapienza perfecta ſparſa per tutto; allora perciò che dice CICERONE nella
natura degli Dei, e quan do Platone fa Dio incorporeo (b ) egli confonde Dio
con la mate+ ria, la quale era incorporea, come ſi diffe, prima che da Dio ſe
ne eſtraffero i corpi. Dall'alcra parte nell'ipateli, che Dio gli abbia
eſtratti, fece Dio concepirſi" al di fuori della materia, co me
l'architetto al Palagio, e lo ſcultore alla ſtatua. In vano dun que dall' opere
di Platone, e degli altri Filoſofi antichi, i qua li ammifero la materia eterna,
li cerca l'idea del Dio che ado. riamo; egli è uno ſpirito infinito, nella di
cui natura inviſibile ſono riunite cutte le perfezioni immaginabili, e
poflibili; onde gli ſcolaſtici lo chiamarono il cumulo delle perfezioni; e i
Cartuliani l'ente infinitamente perfecto. Sino a què l' ammet cevano gli ſtefli
Pagani, ma la definizione non balta, ſe ad el fa non s? aggiunge, che Dio ha
tratto dal niente l' Univerſo, e che è diltinto realmente, e ſoſtanzialmente da
tutto ciò che ha creato. Tale definizione come ortodoſſa propoſe l' Abbate
d'Oliveta ’ Filoſofi (c ) dopo di aver eſpoſte tutte le loro fen tenze, tra le
quali entra e Pittagora, é Senofane, e Parmeni de, e Platone Itello, Non (a. )
Nel fine. (6 ) Cicer. Natur. Deor. (c ) Nel fine del Tomo 3. della traduzione
della Natura degli Dei;. Par ce mot. Dieu, je veux dire un eſprit infini, dont
la nature eſt indiviſible & incomunicable; dans lequel font réunies toutes
les perfections imaginables & poſsibles, ſans aucun mélange d' imperfe
etion; qui'a tiré du ndant l'univers, & qui eſt diſtinct réellement &
ſubſtantiellement de tout ce qu'il a créé. 0 1 (38 ) o dell' Non è tuttavia,
che debbano ſpregiarſi le dottrine di Placone, e rigettarle come inutili;
conobbe egli Dio ſotto un'idea con fuſa, come lo conobbe Ariſtotele, e in
quella guiſa che S. Tom maſo da Ariſtotele tralle molti principi, e
combinandoli coi rivelati propoſe molte concluſioni Teologiche, così può farſi
di Platone; S. Tommaſo dall' uno, e dall'altro traſfe l'eſiſtenza di Dio,
impiegando i mori, le cagioni, l'ordine del mondo, i gra di più o meno perfetti
delle coſe, ma non potè trarla dall' en te contingente e neceſſario, che
Platone non conoſceva, ponen do ecerna la materia, e chiamandola neceſſità.
Dimoſtrar il primo ente qual principio intelligente, per l'adequaca idea di Dio,
non baſta le da eſſo non ti rimovono tutte le compoſizio ni, dimoſtrando, come
fa S. Tommaſo, che in lui non ve n'ha nè di forma, nè di materia, e che non può
ridurſi ad alcun genere, Nel Parmenide però non v'è biſogno d'alcuno di queſti
ar tificj; tutto vi fi' riduce all'idea metafiſica dellence uno. Convien
dedurla da' ſuoi principj, od eſtrarla come fece Pittagora, e Peritione da
tutti i compofti, ed eſaminarne le proprietà. Così AQUINO (si veda), ove tratta
dell'unicà, e della bontà di Dio, prima ricerca, quanto la ragione, gli può per
mettere, coſa ſia l' uno, e coſa ſia il buono, indi col princi pio rivelato cid
combinando, dimoſtra la purità, e la bon tà di Dio. Io parimenti ricercherò con
la ragione, fe si poſſa ben intendere l' uno del Parmenide, laſciando agli
altri la fa rica di ſpiegarlo in un modo fublime, applicandovi le coſe
Teologiche, delle quali non intendo d' attaccarne, o diftrug. gerne la minima.
Io cratterò della dottrina del fine, indi del metodo del Dialogo. Gli antichi
con ragione intitolarono queſto Dialogo, il Par menide o dell' idee, perchè
Parmenide parla più degli altri, e tutti i ſuoi ragionamenti raggirano su l'
idee, o per cercarle con le aſtrazioni della mente, o per diſtruggere le
ſeparate, eſempli ficandone il caſo nell'idea dell' uno, la più ſemplice di
tutte l'al tre, e a cutte l'altre comune. Supponevano i Pictagorici, che tutte
le coſe imicaſſero, o par ticipaſſero l'idee, o le fpecie; provacontro loro
Parmenide, che le cofe non poſſono eſſer partecipi delle fpecie, nè ſecondo il
tutto, nè ſecondo unaparte, indi col principio di contraddizione, col progreſſo
all'infinito, e coll' ideaſteſſa delle perfezioni divine; gli fteffi argomenti
di cui ſono nel Parmenide i femi, fteſe Ariſto tele, ed è mirabile che i
comentatori non abbiano penſato di con frontarlo nel ragionamento dell'idee con
Placone, ciò che attri buiſco all'ipoceli da loro fiſsata, che in queſto
Dialogo Parmenide, o Platone confermi e non diſtrugga. l' idee ſeparate.
Annullate tali idee in modo cheSocrate ne reſta convinto, Pare menide per non
laſciarlo nell' imbarazzo gli moſtra la neceſſità che ha il Filoſofo
d'ammettere certi principj fiſſi ed immutabili e tanto più difficili a
comprendere, quanto che non fi poffono de terminare, nè co' ſenſi, nè colla
fantaſia. Parmenide' nell'etem plificare il caſo del metodo propone l'idea
dell'uno, e la con ūdera relativamente a ſe ſteſſa, indi all'ente, al fine, al
non en te. Così un matematico trattando per eſempio del triangolo, lo
conſidererebbe prima in ſe ſteſſo, poi per rapporto all'altre figure rettilinee
o piane, ed al fine alle non rettilinee, od alcerchio. Definiſce Zenone l'uno
per oppoſizione a molti, e chiama uno ciò che non è molti. Ariſtotele, nella
metafiſica molto ap prova queſta definizione, perché i molti ſono più noti al
ſenſo che l' uno; prende Parmenide la definizione, e negando dellº uno tutto
ciò che s'include in molti o li predica de' molti; negà ch' egli fia cutro,
parte, principio, mezzo, fine, figura moto, quiete, lo ſteſſo, diverſo, ſimile,
diſſimile, eguale, mag giore, minore; in oltre gli nega le differenze del
tempo, pre lente, paſſato, futuro, l'eſſenza, la ſoſtanza, il nome, il ſen fo,
la ſcienza, l'opinione. Parmenide prende ſempre l'uno nel ſuo concetto
aſtrattiflimo, nè men volendo che l'uno â conſideri per rapporto a ſe ſteſſo,
perchè nel riferir l'uno a sè li concepireb be come due o come molti. La
ſeconda quiſtione è, ſe l'uno ſia che accada all' uno, ed all'altre coſe; qui
l'uno fi ſuppone inſeparabile dall'ente, come rente dall' uno, onde tutto ciò
che s' include o li predica dell', pud predicarſi dell' uno; quindi ſe nell'
ente's include o dell'ente fi predica, la parte, il tutto, il finito,
l'infinito, il principio, mezzo, il fine, la figura, il luogo, il moto, la
quiete, il fimile, il diffimile, lo iteſto, il diverſo, l'eguale, il maggiore,
il minore, il tempo paffato, preſente, e futuro, 1 eſſenza, o la ſoſtanza, la
ſcienza, l'opinione, il ſenſo, tutte queſte coſe ſi predicheranno ancora
dell'uno. Non ſi predicano però queſte coſe oppoſte dell' uno, e dell'ente. nel
medelimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo riſpetto, ma in varj te m pi o ſecondo
diverſi riſpetti, e ciò fa che le contraddizioni non ſieno, che apparenti, o
del genere di quei meraviglioſi, che de generano ſpiegandoſi in puerilità. Cosi
penſa lo ſtelfo Platone nel Teeteto, maParmenide nel cercar qui ſe ſia l'uno,
quali altre co fe ne fieguano, non cela all'uſo de Sofiſti, ma ſpiega come vero
Filoſofo in termini ſemplici i miſteri, e queſta iola credo una nuova prova del
liftema Parmenideo da me ſtabilito. In queſte due prime nozioni dell' uno non
vi ſi framiſchiano le immaginarie', o poetiche; mabensì ve ne fono nella terza,
ove fi rapportal'uno al non ente, o al nulla, di cui non s'ha nozionereale', ma
ſolamente immaginaria come dell'impoffibile. V'è un affioma Logico, il qual
diceche, dall' impoflibile ogni coſa ſe ne deduce, pera che in lui fi
complicano i contraddicorj, anzi il criterio per co nofcerlo è per mezzo dei
contradditorj, e poichè l'uno è inſe párabile dall'ente; fia lo ſteſſo dir il
non uno, che il non en te, ma del non ente o dell'impoffibile fi dice che ha
effenza, o che non l'ha, che è lo ſteſſo e diverſo, che è ſimile, e non fi mile,
eguale, non eguale, cheſe genera e fi diſtrugge ec. Dun que le ſteſſe coſe che
ſi predicheranno del non ente conveniran no ancora al non uno. Nell'attribuire
il non uno all'altre coſe, fi trasformeranno queſte in fantasmi, o sogni
d'eſtenſione, di mal fa, di moto e di quiete, ciò che rende il mondo più
poetico del cabbaliftico. Platone o Parmenide maneggiano queſto argo mento con
ſomma ſagacità, e delicatezza, e ben ſi vede quanto foſſe la loro Filoſofia
profonda, e quanto utiliffima eller poſla, non cangiando il grado dell'
aſtrazione, nè inneſtandovi opinioni affatto encufiaftiche, come fece FICINO. I
celebri Pittori, attenti ad oſſervare in ogni luogo tutto ciò che loro
ſomminiſtra idee nuove d'atteggiamenti, di ſcorcii, di lineamenti, difigure, ſe
mai su i muri più affumicati ritro. yano quelle ſtriſcie fortuite impreſſevi
dalla caligine, le vanno combinando con la loro immaginazione, e creano delle
figure leggiadramente fimecrizzate, e canto ſi rifcaldano nel vagheggiar opera
loro, che le additano agli altri, come fe ivi foffero,e ſi cruciano e fremono,
e ingiuriano, quando queſti ſemplicemen te riſpondono di non ravvifare, che
orme irregolari di fumo. I Filofofi, e particolarmente i comentatori hanno lo
ſteſſo coſtu me, fiffi in un fiftema l'addatano a tutto ciò che incontrano
nell' autore da loro accarezzato, e dove egli ancora parla nel modo più
ſemplice, e naturale, e conveniente a'ſuoi principj, par loro di fargli torto,
ſe non l'abiſfano nelle loro profonde ſpeculazioni, e lo dimoſtrano tanto più
ammirabile, quanto nyono l'intendono, c quanto dagli altri è meno intefo. In
tutti i Dialoghi s'è prefiſſo FICINO, di far di Placone (a ) un Teologo
Criſtiano, ma non so come ritorni in queſto Dialogo al (a ) Prima ex quinque
ſuperioribus de uno fupremoque Deo dixerint quomodo procreat diſponitque deorum
ſequentium ordines. Secunda de fingulis Deorum ordinibus, quo pacto ab ipſo Deo
proficiſcuntur ec. argum. Marſ. Ficini Parm. vel de uño rerum principio, &
de 9 ideis. (41 ) al Paganeſimo, e vi traſporti tutte le idee fimboliche del
Timeo, e del Fedro ſenza biſogno, e profitto; e che coſa ſon queſti Dei che
ſeguono Dio nell'ordine loro, ed in qual parte del Parmeni de li ritrovo?
Annullò il Serano gli Dei, e vi ſoſtituì due ſorti d'idee; Dio è la prima e
principal idea, le ſeconde ſono le va. rie idee delle coſe create; ma ſe
Parmenide non diſtingueva Dia dal mondo; coſe affatto poeriche non ſono le idee
divine? Non bado il Serano, che Parmenide toglie all'ente ſino il tem po'
preſente, e le toglie ancora l'eſſenza. Si, ma intende il Se rano l'eſſenza
delle coſe ſingolari, e quando Parmenide dice, che l'uno è molte coſe, vuol
dire, che egli dà la forza d'elfte re alle coſe ſingolari. Or come ſi può
includere nell'idea dell' uno, in quanto tale la forza? E come poteva Parmenide
inclu derla nell' uno, ſenza concepirvi l' eſſenza, e nell' accoppiare l'
eliftenza alla forza, e non concepir l' uno come molti contro l? ipoteſi? La
prima idea, dice il Serano, fi diffonde in maniera ſulle coſe create', alle
quali Dio dà la forza, e facoltà d ' eſiſtere, che ad ogni modo circoſcrive ne'
determinati cancelli dell' uno, la feffa moltiplici, tà, e quaſi infinità delle
coſe ſingolari. Queſta è la luce tenebroſa del Flud, chi può ſpiegarla? Va il
Serano peſcando le affezioni dell' idee ſeconde, e ne ri trova ſei, dopo le
quali la ſua vena metafiſica, e teologica, ſi conſuma, o perde, ed in tutto il
reſto del Dialogo immobil mente fiſto, ed eſtatico ſul ceſto Platonico, par uno
di que' Chineſi, che per molti anni guardandoſi la punta del naſo s'im maginano
di veder l'eſſenza divina; non batte egli palpebra tutto concentrato in sè, nè
degna abbaſſarſi a ſoſtener con note margina li l'imbarazzato lettore. Io ſon
ben lontano dal condannare le al tre note di queſto autore, colle quali negli
altri Dialoghi eſpone la conneſſione, e callora le ragioni ſemplici del teſto,
ma nel Par menide ſpiegando alto il volo per emular il Ficino, li dimentica del
ſuo coſtume, e laſcia in aſciutco il leccore; ma come è poſſi. bile, che avendo
egli canto ſtudiaco Platone, e confrontati i teſti, nonabbia atteſo ad unpaſſo
del Filebo, in cui li ſpiega il fine, che Platone ſi prefiſſe in queſto Dialogo?
Nel Filebo, che non ſenza ragione gli antichi faceano ſeguir al Parmenide, cosi
ſi parla da Socrate a Protarco. Tu, o Protar dice Socrate, intorno l' uno ed i
molti ai dette le coſe pubbliche dei meraviglioſi, le quali, per dir cosi, ſono
concedute da tutti, che non fieno punto da toccarli, ejendone alcune puerili, e
facili da conoſcerſi, e per nuocere maſſimamente a ragionamenti, fe alcun le
ammetteſſe; nè è Tom. II. f de (42 ) - 1 1 tal uno, da ſtimarſi coſa
meraviglioſa, ſe alcun dividendo rolla ragione le mem-, bra d'alcuna coſa, e
tutte quelle parti, confeſſando quella eſerne una; di poi la confutalle, e ne
prendeſe beffe quaſi sforzato a con. feſare coſe moſtruoſe, cioè che una ſola
coſa ſia molte ed infinite, ele molte quaſi una ſola, E' quì da notarli quel
dividere con la ragione le membra di alcuna coſa, formula che egli repplica
ſovente nel Parmenide, in cui dice, ſeparar le coſe con l'intelligenza, e fino
sbranarle; indizio manifeſto che qui non ſi tratta, che d'aftrazione di ra
gione, per cui nelle coſe più ſemplici fi diſtinguono, non le par ii, ma gli
attributi, e le relazioni che le fan molte per rapporto alla mente; or tutto
ciò che dice nel Parmenide dell'ente, e dell' uno, non divien egli un di que'
meraviglioſi puerili, de' quali par la Socrate, fe non s'averte, che le
contraddizioniſono apparen. ti, o che nel medeſimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo
non s'aſcrive all'uno, il fimile e diffimile? Siegue Socrate: quando alcuno
giovane pone l'uno, non eſſer alcu na di quelle coſe, le quali naſcono, e
muojono, perciocchè quì un co come poco fa dicemmo, ſi è conceduto, che non ſi
debba con futare. Parla quà Socrate della prudenza, della ſcienza, e della men
te, di loro natura une, immortali, ed eterne nel ſiſtema Piccagori co, e delle
quali, come d'eſſere reali, parla nel Sofiſta. Conclude Socrate: Ma quando ad
affermare è altretto un fol Uo mo, un ſol bue, una coſa bella, ed una coſa
buona, allora veramen. te in queſte, ed in cotali unità ſi rende ſollecito lo
ſtudio, ed anche ſi fa ambiguala divifione. Primieramente ſe ſieno da
ammetterſi certe uni tà sì farte, che fieno veramente; di poi, in qualguiſa ſia
de penſarſi, che ciaſcuna di quelle coſe ſia una, e la medeſima ſempre, nè fi
pren da generazione, nè morte, ma ſe ne ſtia fermiſima nell' unità di lei;
finalmente ſe ſia da porſi alcuna coſa nelle coſe generate, od infinite, o
partita, ed oggimaifatta moite coſe, o tutta eſa in diſparte da ſe medeſima, il
che più di tutte l'altre coſe parrebbe impoſibile che uno, e lo dello ſi facele
parimente in uno, ed in molti. Quefto è l'uno, ed i molti che ſi trovano
intorno a cotali coſe, ma non quelli, o Protarco che non conceduti bene ſono
cagione d'ogni dubitanza, ed ogni facilità ben conceduti. Manifeftiffimo è, che
quì Socrate ripete le difficoltà ſull' idee ſeparate fattegli da Parmenide, e
ſu le quali confeffa, che impoſſi bile è di scioglierle, indi fa attenzione al
metodo inſegnato da Par menide, di cercar l'idee per via dell' aſtrazioni, con
le quali ſi to glie ogni difficoltà intorno a'molti, e all'uno. Da queſti palli
io deduco, che il fine di Platone in queſto Dialogo altro non fu, che
d'allontanarſi da quel meravigliolo e puerile, in cui facilmente fi cade,
quando non ben li diftingua no i concerci della mente, o s'amia irasformare i
concetti in ido li, ed a realizzarli poeticamente, come faceano i Pittagorici.
Per compir queſto diſegno fcelle Platone il Filoſofo più ſpeculativo
dell'antichità, e deſcritto da Socrate qual Uomograve, evenerabile, e d'una
profondità al tutto generoſa, il che vuol dire, ſe non erro, che egli nella ſua
maniera d'argomentare franca, libera, ed inſie me profonda, nulla tenea del
lopraciglio, e della vanità dei Sofi fi; Platone quimoſtra fin dove arrivar pud
l'ultima analiſi, che i Pitcagorici faceano dell'idee, oltre le quali il
procedere'era un eſporſi a pericolo di non più intender quello che ſi dicea,
comepur trop ро è arrivato ad alcuni Scolaſtici, che fpingendo troppo, oltre le
queſtioni oncologiche, ofarono ſin negare il principio di con traddizione, ed
affermarono chel'infinito ſi raggruppaffe in un pun to. Nel GORGIA DI LEONZIO,
nel Protagora, ed in altri Dialoghi contro iSo fifti, coll'arte dell'ironia
Socratica, li dipinge a diritto Platone quali cacciatori mercenari d'uomini,
mercatanti venditori, appal tatori di ſcienze, e diſcipline falſe; ma chi può
dire che Platone ebbe difegno di proporſi in queſto Dialogo Parmenide, qual mer
catante venditore, ed appaltatore di bujo peſto, che così devono chiamarſi le
quiſtioni tenebroſe, ed all'ambicate; bujo peſto è quel lo di cui troppo
liberalmente lo caricano il Ficino, ed il Sera no, non quel che combina la
doctrina d' Ariſtotele, con quella di Platone; dotcrina che curt " i
Peripatetici, e gli Scolaſtici ab bracciarono e che ultimamente con tanta
chiarezza e preci* fione, eſpoſe il Wolfio nella fua Ontologia. Queſto Dialogo
è primieramente ontologico, e preſo in queſto ſenſo non ha in sè più di
pericolo che la metafilica d' Ariſtocele, ma ridotta alla Dialeccica, L'antica
Dialetica verſava fu i generi di tutte le coſe, attenca a compararli, a
combinarli, per preparare' ed illuſtrare la quiſtio ne propoſta. S'ingegna lo
Stanlejo di ridur a tre generi la Dialec tica de Piccagorici.1. Ai non
ripugnanti, o ſia all'eſſenza delle coſe nelle quali ſi combinano, coſe tra
loro non contradditcorie.. Così l'eſſenza del triangolo o del quadrato, è
l'eſfer figure di cre o quattro linee, perchè non v'è ripugnanza, che il numero
ter nario o quaternario, s'adatti o fi combini alle linee rette. 2. Ai
differenti o alle coſe che tra loro ſi diverſificano nell'eſſenza, nc gli
attributi, e ne' modi; così il triangolo è differente dal qua drato, ed il
quadrato dal cerchio. 3. Ai relativi a'quali ſi riduco if 2 no (44 ) no tutte
le matematiche conſiderate dagli antichi, come il vero modello della diſciplina,
ed a cui i moderni riduſſero l'arte dell' analogie filoſofiche, ed il calcolo
de' probabili. Platone ſtabiliſce in molti luoghi non tre ma cinque generi del
le coſe; l'eſſenza o ciò che è, lo ſteſſo, il diverſo, il moto, e la quiere; a
queſte due ultime nozioni ſi riduceva tutta la fiſica antica, onde diſfe
Ariſtotele, che ignorato il moto s'ignora la natura. Lo ſteſſo e il diverfo
vaga per tutte le altre fcien ze; onde Platone dello fteſſo, e del diverſo,
compoſe l'anima del mondo, e la bellezza. Lo ſteſſo e il diverſo ſono relazioni
dell' ente in genere, fi ſpargono ſulle relazioni dell'ente in ſpecie, il
fimile, il diffi mile, Peguale, il maggiore, il minore, il nuovo, l'antico. Que
fta era la ſcala de'generi ſuperiori, o quelle nozioni ontologi che aſtratte
per l'acume della mente da' concreti, coſa ben di verſa dalla ſcala de'
predicamenti d' Ariſtotele. Il Wolfio fa propoſe per ultimo oggetto degli ſtudj
fuoi, di perfezionar" la Icala de'generi, e con eſſa ſciogliere il
problema dell' analiſ dell'idee, propoſta ma non trattata dal Leibnizio. I
Pittagorici ne diedero i primi ſemi, e Placone più li ſviluppò, applican doli
alla determinazione dell' idee, quindi è che nel Parmeni de tutti iſuoi
argomenti ſi riducono alle relazioni dell'ente, in genere dell'ente, in ſpecie.
Rinferrata ne' fuoi limiti la materia del Parmenide, il meto do che v’applica è
quello del principio di contraddizione, che ci conduce all' aſſurdo; metodo non
tanto accetto a noi, per. chè ci dimoſtra la noftra impotenza, ma che ci sforza
invin cibilmente all'faffenſo. In queſto metodo Platone ne aggruppa molti altri,
il metodo d' eſcluſione è quello dell'analiſi geo metrica. Nel metodo
d'eſclufione fi numerano tutti i caſi di una co ſa, e s'eſcludono o tutti per
dinotare l'aſsurdità, o tutti men in cui fi cerca la ſoluzione del problema.
Così Archi mede avendo dimoſtrato, che un dato poligono non è, nèmag giore, nè
minore del cerchio, nel quale è inſcritto o circon Icritto, conclude che gli è
eguale. Placone in molti caſi ado pra il metodo ſteſſo. Nel metodo dell'analili
geometrica, fi aſſume (6 ) il quefito come conceffo, e per legitime conſeguenze
s'inoltra fino ad un ve 1 uno, ro (a ) Affumptio quæſiti tanquam conceſsi per
ea quæ conſequentur ad verum conceffum. (6.) Wallis Il. dell’Algebra. (45 ) To
conceſso, da cui riteſsendo il ragionamento ', li dimoſtra il quelito; molti
vogliono, che Platone ſia l'inventore di queſto metodo, e che abbia fatto il
Parmenide per darne l'eſempio; maqueſti attribuirono al tutto ciò che conviene
adalcune parti, Utiliflime ſarebbono le metafiſiche de'moderni, fe i loro
autori fi foſsero limitati all'ipoteſi, e ſi foſſero guardati di proporle in
for ma di dogma, cagione d'eterni litigi non ſalvati, ne da ſtile elo quente,
nè da calcoli algebraici. Il Carteſio ſegui nelle ſue medi tazioni ilmetodo
analitico, ma diede occaſione a molti ſiſtemi più ſtrani de'ſogni, come quello
degli Egoiſti, conſeguenza dello fpi nofismo fpirituale. Che dirò dell'arte del
Dialogo, in cui s'è già dimoſtrato imi, tarſi i ragionamenti umani, come i
Poeti Dramatici aveano imi tate le azioni umane. All'imitazione. di queſte
convien il palco, ed il verſo, non all'imitazione de' ragionamenti, la quale
per ſua natura appartiene alla DIALECTICA: poco o nulla di leggiadria avrebbono
i sillogismi, egli entimemi in verſo, e poco o nulla lor gioverebbe l'apparato
della ſcena. Si è pur detto che la quiſtione, e la digreffione al Dialogo, è
come la favola, e l' epiſodio al Drama. Nel Parmenide la quiſtione è intorno
l'idee, ma non v'è digreſſione, ſe pur non fi voglia ridur a queſta, la
preparazione alla diſputa con Par menide, incominciata tra Zenone, e Socrate.
La differenza de' drami ſi prende dal diverſo modo dell'azio ne, la quale o è
ſemplice, o compoſta, e la differenza de’ Dia loghi dal modo del ragionamento,
nel quale, o s'inſegna, os inveſtiga da un ſolo, o s' inſegna, o s'inveſtiga da
molti la quiftione propoſta. A quattro generi riduce il Taffo i Dialoghi, al
dottrinale, al Dialettico, al tentativo, al contenzioſo. De’due primi generi è
miſto il Parmenide, perchè dopo di aver egli diſputato con Socra te, quaſi ſolo
favella, non contandoſi le riſpoſte d'Ariſtotele, approvazioni per lo più della
concluſione, o preghiere d' eſpor più chiaramente la ragione accennata. Nel
inlegnare qual fia la natura o l'idea dell'uno, qui non v'è tentativo, nè
litigio, nè in queſto Dialogo v'è molto a ricercare, ſe ſia meglio adat cato
all'inſegnamento che il maeſtro interroghi, od i diſcepo lo., perchè appena
termino la breve diſputa có Zenone, che Parmenide cominciò a interrogar Socrate,
ed avendolo confu? lo, ed imbarazzato con una difficoltà cui non poteva
riſpondere, Para (a ). Torquato Taſſo diſc. ful Dialogo. uno. Parmenide paſſa
ſenza interrompimento alle tre poſizioni dell ' Vuol Torquato Tallo, che come
una ſia l'azione nel Dra ma, così una fia la quiſtion nel Dialogo, la quale o è
infini ta, per eſempio ſe deve apprezzarſi la virtù, o è finita, per eſempio
che deggia far Socrate condannato a morte. La qui ftione del Parmenide è
infinita, perchè fi tratta dell' idee di cui ſi cerca la natura e l'origine, la
natura dimoſtrando che non ſono dalla noſtra mente feparate, l'origine
dimoſtrando come per via delle ſuppoſizioni s'acquiſtano. Queſte due coſe ne
fan no propriamente una, perché non ſi può intender la natura dell' idee ſenza
prima determinarne l'origine. L'una e l' altra determina Parmenide, e rimove l'
idee feparate per convertire il ragionamento al modo con cui la mente le
acquiſta. Parme nide lo propone, non lo dimoſtra per non allontanarſi dal co
ſtume della ſua fetta, che era di propor dubitando le coſe: Non è cutravia in
ciò ſolamente che appariſce il coſtume di Par menide. Dimanda Socrate, che gli
ſia dichiarata la quiſtione delle idee, ed intorno alle coſe che ſi veggono,ed
ancora intorno a quelle che ſi comprendono con la ragione. Parmenide, e Zenone
attentamente lo aſcoltano, eſpero guardandoſi l'un l'altro fog ghignano quaſi
di Socrate meravigliandofi. E queſta è quell'evi denza tanto neceſſaria al
Dialogo, e di cui Platone diede si chiari eſempj neli' Ippia, e nel Fedone.
Ella è qui ordinata a manife ſtare il coſtume d'un Filoſofo accento, e che
colla triſtezza, e coi fogghigni accenna, ciò che nel diſcepolo non s'accorda
con la ra gione. Un tratto poi del coſtume d'un Filoſofo attento, è do ve dice
Parmenide o Socrate troppo per tempo, innanzi che tu ti eſerciti a parlare, ti
sforzi di definire ciò che ſia il bello, il giu ſto, il buono, e qualunque
dell' altre ſpecie. Perchè poco fa il con fiderai vedendoti diſputare con
Ariſtotele. Per certo mi credi, que fto tuo fervore è bello è divino, il quale
alla ragion ſi conduce, ma recati in ſe ſtello, ed eſercitati mentre ſei
giovane in queſta fa coltà la quale a molti inutile, e ſi chiama dal volgo
garruli tà, altrimenti ſi fuggiria da la veritade. Parmenide qui accenna la
Dialectica in quanto vaga per cutti i generi, ſulla qual coſa poco dopo
ſoggiunge conſervando il co ſtume divecchio venerabile. Sarebbe cofa
ſconvenevole, cheſi trat tale maſſimamente da un vecchio certe coſe si fatte
alla preſenza di molti, non ſapendo il volgo, che ſenza queſto vagare, e
diſcerne re per tutte le coſeſia impoſſibile abbattendoſi nel vero acquiſtar
men te. Ariſtotele e gli altri lo pregarono, e Parmenide riſpoſe con un apo 7
pare inutile apologo: egli è neceſſario finalmente che s'ubbidiſca, tutto che
mi è av viſo di tutto quello che patà il cavallo Ibico, cui Atleta e vecchio do
vendo prendere la conteſa delle carrette, e per l'eſperienza iremando de'
ſuccelli, alimigliando egli a ſe ſtello, dille cheegli già vecchio era
coſtretto di ritornar agli amori. Nel medeſimo modo diſſe Parmeni. de, a me
pare di temer malto, quando penſo in che guiſa cosè.d'età avanzata, io pola
paſar a nuoto un mare cosi profondo di ragionda menti. Intorno la ſentenza, o
ſia ciò che ſente il principale interlocu tore del Dialogo, ella è qual
conveniva a un Dialettico eſperto, nel vagar per i generi delle coſe, e
nell'argomentare, e ben de gno, che nelle coſe intellettuali Platone, Secondo
il teſtimonio di Apulejo, lo preferiſſe agli altri Pitiagorici, e n'imitaſſe la
ſotti gliezza, e nell' idee, e nel metodo di proporle. Nella Poelia. Epica,
altro è che il Poeta imiti narrando un facto, altro che introduca un degli
attori a narrarlo. Così nell' Odiſſea, aḥtre ſono le cofe che Omero
direttamente narra accadute ad Uliffe, altre quelle che narra Ulife ſteſſo.
S'in troducono ne' Poemi i racconti, per variar i modi dell' imita zione, ed
ancora per accreſcerla; ella è perciò doppia, quando nel Poema i perſonaggi
imitati, imitano effi fteffi col loro rac conto. In queſto Dialogo, Pitidoro
imita, narrando i diſcorſi che inteſe da Parmenide. I Dialoghi, benchè fpecie
di Poeſia Dramatica, in ciò con vengono con l' Epica, e Platone, che nelle
diſpute de'Filoſo fi volle imitare i combattimenti degli Eroi di Omero, emold
anche queſto nel modo di rappreſentarli. Nel Filebo propone ſenza alcro la
difputa chiaramente enunziata intorno la felici tà ed il piacere, nè premette
alcuna circoſtanza ſtorica ai ra gionamenti dei tre interlocutori, Socrate,,
Filebo e Protar co; così fa nel Sofiſta, nell' Eutifrone nelle Leggi, e nella
Repubblica, ma non cosi nel Convito, nel Fedone, e nel Par menide. Pitidoro vi
narra ciò che ha udito da Antifone, e queſto è modo più artificioſo dell'altro,
perchè vi ſi ricerca molta ſa gacità nel render neceffario il ragionamento, ed
accompagnar lo di quelle circoſtanze che più mettano la coſa fotto gli oc chi,
intereſſino il lettore ad aſcoltare i perſonaggi, e di tem po in tempo lo
ricreino con opportune digreffioni, ma tutte convergenti alla quiſtione
propoſta, ſenza che ſe ne accorga il lettore. Nel diſcorſo naturale noi
pafliamo ſenza rifleſſo da una coſa all'altra, ma nel Dialogo, ſe ſi vuol
imitando perfezionar la natura, nulla vi ſi deve introdurre ſenza ragion ſuf
ficiente. La ſomma difficoltà dell' artificio del Dialogo è nell:
interrogazioni, e nelle riſpoſte diftinte e preciſe, ma nel Par menide il
dialettico s'accoppia col dottrinale e queſta è la parte dominante, perchè
eſcluſe l' idee ſeparate, Parmenide ſem pre parla ſcorrendo per le
ſuppoſizioni.; ILLUSTRAZIONE D E L 1 PARMENIDE.. Tom. II. }, (51 )
ILLUSTRAZIONE D E L PARMENIDE. tertentanut Estates L A diſputa su l' idee fatta
tra Parmenide, Zenone', Socra te, ed un certo Ariſtotele, viene a Glaucone, e
ad Adi manto riferita da Cefalo per bocca d'Antifone, il quale avendo
familiarmente converſato con Pitidoro compagno di Ze none', avea su queſta
materia udito da lui le ragioni dei tre Fi loſofi. Reſtarono queſte cosi
profondamente impreſſe nella me moria di Antifone allor giovanetto, che molti
anni dopo ſeb ben diſtratto dagli eſercizi equeſtri, poté in tutte le loro cir
coſtanze rappreſentarle nell' abboccamento, che egli ebbe con Cefalo, e coi
compagni. Tofto Cefalo eſpone il motivo della diſpuca Parmenide ne Poemi avea
detto che tutto è uno, e Zenone provato in uno ſcritto, che uno non è molti. Si
comincia la Jercura dello ſcritto, e Socrate vi fa ſopra delle difficoltà a mi
fura che ſi legge. Poco mancava' a' terminar la lettura, quan do Parmenide con
Pitidoro, e Ariſtotele entrarono in caſa. Si leſſe di nuovo alla preſenza di
Parmenide, e degli altri il pri moargomento, e fi difputò incidentemente su la
differenza del le due definizioni parendo a Socrate, che il dire tutto è uno
foffe lo ſteſſo che il dire, uno non è molti. Glielo concede Zenone, é lodaća
la ſagacità di Socrate dichiara', che non per vanità o per 'arcano di Filoſofia
egli ha' fcritto, ma per fo ftener l'orazion di Parmenide contro coloro che ſi
sforzavano di ſchernirlo, perchè ſe molte contraddizioni degne di riſo pativa
l' Orazion di Parmenide, molte altre di più ridicole ſe ne inferivano dalle
ſuppoſizioni degli altri. Zenone ſcriſfe il: li bro nella ſua giovanezza, ma un
certo avendoglielo rubato.fi pubblico. Si ricomincia la diſputa. Parmenide, e
Zenone lafciano a So. crace eſpor tutta la ſua ſentenza su l'idee ſeparate, per
le quali moſtrava la definizione dell'uno da Zenone affegnata non eſſer
univerſale ". Accorcol Parmenide, che tutta la forza dell'argo mento (52 )
mento di Socrate fondavaſi su l’idee ſeparate, l'imbarazza co ftringendolo ad
aſſegnarne alle coſe fiſiche. Non sa Socrate ri folvere la difficoltà.
Parmenide fingendo di conceder l'idee ſe parate argomenta contro la loro
participazione, contro il lo ro progreſo all' infinito, contro alla loro
incomprenſibilità. So crate n'è molto curbato, credendo che annullate l ' idee
ſepara te non vi fieno più principj per ben filoſofare. Ammira Par menide il
fervor di Socrate, e lo conſiglia ad eſercitarſi nella Dialetica per ben
inveſtigare l'idee. Pitidoro ed Ariftotele, pre gano Parmenide ad eſemplificar
il metodo dell'inveſtigazione dell'Idee. Egli ſcieglie l'idea dell' uno, e col
metodo delle ſup poſizioni la tratta. Orquattro ſono le quiſtioni che ſi
poſſono eſtrar dal Parmeni de relativamente alla definizione di Zenone, che
l'uno non è molti. La prima è quella dell'uno per rapporto all' idee feparate;
Ia ſeconda dell'uno per rapporto asé; la terza dell'unc per rap porto all '
ente; la quarta dell'uno per rapporto al non ente. Le tre ultime quiſtioni ſono
propoſte per via d'ipoteſi: ſe l'uno; ſe l ' uno è; fe l'uno non è. Per non
traſcurar nulla di ciò che agevola l'intelligenza del Dialogo, premetterò
partitamente ad ogni quiſtione la Ipiegazio ne delle voci, e delle nozioni
neceſſarie, ſtando più che mi ſia poſſibile attaccato alle parole del teſto
quale Dardi Bembo il tra duffe; mi par inutile di por tutto il Dialogo, perchè
eſſendoſi ri ſtampato di freſco, tutti coloro i quali hanno vaghezza d inten
derlo ſe ne faranno già proveduti,per gli altri èinutile e vana ogni
illuſtrazione. Zenone di VELIA defini l'uno ciò che non è molci. Approva Ariſto
tele (a ) queſta definizione, perchè in generale ogni defini zione, dovendoſi
aſſegnare per le coſe più lenfibilia e più note, l'eſperienza di tutti i ſenſi
ci moſtra, che i molti ci ſono più noti che l'uno; i fanciulli più teneri nel
coccare, nel vedere, e nell'udire pereepiſcono i molti, e la loro cognizione è
imme là dove hanno biſogno, che la loro ragione fi maturi un poco per
cominciare a dir uno, e quindi numerar su le I molti dunque eſſendo più noti dell'
uno, negandoli di forma 6 ) Metaf. lib. 1o. diata; dita. il (53 ) il concetto
negativo dell'uno in quella guiſa, che negando le par ti ſi fa il concetto
negativo del punto. Dall'uno G fa l'idea aſtratta dell'unità, come dall'idea
dell'uomo l'idea aſtratta dell'umanità. Tre ſono le ſpecie dell'unità; la Lo
gica, la Matematica, la Metafisica. L'unità Logica ſono i generi, e le ſpecie,
o certe idee univerſali atte a rappreſentar molti in uno; l'unità matematica è
il principio compoſitivo de' numeri, o il prin cipio per cui fi numera;
principio differente dal zero, da cui ſi nuinera. L'unità metafiſica' è una
proprietà traſcendentale dell' ente, o che conviene all'ente in quanto tale,
poichè d'ogni ente fi predica l'uno, come fi predica il vero, e il buono, o ſia
il perfetto, ma la verità, e la bontà, o la perfezione, inclu dendo ordine
nella varietà ſuppone l' uno, onde tra le proprie tà dell'ente egli è la più
univerſale (a ). L'unità o l'uno nel ſuo concetto aſtrattiſſimo preſcinde da
tutte le relazioni, potendoſi per l'aſtrazione della mente non riferire, nè
alle coſe che rappreſenta, nè a' numeri che compone, nè a ciò cui conviene: In
queſto ſenſo aftrattiflimo definiſce Zenone l' uno, opponendolo ai molti in
genere. Contro queſta definizione cosi argomenta Socrate. Vi ſono idee ſeparate:
dunque ogni idea eſſen do una in sè, e molti, nel participarſi a molti l'uno,
eimolti poſſono accoppiarſi; dunque non pud dirſi, che l'uno fia molti. Prima
di ſviluppar l' argomento rifletterò su certe voci, e nozioni di Socrate. $. 2.
Suppone toſto Socrate, che vi fieno idee ſeparate. L'idea ſe condo l'etimologia
della voce Greca, significa propriamente com fa viſta, e per traslato ſignifica
coſa inteſa, o ciò che s'inten de; ma tallora ſignifica l'atto per cui
s'intende, il qual però meglio ſi chiama nozione o concetto. Åleinoo defint
l'idea, intelligenza per rapporto a Dio, pri mo intelligibile per rapporto anoi,
miſura quanto alla mate ria, eſemplare quanto al mondo ſenſibile, effenza
quanto a ſe ſteſſa. In tutti queſti ſenſi la prende or Socrate, ora Parmeni de;
ma la prima nozione dell' idea ſeparata è che ella fia il primo intelligibile.
$. 3• ve ) Wolfo Metaf. (54 ) §. 3. Socrate: oltre l' idee del bello, dell'
oneſto, e del giufto, che Parmenide gli accorda, ammette ancora quelle del
limile, del diffimile, del moto, della quiete, dell' uno, e de' molti. Queſte
ultime idee ſono tra loro oppoſte e contrarie, come il caldo, il freddo, il
bianco, ed il nero; eſſendo contrarie, ciò che convie ne all'una, non conviene
all' alira, e quindi ſecondo Socrate i ge neri, e le ſpecie, idee più o meno
univerſali conſiderate in se non patiſcono paßioni contrarie, ma nulla vieta
nell'ipoteſi di Socrate, che non poſſano participarſi dalle coſe. 1 S. 4.
Partecipare è propriamente ritener in sè una parte d'un cutto;; così l'aria
partecipa la luce ', poichè ogni particella d' aria ha in sè una particella di
luce. In un ſenſo più ampio, la voce partici pare s'eſtende dalla quantità alla
qualità, all'azione, all effenza Iteffa.;. così ſi dice, che l'accidente
partecipa della ſoſtanza', gli effetti delle cagioni, un figlio le virtù,
eivizj.del padre: La par cipazione è quindi' più ampia della ſimiglianza
limitata alla ſola convenienza delle qualità, e molto più dell'imitazione, che
alla fimiglianza aggiunge la relazione tra il modello, e la copia; due gemelli
naſcendo saſlimigliano, e pur l'uno' non è la copia dell' altro. I Pittagorici'
nel riferir le coſe all' idee ſeparate, come a loro modellidiceano', che
participavano o imitavano l'idee, ma fecondo Ariſtotele non mai filoſoficamente
ſpiegarono le voci di participazione, e d'imitazione. S. 56 Cið fuppoſto, il
primo argomento di Socrate tratto da queſti principj fi pud diſtinguer in due
per maggior chiarezza. Ogni idea è una in sé, ed una in molti, dunque nel tempo
ſteſſo, uno può efser molti. Cosi lo conferma, Benchè l' idee lieno tra loro
con crarie, nondimeno poſsono eſserº nel tempo ſteſso participate da. molti,
anzi dallo ſteſso ſecondo diverſi riguardi, ma in queſte participazioni
ritengono la loro unità, dunque: ſon uno e molti. Così lo prova: oppoſte e
contrarie ſono tra loro l’idee, del ſimile, del diſſimile', del moto', della
quiete, dell’'uno; é dei molti; dunque comenulla viera, che lo ſteſso poſsa
aver more in Metaf, in una parte, e quiete nell'altra; eſfer fimile ad un altro
in una parte, e diffimile nell'altra, così nulla vieta che ſia uno, e molti;
una Caſa ha molti legni, e molte pietre; ogni. Uo mo è uno conſiderato in sè,
ed è o ſeſto, o ſettimo conſide rato con altri. la un Uomo, altra è la deſtra,
altra la fini ſtra, altre le parti dinanzi, altre di dietro, altre le ſupreme,
al tre le infime. Nel Sofiſta egli dice; noi chiamiamo un Uomo denominandolo
con molti cognomi, mentre a lui attribuiamo i colori, le figure, le grandezze,
le virtù, ed ivizi: nelle quali coſe tutte, ed in altre infinite, non ſolamente
diciamo che egli fia Uomo, ma ancora buono, ed altre infinite coſe, e le altre
fecondo la ſtella ragione. In cotal gui sa fupponendo noi qualunque coſa una,
di nuovo l'appelliamo molte e con molti nomi..... Onde ſi è da noi data
occaſione di contraddi re, come jo penſo a' giovani, ed a ' vecchi di tardo
ingegno: percioc che incontinente ci potrebbe chiunque far obbiezione che ſia
coſa impos fibile, che molte sofe folero una, ed una molte. Dunque uno può
eſſer molti; dunque non è generale la de finizione, che uno ſia non molti. La
participazione dell' idea evidentemente lo manifeſta. Sciolto è l'argomento ſe
fi nega l'ipoteſi dell' idee ſeparate perchè colte l'idee è colca la loro
participazione. Parmenide ri gecta l'ipoteſi, come nè generale, nè chiara; non
generale.per chè non s'eſtende a cutti i cafi poflibili i; non chiara., 'perchè
non pud fpiegarſi la participazione dell'idea. Cost:provo la pri ma parte non
ſi debbonoaſſegnar idee delle coſe ſeparate, o aſſegnarſene di tutte le coſe ';
che vuol dire, non baſta affe le.coſe morali, e matematiche, mabiſogna af.
ſegnarne ancora per le fifiche: dunque non ſolamente vi ſono idee del giuſto,
del bello, del buono, del grande, del fimile ec, ma dell'uomo, del foco,
dell'acqua, e d' alcune coſe, che molti fimano per avventura ridicoloſe; i
peli, il fango, le macchie., ed altre coſe ignobili, e vili. Socrate toſto lo
nega, perchè gli pare, che ammettere queſt' idee, ſarebbe coſa troppo
diſconvenevole, poi can didamente confera, che alcuna volta queſto penſiero lo
turbo, e che quando di là fi ferma ſe nefugge temendo di non corrompere la ſua
mente, e fantaſia cadendo in ciancie ineſplicabili., onde a quelle coſe
ritornato (cioè all'idee del giuſto, del bello, del buono, ed all idee
'matematiche ) verſa intorno a quelle. In (a ) Sof, pag. 306, (56.) In un caſo
ſimile ſi ritrovò il P. Malebranchio; ſentendo egli la difficoltà di ſpiegar
chiaramente, come l'eſtenſione intelligibi-: le, eſſendo immobile in Dio, gli
rappreſenti il moto, ove il luſtra queſto articolo dice nel fine: (a ) Io non
oso impegnarmi'. a trattar queſto ſoggetto a fondo, temendo di dir coſe, o
troppo aftrat te, o troppo ſtravaganti, o ſe ſi vuole, per non azzardarmi a dir
co ſe che non so, nè sono capace di diſcoprire. Queſto è il ripiego di Socrate.
Ariſtotele (do ) ove nella Metafiſica combatte l' idee ſeparate malamente
attribuite a Platone, adduce tra l'altre coſe, che dandoſi idee ſeparate ſi
dovrebbe darne de' ſingolari, de' corrut tibili; egli non eſtendeche
l'argomento da Parmenide eſemplifica to, e poida Alcinoo, che afferi non darſi
nel fiſtema de' Platonici idee delle coſe arcifiziali; uno ſcudo, una lira ec.
ne delle co fe oltre natura la febbre, la bile non naturale; non delle coſe
ſingolari, Socrate, Placone; non delle vili, ed abbiecte ſozzure, paglie ec.
donde traffero i Platonici dopo Ariſtotele, queſta di ſtinzione, ſe non dal
Parmenide? §. 7. Propoſta che ha Parmenide un'obbiezione, che Socrate non può
riſolvere, egli cangia l' argomento ad judicium in quello aid hominem, che vuol
dire non argomenta più ſecondo i principi della ragione univerſale, ma ſecondo
i principj del diſputante, e ne deduce la contraddizione. Suppone dunque che vi
fieno idee ſeparate ", ma come poi date queſte idee lo ſpiegare che lieno
participate dalle coſe Queſta participazione ſi fa, o ſecondo il tutto, o
ſecondo la parte. Parmenide dimoſtra, che nèl'uno, nè l'altro può eſſere. Sia
da una coſa participaca l'idea ſecondo il cutco, dunque tut ta l'idea è in ſe
ſteſſa.; e tutta fuori di ſe ſteſſa; dunque nel tempo ſteſſo eſiſte tutta in sè,
e cutca fuori di sè. Siaľ idea conliderata in sè A, e participata fia B, C, D
ec. generalmen te, o non A; dunque nel tempo ſteſſo l'idea è A, e non A, ciò
che è contraddittorio. Nè occor dire che un giorno è uno, e lo Steffo, ed
inſieme in mola ti luoghi, e pur non è da ſesteso in diſparte. Il giorno non è
che la luce del sole, diffuſa in tutto il noſtro emisfero. Or quel la parte di
luce, che illumina me, non illumina il compagno ſebben mi lia vicino. Parmenide
li ſerve dell'eſempio della ve la, (a ) Ricerca della verità T. 4. pag.... (b )
Metaf. I..... (57 ) la, la quale molti coprendo, non è perd una in molti,
perchè la parte c he copre l'uno, non è la parte che copre l'altro. Reſta
a dimoſtrare, che l'idea non è participata dalle coſe ſe condo una parte; la
dimoſtrazione è da se manifefta, perchè l'idea participata ſarebbe una, e non
una; una tutta in sè, e non una nelle coſe che ne hanno ſolo una parte. Queſto
modo d'ar gomentare, è fondato ſul principio di contraddizione adoprato lovente
da Platone, e ſtabilito da Ariſtotele, come il primo prin cipio in cui ſi
riſolvono cutti gli altri. Eſperimentiamo noi cal eſſere la natura della noſtra
mente, la qual mentre giudica che una coſa ſia, non può inſieme giudicare, che
la ſteſſa non ſia. Parmenide eſemplifica l'impoſſibilità di queſta ipoteſi. 5.
8. La grandezza è ciò che è capace di più e di meno. Nel conce pir il più fi
concepiſce il maggiore, nel concepir il meno fi conce piſce il minore, e nel
concepir l'eguale non ſi concepiſce nè più, nè meno nelle quantità che ſi
comparano. lo dico che li comparano, perchè nè il più, nè il meno, nè l' eguale
concepir ſi poſſono ſenza riguardar una coſa nel tempo ſteſ to che l'altra o
ſenza compararle, e in queſta comparazione pro priamente la grandezza confifte,
la quale, come ben dice il Wol fio, non ſi può concepir ſenza un altro a
differenza della quali tà. Tutto quindi l' effer della grandezza è relativo, od
ha tut to l'eſſere in ordine ad un altro. Così Platone eſpreſſe la natu ra
della relazione nel Politico, nel Simpoſio, nel Sofifta, e pri ma di lui
Archita, ed Ocello, (a ) i quali diviſero la relazio ne in quattro generi. Da
queſti autori traſfe Ariſtotele (6 ) la definizione, che dà della relazione.
Nulla perd vieta, come & proverà, che per compendiare i concetti non ſi
concepiſca la gran dezza come qualche coſa di aſſoluto, a cui accade – eſſere
mag giore, minore, ed eguale, e che di nuovo ſi concepiſcano il maggiore, o'l
minore come aſſoluti, a' quali accada il più, o meno, o nè l'uno, nè l'altro.
Suppoſto dunque, che fi dia l'idea della grandezza, e in conſeguenza del
maggiore, del minore, dell' eguale, così argomenta Parmenide. Sia A l'idea del
maggiore, B del minore, C dell' eguale; ſi dividano tutte2, e tre in parti
ineguali: С poichè dunque una coſa in canto è maggiore, in quanto partecipa
l'idea del maggiore, lia l'idea - B del maggiore A diviſa in parti ineguali, e
la parte minore delmaggiore ſia participata, quello che la Tom. II. h par (á )
Diſcuſ. Perip. Patriz; T. 2. pag. 185. (b ) Ad aliquid alia dicuntur quæcunque
quod ipſa ſunt aliorum effe dicuntur. o il A (58 ) partecipa non ſarà egli nel
tempo fefto, e maggiore, e mino re? Maggiore, perchè parcecipa l'idea del
maggiore; minore per chè parcecipa la parte minor del maggiore. Così potrà
dirli della participazione della parte più picciola dell'idea del minore, e
dell' idea dell'eguale. Se'l idee dunque fi participano dalle coſe, ſe condo
una parte loro non potrà mai effer quefta, una delle par ri ineguali. Parmenide
non procede olore, maè facile l'aggiun-. gervi, che nè meno pud parcicipare
delle parti eguali, perchè la parte.eguale del maggiore participata dalla coſa,
la farebbe nel tempo ſteſſo eguale, e maggiore; e così la parte eguale del mi
nore, ſarebbe la coſa minore ed eguale.. 9. La noſtra mente, come per ſua
natura non può concepiricon tradditrorj, così non pud frappaſſar l'infinito,
biſogna che s'ar reſti ad un primo, o ad un ultimo, il qual è come Tuncino che
ſoſtiene curri gli anelli della catena. Ariſtocele, e'ne'mori, e nel le
cagioni, e ne'fini dimoſtra l' aſſurdità del progreſſo all' infini 10, modo d'
argomentare imparato dal Parmenide di Platone non men che l' altro del
principio di contraddizione. Il Wolfo dimoſtròeffer impoſibile il progreſſo
all'infinito rectilineo, e cir colare. g. 10,. Poſta l'aſſurdità del progreſſo
all'infinito, così argomenta Par menide: Tu ſtimi che qualunque ſpecie fia una,
quando pare i te cbe certe, e molte coſe fieno grandi, parendoti per avventura
in ris guardando a tutte le coſe, che ſia queſta una certa idea, onde tu penfi
che il grande fia uno. Prima d'inoltrarſi è da oſſervare, che qui Platone
inſegna, co me comparando le coſe, nel riflectere a quello in cui conven gono,
ne riſulta un'altra idea, come prima avea inſegnato Epicarmo, Queſt' idea è
ſempre una, perchè uno è l'atto della mente con cui ſi rifletre a ciò che le
coſe hanno di commune. Continua Parmenide: Se'il grande, e l'altre coſe che
ſono grandi nel medeſimo modo conſideralli per tutre le coſe, non apparirebbe
egli da capo ceri' una coſa grande, onde farebbe neceſſario che queſte tutte
pareffero grandi? Vuol dire che nel compararſi dalla mente di nuovo l'idea del
grande con le grandezze participate, nè riſulta un'altra idea di grandezza, per
la qual coſa concludeParmenide: apparirà di nuo po altra ſpecie di grandezza
fuor do esſa grandezza, e di quelle che fono ! (59 ) fono partecipi di lei, e
dopo tutte queſte, altra di nuovo con cui som rebbono queſte grandi, nè pide
qualunqueſpecie fia una, ma piuttoſto di numero infinito. La ragione è, che
l'idee della grandezza di nuovo aſtratte nella comparazione, eſſendo per loro
natura re lative faranno fena pre di nuovo comparabili, e così all' infini to.
Ariſtocele su queſto fondamento del Parmenide, e tutti i Platonici, e tra gli
altri Alcinoo dillero, che non fu potea aver idee de relativi. $. 11. cioè per
Dal modo con cui Parmenide comparando l'ideę, altre idee He deduffe, concluſe
Socrate, che le ſpecie ſono' atti dell'intel fetto, i quali non riſiedono, che
nell'animo. Gli concede Para menide, che ogni atto dell' intelletto è uno, ma
gli fa confef fare, che queſt' acto ha un oggetto, ed è l' ente'; l'ente perd
in quanto ſi concepiſce o s'intende', non s'immagina o ſente: prende egli qut
l'idea, non per la nozione, o per il concetro' della mente 1 atto, ma per la
relazione che ella ha ad un certo oggecto, e conſidera l'unità dell'idea' non
relativa mente all'atto dell'intelletto, ma all' ente che la partecipa poichè
ſecondo i principj di Socrate, ella è ſempre la ſteſa in tutte le coſe. Ne
deduce per confeguenza, che ſe l'idee ſono' at: ti dell'intelletto, le coſe che
partecipano della ſpezie', o deli? idea faranno tutte intellective, ed
intelligibili. Vi riſponde So crace, che le coſe non partecipano' dell' idee,
in quanto' queſte fono atti dell'intelletto, ma in quanto rappreſentano le coſe;
che vuol dire, in quanto l' idee Tono eſemplari, di cui le co fe fono
limiglianze; onde in tanto le coſe le partecipano', in quanto ad effe li fanno
ſimili. Parmenide contro queſte fimi glianze dell' idee, argomenta coll'
aſſurdità del progreſſo all' ip knito, come fece delle grandezze. $. 12 Supponiamo
che' molte' coſé' fieno ſimili per la participazione dell' idee della
ſimiglianza. Potendoſi dunque comparar dall'in telletto le ' fimiglianze', e
delle coſe, e dell' idee, Te' ne' eſtrar rà un'altra' idea di ſimiglianza, e
queſta di nuovo comparando 1' idee con le coſe, darà un' altra idea di
fimiglianza, e co sh all'infinito, cio' che è aſſurdo”. Cosi eſprime queſto
argo mento Parmenide: non ſarebbe egli neceſſità grande, che' quel che è fimile
al fimile' folle partecipe dell' uno, e della fleffa ſpecie? Or hi 2 non (60 )
5 non ſarà ciò la ſtessa ſpecie, di cui le fimili coſe rendendoſi partecipi
fiano fimili? Dunque non può alcuna coſa eller ſimile alla ſpecie, ne la ſpecie
ad altrui, altrimenti oltre alla fpecie', altra ſpecie ſempre apparirebbe, che
ſe ella folle fimile ad alcuna coſa altra dacapo', ne cellerebbe mai queſto
progreſo, che non ſi faceſſe ſempre nuova fpe cie, ſe ancora folle ſimile la
ſpecie, a chi di lei ſi rendeſe partecipe: Ariſtotele propoſe lo ſteſſo
argomento ſebben oſcuramente L'Uomo, dice, ſignifica non meno la ſoſtanza
ſenſibile degli Uomini ſingolari, che la ſoſtanza intelligibile dell'Uomo per
sè, o fia l'idea dell' Uomo. Or ſe queſt' idee convengono in una coſa comune,
fi concepiſce comparandole un terzo Uomo, equin di un altro, e così all'infinit.
Ariftotele creſce l'aſſurdità Socrate lingolare participando dell'Uomo
univerſale partecipa, e dell'animale e dell'animale a due piedi, e d'altre coſe,
ciod, quelle che ha comuni colle piance, colle pietre, ed altre innume rabili.
Converrà dunque moltiplicare all'infinito l'idee, onde per una coſa ſenſibile
converrà porne infinite; ſi può aggiungere che queſto numero di nuovo ſi
moltiplicherà all'infinito am mettendoſi l' idee dei relativi, poichè ogni coſa
che è nell'Uo mo, pud compararſi a turce l' idee delle coſe viſibili, ed
invidia bili, o della ſteſſa, o di diverſa ſpecie. Ma l'Uomo ideale, diceano i
Pittagorici, effendo incorrutti bile, ed univerſale non ſi può comparar a coſa
ſingolare, e cor ruttibile, ed eſtrarne quindi nuova idea? Ariſtotele vi
riſponde: i binarj feparati ſono anche eſſi incorruttibili, e pur per conoſcer
li biſogna dar un'idea comune di binario, in cui convenga il binario B, il
binario C ec. In oltre l'idea di figura è comune al cerchio, al triangolo, ea
tutte le figure piane e ſolide, onde ella, è propriamente ge nere relativamente
alle ſpecie, ma chi può mai conoſcere una figura che non ſia, nè cerchio, nè
triangolo, nè altra ſimile? Intanto la concepiſce la figura in genere, in
quanto la mente non s' applica, che ai limiti che circonſcrivono lo ſpazio, fen
za far attenzione rifeffa, nè al modo, nè al numero, nè al fito dei limiti
ſtelli. Spiegherd la coſa con un eſempio più fa cile. Egli è impoſſibile che io
concepiſca un triangolo ſenza rappreſentarmi che egli fia, o Equilatero, o
Iſollele, Sca leno; altro è poi, che nel rappreſentarmi uno di queſti crian
goli io non faccia determinata attenzione alle ſpecie dei tre lati. Noi non
intendiamo le cofe, dice San Tommaſo, ſe non cona vertendoſi a' fantasmi loro.
Ora a qual fantasma è anneſſa l' idea della figura? Confuſamente a tutte le
figure; ma io non ne, con (01 ) conſidero diſtintamente alcuna, e ſolo attendo
a ciò in cui cut te convengono, ed è d' eſſere uno ſpazio circonſcritto; ma ſe
nel concepire l' idee de' generi delle coſe matematiche v'è canta dif ficoltà
ammettendo l' idee ſeparate, quale ve ne ſarà nell'idee metafiſiche?
Nell'ipoteſi Pitagorica ſi dovranno aſſegnar idee del poflibile, dell'ente,
dell'atto, della potenza, della cagione, del principio, del modo,
dell'attributo, del terminato, è dell ' indeterminato, del neceſſario, del
contingente', del perfetto dell'imperfetto ec. nè ſolo di queſte coſe, ma del
prima, del dopo, dell'inſieme, del ſeparato, e finalmente del genere in quanto
genere, e della ſpecie in quanto ſpecie: coſe tuote af furdiffime nè abbaſtanza
eſaminate da coloro che preteſero che noi vediamo le coſe in Dio, perchè ad
ognuna di queſte coſe non men che all'eſtenſione, ed al numero dovrebbe
aſſegnarſi un'idea, Ariſtotele con gran ragione v'aggiunſe, che neli ipo teſi
dell' idee ſeparate, oltre l'idee de relativi converrebbe am mettere l'idee
delle negazioni, e delle privazioni, o degli op pofti, cioè dei contraddittori
dei contrarj ec. 9. 13. Dace l'idee, data la loro participazione, ed eſcluſa la
compa razione a'ſenſibili, ricerca Parmenide fe debbonſi annoverare l'idee tra
gli enti relativi; od aſfoluti. Vi fono delle coſe, di cui tutta l'eſſenza
conſiſte nel riferir fi all'altre, e queſte ſono relative, (8. 8.) é ve ne ſon
altre di cui l'eſſenza conliſte nella non ripugnanza dei predicari, che le
coſtituiſcono, e queſte ſon le affolute; Poichè tutto l'efferé de’ relativi è
nel loro confronto, (5.8. ) includono effi neceffaria. mente due termini tra
loro oppoſti, il fondamento dei quali fo no le coſe affolute, che tra loro fi
comparano; quindi il fonda mento del relativo è sempre l' aſſoluto. Un Uomo
fuffifte per sè, e ſe foſſe ſolo nel mondo, non farebbe nè Padrone, nè ſer-' vo,
ma ſuppoſto che viva in una ſocietà, può eſſer l'uno, e l' altro, in guila però
che non è ſervo in quanto Padrone, nè Pa drone in quanto ſervo, ma come Padrone
ſi riferiſce a coloro cui comanda, come ſervo a coloro cui ubbidiſce, e l'uno,
e l' altro gli accade in quanto è Uomo, ed a diverſi Uomini li ri. feriſce.
Poichè dunque l'idee fi riferiſcono ai fimili che le par tecipano, biſogna che
ſieno in ſe ſteſſe e parimenti perchè i ſimili che partecipano l'idee fi
poffano riferir all’ idee, convie ne che fieno in ſe ſteſi. Biſogna in una
parola, che l'idee, e le coſe che le partecipano abbiano un' eſſenza
determinata. Con clude (62 ) 1 clude quindi Parmenide, che l'idee hanno tra
loro, un ' eſſenza, ma che queſta non è un eſſenza tutta: relativa alle coſe
che ſo no appreſſo di noi, o pure le coſe fi nominano ſimiglianze, o in
altramaniera di cui facendoſi partecipi, noi la nominiamo con, qualunque di
eſſe.;. aggiunge parimenti, che le coſe che ſono in noi, non hanno la virtù ſua
d'eſiſtere in verſo l' idee, ma fono quel che ſono relativamente a ſe ſteſſe.
Parmenide quin di chiama le cofe. che ſono in. noi,, e: in torno a noi:
equivoche: all' idee.. Cagione equivoca: degli animali, delle piante, de
metalli ec. diſero Ariſtocele, e gli Scolaſtici il Sole, perchè ſebben concorra
alla loro generazione, non conviene con loro, 0 non gli aſſomi glia che
nell'eſſere. Parmenide parlando ad bominem par che allu da all' opinione di
Socrate, il quale nell' ammecter l' idee, come cagioni delle coſe, era sforzato
ad ammetterle come cagioni equivoche,, non potendo ammetterle, come cagioni
eſemplari, il che: Ariſtotele così: dimoſtrò:-ſe quando l'Uomo fi genera da
Socra te, eglis'alfomiglia all'idea, e non a Socrate, fi potrà generar: { mile
all'idea, liavi o non ſiavi Socrate;; ma ľ Uomo generandofia non s'aſſomiglia
all'idea, ma a Socrate, come è manifeſto dall' eſperienza; dunque Socrate, e
non l'idea è l'eſemplare del generato: Poſto dunque che l' idee: influifcano
nella generazion delle coſe, convien ſempre porle, come cagioni equivoche;: ma
da: chi Ariſtotile traffe cal idea, ſe non da Placone? ' Or fe: l'idee non
hanno relazioni alle coſe, o ſono diloro ca gioni equivoche, come poſſiamo
conoſcerle? Se le piante, de pie tre ragionaſſero,. potrebbono
mairappreſentarli (rimirando ſe fteſ. ' fe,. ), che il Sole foſſe loro: tanto
diſſimile? che ebbe. tanta parte nella loro generazione. Le noſtre idee non
ſono cagioniequivoche delle coſe, le quali noi produciamo affilandoſi ſul loro
modello. Un Architeto uno Scultore, un Pitcore fanno la caſa, la ſtatua,.,
l'immagine ſecondo l'idea che ne hanno formata, e perciò comparano l'effet to
all' idea per miſurarla,, e perfezionarla;, nella combinazione dell'idée chiare,.
e diſtinte conſiſtendo la ſcienza, l'oggetto del la noſtra ha ſempre
proporzione all'idee che d'effo formiamo;.. ma ſe l.idee: ſeparate come cagioni
equivoche non hanno alcu na proporzione con le coſe che vediamo, non par
poffibile di: riconoſcerle, e in conſeguenza aver- Scienza di loro. Delle co fe
quindi rivelate, non abbiamo ſcienza ma fede; ſono certe, € infallibili, ma non
a noi: chiare e diftinte.. Platone nel Filebo ſtabiliſce due generi di coſe;
altre non 'han no avuto origine, nè finiranno giammai, perchè ſono immutabi li,
e fempiterne; altre non ſono perchè ſempre 'fi fanno ſono a generazione, &
corruzzione ſoggette: À queſti due ge neri di coſe, ' fa corriſponder due
generi di cognizione; delle coſe immutabili, ed eterne ſi ha ſcienza, dell'
altre non ſi ha che opinione. Le coſe di cui s' ha ſcienza ſono l'idee, perchè
ſono ſempre nello ſteſſo ſtaro, nè ſi può ſapere ſe non ciò che è, ed è ſempre
nel medeſimo modo; le coſe di cui s' ha opinione fono le coſe ſenſibili, perchè
continuamente fluendo, non ſono mai nello ſteſ fo ſtato. Come dunque Placone
nel Tilebo, dà fcienza dell'idee, e nel Parmenide non la dà? La riſpoſta
generale è, che da cid che ſi dice in un Dialogo,nulla deve inferirſi
relativamente a cid che ſi dice nell'altro, perchè Platone non ragiona ſecondo
la ſua ſentenza, come nelle lettere per eſempio, ma ſecondo le ſenten że altrui;
oltre a cid, Platone trattando nel Filebo della defini zione della ſcienza egli
è manifeſto, che tratta ſolo della ſua pof fibilità relativamente all'oggetto,ſenza
poi procurarſi di cercare, ſe ſi dia o no tale ſcienza negli Uomini, I
Matematici definiſco no il cerchio, e il triangolo in quanto è poffibile, nè fi
curano ſe eſiſta o.no: quindi ben ' li definiſce la Filolofia, la Scienza dei
poffibili in quanto tali; nel Parmenide non della poſſibili tà, ma
dell'attualità della ſcienza ſi tratta, e Parmenide mo ftra, che dandoſi l'
idee ſeparate non poſſiamo aver 'ſcienza di effe, perchè non hanno alcuna
proporzione con noi, e con le coſe.noſtre. 5. 15. Ammettendo con S. Agoſtino, e
S. Tommaſo, cheIddio ab bia idee, e molte idee, onde per eſſe conoſca i
ſingolari, i fu turi, i contingenti, gli infiniti, non perciò poſſiamo dire,
che abbiamo ſcienza dell' idee di Dio, o che poliamo conoſcere co me per queſt'
ideeegli conoſca le coſe. Il Malebranchio, ed il Poiret, che lo tentarono,
caderono ſecondo la fraſe di Socrate in ciancie ineſplicabili. 1. 16. (64 ). S.
'16.: s' inoltra Parmenide: La ſcienza in sè conliderata è un'idea, come la
bontà, la bellezza ec. ma ſe queſt' idea della ſcienza, non ha alcuna
proporzione alle ſcienze a noi note, non poßia mo conoſcerla, poichè le ſcienze
intanto a noi ſono note in quanto verſano su noi, o su le coſe che ſono intorno
a noi. Or non conoſcendo l'idea della ſcienza in quanto tale, nè men poſſiamo
conoſcere ſcientificamente l'altre idee, perchè per aver ſcienza dell' altre
idee convien participar dell'idea della ſcien za, ciò che è impoflibile:
Parmenide par qui ſupporre che la noftra ſcienza paragonata all'idea della
ſcienza ſia come il zero all' infinito ma ſe noi non participiamo dell'idea del
la ſcienza, come potremo ſcientificamente, o chiaramente, e diſtintamente
conoſcere il bello, l'oneſto, il giuſto, e l'altre idee? Nulla a mio credere
v'è di più acuto, e profondo che queſtº argomento, e quel d ' Ariſtotele non
l'eguaglia, benchè per altro concluda contro l'ipoteſi dell' idee ſeparate.
Oſservò egli che lº idee eſsendo immutabili per loro eſsenza, non ſi può per
eſse ſpie gar il moto, dalla cui cognizione dipende quella della natura; dunque
l' idee ſono inutili alla ſcienza per cui furono introdotte. Coloro i quali
amiſero con Eraclito, che le coſe ſenſibili ſono in un continuo fluſso,
ricorſero all'idee ſeparate, le quali immutabili eſsendo, ſomminiſtravano a?
Filoſofi dei principj immutabili del loro ſiſtema; la difficoltà è come i
Filolofi le conoſceſsero, ſe la lor mente, non nell' eſsere, ma nell operare
dipende dagli organi del corpo umano, ſoggetto alle vicende dell'altre coſe
fenfibili? f. 17. All' argomento tolto dal principio di contraddizione del pro
greſſo all' infinito, Placone aggiunge l' altro tolto dalle perfer zioni Divine.
Come il retto è la miſura di ſe ſteſſo, e del cur vo, così il cumulo di tutte
le perfezioni che è in Dio; ci ſer ve di miſura per giudicare, e delle
perfezioni di Dio ſteſso, e di quelle dell'altre coſe. Per via del principio di
contraddizio: ne del progreſso all'infinito ſi dimoſtra l'eſiſtenza di Dio, e
per via, o di negazione, o di eminenza, o di caſualità, fi di moſtrano le
infinite perfezioni di lui, onde ſe a qualche data ipoteſi conſegua
l'annullazione di qualche perfezione divina, l'al ſur ſurdo è maſſimo, perchè
Dio nell' effer principio dell'eſiſtenza, è ancora principio di tale eſiſtenza,
e nulla può eſiſtere ſe ri pugna alla natura Divina. Socrate non potea non
conoſcer Dio comeprincipio intelli gente, dunque era neceſſario, che gli
attribuiffè l' idee non me no convenevoli all'intelletto, che i tre lati ad un
triangolo; pur tace Socrate, quando Parmenide gli prova, che la perfec tiſſima
ſcienza o P idea della ſcienza convenendo a Dio, egli per queſt' idea non
poteva conoſcer le coſe, ciò che era con trario alla divina natura. Par dunque
che Socrate ſupponeſſe l' idee ſeparate, ma dall'altra parte Ariſtocele dice
chiaramen te, che Socrate noo ammetteva l' idee ſeparate ſe ben deffe gli
univerſali. Non ſi ſoddisfarebbe in parte alla difficoltà, di cendoli che
Platone, per bocca di Socrate, parlò dell' idee in fenfo poetico, per aver
occaſione d'annullarle, e propor la doc trina che ha da lui copiato Ariſtotele,
e della quale poi ſi ſervì contro que' diſcepoli di Platone, che realizzarono
l' idee ſeparate.. 18. Annullate l' idee ſeparate, la voce idea nel progreſo
del Dia logo, tutta fi riſtringe all' idee, che la mente aftrae comparan do le
coſe. S'è già accennato ($. 8.) il modo, con cui deduſ fe Parmenide l'idea
della grandezza, e de' ſimili, e li vedrà inoltrandoſi, che egli parlando dell'
uno e dell'ente, proteſta di ſeparar le coſe con l'intelligenza, e con queſta
fino sbra narle', che è quanto dire, diſtinguer i concetti o l' idee, ſecon do
i rapporti delle coſe, foſſero ancora quefte ſempliciffime; nulla v'è di più
ſemplice dell'anima per ſua natura indiviſibi le, e pur in eſſa ſi diſtinguono
varie potenze, ſecondo le rela zioni, che ai varj organi del corpo ella ha
operando, onde fi dice che ella ſente, ë che ella immagina. Nella parte ancora
intellettiva, ſi diſtinguono le facoltà che ella ha di comparare, e di aſtrarre,
e di combinare e di, e di contemplare l' idee', onde ella dichiaraſi mente, e
ingelletto, (c ) voci non altrimenti fi nonime, poichè le loro etimologie di
confrontano ai varj uffizj dell'anima; tutte quindi le ſcienze ſono ſu l'
aſtrazioni fonda te. La fiſica aftrae dalle coſe ſingolari, la matematica dalle
ſen Tom. 11. i (a) Mens è detta a menfura, poichè l' anima compara, e miſura le
coſe, Intellectus da intus legere, poichè intendendo ſcieglie, e deduce una
cola da un' altra. fibili, (06 ) fibili, la metafiſica da ogni materia. Vuole
il Patrizio, che come in una gran parte del Sofifta, čosi in tutto il Parmeni
de non ſi tratti che di quella metafiſica, che Ariſtotele colſe da Placone, e
di cui le prime idee ne diedero i Pitcagorici, e tra gli altri, Archira e
Peritione; io v'aggiungo che la me cafifica avendo due parti, cioè l' ontologia,
o la ſcienza, che tratta delle proprietà dell'ente, in quanto ente, e la Teolo
gia naturale o la ſcienza, che tratta delle ſoſtanze ſeparate dal la materia,
come Dio e l'anima, Parmenide ſi riſtringe in que ſto trattato all' ontologia,
e manifefte ne faranno nel progreſo ſo le prove; baſta accennar qui, che
dovendofi dar un elem pio del modo con cui s acquiſtano l ' idee, ſcieglie
Parmenide l'idea dell'uno, applicando ad efla il metodo delle fuppoſizio ni.
Due coſe aggiunge alluſive all'analiſi, ed alla ſinteſi. La prima che ufficio e
d' uomo ingegnoſo il poter apprendere, come ſi ritrovi il genere di qualunque
coſa, ciò che ſi fa cominciando dall'analiſi, o dall'eſame delle coſe
particolari, e per l'aſtra zione, elevandoſi agli univerſali; la ſeconda, che
ufficio è di uomo meraviglioſo inſegnar agli altri le coſe ritrovate, ciò che
ſi fa per la ſinteſi, combinando l'idee generali, e quindi le lo ro
combinazioni, da cui ſi deducono i problemi, e i teoremi, ed indi i corollari,
e le annotazioni. Sommo acume di men te fi ricerca nel far le opportune
aſtrazioni, e di nuovo da.quefte aftrarne altre, ſin che ” analiſi propoſta ſi
riduca all' ul time idee, e ſomma fodezza, ritrovare l'idee, concatenarle in
guifa che alcri con facilità, e prontezza le intendano, e l'uno, è l'altro
dimoſtra Parmenide, o col luo nome Placone. Se l'uno che ne ſegua. b. I. Vuol
Uole il Ficino, che queſta prima fuppoſizione debba inten derſi. Se l' uno,
perchè il verbo è, o ſia la copula del predicato o del ſoggetto v'è pofta, non
in grazia della coſa, ma dell' orazione. Nel legger la nota marginale del
Ficino mi ricordai, che Licofrone (a ) invecedi dire, il parete è bianco, di
ceva il parete bianco, ed altri il parete biancheggia, quaſi che Platone non
riprovaſſe nel Sofiſta l' orazion ſenza verbi, o che (a ) Ariſt. 1. Phil. 9 (07
) che i verbi non foſſero ſtati inventati per compendiare i gius dizi ! Non è
forſe lo ſteſſo il dire, io amo, che io ſono aman te é io biancheggio, che io
fono biancheggiante? La fuppofi zione dunque, je l' uno equivale all' orazione
condizionata, ed implicità fé uno, nè così la propone Parmenide, ſe non per
intimarci, che a null' altro fi deve badare nell'ipoteſi, che all uno preſo in
un concetto aſtrattiflimo. Nella Geometria ſinteticamente ſi comincia dal punto
prin cipio della linea; nell'aritmetica, dall'uno principio del nume ro; e
nell' ontologia dall' uno traſcendentale, che conviene ad ogni noftra idea.
Eſclude tutte le relazioni, perchè riferendofi l'uno per eſempio ad A, B, C ec.
non è più uno, ma molti, in quanto in lui fi conſiderano le diverſe faccie che
ſi riferi ſcono ai molti. Parmenide in queſta prima ipoteſi eſclude dall' uno
cutte le relazioni, cioè quelle dell'ente in genere, e l'alore dell'ente in
fpecie. Relazioni dell'ente in genere ſono l'identicà, e la di verſità, perchè
non competono meno alla ſoſtanza, che alla quantità, qualità, ed agli altri
predicamenti. Relazioni dell'en te in fpecie ſono, la limiglianza, la
diſſimiglianza, Peguaglian za, l'ineguaglianza, l'antichità, la novità eco
perchè competo no o alle fole qualità, o alle ſole quantità ec. * l une e
l'altre intanto ſi dicono relazioni, in quanto non conſiderano le coſe in ſe
ſtelle, ma relativamente tra loro: il diffimile, l'eguale ec. non li
concepiſcono ſenza i due termini, che tra loro fi paragonano. Se l' uno in
quanto tale non può compararſi ad alcuna coſa, biſogna eſcluder da lui tutte
queſte relazioni, tan to più ſe nelle coſe riferite s'includono i molti.
Parmenide comincia dall'eſcluſione delle relazioni più facili a conofcere', che
ſono quelle della quantità; paſſa alle relazioni della qualità, e ad alcre, e
finalmente all'eſſenza; nè di ciò con tento efclude le relazioni, che l'uno può
aver all'opinione, al la ſcienza, é lino al nome. Se l'uno in queſto concetto
aftrat tiſſimo fi nominalle, avendo ogni nome relazione al ſenſo, al la
fantalia, od alla mente, e quindi a tutti gli uomini, che lo pronunziano o
l'odono, l'uno con l'aggiunta di queſte relazio ni ſarebbe molti. Si ſente più
che non s'eſprimequeſt' ultimo grado, ed abbiamo grande obbligazione a Platone,
che in que Ro Dialogo, nel rappreſentarci la dottrina della fetta Eleatica, ci
ha moſtrato l'uſo opportuno delle aſtrazioni. Egli di conten ta di non
moltiplicarla, che fino ad un certo grado, a fine che l'idea coll' altrarla
tanto non s'inlanguidifca, è sfumi; onde al fine la mente non poſſa più
ravviſarla in quella guiſa, che i 2 l'im 708 ) l'immagine d'un oggetto
riflettuta da uno ſpecchio ſucceflivamen te in molti altri, al fin diviene si
ombratile, che ſvaniſce da. gli occhi. Frattanto era neceſſario dimoſtrare in
un ſoggetto aſtrattiſſimo per sè, l'uſo dell'ultime aſtrazioni che può far la
mente, non eſſendovi altro modo di accennare, come in ogni quiſtione s'arrivi a
quell' ultima idea, in cui conviene che vi ci ripoſi, anco malgrado l'impeto
innato, che inevitabilmente ci porta a ſempre più nelle cognizioni inoltrarci.
Nell'inveſtigazione poi dell' idea vaga Parmenide per tutti i generi, come era
in uſo nell'antica Dialetica, e fatta la ſuppoſizio ne determinata per via di comparazioni,
ed eſcluſioni, egli ricava il punto preciſo della quiſtione propoſta. Con la
chiarezza maggio re che io poſſa, procurerò deſprimer diſtintamente tutti i gra
di tallor dell'analiſi, e callor della ſinteſi Parmenidea. Nel trat çar l'altra
quiſtione meconvenne ſeguire le interrogazioni, e le riſpoſte degli
Interlocutori ma quà folo Parmenide parla; onde bafta ſolo ſeguendo l'ordine
del Dialogo premetter le.co. ſe neceſſarie, eſtrar la propoſizione, e
dimoſtrarla fe fi può cal metodo de' Geometri. L' uno non è molti. Abbiamo
quanto baſta illuſtrata queſta definizione; qui fo lo avverto, che come il
Wolfio, dopo d'aver definito, che l'en te ſemplice è cid che non ha parti, da
queſta definizione ne gativa egli deduſſe, che l'ente ſemplice non è ſteſo, non
è diviſibi le, ſenza figura, ſenza grandezza, che non riempie ſpazio, che non
ha moto inteſtino ec. Così Platone, da ciò che è l ' uno, dimoſtra le fteſſe
coſe, e molt'altre che andremo partitamente, conſiderando, e deducendo dalle
nozioni preme{le. g. 3. 11 Wolfio defini il tutto ciò che è lo ſteſſo con molti;
per abbracciar in una definizione non ſolo il tutto integrale, che chiamaſi
totum, ma ancora il potenziale che chiamali omne. Lo ſteſſo, come ſi vedrà fra
poco, conviene non meno alle quantia tà, che alle qualità, ed alle ſoſtanze, e
l'idea di molti è più univerſale, che quella delle parti, convenendo i molti e
agli enti ſemplici, ed a' compoſti come a' quantitativi. Parmenide non
definiſce qui, che il tutto integrale, raccogliendo inſieme le 1 (69 ) le parti,
e limitandole in uno, a cui niente manca, ed è per fua natura indiviſibile; la
nozione di molti è quindipiù aftratta della nozion delle parti, e in queſto
ſenſo Ariſtotele diffe, che il tutto è prima delle parti, e non le parti del
tutto, il che, ſe ſi crede al Patrizio, tolfe da Ippodamo Turio. (a ) §. 4.
L'uno non è nè tutto, nè parte di sè. Se l'uno è tutto non vi manca alcuna
parte, ($. 3. ) dunque ha parti; dunque è molti contro la definizione dell' uno
($. 2. ) Se l'uno è parte di sè, è un tutto riſpetto a sè, ma non pud eſser un
tutto, come ſi dimoſtrò; dunque non è parte disè. L'uno non effendo nè tutto,
né ſteſo, od è indiviſibile, o è ſemplice. parte, non è 8. S. Ogni cutto ha
principio, mezzo, e fine. Cid vuol dire, che propoſtoſi un turco nel numerarne
le parti fi comincia da quella che chiamaſi prima, e li progrediſce all' ultima
paſſando per le intermedie. §. 6. L'uno non ha principio, nè mezzo, nè fine.
ol, Se l'aveſse ſarebbe un tutto ($. 5. ) il che è impoſſibile (8.4. ) Speſre
volte inſegnò Ariſtotele, che l'infinito è ſenza principio, ſenza fine; offerva
il Patrizio, che lo preſe dal Parmenide, ove ſi dice, che l'infinito (o
piuttoſto come io crederei l'indefinito ) non ha ne principio, nè fine, cioè
non ſi sa in eſſo, nè dove comin, ciar la numerazione, ne dove terminarla. In
queſto ſenſo una li nea non è propriamente infinita, o indefinita, le comincia
da un punto, nè una ſuperficie, nè un corpo, ſe la ſuperficie comincia da una
linea, e il corpo daunaſuperficie. A queſti infiniti måtema rici, che
cominciano da un termine, non compere la definizione, che Platone aſſegna
dell'infinito, da cui eſclude il principio, ed il fine. (a ) Diſcuſ. perip. T.
2. p. 280. S. 2: (70 ) S. 7. L ' uno è infinito. L'uno non ha principio, nè
fine (S. 6. ) Dunque è infinito. (An. Si 6: ) 9. 8. La figura è una parte dello
ſpazio, o dell'eſtenſione circonſcrit ca da cerci limiti, o è retta come il
quadrato, il cubo ec. o ro tonda, come il cerchio, la sfera, Pelifli,
l'eliffoide ec. o miſta dell'uno, e dell'altro. Il principio della figura è
dove i moder ni pongono il vertice, il fine dove pongono la baſe", il mez
zodove la figura fi divide per mecà. 8. 9. L'uno non ha figura. Ogni figura, o
recta, o rotonda ha principio, mezzo, o fine (8. 8. ) ma l'uno non ha principio,
nè mezzo, nè fine. ($. 6. ) Dunque non ha figura. L'uno è infigurabile. $. 10.
Non lo può concepire', che una coſa ſia in ſè ſteſſa ſenza il di 1 ſtinguere
con la mente, che ella è comprendente e compreſa, cid che è concepirla due
volte, o di uno far due. Non ſi può conce pire, che una coſa ſia in altrui,
ſenza che ella ſia toccata in mol te parti. Il luogo abbraccia, o comprende la
coſa in lui colloca ta · Eſer in alcrui, od effer in ſe ſtello,, ſono due
oppoſti ſenza. mezzo, come il moto, e la quiete. So IT. L'uno non è in luogo. O
ſarebbe in sé, o in altrui; ($. 10. ) ſe in sè, egli ſarebbe a sè il ſuo luogo,
onde abbracciando ſe ſteſſo ſarebbe nel tempo fteflo, e comprendente, e
compreſo, cioè l' uno ſarebbe due co ſe o molti contro la definizione ($. 2.)
ſe foſſe in altrui, fareb be 1 1 1 1 (71 ) be toccato in molte parti, onde
avrebbe molte parti contro la definizione. (§. 2. COROL. L'unonon è
circonſcritto da alcuna coſa, terra, Cielo, materia, ſpazio ec. ANNOT. Daqueſto
argomento lice inferire, che Parmenide cob ſidera qui l'uno, in quanto è dalla
mente aſtratto da corpi, che ſono in luogo; s'è già oſſervato, che l'ontologia
degli anti chi era fondata su l' idee aftratce dalla materia, dalla forma, dal
compoſto, dagli accidenti; onde queſt'uno aſtratto da corpi, e da loro
dipendente non ha alcuna relazione a Dio, ch'è un ente per sè, in sè, infinito
cc.. 12. Il moto alla ſoſtanza, ſecondo Ariſtotele, è quando una coſa, per
eſempio una parte di terra ceſſa d'eſfer terra, e comincia ad eſſer pianta. Il
moto alla quantità è quando una coſa, per eſempio un fanciullo creſce nella
ſtatura, ed un vecchio decreſce. Il moto alla qualità è quando per eſempio la
carne d unUomo fredda, dura, ed aſpra, li fa da sè calda, molle, liſcia. Preten
deva Ariſtotele, che queſti tre moti dipendendo dalla forza in crinſeca, che
facea cangiare alle coſe la ſoſtanza, e gli acciden ti loro, li diſtingueſſero
dal moto locale, nel qual altro non ſi con ſidera, che il paſſaggio da un luogo
all' altro: Parmenide, o Pla tone, benchè parli del moto di generazione, e
d'alterazione, par ſolo far attenzione, ſecondo l'ulo de'moderni,
all'accoppiamento delle parti, e quindi all aumento delle qualità, due coſe
accom pagnate dal moto locale, o di traslazione. Lo conſidera egli in linea
retta, oin cerchio, nel qual moto una parte della coſa & forma nel mezzo, e
le altre parti fi rivolgono intorno al mezzo. Vuol poi, che tutto ciò che ſi
genera ſi faccia in qualche luogo ſecondo il principio da lui in queſto Dialogo
replicato più volte. Ciò che non è in alcun luogo è nulla. Platone nel Teeteto
dice per bocca di Socrate: Se dimoſtran eli una ſpecie di moto, o due ſpecie,
come a me pare, nondimeno io conſidero che cid non ſolamente appaja a me folo,
mo ancora tu ne fii partecipe, acciocchè amendue parimenti patiamo qualunque
coſa face cia meſtieri, ficchè mi di, cbiami tu forſe moverſi, quando alcune
coſa fe mute da luogo a luogo, e nello steſo ſi raccoglie? Teodoro glie lo
concede. Socrate ſoggiugne: Dunque fiare una specie questa, ma quando
fermandoſi alcuna coſa nello ſteffo luogo s'invecchia, o di bian, ca fi fa nera,
o dara dimolle, e ſi altera da certa altra alterazione, son chiameremo noi
meritamente queſt' altra ſpecie di movimenti?... Ora dico che fieno due le ſpecie
del movimento cioè alterazione, la (72 ) la circonferenza. Egli dice
circonferenza in luogo di traslazione in cerchio, per moſtrar che nel pieno
ogni coſa va in giro., Conſidera poi quì, che nel farſi una coſa vi la un
accoppia mento, nel qual prima una parte fi congiunga a quella che li fa,
mentre l'altra parte, che ſi deve aggiungere, è ancora fuori della coſa. 1 $.
13. L'uno non ha moto di alterazione, nè di generazione. Non di alterazione,
perchè ſe ſi altera non è più uno, ac quiſtando nuove qualità; ſe fi genera non
è più uno, acquiſtan do nuove parti. Or nuove qualità, e nuove parti fanno
molti; dunque ſe l' uno o fi altera, o fi genera, è molti contro la de
finizione. IN ALTRO MODO. Una coſa non può generarſi o farſi che in un' altra,
perchè tutto ciò che è, o fi fa, è in qualche luogo, ma ſe l'uno non può effer
in un altro (S. 11. ) nè meno può farſi in eſſo. In ol tre ſe una coſa ſi fa in
un altro, non ancora ella è ſe ſi fa. Or quando una coſa ſi fa, una parte è in
lei, e una fuori di lei, perchè le parti fi vanno ſucceſſivamente aggiungendo,
ma l'uno non avendo parti (5. 4. ) nè può eſſer nè tutto te in sè, nè tutto, nè
parte fuori di sè. Dunque non può ge nerarſi. Corol. L' uno non è generabile,
nè alterabile, nè par §. 14. L'uno non ha il moto di traslazione. L'uno non è
in luogo (5. 11. ) ma la traslazione in linea ret. ta è una mutazione
ſucceſſiva del luogo. Dunque l ' uno non eſſendo in luogo ($. 11. ) non può
mutar il luogo, ſecondo la linea retta, ma nè meno pud mutarlo, ſecondo la
linea circo lare, perchè deve raggirar nel mezzo, e tener fiffe le parti che fi
rivolgono intorno al mezzo; ma l'uno non ha nè mezzo, né parte, dunque non può
rivolgerſi in cerchio'(. 13. ) Dunque le alluno non conviene nè l'uno, nè
l'altro, non gli conviene il moto di traslazione. Q. 15. 1 1. 1 (73 ) g. isi
Come ſi concepiſce il moto, nel concepire la traslazione fuc ceffiva del mobile,
o ſia il rapporto continuamente vario della diſtanza del mobile a ' corpi
contigui, così fi concepiſce la quie te nel concepir il rapporto coſtante di
diſtanza a ' corpi conti gui; quindi nel moto, il corpo va ſucceſſivamente
occupan do diverſe parti dello ſpazio, e nella quiece occupa le ſteſſe par ti
dello ſpazio. $. 16. Luno non è nè in quiete, nè in moto. L'uno non è in sè, nè
in altrui (9.11. ) ma ciò che è in quiete, è ſempre nello ſteſſo, ciò che li
move è ſempre in al trui. Dunque ſe l'uno non è in ſe ſteſſo, nè in altrui, non
ſi ripoſa, nè ſi muove. $ 17 Platone ha ſin ora conſiderato l' uno per eſcluder
da lui la ragion di tutto, di parte, di principio, di fine, di mezzo, di figura,
di luogo, di moto, cioè per eſcluder dall' uno tutte le relazioni che
appartengono alla quantità, come la più nota, e più facile. Senofane pur
provava, che l' uno era infinito, im mobile, non ſi trasfigurava nella
poſizione, non s'alterava nel la forma, non fi milchiava con alcri. Non è egli
molto veri ſimile, che egli ne arecaffe le ſteſſe ragioni, che poi Parmeni de
più fteſe, ed affottiglid? Paſſa Parmenide ad eſcluder dall' uno le relazioni
dell'ente che appartengono alla qualicà, di cui le prime ſono l'identità e la
diverſità. Non premette Parmenide alcuna definizione dello ſteſſo, e del
diverſo; come fece del tutto; dai Pittagorici (a ) impard, al dir del Patrizio,
che l'identità, e la diverſità non devono conſiderar fi come paſſioni dell'
ente, ma come generi ſecondarj, i di cui primi ſono il moco e la quiere.
Ariſtotele all'incontro riduce l' identità a una certa unità, e dichiara che
ella come la diverſità appartiene alla ſuſtanza, poichè fteſse ſono quelle coſe
che con vengono, o nella materia, o nella ſpecie, o nel numero, o nel Tomo II.
k gene (a ) Diſcuſ. Perip. T. 2. p. 207. (74.), genere di cui una è la
ſoſtanza. Platone eſtende l'identità, e di verſità alle qualità, e da lui
impårarono i matematici a dire, che le ragioni o proporzioni, che ſono le
ſteſſe con una ſtella, ſo no le ſteſſe tra loro; e non ſi dice pur tutto giorno
lo lteſto grado di calore, di lume ec. e. parimente ragioni diverſe, di verſo
grado di calore, di lume ec. Dunque non alla ſola fo ftanza, ma alla quantità,
alla qualità, ed agli altri predicamen ti apparciene lo ſtello, e il diverſo.
Inliftendo il Wolfio su le nozioni ſcolaſtiche, dà il criterio per diſtinguere
lo ſteſſo dal diverſo. Quelle coſe, dice egli, fou no le stelle che ſi poſſono
ſoftituire. ſcambievolmente ſalvo qua lunque predicato, che loro aſſolutamente,
ſotto qualche con dizione convenga; ſicchè fatta la fortituzione, la coſa reſta
ta le, come ſe non foſſe ſtata ſoftituita. Se in una bilancia, in cui ſang
equilibrati due peſi, in cambio di un peſo, d' una certa grandezza, io ne
ſoſtituiſco un alıro, in modo che l'equilibrio Loro non lia tolto, queſti due
peſi, in quanto peſi, nulla diſtin guendoli: ſi chiamano gli ſteſſi. Se nel
peſo che è prima nella bilancia, vi foſſe una certa figura, ed un certo colore,
eun cer to grado di calore, e di freddo, ed anche un certo odore, e tutto ciò
appuntino ſi ritrovalle nel peſo che ſi ſoſtituiſce, que fti due peſi non
diſtinguendoſi, e nel peſo, e nell' altre qualità li chiamano gli fteſi; Lo
ſteffo in numero è ciò che ſi afferma di ſe ſteſſo, o cui ripugna d'efiftere
due volte; nel dirſi, queſto triangolo è que ſto triangoló, ' ſi predica lo
ſteſſo triangolo di ſe ſteſſo, onde convenendo la ſtella eliſtenza al ſoggetto,
e al predicato, egli è manifeſto, che il triangolo in quanto è nell' uno, e nell'
altro non ha doppia eſiſtenza, mala ſteſſa, I diverſi poi ſono quelli, che
ſcambievolinente non poſſono ſoſtituirfi, falvo ogni predicato che all' uno, o
all' altro aſſo lacamente o condizionatamente convenga. Così nel caſo della
ſoſtituzione de' peſi della bilancia, ſe un peſo nel ſoſtituirſi all' altro
cangia d'equilibrio, il pelo ſofticuito è diverſo dal peſo, di cui preſe la
vece; egli è diverlo in ragion di peſo, benchè per altro poteſſe eller lo
ſteſſo nella grandezza, nella figura nel calore, ed altre qualità. Poſſono
dunque le coſe eſſer le ftel ſe in un predicato, e diverfe negli altri; quindi
ſi può diſtin guer lo ſteſſo, e il diverlo in affoluto, e in relativo; ſono aſ
loluti, ſe le coſe convengono in tutti i predicati, o diſconven gono falva però
la loro eliſtenza; ſono relativi le convengono in alcuni predicati, ma
diſconvengono in altri. E'cid neceſſa rio di ben avvertire, perchè in queſto
Dialogo fi prende lo ſteſ 1 1 ſo, 1 (75 ) fo, e. il diverſo in queſti due
fenfi. Qul Parmenide perd pren de aſtrattamente la coſa, perchè a lui baſta,
che l'identità, e la diverficà fiano affezioni, o generi delle coſe non preſe
in sé, ma relativamente all'altre, baſtando queſta fola relazione per eſclu
derle dall' uno; quindi può facilmente dimoſtrarſi, che l'uno non è, nè a se,
nd ad altrui lo ſteſſo, perchè nel ſuo concerto aſtrat tiffimo efclude ogni
comparazione; ma Parmenide in alcro modo lo dimoſtra, rappreſentandoſi alla
mente per via d'una nozione immaginaria, che l' uno prima è uno, e poi per
forza della com parazione egli è molti. Ciò ſi rende ſenſibile col diſegnar
l'uno col ſimbolo aritmetico I, e poi aggiongendovi A, o qualche alera lettera,
onde egli fia prima i, indi 1 + A. S. 78 L'uno non è lo ſteſſo, nè diverfo a sè,
nè ad altri. Se l'uno foſſe da fé ſteffo diverfo, ſoſtituendoſi l'uno per l'uno
dove prima della ſoſtituzione fi concepiva i, dopo della foftitu zione si
concepirebbe 1 + A, dunque non più i contro l'ipoteſi. Se fia lo ſteſſo ad
altrui egli farà quello, cioè 1 + A non cið che è, od uno, il che di nuovo è
contro l'ipoteſi.. 19. L'uno non è diverſo, nè da altrui, ne da ſe ſteſſo.
L'uno convenendo con tutte le coſe, perchè d'ogni coſa ſi dice, uno non è
diverſo da effe, che in virtù di qualche predicato; dun que in quanto non è più
uno; dunque non può eſſer diverſo dall' altre cofe. Non è la ſteſſa la natura
dell' uno, e dello ſteſfo, perchè quando una coſa li fa la ſteſſa ad aleuna non
ſi fa uno; il colore di A per efempio ſia lo ſteſſo, che il colore di B, non
perciò mai A è B, perchè le due coſe colorite comparandoſi, benchè con vengano
nel colore, e in queſto fieno uno, non perd convengono nell ' çliſtenza, Se gli
Itelli non ſi conofcono, che per la Toſti tuzione, gli ftelli convengono bene
ne'predicati; ma ſono fem pre due. Dunque quando una coſa ſi fa la ſteſſa con
l'altra, di due non ſi få uno, ſe non inquanto ſi concepiſce, che con vengono,
o nella quantità, o nella qualità ec. ma non perchè convengono non ſono due;
dunque o l' uno paragonato all' uno ſi fanno due, e cosi l'uno non è uno, o
reſtando uno non k 2 ſi può (70 ) la pudfar ſoſtituzione. Dunque non pud dirſi,
che l' uno fia lo ſteſſo a ſe ſteſſo. 20. Parmenide paſſa a comparar l'uno coi
fimili, e diffimili. Aris ftorele dice, che i ſimili ſono quelli che patiſcono
lo ſteſſo, ei diffimili quei che pariſcono il diverſo; de' primi una è la
qualità, dei ſecondi è diverſa la qualità,onde egli ripone i ſimili, e dilli
mili ſotto l'identità, e diverſità, il che imparò da Platone nel Filebo (a ) e
più facilmente dal Parmenide, ove Platone defini ſce il ſimile, per ciò cui
adiviene patir lo tego, il diffimile, ciò cui adiviene patir il diverſo.
Conſidera quì Parmenide le.qualità, come attributi o modi che ſi ricevano nel
ſoggetto, il quale nel riceverle in cerca guiſa paciſce; ſono queſte nozioni
immaginarie, come quella della ſoſtanza. Su queſte orme Parmenidee, il Wol fio
definiſce i fimili quelli, in cui le ſteſſe ſono le coſe, per le qua li
doverebbono diſcernerſi, onde ſecondo lui, la fimiglianza è l' identità di
quelle coſe per cui dovrebbono tra loro diftinguerli. Se in due volti per
eſempio io ritrovo nelle parti gli ſteſſi linea menti, ne' lineamenti gli
ſteſſi gradi de' colori ec. in fomma ſe io ritrovo, che le ftelle fieno tutte
quelle qualità, per cui dovereb bono diſtinguerſi, i due volti ſono ſimili;
diffimili all'incontro ſono quei volti, in cui diverſe ſi ricrovano le coſe per
cui tra lo ro fi diſtinguono, che vuol dire i lineamenti delle parti, le figu
la collocazione, le grandezze. Il Wolfio fi fece ſtrada con que ſta definizione
a definir i ſimili matematici, ben oſſervando, che le loro proporzioni, benchè
abbiano per fondamento ilquanto, fi riducono al quale. re, S. 21. L' uno non è
fimile nè diffimile ad alcuno, o a se, o ad altrui. Simile a quello cui
adivienelo feſto (. 20. ) ma l' uno eſclu de lo ſteſſo (S. 18. ) Dunque efclude
il ſimile. L’uno ſe riceve alcuna coſa fuor di quello che è l' eſſer uno, pa
tiſce d'eſſer più l'uno, perchè egli è l'uno, ed inſieme la coſa che pariſce,
onde almeno egli è due o molti; dunque non è più uno; dunque ſe l’uno non
paciſce d'effer lo ſteſſo, o loco, o con altri, non può eſſer a ſe ſteſſo, o ad
alcri ſimile, (a ) Patriz. Diſcuſ. perip. p.202. Il (77 ) Il dillimile è quel
che pariſce diverſità (5. 20. ) ma l'uno non può parire diverſità, dunque non è,
nè diverſo da lui, nèda altre coſe, altrimenti non ſarebbe più uno; dunque
l'uno non è diſli mile, nè a ſe ſteſſo, nè ad altrui. 1 l. 22 Concluſo che ha
Parmenide non convenir all'uno, nè l'iden: tità, nè la diverſità, nè la
ſimiglianza, nè la diffimiglianza, paſ fa a ricercare ſe gli convenga l'eguale
o l'ineguale, due pro prietà delle grandezze comparate P une all' altre;
l'eguale im murabilmente ſta nel mezzo, da cui l' ineguale allontanandoſi per
ecceſſo ſi chiama maggiore, e per difetto minore. L'egua le paragonato
all'eguale ha le ſteſſe miſure, paragonato al mag giore ha meno miſure, e ne ha
più paragonato al minore. Ra gionando Parmenide con Socrate ad bominem, fi
ferve del ter mine di participare, che non è allegorico, ove ſi tratta di par
ti. Offervo che non miſurandoli, ſecondo Platone, che con l'uni tà, e col
numero, è manifeſto, che la miſura è ſecondo lui quan tità; pur gli attribuiſce
lo ſteſso, e il diverſo. g. 23. L'uno non è, nè eguale, nè maggiore, nè minore.
Non participando, nè dello ſteſso, nè del diverſo, non parte cipa mai, o le
ſteſse, o le diverſe miſure, in conſeguenza non è nè eguale, nè maggiore, nè
minore. 6. 24. Come ſi miſurano le grandezze permanenti, così ancora ſi mi
ſurano le ſucceſſive, le quali paragonare l'une all' altre, compete loro lo
ſteſso e il diverſo, cioè il più, e il meno. Si dice che due Uomini hanno la
ſteſsa età, quando è miſurata per lo ſteſso nu mero di rivoluzioni ſolari, e
che hanno maggiore o minor età le ella ſia miſurata per maggiori o minori
rivoluzioni ſolari. L'antichità, la vetuftà, la novità ſono relazioni degli
enti ſuc ceflivi per rapporto alla loro eſiſtenza fucceffiva; antico ſi dice
quello che da lungo intervallo di tempo e prima d'un altro; nuo vo quel che ora
è, e non fu che già poco tempo prima d'un al tro; il giovane, il vecchio, ſono
propriamente le differenze dell' età degli Uomini, mas'attribuiſcono per
mecafora a curce le coſe. 9.25. (78 ) f. 25. L'uno non è più vecchio, più
giovane di ſe ſteſso, o dell' altre coſe. L ' uno non pud participare, oo delle
ſteſse,, o di maggiori o minori miſure degli enti ſucceflivi, perchè non può
partici pare dello ſteſso, e del diverſo; ma quel ch'è più vecchio, partecipa
di maggiori miſure, quel che è più giovine di minori, dunque ec. g. 26. Per ben
intendere come uno nel farli più vecchio di fe fteſso o d'un altro ſi fa più
giovane, mi è neceſsario trasferire alcu ne nozioni della ſeconda ipoteſi, ed
aritmeticamente ſvilupparle. g. 27 6 3 5 4 Se il rapporto del maggiore al
minore crefca per l'aggiun ta agli antecedenti, e a' conſeguenti d'una
grandezza eguale, il rapporto ſempre decreſce. Sieno i numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6,
7, i quali ſucceſſivamen te creſcono per l'aggiunta dell'unità, èmanifeſto che (a
) > 4 $ Si prendano i quozienti o valori delle ragioni. Il valore della
ragione di = it; il valore di = ito il valore di = i +. Or tal eſsendo la
ragione qual è il fuo valore ſe I +1/2 > it it ec. come è mani 3 feſto fard
> 5 ec. Or rappreſenti A C l' età d'un 3 fanciullo di 3 anni, e B D l'età
d'un | fanciullo di due anni, s' aggiunga alla А С F prima età un anno, ciod ad
" A C. s'ag giunga CF, e alla ſeconda età B D SA D G. aggiunga un altro
anno o DG. Onde s' averà la ragione di }; li vada aggiungendo ſucceſſivamente
alle due età un'anno, ed indi un'anno, e li averanno le ragio ni di e di. Egli
è manifeſto, che il fanciullo di tre anni è più vecchio di quello di due, ma
nel creſcere all'uno, e all' al > 3 4 Ā 1 B tro (a ) Il ſegno è quello del
maggiore, Il ſegno di < del minore. Il ſegno è quello dell'eguale. (79 ) tro
un' anno la ragione che ne riſulta di è minore dell'altra; molto minore è
quella di, e molto più minore quella di onde ſebben il primo fanciullo ſi
faccia ſempre più vecchio dell'altro, contuttociò per l'accreſcimento
dell'egual quantità ſi fa più gio vane relativamente, perché dove nella prima
ragione la differen za era nella ſeconda è minore di 1, e quindi, ſempre mi
nore. Egli è vero dunque, che un fanciullo nel farli' più vecchio d'un altro li
fa ancora più giovane. Se non ſi compari l'età di due fanciulli, ma ſi
conſideri folo l' erà di uno, che ſempre riſpetto a ſe ſteſso creſce di un'anno,
egli è manifeſto, che per queſto eguale accreſcimento, nel decreſcer ſempre le
ragioni degli anni cra loro comparati, lo ſteſso fanciul lo nel farſi più
vecchio di ſe ſtefso, fi fa ancora più giovane. Si vede quindi, che nel farſi
il più vecchio dal più giovane, fi fa cid dal diverſo, e che non è diverſo,
ma'ſi fa. Corol. Lo era, lo efser ſtato, il li faceva, ſignificano i modi del
tempo paſsato; il ſi farà, il ſarà, e ſarà per farſi, i modi del fucuro o
dell'inanzi; l'eſsere, il farſi, i modi del preſente. f. 28. L'uno non è in
cempo. Se l'uno fofse in tempo participerebbe delle miſure del tempo; dunque or
ſarebbe più giovane, or più vecchio, ma queſto non pud eſsere, come s'è
dimoſtrato (9. 25. Dunque ec, IN ALTRO MODO. Quel che è in tempo nel farſi più
vecchio, ſi fa più giovane di ſe ſteſso, (§. 27.) ma l'uno non può farſi più
vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſso, perchè non può farſi, nè una cola, nè
l'altra (9.25. ) Dunque non è in tempo. Il più giovane che ſi fa dal più vecchio
è diverſo da lui, e non è ma ſi fa, ma l'uno non può ricever il diverſo (§. 18.
) Dunque non può farli dal più vecchio il più giovane; dunque non è in tempo.
Il più giovane non ſi fa dal più vecchio, nè in più lungo tem po, nè in più
breve di fe fteſso, ma ſempre nell'egual tempo con le ſteſso, o fia, o ſia
ſtato, o ſia per dover eſsere; (§. 27. ) mą l'uno non è ſuſcettibile
dell'eguale (§. 23. ) Dunque nè meno dell' egual tempo; dunque non avendo le
paſſioni del tempo non è in cempo.. 29. (80 ) S. 29. L'uno non partecipa, nè
del preſente, ' nè del futuro nè del paſſato. L'uno non eſſendo in tempo non
può partecipare del tem po, ma le paſſioni del tempo ſono, il preſente, il
paſſato, il futuro. ($. 27. ) Dunque non le partecipa. Corol. Se l'uno non è
partecipe di niun tempo, non fu mai, nè ſi faceva, nè era, nè ora è fatto, nè
fi fa, nè farà. 8. 30. Ogni ente, o ciò che è partecipe di eſſenza, è, ſecondo
Plato ne, o nel tempo preſente, o ſarà nel futuro, o fu nel paſſato. Nel Timeo
egli dice, che Dio per far il tempo fluente nel numero, fece un'immagine
dell'eternità. Dunque l'eternità fiſſa in ſe ſteſſa non contiene, che il
preſente, e ciò pur dicono i Teolo gi nel diffinirla con Boezio, una poſſeſſione
tutta inſieme di una vita interminabile. Negando dunque Parmenide, che il pre
ſente competa all' uno, gli nega l'eternità, onde è egli evidente che non parla
di Dio, ma ſolo d'un ente di ragione, dal quale per l' astrazion della mente
eſclude tutto ciò che involve rela zione a qualche coſa, ed anche a lui ſteſo.
Dall' altra parte, qui Parmenide non eſclude dall'uno, ſe non cid che appartie
ne per lo più alle coſe corporee e viſibili, il tutto, le parti, il luogo,
l'eguale, il maggiore, il minore, la generazione, la traslazione, le differenze
del tempo; e ciò che dice dello ſteſ. fo, e del diverſo, del fimile, e del
diflimile, che pur conven gono alle coſe incorporee, lo ricava da ciò che ha
negato ne' quanti. 1. 31. L'uno non è, o non ha eſſenza. L'uno non partecipa
del preſente, del paſſato, del futuro (9.29. ) ma ciò che ha effenza partecipa
dell'uno, o dell'altro ($. 30. ) Dunque l'uno non ha eflenza. Annot. Dall'uno
conſiderato preciſamente come uno, cioè a dire oppoſto amolti, ſi debbe
eſcludere, oltre l'eſſenza attuale, an cor la poſſibile, perchè la poſſibilità
come fonte, e principio del, la (81 ) la realità porta ſeco qualche relazione a
cid che eſiſte, é dall' uno ogni relazione deve eſcluderſi.; molto più le
relazioni dell' uno all'ente, di ragione che chiamali intellettuale qual è il
Lo-. gico, il metafiſico, il matematico, e l'altre relazioni ancora ché aver
poteſſe all'ente immaginario ancor chimerico.. §. 32. tra coſa Primafi
concepiſce la, non ripugnanza dei predicati delle co ſe, ed è l'eſſenza, e
queſta non ſi dice d'altre coſe, o d'al tre eſſenze, ma bensì o gli attributi,
i modi, e le relazioni fi dicono deſsa; cal è la definizione logica, che
Ariſtotele diede della ſoſtanza, chiamandola ciò che non ſi predica d'al ma che
tutte le coſe ſi predicano d'eſsa. In que ſto ſenſo l'eſsenza nel ſuo concetto
aſtratto, non differiſce dal la foſtanza, che in quanto queſta ſi riferiſce a
ſe ſteſſa, ed agli aleri de' quali è ſoftegno, per il che ſi dice, che ella non
ha contrario, e non è capace di più, e di meno. Se l' uno non può predicarſi
dell'uno, o di le ſteſſo, per non radoppiarlo o farne due o molti, egli è
manifeſto, che non è ſoſtanza to più ſe fi conſidera col Wolfio, che nella nozione
della fo ſtanza, v'è qualche coſa d'immaginario, perchè ella fi rappre ſenca
alla fantaſią, come un valo od altra coſa, che in sè ri. ceve gli accidenti. $.
33 L'uno non è ſoſtanza. L'uno non ha eſſenza. (S. 31. ) Dunque non ha ſoſtanza
($. 32. ) ſ. 34. La ragione è propriamente quell'atto della mente, che da una
coſa n'inferiſce un' alera, od è ancora ſe ſi vuole la con neſſione delle
verità univerſali; la ſcienza è la cognizione cer ta, ed evidente delle coſe,
ed è tutta opera della ragione che deduce una coſa da un' altra. Nell'
attribuire una coſa ad un altra, ſe li ha qualche cimore, che ad efla ſi poſſa
attribuire l'op poſto, ſi ha della coſa opinione. Col ſenſo poi non ſi percepi
Icono, che le coſe ſingolari, o determinate in ogni parte, e quindi compoſte di
molti. Da queſte definizioni e manifeſto chenegli oggetti della ragione, della
ſcienza, dell'opinione, del Tom. II. I fen ((82 ). fénfo s } includono moki, çd
- in oltre che ogni coſa, che.0.4 ſénte, o su cui di ragiona fcientificamente,
od opinabilmente, ha un' eſſenza attuale o poflibile; falfa o vera. 1 $. 356
Dell' uno non li ha ragione, ſcienza, opinione, ſenfo. Quefte coſe includono
molti, e dipendono dall'ipoteſid' un eſſenza (§. 34. ) ma l' uno non ha eſenza (S.
31. ) e non in olude molti (.9.,2. ) Dunque ec, g. 36 Non ſi dà nome ſe non
alle coſe, della cui eſſenza, o per ragione, o per opinione, o per ſcienza, o
per ſenſo ſi ha un ' idea o chiara, od ofcura, o diſtinta, o, confula, o miſta
di que Ite differenze. S. 37... L'uno non ha nome. L'uno' non ha effetiza:(:
34:) Dunque l'uno non ha nome. 1 §. 38. Ragruppando in poco ciò che ſin ora ſi
è detto, ſi può for mare tal fillogismo. Dal concetto aftrattiflimo dell' uno
ſi de vono, eſcluder i molti di qualunque genere effi fieno; ma cid che
appatriene alla quantità, alla qualità; alla refazione ec? vi s'includono
imolti; dunque devono queſti eſcluderſi dal.concet to aſtrattilfino dell'uno,.
] Se fi diceffe, che così concludendo ſi confonde l'uno col nul la, manifeſto è
l'inganno, poichè la definizione del nulla è, che egli non abbia nozione alcuna
o poſitiva, o negativa, ciò che elclude dal nulla ogni realtà. Quando'io dico
all'incontro, l'uno non é molti, non tolgo a lui ogni realtà, benchè
eſplicitámen te io non vi rifletta. Io ſto più immobilmente che poſſo affil ſo
su l'uno, in quanto s’oppone a molti, e in queſta conſide razione preſcindo più
che poſſo dal conſiderar l' uno, o per rap porto all'ente, o per rapporto al
mio penſiero; noi poſſiamo, come accennai, più ſentire, che eſprimere queſte
preciſionimen tali, e momentanoe, ma 'non laſciamo di fentirte, e le fencia ·mo
(83 ) mo ſe poffiamo eſprimerle in qualche modo, e farle' intendered agli altri;
nè per altro la fcola Eleacica; ed indi Placone le pro poſe, che per addeſtrar
la mente ad inveſtigar l'idee delle coſe. Era necelfario fciegliere per eſempio
quell' idea, in cui la pre ciſione arriva all'ultimo grado, ove pofla mai
giungere la men te umana. Non ſi conoſce mai bene la natura', ' ed'i precetti
della arte, che l'imita, fe non ned maffimo. Io dimando al Lettore; che legge
attualmente il Parmenide di Platone, e lo confronta col mio comentario, fè
altro faccio in effo, che ſviluppare il fenſo.ovvio det tefto: Abbia pur Pro
clo, e gli altri Placonici, e Gentili, e Criſtiani confiderato queſto Dialogo,
non come ontologico, ma come Teologico, io ril pettando, e la dottrina, e
l'autorità loro', dirò che la mia Spiegazione ontologica non impediſce, che
degli intelletti più fublimi del mio, teologicamente non l'inalzino a coſe
maggio ri, come fece il Cardinal Befarione, applicando a queſto Dia logo la
dotrrina del preceſo S. Dionigi Areopagita. Si può ri leggere avendo preſente
tútra l'intiera ſeſſione, quanto ivi diſ fi appoggiandomi alla dottrina di S.
Tommaſo: Dio'è un en te fingolariſfimo, e nell' applicarvi quel che conviene
all' en te di ragione; biſogna ftar attenti che non ſi confonda l' uno ton
l'altro; la merafíſica degli antichi è la ſteffa che la me tafifica dei
moderni; mia nel riferir la prima ' alle coſe, queſte includevano Dio, che gli
antichi non ſeparavano dalla mate ria, che per preciſionedi mente, là dove la
ſeconda conſiderando fe coſe non ha a Dio, che un'analogia molco lontana,
perchè fi diſtingue eſenzialmente, é realmente dalle ſteſſe. SEZIONE TERZA. Se
l'uno è, quali coſe adivengono intorno ad eſſo. I. I. Nom On ſi ricerca ſe
faecia meſtieri, che ſucceda- un cert' uno, ma ſe vi ſia l'uno; o pure
ſoſtituendo la nozione imma ginaria ſe l'uno partecipi l'eſfenza. Dall'ipoteſi
così propoſta ne fiegue', che' l'uno non è la pro: pria 'eflenza, o che l'
effenzà, e l' uno non ſono gli ſteſi con: cerci z chi dice elfenza, dice
preciſamente la: non ripugnanza dei predicati, e chi dice uno, dice 'non molti.;
Nel cratcat queſta: ſuppoſizionë, Platone comincia a frami I 2 fchia (84 )
ſchiare all' aſtrazioni le nozioni immaginarie più che di ſopra Queſto fa
ſovente l'oſcurità del teſto, perchè per intenderlo ci sforziamo toſto a
concepire ciò, che non è che un' imaginazione ed imaginazione tallora falſa, da
cui li deduce una contraddizio ne, nèſempre però vera, ma apparente, il che
raddoppia l'ab baglio, ſe non vi s'attende; manifeſteranno gli eſempi ciò che
io dico, in tanto mi ſia lecito di contraſegnare con due ſimboli diverſi, A, e
B, i due concettidell'ente, e dell'uno. Nel farne il compleſſo A + B io
rappreſento un tutto che ha due parti, che io tra loro ſeparo con la mente, per
ragionarne più diſtintamente fi 2. Se l'uno è, ogni parte di queſto tutto (uno
è:) può dividerſi in infinite particelle. Si prenda la particella uno, e ſi
concepiſca come ſeparata per un momento dall'altra particella ence, poichè per
la fuppoſizio ne l'uno è, egli è manifeſto, che conſta di due particelle, uno
ed ente. Di queſto nuovo compleffo ſi prenda la particella uno, e queſta per la
ſteſſa ragione ſi dividerà in due altre, ente ed uno, e così all'infinito. Or
ſi prenda l'altra particella ente, e poiché ogni ente è uno, ſi dividerà queſta
particella in due altre, le quali di nuovo fi divideranno, e così all'infinito;
dunque ogni particel. la del cutto uno è, ovvero è l'uno, ſi divide in infinite
particel le all' infinito. Così può ſenſibilmente rappreſentarſi. Ente uno А +
B 1 Ente uno uno ente 2 a + 2b 2A + 2B ente uno uno | ente 3A ente, uno uno |
ente 46 4A 4B 3. a 36 3B 1 uno, Come A + B rappreſenta il primo compleſſo
immaginario della e dell'ente così 2a + 2b rappreſenta il ſecondo com pleſſo
immaginario dell'uno, e dell'ence dedotto dall'ente, o da A, e parimenti 2A +
2B ſignifica il ſecondo compleſſo imma ginario dell'uno, e dell'ente dedotto da
B. ANNOT. Qui Platone fuppone darli reciprocazione tra le due pror (85 )
propoſizioni l'uno è, è l'uno, nella prima delle quali l' uno è il loggetro,
cliente è l'attributo, e nella ſeconda l'ente è il ſoggetto, e uno l'attributo.
Perchè legitimamente ſia la reciprocazione del le propoſizioni, biſogna che il
ſoggetto ſia tanto ampio, quanto l'attributo, onde può reciprocarſi la
propoſizione. Il triangolo è una figura di tre lati; nell'altra ogni figura di
tre lati è un trians golo, ma non già ſi reciproca la propoſizione, ogni
ternario è nu. mero, perchè non ogni numero è ternario. Il non aver avvertita
la legge della reciprocazione fece cader in molti parallogismi tallora i
Geometri. Corol. Poichè ogni ente è uno, l'uno ſi moltiplicherà come l'ente,
onde potrà dirſi, che l'uno è infinito, o che l'uno è mol ti. Queſta è la prima
contraddizione di queſt' ipoteſi, ma è con traddizione immaginaria od apparente,
perchè l'uno per sè non è molti, ma è molti per accidente, cioè perchè gli
accade di mol tiplicarſi, ſecondo gli enti che lo partecipano, onde non predi
candoſi dell'uno nel tempo ſteſſo, e ſecondo lo ſteſſo, gli oppoſti, non ha in
sè vera contraddizione. g. 3. Platone s'inoltra con le nozioni immaginarie.
Conſiderando l? uno, in quanto partecipe di eſsenza, lo prende ſecondo ſe
ſteſso con l'intelligenza, ſpartato da quello di cui diciamo che ſia par tecipe,
cioè dell'eſsenza. Ciò vuol dire, che dell'ente, e dell'uno Platone fi fa quei
due idoli caratterizzati per A, e per B. Nel dirli che li prende l'uno
coll'intelligenza ſpar; tato dall'ente, s'allude manifeſtamente all'aſtrazioni
della mente. $. 4. 1 L'eſsenza o l'ente, e l'uno ſono diverfi. Alcro è
l'eſsenza, ed altro l'uno (: 32. Sez. 2.) Dunque uno in quanto uno è
dall'eſsenza diverſo, e l'eſsenza in quanto eſsenza è diverſa dall'ano; dunque
l'uno, e l'eſsenza ſono diverſi; Co sì può illuſtrarſi tale ragionamento.
L'ente o l'eſsenza in quanto eſsenza include la non ripugnan za dei predicati
coſtitutivi; l'uno in quanto uno include l'oppo Gizione ai molti, ma queſti due
concetti tra loro non convengo no; dunque ſono diverfi. 8. 5. (86 ) $. s.
L'eſsenza, l'uno, e il diverſo fanno tre concetti o tre coſe trx loro diverſe.
S'è già dirnoftrato, che l'uno, el ente non termi nando lo ſteſso concetto ſono
diverſi tra loro, ma il diverſo non includendo nel ſuo concetto, che la non
convenienza, fa un concet to diverſo, ed in conſeguenza una coſa diverſa dall'
altre due; dunque l'eſsenza, l'uno, il diverſo fanno tre coſe diverſe.. 6. Si
rappreſenti l'uno per A, l'enre per B, e il diverſo per C ne riſultano quindi.
Le combi- FA B7 In ogni combi-7 Tre poi eſsendo le combina nazioni di nazione
vie zioni v'è ancora A, B,CAC uno in due Erre volte uno? in ogni com uno in due
tre volte due E binazione В С! uno in due tre volte tre Abbiamo dunque dedotto
da A, B, C, o dall'ente, dall' uno e dal diverſo il 2.primo pari, il ' tre
primo diſpari, dae volte 3 parimenti impari, 3 volce 3 imparimenti: impari.
Sipuò an cora dedurre due volte due parimenti pari', e queſte ſono tutte le
ſpecie dei numeri. Combinandoſi il 2 il 3 due volte, tre volte e fin quattro
volte, ma non altre, ſi compongono tutti i numeri: fino al dieci. It 3* 2 + 2 =
4 2 + 3 2 + 6 = 3 ti 3 2 + 2 + 37 2 + 1 + 2 + 2 = 3 + 3 + 2 3 + 3 + = te: 2 + 2
+ 2 +19 1 + 2 + 2 + + 3 = I + 2 + 3 + 4 = 10 II 10 è fatto dall'ı, e dal o, e
ſignifica ', che il primo articolo dei numeri termina alla prima decina; fe
ſucceſſivamente alla de cina ſi aggiunge l'i, il 2, il 3. ec. ſi arriva alla
ſeconda decina, e collo ftelso metodo alla terza, alla quarta ec: fino al 100,
che è la decima decina da cui ſi va fino a 1000, o 10 volte 1oo ec. I Pita (87
) I Pittagorici chiamavanol yno il finito, come quello che li mitava l'infinito
o l'indefinito ad una tal ſpecie o forma: dot trina, dice nel Eilebo Platone,
la quale diſcende dagli Dei; queſta è, the tutte le coſe tengono in loro fteſſe
il termine, o l'infinito innato; o piuctoſto l ' indefinito. Lo rappreſentavano
nella materia i Pittagorici, e lo ſimboleggiavano nel 2, o nel binario, poichè
ogni coſa ſteſa è divit bile in due e ognuna delle parti in altre due,; e così
all'infinito. Quando a queſto infinito s'aggiungea luna, che vuol dir la forza
o la forma ſe ne faceva il compoſto che era l'altro principio, di cui par la
Platone; queſto compoſto dețerminato a una ſpecie dalla for ma componeva un
tutto, in cui vera principio, mezzo, e fi në. Lo diffegnavano i Pictagorici per
il 3, e lo chiamavano numero perfecto, medio, e proporzione; oſſervò S.
Agoſtino che numerando fino al 3,, € rapportando prima il 2 all'1, ed indi al
tre nel comporſi la proporzione continua, aritmetica fi forma per la
replicazione del 2 il 4, numero che immediata mente luccede al 3, ciò che non
ſi ha negli altri numeri, per chè cominciando la proporzione aritmetica dal.2
chi replica il 3 non fa il numero che immediatamente lo ſegue od il 5 ma il 6;
nel continuare la proporzione con queſto metodo i numeri riſultanti ſempre più
ſe n'allontanano. S. Agoſtino per ciò offerva co'.Pittagorici, che la
perfezione dei numeri è ne quattro primi, in cui gli eftremi ſono intimamente
uniti ai mezzi, e i mezzi agli eſtremi. Quindi le più perfecte conſo nanze
muſicali, ſono fatte dei primi quattro numeri 2 3-4, 1 ' 2'3? ſ. 7. Se l'uno è,
egli è ogni numero. Nella combinazione dell'uno, dell'ente, e del diverſo fi de
ducono tutti i numeri (9. 6.), Dunque nell' uno, in quanto è, vi ſono tutti i
numeri,; Carol. Il numero eſſendo molti nell' uno, in quanto l'uno è., egli
contiene moltitudine, e perchè i numeri fono infiniti nell uno che è, vi farà
una moltitudine infinita. COROL. 2. Il numero in moltitudine infinita, eſſendo
inclu ſo nell'uno che è, farà egli partecipe d'eſſenza. Si prenda la ſerie
naturale de numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 ec. fino al oo unità eterogenea alla
prima, e da cui fi comincia l'alcra ferie 200, 30, 40, fino 200 = 60 altra
unità eterogenea, da cui comin (88 ). cominciali, un' altra ſerie 2 co ',
300'ec. ſino a o, e cosi all' infinito. Se di queſte tre ſerie ſe ne fa una
ſola ſi ha 1.2.3.4.5 ec. co '... 00?... oo..., fino ad in cui ſi potrebbe
cominciar di nuovo la numerazione. Cominciando da uno, li può con le frazioni
continuar la ſe. rie decreſcente con lo ſteſſo ordine che l'altra, onde 1 I 1
ec. • • ec. fino 3 4 5 I 1 I I I wec. 4 Combinando la ſerie dei finiti intieri,
rotti, e degli infiniti matematici, e immaginarj, fi ha tutta la ſerie. ec.
1.2.3.4 ec. co oo oo ' ec. 0° 5 4 3 2 In queſte eſpreſſioni non v'è errore,
purchè non s' attenda, che alla proporzione delle quantità, nè ſi realizzino i
ſimboli. Ma non biſogna credere, che la numerazione ſia terminata, po tendoſi
concepire, e tra gli intieri, e tra rotti, e tra gli infi. niti dei mezzi
proporzionali, i quali ſono, come ben prova il Ba rovio, veri numeri (ſe ben
noi non poſſiamo eſprimerli ) perchè ſimboli di vere quantità, come i numeri,
ointieri, orotti, e gli infinitamente grandi, egli infinitamente piccioli.
Platone, al dir d'Ariſtotele, poſe i due infiniti (a ) magnum & parvum, e
queſti, come ben ancora lo riconobbe il P. Grandi, ſono gli infinita mente
grandi, e gli infinitamente piccioli dei moderni Geome tri; infiniti replico
immaginarj, de' quali con tanta chiarezza trattò il Wolfio nell'Ontologia,
ſgombrando tutte le difficoltà' che v'oppoſero coloro, che non ben inteſero
queſte due ſpecie d'infiniti Platonici, caratterizzati da profondi Geometri con
tan to utile della Geomecria, della Mecanica, ed altre parti delle Matematiche.
Queſti due infiniti di Platone non ſono diverſi dai grandiflimi, e menomiſlimi,
di cui qui parla. 8. 8. In quanti luoghi è l' ente, in tanti è l'uno. Se l' uno
è egli accompagna ſempre l'ente, ma non v'è ente, che non ſia in qual che luogo
(9.12. Sez, 2. ) Dunque in quanti luoghi è l'ente, in tanti è l'uno. a ) Plato
vero duo infinita magnum & parvum. Arift. 3.Phiſ. c.4. §. 9: (89 ) g. 9. Se
l' uno è, non ſolo ' egli è l'uno, ma un certo uno. Ogni ente ſingolare
partecipa dell'ente, dunque dell'uno; dunque come ogni ente ſingolare è un
certo ente, ogni ente ſingolare è un certo uno. ČOROL. Si compartiſce dunque
l'uno, non ſolo con le coſe in genere, ma con le coſe ſingolari, onde v'è l'uno,
e il tal uno, e a queſto compete, come all'altro, eſfer molti, perchè vi ſono
molti enti ſingolari, e compete loro il luogo degli enti ſingolari. g. 10. Se
l'uno è, egli è un uno che è uno, e cert' uno, e mol ci, e parti, e finito, e
in moltitudine infinito. Egli è uno, e cert'uno, ſe accompagnando gli enti è in
ogni ente, ed in ogni cal ente; egli è tutto ſe ogni ente, in quan to è, egli è
un tutto; egli è párte, ſe ogni parte dell'ente è jina; egli è finito, ſe ogni
tutto ha i ſuoi limiti, e infinito le contiene in sè tutti i numeri. Annot.
Queſte contraddizioni non ſono che apparenti. D. II. Se l'uno è, egli ha
principio, mezzo, e fine. L'uno è finito, e tutto, e parte (S. 10. Sez. 3. )
Dunque ha in sè limiti, perchè ogni una di queſte coſe ne ha; dunque ha
principio, mezzo, e fine. Corol. Dunque l' uno è partecipe di figura retta o
roton da, o d'amendue miſta. ANNOT. Come l'uno, di cui quì parla Parmenide, pud
effer Dio, o qualche idea divina, fe egli è circonſcritto da tutti i luoghi
degli enti, ſe s'individua cogli enti ſingolari, ſe è tutto, parte, finito,
figurato ec. 5 Tom. II. m 6. 12. (20 ) Do? 127 ** Se. l'uno è, egli è in ſe
ſtello, e iş altrui., Ciò che è tutto, comprende tutte le ſue parti; ma l'uno com
prende tutte le ſue parti, dunque l' uno è un tutto; ma il tutto contien ſe
ſteſſo, è l' uno è un turco. Dunque l'uno contiene ſe fteffa. ANNOT. La
propoſizione è identica, e vuol dire: un tutto è. un tutto; o iltutto è nel
tucta; non ſi faccia più attenzione al tutto, mamaall all'uno, e li concluderà,
che l'uno è nell'uno. Si com bini poi l'uno, e il cucco, e ſi concluderà, che
come il cutto è in ſe ſtello, così l'uno è in fe fteflo. Quel che è in ſe
ſteſſo, egli è in ogni ſua parte, ed in tutte le parti, ma il cutto non può
eſſer in niuna parte, perchè il più au conterebbe pel manco, nè meno il tutto
può eſſer in tutte le par ti, perchè ſe in cutie, farebbe ancora tutto in
ciaſcuna, dunque il tutto non è in ſe ſteſſo, ma l'uno è il cutto; dunque non è
in fe fteflo. Ogni coſa è in qualche luogo, perchè ciò chenon è in qualche
kuogo è nulla (S.12. Sez.2.) e quel che è in qualche luogo è in fe felio, o in
altrui, perché non li dà mezzo; mas'è dimoſtrato che ſe è l'uno egli non è in
ſe ſteſſo, dunque è in altrui; ma di ſopra s'era pur dimoſtrato, che egli era
in le ſtello; dunque è in ſe ſteſſo, ed in alcrui. ANNOT. Non v'è quì che
contraddizione apparente, perchè quando ſi dimoſtra, che l'uno è in ſe ſteſſo,
ſi conlidera che l'uno è un tutto le cui parti fon tutte inſieme, quando
all'incontro fi confidera, che l'uno è in altrui, non ſi concepiſce il tutto
con le párti pret inleme, ma come quello che non è in niuna delle ſue parti. S.
13. Se P upo è, egli fta, e ſi muove. Quel che ſta è ſempre in ſe ſteſſo,
perchè da lui non mai & di parte; ' ma l'uno eſſendo nell' uno, non ſi
diparte mai da fe ftef ſo; dunque è ſempre nello ſteſſo; dunque fta. Quel che è
ſempre in altri non è mai nello ſteſſo, e non eſsendo nello ſteſso mai non fta,
e non ſtando ſi move, ma l' uno non è in ſe ſteſso, ma ſempre in altrui; dunque
ſempre fi move. ANNOT. Non è pur queſta, che contraddizione apparente.. 14. (91
) $. 14. 1 e il Una coſa comparata all'altra, o è la ſteſsa, o diverſa, o è par
te di quella coſa conliderata come tutto, od è tutto, conſiderata 1a cofa come
parte. Così dice Platone, e par conſiderar lo ſteſso, e il diverſo
relativamente alle qualità ſolamente, e la parte, cutto relativamente alla
quantità. Se dunque fi dimoſtraſse, che una coſa relativamente a un' altra non
foſse, nè tutto, ne pare ce, nè la Ateſsa, ne ſeguirebbe per il metodo d'
eſcluſione, che ella fofse diyerſa. g. 15. Se l'uno è, egli è a ſe ſteſso lo
ſteſso, ed a ſe ſteſso diverſo. Se egli è in le ſteſso, e fta ſempre, egli è a
ſe ſteſso lo ſteſso, ſe egli è in altrui, e ſempre lr move, è da ſe ſteſso
diverſo. L'uno non è parte di ſe ſteſso, nè tutto rifpetto a ſe ſteſso, nè l'uno
è diverſo dall'uno; or s'è luppoſto, che una coſa compara ta ad un'altra, fe
d'eſsa non è tutto, nè parce, nè diverſa ſarà la ſteſsa; dunque l'uno ſarà lo
ſteſso con ſeco; ma ſe l'uno è in al trui non è ſempre lo ſteſso a ſe ſteſso;
dunque per l' eſcluſione Platonica ſarà egli da ſe ſteſso diverſo'. §. 16. ne
Per eſpor: l'argomento ſeguente in tutta la ſua forza, convie. ne particamente
illuftrare i principj da cui dipende. Si ſuppo 1. Che l' uno è da sè diverfo,
come da ente nell'ipo teſi, che egli ſia. 2. Che il diverſo e lo ſteſſo,
effendo contra rj, uno non può mai eſser dell' altro. Cost lo ſpiego · Molci
enti potendo efiftere, od eſiſtendo nel tempo ſteſso, lo ſteſso farebbe nel
diverſo, ciò che è impoſſibile, non potendo i con trarj, cioè A, e non A ſtar
inleme. Ben ſi vede che qui parla Platone del diverſo, e dello ſteſso aſsoluto,
e non relati. vo, quale abbiamo fpiegato nel G. 17. Sez. 2. perchè nulla vie ta,
che due coſe non poffino eſser diverſe' nell'eſsenza, nelle quantità, nelle
azioni ec. ed intanto eſiſtere nel tempo ſteſso mi Iura eſtrinfeca delle coſe.
Non è cosi conſiderando il diverſo aſsoluto, o l'idea del diverſo, e
conſiderando lo ſteſso aſſoluto o l'idea dello ſteſso.; l'uno non può mai ſtar
nell'altro, e in conſeguenza la ſteſsa coſa non può mai partecipare nello
ſteſso tempo di queſte due idee contrarie. Allude qui tacitamente Par m 2 meni (92
) menide a ciò che ha già dimoſtrato, parlando della participazio ne dell'idee.
L'argomento ha tanto maggior forza, quando fi conſiderano gli enti ſeparati
dall' uno, poichè ſe foſsero diverfi, per ragion del diverſo participerebbono
dell' idea del diverſo che è Tempre una, dal che deduce Parmenide, che non
poten do eſser diverſi per la participazione dell'uno nell'ipoteſi di Socrate,
non ſono diverſi tra loro. 3. Suppone che le coſe che non ſon uno, non fieno
partecipi dell'uno, perchè non ſarebbono uno, ma uno in certo modo. Quì pur
Parmenide parla dell'idea dell' uno, che participandofi dalle coſe non è più
uno, ma uno con certe circoſtanze, od in certo modo, ma ſe non ſon uno nor
faranno eziandio numero, perchè ogni numero è uno. 4. Le coſe che uno non ſono,
nè aſsolutamente uno, non poſsono eſser parti dell'uno, poichè l' uno non può
eſser parte delle co ſe che non fon uno, nè può eſser tutto, quafi comparato a
par ricella. Parmenide alludetacitamente a ciò che diſse di ſopra, che idea non
pud eſser participata, nè ſecondo la parte, nè ſecon do il tutto, dal che
deduce, che le coſe che non ſon uno ne fono particelle dell' uno, nè ſono all'
uno quaſi a particella. Ciò ſuppoſto così argomenta Parmenide col metodo d'
eſcluſione. g. 17. Se l'uno è, egli è diverſo, e lo ſteſso con altre cofe;
all'uno convien il diverſo, aſsolutamente in quanto diverſo, e non all” altre
coſe, cui non conviene, che relativamente Dun que l'uno è diverſo dall'altre
coſe.; le altre coſe non ſono diper fe dall'uno, nè ſono parci, nè tutto
riſpetto all' uno; dunque fono le Aeſse con l'uno. F. 18. Chi proferiſce lo
ſteſso pome una, e più volte ſenza riferirlo a più coſe, come ſi riferiſce nei
nomi equivoci, ed analoghi, eſprime fempre lo ſteſso concetto; dunque nel
proferire la voce, diverſo; applicandola all'uno, confiderato relativamente
agli altri, e un' altra volta agli altri conſiderati relativamente all'uno,
nell'ado prar lo ſteſso nome s'eſprime lo ſteſso concetto. Quindi dice Par:
menide: quando diciamo eſſer gli altri diverſi dall' uno, e l'uno ef ſer dagli
altri diverſo, non mai introduciamo il diverſo a figuificar altra coſa, che la
natura di cui è proprio nome. $. 19. (93 ) S. 19. s'è gia oſſervato, che fimile
è quel che patiſce lo ſteffo; difts mile quel che patiſce il diverſo (9.
20.Sez. 2.) Se l'uno è, egli è ſimile, e diſſimile a ſe ſteſſo, ed agli al tri.
L'uno è diverſo dagli altri (9. 17. Sez. 3. ) Dunque l'altre coſe ſono diverfe
dall' uno, ma non fono diverſe nè più né meno dall'uno, che l'uno dall' altre
coſe (S. 18. Sez. 3. ) e ſe nè più, nè meno, rimane che egualmente fia uno. In
quanto adiviene alle uno l'effer diverſo daglialtri, e gli altri dall'uno, egli
patiſce la ſteſſo per rapporto agli altri, e gli altri per rapporto a lui; ma
ciò che patiſce lo ſteſſo è fimile, dunque l'uno e limile agli altri, e gli
altri per la ſteſſa ragione fon fimili a lui. Il diverſo è contrario allo
ſteſſo; ma fi dimoſtro, che l'uno agli altri è lo ſteſſo, e diverſo, (S. 17.
Sez. 3. ) ed è contraria paffione effer lo ſteſſo agli altri, ed effer diverſo
dagli altri ma in quanto diverſo parve fimigliante; dunque in quanto lo Steffo
fia diflimigliante, ſecondo la paſſione contraria. E' da notarſi, che l'uno è
ſimile agli altri, in quan to diverſo, e diſſimile in quanto lo ſteſſo. S. 20.
Due coſe che ſi toccano ſono preſenti l'una all ' altra, nè tra effe vi ſi
frammette un terzo, perchè in queſto caſo non più toccherebbono ſe ſteſſe, ma
il terzo frappoſto. Ove due coſe fi toccano, due ſono le coſe, ed uno il
contatto, ove tre li toc chino, tre ſono le coſe, e due i contatti; in ſomma
creſcen do i termini creſcono a proporzione i contatti, ſecondo il nu mero dei
termini meno uno. Si tocchino tra loro due punti matematici, ' poichè nulla fra
loro s'interpone, un punto per ragion del contatto coinciderà con l'altro; fi
facciano toccare da un terzo punto, queſto pu. re coinciderà, e quindi infiniti
punti matematici non fanno che un punto, onde de liegue, che la linea non è
compoſta di punti, o che i punti ſovrapofti gli uni agli altri non fanno
grandezze. Ciò naſce, perchè tutti i punti ſono omogenei ſen za parti, ma ſe vi
foſféro degli enti tra loro eterogenei, ben chè non eſteſi, o ſenza parti,
nulladimeno poſti gli uni appreſ so gli altri, benchè non componeſſero
grandezza, tuttavia fa rebbono più, come ben offervò Ariſtotele. Ciò diede
occaſio ne al Leibnizio di compor l'eſtenſione di enti ſemplici, ma ete (94 )
eterogenei, o diverſi di ſpecie, che eſiſtendo ſcambievolmente gli uni fuori
degli altri coeſiſtano in uno; quindi per la no zione dell' eſtenſione, convien
conſiderare, e più enti che eſi Atano fuori di sè, e che tra loro s'unifcano, e
formino uno. Non fanno però un eſteſo;, perchè fe ben inſieme eſiſtano, non
ſono tuttavia tra loro uniti, come allora che liquefatti più me talli ſi
confondono in una maſſa. Le partipoi indeterminate dell'eſteſo, conſiderate in
aftratto, cioè ſenza far attenzione alla loro fpecie, non diferiſcono tra lo ro,
che nel numero. Non ſarà inutile quefta offervazione nel progreſſo. Intanto ſi
oſfervi, che l'uno eſcludendo nel ſuo con cetto i più, oi molti, per quanto
l'uno ſi moltiplichi per ſe ſteſ fo è ſempre uno, onde egliè il ſuo quadrato,
il fuo cubo, ed ogni altra potenza, foſſe anche ella di dimenſioni infinite, e
non folo avete un eſponente, ma molti, come le quantità che ſi dicono
eſponenziali. $. 21. Se l'uno è, egli tocca ſe ſteſſo, e l'altre coſe. L'uno è
in fe fteſſo, ed in altrui (5. 12. Sez. 3. ) In quanto è in fe fteſſo vien
impedito di toccar l'altre coſe, dunque tocca fe Hello; in quanto è in altrui,
è nell'altre coſe; dunque le coccherà. IN ALTRO MODO Una coſa nel coccar
l'altra giace appreffo quella che tocca, ed occupa la ſede vicina; ma ſe l'uno
tocca ſe ſteſſo, giace appreſſo ſe steſſo, ed è quindi due coſe, il che non
potendo effere, mani feſto è che non pud toccarſi. Le coſe diverſe dall'uno,
non potendo effer numero, perchè.non partecipano l'uno, non pociamo mai con
l'uno far due, ma nel contatto v'è ſempre almeno due (9. 19. Sez.-3.) Dunque
l'uno non toccherà l'altre coſe.: ANNOT. La contraddizione pur è qut apparente,
e ſi fa l'ano corporeo nel fupporre, che ei tocchi. Nozione immaginaria. 22.
Parmenide ragionando ad hominem con Socrate fuppone la par ticipazione
dell'idee, combattuta nella prima parte; conſidera quindi la grandezza, e la
piccolezza, come due ſpecie ſeparate, tra (95 ) tra loro contrarie; ben a cid
s'avverta, perchè in queſto conſiſte la deſtrezza del Filoſofo, e la forza del
ſuo ragionamento, S. 23 2 os' Se l'uno e, egli non è ně eguale, nè maggiore, në
mi nore degli altri enti. Sia l'ente minore degli altri enti, egli dunque
participerà dell ' idea della piccolezza, la qual è contraria alla ſpecie della
gran dezza. Si concepiſca, che la piccolezza ſia nell' uno, o farà in tutto
l'uno, o in alcuna parte di eſso; fe in tutto l' uno, eftenderà per l'intiero
uno tutto al di dentro, che vuol dire lo compenetrerà con la ſua ſoſtanza, o
l'abbraccierà con eſtremi li. miti al di fuori, che vuol dire lo comprenderà;
ma ſe la picco lezza s'eſtende al di dentro di tutto l' uno gli è eguale ",
e fe lo comprende gli è maggiore, onde la piccolezza ſarebbe nello ſteſ ſo
tempo grande, ed eguale contro l'idea di lei. Se la piccolezza è una parte
dell'uno, ne ſeguirà, che ella lia di nuovo in tutta la parte, o al di fuori, o
ál di dentro quindi che ella fia eguale, o maggiore per le coſe dimoſtrare;
dunque non potendo eſser la piccolezza, nè in tutto l' uno, nè in parte
dell'uno, non ſarà nell'uno, onde l'uno non farà pic colo, o minore degli altri
enti. Corol. In alcuno degli enti per la ſteſsa ragione non po irà ritrovarſi
la piccolezza, onde in queſta ipoteſi non v'è al tra cofa piccola, che la
piccolezza ftetsa, ma dove non v'è il piccolo, non v'è neppur il grande, perchè
l' uno non è che per riſpetto all'altro; dunque non vi faranno coſe grandi,
trartone la grandezza, e quindi I uno, e altre coſe ſaranno prive di grandezza,
e di piccolezza. e S. 24. Se l'uno è, le altre coſe non ſono di eſso nè
maggiori, nè minori, nè eguali. Le altre coſe aſsolutamente parlando ſono prive
di grandezza, e di piccolezza, dunque, rifpetto alla uno, non fono nè piccole,
ne grandi, e per la ſteſsa ragione, l'uno non è nè maggiore, nè minore
dell'altre coſe, eſsendo privo di grandezza, e dipiccolezza. 5.125. (26 ) S.
25. Se è l'uno egli farà eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non è maggiore,
nè minore dell'altre coſe, ma ſe l'uno non è, nè maggiore, nè minore dell'
altre coſe, egli per la forza dell'eſcluſione ſarà eguale. §. 26. Se l'uno è,
egli è eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non avendo in sè, nè grandezza,
nè piccolezza, nè eccede rà ſe ſteſſo, nè da ſe ſteſo farà ecceduto, dunque
farà eguale a ſe ſteſſo. S. 27. L'uno è maggiore, e minore di fe ſteſſo. Egli è
in ſeſteſſo, dunque li comprende; dunque èmag giore di ſe ſtello; eſſendo in ſe
ſteſſo, egli è da ſe ſteſſo com preſo, dunque è minore; dunque è maggiore, e
minore di ſe ſteffo. S. 28, Se l'uno è, le altre coſe ſono maggiori, minori ed
eguali all' uno. Null'altro v'è, che l'uno, e l'altre coſe, non dandoſi mez zo,
($. 12. Sez. 2. ) Quel che è in una coſa è minore di eſſa (S. 10. Sezione 2. )
e ciò che la contiene è maggiore; dun que, poi che ogni coſa è in un luogo, (.
12. Sezione 2) e che altro non v'è che l' uno, è l' altre coſe neceſſariamente
ſono nell' uno, o l' uno nell'altre coſe; ma ſe l' uno è nell' altre coſe,
queſte ſono maggiori dell' uno, perchè lo conten gono; l'uno è minore, perchè è
contenuto; dunque l'altre co le ſono maggiori, e - minori dell’uno: ma s'è
dimoſtrato, che l' uno non eſſendo nè maggiore, nè minore dell' altre coſe,
all' al tre coſe farà eguale (§. 24. Sez. 3.) Dunque egli è eguale, mag giore,
minore dell'altre coſe. Corol. Egli dunque può eſſere di miſure eguali,
maggiori, e minori, riſpetto a sè, ed all' altre coſe. Quindi Ha 1 1 ! (97 ) Ha
più miſure riſpetto alle coſe delle quali è maggiore, me no miſure riſpetto a
quelle delle quali è minore, e pari miſu re riſpetto a quelle delle quali egli
è eguale. 6. 29. 9 Paſſa a dimoſtrare Parmenide, che ſe l'uno è, egli è parce
cipe del tempo, ed è, e ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe fteſto, e degli
altri, ed in contrario, e che non è, nè ſi fa nè più giovane, nè più vecchio di
ſe ſtello, e degli altri par cicipanti il tempo. Per intendere adequatamente
queſte propoſizioni, in cui s'af follano varj principi i biſogna prima
ripaffare ciò che fi diſle nel ſ. 3. Sez. 3. 9. 27. Sez. 2. ove fi dimoſtrò. 1.
Che chi partecipa dell' eſſenza, partecipa delle differenze del tempo. 2. Che
cið che ſi fa più vecchio di ſe ſteſſo, e dell'altre coſe, nel farſi più
vecchio, li fa più giovane, e cið per eguali parti di tempo, ag giunte agli
ineguali, il che abbiamo dimoſtrato coll' eſempio delle ragioni di e
diſucceſſivamente accreſciute di 1. comparando percið le ragioni di į, e di
abbiam veduto, che i loro va Iori i ti, eit ! + divengono ſempre minori.
Altreſuppoſizioniegli fa ne' ſeguenti argomenti. 1. Il tempo è un fluſſo, da
cui ſi fa progreſſo dal pallaco al preſente, e dal pre Tente al futuro, e
dall'era all'è, è dall' è al ſarà. 2. Che una coſa che'ſi fa paſſa dal preſente
ove è, nel futuro ove ſarà, e perciò nel farli è di mezzo cra l'uno, e l'altro,
onde propria mente ciò che è nell' inftante, non ſi fa, ma è quello che è, o,
come l'eſprime Platone, una coſa che ha fatto acquiſto del preſente cella di
farſi, od è ciò che allora convien che fi faccia. 3. Il preſente è ſempre unito
all'uno, perchè è ſempre unito all' ente, dal qual l'uno è inſeparabile. 4. Il
diverſo, o l'idea del diverſo è la ſtella coſa ſecondo i principi di Socra te,
e percid è ſempre uno, onde quello che non è uno, non può eſer il diverſo, o
l'idea del diverſo, onde le coſe diverſe dall' uno, o che partecipano il
diverſo, ſono più che l'uno, o hanno in sè moltitudine, e in conſeguenza numero
o più. 5. Delle più ſono prima le poche, che le molte, e delle poche prima il
pochiſſimo. 6. La coſa che prima li fa è la prima, e le dipoi ſono più giovani
delle già fatte innanzi. 7. E' impof fibile', che una coſa ſi faccia oltre la
natura, onde in una co ſa che ha principio, mezzo, e fine, prima li fa il
principio, indi il mezzo, e poi il fine, che vuol dire, il fine ti fa i'ulti
mo. 8. Quel che ſi fa ultimo è più giovane di quel che fi fa Tomo II. il a e ce
I 21 S: i n (98 ) il primo. 9. Chi ſi fa con tutte le parti infieme d'un tutto,,
fi fa nello ſteſſo tempo inſieme col cutto.. 1 1 ſ. 30. Se l'uno è, egli è, e
ſi fa, e non è, nè ſi fa più vecchio, e più giovane di ſe ſteſſo. Se l' uno è
participando l'eſſenza, participa del tempo ($. 3. Sez. 3. ) ma quel che è in
tempo, è in un fluſſo continuo o pal ſa dal paſſato al preſente, o dal preſente
al futuro (S. 28. Sez: 3.) Dunque l'uno e continuamente in queſto paſſaggio. In
quanto paſſadall'era all' è fi fa più vecchio di sè;ma nel farſi più vec chio,
ſi fa più giovane (S. 26. Sez. 2. ) Dunque ſi fa più vec chio, e più giovane di
ſe ſteſſo. Chi non oltrepaſſa il preſente, nel far progreſſo dal paſſato,
nell'avvenire non ſi fa, ma è ciò che è ($.22. Sez. 4. ) Dunque quando l ' uno
tocca primieramente il preſente, non ſi fa allo ra vecchio, ma è vecchio
oggimai, Nel toccar il preſente, co me ha prima di lui fatto acquiſto, cefla di
farli, od è ancora ciò che avvien che ſi faccia i $. 28.Sez. 3.) Dunque l'uno,
quan do fatto vecchio conſeguiſce il preſence, cella di farſi, od è allora più
vecchio di ſe ſteſſo, di ciò che era toccando il pal fato; ma l'uno è di quello
più vecchio, onde fi faceva vec chio; e facevali di ſe ſteſſo, ed il più
vecchio è più vecchio del giovane; dunque allora l' uno è più giovane di ſe
ſteſſo quando fatto vecchio conſeguiſce il preſente, ma il preſente è fempre
unito all'uno; dunque l'uno, ed è ſempre, e li fa più vecchio, e più giovane di
ſe ſteſſo; ma facendoſi tale, od ef ſendo in tempo pari ritiene la ſteſſa età,
e chi ritiene la ftel fa età, non è più vecchio, nè più giovane; dunque l'uno
eſ ſendo, e facendoli in tempo, non è più vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſſo.
g. 31. Se l'uno è, egli è più vecchio dell'altre coſe, o l'altre coſe più
giovani di lui. Nelle coſe diverſe, che hanno in sè moltitudine o numero, altre
ſon fatte prima, altre dappoi; ma il primo che ſi fa è pochifiimo, (9. 26. Sez.
3. ) e nei numeri l'uno è pochiſſimo, dunque l'uno è facco inanzi alle coſe che
hanno numero, o che fono. 1 (99 ) fono diverſe dall'uno, o ſono gli altri; ma
il primo che ſi fa è più vecchio, le coſe che dipoi ſi fanno, ſono più giovani;
dunque l'uno è più vecchio dell'alcre coſe, e l'altre coſe più giovani. g. 32.
Se l'uno è, egli è più giovane dell' altre coſe, e le altre coſe più vecchie
dell' uno. L'uno non può farſi oltre la natura fua (.9.,26. Sez: 3. ) Dunque
avendo parti, o principio, o mezzo, o fine, ſi fa ſecondo la natura del
principio, del mezzo, e del fine, ma il princi pio fi fa il primo, è il fine ſi
fa l'ultimo, ma l' ultimo fatto e più giovane dell' altre coſe, e l' altre coſe
più vecchie dell' uno ($. 26. Sez. 3. ); dunque l'uno è più giovane degli altri,
e gli altri dell'uno. $. 33. Se l'uno è, egli non è più vecchio, nè più giovane
dell' altre coſe.. Ogni parte dell' uno è una; ogni parte del mezzo è una, ed
uno è parimente il fine, od il tutto, onde fi farà l'uno, é colla prima coſa
che fi fa, ed infieme colla ſeconda, colla ter za ec. onde percorrendo ſin
all'eſtremo fi farà un tutto, o 1 uno non eſcluſo nella generazione dal mezzo,
non dall' eftre mo, non dal primo, non da altro; ma ſe l'uno ſi fa inſieme con
tutte le parti d' un tutto ha la ſteſfa età con tutti gli al tri; dunque ſe non
è nato oltre la propria natura, non è fac to prima nè dopo l'altre coſe, ma
inſieme e fecondo queſta ragione non è più vecchio, o più giovane degli altri,
nè gli altri dell' uno. ſ. 34. Se l' uno è, egli ſi fa più giovane, più vecchio
di ſe ſteſſo. Se alcuna coſa foſſe più vecchia d' altra, li farebbe ancora più
vecchia di ſe ſteffa: A ſia più vecchio di B, nel creſcerfi gli anni ad A, egli
& fa più vecchio di fe fteffo, e di B; dun n 2 que (100 ) | 1 que l'uno nel
farſi più vecchio dell' altre coſe ſi fa ancora più vecchio di sè; manel farſi
più vecchio, ſi fa ancora più gio vane per la ſteſſa ragione, che creſcendo
tempi eguali, la ra gione decreſce (5.27. Sez. 2. ) Dunque l'uno li fa più
giovane di ſe ſteſſo, ma s'era dimoſtrato, che ſi faceva più vecchio (S. 30.
Sezione 3. ) Dunque ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe Iteffo. 1 f. 35. Se
l'uno è, egli non può farſi, nè più vecchio, nè più giovane dell'alere coſe.
Ciò che fi fa più vecchio d'un altro, o più giovane, ſi fa più vecchio, e più
giovane ancora riguardo a sè (1.37. Sez. 3.) ma l' uno non ſi fa, ma è, e più
giovane, e più vecchio ri guardo a sè; dunque non ſi fa, nè più giovane, nè più
vec chio riguardo agli altri. Se l'uno è più vecchio, che le altre coſe, ha più
lungo tem po dell'altre coſe, ma creſcendoſi il tempo, egli ſempre eccede meno,
onde ſi fa più giovane riſpetto alle coſe, delle quali era innanzi più vecchio;
ma ſe egli ſi fa più giovane, quell' altre coſe ſi faranno più vecchie; dunque
le coſe che erano innanzi, e più giovani dell'uno, ſi fanno dell' uno più
vecchie, cinè fi fanno più vecchie, riſpetto a quello che era più vecchio; ma
le coſe più vecchie non ſono, ma fi fanno ſempre, perchè la fanno più vecchie,
mentre l'uno ſi fa più giovane; dunque le coſe ſi fanno ſempre più vecchie
dell'uno. Le coſe poi più vec chie, parimente ſi fanno più giovani dell' uno
più giovane perchè l'uno, e l'altre coſe movendoli in contrario G fanno vi
cendevolmente contrarie, cioè le coſe più giovani dell'uno, ſi fanno più
vecchie dell'uno che è vecchio, ed all'incontro l'una più vecchio, li fa più
giovane delle coſe più giovani;, ma non, è poffibile che l' uno, e l' altre
coſe fieno fatte nè più giova ni, nè più vecchie, perchè le cali foſſero, non
più li farebbo no; dunque le coſe, e l'uno tra loro ſi fanno più vecchie, e più
giovani: l'uno li fa più giovane delle cofe, per quello che parve eſſer più
vecchio, e prima fatto, l'altre coſe poi fi fanno più vecchie, per quello che
ſono ſtate fatte dopo, e ſecondo la ſella ragione: l'altre coſe ancora ſe ne
ſtanno riſpettivamente alla uno, come quelle che ſono ſtate più vecchie, e
prima dell'uno. Dunque inquanto che nè l' uno, nè gli altri fi fanno, diſtan do
1 (101 ) $ do ſempre tra loro di un numero pari, non ſi farà nè l'uno più
vecchio degli altri, nè gli altri dell' uno. Ma come decreſce ſempre la ragione
dei tempi, o con minor particella ſempre tra loro differiſcono le coſe prime
dall' ultime, e l'ultime dalle prime, così è neceſſario che l' altre coſe ſi
facciano, e più vecchie più giovani dell'uno, e l'uno dell'altre coſe. Quinci
aggruppando in uno tutte le propoſizioni, abbiamo di. moſtrato, che l'uno è, e
li fa più vecchio, e più giovane degli altri, e di nuovo non è più vecchio, nè
più giovane di ſe ſteſſo e degli altri. Corol. Perchè l' uno è partecipe del
tempo, o ſi fa più vec chio, e più giovane, egli è partecipe del quando, del
futuro, e del preſente. Dunque era l'uno, ed è, e ſarà, e ſi faceva, e fi fa, e
li farà, e ſarà ancora alcuna coſa in lui, e di lui, ed è, ed era, e farà.
COROL. 2. Perchè la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, la defini zione, il nome,
riguardando le coſe che ſono nelle differenze dei tempi, in quanto l'uno è
capace di queſte differenze, è ancora fog getto di ſcienza, d'opinione, di
fenſo, può definirli, e può no. minarſi. Annot. Qui Parmenide non dà ſcienza, e
definizione, ſe non delle coſe ſoggette al tempo, il che biſogna accordare con
ciò che diſke (9.16. Sez. 1. ) La ſcienza che appreſſo noi è ſcienza del le
verità, che ſono a noi dintorno. 9. 36. Riſtringiamo adeſſo in poco, quanto
Platone ha propoſto nella propoſizione condizionale, o ſia nell'ipoteſi ſe
l'uno è. 1. Diftin le colla mente i due concetti dell'uno, e dell'ence., 2. Ne
com poſe un tutto intellectuale di due parti, o dei due concetçi dell' uno, e
dell'ente. 3. Tra loro paragonandoli ne deduſſe il terzo concetto del diverlo.
4. Conclure che nell' uno o è una moltitu dine infinita di numeri, che dividono
l' uno a proporzione dell' ente. 5. Che l'uno è tutto, e parte, e finiso, e
infinito. 6. Da ciò che è un tutto finito, conſiderò in effo il principio, il
mez-, 2o, il fine, e quindi la figura. 7. Da ciò che è un turto, e che il tutto
è nel tutto, conclure che l'uno è nell' uno, ed in fe ftel 1o. 8. Da ciò che
l'uno è comeparte nel tutto, conclure che è in altrui. 9. Che ſta, e ripoſa, ſe
egli è in ſe ſteſſo. 10. Che ſi mo ve, le è in altrui. 11. Che è ſimile a sè in
quanto l'uno, è lo ſteſſo che l'uno. 12. Simile agli altri, perchè paciſce d'
eſſere co me gli altri. Che è diffimile in quanto cert'uno, e certo ente. 14. (102
) 14. Che è lo ſteſſo, poichè ekſte, ed eſiſtono glialtrienti nello ſteſſo
tempo. 15. Che è diverſo, in quanto non ha in sè ciò che hanno gli altri enti.
16. Quindi fimile, e diffimile, perchè patiſce le ſteſſe cofe. 17. Che è
maggiore, minore, ed ineguale, e non maggio re, minore, nè eguale dell'altre
coſe. 18. Che è, e ſi fa più gio vane, e più vecchio di ſe ſteſſo, e dell'altre
coſe, e non è, e non fi fa, nè più vecchio, nè più giovane dell'altre coſe, e
l'altre co fe di lui. 19. Finalmente, che dell'uno in quanto è li ha ſcienza,,
ſenſo, opinione, e può denominarſi, e definirſi. Si potrebbe più
compendioſamente ridur in poco l'argomento di Parmenide, conſiderando che
reciproche ſono queſte due pro polizioni: l'unoid, è l ' uno, per il che ſi può
predicar dell'ente ciò che ſi predica dell' uno, e dell' uno ciò che ſi predica
dell' en per ragione dei diverſi concetti formali, predicandoſi dell' ente, la
parte, il finito, l'infinito, il principio, il mezzo, il fine, la figura, lo
ſteſſo, il diverſo, la quiete, il mo to, il limile, il diſſimile, e il maggiore,
l'eguale, il minore, it giovane, il vecchio ec. cutti queſti
predicaricompereranno pari mente all'uno. Ben ſi vede, che qui non ſi parla che
dell' en te corporeo, e degli enti particolari, a cui or compete una co fa, ed
or un'altra. il tutto, S. 37: Ma perchè i predicati oppoſti, come il fimile, il
diffimile, it maggiore, e il minore non poſſono competere nel tempo ſteſſo all'
uno, ed all'ente ſenza contraddizione, Parmenide moſtra che queſti attributi
contrari non gli competono nello ſteſſo tem po, ma in diverſi tempi; tal è la
natura di ogni ente finito: gli attributi, imodi, le relazioni, delle quali è
capace, non hanno luo go in lui, che ſucceſſivamente a differenza dell'ente
infinito, in cui tutte le perfezioni poſſibili, che attribuir gli ſi poſſono,.ftan
no in lui tutte inſieme, onde non male con due parole molto energiche, ſebben
barbare, ſi chiamò Dio dal Bulfingero, omni tudo compoſibilitatis. Gli
Scolaſtici lo chiamarono atto puro, cioè atto ſenza alcuna miſtura di potenza,
e quindi diametralmen te oppoſto alla materia che è pura potenza, e talmente
pura, che al cuni degli ſcolaſtici la ſpogliano dell'atto entitativo,
edell'eſiſtenza. $. 38 (103 ) go 38. Se l'uno è; egli prende diverfi ſtati
ſecondo le:: differenza dei tempi. Nel tempo ſteſſo non ſi può participare, e
non participare dell'eſſenza, e delle coſe che conſeguono al non participarla,
ed al participarla; or il farli è renderſi partecipe dell' ellenza; il
rovinarli e privarſi dell' effenza; dunque l'uno non può ne! tempo ſteſſo, e
prender, c laſciar l'eſſenza. Dunque la pren de, e la laſcia in diverſi tempi,
Quando ſi fa uno, egli perde l' eſfer molte coſe; quando ſi fa molte coſe ceffa
d'effer uno; nel farfi uno, e molte, li fepara, e fi congiunge, qualora ſi fa
ſimile, e diffimile, ſi affimiglia, e diffimiglia; quando ſi fa maggiore,
minore, ed eguale, creſce, decreſce, e li pareggia; quallora movendoſi fi
ferma, e quallo ra fermandoſi li move. Or tutte queſte coſe, eſſendo tra loro
contrarie, l ' uno non può averle nel tempo ſteſſo, dunque l'ha in tempi
diverfi. 9. 39 Non fi pud paſſar dalla quiete al moto, e dal møto alla quie te,
ſenza cangiamento di itato. Un corpo che cangia fuccelli vamente la relazione
di diſtanza, che egli ha ad altri corpi vi cini, ha uno ſtato diverſo da quello
d'un corpo, che conſerya ſempre a ' corpi vicini la ſteſſa diſtanza. Queſto
cangiamento di uno ſtato all' altro ſi fa in tempo; ma conſidera Platone, che
nel paſſaggio dal moto alla quiete, e dalla quiere al moro, v'è un non so che
d'improvviſo, e di momentaneo, che ſi conce piſce nell'iſtante del paſſaggio, e
non più appartiene al moto, che alla quiete; non al moto, perchè la coſa ſi
concepirebbe ancora in ripoſo; non al ripoſo, perchè la coſa fi concepiſce
ancora in moto, Conclude dunque Placone, che queſta natu ra improvviſa è quaſi
ſconvenevole tra il moto, e la quiete; che ella non è in verun tempo, e a
queſta da queſta paſſan do fi muta nello ftato ciò che li move, e nel moto ciò
che ſi ri pola. 8. 40. (104 ).. §. 40. Se l'uno è, nell'atto che cangia ſtato,
non gli competono più i predicati dell'ente. Nel paſsar l'uno dal moto alla
quiete fi muta momentaneamen te, e all'improvviſo, o mutandoli egli non è in
alcun tempo; dunque non ſta nè fi move. Così quando paſsa dall'eſsere alla ro
vina, o dal non eſsere al farſi, non è, nè ſi fa, nè fi diſtrugge. Parimente
quando paſsa dall' uno in molti, e da molti in uno, non è, nè uno, nè molti, nè
ſi congiunge, nè fi ſcongiunge, e paf fando dal ſimile al diſſimile, od al
contrario, non è, nè affimi gliato, nè diſlimigliato, e paſsando dal piccolo al
grande, ed all' eguale non creſce, nè decreſce, nè ſi pareggia. Annot. Da
queſta dottrina ſebben metaforicamente da ' Plato ne eſpreſsa, imparò
Ariſtotele ad introdurre tra i principj delle generazioni, la privazione mal a
propoſito ſchernità da coloro, che non ne inteſero nè la forza, nè l'uſo.
Quando una coſa ha perdute tutte le diſpoſizioni o determinazioni, che la
rendevano tale, ella ceſsa d' eſsere la tal coſa, cioè reſta priva di tutto ciò
che la coſtituiva, e diſtingueva dall'altre coſe, ma nell'atto ſteſ fo, in cui
ceſsa d'eſsere quel che era, comincia ad eſsere ciò che non era, o paſsa dalla
privazione alla forma contraria; queſto ſtato di mezzo che è tra la forma, e la
non forma, Platone chia ma natura mirabile, e momentanea, ed è certo, che ella
nel fifa far i gradi della noſtra cognizione ci moſtra quelli della natura che
non opera mai per falti. Nel Timeo dice: Dovendo eſer l'ef figie delle coſe
diſtinta da ogni verità di forma, non fia mai prepa rato quel medeſimo grembo
di tal formazione, ſe egli non farà informe di tutte quelle ſpecie, le quali è
per ricever da qualche parte, percid che ſe egli faravvi alcuna di quelle coſe
che in sé riceve fimiglianza, quando riceverà una natura contraria di quella di
cui è ſimile, ovve ro un' altra, affatto malagevolmente la ſimiglianza, e
l'effigie di quel la eſprimerà quando moſtrerà la ſua, però egli è convenevole,
che di tutte le ſpecie ſia privo quello che ha in sè da ricevere tutti i generi.
Siccomequelli che hanno da fare unguenti odoriferi, l'umida materia, la quale
vogliono di certo odore condire, di tal guiſa preparano, che * ella non abbia
alcun proprio odore. E coloro che vogliono in materie molli imprimerealcune
figure, niuna figura affatto laſciano primiera mente apparire in quella, ma
quelle cercano in prima di render qan to poſibil fia polite. Ciò ſi rende
ſenſibile nelle quantità algebraiche poſitive, e ne gative, nelle quali non ſi
paſsa dall'une all'altre ſenza paſsar per 1 1 1 il (105. ) o il zero, che non è
nè negativo, ne poſitivo, ed è il vero fim bolo della privazione. Nella
Geometria il punto matematico equi vale al zero, che è il principio negativo
dell'eſtenſione, e dal quale fi comincia la miſura, come l'unità è il principio
poſitivo, per cui fi comincia la ſteſſa miſura. Il punto è comune alla linea,
che ceſsa per eſempio di eſsere alla ſiniſtra, e comincia ad eſsere alla deſtra,
o che termina d' eſser in alto, e comincia ad eſser a baſso; così egli non è
deſtro, nè finiſtro, nè alto, nè baſso. Tut te queſte ſono eſpreſſioni
utiliNime, e ſebben noicele rappreſen ciamo per fpecie aliene, come il niente,
o l' impoflibile, tuttavia molto fervono a reggere i noſtri ragionamenti.
L'origine, e la natura del calcolo delle fuſioni dipende dall'uſo della natura
momentanea, ed ammirabile di Platone. In queſto calcolo non ſi cercano, ſecondo
il Newtono, le quantità infinita mente piccole, chemainon poſsono
determinarſi,ma la ragione del le quantità naſcenti, od evaneſcenti, cioè di
quelle, le cui fuffio ni, o velocità nel naſcere, o nel ſvanire equivagliono al
zero, il qual ſimboleggia il termine del ripoſo, e il principio del moto il
termine del moto, ed il principio del ripoſo. Sieno nel preſen te momento le
fluenti quantità y, x; nel momento ſeguente di verranno ſecondo l' eſpreſſione
Newtoniana y toy, ed xtoy, ove o y, od ox eſprimono i momenti delle velocità.
Softituite queſte eſpreſſioni in un'equazione propoſta, per eſempio in quel la
della parabola yy. =ax, quefta fi caogierà nell' equazione. yy + 2 oyy tooyy =
oaxtoax o cancellando gli eguali 2oyy tooyy = oax, e cancellando il comune o 2
yyt oyy = ax Sin che la quantità efpreſsa per o reſta finita, non può mai de
terminarli la ragione delle quantità che fluivano, ma nella ſup poſizione che
ella s' annulli, come nel caſo dell' ultima o della prima velocità delle
grandezze, ove o s'eguaglia a zero, fi ha 2 yy = ax, e ponendo l'equazione in
analogia 2 y.a:: x.y ragione determinata, con cui le qualità cominciano o
termic nano di Auire. Il Newcono ſpiega più a lungo queſte coſe nel ſuo
trattato delle Curve, e lo ſpiega non chiarezza il Ditton nell'inſtituzione
delle Auſſioni; baſta a me d'averlo quì accennato, per moſtrare che agli
antichi non man cavano quell' idee, che i moderni hanno poi ſviluppato, carat £
erizzandole con canta utilità delle ſcienze, e delle bell'arri. Tomo II. 5. 41,
(106 ) S.' 41, 1 Platone preſuppone nel ſeguente argomento, che la partenon è
parte nè di molti, nè di tutti, ma di cert'una idea, e di cert'uno che
chiamiamo tutto, ed è un cutto fatto da tutte le parti, e in sè perfetto, Dalla
parola idea lice argomentare, che qui non fi craica che dei concetti, con cui
fi concepiicono i molti, e il tutto, e le parti. L'idea dei molti è l'idea dei
più aſſolutamente preſi, e com prende egualmente le parti, ed i tutti,
dicendoſi molte, o più parti, molti o più molti. L'idea del tutto è l'idea
dell'uno più riſtretto in un certo numero, o riſtretto in cerci limiti; idea
della parte è l'idea d'uno incluſo in queſti più già ridoc ti. Non ſi pud
quindi rigoroſamente parlando dire, che la par te ſia parte di molti, perchè
conſiderandoli ſecondo la loro propria idea, non fanno ancora il tutto a cui ha
immediata re lazione la parte, Nel dir dunque Platone, che la parte non è parte
di mol ti, allude ai modi, o ai più vagamente preli, e nel dir che la parte è
parte del tutto, allude ai più riſtretti; ne' più, come s'accennd, vi ſono
incluſe indifferentemente le parti, ei tutti, onde ſe la parte foſſe parte dei
più, potrebbe eſſer parte di ſe Iteffa. Aggiunge Platone, che ogni parte non è
parte di qualun que uno ma d'un cert' uno, cioè di un certo tutto. La par te
del triangolo non è la parte del quadrato, nè un ſoldato che è una parce d' un
eſercito, è parte di una proceſſione di Frati. Il tutto poi che è fatto di
tutte le parti, o a cui non man ca alcuna parte, è perfetto., Si oſſervi in
oltre eſſer lo ſteſſo, il dir molti, o più d'uno; che ogni coſa quindi o è uno,
o più, cioè molci; che una parte dell' eſtenlione cratca fuori di efla, o
feparata da eſſa, eſſendo fteſa, contiene più, e ſe dinuovo ſi ſepa ra in due,
una di queſte parti eſſendo di nuovo fteſa, ritiene ipiù. In altri termini ciò
vuol dire, che non v'è parte dell'eſtenſione che non ſia diviſibile
all'infinito, e come la prima divifione fi fa per 2, ed indi per 2 i
Pittagorici aſſegnavano il 2, come il fim bolo dell'infinito. Prima che una
parte fi ſeparaſſe da una certa eſtenſione, ella riteneva il nome di parte, ma
quando è ſeparata, e che di nuovo ſi divide, ella non è più parte, ma tutto.
Queſti nomi di tutto, e di parte ſono ſempre relativi; coloro per ciò che
definiſcono l' eſtenſione, ciò che ha parti fuori" di? par (107 ) parti,
null' altro dicono ſe non che l' eſtenſione è l'eſtenſione, perchè non ha parti
ſe non ciò che è eſteſo. Molto peggio fan no coloro, che ſuppongono, che l'
eſtenſione eſſendo compoſta di una infinità di parti fteſe, ſia compoſta d'una
infinità di ſo. ſtanze tra loro tutte ſeparate, perchè l'idea dell'eſtenſione
null hache di relativo, e ſuppone la coſa aſſoluta,' o la ſoſtanza, su cui la
relazione ſi fonda. Il corpo fiſico, e mecanico non ſono pura eſtenſione, come
il geometrico,; perchè nel corpo fiſico v'è la forza, o la for ma, e nel
mecanico il peſo, origine delle proprietà, e dei lo ro fenomeni.. 8. 42. Se
l'uno è, le parti in quanto parti ſono parti dell' uno, o partecipano dell'uno.
Le parti non poſſono eſſer parti di le ſteſſe, nè di molti ($. 40. Sezione 3. )
dunque dell' uno, il che è dire, che partecipano dell' uno. §. 43, Se l'uno è,
il tutto in quanto tutto partecipa dell' uno. Il tutto cui nulla manca delle
tre parti è uno; dunque par tecipa dell'uno. Corol. Il tutto dunque, e le parti
partecipano dell' uno, e ciò ſignifica un non so che di ſeparato da gli altri,
ma eſiſten; te per sè, ſia egli qualunque coſa. ANNOT. Non par egli, che
Parmenide nel dir, che queſt' uno ſia ſeparato dagli altri, e per sè eſiſtente,
alluda all'idee feparatę che ha combattute nella prima ſeſſione '? Se non vuol
ciò dirſi, come contrario alla profonda Filoſofia d'un sì grande Uomo, non ne
liegue egli, che parlando qui con Socrate, parla bensi col fuo linguaggio, ma
nel tempo fteffo incende di favellare fecondo le attrazioni della mente. 0 2
9.44. (108 ) 8. 44. Se l'uno è, le cofe che partecipano dell' uno fono altra
coſa che l'uno. Niuna coſa può effer alcun uno fuor che lo ſteſſo uno; dunque
ſe le coſe partecipano dell'uno, che vuol dire, non ſono lo ſtes fo uno,
bifogna che fieno un'altra coſa. Dunque le coſe che partecipano dell' uno fono
de verſe dall'uno. S. 4.5. Se l' uno è, le coſe che partecipano dell'uno, ſono
in moltitudine infinite. Se le coſe che partecipano l'uno ſono diverſe dall'
uno, non ef fendo uno nè più d'uno non faranno niente; ma non fon l'uno, dunque
più d'ano, dunque ogni parte d'uno, include in eſſa i più, e queſti altri più,
e così in infinito, dunque le coſe clre parteci pano l'uno, ſono infinite in
moltitudine. COROL. Poichè il più include per fua natura la moltitudine in
finita, ogni parte che d'eſſo ſi tragga fuori con l'intelligenza le ben
piccoliflima rifpetto all'altre, ſarà in moltitudine infinita. ANNOT. Platone
dice da quelle (cioè dei molti ) trar fuori con r* intelligenza alcuna cofa
piccoliffima. In qual altro modo pud egli meglio indicar l'aſtrazione della
mente.? nel dir Platone, che confiderando la diverſa natura della fpecie
fecondo ſe ſteſſa quanto di lei vediamo, fia egli infinito, e in moltitudine,
altro non ſignifica con la diverſa natura, ſe non che ogni parte dell'
eftenfione include in sè più, e queſti altri più, e infiniti in. moltitudine. 1
g. 46. Se l'uno è, la parre in quanto parte è diverſa dell' uno, per chè l'uno
è per sè indiviſibile, e la parte per sè divifibile. 8. 47 (109 ) S. 47. Se
l'uno è, le parti ſono più che l' uno. Le parti diverſe dell'uno, ſe non ſono
uno, o più d'uno, nulla ſaranno, ma ogni cofa è uno o più; dunque ſe le parti
diverſe dall uno non ſon uno, ſaranno più che uno. S. 48. Se l'uno è, le parti
che lo partecipano hanno termine tra loro, e riſpetto al tutto, e il tutto
riſpetto alle parti. Ogni parte è una, ogni tutto è uno; ſe l'uno e l'altro
parte cipa l'uno; ma quello che è fatto uno ha un termine. Dunque ec. Corol.
All' altre coſe, che all' uno, avviene che partecipan do dell'uno, e di loro
ſteſſe, ſi fanno in loro cert'altra coſa, il che dà loro il termine, ma la
natura loro che include i più, è per eſſenza infinita in moltitudine; dunque le
altre coſe che l'uno tutte ſecondo le particelle loro, ſono infinite in numero,
e par tecipi di termini. g. 49. Se l'uno è, le coſe che partecipano l'uno, fono
fimili, e dil ſimili, ſi movono, e ſi fermano, od hanno altre paſſioni con
trarie, Le altre coſe che l'uno, ſono tutte infinite, o indefinite, fe condo la
loro natura, onde tutte patiſcono lo ſteſſo, ed aven do cermini, e diverſi
termini, patiſcono il diverſo, ma il limi le è quel che patiſce il ſimile, il
diſſimile quel che patiſce il diverſo. Dunquele coſe, altre che l'uno, ſono
ſimili, e diffimi li. Maſe patiſcono le ſtelle coſe, e diverſe, pariranno anche
il moverſi, ed il fermarſi, l'eſſer maggiori, minori, ed eguali, l' eſſer più
vecchie, più giovani ec. e 3. 50 Riepilogando le coſe dette, abbiam dimoſtrato
che ſe l'uno che in quanto lo partecipano ſon d'ello parti. Che il tutto dal le
parti riſultante partecipa pur dell' uno; che le parti parte cipanti del tutto,
è dell' uno ſono infinite in moltitudine, che han (110 ). hanno termine tra
loro, e rifpetto al tutto, come il tutto l'ha riſpetto alle parci, onde nel
patir le coſe ſteſſe, e diverſe ſono ſimili, e diffimili, ſi moyono, e fi
fermano. Paſſa a confiderar Parmenide nella ſuppoſizione, che sia l'uno, coſa
adiviene alle coſe che non partecipano l'uno. g. 58. Se l'uno è, e le altre
coſe che non partecipano l'uno, non ſono nè tutto, nè parii, nè fimili, nè
diffimili, nè le ſteſſe nè diverſe, non ſi movono, non fi fermano, non ſi fanno,
non ſi diſtruggono, non ſono, nè maggiori, nè minori, nè eguali, nè vecchie, nè
giovani. Si concepiſca l'uno ſeparato dall'altre coſe, cioè fi concepi ſca che
le altre coſe non lo partecipano, non vi ſaranno mol ti, perchè ognun de molti
è uno; non vi ſarà numero, o mol titudine ordinata che principia dall’uno, il
quale ſucceſſivamen te li va aggiungendo a ſe ſteſſo, e fa ogni numero uno
nella fua fpecie; non vi ſarà tutto, che è una moltitudine riſtretta in uño;
non vi ſaranno parti, ognuna delle quali è uno ordi nata ad un altro uno; non
vi ſaranno coſe limili, nè diffimi li, nè le ſteſſe, nè diverſe con l' uno,
perchè ſe teneffero in se -ſimigliznza, ediffimiglianza, comprenderebbono in sè
due ſpecie tra loro contrarie, onde non eſſendo partecipi di due, nemme no lo
ſarebbono di due contrarj; non poſſono eſſer quindi le coſe nè ſteſſe, nè
diverfe, nè moverſi, nè formarſi, nè diftrug. gerſi, nè effer maggiori, giovani,
e vecchie, perchè eſſendo ſem pre partecipi di due coſe contrarie ſarebbono
partecipi di nu mero. ANNOT. Queſto è lo ſteſſo che concludere che l' uno
traſcen dentale, eſſendo inſeparabile dall' ente, è lo ſteſſo tor dalle coſe l'
uno, che l'ente, od annullarlo. g. 52. 1 Parmenide ha ultimamente conſiderato,
coſa accaderebbe alle coſe, ſe non vi foſſe l'uno, che per ipoteſi ſtabili. Or
cangia ipoteſi, e cerca, coſa accaderebbe alle cofe fe non vi foſse l'uno.
Queſte due ipoteſi ſembrano diverſe, ma ricadono poi nello ſteſso, perchè canto
è annullar le cote ſeparando da loro l' uno che è, od eſsere ſi concepiſce,
quanto annuliarle ponendo le co ſe, e negando l'uno. SE (111 ) . B. I. Uando
per eſempio fi dice grandezza, e non grandezza, QI si dicono due coſe oppoſte,
e tra loro contrarie, poichè la non grandezza diſtrugge ciò che la grandezza
pone o in natu ra, o nella mente; le fi fanno quindi le due propoſizioni, la
grandezza è la non grandezza non è, tutte e due ſono nega tive, ma l'una è d'
un ſoggetto finito, e determinato, l'altra d'un ſoggetro infinito, e
indeterminato. La grandezza é il ſog getto di decerminata ſignificazione, la
non grandezza di ſignifica zione indeterminara, perchè non grande è il piccolo,
non grande il punto, non grande l'unità ec. Or il determinato è contrario all
indeterminato; dunque, come ben oſservò Marſilio Ficino, le due propoſizioni,
la grandezza è, la non grandezza non è, ſono con trarie, ſebben l’una, e
l'alcra fieno negative. Lo ſteſso debbe dirſi delle due propoſizioni, l'uno non
è, il non uno non è, egeneral mente della propoſizione A non è; non A non è:
nella pri ma ſi nega ad A l'eſere, nella ſeconda ad A che fi nega, ga l'effere.
Negar ſemplicemente una coſa, e negare la nega zione, ſono coſe tra loro
contrarie. La propoſizione all'incon. tro A non è, e l'altra non A è, ſono
equivalenti, perchè nel la prima di A fi nega l' eſſere, nella ſeconda fi
afferma, che ad A fia negato l' eſſere. Affermare la negazione è lo ſteſſo che
negar la cola; dunque equivalenti propoſizioni ſaranno, l'uno non è, il non uno
è. E' poi da oſſervarli, che le negazioni, e pri vazioni ſi conoſcono per le
loro realtà oppofte, la cecità per la vi fione, le tenebre per la luce, non A
per A. ſi ne B. 2. Se l'uno non è, nel pronunziar la propoſizione ai concepiſce
chiaramente e diſtintamente, che l'uno non fia, o li ha fcien za di ciò che
s'eſprime, e s'eſprime qualche coſa diverſa dall' altra, l'uno è. Le privazioni,
e negazioni ſi concepiſcono chia ramente, e diſtintamente per le loro realtà
oppoſte, dunque il non uno per l' uno (J. 1. ) ma la propoſizione il non uno è,
è, equivalente all'altra l' uno non è, dunque queſta propoſizione l' uno non è,
fi concepiſce chiaramente e diſtintamente, o li ha ſcienza di lei. La
propoſizione l'uno non è, è diverſa dall' altra, 3 uno (112 ) ! $ 1 1 uno è, e
chiaramente, e diſtintamente ſi concepiſce la loro diver ſità; dunque nel dir
l' uno non è, ſi concepiſce qualche coſa di diverſo. Platone così lo dice:
eſprime primieramente alcuna coſa che ſi può conoſcere, poſcia differente
dall'altra, colui che dice uno, aggiungendovi l'eſfere, oil non eſſere,
perciocchè non ſi conoſce meno, ciò che fia quel che ſi dice non ellere, e come
ſia certa co fa differente dall'altra. Corol. Può dunque predicarſi dell' uno
la ſcienza, e la di yerſità. S. 3. Se non è l'uno, o ſe il non uno è, il non
uno partecipa delle coſe che di lui ſi predicano, e non le partecipa. Del non
uno è, ſi predica la ſcienza, e la diverſità (Cor. ant. ) dunque partecipa di
queſte coſe, mapoichè egli non è, non aven do eflenza, non può participarle,
perchè il non ente non ha pro prietà, dunque non le partecipa; dunque le
partecipa, e non le partecipa. COROL. Così s'eſprime Platone: Il non ente è
partecipe di sé, e d'alcuna coſa, e di queſta, e con queſta, e di queſta, e di
cut te le coſe sì fatte; concioliachè non li direbbe uno, nè le diverſe coſe
dell'uno, ne avrebbe egli alcuna coſa, nè alcuna coſa fi chia merebbe, ſe non
foſſe partecipe di alcuna, nè di queſte altre nondimeno è impoſſibile che ſia
l'uno, ſe egli non é, ma niuna cofa vieta, che non ſia partecipe di molte coſe,
ed è neceſſario ancora ſe è quello l'uno, e non altro, ma ſe non è, nè l'uno,
nè quello non ſarà egli; non ſi dirà nulla di lui, ed il ragionamento farà
d'altra cofa, ma ſe fi ſuppone che quello uno non ſia, è ne ceſſario che ſia
partecipe di lui, e di molte altre coſe,. 4. Se il non uno è, il non uno è
ſimile a ſe ſteſſo, e diffimile all'altre coſe, ed al contrario. Il non uno
convien col non uno, dunque con ſe ſteſſo; dunque è ſimile a ſe ſtello. Il non
uno è diverſo dall'altre coſe che parte cipano l'uno, dunque è diffimile
dall'altre coſe; ma il non uno non eſſendo, non può aver proprietà d'effer
ſimile, nè diffimi le, dunque ec. 8. S. 1 (113 ) §. 5. Se il non uno d, egli è
eguale, ed ineguale all' altre coſe, e nel tempo ſteſo eguale, ed ineguale. Gli
eguali ſono fimili nella quantità; ma il non uno non ha ſimiglianza con l'altre
coſe, dunque non ha egualita; ma ſe egli non è eguale agli altri, gli altri non
ſono eguali a lui, dunque è loro ineguale; ma gl' ineguali partecipano dell'
ineguaglianza, cioè di grandezza, edi piccolezza; dunque l'uno che non è, egli
è grande, e piccolo; ma tra il grande, e il piccolo ſi frammetter eguale, e chi
ha grandezza, e piccolezza, pud ancora aver egua glianza; dunque l'uno che non
è può participare di queſte coſe; ma s'è dimoſtrato, che non le partecipa,
dunque ec. 5. 6. Se l'uno non è, ha in certo modo l'eſſere, o s'attri buiſcono
a lui coſe che l'hanno.. -. Nel dire che l'iuno non è, ſi ha ſcienza di cid che
ſi dice; nel dir che è, diverſo dall' uno, che è, e dall'alcre coſe; che è
fimile, non fimile; diſſimile, non diſſimile dall' altre coſe; eguale, no
eguale, fi profeſſa di concepire, e di pronunziare il vero, ma eſprimendoſi, e
pronunciandoli queſte coſe a guiſa di enti, all'uno che non è s' attribuiſcono
in queſto modo, onde egli ha in un certo modo l'eſſere. B. 70 Queſta
propoſizione: il nulla è nulla, il nulla non è nulla, equivale a queſte altre
due: il non ente è non ' ente; il non ente non è non ente. La prima di elle è
affirmativa, ed iden, tica, perchè fi afferma il nulla di ſe ſteſo, la ſeconda
è nega tiva, perchè ſi nega il nulla del nulla, che vuol dir, ſi affer. ma
qualche coſa, perche una negazione diſtruggendo l' altra elleno affermano. Nel
dire il non ente, non ente, il non en te vien a participare in un certo modo
dell effere, affine di ef ſer non ente.. Nel dire all'incontro il non ente non
è non en te, il non ente per non eſſere non ente che vuol dir per eſ ſere, vien
a partecipar del non eſſere. Così intendo Platone, Tomo II. P allor (114 ) 1
allor che dice: il non ente ad eller non ente ba il legame dei non eſſere, fe
dee non eſſere, come lente tiene nella ſtella guiſa il legame deli eſere,
perchè ei non ſia non ente, affinchè di nuovo ei fia perfettamente, e non
ſiapartecipe il non ente delléſenza, del non eſſer non ente, ma dell'eſenza
dell'eſer non ente, ſe il non ento fia perfettamente. $ Se l'uno non è, egli
partecipa; e non partecipa dell' eflenza 1 L'ente è partecipe del non eſſere,
ed il non.ente dell'eſſe re ($. 7. Sez. 4. ) ma ſe non è, l'uno é neceffario
che ſia par tecipe del non eſſere, affinchè ei non ſia; dunque appariſce, che
l'eſſenza ſia nell' uno, ſe egli non è, e la non effenza ſé egli è. ANNOT.
Tutti queſti ſono ſcherzi metafiſici, per dar luogo alle nozioni immaginarie, e
quindi alle contraddizioni, che mo ſtrano le coſe impoſſibili; ben deve
oſſervarſi, che facilmente con effe fi cade in quel mirabile, che degenera in
puerilità. Platone ſobriamente l' adopra, per dimoſtrare in quali raffina menti
sfumavano le dottrine della ſetta Elearica. 9. 9. Se l'uno non è, ha mutamento,
e in conſeguenza moto, e non ha moto, Šisru ! L'uno parve ente, e non ente,
onde fta così, e non così, dunque fi muta paſſando dall' eſfér al non effer;
dunque ha moto. Ma fe l'uno non è, non è in alcun luogo, perchè ogni en té è in
qualche luogo, ma non eſſendo mai in luogo non pudo paſſare da un luogo
all'altro, dunque non percid fi move, per che non ſi traſmuta.. io. (115 ): $.
io. Y Se l'uno non è, non ſi altera, e non alterandoli ne ſi muta, nè ſi move.
L'uno non eſſendo, non può mai verſare in quello che non è, dunque non
alterarſi, poichè ſe l'uno da ſe stello li alceral fe in alcun luogo, non ſi
ragionerebbe più deil' uno, ma di cer ta altra coſa; ma ſe non li altera non ſi
rivolge in fe fteffo nè fi muta, nè ſi altera; dunque ec. ļ $. Se l'uno non è,
fta e ſi moồe, e fi altera, Quel che non ſi move ſe ne ſta in quiete, e ſi
ferma que gli che in quiete ne fta; dunque l'ano non effendo, comeapo pariſce
ſta egli e li move, anzi movendoſi è neceſſario che ſi alteri, perchè in quanto
alcuna coſa ſi move, incanto ſe ne ſta ella non nello ſteſſo modo, ma
altrimenti; dunque l'uno mentre fi move ſi altera, e nondimeno non movendoſi in
niun luogo in niuna guiſa ſi può alterare; dunque in quanto fi move", ciò
che non è uno ſi altera; ma in quanto non ti move, non fi alce ra, dunque l'uno
non eſſendo ſi altera, e non ſi altera. $. 12 Se l'uno non è, egli è diverſo da
quel che era prima, non ſi altera; non fi fa, non ci muore, e di nuovo ſi fa,
emuore. Cid che ſi alcera è neceſſario che ſi faccia diverſo da quel che era
prima, ma quel che non fi altera, non ſi fa në muore; dunque l'uno, non eſſendo
mentre fi altera, e ſi fa, e periſce, ma non alterandoſi, non fi fa, nè muore,
nè periſce, ed in do tal guiſa l' uno 'non effendo, li fa, e muore e di nuovo
non fi fa, nè muore. §. 13: Sin ora ha dimoſtrato Platone, che ſe l' uno non è,
egli dà di sè fcienza, ed ha in sè diverlicà, che è partecipe, e non par tecipe
di altre cole; quindi lo ſteilo-, e non lo ſteſſo con ſe ſtel р. 2 (116 ) ſi
move fteffo, ſimile e diffimile nè ſimile, nè diffimile, eguale, ed ineguale,
non eguale, nè ineguale, partecipe d'eſſenza, e non partecipe, ſi muta, e non
ſi muta e non ſi mo ve, fi altera, e non fi altera, ft fa, c periſce, e fi fa,
e non periſce. Tutte queſte concluſioni derivano dalla poſizione, l' uno non è;
l'uno eſſendo inſeparabile dall'ente, ſe non v'è l'uno, nè pur v'è l'ente.
OrPente non è, che il poflibile. Annullato dunque il poſſibile reſta l'
impoffibile, da cui ſecondo l' Aflioma ſegue coſa, ex impoſſibile ſequitur
quolibet, perchè nell'idea aſtrat ta dell'impoſſibile s'includono tutte le
contraddizioni. Platone dal conſiderare, che l'uno non ha eſſenza, e non n'è
capace, nega tutte le altre relazioni che pud avere. Premetto a ciò che quando
diciamo, che alcuna coſa non ſia, nel proferire, queſto non è, fi fignifica
ſemplicemente, che non è al tutto in niun modo, e non eſſendo in niun modo, non
è capace in alcun modo di eſſenza; dunque non potrà eſſere il non ente, ne in
alcun modo farſi partecipe di eſsenza. §. 14. Se l'uno non è, non può farſi in
alcun modo par tecipe d'eſsenza. Quel che non è, ſignifica ſemplicemente, che
non è al tur 10, in niun modo, o non è ſemplicemente capace di eſsenza, dunque
fe l'uno non è, non può mai eſser capace d'eſsenza.. 15: ne la per Se l'uno non
è, non pud farſit, nd morire. Chi non è partecipe di eſsenza, non la riceve, nè
la de. Dunque fe. L'uno non è, non pud nè ricever, nè acqui ftar l'eſsenza,
perchè non n ' è capace; dunque non periſce, nè fi fa. $. 16. Se l'uno nonè,
non fi altera, nè fi move, nè ſe ne ſta, non ha grandezza, nè piccolezza, nè
parità, né limiglianza, e dia, verlin (11 ) 3 onde eſsenza, non può aver ne
grandezza, nèpic marfi. Se verſità riſpetto all' altre coſe, e a ſe ſteſso, nè
gli conviene ale cun altro attributo Se l'uno non è, non ſi altera, perchè fi
farebbe già, je pe rirebbe potendo queſto; ſe non ſi alcera, nè men fi move, ſe
come non ente, non eſsendo in alcun luogo, non pud ſtar lo ſteſso in alcuna
coſa, nè in alcuna coſa fermarſi. Se non ha nè piccolezza, nè parità, eſser
ſimile, o diverſo, o rifpetto all'altre coſe, o a ſe ſteſso, nè le altre coſe
potranno eſser in lui in alcun modo, gli ſono, nè fimili, nè diffimili, nèle
ſteſse, nè diverſe, nè pud ſtar ſeco, non ha il di lui, o ciò che ſi dice di
alcuna coſa, o queſto, o di queſto, o d'altrui, o ad altrui, o alcuna volta, o
dopo, o al preſente, o ſcienza, o opinione, o ſenſo, o fer mone, o nome, o
qualunque altro degli enti. Annot. Sebben ſi oſserva, Platone al non uno toglie
tutto quello che ha dato all'uno, conſiderato in ſe ſteſso nella prima Sezione,
argomento evidente, che, quando tutti gli altri man caſsero, quì non ſi trarca
che delle aſtrazioni della mente, fra miſchiate tallora con le nozioni
immaginarie, quali ſono in que fta Sezione, e nel rimanente. Non ci reſta che
l'ultima quiſtione, in cui ſi cerca ſe non è l'uno, che accada all'altre coſe.
SEZIONE QUINTA,. $. 1. S'orser Oſservi tolto. 1. Che ciò che è, o è l' uno, o
l'altre co ſe • 2. Che ſe queſte non foſsero (almeno nella noſtra im-.
maginazione, o nella noſtra mente ) di loro non ſi diſputereb be, perchè il
nulla non ha proprierà. 3. Che ſe dell' altre li fa vella, l'altre ſono il
diverſo, poichè l'altro, e il diverſo ſono fi nonimi', onde diciamo altro non
eſser l'altro, che l'altro d'al tri, ed efser del diverſo diverſo, e che per
far le coſe altre dalla uno, vi ſi debbe aggiungere qualche altra coſa, onde fieno
per eſser altre, di cui ſaranno altre. 3 Tesni f. 2. (118 ) S. 2.. Se l'uno non
è, le coſe altre o diverſe dall'uno, non ſono altre. o diverſe, che per ragion
di ſe ſteſse.. Nelle coſe altre dall' uno o diverſe dall'uno, vi's include'
qual che altra coſa, per cui fieno altre, ma queſta coſa non pud ef ſer l'uno,
perchè per ipoteſi egli non v'è. Dunque, poiché non v'è, che l' uno, e l'altre
coſe, eſcluſo che altre coſe non fieno. altre per luno ne liegue che ſieno
altre per ſe. ftelse, COROL.. Dunque: per ſe ſteſse. ſono ciò che ſono tra se..,
S: 3 Se: l'uno non v'è, le coſe altre dall' uno ſono tali per una moltitudine
infinita. Non v'è che uno o i più, dunque le coſe altre o diverſe 1 dall’uno,
non potendo eſser altre che l'uno, il quale non v'è per ipoteſi, non ſaranno
altre che per i più, cioè per la mol: titudine; ma il più, o la moltitudine
eſsendo per le ſteſsa in finita '; le coſe. altre dall uno,. ſono alore per
una: moltitudine infinita.. COROLLAR. Qualunque mala dunque di loro appariſce
in molti-. tudine infinita, e ſe alcuno ſi prenderà ciò che menomilimo pare co.
me. Sogno, incontinente in vece di quello che pare uno, ſi fa innangi una
moltitudine infinita, e in vece di quella chemenomilimopar ve, apparirebbe
grandiſſimo già, ſe il pareggialli ad altre coſe in die Sparte da lui. Cosi:
parla Platone: fia prefa qualunque parte d'eſtenſione, el la è diviſibile in
due, ed inoi in due, e così all'infinito. Della di viſione di cui è capace il
tutto, ſono capaci reſpettivamente le parti, nè v'è particella si minima, che
le noi nell' ipotefi che non v'è uno, poteſſimo vedere con un microſcopio
miracolo fo,, non ci pareſse diviſa in una moltitudine infinita di parti, ma
tali che nell' iſtante ſteſso, che noi vedeſſimo la parte, la vedremmo
attualmente diviſa in altre parti infinite, e cosi all'in finito; non è che io
dir voglia, che vedremmo l'infinito at tuale, perchè non poſſiamo intenderlo,
non che vederlo, nè so come il Leibnizio abbia poruto concepir nella più minima
par 1 (119 ) parte di ciò che egli chiama 'materia, un numero attualmente
infinito di monadi"; biſogna prima provare, che noi concepia mo l'infinito
attuale -, ed indi che vi ſieno queſte monadi; ma ſe vi foſsero, il che io non
l' ammetto, che come principio di co gnizione, e non di natura, in eſse, come
l'eſprime il nome loro, v è un'unità, che è il fondamento di concepir nella
monade innumerabili proprietà; ma quì nell' eſtenlione Platonica, biſo gna
rappreſentarfi ogni parte deſsa ſeparata dall' uno; ' v'è in ciò contraddizione,
ma appunto Platone - la ſuppone per de dur dall'aſsurdo i, l'impoſſibilità di
ſeparar l' uno dall'ente. §. 4. Se non è l'uno in ogni maſsa apparente apparirà
il numero, e le proprietà dei numeri, l'eguale, il mag giore, il minore. Tolto
l' uno dalla maſsa, ci ſi fa come nel ſogno innanzi una moltitudine infinita,
in cui ſe ſi vuol ordinar colla mente la moltitudine, vi ſi trova il numero;
quindi il pari, e l' impari; il picciolo, il grande, il piccioliſſimo, il
grandiſſimo., compa rando tra loro le maſse, in cui s'è diviſa la maſsa
maggiore, e quindi l'eguale, perchè non ſi può paſsar dal maggiore al mino re
ſenza paſsar per l'eguale, ma queſti ſaranno tutti fantasmi d' egualità, di
maggiore, di minore, di pari, d'impari ec, come di numero, §. 5. Se non v'è l'
uno, ogni maſsa apparente avendo termine appa rente, riſpetto all' altra non ha
nè principio, nè mezzo, nè fine riſpetto a fe ftefsa. Si prenda alcuna delle
maſse apparenti coll intelligenza, in nanzi al principio, ſe le fa ſempre
innanzi altro principio, e dopo il fine, ſegue ſempre un altro fine, e nel
mezzo altre coſe ſem pre più interne del mezzo, e ſempre minori, perchè non ſi
può ricever in queſta alcun uno, non eſsendo l'uno. Annot. E ' da oſservarſi,
che qui Platone dice, prender alcu na coſa con l'intelligenza, cioè
aſtrattamente conliderarla í vi ag (120 ) aggiunge poi che potendoſi prender la
maſsa ſenza l' uno, cioè fenza far aftrazione dall'uno, ſi sbrana qualunque
coſa così pre ſa con l'intelligenza, che è quanto a dire con la mente fi* di
vide in più parti, e queſte in altre, e così all'infinito. S. 6. Se l'uno non è,
preſa qualunque maſſa a chi da lungi la mira groſſamente par uno, ma chi da
preffo l'in tende è un infinito in moltitudine. Non potendo noi nulla concepir
ſenza l' uno a prima viſta, e da lungi mirato ci par uno, ma da preſſo, e
acutamente vedendolo, tolto l'uno, ci rappreſenciamo infiniti. COROL. Se dunque
non v'è l'uno, ma l'altre coſe dall' uno, qualunque di eſſe è infinita, e con
termine ed uno, e molci. Se non v'è l'uno le altre coſe ci pareranno, e ſimili,
e diffi mili, e le ſteſſe, e le diverſe, e unire, e ſeparate, e moverſi,
fermarſi; nè potendo noi concepir le coſe ſenza l'uno le ve dremo, come
adombrate da lunge, e patir lo ſteſſo, ed eſſere fimiglianci, mada preſſo molte,
e diverſe, e per il fantasma della diverſità diverſe, e diflimiglianti tra loro
ſteſſe e pari mente ci pareranno le maſſe ſimili, e diffimili, e da loro ſteſ
ſe, e tra di sè, e le ſteſſe, e diverſe tra loro, e che tocchi no, e fieno
ſeparate da loro ſteſſe, e fi movano con tutti i mo ti, e ſi facciano, e
periſcano, e nell' una, e nell' altra manie e tutte le coſe sì fatte che li
poſſono dedurre dalle coſe 7 ra, già dette. S. 7. Ha dimoſtrato fin ora
Parmenide 3 che adiviene alle coſe ſe non è l' uno, cerca poi che fieno gli
altri che non ſon uno. 1 §. 8. (121 ) $. 8. Se non è l'uno, le alere coſe non
ſon uno, ne molti. Non ſono uno, perchè non v'è l' uno; non ſono molti perchè i
molti preſuppongono l'uno. ital 18. s. Se non v'è l'uno, non vi ſarà nè
opinione, nè fantasma, ne ſcienza dell'altre coſe. Le altre coſe non hanno
alcun concetto con niuna di quel le che non ſono, nè alcuna di quelle che non
ſono è appreſso ad alcuna dell'altre che ſono; dunque appreſſo ad altri non v'è
opinione, non v'è fantasma dell'ente, e quindi dell uno; ma ſe non v'è l'uno,
non effendo poſſibile il penſar a molte coſe fen za r uno, neppur èpoſſibile
che ſi penſi che fieno uno, o mol ti le coſe.. 10. Se non vè l' uno, le coſe
non fono nè fimili, nè diffi mili, nè le ſteſſe, nè diverſe, nè ſi toccano, ne
& ſeparano Non ſi poſſono concepir le coſe ſenza l'uno; dunque ſe non vi è
l'uno, non ſi poſſono concepire, nè ſimili, nè diffimili nè le fteffe, nè
diverſe, nè unite, nd ſeparate. COROL. Dunque ſe non v' è l' uno nulla v'è,
onde o ſia l' uno, o non fia, ed egli e l'altre coſe ancora ſono, e non ſo no
ad ogni modo riſpetto a fe ftelle, e tra di loro, e appajo no, e non appajono.
II. Riftringendo in poco tutto ciò che negli ultimi paragrafi s'è eſpoſto, egli
è manifefto, che l' uno efiendo inſeparabile dall' ente, ove non v'è più uno,
non v'è più d'ente, cioè v'è nul. la, ol'impoſſibile", da cui ſeguono
tutti i contraddittorj, qual Tomo II. q Pla (122 ) Platone ci eſpoſe per via di
nozioni affatto immaginarie; egli ne fa veder i uſo, e moſtra nel tempo ſteſſo,
quanto la fan taſia ſia diverſa dall' intelletto, poichè ella ci rappreſenta
una coſa, mentre la mente ragionando ce ne fa concepire un'altra. Si conclude
dunque, che Placone in queſto Dialogo non fi af fiffa che a moſtrar ſuſo
dell'aſtrazioni della mente, nell' inve ſtigazione dell' idee. 1. Con le
negazioni, come fece nel primo capo. 2. Con le analogie dell'altre idee
aſtratte; finalmente con le cognizioni dell' idee, del ſenſo, della fantaſia,
combinate a quelle della mente. LETTERA A SALIER Primo Cuſtode della Biblioteca
DEL RE CRISTIANISSIMO. On dubitate che io ſia mai per dimenticarmi di voi, co
N°me alcuni venuti ultimamente di Francia m' accufaro no da voſtra parte;
troppo m'è rimaſta impreſſa l'idea della bontà, e gentilezza voftra, troppo è
ſtato vivo il piacere e ſodo il profitto, che io ricavai dalle converſazioni
letterarie, che abbiamo fpeſſo avute inſieme, e tra l'altre su l'opere di
Platone; ce ne porgevano il motivo le ſaggie rifleſſioni, che leggevaci l'Ab
bate Fraguier, or su l'ironia di Socrate, or ful carattere de'So fifti, or su
la Repubblica, ed or su le Leggi, tutti oggetti delle belle diſſertazioni, che
egli diede alla voſtra Accademia. Solo la Iciò egli intatto il Parmenide, o non
aveſſe il tempo, o la voglia d' applicarſi a ſviluppare un Dialogo, che è il
più malagevole di Platone, o temeſſe dioffendere la ſoavità del ſuo genio con
l'idee troppo auftere, e filoſofiche, delle quali il Dialogo abbonda. Voi ben
ſapete, che per voſtro conſiglio m' applicai a leggerlo con attenzione fin
dall'anno 1725. e ne concepii quel fiſtema, di cui állor vi parlai. Venuto in
Italia, e diftratto da graviſſimi intereſſi dimeſtici, ne interruppi l'eſame
già cominciato, ſebbene negli intervalli io leggeſſi continuamente Platone; e
l'avrete ve duto nel Sogno del Globo di Venere, che il Signor Conte di Cai lus
v avrà forſe dimoſtrato in lingua Franceſe tradotto. Di tem po intempo io
parlai del Parmenide con gli amici, e mi fi fue gliò il deſiderio di compierne
il ſiſtema da me abbozzato all'occa lione del Platone di Dardi Bembo, che
ſtampali in Venezia, con P aggiunta delle note e degli argomenti del Serano
letteralmente tradotti. Dalla Differtazione preliminare ritrarrete l'idea
generale del la Filoſofia Eleatica così celebre per l'acurezza, e per la profon
dità de' Filoſofi, come la Jonica per la fodezza dell'eſperienze, e l'Ita (124
) 1 1 ľ Italica per la felice combinazione della Geometria, e dell'A ſtronomia
alla Fiſica. Non è difficile ſcoprire, che la metafiſica do Ariſtotele è tratta
in granparte in queſto Dialogo, in cui Plato ne abbandona quaſi l' artificio
poetico adoprato negli altri, e ſi ſpiega nella maniera più ſemplice, e più
preciſa. Nella prima Sef fione io v'oſſervai i tre fonti delle allurdità degli
argomenti me tafiſici; il principio di contraddizione, il progreſſo
all'infinito, el' annullazione fuppofta di qualche perfezione divina.
GliEleatici, che forſe gli inventarono, riconoſceano i limiti dell'intelligenza
uma na, e pur era queſta la minor parte della Dialectica loro, la qual vaga va
per tutti i lommi generi delle coſe. La quiſtione dell'origine e della natura
dell' idee v'è più che abbozzata, e la riſpoſta che so crare diede a Parmenide,
su la maggior difficolcà dell' idee, è la ſteſſa che uso il Padre Malebranchio
nel medeſimo caſo. Nell'al tre opere s' accuſa il Commentatore di dar troppo
ſpirito al ſuo Filoſofo; in queſta è cutto il contrario, poichè per quanto ſi
ſpieghi Platone, vi reſta fempre molto a medicare, e la compa razione del reſto
fa ſempre vergogna al commento. Ficino e Serano, che aſſegnarono al Dialogo un
grado di ſublimità Teologica non convenevole, l'hanno sfigurato, e colto agli
altri il profitto, che avrebbono potuto ricavare da una ſpe colazione così ben
dedocta e conforta nè punto inteſa dai due Commentatori, i quali preteſero che
in queſto Dialogo chiama to dell'idee, voleſſe Platone diſputare a pro delle
feparate, quan do egli manifeſtamente le rifiuto, tutto riducendo all' Ontolo
gia che è la più bella, e la più utile parte della metafiſica In molci errori
cadè miſeramente il Carcelio, per averla ab bandonata, eſpregiata; e non furono
dal Leibnizio, ed indi dal Wolfio ridotti al ſuo vero lume i dogmi filoſofici,
ſe non dopo che effi s' affaticarono a dimoſtrare, le nozioni Ontologiche eſſer
quelle alle quali convien avertire prima d' inoltrarſi nella combinazione
dell'idee, e quindineiſiſtemi. Tutti gli uomini pre veggono gli aſtratti ne'
concreci, pochi hanno la forza di ſepa rarli, pochiſſimi quella di ridurli in
teoria, ed è ſolo riſerva to a' ſommi Filoſofi il farne ſiſtema. Voi molto più
vedete in Platone, che io poſſa eſprimere; in canto vi prego a conſer varmi il
voſtro affetto, ed eſſer certo che il mio farà ſempre inviolabile. La scuola stoica è quella che nell'antichità ha sviluppato
con maggior rigore e profondità una riflessione semiotica. Tuttavia l'indagine
degli stoici si polarizza, com'era già av venuto per Aristotele, su due ambiti
fondamentalmente di stinti tra di loro: da una parte, una teoria del
linguaggio in senso stretto, che comporta anche un'analisi dei rapporti tra
linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza della terna significante, significato,
oggetto esterno); dal l'altra, una teoria del segno proposizionale, connessa
con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoica trovano
però un pun to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legame con il
lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica stoica. In
effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la speciale dialettica tra le
entità che condividono la proprietà di essere "corpi" (sOmata) e
quelle entità che sono invece corporee (asOmata). Più in dettaglio si può dire
che di solito l'ontologia stoica prende in considerazione solo quegli individui
che hanno la caratteristica di essere oggetti tridimensionali e di possedere
altresì una resistenza nel tem po. Questi, appunto, sono i corpi e solo essi
vengono consi derati esistenti. Ora, tanto nella teoria del linguaggio, quan
to in quella del segno proposizionale, accanto alle entità corporee vengono
prese in considerazione anche delle entità incorporee, quali i lekta. Per
il momento è invece necessario sgombrare il campo da due equivoci. Il primo
concerne il destino che tocca alle entità incorporee: esse non vengono relegate
semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma vengono investite di una esistenza
derivativa' (Long ). Il secondo possibile equivoco concerne la nozione stessa
di corpo. Contra riamente a quello che ci attenderemmo in relazione a una
nozione moderna di corpo, per gli stoici erano "corpi" an che le
qualità, in quanto venivano considerate come materia in un certo stato. Le
proprietà di un certo individuo costi tuiscono stati o modi del suo essere e,
per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza di questo individuo. Se
l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto disposizioni esistenti di
materia (Rist). Si profila, a questo punto, una ontologia che pone al suo
centro la nozione di "particolare": quest'ultimo viene carat
terizzato come un oggetto materiale, che ha una forma defi nita come
condizione necessaria e sufficiente della sua esi stenza. La forma, del resto,
è l'elemento caratteristico di un oggetto, che lo rende identificabile come
tale (Long). È proprio su questi presupposti antologici che si innesta e si
sviluppa la teoria semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del
significato e della verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei
"particolari", ed è con nesso a una teoria della percezione. Così,
si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im magini (phantasfa1)
prodotte nella mente dagli oggetti ester ni danno luogo a una percezione vera
se esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto,
le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si gnificato degli
stoici, come si sa che avevano una parte im portante anche nella teoria del
significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare come
fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un
"particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questo
caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par lando
intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il
suo riferimento. Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fondamentali
della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto che concerne un
conflitto di opinioni intorno alla verità. È importante sottolineare che per
gli stoici una teoria del la verità, cioè la ricerca delle basi per una
verifica delle pro posizioni, non può essere elaborata in maniera indipenden
te da una concezione della struttura del mondo e da ciò che può essere detto
intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto il vero e il falso
nella cosa significata (tò smainomenon), altri nella voce (phon), altri infine
nel movimento del pensiero. Della prima opinione sono stati i porta bandiera
gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa
significata (tò smainomenon), quella significante (tò smafnon), e
quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn chanon), e che, tra queste, la cosa
significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella
significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce
pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi percepiamo come coesistente
(paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, pur
ascoltando la voce che lo indica, non lo compren dono; infine,
ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione
in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e
ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor porea, cioè l'oggetto significato
o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso (Sext.
Emp., Adv. Math.) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici il fe
nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui to nei termini di
un triangolo. Si può osservare che compaiono i termini significante e significato
(come è dato trovare anche nella teoria moderna di Saussure), ma non quello di
segno. Come anche slmsin6menon (significato) lekt6n (detto) tmsm
lnon (significente) tynchAnon in Aristotele, la nozione di smeion
appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello strettamente
linguistico. Si può notare anche che l'esempio che viene dato qui è abbastanza
particolare, in quanto si tratta di un nome proprio. In secondo luogo, se da
una parte, come per Aristotele, i termini che individuano la significazione
sono tre e comprendono anche l'oggetto, che propriamente è esterno al
linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo parziale. Soltanto
il primo e il terzo termine, cioè la voce si gnificante e l'oggetto, possono
essere assimilati nei due triangoli. Un caso assolutamente a sé costituisce il
termine che si trova al vertice superiore del triangolo, chiamato prima ù·lJ_
main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua seconda denominazione
costituisce un termine peculiare della filosofia del linguaggio degli stoici e
rimanda a un concetto complesso e di grande interesse. Un primo aspetto della
sua peculiarità lo si può rilevare in un confronto con Aristotele. (oggetto esterno,
referente). Nella stessa posizione del triangolo della significazione Aristotele
pone delle entità psicologiche, che venivano considerate le medesime per tutti
gl’uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci dice Sesto nel passo riportato, ha
caratteri completamente diversi, in quanto i barbari, pur udendo i suoni e
vedendo l'oggetto, non lo comprendono . Come rileva Todorov, la differenza tra
le due nozioni consiste innanzitutto nel fatto che, mentre l'entità presa in
considerazione da Aristotele si situa a livello della mente dei locutori,
quella considerata dagli stoici si situa direttamente al livello del linguaggio.
Todorov interpreta il lekt6n come la capacità del primo elemento di designare
il terzo. Tale interpretazione poggia anche sul fatto che l'esempio dato è un
nome proprio, che ha una capacità di de signazione come gl’altri nomi, ma è
molto controverso se abbia un *senso*. La risposta che di solito si dà a questo
interrogativo è negativa. I barbari odono sicuramente la sequenza di suoni /dione/
e vedono Dione, ma sono incapaci di connettere il suono con il suo oggetto di
riferimento. Comprendere, dunque, come avviene appunto nel caso dei Greci,
consiste proprio nel percepire la connessione tra la parola che viene pronunciata
e l'oggetto cui si riferisce. Anche Long identifica il lekt6n con tale
connessione, ma nel senso che esso si configura come l'affermazione che un
enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in questo caso, la traduzione
più propria di lekt6n è "ciò che è detto", in quanto tale espressione
copre sia la nozione di giudizio che quella di stato di cose significato da una
parola o da una serie di parole. L'idea che il lekton si può configurare come una
affermazione intorno all’oggetto emerge da una testimonianza di Seneca
(Epistulae morales), in cui viene delineato uno schema triadico della
significazione analogo a quello di Sesto, ma con una proposizione – “Cato
ambulat” -- laddove Sesto propone solo un nome (“Dione”). Seneca invita a
distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Catone, che è un oggetto
materiale, e l'asserzione intorno a esso, che è un incorporale. Tale asserzione
è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone tre diverse
traduzioni latine: “enuntiatum,” “effatum,” e “dictum.” Dato che l'esempio
proposto da Seneca è una proposizione, risulta più agevole, rispetto
ali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato
"vero" o "falso".4 nfatti solo i lekta che costituiscono
una proposizione completa possono essere veri o falsi. Nel modello
aristotelico della significazione, una espressione e un simbolo di uno stato
psichico (pathmata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo, non
viene operata una chiara distinzione tra la nozione di significato e quella di
pensiero. Tale concezione ricompare del resto nella nota teoria di Ogden e Richards,
i quali disegnano un triangolo semiotico in cui figura al vertice superiore la
nozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è la concezione
proposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di
Diogene, si ricava una nozione di significato nettamente distinto dal pensiero,
anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto.
“Gli stoici affermano che il lekton è ciò che sussiste in conformità con una
rappresentazione razionale (logike phantasia) e che una rappresentazione
razionale è quella secondo cui il rappresentato (phantasthén) può essere
espresso in parole (Sext. Emp., Adv. Math.). In termini del tutto analoghi si
esprime Diogene (Vitae), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da entrambi
i passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione netta
tra il lekton, che rappresentano il livello del significato, e la rappresentazione
razionalie (logike phantasma), che possiamo definire come delle forme di atti
vità intellettiva o dei pensieri. Quest'ultime entità sono peculiari della
specie umana e possono, ali'occorrenza, essere espresse in parole -- a questo
infatti si riferisce l'aggettivo, “logike”. Ma, sempre dai due passi, si può
ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono
messi in relazione. Long cosi commenta il passo di Sesto: "I take this
difficult passage to mean that the lekton is defined as the objective content
of acts of thinking (noesis)" e aggiunge anche "or, what comes to
the same thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di
approfondire il senso di questa seconda asserzione di Long, soffermiamoci
sulla prima. Dunque la relazione che il lekton instaura con l'attività di
pensiero è tale per cui esso si configura come contenuto o risultato di tale
attività. Ma questa nuova relazione, che ve niamo scoprendo attraverso le
testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo rispetto a quanto
lo stesso Sesto dice altrove (Adv.Math.), quando ha messo in relazione il
lekton con l'espressione significante (cioè con il smainon). In effetti, se il
lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in conformità con una
rappresentazione razionale, è evidente che l'accento appare spostato dal
precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto con l'attività del
pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente contraddizione o un falso
dilemma, ha diviso sia le testimonianze degl’esegeti antichi sia le
interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici. Come mette bene in
evidenza Mignucci, il lekton, essendo incorporeo, non può essere disgiunti da
qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo da supporto ad essi e che
permetta la loro esprimibilità. Il proble ma diviene allora quello di
stabilire se a fare da supporto a un lekton siano: un suono della voce; o l'attività
della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto opta per la prima; la
seconda, come pure la definizione di Diogene, per la seconda. Ugualmente, tra
gl’interpreti moderni, Mates risponde che è la parola a fare da supporto al
lekton. Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo,
questo è un falso dilemma, non resolubile tuttavia filologicamente, in quanto
nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascuno
dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un duplice
presupposto che sembra agire nella teoria stoica. Da un lato il verificarsi di
discorsi significativi rimanda a un'attività intellettuale, in assenza della
quale non è possibile che si diano i significati. Dall'altra, il risultato
dell'attività intellettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi per
esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le conseguenze dal
fatto che un lekton è definito da una parte come *contenuto* di una
rappresentazioni razionale e dali'altra come il significato di una parola:
conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra
i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere significati
attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiunti
l'uno dall'altro. A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione di
Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il contenuto
oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la stessa
cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è dato
dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la
phantasia ha un ruolo assolutamente primario, in quanto non è possibile, senza
di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della conoscenza, quali
l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e l'attività di pensiero
(nosis). Infatti la rappresentazione viene per prima, poi il pensiero
(dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime in parole (/6g01) ciò
che esperimenta come il risultato della rappresentazione. Il passo di Diogene è importante perché
ripropone la nozione, già platonica, del pensiero come discorso interno. Tutto
ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla considerazione di
un passo di Diogene Laerzio (Vitae) in cui viene detto che il criterio di veri-
.. In questo una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli
della comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano
basati sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella
teoria linguistica del significato.Il lekton, che abbiamo finora incontrato
come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una nozione
fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un fattore
di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici sono
anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa sì
che, come sottolinea Eco, nella se fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura
di diritto tra la 0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, per
ché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni
debbono organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resa
possibile dalla sintassi linguistica. Occorre tener presente che gli stoici
non dicono ancora che le parole sono segni (-- cf. H. P. Grice – “Not all
things that mean are signs. Words are not”) -- sarà Agostino il pri (110 a
fare una simile asserzione -- e rimane, del resto, una differenza lessicale tra
la coppia smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano
dei lekta ci illumina sul ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il
segno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl
maniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che
ci viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno,
dicono che è una proposizione (axioma) che è l'antecedente (prokathegoumenon)
in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del CONSEQUENTE
(ekkalyptikòn tou ligontos). E dicono che la proposizione è un lekt6n completo
in se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e
finisce ] Riprenderemo più avanti le varie problematiche che vengono
presentate in questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso si
definisce il segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che si
pone in rapporto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra
proposizione, secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come per
Aristotele, l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenza
che esso permette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella
epistemica, e il segno appartiene a un campo che è distinto sia da quello
logico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una
proposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma SOLO
QUELLA PROPOSIZIONE CHE PERMETTE DI SCOPRIRE IL CONSEGUENTE – cioè, che
permette l'accesso a una nuova conoscenza. Va comunque notato che, se l'ottica
con cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di Aristotele,
assolutamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È normallnente
accettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli stoici
introducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga spostata
dalla so stanza degli eventi (Todorov), per quanto concerne il punto di vista
antologico, e dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione,
per quanto concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si
poteva notare un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come
segni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gl’avvenimenti
espressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la
differenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e
finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "ESSA
HA LATTE" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "ESSA
CONCEPTIO" (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh.). Essi chiamano antecedente la prima
proposizione via fornisce alcuni esempi di segno -- come quello della
Retorica. "Se essa ha latte, essa ha partorito" -- in cui vengono
presi in considerazione eventi e non sostanze. Ma nella filosofia aristotelica
la teoria del segno ha una parte marginale. Il segno viene fatto rientrare nel
procedimento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene
confinato nel campo dei procedimenti retorico-dialettici, se non è un
tekmirion, cioè, un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul
sillogismo perfetto, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle scuole
postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dalla
retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla
scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gl’epicurei
vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò
che è ignoto. Preti sostiene che, a proposito della teoria del segno, tra
Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un anello di congiunzione,
rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di Democrito e uno dei
maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera, il Tripo de, 1 8 è
possibile cogliere i punti essenziali di questo passag gio . Per Nausifane,
infatti , il discorso filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e
quello retorico (basato sull'entimema) presentano in realtà la stessa
struttura logica. In entrambi i casi è necessario distinguere tra la CONSEQUENZA
o conclusione (ak6/outhon), la
"premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle
premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei
due tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti
(hyparchonta) per giungere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metodo
del passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenzialità",
di implicazione o implicitazione, comune appunto a filosofia e retorica. Ora,
come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensione
del le cose oscure (adla) per mezzo del segno come relazione di akolouthia
costituisce proprio il nocciolo della dottrina de gli stoici -- come pure di
tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggio il nome
di "dogmatici". Non solo, ma come prova della centralità della
semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno: fatto che
testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che
conferma la tendenza delle scuole post-aristoteliche a ridurre o trasformare
il sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I tipi di segno, comune e proprio. Nella semiotica stoica si
registra la scomparsa della di stinzione terminologica tra tekmrion e smeion:
il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi nati
smeia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab bandono del
sillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale
opposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra
"segno comune" (koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion).
Tale distinzione non era specificamente stoica, ma appartenente a una koini
filosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro
verso in contrasto. Una definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se
gno si trova nel trattato semiotico di Filodemo. Un segno è comune (koin6n) per
nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non
percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che
crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta
usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi
risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è
necessario (ananka stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che
noi di ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi dente
di cui è segno (Philodemus, De signis)
C'è una convergenza nelle scuole postaristoteliche nel ri tenere il segno
comune come non valido e nell'accettare in vece unicamente il segno proprio.
Dalla definizione di Filodemo si ricava che una differenza peculiare consiste
nel ca rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co me
"necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello
comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno
necessario di Aristotele che ri chiedeva una connessione necessaria con
l'oggetto a cui rin viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel
segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa rebbe segno, ma può
anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza
di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri
no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda
e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari stotele si poteva inferire dal
pallore di una donna il suo es sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla
bontà di Pit taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se
gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una
conclusione interessante: men tre Aristotele, pur negando validità scientifica
ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi
stemologicamente più basso, come quello della retorica, do minio delPopinione,
la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita
delle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B)
"rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il
suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto
riprende la di stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno
preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del
segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra
segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in due
maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno
quello che sembra rive lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare
segno anche ciò che serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in sieme
con esso. In maniera propria si dice segno quello che è in dicativo di una
cosa avvolta nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente,
e in maniera contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice
distinzione, in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co mune e
segno proprio, dichiara di voler trattare solo di que st'ultimo (ibidem, 143);
e poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono
oscure, egli propo ne di distinguere preliminarmente le cose in
"manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente
quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le
cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla
conoscenza in maniera diretta; co me esempio Sesto porta "il fatto che è
giorno e che io sto di scorrendo"23 quando io faccio realmente queste
cose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han no una natura
tale da non arrivare alla nostra comprensio ne (kata/psis), come a esempio
"se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli
di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose
oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta
divengono, per certe cir costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio
è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene.
Atene, visibile per sua natura, diviene tempora neamente invisibile a causa
della distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una
natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen sabili (noto1).26
Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si
pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in
quanto le cose manifeste ven gono comprese in maniera non mediata e le cose
oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio
attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle
ultime due categorie. Ma i tipi di segno sono diversi per ciascuna di
esse. Le cose tempora neamente oscure si colgono attraverso i segni rammemora
tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni indicativi. Ecco la
definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondo costoro [i dogmatici],
alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri indicativi (endeiktika). Chia
mano segno rammemorativo quello che, osservato insieme con la cosa designata in
maniera evidente, appena esso si presenta, se quella è avvolta nell'oscurità,
ci conduce a ricordare la cosa che è stata osservata insieme a tal segno e che
non si presenta ora in maniera evidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È
invece indicativo, come dicono, quel segno che, non osservato insieme con la
cosa designata in maniera evidente, pure, per la propria natura e costituzione,
segnala ciò di cui è segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni
dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp. Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo
è, in sostanza, frutto di un'asso ciazione costante tra cose comunemente
osservate in con nessione empirica. Sembra, tra l'altro, che gli esempi che
Sesto sceglie per illustrare questo tipo si distribuiscano se condo la
tripartizione28 contemporaneità/anteriorità/po steriorità tra il segno e la
cosa indicata: nel caso di "fu mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in
"cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il
fatto indicato è anterio re; in "ferita al cuore-morte", il segno
rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del
precedente, non è su scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è
segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno
sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono
di risalire all'"anima", o "il su dore" che rimanda ai
"pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei
segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi,
che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei
"medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente
schema la classifi cazione di Sesto: cose manifeste oscure non
danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno
luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la
distinzione riportata da Se sto tra segno rammemorativo e segno indicativo
solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne
trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso
Sesto. Inoltre, tale distinzione appa re addirittura in contrasto con
l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento
logico-for male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto
importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile vante dal punto di
vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra
segno comune e segno proprio, secondo la testimonian za di Filodemo. È, tra
l'altro, il carattere necessario del se gno proprio che dimostra la coerenza
di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un
segno "ne cessario", come un'analisi più dettagliata della sua
struttura ci permetterà di vedere. Ritornando alla definizione stoìca di segno
che abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima
di tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa
"connesso" o "connessione". Il suo significato logico ci
viene chiarito da Diogene: si tratta dell'asserto temporaneamente
condizionale del tipo "Se p, q", in cui a una prima proposizione
consegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è luce". La
seconda cosa da prendere in considerazione è la nozione di condizionale valido
(hyghiés, "sano", igienico). Da un passo di Sesto, dove se ne trova
la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla moderna INTERPRETAZIONE
VER-FUNZIONALE di "Se p, q". Infatti la validità o in validità
dell'asserto condizionale "Se p, q" dipende dal valore di verità dell’antecedente
e del conseguente di esso.Sesto, in due passi paralleli, camente quel
condizionale che non comincia dal vero e finisce nel falso e fcrnisce una
tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica
contemporanea preve de per l'implicazione materiale: p q ·se p, q•
valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto
accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a proposito del criterio per
giudicare un condizionale valido. Esso corrisponde a ciò che è stato definito
dai Kneale il dibattito sulla natura dei condizionali, che anima le discussioni
di logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla
nozione di se- definisce come valido uni valido gno come antecedente
(prokathegoumenon) in un condizionale valido. In effetti, come fa rilevare lo
stesso Sesto, i tipi di condizionale valido sono TRE nella tavola dei valori
di verità corrispondente all'IMPLICAZIONE MATERIALE: 1) V V; 2) F F, e 3) F V.
INVALIDO: V F. Il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del
segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo
in casi particolari. Ora, in effetti, un segno non può non essere espresso da
una proposizione vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui esso
rimanda. Così SONO ESCLUSI sono il secondo (F F) e il terzo caso (F V), in
quanto hanno un antecedente falso. Dunque, l'unica possibilità è relativa al PRIMO
tipo di condizionale – cioè, quello che comincia dal vero e finisce nel vero. Ma
c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al carattere che il segno
deve avere di essere *rivelatore* (enkalyp tik6n) del conseguente. In effetti,
un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento in cui
si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è formato da
due proposizioni entrambe vere.Tuttavia, secondo Sesto, non si realizzano in
questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto entrambe le
proposizioni rimanno a FATTI DI PER SÉ EVIDENTI (cf. la caverna di Platone). Il
primo termine del condizionale non è *rivelatore* del secondo – cf. Grice: “Black
clouds mean rain” – yes). In effetti, per comprendere la vera natura del segno
bisogna passare dal piano strettamente logico a uno più generalmente
epistemologico, epistemico, o cognoscitivo, doxastico incluso. Il segno, per
gli stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista
logico, individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve
anche possedere il carattere di dispositivo che permette di accrescere la conoscenza.
Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si appoggia su un livello
logico, ma si inquadra in un'ottica conoscitiva. Gli esempi di carattere
medico (Grice: “Those spots didn’t mean anything to me, but to the doctor, they
meant measles”) denunciano l'origine di quest'ottica. In generale il segno
deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso,
come "egli ha sputato cartilagine bronchiale" – or Grice’s “Spots” --
a una conoscenza di molto più difficile accesso, come "egli ha una piaga
nel polmone" (“measles – and Dahl ignored it. A tragedy – and part of a
father’s responsibility and liability to know what measles spots mean””)
Tuttavia, ciò che la teoria del segno acquisisce, passando dalle mani dei
medici a quella dei filosofi, è una solida struttura dal punto di vista
logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette o non
igieniche – malatta. Quanto ampio e
difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano
logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo
dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla natura dei condizionali
(Kneale). Scrive infatti Sesto Empirico. Tutti quanti i dialettici sono
generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando il
suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come e
quando esso segua, e propongono criteri rivali (Adv. Math.). Riferendosi a
questo dibattito, Sesto elenca quattro criteri che sono proposti per stabilire
la validità di un as serto condizionale: quello di FILONE MEGARICO (H. P.
GRICE); quello di Diodoro Crono; quello della srsnartsis attribuibile a
Crisippo; e quello della émphasis. Sulla disputa si può tuttavia fare
un'osservazione generale preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa
notare Hurst, è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è
riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una
definizione di questa relazione di consequenzialità (akolouthla) in termini
formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici
si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può
possedere proprietà autonome, essendo dotato di significato, non è stato preso
in considerazione se non nella misura in cui poteva essere provato che esso
coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due
livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente sono in grado di
elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione
logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a
comprendere meglio questo modo di procedere un paragone con i metodi della
logica contemporanea. I logici contemporanei, infatti, sono in genere interes
sati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi possono stabilire
in simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione sia identica a
quella che è ampiamente conosciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa
come quella di una espressione di implicitazione ("following", “yielding”
-- Hurst). A esempio Peirce e Russell erano interessati alle proprietà della
implicazione materiale indipendentemente dal fatto che essa riproducesse il
significato "usuale" di "implica" ("implies", o
di “se”). Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida
senza sostenere che l’im plicazione rigida rappresenti il significato di
"implica" (cf. H. P. GRICE citato da P. F. STRAWSON, Introduction to
Logical Theory – e P. F. STRAWSON, Introduction to “Philosophical Logic” on
Quine on the meaning of ‘if’. --. Questa differenza nel modo di procedere tra
antichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formal. Mmentre i logici
antichi sono interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a
fornire due definizioni: quella di "implicazione materiale" e quella
di "implicazione rigida". Filone è il primo esponente della scuola
megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero-funzionale
dell'espressione "Se p, q". Secondo Filone – citato da Grice nella
William James IV, ‘Condizionali indicativi’ --, un'espressione condizionale è
valida o o vera se, e solo se, non comincia con il vero e finisce con il
falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà del criterio di
consequenzialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro del
l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il condizionale è
valido, corrispondente ai tre esempi seguenti: "Se è giorno, c'è luce" (VV); "Se
la terra vola, la terra ha le ali" (FF); e "Se la terra vola, la
terra esiste" (FV). Come sottolineano i Kneale, è probabile che Filone ha
in mente l'uso dell'espressione "Se p, q" nel ragionamento e che vuole
attirare l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale
con il suo antecedente implicita sempre il conseguente. L'interpretazione
proposta da Filone è la più debole che soddisfi tale requisito. Diodoro
Crono è il maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo
può essere forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare
Filone, que st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst – “wheras
H. P. Grice had no qualm about criticising his own tutee!”). La critica che
Diodoro muove all'interpretazione filoniana -- verso la sua diodoreana -- insiste
proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degl’esempi
di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo
tt , possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio,
l'asserto "SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” è considerato VERO da Filone
se si dessero le condizioni , in un tempo t
, per cui è giorno e io sto conversando. Diodoro invece crede dimostrare
che esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che permetta
di dire se esso cada o no sotto la DEFINIZIONE di Filone. Infatti, esso – “SE É
GIORNO, IO STO CONVERSANDO” può essere pronunciato anche in un tempo t2, quando
è giorno -- MA io rimango silenzioso. In questo caso esso avrebbe la forma – o
interpretazione -- invalida (falsa) VF. Per ovviare a questo inconveniente,
Diodoro elabora una concezione secondo la quale un condizionale è valido quando
"non ammise, né ammette di cominciare con il vero e finire con il
falso". L'esempio che egli dà è "Se non esistono gl’elementi atomici
delle cose, esistono gl’elementi atomici delle cose", che, secondo
Diodoro, ha l'antecedente sempre falso e il conseguente semprevero: ciò basterà
a escludere l'evenienza di un antecedente vero con un conseguente falso, unico
caso in cui il condizionale sarebbe non valido La terza concezione di
condizionale valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi
moderni (Mates; Bochenski), corrisponde alla implicazione rigida di Lewis o
comunque a una forma di implicazione necessaria (Kneale; Preti). In maniera concorde
con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa con cezione viene riportata
da Diogene (Vitae). ÈVERO un condizionale nel quale il contraddittorio
(antikefmenon) del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'antecedente,
come a esempio “se è giorno, c'è luce”. Il nome del sostenitore di questa
concezione non ci è stato lasciato da chi la riferisce. Ma vi sono prove che
essa appartenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller). La nozione di
"incompatibilità", messa in scena da que sta definizione, è molto
interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita. Hurst,
commentando il passo, tende a mostrare che la relazione di incompatibilità e
anche, più in generale, quella di "consequenzialità" (following,
yielding), non possono essere espresse in termini estensionali, cioè mediante
relazioni esterne, che sussistono tra le proposizioni in virtù di pro prietà
che esse avrebbero al di fuori della relazione. Al contrario, è necessario
ricorrere alle relazioni interne che sussi stono in virtù del loro
significato. Può essere interessante confrontare questa conclusione di Hurst
con le osservazioni di Preti, il quale so stiene che l'esempio di Sesto, dato
a proposito della “synartsis” (connectio”) sembra alludere a qualcosa di
ancora più forte della strict implication di Lewis, alla vera e propria
tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notizie circa la
dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. In effetti in
quel testo è presentato come genuinamente stoico il metodo inferenziale della contrapposizione
(ana skeu), che appare analogo a quello della synartsis. Infatti, l'inferenza
per contrapposizione è quella in cui la negazione del conseguente comporta la
negazione del l'antecedente. Essa si configura in maniera tale che la verità
del condizionale "Se il primo, il secondo" è garantita dalla verità
del corrispondente condizionale "Se non il secondo, non il primo". Preti
sottolinea le affinità tra la synartsis (secondo cui la negazione del
conseguente è incompatibile con l'antecedente) e il metodo di contrapposizione
(anaskeu) (in cui la negazione del conseguente comporta la negazione
dell'antecedente), e in entrambi i casi chiama in causa la implicazione rigida
di Lewis, con la precisazione che gli esempi forniti da Filodemo sembrano
indicare un rapporto più forte, che tende a risolvere l'inferenza o in una
forma di tautologia o in una forma di L-implicazione. Nel passaggio dalla
teoria aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo visto, uno
spostamento di accento dai termini su cui si costruiscono le proposizioni
categori che nel sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni nell'as serto
condizionale. Contemporaneamente si registra un'accentuazione del carattere,
già presente in Aristotele, di consequenzialità necessaria che la relazione
segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a quello non noto
deve presentare un carattere cogente. – cfr. Hobbes on ‘consequence’ –
Computatio – e Grice, “Meaning Revisited” – x, y – consequence --. Ci sono due
ragioni di questo aspetto necessaristico della semiotica stoica, una legata
ali'analisi della natura della ra gione e dei suoi processi, l'altra
riferibile alla configurazio ne della metafisica stoica (Lacy). Per il primo
punto è Sesto43 stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si
differenzia dagli animali per la sua capacità di discorso interno (logos
endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di passare
dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di consequenzialità
(akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di segno, che ha appunto
la forma: "Se questo, quest'altro". Così l'esistenza del segno
si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al
secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse
costituito da una catena ininter rotta di eventi, legati tra loro da rapporti
di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto
dipendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la
consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella
stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli
eventi. L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e
sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col locata sulla
relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause
ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa
accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi
nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle ga certi
avvenimenti presenti e altri che avverranno.4 Ora, per quanto la razionalità
degl’uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei,
tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che
lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"), mentre ai primi è
preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi
caratteristici delle cause ("signa causarum et notas") degli eventi e
su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av
verrebbe per gli dei, i condizionali degl’uomini intorno al futuro mancano di
necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello
della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli cazione necessaria. Ma
questa, che è una caratteristica irri nunciabile, non è tuttavia sufficiente a
definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è
luce» il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto
entrambe le cose sono evidenti e quindi l'inferenza non può provare nulla. La
verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto
nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della
caratteristica di permettere di scoprire una nuova conoscenza. Il segno
stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello
deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per
collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore
dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presente che l'essenza del
segno è l'inferenza che va dalle cose ma nifeste a quelle non percepite. Ma a
questo punto sembra delinearsi nella semiotica stoi ca un problema
difficilmente resolubile: come è possibile che l'inferenza segnica sia
analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui parla Preti) e
contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di un fatto
nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti anche la
dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un segno):-
sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque , il secondo . Qui
l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre sentato dallo scorrere del
sudore al fatto nascosto che esi stano pori nella pelle. La presenza dei pori
è un fatto oscuro per natura. Infatti, essi possono soltanto essere conosciuti
dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non era
ancora stato inventato. Sesto aggiunge, come argomento rafforzativo delle
premesse nel ragionamento precedente, un'ulteriore argomentazione: - compatto
e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. Pertanto non è possibile
che il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questa
argomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ)
applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condizionale: p
(se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono pori
intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie del
corpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo applichiamo
il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e
non poroso) :>p (un liquido non vi può scorrere attraverso), espressione
che è alla base della premessa del secondo ragionamento di Sesto. Essa
permette di sviluppare un ragionamento corrispondente al MODVS TOLLENS, che
convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli
stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la
contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a
priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno
produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la
relazione anche nel caso di verità fattuali, poiché parte dall'assunzione che
il fatto oscuro per natura sia legato a quello evidente in modo tale che ciò
che è evi dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse
quale viene rivelato essere. Antonio Schinella Conti. Antonio Conti.
Keywords: Conti’s French letters – Conti’s Scritti Filosofici, Dialoghi
Filosofichi, about whether corpori celesti are inhabited -- l’infinito,
self-referential, recursion, anti-sneak, regress, infinite regress in the
analysis of communication, calcolo finitesimale, calcolo infinitesimale, Enea
stoico, Ottavio Stoico, Cicerone stoico, semiotica stoica – allegoria
dell’Eneide, scudo di Enea, Il Parmenide di Platone – assiomatico dell’essere –
L’essere e. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Conti: l’implicatura
conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Miniato).
Filosofo italiano. Grice: “Conti is a good one – a historian of philosophy, or
rather a philosophical historian – I never know! – his chapter on the Greek
embassy that brought philosophy to Rome is stimulating!” Studia a Siena e Pisa.
Si laurea a Lucca. Insegna a Lucca, Pisa, Firenze. Filosofo del bello, che
define stare fra il vero e il buono, e li collega come il mezzo tra il
principio e fine. Altre opere: “Cose di storia e d'arte; Evidenza, amore e
fede, o i criteri della filosofia, discorsi e dialoghi. Famiglia, patria, Dio,
o i tre amori”; “I discorsi del tempo in un viaggio in Italia”. In ogni città
coglie occasione per un insegnamento civile; a Venezia isulla religione, a
Milano sullo stato, ecc.; “Il bello nel vero, o estetica”; “Il buono nel vero,
o morale e diritto naturale”. “Illustrazione delle sculture e dei mosaici sulla
facciata del Duomo di Firenze”; “Il vero nell'ordine, o ontologia e logica”; “L'armonia
delle cose, o antropologia”. Cerca di costruire una metafisica fondata sulla
relazione, l'armonia, l'ordine; Studia l’educazione religiosa, civile e private;
“Letteratura e patria, collana di ricordi nazionali”; “Nuovi discorsi del
tempo, o famiglia, Patria, Dio Religione ed arte, collana di ricordi
nazionali”; “Storia della filosofia”, molto accreditata. “Sveglie dell'anima.
Il Messia redentore vaticinato, uomo dei dolori, re della gloria. La mia corona
del rosario. Ai figli del popolo, consigli. Giovanni Duprè o Dell'arte, 2
dialoghi. Evidenza, amore e fede o i criteri della filosofia” -- lezioni e
dialoghi sulla filosofia cristiana; lavoro scientifico e popolare, e discorsi
sulla storia della filosofia, accordo della filosofia con la tradizione;
discussione sulla filosofia e la fede. La filosofia di Dante. “Il bello qual
mezzo”. Dizionario Biografico degli Italiani. Armonie ideali nell'opere belle. L'artista
deve tendere al più alto se gno ideale. Ordine dell'idea chiaro che include
giudizj e ragionamenti. Dialettica dell'arte, o dialettica rappre sentativa. L'idea
è universale, talchè i particolari dell'arte non debbono mai ecclissare o
escludere l'universalità del concetto; perché, altrimenti, arte bella non c'è’ L’ordine
ideale porge alle immagini formosità. eletta, che manifestasi o per cose
straordinarie, o per l'eccellenza de'modi, o per tutto ciò ad un tempo, ma
ſuggendo le ampollosità. L'ordine ideale
si determina ne sezni; onde s' origina l'armonia de'con trapposti. Armonia
dell'ordine ideale con la natura, legge di corrispondenza e di contrapposto
anche in ció. Armonia col divino per
natura.Il gusto del Bello. Regola prossima è il gusto. Sentimento di verità, di
bellezza, e di bene. Che cosa è il gusto? Ana logie del gusto intellettivo col
gusto sensitivo. Urficj del gusto; sanità e infermità; abiti buoni, o vizinsi; S'esamina
gli ufficj del gusto intellettivo della bellezza. Effetto del gusto. Il gusto
non può mancare a ' veri artisti, e avvertenze io giudicare il gusto loro dall'
opere. Quattro gradi del gusto. Aiuto che il gusto del bello riceve dal
sentimento logico e dalla morale coscienza. Stato di sanità o di malattia, cioè
buona o rea edu cazione. E empj. Stato
d' abiti buoni o viziosi. Esempj. Conclusione. Come si può guarire o correggere
il gusto falso. Le leggi del gusto. Che cosa presuppone l'esame ch'uno faccia
del proprio gusto, 3. affinchè possa regolarci un gusto buono e rettificarsi un
gusto cattivo, 4. e primiera mente il derivato da falsa educazione. 5. Studio
perciò di buoni esemplari. 6. Esame degli abiti viziosi, e quanto alla verità –
7. e quanto a ' fini dell'arte. - 8. Il gusto deve mostrarci il modo e il
quando dell'operare. Elevazione del sentimento. 10. Verosimiglianza. Esempj.
Equazione di tutti gli elementi dell'arte con l'idea. Gusto de' limiti. I
limiti massi. mamente ne segni esteriori.
I Pedanti e i Licenziosi. Argomento. Che sieno i Pedanti e i Licenziosi.
Significato più generale di questi vocaboli. 4. Si gnificato più proprio e
stretto. Errori contrarj e vizj comuni. La pedanteria va fuori di natura. 7.
Esem pj. 8. Va fuor di natura la licenza. 9. Esempj. Non comprendono
l'universalità i Pedanti. Esempj. 12. Nė la comprendono Licenziosi. 13. Esempj.
Non hanno vera nobiltà i Pedanti, 15. e la licenza è ignobilità. Talchè gli uni
e gli altri non consegui scono fama durevole. Estro. Leggi dell'ordine
immaginato.. 1. Argomento. Immaginazione. Rinnovazione di fan tasmi, 3. e
innovazione o invenzione. 4. Queste per tre modi, spontaneo. pensato, meditato.Legge
univer sale della fantasia e sede di quella nell'intelletto. 6. Gradi
dell'invenzione immaginativa. Primo; mutamento di alcune cose percepite.Secondo;
immagini di cose reali non percepite. Terzo; novità d'imma.ini fra percezioni
oscure. 8. Quarto; un ordine di verosimiglianze relativo a un or dine di cose
reali determinato. 9. Quinto; relativo a no tizie vaghe. 10. Sesto; relativo ad
astratte generalità. 11. Settimo; fantasmi di cose semplici, spirituali,
divine. 12. Ultimo; armonia universale di fantasmi e loro elevazione. 13.
Perché l'estro abbia tal nome. Origini sue misteriose. 15. Estro fallace o
vuoto, e vero o fecondo. Conclusione. Armonia
interna delle Immagini. Argomento. Sceltezza e vita delle immagini, Scel. tezza
rispetto all'arti diverse; 3. e rispetto ai componi menti speciali d'un' arte;
e rispetto agli argomenti. Sceltezza per la qualità e per la quantità. 5. Vita
delle immagini, 6. come le figure d'affetto nell'arte del dire. Unione del
sensibile con l'ideale. Allegoria, e 8. allegorie speciali, e vizj
dell'allegoria. 10. L'im magine deve ritrarre l'idea intera; e quindi bisogna
imma ginar l'opera innanzi di farla e che rispondano i par ticolari al lutto e
l'e - trinseco venga dall'intrinseco, e gli accessorj dal principale. 13.
Spiritualità delle im magini. 14. e vizj opposti. 15. Relazione specificata
delle immagini co' segni. Armonie di verosimiglianza in generale. Argomento e
legge universale di corrispondenza e di con trapposto, e come si rifletta nelle
immagini dell'arte. 2. Questa legge apparisce nella qualità, quantità, tempo e
spa zio. 3. Relazioni. 4. Esempj antichi di letteratura. 5. Esempj dell'éra
nostra, - 6. Drammatica e lirica 7. Figure di confronto ne'linguaggi. – 8.
Esempi del disegno e della musica. 9. Analogia del corporeo e dello spiritua le.
10. Loro diversità; – 11. e contrapposto nella na tura e nell'arte. 12.
Verosimile immaginoso, che differi sce dal reale, benchè gli somigli. 13.
Quello trascende. Poesia e architettura. 14. Scultura, pittura, musica, e arti
ausiliari. Com'accade ciò. Armonie con la natura corporea. 1. Argomento. Legge
naturale di simetria. 5. Vi sta e udito porgono immediati all'arte bella i
sensibili rap presentati, Il lalto remotamente, il gusto e l'odorato
indirettamente forniscono all'arte cose immaginabili, salvo la poesia ch'è
universale. Legge naturale di simetria
ne ' visibili aspetti, - 6. e ne' suoni. - 7. Legge corrispon dente nell'arte
bella. 8. Simetria di quantità nel grado. Simetria di quantità nel numero de'
suoni, delle cose visibili. 11. Simetria naturale dello spazio. 12. Simetria
nell'arti, quanto a’limiti. 13. Simetria di limiti anche nell'unione di più
cose. Simetria di luo ghi. 15. Simetria di tempo misuratore, e di tempo rap
presentato. - Armonie con la natura spirituale. Gli affetti. Somiglianza loro;
3. varietà; 4. contrapposto. 5. Personificazione immaginosa dell'unmo, 6. e
della socievolezza; - 7. che dall'arti non prò mai scompagnarsi. - 8.
Personificazione immaginosa del mondo materiale per tre modi. Materialismo non
può spiegarla. 11. Person i ſicazione immaginosa del soprannaturale; 12. presa
sostanzialmente da simboli e miti di credenze religiose; 13. ma trasformate dal.
l'estro. 14. La personificazione, ritraendo l'uomo, ac cenna lo stato degli
artisti e de' tempi loro. Grecia, Roma, 15. Italia; suo scadimento; letterature
straniere.. 16. Anche nell' altre arti avviene lo stesso. Immaginazioni
tragiche e comiche Argomento. Può l'ottimo essere argomento del l'arte bella?
3. Può il pessimo? — 15. Immaginazioni tragiche e comiche. - 5. Quando mai
nasce l'immagina zione tragica più specialmente? 6. Quando la comica? 7.
Condizioni dell'una, - 8. e dell' altra. La morte immaginata nell'arte, 10.
eidolori del senso, tragica mente; comicamente. 12. Deformità fisiche nel
rispetto tragico; 13. e nel comico. - 14. Le mostruosità nell'un rispetto, ·
15. e nell'altro, e come in ciò facilmente si trasmodi. Ordine de' Segni. Stile.
Pag. 176 1. Argomento. 2. Nozione generica dello stile. - 3. Nozione meno
generica. - 4. Nozione determinata. 5. Ne cessità di meditare lo stile. 6. Idem.
7. Ordine dello stile. Unità. - 8. proprietà, evidenza, 9. vivezza, for. mosità.
10. verosimiglianza. Legge sua universale. - 11. L'unione di dette qualità
forma il decoro. 12. Esempio di essa, - 13. Esempio del contrario. 14. La
misura nello stile. 15. Sunto. Armonia intrinseca dello stile e co ' propri
segni.. 1. Argomento. - 2.Unità del bello stile. 3. Si riscon tra nell'arte del
dire; ne'proverbj e rispetti, · 4. nelle sentenze, 5. nel periodo, 6.
nell'armonia e nell'unione del discorso. 7. Si riscontra nell' arti del disegno;
nel l'architettura, 8. ch'è un discorso anch'essa; - 9. nella scultura e nella
pittura, 10. simili pur esse al discorso; - 11. e nella inusica; 12. che ha
disegno perfetto, o unione d'armonia e di melodia. - 13. Proprietà de' se gni;
e come segni adoperino l'arte del dire, la musica, 14. l'architettura, e l'arti
figurative; 15. onde viene la proprietà dello stile. 16. Conclusione. Armonia
dello stile col pensiero.. 1. Argomento. 2. In che consiste l'evidenza. -3. Dee
rispondere lo stile a integrità del pensiero; 4. e a varietà d'argomenti; - 5.
abbracciando l'universalità dell' argo mento, proprio, 6. e distinguendolo, per
poi bene com porlo. 7. Mancamento d'arte o di volontà impedisce tal perfezione.
8. Vivezza di stile, o moto, 9. nell'arte del dire, 10. nella pittura e
scultura, 11. nell'archi tettor3, 12. nella musica. 13, Formosità, - 14. anche
nello stile grande, e nel sublime. 15. Onde procede la deformità? 1Armonia
dello stile con la natura..... 228 1. Argomento. 2. Il bello stile corrisponde
alla natura dell'artista e a quella degli oggetti. 3. Non si possono separare
le due relazioni senz'errore e deformità. – 4. Avvi una parte relativa
all'artista; 5. e una parte relativa agli oggetti, e danno armonia. 6. La legge
di corrispondenza e di contrapposto ſa nascere le diverso specie del bello
stile in quei gradi che l'ordine ha varj nella natura. 7. Idem. 8. Nello stile
tenue an prevalenza i simili, 9. Qua lità principale di esso è la venusià. 10.
Nello stile mez. zano han prevalenza i diversi. 11. Qualità principale di esso è la naluralezza, 12. Nello stile grande
han preva lenza i contrarj. 13. Qualità principale di esso è la pe regrinità.
14. Nello stile sublime han prevalenza i contrapposli supremi. 15. Qualità
principale di esso è l ' ammirabilità. Arti del Bello speciali. Cap. XL. Come
si originarono le Arti speciali del Bello. Pag. 249 1. Argomento. — 2. Due
generi supremi dell'arte bella, cioè arti di suono e arti di prospettiva. 3.
Arte de' suoni parlati, e arte de' suoni armonizzati. 4. Arti prospettive di
spazio, e arti prospettive di figura. -- 5. Arti prospettive distinte in arti
di spazio imitato e di spazio naturale; in arti di figure imitate e di figure
naturali. 6. Onde l'arti del disegno son distinte dall'arti di naturale amenità
e dalla mimica e danza, le quali sono arti secondarie. 7. Arti ansiliari
dell'arti principali e delle secondarie. 8. Diver sità di segni sensibili
determinò diversità del significato, quanto al mondo esteriore, 9. e quanto al
mondo interio. re. 10. Stato implicito dell'arti: poesia; 11. arti del disegno
e musica. 12. Poi si distinsero l'arti del Bello fra loro; e s'esamina per la
poesia, per l'architettura, 13. per l'arti figurative, 14. e per l'arte
musicale. Di stinzione di ogni specie in ispecie minori. 15. Conclu sione. 16.
L'arte bella fa quasi un mondo novello. Ordine fra l’ Arti speciali del Bello......
1. argomento. 2. Criterio per giudicare i gradi dell'arti belle. 3. Segni
supremamente ideali della poesia. L'ordine loro è una invenzione distinta
dall'altra delle im magini. 5. Perfezione suprema de' significati poetici. 6 Ma
questa precedenza rende difficile al sommo il poetare buopo. 7. In che la
poesia verso l'altre arti sia inferiore. 8. Architettạra, e perfezione ideale
del suo disegno. 9. Perfezione del suo significato. -- 10. In che cosa l'archi
tettura è vinta dall'altre due arti del disegno. 11. Pit tura e scultura;
disputa di quale fra loro primeggj, antica. - 12. S' esamina quanto a ' segni,
13. e quanto al signi ficato di queste arti. 14. Musica; in che sta un suo sin
golare pregio, 15. da cui procede la potenza musicale; benche in altro rispetto
la musica resti- superata. - Della Poesia.... Pag. 283 1. Argomento;
definizione della poesia. -2. Come la poe sia somigli la filosofia. 3.
Consentono tutti nel divario fra considerare direttamente i sensibili esterni e
il conside rarne l'altinenza con l'anima. 4. Però l'idea che regola i poeti, si
è l'idea dell'uomo interiore, avvivata d'immagibi. Si riscontra ciò ne'
sensibili esterni, comuni alla musica e al segno e alla poesia; – 5, ne'
sensibili esterni, propri solo alle rappresentazioni poetiche; - 6. ne'
sensibili inter ni, che la sola poesia può prendere per oggetto immediato; - 7.
e poi, nelle cose di pura intelligibilità. 8. Tanto è più alta la poesia,
quanto più rende viva immagine del. l'uomo interiore; - 9. e, inoltre, quanto
più rende imma gine di ciò che l'uomo dev'essere; 10. perchè il poeta tende
alle più élette forme dell'anima; 11. e indi cerca immaginativamente di
risolvere in armonia le contraddizioni del mondo; 12. come si riscontra ne'
poeti veri del tempo antico e del nuovo, - 13. e anche ne' poeti scettici,
ov'essi han vera poesia; 14. talché, quest' arte rappresenta in immagini
l'universalità dell'intelletto. 15. E ogni ge nere perciò di componimenti
nell'arte del dire può parteci - pare di poesia. 16. Conclusione.Le specie
della Poesia. Argomento. Tre modi principali della poesia: espositivo, 3.
narrativo, - 4. dialogico. sia par talora non essere imitativa nè inventiva, se
cade in soggetto reale. 6. Si scioglie la difficoltà, distinguendo al. lora il
soggetto reale dalla rappresentazione immaginosa. 7. Indi è varia l ' attinenza
fra la poetica rappresentazione ed il soggetto. — 8. Idem. – 9. Indi anco è
vario lo stile figu rato nella poesia espositiva, 10. o nella narrativa, - 11.
o nella dialogica. 12. Anche il numero musicale dello stile diversifica. 13.
Idem. 14. Diversifica pure l'ori. gine de' tre modi principali di poesia,
l'espositivo prece dendo a tutti, 15. e poi al drammatico il narrativo. • 16.
Conclusione. 302 5. La poe Dell'idioma, 1. Argomento. - 2. Lingua, in
significato generale, è unità parlata della morale unità d'un popolo; 3. e che
mai non manca di segni per cose antiche, 4. nè ha sino nimi perfetti. 5. Le
Parlate. 6. I Dialetti. - 7. Le Lingue. 8. Scelta fra le tarlate. 9. Scelta
fra' Dialetti. 10. Distinzione d'una lingua da ogni altra lingua. 11. Uso di
lingua parlata, e uso di lingua scritta; 12. iden tici nell'essenza, e in che
diversi, 13. Come uso di buoni scrittori giova, 14. e come giova uso di ben
parlanti. 15. Realismo e Idealismo nell' usare l'idioma. 10. Con clusione. Arti
del disegno. Pag 338. 1. Che cosa sono l'arti del disegno - 2. Il disegno è fon
damento alle tre arti particolari.. 3. Doppia significazione del vocabolo
disegno. -- 4. Ogni qualità sensibile de' corpi ha relazione con la lor forma;
5. e può risguardarsi per natura, e per l'arti del disegno, quasi accessoria. -
6. La forma ci palesa l'unità; 7. ch' esterna dipende dall ' in terno delle
cose, si per natura e si per arte. 8. Esempj di ciò; e in che dunque consiste
l'ordine ideato comune al l ' arti del disegno. – 9. Per acquistare il disegno,
ci oc corre abito astrallivo degli occhi, - 10. fantasia ferma e viva in
ritenere la linea pura, 11. e intelletto esercitato a distinguere, paragonare,
comprendere i contorni; 12. nè basta vedere, ma bisogna saper vedere o guardare;
13. e in ciò sta il cosi detto giudizio degli occhi. - 14. Come si faccia
l'esercizio nel disegnare. 15. Una regola princi. pale per l'arti secondarie.
16. Conclusione. Architettura.... 1. Che cosa è l'architettura. 2. Si originò
dal convi. vere umano. - 3. Si distinse dall'ingegneria per fine di bel lezza,
4. ritraendo l'immagine formosa del consorzio umano, 5. Questa idea perció la
rende inventiva; 6. e indi l'architettura prende significato a ' suoi disegni,
7. e anche la loro unità; 8. ehe si palesa nelle proporzioni della massa, nel
congiungimento delle linee, 9. e anche negli ornamenti. – 10. Com'espressione
del consorzio uma no, quest' arte abbraccia le altre arti del disegno; – 11. s'
accorda co' luoghi abitati dall ' uomo, e a sė li conforma; 12. imprime la
bellezza sua nelle città intere, - 13. nel l'intera patria d'una nazione, — 14.
per ogni luogo di es sa; 15. e si distende a tutta la terra civile, com'
efligie inica dell'incivilimento. 16. Conclusione. S ulura..... 376 1. Che cosa
è la scultura. - 2. Principale soggetto al l'arti figurative si è l'aspetto
umano. - 3. Più proprio della scultura è la relazione de' lineamenti con la
vita interiore, anziché dell'uomo con la natura. -- 4. Indi all'arte sculto.
ria il colorito e accidentale, ec. - 5. Nè la scultura di tutto rilievo ha
paesaggj, che ristretti son' anche nel bassorilievo: - 6. è limitata nel
figurare animali; --- 7. e anche ne'gruppi di ligure umane. - 8. Soggetto più
proprio alla scultura ė la bellezza umana del corpo, e in essa si comprende la
fisio. logica e la fisica. 9. E perché si dica ciò della scultura piucchè della
pittura, distinguendo tra figura e forma. - 10. L'unità intera della immagine
umana comparisce nella scule tura solamente. 11. Divario i'ra le due arti nel
nudo e ne' panneggiamenti. 12. Limiti posti dal pudore. 13. Qual sia -dunque
l'idea esemplare dell'arte scultoria, 14. E come bisogni evitare ia essa,
piucché nella pittura, il freddo ed il
generico; -- 15. ma senza cascare nei vizj opposti, 16. Conclusione. Pittura....
Pag. 395 1. Che cosa è la pittura. – 2. Idea che serve d' esemplare alle
immagini ed a'segni di quest'arte, cioè armonia fra l'uomo e la natura
esteriore, come rilevasi dal colorito; 3. e perciò dalla figura colorata e dal
prospetto aereo. - 4. Magistero essenziale della pittura è il colorito; – 5. ma
non contraſfacendo i rilievi della scultura, 6. nè gareggiando con le cose
reali pe' colorie per gli splendori, 7. nė pe' se goi di vitalità;
gareggiamento impossibile, - 8. e dannoso; 9. bensi eleggendo que' segni che
sveglino i sentimenti nell'anima nostra, come le cose di natura sogliono. 10.
La pittura è visione di fantasia. 11. che splende in gen tilezze d' ornamenti,
e in paesaggj. 12. e ne segni del con • versare umano, 13. e nell'unione
verosimile di più tempi e luoghi, 14. e nel simboleggiare affetti sovrammondani.
15. Conclusione. 16. Utilità di tutte l' arti del dia segno. Musica...... 415
1. Che cosa è la musica. 2. Qual n'è l'idea regolatri ce. Relazione de' suoni
col sentimento umano. 3. Ragione anche fisiologica di tale attinenza. 4. E indi
attinenza principale di quest'arte con la voce umana. 5. Ma la relazione de'
suoni col sentimento é indefinita, 6. e però la musica può indefinitamente
significare ogni affetto. 7. Esprime e incita direttamente l' esaltazione degli
af. fetti, 8. e viene usata per significare più vivo l'esalta. mento comune
alla poesia ed all' arti del disegno. 9. Ciò apparisce altresi dal significato
universale d'armonia. 10. Però idea suprema e reggitrice della musica è, ch'
essa renda immagine dell' esaltazione di ogni affetto umano. La quale idea si
determina nel concetto de' componimenti varj. 11. onde nasce la musicale unità,
– 12. e l'invenzione di una frase principale, 13. che si svolge. - 14. Errori
sulla na. tura della musica. Sensisti e Positivisti assoluti, - 15. Sen
timentali, Aritmeticanti, Retoricanti. 16. Conclusione. CAP. L. Unione fra tutte
l’ Arti del Bello... 434 1. Danni del separare l' Arti, e argomento. 2. Unità
d' obbietto, di soggetto e di potenza prevalente nell' Arti del Bello. 3.
Perfezionamenti loro successivi, e legge di que sta successione. - 4. Si
risolve una difficoltà. 5. Prima si perfezionò la poesia; 6. indi
l'architettura; - 7. poi la scultura, e poi la pittura; — 8. Apalmente la
musica. 9. Aiuto che si porgono l'Arti; quale la poesia? – 10. quale
l'architettura, 11. l'arti figurative, - 12. la musica? 13. Si conferma l'unità
essenziale dell'Arti fra loro. -- 14. Ri torno del pensiero alle cose ragionate;
15 e 16. indi con clusione generale. DIALETTICA. La
Filosofia e i Concetti universali. Idea della Filosofia. Che cosa è la
Filosofia? È scienza del pensiero, ma
del pensiero in atto di vita, e non soltanto delle leggi logiche astratte; e
però è Scienza della coscienza e dello spirito; Scienza degli oggetti
connaturali al pensiero, e però di Dio, dell'universo e dell'uomo; Scienza, per
tanto, delle somme cause, dell'ultime ragioni e de' primi prin cipj; Scienza,
poi, della conoscenza, della scienza e della verità. Perciò nell'idea di
relazione s ' appuntano i quesiti tutti della Filosofia; e ivi troviamo la sua
più alta verità. Talchè la Filosofia e Scienza di Dio, del mondo e del l'uomo
nell'ordine loro uoiversale; o, più breve, Scienza delle relazioni upiversali;
e siccome queste forman l' ordine, dunque altresì Scienza dell'ordine
universale. Come in ogni altra Scienza,
cosi nella Filosofia si ha perfezionamento, levandosi a un'idea superiore. -
12. Questa è l'idea di relazione. - 13. Ciò richiede la tendenza e il bisogoo
de' postri tempi. – 14.Im portanza della Filosofia; danni d'una Filosofia
separativa. — 15, Vantaggj d’una Filosofia comprensiva. 16. Sunto. La Verità....
1. Perché dobbiamo esaminare l'idea universale di verità. 2. La verità è sempre
entità conosciuta. – 5. La verità è ordine d'entità conosciuto. - 4. Si procede
relazione in relazione. L'unità dell'oggetto conosciuto si comprende, si
distingue, 6. si riupisce di nuovo. - 7. Però gli Antichi dissero che la verità
è pei giudizj. - 8. L'errore perciò sta nel vedere l'oggetto da una parte sola,
e quindi nel travedere, 9. come si rileva degli errori metafisici; - 10. nello
Scet ticismo medesimo, e negli errori morali e delle Scienze fisiche. 11.
Sicchè l'errore confonde, separa, nega. 12. Jadi spieghiamo il progresso della
scienza e della civiltà, 13. o il regresso; 14. le invenzioni e le scoperte. –
15. esame dell'idea di verità ci mostra il costrutto semplice degli Univer sali,
presupposto da ogni conoscenza. - - L'Entità. Pag. 1. Si comincia dalla nozione
d'entità. — 2. Che cosa sono gli universali, - 3. Tre ordini d'universali: gli
analogici, 4. gli attributi metafisici, e le condizioni universali del creato.
- 5. L'uoiversale si è in ogni cosa e presentasi all'intelletto. - 6. L'idea d'
entità primeggia fra gli universali. La esami Darono gli Antichi, – 7. i Padri,
il Medioevo, e la Filosofia moderoa. 8. Non possono farne a meno anche gli
Scettici e i Soggettivisti. 9. Questa idea non può pegarsi. Ma esaminandola,
bisogna evitare tre difetti. - 11. Si tripartisce: idea dell'essere comunissimo,
- 12. idea d'essenza, - 13. idea d'esistenza; – 14. com' apparisce anche da'
linguaggi, 15. e dall'antica dottrina sull'essere e sulla possibilità, ch'è di
tre specie. - 16. Conclusione. L'Ordine dell'entità.... t. L'idea d'ordine si
distingue nell'idea di relazione, d'atto della relazione e di correlazione. 2.
Che cosa è la relazione? L'esperienza ce la mostra ovunque. 3. Ogoi en tità è
un tutto di relazioni, benchè, quando si tratta di cosa fioita, non essenziali.
Ciò si rileva dal concetto d' essere, - 4. d'essenza e d'esistenza. – 5. La
relazione poi è, o intrinseca, - 6. od estrinseca (cioè ad intra, o ad extra ).
– 7. Ogni relazione si è atlo; anche le attineoze ideali o di ragione. - 8.
Conie si procedè per giungere a questa universalità dell'idea d'allo. Gli
Italioti, gl’lonici, Platone; 9. Aristotele; 10. i Padri, gli Scolastici, e il
Cartesio; 11. il Leiboitz e la Fisica nioderna. 12. Correlazioni. Unità e
triplicità in ogoi cosa. -- 13. Dottrine aptiche su ciò. - 14. Il Dogma
cristiano della Trinità. - 15. Le correlazioni spiegano la legge universale de'
simili e de' contrapposti, 16. Conclusione. l conoscimento dell'Ordine.. 1. Nel
conoscimento dell'ordine si distingue il Vero, il Bello ed il Buono, distinta
la triplice relazione della Verità col l'intelletto, benchè io significato
generalissimo ogoi relazione col nostro conoscimento sia Verità. 2.
L'universalità del Vero corrisponde ai gradi dell' essere; e come li notarono
già i Filosofi. - 3. Cose non animate; 4. cose animate; 5. gl'intelletti, ove
la presenza dell'entità è manifesta. 6. La verità è relazione dell'entità con
gl’intelletti, cioè intelligibi lità. Che cosa è la Bellezza, cioè
l'ammirabilitd, con trapposta al Vero. Suoi gradi, 8. ne' corpi non animati,
Degli animati e negl'intelletti. 9. Che cosa è il Bene, cioè l'amabilità. Suoi
gradi, — 10. ne' corpi, negli animali e nella mente, 11. Assioma che deriva
dall'esame degli universali, - 12. e loro convertibilità mutua; – 13. la quale
si manifesta nella scieoza, nell'arte e nella vita, perché il Buono conduce al
Vero ed al Bello, - 14. e il Bello conduce al Vero e al Buono. -15. Nell'esame
degli universali analogici abbiamo riscontrato le distinzioni già fatte dai
Filosofi antichi e recenti. - 16. Conclusione, e come il Bello morale sia
l'accordo del Vero, del Bello e del Buono. Attributi metafisici correlativi e
Idea di Dio. Pag. 101 1. Esamedegli attributi metafisici, al quale ci porta
l'esame degli universali analogici. — 2. Che cosa s'intende per attri buti
correlativi metafisici. 3. Idee di questi attributi, tro vate nell'idea
d'entitd; 4. trovate nell'idea d'ordine dela Ľentità; - 5. trovate nell'idea di
conoscimento dell'ordine. - 6. L'idee degli attributi metafisici correlativi, e
l'idea di Dio, non sono correlazioni astratte; - 7. nè limiti soggettivi; - 8.
nè un ideale soggettivo; 9. nè, d'altra parte, sigoi ficano che Dio sia il
grado supremo degli esseri; – 10. nè la parte o il tutto; 1. nè Pessenza o la
sostanza delle cose contingenti. – 12. La correlazione degli attributi
metafisici viene rappreseotata dall'idea del possibile fra l'idea d'Eote e
l'idea d'esistente, o dall'idea d ' indefinito fra quelle d'Infinito e di
finito. - 13. La correlazione stessa fu pure significata dal Gen tilesimo, 14.
da' simboli suoi più notevoli, 15. e dalla simbologia naturale. - 16.
Conclusione. Cap. VII. Idea di Creazione.... 121 1. Possibilità razionale della
creazione. - 2. Vi ha nel pensiero umano questa idea dell'atto creativo, cioè
di Causa prima. — 3. L'idea di causa si distingue dall'idea di sostanza; 4. e
si riferisce ad un che, il quale comincia dal nulla quanto all'esistenza,
benchè non quanto alla potenza; 5. si riferisce, poi, ad un termine distinto
essenzialmente dalla cau sa, o ad extra. - 6. Più vera e più potente fra tutte
le cagioni è l'intellettiva. 7. La Causa creatrice si distingue dalle cause
naturali, perchè alla totalità delle cose preesiste la pos 8. perchè il
soggetto, cioè la sostanza, si produce ad estra; 9. e perchè avvi efficienza
intellettuale assoluta: - 10. opde la Causa creatrice fu chiamata Verbo ia
tutte le Tradizioni sacre, e il mondo è arte di Dio; -11. la quale produce una
somigliaoza divina nell'universo, mentre Dio non somiglia i finiti e li
trascende. - 12. Gli errori e i dubbj sul dogma razionale di creazione nascono
dalla fantasia, - 13. e dallo sdegoare il mistero, comune ad ogni causalita; 14.
sicchè gli errori provocarono lo svolgimento del Teismo nell'età de' Padri e
de' Dottori, 15. e dell'età della Riforma e del Rinnovamento. - 16. L'idea di
creazione ba tanta importanza, sibilità pura; - perchè risguarda la Causa
universale. CAP. VIII. Idee relative all'Entità della Natura....... 143 1.
Argomento; le condizioni dell' entità: Prima condizione della natura, per
l'essere suo, il quanto; 2. che si distia. gue nell'unità, 3. nel numero 4. (che
non può essere infinito), 5. e pella unione delle unità. 6. Condizione seconda
per l'essenza, il quale; - 7. che si distingue nella varietà, 8. nella
contrarietà, 9. e nella somiglianza;. 10. più notevoli dove la oatura è più
alta. - 11. Terza condizione per l'esistenza, il quando; 12. che si distingue
nel momento, -13. nella successione, - 14. e nella durata; - 15. non
predicabili dell' Eternità. 16. Conclusione. il pine. - Idee relative
all'Ordine della Natura....... Pag. 1. L'ordine della natura viene dall'
attinenza della crea zione, 2. La relazione delle cose create ci dà la
dipendenza, o derivazione; 3. ossia la sostanza, - 4. la causa, 5. e l'essenza
reale. - 6. L'Atto delle cose ci dà il come (quomodo); – 7. ossia il principio,
8. il mezzo, 9. e 10. Le correlazioni delle cose ci dàono il dove, che può
essere correlazione ancointellettiva, 11, e correle zione materiale; - 12.
ossia il punto, - 13. Y estensione particolare, 14. e lo spazio, 15, che non
può essere infinito, ma è nell'infinito; 16. e il sublime si origina da cið.
Cap. X. Condizioni naturali del conoscimento...... 1. Criterio della conoscenza;
ove si riscontrado: l'oggetto ideale, – 3.6. l'idea, - 4. che ci fa conoscere
il si mile per ilsimile, 5. (onde si spiega la formazione dell'idee universali,
e la conoscenza delle cose esteriori, 6. di noi stessi, degli altri uomini, -
7. e di Dio), - 8. c. il senti mento, in relazione del quale ogoi cosa dicesi
un fatto, ed esso medesimo ha questo pome. 9. Forma del bellezza; - 10. e qui
si riscontrano: la cosa formata, 11. l'idea esem plare, 12. e il gusto. - 13.
Legge del bene, ove si ri scontra il bene oggettivo, - 14. la felicità, - 15. e
l'utilitd. - 16. Conclusione. Divisione della Filosofia e Arte dialettica. L'Enciclopedia....
1. Per determinare i quesiti della Filosofia, bisogna ve. dere le sue parti e
l'Enciclopedia o l'albero del sapere umano, Ordine di formazione, ordine di
logica dipendenza. Criterio armonicamente oggettivo e soggettivo per trovare la
distiozione dello scibile e l'ordinamento suo. Quattro classi di conoscenze: onde
vengono la Teologia positiva, la Filosofia, le Matematiche e la Fisica. 6.
Parti della Fi losofia universale. - 7. Filosofie particolari e applicate. 8.
Matematica. - 9. Fisica. - 10. Storia sacra, umana, na turale. – 11. Arti
filosofiche, matematicofisiche e storiche. 12. Tradizione perenne dell'
Eociclopedia. – 13. Errori che la guastano. 14. Pericolo dell'Enciclopedie a
dizionario, le quali spezzano la continuità del sapere. - 15. Divisione della
Filosofia in tre parti: la Dialettica, l' Estetica e la Morale. - 16.
Conclusione. La Dialettica. Che cosa è la Dialettica. È quasi un dialogo. Esemplare
unico dell'Arte logica è la natura, -se no e s'op v'è ignoranza. L'Arte logica
è osservazione di natura, - 6. se oo avvi leggerezza, impazienza e
preoccupazione appas sionata. – 7. È imitazione di natura, 8. se no avvi artifi
cio. – 9. È inveozione ordinativa, pop oggettiva, - 10. se no avvi l'assurdo. -
14. È per fine di verità, - 12. se no si confondono l ' arti, che per altro s'
accordano e s ' aiutano. 13. La Verità, com'oggetto dell'Arte logica, viene
deter minata dalle operazioni di questa, - 14. e però è ordine d'en tità
ripensato, 15. ragionato, — 16. e significato. La Critica interiore vera e la
falsa........ Pag. 251 1. La Critica suppose un Criterio, che paturale cono
scenza porge alla riflessa. - 2. Il bisogno di Critica interiore viene dal
bisogno di cercar l'origini dell'errore, e dall'altro di sceverare nelle
cognizioni la parte oggettiva e la soggettiva; - 3. e però è antichissima;
benchè a questa si contrapponesse Ja Critica eccessiva. 4. Esempj dell'una e
dell'altra nel Cartesio e nel Kant. 5. Principiare dal dubbio universale non si
può; e questa è critica smodata, o fuori di natura. 6. La riflessione
filosofica deve cominciare dalla ignoranza filosofica, piuttostochè dal dubbio
metodico. 7. Però la Critica eccessiva non può condurre alla scienza; pone,
qualunque sia l'intenzione de' Critici, alla virtù; 9. è causa di desolazione,
- 10. o di misera indifferenza. 11. Jovece per la Critica razionale s' afferma
il oaturale co noscimento, 12. la forma di questo e la materia; 15. cioè la
forma naturale in relazione con gli oggetti, - 14. e la realtà degli oggetti
stessi, che costituiscono la materia necessa ria o coboaturale del pensiero. ·
15. Postulati della Critica - 16. Ogni operosità viene impedita dal Criticismo.
Cap. XIV. Verità connaturali al pensiero umano. 272 1. Tre requisiti delle
verità connaturali. – 2. Esistenza di noi stessi. - 5. Errore del Kant e de'
Positivisti, - 4. e loro confutazione. 5. Si riscontrano i requisiti della
conoscenza naturale nella coscienza di noi stessi. – 6. Notizia del mondo
esteriore, – 7. e dell'ordine suo. — 8. Opinione del Kant e de Positivisti, 9.
e loro confutazione. - 10. I requisiti della conoscenza naturale si trovano
nella notizia del mondo. 11. Idea di Dio. - 12. Opinione del Kapt e de'
Positivisti. 13. Confutazione, 14. Si riscontrano nell'idea di Dio gli stessi
requisiti o spontaneità, - 15.inconvertibililà e insepa rabilità. Da queste
notizie di noi, del mondo e di Dio risulta la sostanziale totalità della
coscienza. 16. La Filosofia non può disconoscere questa materia del pensiero e
della scienza. CAP. XV. Armonia tra le forme della conoscenza e le cose. 294 1.
Che cosa è la forma. – 2. L'armonia tra le forme del conoscimento e gli oggetti,
onde provenga. 3. Apparenza sensibile, - 4. corrispondente agli oggetti
percepiti; – 5. e quindi si fece da Galileo e poi dagli altri la distinzione
fra le qualità primarie de' corpi e le secondarie; - 6. talchè verifi chiamo
che l'apparenze sensibili son segoi reali, realmente vera. - . corrispondenti
alla realtà delle cose. -7. Aoche le apparenze, che dano'occasione d'inganno,
procedono da leggi di natura. - 8. La vista ci dà i segoi apparenti delle
distanze. – 9. For me intellettuali, corrispondenti all'entità e verità delle
cose, ue' concetti, - 10. ne giudizi, -11. e oei raziocioj. 12. Armonia tra il
conoscimento di ciò ch'è o avviene deotro di noi, e il conoscimento di ciò ch'è
fuori di noi: per i segoi del l'anima del corpo; – 13. per l'analogie fra
l'anima l'uoj verso; - 14. per l'intendimento delle qualità e delle condi zioni
d'ogoi cosa esterna; — 15. e per la conoscenza di Dio. 16. Conclusione. Principj
armonici della ragione... Pag. 318 1. Che sono i principj universali della
ragione. — 2. Na scono dalle idee universali, e s'ordipano com'esse. -3. Prima
classe, corrispondente agli universali analogici. Per l'entitd si distinguono
più principj, riflettendo all ' idee d' essere, 4. e all' idee d'essenza e
d'esistenza. 5. Per l'ordine del l'entità, si distinguono, riflettendo all'idee
di relazione, 6. di atto della relazione e di correlazione. - 7. Per il cono.
scimento dell'ordine, si distinguono, riflettendo all' idee del Vero, – 8. del
Bello e del Buono. – 9. Seconda classe, cor rispondente agli attributi
metafisici correlativi. – 10. Terza classe, corrispondente alle universali
condizioni della Datora fioita. Si hanno: Per l'entità di questa, i priocipj di
quantild, di qualità e di tempo; 11. per l'ordine della natura, i principj di
derivazione o dipendenza, - 12. di modalità e di confinazione o del dove; – 13.
per il conoscimento dell'or dine, com ' esso è negl' intelletti creati, i
principj che risguar dano il criterio della verità, la forma della bellezza e
la regola del bene. – 14. In che stia l'utilità de' principj uni versali. – 15.
Due opinioni estreme ed erronee: l' una che li Dega, l'altra che li reputa
generativi di tutto il conoscimento. - 16. Conclusione. L'Osservazione......
340 1. Materie da trattarsi. — 2. Atteozione. - 3. Osservazio ne. – 4.
Riflessione. - 5. Si verifica ciò nelle verità d'espe rienza esteriore, cosi
per Arte logica naturale, 6. come scientificamente. 7. Si verifica delle verità
di esperieoza interiore, cosi per suggerimento di natura, 8. come per la
Scienza. 9. Si verifica delle verità intellettuali pure, 10. cioè negli
universali della Metafisica e delle Matematiche. 11. Si verifica nelle
conoscenze ricevute dall'autorità, 12. e ipdi vien la Critica, 13. Lo stesso
aodamiento si vede nel procedimento storico delle Scienze. -44. Idem,-15. Anche
nel procedimento della Letteratura. 16. E anche nell'Arte pedagogica. Metodo
che imita la Natura...... 1. Che cosa è l'imitazione dialettica: parte
sostanziale del metodo. 2. Sintesi primitiva. – 3. Analisi. - 4. Sintesi 541 -
secondaria. 5. Legge dialettica. 6. Il metodo allora è quasi un contrappuoto
musicale. -7. Però non può essere nè solameote analitico, nè solamente
sintetico. 8. Difetti del Puno e dell'altro, - 9. Il metodo compreosivo gli
uoisce. 10. Contrarie inclioazioni di ogni età verso l'analisi eccessiva o la
sintesi eccessiva. 11. Esempio del Gioberti. - 12. Il vero metodo è
propriamente dialetlico o dialogico. 13. Sua utilità nelle Scienze; 14. nell'
Arti del Bello, - 15. e nel ” Arti del vivere civile.. 16. Conclusione. L'invenzione
dialettica..... Pag. 381 1. Che cosa è l'invenzione scientifica, o che cosa è
la Scienza com'ordine meditato di conosceoze, - 2. Si comincia dalla
comprensione dell'oggetto per una definizione nominale; - 3. poi si viene
all'analisi con la divisione, – 4. con la tési e con l ' antitesi, con la prova
dall'assurdo, e con l'elimina zione; - 5. fochè si giunge alla definizione
dialettica, che può essere o intrinseca o per via disole relazioni. - 6. Poscia,
passando alla sintesi, abbiamo l'ordine induttivo e il dedatti 7. Tutto questo
mirabile ordinamento è una ricerca delle ragioni, e uno spiegare per esse; oode
gli Antichi dis. sero che saper vero è un sapere per le cagioni; - 8. cioè per
principj; - 9. e questo s'avveranella teorica degli universali, - 10. e nella
Scienza dell'uomo, dell'universo e di Dio; s'avvera nelle Scieoze civili e
storiche; Delle Matematiche, e nella Fisica. Indi si spiega l'invenzione degli
stromenti e delle macchine; 15. come altresi la ipotesi e l'intuizione
dottrinale. 16. Supto. vo. – IL FINE DELL’ARTE DIALETTICA. Argomento. Connessione logica. Che stato der
essere quello di chi cerca la verità, e DIFETTI CHE BISOGNA EVITARE. Si può
errare io ciò per leggerezza, o per una
preoccupazione. CHIAREZZA e difetti da evitarsi. Errori che procedopo da
leggerezza, e da preoccupazione,
prendendo per chiaro ciò che non è. Certezza; e difetti evitabili; badando
anche ip ciò di non errare per leggerezza d' assensi e per qual che
preoccupazione, stimando che sia certo l'incerto, e vice Connessione, chiarezza,
certezza, non possono realmente trovarsi che pella verità. Si concbiude: che
fine d'ogoi Scienza, e perciò anche della Filosofia, non è di dare a noi, quasi
mancanti d'ogni ragionevole conoscenza, un primo conoscimento della verità, si
l' ordine riflesso della co gosceoza e della verità: e poi, che L’ARTE
DIALETTICA È ALTRESÌ UN ABITO MORALE; e ancora, che L’ABITO DEL PARLARE meditato giova molto all'ordine del pensare
RAGIONATO E RETTO versa.. I Criterj della Verità o Leggi universali della
Dialettica. L'Evidenza, o il Criterio della Verità. Argomento, e qual sia il
disegno della Dialettica, e qual ragione v'abbia di trattare qui de Criterj; e
dottrina loro semplicissima. Il Criterio è uoa regola, perch'è un segno della
verità in relazione con l'intelletto. Non può negar si, fuorchè negando la
conoscenza; non può travisarsi, fuorchè da' sistemi sostanzialmente falsi; e vi
ha una dottrina costante sulla natura del Criterio. Il Criterio è un segno
apparte nente all'ordine della verità, ed è universale. II Criterio, perciò, è
l ' evidenza dell' ordine di verild; è quindi uno e moltiplice, ossia è un
ordine di Criterj; perch'è l' evidenza dell'ordine di verild in sè stesso, e
ne' suoi contrassegni universali; cioè coutrassegni d'amore e di fede, perchè
l'ordine della verità corrisponde all'ordine della nalura umana. Il Criterio
vale altresi nelle cognizioni anteriori alla Scienza, 10. nè la Scienza può
disco noscerlo. 14. Nella Scienza, poi, l'evidenza precede il ragionamento,
l'accompagna, e lo compisce. 12. Nella Filosofia, l'evideoza del Criterio
naturale si converte in evi deoza scientifica; non già perchè si comioci dal
dubbio; anzi non può cominciarsi da esso, perch'è un riconoscimento. – 13.
Criterio della Filosofia è l' evidenza dell'ordine universale;. 14.senza di che
quella è fuor di natura. - 15. Criterio delle altre Scienze è l' evideoza d'un
ordine particolare; ma in essa i Criterj sccondarj bao solo un ufficio
indiretto e più ristretto. - 16. Conclusione. -L'evidenza del Teismo, come di
verità ordinatrice o di Criterio supremo.... 1. Perchè la verità di Dio
creatore sia Criterio compren sivo alla riflessione. 2. La Scienza de' limiti è
scienza ne cessaria; e il Teismo ci avverte de' nostri limiti. 3. Questi sono
la natura stessa dell'intelletto e delle cose. 4. Soprin telligibile,
soprannaturale, 5. intelligibile: 6. la verità di creazione fa serbare questi
limiti, e spiega il perchè del sovrintelligibile divino, –7. del
sovriptelligibile naturale, 8. e ci rende liberi e sicuri nello studio delle
cose intelligibili, che sono inesauste a mente umana. - 9. Quindi essa rende
soddisfatto qualunque bisogno dell'uomo, e ordina le Scienze che si riferiscono
a' bisogoi stessi. Teologia positiva, - 10. Filosofia, Matematica, — 11. Fisica,
12. Filosofia della Sto ria, Filologia e Critica. - 15. Quel Criterio spiega la
legge del progresso in Filosofia e il regresso sofistico. – 14. I siste mi,
opposti alla verità di creazione, ristringono la conoscenza riflessa, 15. e poi
l'apoientano. - 16. Conclusione. - - 543
- Sistemi opposti al Criterio della Verità, e pri mieramente il Panteismo....
Pag. 472 1. Argomento. - 2. Contradizioni del Panteismo, e pro posito di
affermare le contradizioni.- 3. Panteismo orientale, 4. pitagorico, - 5.
eleatico ed ionico; - 6. degli Ales sandrini e Gnostici, - 7. che difendevano
il Paganesimo; 8. de' Reali nel medioevo, – 9. e dell'altre Sètte; - 10. del
Bruno e del Campanella 11. (sterili, se paragonati al Car tesio ed a Galileo ),
· 12. dello Spinosa (non paragonabile alla fecondità del Leiboitz), - 13. de'
Panteisti tedeschi, 14. e de' loro discepoli. 15. Verità grandi, che balenano
dal Panteismo; 16. il quale, bensì, le travisa, e però nega i fatti più sublimi
della coscienza. II Dualismo. 493 1. Argomento. - 2. Io che il Dualismo è
peggio, e in che meglio del Panteismo? 5. Dualismo fra gl' Indiani. 4.
D'Anassagora, - 5. di Platone, -d'Aristotele, 7. degli Stoici. - 8. Dualismo
tra certi Filosofi maomettani. 9. Dualismo nella Cristianità del medioevo; 10.
e come le tracce del Dualismo antico si trovino anche ne' Dottori scola stici;
- 14. talchè se n'occasionava, ne' tempi della Riforma, up Dualismo nuovo, non
antiteistico, macosmologico e antro pologico. – 12. Il Cartesio; – 15. ed
effetti delsuo Dualismo, segnatamente nel Malebranche, - 14. e nel Leibojtz;
15. o anche nell'Idealismo, nel Sensismo e nello Scetticismo poste riori. 16.
Il Dualismo riduce i contrarj a contradittorj, - talchè rompe ogoi armonia. L '
Idealismo e il Sensismo.... 515 1. Differenza fra l ' Idealismo e il Sensismo.
2. Cenno storico di questi sistemi. – 3. Io che propriamente consiste l '
Idealismo (e sbaglio d' alcuni moderni), e paragone con gli effetti del
Sensismo. - 4. Vizio principale degl ' Idealisti. 5. Nel Sensismo la coscienza
umana non riconosce sè stessa; 6. non l'intelletto, essenzialmente diverso dal
senso; - 7. non - 8. non l'idealità; 9. non la riflessione sopra di noi; 10.
non la religiosità; 11. non la certezza nella cogoizione de' corpi; 12. non la
Filosofia; si solamente la Fisica, - 13. ma falsata e con metodi non suoi. -
14. E sono alterate anco le Matematiche, - 15. com' altresi la Sto ria. - 16.
Sunto. - Lo Scetticismo......
Pag. 1. Argomento. 2. Scetticismo nell'Asia e fra gl ' Italo greci; - 3.
nell'età Socratica e del medioevo; 4. nell'età moderna. – 5. Eclettici e
Mistici, che non riparano allo Scet ticismo, dacchè gli concedono di partire
dal dubbio. – 6. Idea Jismo scettico e Sepsismo scettico. 7. Razionalismo, 8. e
Positivismo; – 9. e quindi Scetticismo metafisico, antimetafisico, - 11. che
bensi trova la Metafisica per tutto. – 12. Come la natura repugoi dallo
Scetticismo. 13. Con seguenze principali di questo. Desolazionee scherno. - 14.
Dif ficoltà pelle controversie, o Dommatismo scettico; abito di giudicare de'
fatti umani da sole circostanze esteriori. 16. Lo scetticismo riduce a nulla il
pensiero. 10. e 15. e L'Amore della Verità... 22 4. Che cosa è nell'ordine suo
pieno il Criterio? Condizioni intrinseche ed estrivseche per la conoscenza
della Verità. 2. Sentimento e amore. 3. L' affetto è conoscenza e la cono
scenza è affetto. -- 4. Bisogna secondare con la libera riflessione il naturale
affetto. 5. Come l'affetto della Verità dia im pulso al ragionamento,
l'accompagni e lo assicuri, e perciò bi sogna guardare a quell'impulso, 6. a
quella compagnia e a quel riposo; - 7. e sbagliarono tanto i Sentimentali, che
di visero l'affetto dall'evideoza; 8. quanto gli Astratteggian ti, che
separarono l'evidenza dall'affetto. 9. Ufficio del l'amore di Verità nelle
Matematiche ed io Fisica. - 10. Ufficio di quello in Filosofia, il quale altresì
ci mostra gli affetti con naturali, che corrispondono agli oggetti della
Filosofia stessa; - 11. cioè l'amore di noi medesimi e degli altri uomioi, 12.
l'ammirazione affettuosa per l'ordine della natura 13. e gli affetti religiosi.
– 14. Quello è anche Criterio degli Studj critici, storici e teologici. – 15.
Nelle passioni l'affetto patu rale può facilmente riconoscersi. – 16. Per
l'affetto la scienza si converte in sapienza. salità; Il Senso Comune... Pag.
1. Quando la parola serve di Criterio? - 2. Che cosa è il Seoso Comune? Due
sigoificati di esso, - 5. dal separare i quali vennero due opinioni false, · 4.
Limiti del Senso Co mune:. 5. i principj, 6. le immediate percezioni, 7. e le
immediate conclusioni. 8. Ufficio diretto e generale del Senso Comune in
Filosofia; non cosi nell'altre Scienze, 9. fuorchè dov'esse s' uniscono alla
Filosofia stessa. - 10. Obie zioni sull'esistenza del Senso Comune, per la
contrarietà delle opinioni. – 11. Obiezioni contro la testimonianza de'
Lioguagej al Senso Comune, per la supposta indifferenza de' vocaboli al si e al
no; – 12. per il materiale significato primitivo di parole che ricevevano poi
un sigoificato spirituale. 13. Obiczioni sulla ragionevolezza d'usare il Senso
Comune a Criterio, qua sichè questo sia credenza, non evidenza; - 14. quasichè
vo gliamo reputarlo sapienza o scienza; 15. quasichè occor resse interrogare
tutti gli uomini.. 16. Sunto, e necessità di ricondurre le Scienze alla natura,
come le Arti del Bello. Tradizioni e progressi nelle Scienze... 1. Criterio
delle Tradizioni scientifiche. 2. Due siguifi. cati del vocabolo Scienza. – 3.
Dobbiamo verificare l'univer 4. distinguendo i principj, i teoremi, i problemi,
e gli errori. 5. L'unità del consentimento non toglie la libera varietà. -6.
Consentimento e progresso pe' principj e ne' teo remi, -7. e ne' problemi. – 8.
Le Sètte son dimezzatrici della Verità; 99.. eppure confermano i teoremi, 10. e
son’oc casione di progresso, mostrando i mancamenti della Filosofia, 11.
perfezionandone la forma, 12. e alcune dottrine particolari, - 13. e le loro
conseguenze nelle dottrine de'Fi losofi. – 14. Nascono due opinioni false: cioè
i sosteoitori della sola evidenza privata; – 15. e i sostenitori del solo
criterio storico. - 16. Conclusione. Relazioni fra le Scienze e la Religione.....
1. L'argomento, che ora si tratta, è Glosofico di sua na tura, – 2. Due
significati della parola Religione. - 5. S'esclu de: che la Filosofia debba
ricevere l'autorità senz' uo motivo evidente di ragione; – 4. che, per l'esame,
debba sospendersi la Fede; 5. che l'autorità del verbo religioso sia un Crite
rio diretto per ogni Scienza; - 6. che la Filosofia debba en trar pe' Misteri,
o la Teologia nel ragionamento filosofico; – 7. che sia lo stesso metodo e lo
stesso fioe a’ Filosofi e a' Teologi. - 8. Nel fatto, l'efficacia delle
Religioni è universale sopra i sistemi filosofici; 9. e sempre la Religione s’
è reputata upa Fede; 10. Criterio è poi, se corrisponde alla coscienza; 11.
talchè sia un'evidenza e una credenza, cioè una credenza evidente. · 12. Fa
quasi specchio all' uomo interiore, - 15. che riconosce l'integrità dell'essere
suo io quella. 14. Gra vissimo errore del negare validità razionale lenza non
filosofica. 15. Il Criterio religioso sublima l'animo e lo ràs. serena,
porgendo così le due condizioni necessarie d'ogni me. ditazione più alta. 16.
Sunto. Leggi speciali della Dialettica. oi. - - Dell'Ordine, come suprema Legge
razionale. Legge suprema razionale. Leggi concrete o datu rali, Legge soprema è
l'ordine. Unione de' termi. Cercare questa unione, rispetto agli oggetti, pelle
operazioni, cosi dell'Arte bella e dell' Arte buona, come dell'Arte dialettica.
Cercare la somiglianza de' ter mioi, – le loro differenze, e le loro contrarietà, escludendo
i contradittorj. Ksempio tolto dalla teo rica de' Criterj. Errore, deformità,
male, sono disor dini. Ogni errore non altro è, che da una parte soltanto
risguar dare la verità, segregandola dal resto che le appartiene, e senza cui
non è più verità. - Gli errori e il male cadono d'ec cesso jo eccesso. Meraviglie
della ragione umana, che imita l'ordine della natura interiore ed esteriore. Coo
clusione. Ordine dell'idee Ripensamento dell'idee. L'idea, del suo valore
intimo, è sempre vera; quantuoque altresi per idea s’in. tenda lutto ciò che
con la riflessione s'afferma e nega; e allora l'idea può essere falsa. Bisogna
esaminare il positivo del l'idee; nè può darsi un'idea negativa per sè
medesima. 6. Poi bisogna esaminare l'ordine dell'idee con gli oggetti, e come
non possiamo pegar l'idea d’un oggetto, se igooriamo la sua intima essenza, nè
possiamo negare l'idea d'un fatto, se ignoriamo il comeavviene il fatto, ec.; e
bisogoa esa minare qual sia la natura dell'oggetto, coocepita per mezzo dell'
idee. - 8. Idee a priori e a posteriori? L'idee hanno fra loro uo ordine cbe va
riconosciuto; 10. talcbè, riflettendo a quello, si formano idee distinle,
adequale, chia -A1. e ci leviamo all'idea perfetta. Bisogna, in line, ch'
esaminiamo la forma concettuale dell'idee, 13. la loro estensione e
comprensione, 14. onde riconosciamo l'unità 15. per la quale l'idea è un
esemplare unico di 16. Chi poo badi alla oatura dell' idee non può intendere
alcuni fatti maravigliosi della patura umana. Ordine della Memoria.. 1.
Argomento.La legge della Memoria è l'ordine stesso che regge l'idee. 3.
Associazione dell'idee. 4. Come possono in unità raccogliersi le varie
associazioni, notate da' Filosofi. 5. Quella medesima legge si distende al
richiamo de' fantasmi e de'segoi. - 6. E anzi, abbraccia tutte le facoltà,
concorrenti nella Memoria, 7. e unità naturale del. 8. e l'unità morale del
genere umano. — 9. Que st' ordine, ch'è legge della Memoria, diviene regola. È
neces saria l'attenzivce sull’idee e il raccoglimento. 10. Bisogoa 32 * re,
dell' idee, molte cose. ſaomo, - considerare la coonessione dell'idee e i segni
seosibili per facil. mente richiamarle. - 11. Inoltre, acquistar l'abito della
ri flessione sull'ordine de' giudizj e de' raciocinj, per il pronto discorso
scientifico. 12. Singolarmente quell'abito è neces sario per la Memoria delle
parole. 15. Tadi procede la pa dronanza dell'esporre. 14. Per l'uoità
coosapevole interna, occorre rammemorare il nostro passato. 15. Per unità
morale del genere umano poi, occorre la Tradizione, ch'è me moria. – 16.
Conclusione. Ordine de' giudizj.. Pag. 166 4. Argomento. 2. Co.ne dall'idee si
svolgono i giudizj; - 3. onde i giudizj possibili sono distinti da’ formati o
reali. - 4. Categorie, 5. oggettive e soggettive. 6. Perfezio oamento di questa
dottrina. - 7. Categorie oggettive, o se condo gli Universali; 8. Categorie
soggettive: 9. I. quanto alla forma concettuale dell'idee, giudizj universali,
ge nerali, particolari, singolari; - 10. II. quanto alle relazioni fra l'idee,
categorici, ipotetici, disgiuntivi, 11. problema tici, assertori, apodittici, -
12. diretti e comparativi, astratti e concreti, a priori e a posteriori, - 13.
analitici e sintetici; - 44.III. quanto alla forma de'giudizj, affermativi,
negativi, limitativi; 15. IV. quanto alla relazione di più giudizj,
equipollenti, convertibili, contradittorj, contrarj e subcontrarj. 16.
Conclusione; e come sia necessario, giudicando, solle varsi all'idea distinta,
chiara, adequata, e quindi perfetta, di ciò che meditiamo. Ordine del
ragionamento.. 186 1. Argomento. Regole. • 2. Legge dialettica. Idea media; e
come il raziocinio sia un giudizio complesso che si scioglie in tre giudizj. –
4. Priocipio formale del raziocinio. - 5. Deduzione e induzione. - 6. Deduzione
dal simile al diverso. – 7. Induzione dal diverso al simile. - 8. La diffe
reoza tra il ragionamento deduttivo e l'induttivo, in che non può consistere? —
9. Qual'è duoque la differenza del ragiona mento deduttivo, 10. e
dell'induttivo? - 11. Da essa viene la regola. 12. E, per opposto, dal violarla
vengono i sofi - 13. e si vedenel dedurre, - 14. e nell'indurre.: 15. Non deve
mai separarsi la 'regala formale dalla materia del ragionamento; - 16. oè la
materia di questo dall'ordine suo. C.: P. Utilità del ragionamento. 206 1.
Argomento. 2. Come deve intendersi che si procede dal noto all'ignoto? 5. Che
cosa troviamo di nuovo per via del ragionamento? 4. Deduzione; 5. in Fisica, in
Ma. tematica applicata; – 6. altre scoperte, – 7. per equipollen za,
conversione, opposizione, esclusione'; 8. deduzione per via di regole applicate.
– 9. Induzione, é sua certezza. --40. Induzioni fisiche. 11. Analogia. 12.
Ipotesi. – 13. In duzione metafisica. – 14. Due erroriopposti: l'uso di coloro
che immaginano la deduzione quasi generazione; 15. l'al tro di coloro che
negano il dedurre. 16. Conclusione. smi;
Unione e varietà de'Metodi.......... Pag. 227 1. Argomento. 2. La verità,
com ' ordine conosciuto, si trasforma in Metodo: può vedersi dalla Storia della
filosolia, 3. e delle Scienze fisiche; 4. talchè vana è la disputa se preceda
l'importanza de'Metodi o de principj; - 5. e quindi ancora si vede che il
Metodo risguarda il soggello e l'oggello, e ch'è psicologico ed ontologico
insieme, 6. cioè critico. - 7. Faria il Metodo; ma neile varietà c'è leggi
comuoi. 8. Le varietà poi derivano dalla natura dell'argomento, 9. taotoché
riesce assurdo il coofondere tra loro i Metodi; 10. e vba Scienze deduttive,
11. induttive,. 12, miste; 13. più sintetiche, o più analitiche. 14. I Metodi,
variando secondo la varietà delle cose, diversificano pure secondo la mente di
chi pensa la verità, 15. e secondo la mente di co loro, a cui la verità s '
espone. 16. Sunto. Abiti necessarj al ragionamento Metodo è abito, e richiede:
abito di virtù, abito intellettuale che disponga l'intelletto all'Arte
ragionativa, e abito dell'Arte. Abito morale, cioè amore della Verità. Bisogna
essere preoccupati solo da questo amore; unito alle virtù morali, e come dagli
abiti viziosi opposti s' of feoda il ragionaiento buono. Abito intellettuale
del rac coglimento, donde nasce il diletto della meditazione, e che porta con
sè l'abito di badare all'armonia delle facoltà e delle dottrine, e di ordinare
i proprj studj. Abito intellettuale dell'Arte, cioè il possesso delle regole.
41. e dell'ordine loro; 12 donde procede la necessità di tre atti razionali
abitualmente, cioè l'esame del pensiero del principio de' ragionamenti, a mezzo
e io fine; 13. il quale ultimo è importantissimo; 14. e indi viene il possesso
della ragione; 15. acquistato piucchè mai dall'esercizio della pewna e della
disputa; 16. purchè questa sia conveniente. L’ESPOSIZIONE. Iinportanza
dell'argomento, Ufbej della PAROLA: interno e SOCIALE. LA PAROLA s’unisce
strettamente al pensiero, ma non lo costituisce; bensi lo determina. Non
bastano i fantasmi, ma ci vuole IL SEGNO dell'idea, tanto più che IL DISCORSO esterno
aiuta con la successione sua la riflessione discorsiva. LEGGE DELL’ESPOSIZIONE si
è la legge dialettica; ossia determinare con la lingua l'ordine del pensiero;
il che apparisce anche da' nomi che si dànoo a'termio i della proposizione e
del raziocinio, e al congiungimento de' termini; e poi, la bellezza dello stile
dottrinale accorda il Vero col Buono. Regola perciò è: determinare coll'ORDINE
DELLA PAROLA l'ordine del pensiero; in conformità dell'idee e dell'idioma, donde
si traggono le regole tutte grammaticali, e dello stile. Quindi è impossibile separare
la bellezza dell ' Esposizione dalla profondità e dall'ordine del pensiero. Se
non determiniamo con le parole il proprio concetto, in conformità dell'intimo
legame fra i concetti, e in conformità del linguaggic, vengono gravi errori. L’INTERPRETAZIONE
E L’IMPLICATURA (“He hasn’t been to prison yet”). L'Interpretazione. Argomento.
In quante maniere debba determinarsi l'ordine del pensiero ALTRUI altrui.
Relazioni del DISCORSO con la lingua; e perciò la sappia, chi vuolesser critico;
tutti sapere ogni liogua, non si può pè giova; e allora valersi degl'interpreti
migliori. Relazioni del DISCORSO con la mente ALTRUI; e perciò stare al senso
letterale, quanto si puo; oon interpretare alla leggiera né cop troppo di SOTTIGLIEZZA,
non alterare né i difetti né i prenj; badare AI FINI che il testimone o lo
scrittore SI PROPONEVA – “what he meant, not what he means!” -- Relazioni del DISCORSO
con l' animo ALTRUI; e pero guardare alla capacità e alla veracità con
argomenti intrinseci ed estrioseci;: nè la capacità negare, preoccupati da
un'idea; nè, per la veracità, eccedere ne' due vizj opposti d'una Critica
adulatrice o caluoniatrice. Relazioni con la Società umana; e però con
l'incivilimento, con la Religione, con l
' uniune delle prove. Sunto, Metodi secondo le varie Discipline. Metodi speciali. Perchè i Metodi si
distinguono secoudo le Discipline varie? Quanti sono i Metodi speciali, che procedono
dalla relazione varia degli oggetti con la mente? Ogni errore sostanziale di
Metodo procede da un errore su detta relazione. Gli errori de' sistemi sul
Metodo, esaminati, rendono testimonianza tutti insieme alla vera dottrina. La
distinzione de' Metodi è necessaria pell'Arte del Vero, come si distinguono
l'Aiti speciali nell'Arte del Bello; e
chi oega la differenza de' Metodi, pega implicitamente esplicitamente una
qualche verità; come nell'Arti Belle, 8. cosi nell'Arte dialettica. 9.
Connessione de' Metodi;. 10. e ciò si vede anco nell' Arti del Bello. Hl. Ma la
connessione non toglie poi la distinzione, 12. secoudocbė il rispetto delle
verità mediane o collegatrici diversifica; 13. onde bisogna rispet tare la
varia competenza nelle Scienze diverse; 14. beocbe uno Scienziato possa
partecipare di più Scieoze. 15. Sunto. - 16. La confusione de' Metodi è coutro
il progresso della civiltà. Cap. XLII. Metodo degli Studj religiosi. 1.
Argomento. 2. Proprietà del Metodo negli Studj re ligiosi. – 3. Metodo storico
circa i fatti; – 4. e guardare do v apparisca propriamente la loro Storia. 5
Metodo joterpre tativo circa i fatti, -6, e le dottrine, 7. Metodo filosolico
circa la possibilità razionale de' fatti dividi, 8, e come gli . 505 -
Avversarj neghino irragionevolmente questa possibilità; 9. poi, circa la
razionale convenienza in genere de ' fatti divini, ma esclusa sempre la
necessità; - 10. poi ancora, circa la ra zionale convenienza in ispecie, cosi
de preliminari della Fe de, 11. come nelle Verità misteriose. 12. Unione del
Metodo filosofico, dell'interpretativo e dello storico, per le origini del
Culto e per la sua universalità nel tempo, 13. per le sue relazioni universali
con le Scienze e con l'Arti, 14. con la Civiltà intera, - 15. e con tutti gli
altri Culti. Metodo teologico si distingue dagli altri Me. todi e vi s'accorda..
Pag. 342 1. Argomento. 2. Il Metodo teologico si distingue dal filosofico,
perchè muove dall'autorità, – 3. perchè risguarda il soggetto medesimo in un
rispetto differente, 4. perchè, quantunque abbia io sè una parte filosofica,
non è meramente filosofico. 5. Si distingue dal Metodo critico e filologico,
percbė storicameote e ioterpretativamente riconosciamo cause sovrunane, l'
Intelletto sovrumano, tini soprannaturali. 6. Si distingue dal Metodo
matematico, perchè risguarda la libertà divina e l'umana ne' fatti religiosi. –
7. Si distingue dal Mo todo fisico; e tal distinzione ha importanza eguale pe'
Teologi, che non debbono considerare come il mondo è fatio, - 8.6 pe ' Fisici,
che non debbono considerare come il moodó fu fatto. 9. Il Metodo teologico
s'accorda poi col filosofico; perchè il Teologo non deve separare mai
l'attinenza fra Teologia e Filo sofia che porge a quella le verità prelimioari,
l'analogie razio nali e l'ordinamento; - 10. pè il Filosofo deve mai separare
l'attinenza tra Filosofia e Teologia, che rende più autorevoli o efficaci le
verità razionali. – 11. II Metodo teologico s'ac corda col critico, perchè il
Teologo ha bisogno di guardare alla Storia universale e alla Linguistica; — 12.
il Filologo ba bi sogno diguardare alla Storia religiosa e ai monumenti sacri.
13. S'accorda col matematico, per la severità del ragiona mento, per molti
esempj, per molte dottrine fisicomatematiche, per l'evidenza del concetto
d'infinità. – 14. S'accorda col fisi co, perchè il Teologo non deve mai tenere
la scoperta di cose na - 15. pė il fisico deve spregiare la verificazione delle
ipotesi, secondo le narrazioni sacre. 16. Sunto. Metodo della Filosofia.... 361
1. Argomento. — 2. Proprietà del Metodo filosofico. – 3. Raccoglimento nella
coscienza. 4. Esame de' fatti interni, delle loro leggi e cause. turali; - - 5.
Delle relazioni con gli oggetti; 6. e però avvi una parte del Metodo, asceosiva
da'fatti agli oggetti stessi, e una parte discensiya dagli oggetti a ' fatti.
-7. Si distingue dal Metodo teologico, e dal critico o filologico: 8. dal
matematico, per la natura de' concetti, la natura degli oggetti; – 10. dal
fisico, per la natura de' fat ti, e per le relazioni loro con gli oggetti, 11.
e quindi per la ricerca delle classi loro, e leggi e cause, e per i priocipi
della ragione. - 12. Si accorda col Metodo teologico per l'esa 9. e per . - me
della coscienza; 13. col critico o filologico, per lo stu. dio dell'umana
natura pe' fatti umani esteriori e nelle lingue; 14. col malematico, per la
speculazione di verità con ma teriali; – col fisico, per l'altigenze fra le
cose intellettuali e le corporee. 16, Sunto. CAP. XLV. Metodo della Filosofia
Civile.... Pag. 381 1. Argomento. — 2. Proprietà del Metodo nella Filosofia
Civile. Questa si fondi sopr'i fatti, – 3. badando alla notizia loro precisa e
al collegamento loro. 4. Studio delle cagioni; ma fuggendo di prendere
l'analogie per identità. - 5. Esame delle cagioni esteriori ed interiori, non
separabili, ma distinte. - 6. Le cagioni interiori hanno più importanza: 7. ma
senza trascurare l' esteriori. - 8. Si ascende alle leggi o ragio ni. Leggi
supreme della Scienza storica, della Politica, della Giurisprudenza,
dell'Economia. - 9. Le dette leggi non tol gono la libertà, - 10. come la
libertà non toglie alle conse guenze proprie la necessità; 11. tantochè in ciò
risplende l'ordine della Provvidenza. – 12. Dopo l'esame induttivo delle
cagioni e leggi può farsi la deduzione, o probabile o necessa ria, di ciò ch' è
avvenuto e che può avvenire. 13. Questa Filosofia delle ragioni o leggi, che
governano le nazioni, non può trascurare il procedimento storico; ma neppure si
può, per questo, trascurare la teorica di quelle. - 14. Talchè la Scienza
civile ha due presupposti, la Storia e la batura. –15. Però il Metodo suo si
distingue da ogni altro, 16. e a tutti si upisce. Metodo critico nella Storia.
401 t. Argomento. – 2. Esame de' fatti, Discipline che aiutano in ciò la Storia:
Cronologia e Geografia, – 4. Archeo logia, Diplomatica, Statistica, Archeologia
preistorica, Etno grafia. 5. Come si può andare in eccessi con queste disci
pline. - 6. Ipercritica. – 7. Esame delle cagioni; e iodi lo Storico rifà la
Storia entro di sè. 8. Cause finali, 9. particolari, generali, 10. psicologiche,
A1. divine. 12. Oggettività della Storia; 15. e come ciò la renda bel lissima e
ammaestrativa. – 14. Come lo storico si distingua da ogoi altro Metodo; 15, e
vi si accordi. 16 Sunto, CAP. XLVII. Metodo critico nella Linguistica. 420 1.
Proprietà del Metodo interpretativo delle Lingue. 2. Raccolta ed esame de'
vocaboli. – 5. Come bisogna valersi dell ' uso proprio nelle Lingue parlate, e
come giovino i testi moni dell'uso. A chi ricorrere per lo Lingue morte.
Grammatica poi determina le classi e le leggi de' vocaboli, 5. Avvisi necessarj
a far bene la Grammatica. – 6. Io che con siste la Filologia comparata. – 7.
Utilità di essa, e da quali estremi bisogna fuggire. 8. Il fine dell'esame
filologico è interpretativo principalmente; – 9. e ciò ne determina i con fini,
i modi, 10. e le relazioni; che sono massimamente due: con la Letteratura, 11.
e con la Storia, - 42. E iodi anche vediamo le indirelle relazioni della
Linguistica; cioè con 4. La ca, la Teologia. 13. con la Filosofia, 14. cop la
Matemati 15. e altresi con la Fisica, sempre distinguendosi da tutto ciò. 16.
Sunto. Metodo matematico... Pag. 440 1. Proprietà del Metodo matematico. – 2.
Quantità pore, cioè astratte da ogni altra idea. – 5. Nel che, poi, bisogna di
stinguere fra l'insegnamento elementare ed il superiore. 4. Si cerchino le
ragioni, sgombre da ogo' idea straniera. 5. Idea dell'Infinito, distinto
dall'indefinito matematico. - 6. Il Cavalieri. – 7. Distiozione dal Metodo
teologico, - 8. e relazioni con esso; dal Metodo filosofico: e accordo con la
Logica, onde l'insegnamento della Matematica è razionale, 12. Distinzione dal
Metodo critico, segnatamente dal letterario, 13. e accordo. - 14. Relazione col
Metodo fisico. 15. Come le dimostrazioni matematiche abbian virtù di assestare
gl'intelletti, e anche possano dissestarli.. 16. Sunto. Metodo nelle Scienze
fisiche. Argomento. Proprietà del Metodo nelle Scienze fisiche, - 2. Prinia
d'indurre si comincia dall'Analogia; 3. cbe talora non può giungere all'
Induzione, 4. Può essere fonte di errori; o del troppo generaleggiare, 5. o del
poco. – 6. Essa è di molta difficoltà. 7. Regola da tenersi. – 8. Indu zione.
Uffioj del senso e dell'iotelletto. 9. Ci solleviamo alle 10. alle cause, -
alle leggi, 12. e però al. l'ordine. Doppio errore de' Sensisti e degl '
Idealisti. 14. Frantendono allri la luduzione, ch'è legittima e necessa ria,
15. e da cui siamo condotti alla Deduziune. Suato. Cap. L. Segue del Metodo
fisico; e Ordine fra le Scienze.. 479 classi, 16. 1. Argomento. – 2. Abiti che
prende la meote per gli Studi fisici. – 5. Idem. 4. Necessità di mantenere
l'ordine fra le Scienze. - 5. Guai, se la Fisica è usurpativa. Confusione della
Fisiologia con la Psicologia: – 6. de' fatti esteriori con fl'interiori. – 7.
Confusione di linguaggio, e dogmatismo. 8. Si confondono i bruti con l'uomo; –
9. la volontà con gli atti meccanicamente determinati. – 10. Si distingue il
genere umano in più specie, poi si pongono le trasformazioni di tutte le specie;
-- 11. si confonde l'ordine de' fini col piacere • con la materiale utilità. -
Abiti cbe prende l'intelletto per gli Studj religiosi; Filosofia; - 14. per le
Matema. tiche; - 15.per la Gritica. 16. Conclusione generale. STORIA DELLA
FILOSOFIA ROMANA. Epoca dell' èra pagana. Civiltà degl' Italici. Successione
dei loro sistemi.. Scuole italiche. Sistemi latini. CICERONE Giureconsulti
romani. CIVILTÀ DEGL'ITALICI. SUCCESSIONE DE'LORO SISTEMI. Tre tempi
dell'incivilimento italici; i l'elasghi, la trasformazione loro negli Elleni,
le colonie. - Il terzo è più nolo; quali sono i suoi termini. Cinque cagioni
più principali dell'unione fra la civiltà orientale e l'italica: colonie,
commerci, viaggi, lingue, tradizioni. Tre opinioni sopr’esse; tutto
dall'oriente, nulla e opinione media. Dipendenza non generica nė volgare della
filosofia italica; daʼsistemi orien tali. La civiltà jtalica fiorisce primamente
dove più vive le comunicazioni con l’Asia e dove più ricco un anteriore
incivilimento. l'ero quest'epoca si chiama oriental italica. Questa è un'età di
passaggio, fra le qualità orientali e il tempo socratico. Si veda le attinenze
lia filosofia italica religione e civiltà. Quanto alla religione sacerdotale,
se n'ha indizi per le memorie de ' Pelasghi, de ' Misteri e degli Orfici.
Celebre passo di Erodoto sulla religione de ' Pelasghi, e sul nome degli dèi
posteriori ec., e conseguenze di ciò. Somigilianze tra la religione pelasgica e
quella de' Bragmani. Misteri: quelli di Samotracia istituiti da 'Pelasghi;
domma che s'insegnava segretamente e molto simile al panteismo dell'India. Ciò
pur anche ne’ misteri eleusini; panteismo naturale, metempsicosi, immortalità,
purificazione. - La teologia d’Eleusi non può interpretarsi solamente in senso
fisico. Testi monianze di lode que' Misteri pel domma sull'immortalità. Le due
anime; anch'in Omero ec. – Gli Orfici: qualcosa di storico v'è circa Orfeo,
benché con mistura di simbolo.-- La dottrina che va sotto il nome d'Orfeo si
raccoglie da tradizioni antiche e da'versi orlici. Le tradi zioni attribuiscono
a Orfeo una religione collegata poi a'Misteri eleusini: cosmogonie orliche,
somiglianti all'indiane. Quanto a'versi orlici, que sli non appartengono a
Orfeo; ma parecchi son certamente molto antichi. Da varj ioni (che si
riferiscono qui, apparisce il panteismo naturale come ne ' Vedi. Passi che fece
la religione tra l'Italogreci: panteismo natu rale con molte tracce del Dio
unico; adorazione degli astri, massime nel volgo; teogonie, o emanazioni sempre
più specificate e che prendono attri boti e nomi distinti; individuazione
ultima e volgare del politeismo, specie per opere degli artisti e de' poeti,
abbandonando quasi ogni simbolo. Memorie sul combattimento fra le religiose
tradizioni e il politeismo cre scente. - La filosofia, dunque, prima
sacerdotale; poi sacerdotale e laicale ad un tempo; cedè inline al politeismo,
rispettandolo, se non altro, come apparenza o credulità popolare. — Questo
resistere al male, e poi cedergli, si vede ancora per l'altre parti della
civiltà italogreca. La filosofia venne preparata da molte cagioni, e però dovè
fiorirvi assai presto, anzi chè cominciare a' tempi di Talete molto dubbiosi. -
La filosolia mosse da un ritorno sulla coscienza morale Questa filosofia morale
e religiosa fiori, prima di Taleto, non solo in Italia ma tra gli Ionj pur anco;
e se n'ha prove non dubbie. La cuola pitagorica precedeva Talute; ma va di.
slinto Pitagora dal Pitagoresimo. - Molti argomenti di fatto e molte auto rità
per mettere in saldo le antiche origini di tal filosofia. Anche la scuola di
Xenofane antecedė Xenofane stesso; e quindi abbiamo, prima il Pitagoresimo, poi
la scuola cleatica e l'ionica, infine i sistemi negativi. L'epoca
dell'incivilimento italogreco si può distin guere in tre tempi; de Pelasghi (o
con qual altro nome si voglia chiamare que' popoli primitivi); della trasforma
zione di essi negli Elleni; delle colonie. L'età de' pelasghi o degl’antichi
abitatori d'Italia si perde nella notte de’ secoli, ignoto il principio e la
durata. È certo bensì, che quegl’abitatori vennero d'Oriente, come se n'ha
prova in tutte le memorie e ne’ linguaggi e nelle reliquie dell'arti, e che i pelasghi,
quantunque paruti barbari a Ecateo e ad Erodoto e di barbaro dialetto, sono la
più antica sorgente e più copiosa delle genti e lingue e religioni elleniche (Balbo,
St. d'It.; Cantù, St. univ.; Guignaut, note al Lib. IV del Creuzer, Rel. de
l'antiquité. Sembraron barbari, perchè reliquie di popoli più segregati allora
da'popoli nuovi, già molti passati avanti. Fatto è che di là, ove i pelasghi
abitarono, fan derivare i greci la civiltà loro, dall' Elicona, dall'Olimpo e
dal Pindo. Accadde poi e IN ITALIA un cozzo di popoli. Qual cozzo, e di che
popoli, è molto incerto agli eruditi. Ma questo si sa, ed Erodoto l'afferma più
volte, che al lora con trasformazione lunga e tempestosa i pelasghi si
convertirono in elleni. Viene poi l'età delle colonie; un rovesciarsi di genti
greche le une sull'altre, un invadere, un esulare, e indi un propagarsi di
colonie, prima nell'Asia minore e nell'isole, poi nella Calcide, nell'Eubea, in
Sicilia e SULLE COSTE D’ITALIA, e infine (propag gini di colonie da colonie) in
Asia, in Tracia, sul Danubio e nel Mar Nero. Questa terza età è propriamente
storica. Dell'altre due il più va ingombro di favole. La terza comincia,
secondo l'Hofler assai temperato nelle cronologie, sul secolo undecimo avanti
l'èra nostra. (St. Univ.) In un'età così lunga e operosa, e ch’ebbe così lunghe
e ricche preparazioni, si forma la civiltà e FILOSOFIA DEGL’ITALICI -- la
quale, svolgendosi nelle colonie d’ITALIAe dell'Asia minore, cedè poi al
primato d' Atene; onde comincia una seconda età di filosofia. Nell'epoca di che
si parla ora, in ogni tempo del l'epoca stessa, cinque cagioni principalmente
mantenevano unite la civiltà orientale e l'ITLICA; colonie, commerci, viaggi,
lingue, tradizioni: Le colonie, nè dico solo l'egiziane di Lelege, Danao,
Cecrope ed altri, ma le prime venute dalla terra degli arii e de' persiani, e
l'ultime ellene che si spargevano per l'Asia minore; i commerci, che com’appare
in Omero, non cessarono mai tra ITALIA e le coste dell'Asia. I viaggi per
l'Oriente, non possibili a negare in tutto, de FILOSOFI d'allora, come Ritter
non nega quelli di PITAGORA A CROTONE, Ritter negatore sì voglioso. Le lingue,
che certo prendevano gl'inizj degli Orientali, e con le lingue le tradizioni
d'ogni maniera. Tra queste, principali le religiose, in torno a cui son tre le
opinioni: da Erodoto fino a Creuzer la mitologia ITALICA, la greca
segnatamente, si reputarono di provenienza orientale e il più egiziana. Ma poi
Müller, Voss e altri riferirono tutto ad origine greca. Guignaut (Note al
Crcuzer) ed altri con lui tennero finalmente l'opinione media. E questa si è
che i germi delle credenze religiose si trapiantassero d' Asia com'anco radici
e forme generali delle lingue; ne può pensarsi altrimenti, dacchè ivi
coabitarono un tempo le genti ellene: ciò non impedì, nè mai l'im pedisce uno
svolgimento di proprie fattezze così nelle lingue come nelle religioni: all'età
poi delle colonie, quand' elle si sparsero sull' Asia minore, per l'Egeo e nel
Ponto Eusino, dalle comunicazioni fra loro e i vicini orientali scaturi la
fonte più copiosa d'idee e di simboli asiani, manifesta già in Esiodo ed in
Omero. Talchè (ponete mente, o signori),
se lo spargersi di colonie nell'Asia minore avvenne dall’undecimo all'ottavo
secolo incirca, e nel con tinente poi d'ITALIA e di Sicilia dall'ottavo al
sesto, que st'ultimo fatto s'incontra per appunto col ritornare delle
tradizioni orientali fra gl’elleni, e ne sorge in mezzo la filosofia nuova
degl'ITALICI. Non istarò dunque a disputare com’essa deriva più o meno
da’sistemi orientali, bastandomi ch'ella dipende per fermo da molte tradizioni
d'Oriente o per le origini delle schiatte o pel riaccostarsi loro all'Asia. Che
tal dipendenza poi de' popoli d'ITALIA, nazione antichissimamente civili e
nella civiltà loro pertinaci, possa credersi affatto generica e volgare, cioè
senz'efficacia sull'educazione speculativa, giudicatene voi, o signori, che pur
vedete gli effetti odierni del comunicare le nazioni fra loro. Dove fu egli il
primo fiorire della civiltà ITALICA? nelle colonie d'Asia e di Magna Grecia. Non
già in Grecia propriamente detta. Perchè mai, o signori? La ri sposta non par
malagevole. Prima che in Grecia, fiori la civiltà negl'Ionj dell'Asia minore,
appunto perchè più vicini all'Asia media, sorgente de' popoli e della civiltà;
e prima pure che in Grecia fiorì nella Magna Grecia, cioè in ITALIA, perchè ivi
più forse ch'altrove ra dicò la civiltà pelasga, e perchè le tradizioni che
fanno ionio Pitagora e ionio Xenofane, venuti tra noi, dan segno come frequenti
e vive fossero le comunicazioni tra LE COSTE ITALIANE e l ' Asia minore. Dico
poi, ad ogni modo, che le colonie greche trovarono in ITALIA grandi semenze di
civiltà, nè però ebbero impedimento, anzi ebbero aiuto a presto incivilirsi e
prosperare. Di fatto recatevi a mente, o signori, due cose molto important. Prima,
che le tavole d'Eraclea, lette dl Mazzocchi, fan prova come i coloni greci
prendessero dagl'ITALIOTI misure e confinazioni agrarie. Seconda, che i Lucani,
i Bruzj, i Sanniti, dopo essersi ritirati davanti alle colonie greche, e
riparatisi a’ monti, ne discesero poi, e le ributtarono (Hofler), talchè più
non resta in ITALIA dialetti greci (in PUGLIA ve n'ha, ma di colonie recenti e
fuggite dai Turchi); la qual cosa non poteva accadere, se que'popoli montanari
non serbavano istituti civili. Ecco il perchè ho chiamato quest'epoca
orientalita logreca (italogreca ITALIOTA per più brevità); greca, perchè
filosofia di colonie greche; ITALIANA perchè sorse più splendida in ITALIA e
con tradizioni italiane (italica chia marono pure i Greci, come Platone ed
Aristotile, la scuola pitagorica e di VELIA); orientale, perchè con origini e
comunicazioni asiatiche. Non si toglie a' Greci la loro eccellenza ' se notiamo
quel ch ' essi appresero; offenderebbe la verità e loro chi loro negasse la
mira bile potenza di far proprio l'imparato e di dargli bellezza e compimento;
essi il ricevuto per dieci lo ridussero a mille e quel mille lo insegnarono al
mondo; ecco la lor gloria vera e non superata. Quant' all'ITALIA nostra, o
signori, principalmente sul terreno di lei sorse co' Pitagorici questa
filosofia nuova che tanto potè su Platone e sopr’Aristotile. L’ITALIA ricevè
dal 1 ° Oriente e da’Greci, l’ITALIA poi restituì alla Grecia e alla civiltà
de' secoli avvenire; e potè dirsi allora quel che poi disse PLINIO. Omnium
terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa, una cunctarum gentium in
toto orbe patria. Ma le lodi antiche suonano vituperio a’tra lignati:
avvaloriamoci, o signori, d'emulazione e di virtù, e non di lode. E
quest'epoca, di fatto (come dissi altrove), è un'età di passaggio; ritiene
ancora le qualità orientali, ma che mostrano già di convertirsi nell'altre
dell'età socratica. Così tra gl’ITALIOTI come tra gli Asiatici, abbiamo un
sistema religioso sacerdotale; ma ora si nasconde ne' misteri, e si separa
perciò interamente dalle credenze popolari che prevalgono. Tra gli uni e tra
gli altri la filosofia dipende dal sistema religioso. Ma ora si svolge in un
modo più laicale e più da sè stesso, perchè così ri chiede la mobilità di
quelle repubbliche, e perchè il sistema religioso si rimpiatta, e nè ha
sull'invecchiare il vigore speculativo degl'inni e commentarj vedici; par come
un'eco de' tempi passati, più che voce vivente. E siccome la filosofia di
quest'epoca pigliò i germi da' misteri (Ritter), che hanno del panteismo
orientale, così ell'hanno del panteistico a mo' degl'Indiani, ma con tendenze
più manifeste alla DIALETTICA che va per distinzioni anzichè per confusioni.
Poi, qui come là s' unì la poesia con la speculazione, ma più altresi se ne
distinse; perchè i poemi omerici non furon mai ravviluppati con una
enciclopedia d'episodj. Ed i poemi scientifici di VELIA (il Sulla Natura di
Parmenide) e di GIRGENTI (il Della natura di Empedocle) s'accostano alla prosa.
E qui come là v'è ncertezze storiche, meno per altro. Giacchè il più delle
incertezze cadono su' misteri e sulle origini pitagoriche, non già sulle scuole
posteriori. Premesso ciò, si veda, o signori, qual fosse in attinenza con la
filosofia la religione e la civiltà degl'ITALIOTI. Della religione, come
sistema sacerdotale, me ne passerò più breve che non feci per l'India, giacchè
(com ' ho detto) quel sistema era sul morire, e se n'ha meno ragguagli e meno
certezza. La religione sacerdotale ITALIOTA si può ricercare in tre modi: per
le notizie assai oscure dei Pelasghi, i quali tennero idee religiose più
primitive e più vicine alle orientali; per le notizie scarsissime de' Misteri;
per quelle degli Orfici. Essi e l'origine de' Misteri appartengono, credo,
all'età di combattimento e di trasforma zione. Quanto a’ Pelasghi, Erodoto
scrive che da loro non si metteva nome agli dèi; aggiunge che i nomi vennero
d'Egitto e che i pelasghi non li volevano accettare, sì ne rimisero la
decisione all'oracolo di Dodona, riuscito favorevole a que' nomi; e dice infine
che le nascite e le forme e gli aspetti degli dèi vennero cantati da Esiodo e
da Omero; tutte cose già ignote. Vuol notarsi com’Erodoto accenni pure che un
simbolo osceno gli Ateniesi lo presero da’ Pelasghi, i quali ne spiegavano il
senso ne' Misteri; e sappiamo di fatto che pure ne' Misteri eleusini e bacchici
si mostrava i simboli femminili e maschili secondo i riti d'Oriente. Erodoto,
uomo schietto, n'avvisa che il narrato da lui circ' a ' Pelasghi glie l'avevano
appreso le sacerdotesse di Dodona, ma che il resto, circa le invenzioni d'Omero
e d' Esiodo, lo diceva di suo. Che cosa si raccoglie, o signori, da questo
luogo così famoso? Primo, che la religione de' Pelasghi era più delle succedute
lontana dal politeismo; secondo, che quella si rappresentava co'sim boli
orientali della generazione divina e però ne teneva i principali concetti;
terzo, che il passaggio dalle divi nità innominate alle nominate, cioè da un
che meno pagano ad un più, non accadde senza contrasto, e indi si ricorse agli
oracoli; quarto, che tenuto il simbolo antico ed esteriore, la sua spiegazione
si fece nell'in terno de' Misteri; quinto, che i nomi si suppongono venuti
d'Egitto in età più recente, perchè all' Asia media non s'imputavano queste
tradizioni; infine che Erodoto reca l'antropomorfismo ad invenzione di poeti,
non perchè già tal errore non fosse cominciato popolar mente, ma perchè que'
poeti l'ordinarono (più o men di proposito) in sistemi di mitologia, ed in modi
specificati. Che poi la religione pelasgica somigliasse quella de Brag mani lo
attestano Ferecide e Acusilao in Strabone (Ed. Sturz ); dicendo che i Cabiri,
divinità pelasgiche, son generati da Efesto e Cabira, e che sono tre Cabiri
maschi e tre femmine. (Creuzer ) Venendo a’ Misteri, abbiamo da Erodoto, non
solo che i Misteri di Samotracia venissero istituiti da' Pela sghi (II, 5), ma
(com’abbiamo sentito ) che altresì nel l'interno di quelli si spiegasse i
simboli esterni. Come si spiegavano essi? Apollonio di Rodi serbò del vecchio
storico Mnasea un luogo prezioso circa i dommi primi tivi di Samotracia. (Schol.
Apoll. Rhod. ad 1, 917.) Che dommi, o signori? Similissimi a quelli dell'India.
S'in segnava, di fatto, un principio onnipotente, Azieros; la materia fecondata,
Aziokersa, o principio passivo; e il principio attivo, fecondatore, Asiokersos.
Vuol egli dir ciò che il principio attivo ed il passivo si distinguono
dall'essenza universale, Azieros o Brahm? 0 piuttosto (giacchè l'
interpretazione di que' nomi non è certa ), Aziokersa, Azieros, Aziokersos e
Casmilo o Cammillo che da taluno s'aggiungeva secondo Apollonio, rispon dono a
Maya, a Brahma, Visnù e Siva, taciuta l'essenza universale, il Dio neutro, come
non si nomina il Dio supremo nel Rig Veda? tanto più che Casmilo rispon
derebbe, l'afferma Dionosidoro, ad Ermete cioè al Dio delle trasformazioni.
Comunque, nell'incertezza de' docu menti tal cosa è certa, il domma samotracio
mostrare analogie non poche col panteismo vedico e con la Trimurti. (Saint
Croix, sur le Mystères du Paganisme; Creuzer, V, 2. ) E risponde non meno a
quel panteismo la dottrina samotracia dell'età varie mondane, o che il mondo si
distrugga e rinnovi per forza di fuoco. Anche ne' Misteri eleusini s'esponeva
la dottrina d’un principio passivo, d'uno attivo, dell'armonia mon diale che ne
nasce, e di ciò che distrugge le forme senza intermissione. Bacco, Cerere,
lacco e Mercurio, ossia grecamente Dionisio, Demeter, Iacco ed Ermete, non
ritraggono forse, o signori, i sistemi dell'India, del l'Egitto e della Persia?
E forse su quelle divinità è, innominato, il Dio androgeno, o il Cronos e lo
Zeus de' tempi remoti, divenuto poi un principio maschile, contrapposto a
Giunone principio femminile. Di que' Mi steri non si sa i particolari, vietato
rigorosamente il propalarli, come dice Pausania (art. Beozia) e Apollodoro
(Argon. I), e come dimostra il Meursio (De Festis Græcorum). Pure, da'cenni
dell'antichità si ritrae che insegnavasi nell' orgie il panteismo naturale (com’ho
detto di sopra), e la metempsicosi, e l'immortalità del l'anima (forse col
ritorno all'essenza divina), e la puri ficazione per mezzo della virtù. Il
panteismo naturale viene indicato da CICERONE (De Nat. Deor.), che diceva: come
le dottrine de'Misteri eleusini, ridotte a termini di ragione, si conosce
meglio per esse la natura delle cose che quella degli dèi. Che vuol egli dire? CICERONE
accusa di dottrina neramente fisica gli Eleusini, che la teogonia confondevano,
in realtà con la cosmogonia, e ciò accade nel panteismo naturale. Prova,
dunque, tale accusa, e viene confermato da molt' indizj, che la religione d'
Eleusi somiglia il panteismo de' Vedi; di fatto, che si trattasse d'una fisica
soltanto, o senza vedervi dentro la divinità o un che superiore alla natura
esterna ce lo vieta lo stesso CICERONE. Egli scrive nel II “De Legibus”, che i
Misteri eleusini s ' hanno da riguardare come il massimo beneficio d'Atene,
perch'insegnano a viver lieti e a morire tranquilli nella speranza di vita
migliore; cosa ripetuta da lui nelle Verrine, V. Dice Platone (Fedone) che
l'iniziarsi a' Misteri purifica i cattivi, e dà a'buoni felicità eterna, cioè
un'abitazione comune con gli dèi dopo la morte. Isocrate afferma (Panegirico)
che i Mi steri mettono in cuore agl'iniziati le più dolci speranze quant'alla
fine di questa vita e quant'all'altra che non finirà mai. Che poi gl'iniziati
s'ammaestrassero alla virtù si ha da molti argomenti; e il Meursio dimostra che
quelli si preparavano a’ Misteri con gli esercizi di castità, e poi si
credevano astretti, quasi da sacramento, a rendersi migliori. Così Aristofane (Rane)
mette in bocca a un coro d'iniziati queste parole: « Il sole e una luce
aggradevole sono per noi che onoriamo i Misteri e osserviamo le regole della
pietà verso i forestieri e verso i cittadini. » Però que' Misteri si chiamavan
teleti (7: ) ett ), giacchè da loro veniva la perfezione della vita. Va notato
che la me tempsicosi s' univa col domma dell'immortalità in que sto modo:
credevano gli antichi che il principio animale, principio di vita e di senso,
distinguasi sostanzialmente dal principio intellettivo; e che l'uno, cioè
l'animale, passi di corpo in corpo, ma l'altro se ne sciolga dopo alquanti giri
di secoli e in premio del vivere onesto, ritornando all'essenza universale o
divina. Però si di stingueva in Persia il fervéro o genio dall' animazione, e
in China Hoen da Pe, e tra gl’Indiani atma e pran, e in Grecia il démone (dzepov)
o anche logo da psiche, e tra’ ROMANI “animus” da “anima”. Quindi l'anima
sensitiva s'immaginò non altrimenti che come materia sottilissima, e che,
divisa dal corpo, ne teneva le apparenze, erane lo spettro od il fantasma,
vagante nelle notti e intorno a' sepolcri. Tal distinzione si vede pertino in
Omero, allorchè Ulisse approdando a'Cimmerj inter roga i morti (Odiss.): «
D'Ercole mi s'offerse alfin la possa, Anzi il fantasma; però ch'ei de' numi
Giocondasi alla mensa, e cara sposa Gli siede accanto la dal piè leggiadro Ebe,
di Giove figlia e di Giunone. » La terza fonte di notizie, cioè le memorie
orfiche, non vanno soggette, o signori, a tanta perplessità, e può trarsene qualche
costrutto; purchè evitiamo così la co moda credulità come l'eccesso de critici.
S'è giunti a du bitare d'ogni realtà storica ed antica rispetto ad Orfeo; ma,
quantunque la parte storica si frammischi a' por tenti della favola, e un nome (al
solito) rappresenti le dottrine e i canti di più, nondimeno qualcosa di reale e
d'antico vi ha; perchè Ibico (in Prisc.) che fiorì presso al 550 prima di Gesù
Cristo, già ram menta Orfeo; lo rammenta Pindaro (Pith.), anzi lo chiama padre
de canti apdov Tr UTEP (Ott. Mül ler, St. della Lett. Gr. ); lo rammentano
ancora gli an tichi Ellenico e Ferecide e le tragedie ateniesi. Da molti luoghi
di Platone (Leg. VIII; Ione, Convito, Rep. 11) apparisce che a tempo di lui
eran divulgati già molti carmi col nome di Museo e d’Orfeo; questi è citato nel
Filebo e nel Cratilo; e si scorge che l ' espiazioni de’de litti appartenevano
alle discipline orfiche. La dottrina che va sott' il nome d’Orfeo si racco glie
da tradizioni antiche e da versi orfici. Quanto alle tradizioni antiche, elle
attribuiscono tutte ad Orfeo una religione, che istituita da lui si collegò
quindi a Misteri d'Eleusi (Müller): e ciò conferma il già detto sulla natura di
quel sistema religioso. Si rileva poi dagli antichi scrittori un sistema orfico
di cosmo gonia, benchè sotto più forme, e talora v'han messo la mano autori
dell' èra cristiana. Creuzer ne dà cinque di tali cosmogonie; rilevantissima
quella di Ferecide Siro, pel quale son tre i principj Zeus o Giove o Cronos o
l'etere, il Caos o massa inerte ch'egli vivifica, il Tempo o la durata senza
limiti. E qui voi scorgete, o signori, l'indefinito ch'è concepito nell'astra
zione del tempo (come tra’ Persiani ), e dall'indefinito i due principj,
l'attivo ed il passivo. Nella cosmogonia che viene riferita da Atanagora e da
Damascio, v’ha l'idea indiana dell' uovo nell'acque, da cui esce Eros o Fa
nete, amore o manifestazione dell'armonia universale; e tal idea orfica viene
rammentata negli Uccelli d'Aristofane. Il mondo, poi, si rinnova per
bruciamento (co me secondo Eraclito, gli stoici, gl'Indiani e l'orgie eleu
sine), in virtù di Dionisio corrispondente a Siva. (Creuzer) Mi pare che il
Maury ottimamente riduca le teogonie o cosmonie orfiche a questo: Cronos genera
i due principj, l'etere e il caos; il caos in virtù dell' etere prende la forma
d'uovo, avviluppato dal l'erebo o dalla notte, cioè dalle tenebre primitive, a
cui segue la luce o l'amore, quando l'uovo si spacca, ossia quando il germe
involuto si svolge nelle sue parti: queste le idee più principali che risultano
dal paragone de' più antichi testimoni. Ma i versi che ci restano sott'il nome
d’Orfeo, son essi autentici? Aristotile e Cicerone negarono già che i versi
propalati fin d'allora come d'Orfeo gli apparte nessero; e più n'è dubbio a' dì
nostri, perchè nei primi secoli dell' èra volgare molti documenti si rimaneggia
rono, e molti se ne invento. Ma dice Mullachio (Fragm. Phil. Græc., ed. Didot.
Parisiis): Plerique ver sus puroque et simplici sermone insignes sunt; talchè,
considerata la purità e il fare antico di molti versi, e il riscontro di varie
testimonianze. ond' essi ci sono tramandati, e l'accordo loro con le tradizioni
vetuste, possiamo affermare che quelli senz'essere forse d’un poeta che si
chiamava Orfeo, sien per altro reliquie vere degli Orfici antichi. Udite l'inno
insigne alla Natura, tradotto dal Cantù nella Storia universale e riferito
negli Schiarimenti (Tauchnitz): « Natura, diva madre universale, in tante guise
madre, celeste, venerabile, molto creante spirito (o cuor ), regina che tutto
domi indomata, tutto governi, in tutte parti splendi, onnipossente, ve nerata
in eterno, divinità a tutte superiore, indistrutti bile, primonata,
antichissima,... comune a tutti, sola, incomunicabile, padre a te stessa senza
padre, che per maschia forza tutto sai, tutto dài, nodrice e regina di tutto;
feconda operatrice di quanto cresce, di quanto è maturo dissolvitrice, delle
cose tutte vero padre e madre e nodrice e sostegno. Le quali ultime parole già
udimmo per Aditi nell'inno del Rig Veda. Or bene, che dottrina s’asconde, o
signori, ne' versi orfici? La stessa che ne' Vedi: la natura universale è padre
e madre, ossia, principio attivo e passivo; ell’è divina, perchè non è la
materia, sì l'essenza universale, spirito divino primo e materia prima in unità;
è senza padre, cioè senza principio; è primonata, cioè generata da sè stessa
con uscire all'atto dall'indefinita potenza; indi, ella è padre di sè stessa;
infine, si palesa con tre divine opera zioni, genera tutto, sostiene tutto,
distrugge tutto. In Clemente Alessandrino (Stro. V), in san Giustino (Co hort.
ad Græc.), in Eusebio, nell'egloghe di Stobeo, in Proclo, in Porfirio e in
altri si ha varj altri frammenti più o meno antichi, ma che rendono lo stesso
sistema. Un inno ch'Eusebio prese da Aristobulo peripatetico. insegna qual sia
l'unico genitore del mondo, comie lo chiamano i prischi documenti degli
uomini,contro l'er rore antico, cioè contro il politeismo; e che Dio tiene in
sè il principio, il mezzo e il fine. (Pr. Ev.) Riferirò un altro inno
ch’Eusebio tolse da Porfirio (Ivi, e Stobeo, Eclog. Phis. 1, 2, 23, e Bibliot.
del Didot, Framm. ec. p.6 ): « Primo e ultimo è Giove che splende col fulmine.
Egli capo e mezzo, e a lui son create tutte le cose. Giove è nato maschio,
Giove nato intatta ver gine. Egli sostiene la terra e l'aria stellata de 'cieli;
ed è insieme re e padre d'ogni cosa e autore della loro origine. Unica forza e
unico demone che governa tutte le cose, quest' unico le chiude tutte nel suo
corpo regale, il fuoco, l'onda, la terra, l'etere, e la notte e il giorno, e il
consiglio, e il primo genitore e nume del l'amore: contiene tutto ciò Giove
nell'immenso corpo. E il capo esimio di lui e il volto maestoso irradia il
cielo, intorno a cui sparge con molto lume la chioma pendente e aurea d'astri;
e gli sta sull'alta fronte, a somiglianza di toro, un doppio corno che
l'accende di fulgido oro. Ivi sono l'oriente e l'occidente, giri noti a'
supremi dèi. Son occhi di lui il sole e la luna che corre di contro al sole. In
lui è mente verace, ed etere regale non sottoposto a morte, il quale col
consiglio muove e regge ogni cosa; e quella mente, perchè prole di Giove, non
può essere nascosta da niuna voce o stre pito o suono o fama. Così, egli beato possiede
e senso dell'animo e vita immortale, spandendo il corpo illu stre, immenso,
immutabile e con valida forza di brac cio. A lui son omeri e petto e terga
immani le ampiezze dell'aria; e con veloci e native penue precipitando, egli
vola intorno a tutte le cose. La terra, madre comune, ei monti che levano l'
alte cime, formano il sacro ven tre di lui ne fanno la zona media i tumidi
flutti del mare sonante. L'ultima base che sostiene il nume, sta nell' intime
radici della terra e negli ampj spazi del l'erebo e negli ultimi confini che
inaccessa ed immota spande la terra. Tutte le cose egli nasconde primamente nel
mezzo del petto, e poi le manda fuori nell'alma luce con opera divina. » Tra le
figure poetiche non si può non vedere in quest'inni l'opera della riflessione
che affaticasi di scoprire e spiegare l'attinenza fra Dio e l'universo,
confondendola, per abuso d'induzione, con l'attinenza tra l'unità delle
sostanze e la moltiplicità c mutabilità de'fenomeni. Non fa dunque meraviglia
se Pitagorici, Eleati ed Ionj che presero gli esordj dalle dottrine orfiche e
de' Misteri e però dall'antiche tradi zioni pelasghe, cadessero nel panteismo.
Ecco dunque i passi che sembrano fatti dalla reli gione fra gl’ITALIOTE. Prima
è un tal panteismo natu rale, in cui le divinità sono le forze della naturu;
non le forze per altro simboleggiate, come interpretò poi la scuola de' Fisici
(Plutarco la distinse sì bene dall'an tica scuola de' Teologi), bensì le forze
naturali confuse con gli attributi divini. In quel panteismo, come nel Rig
Veda, gli dèi son poco determinati: differiscono poco gli uni dagli altri;
escono tutti e rientrano nel Dio unico (Creuzer, V, 4). Talche certi Padri
pensarono ch'ei fosse un culto dell' unico Dio creatore, e tal culto
contrapposero alla corruzione posteriore dell'idolatria; Storia della F lofint.
17 2 ill 1 ma, veramente, non può chiamarsi un teismo, bensì un panteismo
naturale, dove nondimeno le tracce del l'unità di Dio si conservano così
spiccate da causare l'opinione ch'io vi diceva. Però le divinità pelasghe non
avevano un nome, dice Erodoto; e a dar loro un nome s ' opponevano le
sacerdotali tradizioni (Ispot 20091). E come narra Platone nel Cratilo che
prima si chiamò in genere 0: 9 le divinità, così cabiri le dissero i Pelasghi,
ossia (forse) potenti; e ciò risponde agli dei complices o consentes degli
Etruschi. Poi, questo panteismo naturale si ristrinse più par ticolarmente (e
specie nel culto popolare) all'adorazione degli astri, dove più che in altro ci
apparisce la po tenza di Dio: e che sia così l'attestano Platone (Fileb. e
Crat. ) ed Aristotile (Met.). Allora Zeus o Giove fu proprio il cielo; e si
mantenne questo nel detto volgare: Giove che fa? per dire: che tempo fa? Ma il
panteismo naturale de' sacerdoti più e più si foggiò a sistema d'emanazioni,
per ispiegare con modo determinato la dipendenza di tutto dalla causa prima; e
indi le teogonie e cosmogonie orfiche e quella d’Esio do. Le operazioni divine,
allora, ebbero nome partico lare, e vennero simboleggiate con immagini esterne;
come narrai che la triade pelasga prese il nome dall'onnipo tenza e dalla
fecondazione; e si sa del Giove con tre occhi in Argo (Pausania ), della Venere
piramidale di Pafo, e co' due sessi (statuina nella bibliot. naz. di Pa rigi),
dell' Apollo a quattro mani, del Sileno a due te ste, di una dea a quattro
teste nel Ceramico d' Atene, del Giano bifronte, della Diana mammellata d'Efeso
e della Cibele come informe pietra. Tutti questi nomi e simboli, a poco a poco
divennero nomi e attributi pro pri di certe divinità specificate; e la Trimurti,
le cui vestigia restano fin anche negli dèi omerici, Giove, Net tuno e Plutone,
s'individuò per modo che l'un Dio non più si confuse con gli altri, e questi si
moltiplicarono all'infinito. Però, questa individuazione favoriva il politeismo
a volgare e si mescolava con esso, e n'era eccitata e lo eccitava; e ambedue si
stabilirono più che mai con l'arti del disegno, che lasciati quasi del tutto i
simboli, ri dusse gli dèi a forme umane, con alcune qualità pro prie di
ciascuno. Un'ombra di simbolo restò, ma velata, nelle forme tra maschili e
femminili di Bacco e d'altri dei, figura sacra dell'androgenia, quando
s'abbandono la rozzezza dello scarabeo (Winkelman, St. dell'arte ec. ); e tal
simbolo (sia detto di passaggio ) alcuni artisti vo gliono imitare quasi
perfezione di membra umane e le sono immaginarie! Fatto sta che la scuola
d'Egina, Polignoto, Fidia, Prassitele, imitando i poeti ebbero più ch'altro
efficacia nel fermare quel politeismo di dèi spicciolati. Vuolsi por mente
adunque, o signori, che da un lato restava la tradizione sacerdotale, benchè
più e più cor rotta, e cresceva dall'altro il politeismo. Come restava la
tradizione? Ne' Misteri; già lo vedemmo. E perchè mai dovè occultarsi? Dicono
le memorie antiche, i primi re di Grecia e d'Italia fossero ad un tempo sa
cerdoti, capitani e giudici; patriarcato ch'è origine d'ogni nazione. (Arist.
Pol. III, 14. ) Le memorie stesse ci nar l'ano poi d'un contrasto lungo e
sanguinoso tra le classi sacerdotali e le guerriere; il che apparisce anco
nell'In die; ma se ivi le liti si composero stabilmente, fra gl'Ita logreci al
contrario scapitò la classe sacerdotale che (l'accennano i racconti circa
Erettéo e gli Eumolpidi) si dovè segregare in alcuni luoghi, come Eleusi,
lasciando a' re tutto il resto; e così, a poco a poco, e tanto più quando
sorsero i governi popolari, s'abbandonò l'inse gnamento religioso e restò
solamente i riti esteriori del sacrifizio e delle feste. Quell'insegnamento,
dunque, escluso da ' popoli, rifuggivasi nel mistero, in que'luoghi appunto che
la classe sacerdotale abitò, com’Eleusi e i sacri querceti di Dorona. E che fa
intanto la filosofia? Ella è sacerdotale dap prima, o teologia, perchè tenute
le tradizioni asiatiche, cresce nel sacerdozio pelasgo ed orfico; poi, nell'
età che > il sacerdozio si separa e
s’asconde, dalle semenze reli giose de' Misteri germogliano i primi sistemi
come i pi tagorici, che han del sacerdotale e del laicale ad un tempo. Questa
filosofia, perciò, combattè dapprima il politeismo, per esempio ne' frammenti
di Xenofane che derideva il fingere dèi a somiglianza nostra. Poi, dac chè il
concetto di Dio sempre più s' annebbiò, i poste riori consentirono a' tempi, e
gl' Ionj, gli Eleati, e molto più i sofisti, menaron buona, se non altro come
appa renza o come credulità popolare la mitologia. Nè altrimenti andò negli
ordini tutti della civiltà. Di fatto; quando i governi regi si mutarono in
popola reschi, molta efficacia e salutare v'ebbe la filosofia mercè i
Pitagorici, e segnatamente Zeleuco e Caronda, i cui frammenti di leggi muovono
dal dimostrare che Dio è; ma in progresso la filosofia non potè resistere alla
li cenza, fu perseguitata, e però cadde in mano di sofisti che inventarono
l'arte della parola per la parola, malvagi adulatori di plebe e mercanti di cavillo.
Abbondando le ricchezze, nate da operosità, fiorirono scienza ed arte; ma
successe un abito d'ozio e di godimenti, e la Magna Grecia in ITALIA e l'Ionia
caddero in mollezze di trista fama. Resisterono i primi sapienti, come dimostra
l'istituto pitagorico; ma cedè a poco a poco la loro austerezza, e già Xenofane
canta « ch'è dolce nel verno stare al fuoco bevendo, e domándare all'ospite:
quant'anni avevi tu quand' il Medo invase? » il Medo, o signori, invasore della
patria ! lei sofisti, all'ultimo, la filosofia diventò l'arte di godere.
Nell'ordine morale s'arrivò a tal segno ch'Ateneo rimprovera Platone, perch'e'
disse nel Sofista come Parmenide di VELIA ama Zenone di VELIA; quasichè tal
parola, detta di giovane, non ricevesse mai buon senso. E la filosofia,
resistente dapprima co' Pitagorici, giunse co ' sofisti all'indifferenza tra
bene e male; indifferenza molto diversa e peggiore dell'indiana; chè questa è
non curanza del moltiplice e vario ch'apparisce, in grazia dell'unità
sostanziale, ma quella è non curanza senz'al tro; ivi è un'ombra di moralità,
qui nessuna. Mostrate così l ' attinenze tra filosofia, religione e ci viltà
degl'Italogreci, resta che vediamo il principio e la successione de' loro
sistemi. Cominciamo da dire che in tutta questa età e per confessione di tutti,
v'ha incer tezza sul tempo preciso de' varj filosofi; e bisogna ri correre il
più a Diogene Laerzio, autorità poco accettata. Le congetture dunque son lecite;
e tutti ne fanno. Avvertirò inoltre che sul definire l'età de' tempi remoti
variano le tendenze degli Orientali e de' Greci; que sti tirano al meno e
quelli al più. Per che ragione? I Greci amando la certezza de' fatti, li
trasportano quanto più si può nel tempo storico, e lontani dal favoloso; al
contrario degli Orientali, che amano l'indefinito de se coli; effetto del
panteismo. Premesso ciò, rammentate, o signori, che prima dell'undecimo secolo
avanti Cristo Pelasghi ed Elleni si mescolarono insieme; e allora co minciò
l'età delle colonie; e da esse la più nota civiltà ITALIOTA. Quali preparazioni
vi riscontriamo noi per la filosofia? La civiltà pelasga, le dottrine orfiche,
i Mi steri; inoltre le comunicazioni più che mai frequenti per l'Asia minore (dove
prosperavano tante colonie) coll' Asia media. E che tempi erano quelli per
l'Asia media? Rammentiamocene, o signori; erano i tempi di splendida civiltà,
quando circa il mille avanti Cristo si compilavano i Vedi ed i poemi, e
fiorivano le scuole di filosofia. Chi potrà dunque negare, che date tali prepa
razioni e la civiltà delle colonie, e dato quell'impeto di vita civile ond' il
pensiero s'agita tutto, e poste le sedi nuove in paesi non selvaggi come l'
America, ma già inciviliti, sorgessero presto le speculazioni filosofi che? Non
farebb' egli un'ipotesi strana chi le credesse indugiate a tre o quattro secoli
dopo, fino a Talete, anzichè colui che le dicesse più meno già in via circa il
mille od al novecento prima dell' èra volgare? A ogni modo, tempi precisi non
se n'ha; e poichè la critica devé supplire, parmi più ragionevole vi supplisca
così, che stando ad indizi già riconosciuti per poco probabili. La filosofia
mosse anc' allora da un ritorno sulla coscienza morale; ce ne assicura la
moltitudine di sen tenze attribuite dagli antichi a ' Sette sapienti; a uno de'
quali, cioè a Chilone, si reca il detto: conosci te stesso. Abbiamo poi alcuni
tra ' poeti gnomici, come le recide, della cui antichità non si dubita punto; e
chi, Foclide per esempio, lo fa contemporaneo, chi anteriore a Pitagora. Le
sentenze di Mimnermo, Evano, Metrodo ro, Teognide e va' discorrendo, mostrano
chiaramente la riflessione sulle verità morali, benchè nascosta in afori smi.
Così queste di Foclide: « Non dire mendacio, ma parla sempre con verità.
Primieramente venera Dio e quindi i tuoi genitori. Non disprezzare i poveri, nè
voler giudicare alcuno ingiustamente, perchè se tu giudiche rai male, Dio poi
ti giudicherà. Fu da Dio a’mortali dato in uso lo spirito ch'è immagine di lui.
Il corpo abbiamo dalla terra e si scioglie in essa e siam polve re, ma lo
spirito va in cielo. » Or bene, io dico, e mi sembra di poter essere sicuro,
che codesta filosofia morale e religiosa sorse e fiori prima del panteismo
materiale di Talete e d’Anassi mandro; perchè n'ho prove storiche (come dirò),
e per chè dalle tradizioni sacre orientali e orfiche non si poté saltare in un
subito alla materialità. Dove fiorì? Non in Italia soltanto co ' più antichi
savj della scuola ita lica, ma nell' Asia minore altresì, fra gl ' Ionj,
dovunque insomma germinò la civiltà ellena. Di fatto, che che vo glia credersi
delle tradizioni circa Pitagora e del suo venire dall' Ionia, esse, unite alla
certezza che Xeno fane pure ne derivasse, mostrano almeno che l'antichi tà non
reputò straniere agl' Ionj 1 ' idee pitagoriche ed cleate. Aggiungete che
Talete ha molti più segni di spiritualità che non i posteriori; e tal
peggioramento non si può negare. Perchè dunque, dimanderete, vien solo
ricordata la scuola italica? La risposta è facile e il caso è comune; si
ricorda i luoghi dove la scuola più crebbe e durò. y Ma la scuola pitagorica o ITALIOTA,
dimanderassi an cora, ell’è anteriore a Talete, cioè al panteismo materiale
degl' Ionj? Mi sembra certo, purchè si distingua Pitagora dal Pitagoresimo;
questo è la totalità di dot trine comuni a tutta una scuola di filosofi; quegli
è un tal nome, parte storico, parte simbolico, che può essere prima o dopo,
senzachè provi l'anteriorità o posteriorità della scuola nel suo nome
rappresentata. E nondimeno anche sull'età di Pitagora son diverse l' opinioni.
Quanto a Pitagora, Meiners lo crede nato al 584 avanti l'èra nostra; lo crede
nato Lacher al 608. Come si determina ciò? Per autorità non salde, e per vie di
congetture. Talete poi, secondo Apollodoro, sa rebbe nato il 640, anteriore
perciò a Pitagora; dáta non senza incertezze. (Ritter, St. della fil. ant.) Ma
ecco il Niebuhr (St. Rom. I) che contrapponendo a Polibio ed a Cicerone
l'autorità d'alcuni scrittori orientali, crede probabile la contemporaneità di
Pitagora e di Numa; talchè andremmo più oltre che la data di Talete. Avanti
alle dáte di Pitagora s'ha in ITALIA e Sicilia ZELEUCO E CARONDA, legislatori
l'uno di LOCRI e l'altro di CATANIA; e ne' frammenti di quelle leggi v'ha il
segno delº pitagoresimo. Il Krug fa CARONDA DI LOCRI del 668; il Benteley,
l'Heyne, il Saint Croix, Centofanti, del 730. Quando Pitagora venne in Italia, in
CROTONE, si dice che subito la scuola crescesse tanto di numero e di potenza,
da bisognare feroci persecuzioni a spiantarli: il che umanamente non può
accadere. La scuola dunque precedeva. Il personaggio di Pitagora, l'istitutore
insomma del Pitagoresimo, diventa un simbolo in gran parte; il che dà segno
d'antichità molta, e di tradizioni orientali. Nella scuola pitagorica è
mescolanza di culto e di speculazione; e ciò indica il passaggio dall' età
teologicha (MYTHOS) alla filosofica o LAICALE (LOGOS), che in modo distinto
vengono più tardi. Secondo la comune leggenda, tra l'istituzione della scuola ITALIOTA,
il suo prevalere anco negl' istituti civili, e la sua persecuzione, corsero
pochi anni; il quale rovesciamento di favori popolari si dà presto a un uomo,
tardi a un potente consorzio d'uomini. La storia di Pitagora, simbolico in gran
parte, ha natura di leggenda; e sogliono le leggende avvicinare tempi lontani.
Indi le confusioni dette di sopra. Nella
scuola pitagorica son chiare e molte le vestigia orfiche; talchè l'antichità di
queste palesa l'antichità di quella che le raccoglie; com'elle poi diminuiscono
in progresso, e appena si scorgono negl' lonj. I Pitagorici han forma di
consorteria, e tra loro è comune e costante un corpo di dottrine. Ciò rammenta,
o signori, gl’usi orientali che sempre più si perdono nelle repubblichette
popolari; e rammenta l'antichità più remota, dove più vale l'unione e
l'autorità. Aristotile dà la filosofia de' Pitagorici come una, e vi scopre
solo differenze accidentali. Le tavole d' ERACLEA, lette dal Mazzocchi (come
accennai già), mo strano un incivilimento anteriore, e quindi un'antica
preparazione alla scienza. E delle prove d'antica civiltà nelle genti d'ITALIA
recherò qui cosa che pare non fosse disputata fra' Greci, val a dire ch'essi,
come dice Taziano (Or. contra Greci) prendessero da’ TOSCANI la plastica.
Cousin dimostra con le autorità non ricusabili di Sozione, d' Apollodoro e di
Sesto che Xenofane nasceva il 620 avanti l'èra volgare, un 60 anni circa prima
di Pitagora stando agli anni di Meiners. Ora, se la dottrina di Xenofane tenne
del Pitagoresimo, come mai sarebb'egli tanto più vecchio del suo maestro? Se
bisogni stare alle memorie greche talquali, i capi della scuola pitagorica di
CROTONE e di VELIA vennero d'Ionia; men frechè in lonia correva un tutt'altro
pensare. Qui, prendendo la cosa talquale, v'ha due inverisimiglianze, prima che
ne luoghi de' capiscuola non ci avesse quell'indirizzo di speculazioni, come
sarebbe assurdo che d'Alemagna venissero in Italia fondatori d'eghelismo e là
non n'apparisse il focolare. Seconda, che piuttosto que' filosofi cercasser
favore in Italia, sé qui non preparato il terreno. Ma tutto si concilia, quando
il silenzio delle mete, in tanta oscurità di tempi dissero all'incirca il più
rinomato, tacquero il meno, senza negarlo bensi, chè non lo conobbero forse.
Dissero la scuola ionica, tacendo la scuola religiosa comune là ed a'
Magnogreci, O ITALIOTI, perchè più celebre qui; dissero i più famosi capi delle
scuole ITALIOTE, tacendo le lontane e recondite preparazioni. E ch'elle ci
fossero, mostra il celebre passo di Platone che fa dire a Zenone di VELIA. Queste
opinioni sull'uno cominciarono da Xenofane, anzi da più antichi di lui. (Soffista.)
Brandis e Ritter crederono s'alludesse ad avere quella dottrina germe innato
negl' intelletti. Al che ripugna Cousin e con ragione. Prima, qui si parla
storicamente e non teoreticamente. Poi, se volesse allu (lere a germi naturali
e senz' origine, come mai, anzi, parlerebbe Platone di cominciamento anteriore?
(te 2.2.1 i te tepisºsv č.pčarevov). De primi Pitagorici non v'è scritti;
scrissero i più vicini al tempo di Socrate; e ciò per l'uso degl'insegnamenti
orali, per la costanza delle tradizioni e pel segreto delle dottrine religiose.
Or tutto ciò è segno d'antichità e risponde agli usi orientali. Nella scuola
ionica poi sembra che fino il primo, cioè Talete, scrivesse versi,
probabilmente prose (Diog. Laert. I, 34, Plut. de Pitiæ Orac. 18, Arist. Phys.
); il che mostra un fare più nuovo, e desiderio di stabilire la novità. L'uso
di non iscrivere, uso lasciato si tardi da ' Pita gorici, spiega ben anco il
perchè sembrò più recente « lella scuola ionia il pitagoresimo: più recenti
erano le scritture, non la loro filosofia. Recherò infine (lue singolari
testimonianze di Padri greci, d'Ermia verso la fine del secondo secolo, e d'
Eusebio dottissi mo ne' libri originali della greca filosofia. Ermia, dun que,
nell'opera Derisione de' filosofi gentili enumera le contrarie opinioni loro
sull'anima, sul bene, sull'immortalità, sulla divinità e sui principj del mondo;
e poichè ha.rammentato varj filosofi, viene a Pitagora e lo distingue dagli
altri così: egli d'antica nazione. Qui, segnalare tra gli altri Pitagora per
antichità, è notabile assai. Eusebio, poi, più espressamente nelle Preparazioni
evangeliche dice: che Pitagora nacque a Samo O IN TOSCANA o altrove, ma non
greco, e ch' egli fu principe de filosofi, talchè alla filosofia ITALICA di
TOSCANA (ETRURIA) E CROTONA succedette la ionica e la di VELIA. Anzi anche Flavio
rammenta tre filosofi prischi con quest' ordine qui, Ferecide Siro, Pitagora e
Talete. Questi argomenti, la cui tesi è convalidata pure dal l'autorità di Niebuhr,
di Cousin, di Gioberti (nel Buono), di Poli (Appendice al Manuale del
Tennemann) e di Centofanti (Pitagora), e che non hanno in contrario argomenti
positivi di tradizione, o concordi autorità di storici antichi, mi fanno sicuro
che il pitagoresimo, come scuola religiosa e morale, anteceda l'altre scuole;
poi venga la di VELIA, e come più affine alla prima, e come precedente a
Xenofane stesso per la dottrina dell'unità universale; succeda loro l’ionica,
quant'al suo cominciamento bensì, non quanto alla sua continuazione che
s'accompagna (com' accade) con l'altre; e vengano infine, su che non ha dubbio,
le gative. I quali sistemi darann ' argomento ad altra lezione. vole ne SCUOLE
ITALCHE. Causa interiore del Pitagoresimo è la necessità d'una riforma morale:
da ciò l'esame di coscienza posto per principio di filosofia e di vita buona.
Cause esteriori. Si volle la riforma religiosa e morale da cui la civile, per
mezzo della filosofia. - Parti non dubbie nelle memorie degl'istituti
pitagorici. Notizie su Pitagora e sugli altri più famosi. Quali documenti
abbiamo certi sulla scuola italica. - Il Carme aureo i antico.- Le notizie che
ci danno gli Alessandrini non vanno accettate senza esame, ma nemmeno rigettate
con leggerezza. - Oggetto della filo sofia pitagorica, suo fine e metodo. —
Quali cagioni dettero impulso a quel metodo che fu applicazione d'idee
matematiche. Ma ciò non vuol dire che lal dottrina stia in un ideolismo
matematico; giacchè la monade si pensò come una forza. - Il numero
rappresentava l'attinenze o l'armo. nia; indi il simbolo musicale. Due furono i
significati del numero, it simbolico ed il reale. Verità del metodo matematico;
suoi eccessi nel pro cedere dall'astratto al concreto: esempi varj. – Si cercò
le leggi mentali della quantità effettuato nella realtà, per salire con esse a
Dio, causa, ragione e legge. Dio è principio de'principj; e poichè i principj
delle cose si dis ser numeri, Dio è il numero per eccellenza. -Questo è l'unità.
– L'unità bensi presa, non come parte d’un tutto, ma in senso generale. - A Dio
non si può applicare il concetto d'uniti nemmeno in quel senso; Dio è sopruni
tà; ma l'errore precedė dalla induzione astrattiva. Si dimostra co ' do cumenti
che il significato dell'unità pitagorica ė panteistico, ma ondeg giante tra il
vero ed il falso. - L’unità, come per gl'Indiani, parve l'indefinito che si
determina. — Grandi verità contenute nell'implicitezza di quelle dottrine. —
Dio si pensó come unità suprema di tutti i contrarj; l'universo, come i
contrarj in atto, e ridotti all'armonia da Dio. - L'uni tà generale o la monade
che si distingue in monadi secondarie, spiega lo teoriche d'allora
sugl'intervalli, sul vuoto, sull’intinito, sul finito ec. L'anima è numero, ed
è nel corpo come Dio nel mondo; è l'armonia del corpo. La verità è l'uno e il
numero; l'errore va fuori dell'armonia. -- Intelletto e senso. — Dio, ragione
prima del conoscere, perché gl’intelletti si credettero divini. Poi, perchè Dio
è il numero per eccellenza, e il nu mero è l'esemplare del mondo. Quanto alla
scienza, si sbagliò cercando sempre l'assoluta necessità razionale. Numero e
armonia il bene; disar monia il male. - Fine dell'anima intellettiva il ritorno
all'essenza pri ma. --- Come si tentó fuggire le contraddizioni del panteismo
naturale negando la cognizione diretta dell'essenza. - Xenofane tentó fuggirle
col panteismo ideale. - Cinque concetti principali di Xenofane: Dio è uno;
sommo potere; gli manca ogni contingenza e però non è nè finito nė infi nito né
in quiete nè in moto; Dio non può nascere, perchè il non ente non può dal nulla
divenire qualcosa: Dio è il tulto. — Indi segui che il mondo è apparenza. –
l'armenide stabilisce chiaro il doppio aforismo degli Eleati e degl ' Ionj, e
condanna il secondo. Muove dall'idea generale d'essere; Dio si fa più
indefinito che in Xenofane. – Tutto è idea. Melisso fa Dio più indeterminato
ancora, chiamandolo un qualcosa. -- Gli attributi della moralità non più
appariscono. – Panteismo materiale de gl'Ionj: nasce in condizioni opportune. -
Il moto delle cose vien conside rato nell’ente o nell'assoluto, ch'è la materia
eterna divina, dotata di pensiero. – Diversità nel concepire tal moto fra '
dinamici e i meccanici. E la causa prima del moto la posero diversamente in
quella cosa che più parve trasmutabile in ogni altra cosa. – Talete ba dello
spirituale anco ra; la grossolanità materiale viene crescendo. Anassayora vide
l'assur dità del panteismo, e prese il dualismo; ma non détte troppo alla mente.
— Idealismo ateo di Protagora; materialismo di Democrito; le due forme di
scetticismo particolare. Scetticismo universale di Gorgia ec. Misticismo
d'Empedocle; e perché il suo sistema paia indeterminato ed ecclettico. — Due
schiere d’uomini; gli atei e i l'itagorici di quel tempo: interpreta zione
storica, e interpretazione fisica della mitologia. Qual è mai, o signori, la
causa interna del Pitagoresimo? La necessità d'una riforma morale; necessità
profondamente sentita da uomini ornati, quanto la gentilità comporta, di grandi
virtù. Il conosci te stesso e esame di coscienza morale negli istituti
pitagorici, e fondamento altresì di speculazione; chè, nella coscienza
e'trovarono il dovere e nel dovere Dio. Cagioni esterne furono il guasto
crescente della religione, de costumi e della libertà, al quale s'oppone il
Pitagoresimo, e inoltre (com’ho avvertito più volte) le tradizioni e i commerci
d'Oriente, le dottrine orfiche ed i Misteri. Si volle, pertanto, una riforma
religiosa e morale, da cui venisse la civile; e criterio a tutto ciò désse la
Scienza. Il che spiega gl'isti tuti pitagorici su cui gli Alessandrini
mescolaron favole, ma la natura di consorteria e un culto segreto (Ritter ) e
la sostanza dell'arti educative non cadono in dubbio. La riforma religiosa si
tentò co’riti e dommi segreti; la morale con l'opporsi a tre vizi, voluttà,
superbia ed avarizia, ed esercitando anima e corpo nella musica e nella GINNASTICA;
la civile, domando la licenza con abiti disciplinati ossia con l'autorità (curos
pz) e con la vita comune. Il discepolato morale prepara così alle speculazioni,
e, preparato, s'eleva l'alunno a gradi più alti e più liberi. (Centofanti,
Pitagora; Puccini.) Circa Pitagora o di Samo nella lonia o di Samo nella Magna
Grecia in ITALIA, poco v'ha di sicuro e con mescolanza di simboli; pare
tuttavia che un fondamento storico v’ha e ch'egli e uomo di molta dottrina e
virtù. Per la dimenticanza in che vennero le colonie di Magna Grecia in ITALIA e
tutte le antichità italiche dopo le conquiste di ROMA, e per la guerra feroce
contro i Pitagorici, non ne sappiamo quasi nulla; li sappiamo bensì a lor tempo
in molta riverenza. Si rammentano con più certezza LISSIDE, CLINIA, ED ARCHITA
cittadini DI TARANTO in Magna Grecia, EURITE E FILOLAO o di TARANTO o di CROTONE.
ARCHITA, il più celebre di tutti, capitana più volte gli eserciti, e non ha mai
la peggio; buon padrefamiglia e cittadino, domatore di sè stesso, famoso per
invenzioni e scoperte in musica ed in matematica e per libri d'agricoltura. La
scuola pitagorica venne atrocemente perseguitata; molti fra gli scampati, o si
rifuggirono in Grecia o si sbandarono in ITALIA. Sembra che l'odio movesse da
opinioni politiche, parteggiando essi per GL’OTTIMATI; ma chi badi alla
segretezza del culto attestata da Erodoto, e alla tradizione che un capopopolo
attizza le ire, invelenito dal non es sere accolto nell'adunanze, s'accorgerà
che trattasi qui, come per Anassagora e per Socrate, del politeismo volgare
geloso e persecutore. Gli scritti col nome di TIMEO, d'ARCHITA e d'OCELLO
LUCANO sono apocrifi, e i frammenti di BRONTINO e d'EURISAMO; ma non quelli di
FILOLAO (vedili nel libro di Boecckh su FILOLAO, e Ritter); i quali col carme
aureo e con ciò che narra Platone ed Aristotile sulla scuola ITALICA, ne dánno
contezza. Nel sostanziale di essa gli storici vanno d'accordo. Quanto al Carme
aureo, e's'attribuì a FILOLAO, a EPICARMO, a LISIDE, a EMPEDOCLE di Girgenti,
da Crisippo a'Pitagorici. Sta il Mullachio per LISIDE; e: mostra, comunque, che
ne' versi aurei non v'ha nulla di non antico, e come un alemanno, secondo
l'usanza di molti critici odierni, neghi l'autenticità pel dubbio di tre’ sole
parole, che a lui non paiono antiche; e antiche le dimostra il Mullachio. (Fragm.
Phil. Græc. Didot). Le relazioni che ci danno del pensar pitagorico gli
Alessandrini, non vogliono accettarsi senza discrezione; chè in loro la critica
è poca, molta la voglia d'interpretare a lor modo gli antichi; tuttavia dire
come si dice) che il Pitagoresimo, quale dagli Alessandrini si descrive, non i
meriti fede per le grandi somiglianze con Platone, è dir troppo, sapendosi
negli Psilli di Timone Fliasio che quegli ebbe in gran pregio i Pitagorici: « E
tu, o Platone, giacchè ti possedeva l'animo il desiderio di sapere, comprasti
con gran pecunia un piccolo libro, da cui imparasti a scrivere tu pure il TIMEO.
(Fragm. Phil. etc. ) La filosofia de' Pitagorici, come tutta la filosofia
antica, come la filosofia d'ogni tempo, meditò i primi prin cipj dell'essere,
del conoscere e dell'operare. Il pensiero della causa suprema ch'è ragione e
legge, vediamo bene da tutte le loro memorie che occupò quegl'intelletti for
temente. Fine della filosofia parve loro ed a tutti gli antichi, la liberazione
degli errori e de' mali comuni, ma con tal divario dagl'Indiani, che la
speculazione dovesse congiungersi all'operosità civile. Metodo di filosofare fu
il matematico; cioè l'applicazione d'idee matematiche alla natura universale,
così esterna come interna, e al suo principio. Onde mai tal metodo? quali
cagioni gli dettero im pulso? Già negli antichi v'ha inclinazione di filosofare
a priori sul mondo (sebbene l'esperienza, anch'esterna, non s ' escludesse dai
Pitagorici), perchè mancavano gli stromenti; poi, premeva più lo speculare
teologico, re cato altresì nella fisica; e le lunghezze d'una fisica os
servatrice non si comportavano in tempo, che i varj studj non erano scompartiti
tra più dotti. Inoltre l'arimmetica e la geometria vennero d'Asia, nate tra le
scienze più antiche, perchè non bisognose d'osservazione. Altresì di tali
scienze s’aveva necessità tra popoli commercianti e tra colonie che dissodano
terreni, asciugano paduli, e scavano canali. Più, la discordia tra' politeisti
e il mono teismo - antico fece spiccare, quant'al concetto di Dio, le nozioni
d'uno e di moltiplice, come anche si scorge nel vecchio Testamento. Infine,
tempo é spazio ci danno la quantità, e sappiamo che l'induzione falsa indíava,
come ne' Vedi, lo spazio e massime il cielo (onde l'uranismo), e il tempo (onde
l’Aherene de' Persiani, il Crono de Greci, il Saturno de' Latini), talchè le
tradizioni orientali e or fiche, cadendo in tali concetti, davano impulso a
quel modo di filosofare. I Pitagorici, dunque, parlano dell'uno, del due, del
tre, del dieci e delle combinazioni loro allorchè discor rono del mondo e di
Dio. Ma si vuol credere forse che tal metodo li riducesse a vane astrazioni?
ossia, ch'e'sti massero Dio e il mondo idee matematiche e nulla più? In altre
parole, il Pitagoresimo fu egli un idealismo matematico? No, sicuramente;
Aristotile lo spiega chiaro dicendo: ch'essi stimarono le cose una imitazione
de'numeri (μίμησιν είναι τα όντα των αριτμών. Μet.). Imitazione, dunque; a
leggi di numero, cioè, rispondono le cose; e la mente ritrova l'une nell'altre;
e in questo è la scienza. Anzi (e va notato accuratamente ), che mai restava
pe' Pitagorici, levato il composto? Restava la monade. E che cos'era la monade?
Forse un'astratta unità, o l'atomo indifferente inattivo di Democrito e di
Leucippo? No; ma l'essenza ch'è una forza: il concetto di forza o d' attività
prevale nel Pitagoresimo, così ri spetto a Dio come rispetto al mondo. Di
fatti, e ch'è mai, secondo i Pitagorici, l'ordinamento universale se non la
continua limitazione (o determinazione) dell'inde finito? Ciò resulta da molti
riscontri, ma singolarmente dallo specchio de contrarj (di cui parleremo).
Inoltre, Dio per que’ filosofi è mente e causa o principio; causa è l'anima; e
causa d'ogni armonia è l'unità. (Frag. di FILOLAO; Siriano, Com. Met. d '
Arist. XIII; Ritter St. Fil. ant.; Bertini, Idea d'una Fil. della Vita) Quindi,
pe' Pitagorici, le leggi del numero e della geo metria rappresentavano
l'attinenze; cioè, significavano il rispetto d'una cosa all'altra, e d'uno
all'altro con cetto, l'armonie particolari e l'universale; da ciò i lor simboli
musicali. Si dica pertanto, o signori, che per la scuola italica eran due i
significati del numero; significato simbolico e reale. È significato reale
quando noi diciamo: Dio è uno e le creature sono moltiplici; e così dicevano
essi che Dio è il numero per eccellenza, cioè l'unità e la totalità d'ogni
perfezione. È significato simbolico quando s'astrae i numeri a significare gli
oggetti; come dicendo (per esempio) l'unità e il numero, e s'intendesse Dio e
le creature; così parlavano più spesso i Pitagorici. Al lora si fa come
l'algebrista un linguaggio figurativo. assai comune agli Orientali; e ciò
toglie l'apparente stranezza delle parole. Il metodo matematico ha egli verità?
Certo non manca di buon fondamento, perchè tutto nel mondo si distingue o
d'essenza o d'accidenti o di parti, di gradi o di potenza o di atti; e tutto,
dunque, è capace di numero e di misura. Per altro, le leggi matematiche non
hanno da cercarsi a priori nella realtà, bensi con l'osservazione; come
Galileo, osservato il cadere de corpi, vi scoperse la quantità del moto
crescente. Trovata la legge matematica, s'applica poi a nuove scoperte, come
dalla legge matematica delle oscillazioni s'inventò il pen dolo. Chi volesse
procedere a priori, sbaglierebbe, perchè dalla idealità non si può concludere
la realtà contingente; per esempio, dall'idea d'un circolo non si può conclu
dere ch'e' si dia in natura. Bensì, nella realtà si scopre ognora leggi ideali
a cui essa risponde sempre (come le proporzioni tra spazio e velocità nella
caduta son sempre le stesse ), ed anche, esemplando il reale all'ideale, quello
vi combacia, come, facendo un circolo, i raggi gli ha sempre uguali. Ebbene la
scuola italica non ignorò i buoni metodi della osservazione e delle matematiche
applicate; già ho notato le dottrine fisiche d'Archita; del metodo sperimentale
di Polo ci ragguaglia Aristotile (Met.); le dottrine musicali d'allora fan
supporre molti esperimenti; Erodoto scrivche i medici italiani erano i più
reputati; e tutti sappiamo le meraviglie d'Archimede. Tuttavia il metodo
astratto ebbe il diso pra. Così, rappresentando il principio, il mezzo ed il
fine col numero tre, lo vedevano in ogni cosa; però Filo lao divideva il mondo
in tre parti. Il numero dieci è compiuto in sè stesso, perchè si compone
sommando i suoi quattro numeri primi? ebbene, dieci i pianeti. Cin que i corpi
regolari nella geometria? dunque altrettanti gli elementi, e ciascun d'essi n '
ha la figura; la terra ha il cubo, il fuoco la piramide, l'aria l'ottaedro,
l'ac qua l'icosaedro, l'etere il dodecaedro; e dunque, altresì cinque i sensi.
Se i quattro numeri primi, sommati tra loro, fanno il dieci; e se i quattro
numeri pari (2, 4, 6, 8 ) e i quattro numeri dispari (1, 3, 5, 7), sommati, fan
tutt'insieme trentasei, la tetrattisi o quadernario dovrà riscontrarsi nelle
cose; e quattro, per esempio, sono i gradi della vita: minerale, pianta,
animale e uomo; e, ne' corpi, il punto è unità, la linea è qualità, la super
ficie è triade, il solido è quadernario, si compone, cioè. di quattro punti.
Questo metodo, applicato alle cose dell'esperienza, riuscì arbitrario non di
rado, e se, inalzato a Dio, ne guastò il concetto per l'astrazione dell'
indefinito; pure, accompagnato come fu da tradizioni buone, da molte virtù
morali, da preziose osservazioni interne ed anco esterne, ed eccitando la
speculazione, fece sorgere tra gli errori belle e profonde verità. Quel metodo
era (com’ac cennai): trovare le leggi mentali della quantità geome trica e
arimmetica effettuate nella realtà e salire con queste alla prima cagione, alla
prima ragione ed alla prima legge. Però dice FILOLAO che l'intendimento mate
matico è il criterio di verità. La prima cagione dell'essere, che è ella mai?
Sic come i Pitagorici voller trovare i principj delle cose e il principio de
principj, così precede il quesito: che son mai tali principj? Risponde
Aristotile: « I Pitagorici, educati nelle matematiche, dissero i numeri esser
prin cipj delle cose. » (Met.) cioè tutte le cose si ridu cono a leggi supreme
di numero, e queste leggi costi tuiscono la loro essenza. Or bene, che cos' è
la prima cagione? È il primo principio, per Filolao; è la causa che antecede
ogni altra causa, per Archita: « quam Are chytas causam ante causam esse
dicebat, Philolaus rero omnium principium esse affirmabat. » (Siriano, alla
Met. Storia della Filosofi. - 1. 18 l'
Arist. XIII. Dunque se i principj delle cose son numeri, il primo principio è
tale altresì; o, come diceva Hierocle nel commento al Carme aureo (Fragm. Phil.
Græc.): « Se tutto è numero, Dio è numero. » Che nu mero? Il numero per
eccellenza. Che cos' è il numero per eccellenza? Vediamolo. Il moltiplice fa
supporre l’unità; e l'unità n'è sem pre il principio; così abbiamo solido,
superficie, linea, punto; questo è il principio della linea, della superficie e
del solido. Dunque Dio, ch' essendo il primo principio, è il numero per
eccellenza, è altresì l'uno per eccellenza. (Aless. Afrod. Comm. alla Met. d '
Arist.) Resta da ve dere che cosa sia l'uno per eccellenza. L'unità,
idealmente, si può considerare e qual parte che compone la pluralità, e quale
idea generica che abbracci la pluralità stessa. Diciamo: il venti è compo sto
d'uno più uno, più uno ec.; ecco le unità che com pongono un tutto. Diciamo
ancora: una ventina, un centinaio, un migliaio, un milione; ecco l'unità gene
rica che abbraccia ogni numero, considerato come unità. Nel primo caso, l'unità
è l'elemento della pluralità; nel secondo, è la forma mentale che fa capaci di
compren dere in un concetto le moltiplicità sparpagliate. E in tal senso
l'unità si può chiamare il numero per eccel lenza, giacchè abbraccia ogni
numero. Or bene, o signori, si può egli applicare a Dio l'idea d'unità ne'
detti significati? No; Dio non è il compo nente della moltiplicità; nè Dio è un
che generico e comune alle moltiplicità particolari. L'unità di Dio è, a dir
così, una soprunità, come, secondo i Teologi, le rela zioni personali della
Trinità son soprannumero. (S. Aug. in Joann. Evang. ) Si dice uno per negare il
moltiplice, nulla più; e chi confonde l'analogia di tali concetti col
significato proprio, o cade nel panteismo, o accusa erro neamente la filosofia
e la teologia. Si domanda, per tanto: la scuola pitagorica usò que' concetti
nel signi ficato vero? Da’tre frammenti di Filolao apparisce che Dio per lui è
imperatore sommo e duce, uno, eterno, permanente, immobile, simile a sè stesso,
diverso dal l ' altre cose, potentissimo, supremo, e che solo conosce l'essenza
eterna. Anzi, Siriano nel luogo già citato dice, che pe' Pitagorici Dio è una e
singolare causa, astratta « la tutte le cose, e superiore alla dualità de'
principi, la quale vedremo più qua: « Ante duo principia unam et singulam
causam, et ab omni abstractam præponebat. Parrebb'egli, dunque, che l'unità de'
Pitagorici sia nel senso buono? Bertini interpreta più benignamente che si può
certe opinioni pitagoriche. le quali ne farebbero dubitare; e tuttavia
conclude: « Il sentimento religioso e morale gl'induceva a collocare Dio molto
al disopra del mondo; ma il fato della logica li forzava sovente ad
immedesimarli in una sola sostanza e ricacciavali nel panteismo. » Che vuole
dir mai fato della logica? Vuol dire la necessità di certe conse guenze, dati
certi principj. Or via, quali son dunque i principj che menavano al panteismo,
non ostante l'alte verità frammischiate in abbondanza? Era, appunto, il
concepire Dio quasi unità generica, o numero per eccel lenza; e questo in
grazia della non buona induzione. Di fatto, poichè i numeri son pari ed impari,
e l'unità, cioè il numero genericamente preso, s'estende ad en trambi; così la
scuola pitagorica chiamò Dio pari ed impari, e diceva che l' uno è l'essenza di
tutte le cose (Arist. Met. I ); l'essenza delle cose chiamata eterna (la FILOLAO;
che inoltre affermò, le cose diverse e con trarie non istarebbero senz'armonia,
e tale armonia è il numero per eccellenza, cioè Dio; aggiunse, che tal numero è
legame all'eterna durata del mondo; anzi (e questo val più ), esso legame
produce sè stesso. (V.framm. i FILOLAO nel Ritter. St. della Fil. ant.)
Finalmente. Dio pe' Pitagorici è limitato ed illimitato ad un tempong 11pTLOTES
PITTOy, Arist. Met. 1. ) Par dunque certo ch ' essi concepivano Dio com'unità
generica, in cui s 'uniscono potenzialmente i contrarj del mondo, pari e dispari,
femmina e maschio, male e bene, e via discorrendo; contrarj che si distinguono
attualmente quando il potenziale viene all'atto, e l'illimitato si limita, e
l'essenza universale (conosciuta solo da Dio, cioè da sè stessa) si determina
mano a mano ne' fenomeni. Dubitò il dotto Bertini che s'intendesse da'
Pitagorici, non dimmedesi mare le cose in un' essenza, ma d'accennare che Dio
la in sè i contrari perchè li supera. E non esito punto a dire che ciò e '
tenevano forse, ma in confuso, e la con fusione generava il panteismo. Di
fatto, se quel concetto era limpido, essi non avrebber detto che Dio è pari ed
impari; giacchè i contrarj sono il modo finito delle per fezioni mondane, e
però non si contengono in Dio. Si risponderà: noi n'abbiamo un'idea più chiara.
Va bene; se i Pitagorici avesser capito chiaro come Dio superi l'universo
infinitamente, le parole chiare l'avrebber tro vate anch'essi. Anzi, l'infinito
lo pigliavano per l'inde finito o potenziale; e quindi, il finito sembrò a loro
il perfetto, e l'infinito l ' imperfetto. Aristotile serbò lo specchio delle
contrarietà in dieci antitesi (dispari e pari, finito e infinito, uno e più,
quiete e moto, luce e tenebre, bene e male ec. ), fatto da qualche Pitagorico;
e Simplicio notò come le contrarietà si comprendano si risolvano in Dio. (Arist.
Met. I, Simpl. Phys.) Inol tre, come il mondo era la decade, cioè la pienezza
d'ogni grado d ' entità, e così Dio; che riceveva nome d'ogni numero, unità,
diade, triade, quadernario (o solido), set tenario, decade. Dimodochè pe
Pitagorici, come per tutta la filosofia pagana (avvertite, o signori ), il
quesito della causa pri venne a quest' altro: Come si limiti 1 illimitato;
ossia, pensarono gli antichi che la produzione del mondo consistesse nel
determinare in atto la potenzialità prec sistente: talchè Filolao pone tre
principj, l’illimitato. il confine, e la causa (το απειρων, το πέρας, το αίτιον
). Il che parve in due modi: i Pitagorici, com’i pan teisti ionj e indiani,
dissero che quel potenziale sta in Dio; i dualisti, che e' sta fuori di Dio, ed
è la mate ria informata da esso. Nella scuola italica, poi, la im plicitezza
de' concetti adombrò alte verità; Dio (per ma esempio), legame del tempo e
dello spazio, se non si prende com ' identità d'ogni essenza, vuol dire
benissimo che l'unità divina con l'unico atto creatore e conser vatore fa
l’unione del moltiplice disgregato: però Dio è l'armonia dell'armonie. Che
cos'è dunque Iddio pe' Pitagorici? L'unità su prema di tutti i contrarj. Che
cos'è l'universo? I con trarj in atto, e ridotti da Dio all'armonia. Come
l'unità generica non diviene numero se non si distingua in unità determinate o
particolari, così la monade suprema non genera il mondo se non si distingua in
monadi o so stanze particolari. Che si richiede, o signori, a formare il numero?
L'unità e la distinzione d'un'unità dall'al tra. Ma la distinzione, considerata
mentalmente, non è forse un concetto negativo e indeterminato, dacchè si
gnifichi che l'una cosa non è l ' altra? Or bene; e pen savano essi che a
formare l'universo ci voglia le unità o monadi particolari, poi la loro
distinzione; ossia, come (lice Aristotile, elementi positivi da un lato,
elementi nega tivi dall'altro. Da queste due maniere d'elementi si fa tempo e
spazio; nel tempoi momenti e la distinzione di un momento dall'altro, cioè
gl'intervalli; nello spazio i punti e la distinzione d’un punto dall'altro cioè
il vuoto. Tal cosa venne simboleggiata con l'ispirazione del vuoto; ossia
distinguendosi le monadi, il vuoto entra in loro com'aria ne’polmoni. I due
elementi, il positivo ed il negativo, uniti tra loro, fanno la diade o il pari;
l'ele mento positivo o l' unità, così sola come aggiunta al numero pari (per
esempio il tre), fa il dispari. Ed ecco, o signori, l' unità nell'altro senso
ch'io spiegava di sopra, cioè nel senso non generico ma particolare di compo
nente il composto. Talchè l'unità nel senso generico è Dio; le unità nel senso
particolare fanno il mondo. Ed ecco altresì perchè si diceva da’ Pitagorici che
il pari è illimitato, illimitato perchè il vuoto e l'intervallo (o la
negazione) è in astratto un che potenziale, può ricevere distinzione da' punti
e da’ momenti all' indefinito. Si diceva per contrapposto che il dispari è
limitato, giacchè chiude l'intervallo ed il vuoto tra due estremità positive o
tra due monadi, riduce in atto la potenza, e si fa la triade, numero perfetto
che ha principio, mezzo e fine. Voi capite, o signori, come per la teorica
de’toni e degl' intervalli si vedesse analogia tra la musica e l'universo. Il
quale, venendo dall'essenzá eterna come necessario svolgimento d'attività, non
ha reale comin ciamento, è ab eterno; comincia sì, ma quant' al nostro pensiero
(-o iniyocav), ossia il pensiero nol può con cepire altrimenti. Nè s'avvidero
essi che se il pensiero nol può concepire senza cominciamento, segno è che l'op
posto è irrazionale. Che cos'è l'uomo nell'universo? Un'anima razionale che sta
nel corpo come in u sepolcro, dice FILOLAO. L'anima è numero e armonia (Plut.
De plac. phil. IV, 2 ), o monade che riduce ad unione la moltiplicità del corpo
e n'è principio di vita e causa motrice. Se Platone confutò nel Fedone la
sentenza che l ' ani ma è armonia, combatte i materialisti che ponevano l'anima
com'un risultamento dell'unione corporale, an zichè com’un principio di essa, a
mo' de ' Pitagorici. Ma Platone invece s'accorda con Filolao dicendo, che l'ani
ma è sepolta nel corpo. Se non che in Platone ha senso più dualistico; ma ne’
Pitagorici significò (badando noi alla totalità delle lor opinioni), che come
Dio è l'anima del mondo, e vien da essa immediatamente l'anima uma na (V.
Ritter e Bertini), così vien dalla terra, infima ne'gradi dell' entità e delle
emanazioni tutte, il corpo. Derivano da tutto ciò le teoriche sulla ragione som
må del conoscere e sulla legge dell'operare. Come l'en tità, così la verità è
l'uno e il numero, e l'errore va fuori dell'armonia; talchè come il numero fa
la misura di ciascun ente o la specie loro, e fa l' attinenze del l'uno
all'altro, così la verità è nell' attinenza dell'in telletto con le specie
degli enti e con le loro attinenze. Ma come si conosce da noi? Il simile col
simile; però distinse la scuola italica il senso dall' intelletto come in due
parti (Cic. Tusc. IV, 5 ); l'intelletto è divino e si conosce per esso (benchè
in modo relativo, dice Filolao) la divinità della natura; il senso è terrestre,
e si conosce per esso il fenomeno o l'apparenza sensibile. Ragion prima del
conoscimento è dunque Dio; ma com’es senza prima degl'intelletti. In Dio sta la
ragione pri ma, non solo perchè raggiano da lui gl'intelletti, ma perche Dio è
numero, e il numero è l' esemplare del mondo; esemplare riconosciuto dall'
intelletto. (V. il Cou sin e lo Stalbaum, ambedue nel commento al TIMEO) Però, avvertite,
o signori, la scienza pe' Pitagorici, come per ognuno che n'abbia vero
concetto, stette nel ritro vare la necessità razionale di ciò che conosciamo.
Essi voller saper non solo ciò che è ed accade, ma perchè ciò dev'essere ed
accadere. Tuttavia successe a loro quel che ad ogni panteista; si credè di
trarre a priori le cose dal conoscimento dell'essenza universale, come le pro
prietà d'un triangolo. Ma invece, e lo dissi altrove, la necessità razionale (eccetto
la ontologia e la teologia naturale e le loro applicazioni e le matematiche)
sta solo in vedere come, supposto un che, ne venga di neces sità un altro per
attinenza; ad esempio, data la per cezione, non può non essere il corpo, o data
la volontà negli uomini che son razionali, non può non essere la libertà.
L'assoluta necessità vedesi solo dove può trarsi l'illazioni da un'idea,
anzichè sperimentare de' fatti; nel resto è necessità ipotetica, e non altro; o
anco è sola contingenza. (V. Lez. I. ) Come l'entità e la verità sono numero,
negazione la potenzialità indefinita e l'erro re, così è numero ed armonia il
bene, disarmonia o ne gazione il male. (Arist. Met. I.) Il bene è misura, il
male è dismisura: da ciò quel detto pitagorico: « La misura è ottima, pétpov
Žpustov. » E come Dio è l'ar monia universale, il numero per eccellenza, egli è
il bene o misura o legge. Però, come l'intendimento va per armonie matematiche
e musicali, così la volontà; e indi nasce la virtù, ch'è numero dentro di noi,
componente la discordia degli appetiti (Carme aureo, 57-60 ); numero fuor di
noi nell'educazione della famiglia e della città.. (Fragm.di LUCIANO OCELLO )
Allora l'anima si va conformando a Dio (ov.02.09749. Tapos to delov ); la
disforme da Dio passa in corpi diversi con la metempsicosi od è punita nel
Tartaro; la conforme a Dio ritorna nell'essenza ond'ella emanò. » Sarai, dice
il Carme aureo, un Dio immorta le, incorrotto, non sottoposto a morte (v. 71:
ETEL 0212. τος θεός, άμοροτος, ούκ έτι θνητος). Signori, chi non mirerà, in
mezzo a quell'ombre, la luce di sì alte dot trine? Ma, tralignando i tempi, la
filosofia traligno. Il sistema pitagorico è, quant'a'principj, un pantei smo
naturale; perchè l'unità per eccellenza vi comprende lo spirito e la materia,
distinti poi come tutte l'altre contrarietà. Come voleva egli scappare il
Pitagoresimo alla contraddizione suprema d'identificare tutte le contrad
dizioni? Dicendo che non conosciamo l'essenza in modo diretto: quasichè importi
tal conoscenza per escludere l'assurdo. La scuola di Elea tentò fuggire la
contrad. dizione, escludendo la materialità, il moltiplice ed ogni mutamento, e
così creò un panteismo ideale. Xenofane, nato a Colofone d'Ionia il 620 av. G.
Cri. sto, venne assai tardi a VELIA città di Magna Grecia. L'idealismo suo
nasceva prima di lui; ma egli lo recò a sistema. E l'idealismo nasceva per più
cagioni; pri ma, com'ho detto, ad evitare le contraddizioni del pan teismo
naturale; poi, perchè il sistema idealistico ha dello scetticismo, a cui ora
pendevano i Dorj non più austeri, e più gl'Ionj (ionica pure la colonia
d'Elea); scetticismo voluttuoso e mesto che apparisce nel poeta Mimnermo, di
Colofone anch'esso, e in alcuni versi di Xenofane; inoltre, già il sistema
pitagorico, benchè com prensivo, faceva prevalere i concetti spirituali, però
Xeno fane, vissuto a lungo in Ionia, venuto poi in Italia, mostra
nell'ontologia l'idealismo italico, ma nella cosmologia la fisica degl'Ionj.
Egli scrisse in versi, e ne resta frammenti, da cui, com'anche da Platone e da
Aristotile, si rileva le sue opinioni. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Uscì di
patria per le invasioni Lidie, viaggiò in Sicilia, si fermò in VELIA; e visse
più che centenne. (Censorino.) Xenofane ha di Dio un'idea sublime. Egli è uno, non
simile all'uomo, immoto, è tutto vedere, intendere e udi re. Ma si deve, o
signori, notare cinque concetti che formano il sostanziale del sistema. Dio è
uno. Xenofane tolse il principio pitagorico che l'uno si converte con l'ente;
però Dio, entità suprema, è uno. L'unicità di Dio, Xenofane la provò benissimo
per un secondo concetto ancora, ch'è la potenza. Voi sapete già, o signori, che
per la scuola italica l'unità o la monade o l'entità (vocaboli equivalenti) è
forza, è un'energia. Ciò pure affermò Xenofane; e però Dio, ch'è l'ente, è
sommo po tere (20 % TELY ): quindi se più dèi uguali, nessuno è po tentissimo
per l'eguaglianza, se più dèi inferiori, nes suno è potentissimo per
l'inferiorità. Talchè Xenofane, riprensore d’Esiodo e d'Omero, scherniva
com’empie le superstizioni volgari, e, diceva, se i cavalli sapessero di
segnare, fingerebbero gli dèi a loro sembianza. Traeva da ciò un terzo concetto;
che a Dio manca ogni contin genza, finità e infinità, moto e riposo. L'infinità?
In che senso la nega egli Xenofane, e contro chi? Nel senso d'illimitato o
indefinito che si determina con atti successivi; contro i Pitagorici pe' quali
Dio è infinito e finito ad un tempo, si distingue nell'universo e vi si muta
perennemente, benchè immutato nell'essenza: for s'anche, dove Xenofane accenna
il moto e il riposo, con futa le opinioni degl' Ionj già cominciate e già oppo
ste all'ITALICHE più antiche, ma pe' Pitagorici ancora Dio comprende in sè le
contrarietà fra cui Aristotile notò (come vedemmo) il moto e la quiete,
ugualmente che il finito e l'infinito, il finito ch'è quiete, l'infinito
(indefi nito ) ch'è moto. Crederemo noi dunque, o signori, che quest'altra
verità, in Dio non essere contingenza, con ducesse gli Eleati al Dio creatore?
No; e si scorge dal l'esame d'un quarto concetto, per sè vero, ma falso
nell'applicazione: Dio non può nascere. Va bene; ma per chè? udiamolo, signori;
il perchè ce lo dà il trattatello De Xenophane, MELISSO e GORGIA, attribuito ad
Aristo tile, non di lui forse, antico ad ogni modo. Si dice, adunque: Dio non
può nascere, perchè l'ente non può non essere, e il non ente non può dal nulla
divenire qual cosa. L'ente, ch'è per essenza, certo non può non essere; ma il
non ente nel significato di Platone e pitagorico è il contingente; che può non
essere appunto, giacchè non è per essenza sua propria, bensì dall'ente.
Xenofane, per altro (notate, vi prego, siguori), prese il non ente in
significato di nulla, e il nulla è impossibile sia mai altro che nulla; ma ciò
che diventa, è nulla in sè, nulla non già nella potenza causatrice. Che ne
conchiudeva Xenofane? Non solo che non si dà creazione, ma che non si dà pure
causalità nessuna; non v'ha che l'es senza immobile, infeconda, inaccessibile. (ch'è
dun que il resto? o quel che ci pare in continua mutazione? Fenomeno,
apparenza, illusione, e nulla più; talchè la fisica che si fa con l'apparenze è
illusoria, non è scien za. Però egli disse in un verso: « Queste cose (del
mondo) non hanno altra vita che l'apparenza, e appartengono alla opinione. (Plut.
Symp. IX. ) De' dubbj di Xeno fane sul mondo parlo altresì Timone Fliasio ne'
Psilli. (Fragm. Phil. Græc.) E per provare ciò s'adoperava un quinto concetto:
che Dio o l'ente è tutto, o intero. (Fragm. di Xenoph.) Che vuol egli dire?
Cerchiamolo. Che idea vi dà, o signori, l'infinità? Certo, pienezza d'es sere,
cioè che ivi non ha mancamento. Ma tal pienezza significa forse il tutto? No,
chè tutto è idea relativa: tutto, implica parti; e quindi ogni tutto può essere
più o meno, come numero ch'egli è; nè numero assoluto si dà; mentre assoluto è
l'infinito. Or bene, l'induzione astrattiva concepisce il mondo com'un tutto e
confonde l'infinità (come pienezza d'essere) con l'universo. Così accadde agli
Eleati; e però Aristotile scriveva di Xeno fane: « Contemplando egli il tutto
del mondo, disse che l'unità è Dio. » Indi l'aforismo eleatico, uno è l'ente e
il tutto (ey to y uzi có Tiv). Che si concludeva mai da questo? Poichè al tutto
non manca nulla, e l'ente è il tutto, nulla può cominciare, perchè sarebbe
aggiun gimento: quasichè, o signori, ciò che viene dall'efficienza creatrice
aggiungasi all'infinità. E però vedete, che dove gli Eleati pareva negassero l
' indefinito pitago rico, van poi al medesimo vizio; perchè si piglia Dio
com'un tutto generico, che viene simboleggiato con lo sfero. Resta da sapere
che foss'egli per Xenofane l'ente o Dio. È ragione assoluta, intelletto
essenziale. (Fragm. di Xenoph.) Che v'ha dunque più di pitagorico negli Eleati?
Si lasciò la parte corporea ed ogni moto e restò la spirituale, divina ed
immutabile; quindi è un pan teismo ideale. Il qual sistema si continuò in PARMENIDE,
e ZENONE. Di PARMENIDE di VELIA dice Plutarco (Adv. Colot.) che détte alla
patria leggi avute in grande amore. Zenone di VELIA, scolare di Parmenide, amo
di cuore la patria, e poichè un tiranno lo condannò a morire, sostenne da uomo
il supplizio: Melisso di Samo fiori verso l'84a Olimpiade, seguì PARMENIDE DI
VELIA, fu uomo di Stato, e capitano gl'ITALIOTI contro Pericle. Questi gli
Eleati (VELINI) più famosi. L'opinioni di PARMENIDE vi son date assai chiare
ne' frammenti del suo poema. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) E che si trova in
quelli fin da principio? I due aspetti, già separati da Xenofane: l'ente, che
unico è; e il non ente o l'apparenza, che non è: non è, o signori, in modo
assoluto e non già perchè semplice contingenza. Ci ha due vie, scrive PARMENIDE,
di filosofare: 0 porre che l'ente è e che il non ente non è (70 ury; vedi anche
il Parm. di Plat.), e questa è la via retta, perchè s'afferma l'ente e si nega
il non ente o l'apparenza; o, al contrario, porre che l'ente non è c che sia di
necessità il non ente, questa è via non retta. Si descrive così la via degli
Eleati o VELINI da un lato, e la via degl'Ionj dall'altro, i quali si fermavano
a considerare il moto delle cose. Ebbene, che concetti ha egli Parmenide
allorchè e' mostra che l’ente è e il non ente non è? Gli stessi di Xenofane:
l'ente è conosci bile con la sola ragione, ingenito, non mobile, tutto (cudow )
unigeno, eterno; non fu nè sarà, perchè ora è tutto insieme; non può esser nato,
perch'è assurdo che l'ente non sia; non divisibile, somigliante a sè stesso
intera mente, riempie ogni cosa; la dura necessità (dir.n ) lo stringe in
vincoli (ossia egli è necessario; necessità di Dio trasferita da' panteisti al
mondo ed alla volontà uma na ); egli non è infinito (atedrventov ), non bisogna
di nulla, ed è lo stesso il pensare e ciò che si pensa. (Framm. e segnatamente
v. 66-94.) In che PARMENIDE differì da Xenofane? Quegli ha forma più
scientifica di speculare, perchè comincia dall'idea universale dell'essere, e
la contrappone al non essere. (Ritter, Bertini.) Ma crede reste voi che
Parmenide s'avvantaggi su Xenofane, come nella severità dialettica, così nella
perfezione dell'idea ili Dio? Anzi, dove il maestro partì dall'idea di Dio,
ragione pura, santità essenziale e provvidenza, lo sco lare poi con un vizio
più rilevato d'induzione si fermò al concetto dell'essere generale, nè
v'apparisce punto la personalità divina: sicchè Parmenide non avversa come
Xenofane la mitologia, anzi l'accetta qual credenza po polare. In man di lui,
perciò, il sistema eleatico si rese più ideale. E questa idealità condusse PARMENIDE
(sembra un paradosso ), come anco Xenofane alla confusione lel senso e
dell'intelletto. Quanto a Xenofane apparisce da un verso di lui in Sesto
Empirico; e quanto a PARMENIDE, lo notò espresso Aristotile (ppovaly usy tér
vistn512). Mentrechè il sensista dice: la sensazione è idea e tutto:
l'idealista dice: l'idea è sensazione e tutto. Ma sorge contraddizione nuova:
se intelligenza e senso son tut t'uno, come potrà egli il senso darci
l'illusione? Ep pure, ZENONE DI VELIA non pare ch'altro volesse co’suoi strani
sofismi fuorchè mostrare: com’abbandonandoci all'apparenze del moto e del
moltiplice, cadiamo sem pre in contraddizioni. E la parte negativa di tal
sistema s'accrebbe in Melisso che (notate, o signori) muove dal l'ente
indeterminato come PARMENIDE, ma lo significa in modo più indeterminato ancora,
chiamandolo un qual cosa. (V. Fragm. Phil. Græc. Didot; De Xenophau Melisso et
Gorgia; Arist. de Soph. Elenchis, e Plat. Thecet.) Se non che, Melisso torna
co’ Pitagorici a dire che Dio è infinito, negando a loro ch'e'sia finito, per
chè l'ente non ha principio nè fine. (Fragm. 2. ) E ciò va bene; ma pare che
qui terminasse l'infinità nel concetto di Melisso; egli non lo concepì come
infinitu dine assoluta d'entità, e pero dotato d'efficienza crea trice e
pensiero puro; anzi l' indeterminatezza di quel l'astrazione fece sì ch'egli
non parla dell'intelletto e della bontà di Dio, e l'idea ne vacilla dinnanzi
com'om bra informe e vana. (Ritter, Bertini.) Così da Xenofane in poi vi fu
scadimento, come da ' Pitagorici di CROTONE agli Eleati o VELINI Questi bensì
fecero progredire la dialettica tendendo a conciliare i contrari, e Aristotile
fa inventore di quella ZENONE DI VELIA, che si sa da Diogene Laerzio aver
composto dialoghi. Se la scuola pitagorica seguitò, ma con forme più
filosofiche, il panteismo orfico nella sua totalità, gli Eleati ne presero la
parte ideale; gl’Ionj la corporea e sensuale. Ell'è perciò la setta men
filosofica. In che ci viltà? Tra'costumi voluttuosi della Ionia, e in quelle
città che presto soggiacquero alla servitù de’Lidj e de Persiani. E se voi mi
domandate, o signori: Que' sistemi da che gente vennero professati? Rispondo,
che salvo i più antichi, cioè Talete e Anassimandro nati a Mileto nel l'Asia
minore, delle virtù cittadine di tutti gli altri non si sa nulla; o sappiamo d'
Eraclito ch'era superbo, duro e solitario. Di Talete stesso, bench’ Erodoto
ricordi un consiglio di lui agl' Ionj, Platone (Teetete) dice ch' ei s'astenne
da' pubblici negozj. Qual diversità dalla storia de Pitagorici ! non ci
meravigli, pertanto, la diversità ne sistemi. (Fragm. Philos. Græc. Didot,
1860.) Il moto delle cose lo crederono gli Ionj nell'asso luto. E che cos'è
l'assoluto? La materia del mondo. unica entità, eterna, divina, dotata di
pensiero ch'è di vino attributo. Tutti gli Ionj. fuorchè Anassagora, ebber ciò
di comune; e s'assomigliano alla scuola degli Eghe 286 PARTE PRIMA. liani
materiali che succedettero agl' ideali. Ma gl' Ionj diversificarono tra loro
nel concepire il moto dell'uni verso; chi, come Talete e Anassimene, Diogene
d'Apollonia ed Eraclito, ebbe un sistema dinamico; chi, come Anassimandro e
Archelao, un sistema meccanico. Ed ec cone il divario: cercaron tutti la prima
cagione delle cose, ma pe' dinamici la produzione si fa con isvolgi mento di
forze vive, come gli animali e le piante; pe’miec canici la produzione non ha
se non forme apparenti. mutandosi solo le particelle inerti come ne’minerali.
La dottrina vera comprende le due opinioni; perchè la cau salità modale trae
sempre in atto le potenze, l'atto si produce (dinamica ); benchè quest'atto poi
non ci dia sempre una specie o un individuo, come nella generazione degli
animali, bensì talora un aggregamento come ne'mi nerali. A ogni modo, tal
dottrina non s'applica punto alla causalità creatrice; e gl’lonj, negando che
dal nulla si faccia nulla, negando qualunque causalità che non operi sopr'un
soggetto preesistente, non s'avvidero, che tal cau salità non può dirsi
assoluta, ma condizionata. Questo in genere; venendo poi a specificare la causa
prima, gl’lonj la posero chi nell'una e chi nell'altra cosa che più parve
trasmutabile in ogni altra o quasi un germe, secondo i dinamici, o quasi
elemento univer sale, secondo i meccanici: Talete nell'acqua, Anassi mandro in
una natura media (udtaču puçev ), e però lo chiama principio (apua), Anassimene
nell'aria, Eraclito nel fuoco, Diogene altresì nell'aria. Ma, badate, o si
gnori, nè quell'acqua, nè quell' aria, nè quel fuoco, son proprio ciò che ne
vediamo; è un che più intimo e uni versale, simboleggiato in cose visibili
secondochè queste parevano più acconce a figurare l'universalità, come l'acqua
che tutto abbraccia, l' aria per cui si vive, il fuoco che tutto vivifica e
distrugge. E con questo pensare la causa prima, s'andò di male in peggio.
Talete serba confuso al materiale un < he di spirituale; però dice che tutto
è pieno degli dèi e che in ogni cosa è la mente, e, secondo CICERONE (Quest.
Tusc.), professa l'immortalità dell'anima. È un panteismo materiale, ma confuso
ed implicato: vi si sente ancora le reliquie della filosofia teologica più
antica, già comune (com' io dissi ) agl'Ioni, anzi a ogni gente ellenica ed
agl' Italioti; e però i Padri citano di Talete molti detti sapienti sulla
natura di Dio. Anassi mandro svolgeva la parte materiale dicendo che il prin
cipio, in cui tutto ritorna è infinito, perchè l'origine o il cominciare non
termina mai (tov © vo ) trn doury ENOL Ó žosipov. Fragm. Phil. Græc.; Didot);
però gli dèi nascono e moiono, e son astri e mondi; e la specie umana venne da'
pesci. Anassimene seguitò quella via; nè altrimenti Eraclito, benchè questi,
che cita Pitagora e Xenofane (Diog. Laert. IX, e Clem. Alex. Strom. I ), désse
alla dottrina del fuoco le apparenze d' una misti cità orientale. Non si
discostò dalla teorica degl'Ionj circa la causa lità l'altra teorica sulla
ragione prima. Qual è la ragione del conoscere? questa, che il principio
conoscitore sia formato della materia universale, di cui si formano le cose
conosciute, dacchè il simile si conosca pel simile. Sembra che di morale
gl'Ionj ne parlassero poco; e ciò sta col materialismo loro; Eraclito bensì
pone la legge nella ragione universale o divina, palese con le leggi della
patria; Achelao nega ogni legge necessaria; e il giusto e l'ingiusto fa nascere
dalle convenzioni umane. Tal panteismo ch ' è sempre a priori non détte, benchè
materiale e salvo poche verità, una fisica buona. All'assurdità del panteismo
volle rimediare Anassagora da Clazomene, nato verso il 500 avanti l'èra nostra,
però distinse la mente dal mondo. Ma non la stimò creatrice; sicchè s'apprese
al dualismo; anzi, (lacchè spiega poi la formazione del mondo come gli al tri
Ionj meccanici, non si sa bene che ufficio e' désse alla mente divina in
ordinare, il mondo. (Plat. Fodone.) Il suo libro cominciava: Tutte le cose
erano insieme; l'intelligenza le divise e le dispose. (Diog. Laert.) E così
distinse Dio, o la mente (vojv), dalla natura; e questa pose in particelle
simili, omeomerie, che son semi delle cose o per la disposizione già ricevuta o
che rice von poi di mano in mano (2.pay.tov otepusta.). Diogene di Apollonia in
parte lo seguì, ma peggiorando; chè fece l'aria dotata di mente, e quindi
ordinatrice. Archelao pure, ultimo fra gl' Ionj, alla confusione primitiva sta
bili ordinatrice la mente; ma questa non va esente di materialità (Fragm. Phil.
Didot); talchè il dualismo di Anassagora isterili. Che tenne dietro, o signori,
alla confusione del pan teismo ed alla separazione del dualismo? La negazione
degli scettici, particolare dapprima, universale poi. E di fatto, già svolte
l'opinioni de' Pitagorici e di VELIA, ben chè non anco terminate (come va
sempre), e già comin ciato il sistema d' Anassagora, sorsero pressochè ad un
tempo le sette degl'idealisti e de' materialisti. L'idea lismo ateo venne da Protagora
(di cui nel dialogo con tal nome ed in più luoghi scrive Platone ); colui, non
si sa quando nato, fiorì verso il 444 avanti l'èra nostra. Il principio d’un
suo libro cominciava: Degli dèi non so nulla; e Timone Fliasio scrive, che
Protagora quantun que dicesse ignorarli, osservò la legge ossia le cerimo nie
legali (Fragm. Phil. Græc.): nella osservanza della legge i sotisti posero
moralità e religione. Diceva Pro tagora con gl' Ionj: tutto si muta; e con gli
Eleati: tutto apparisce. Questa proposizione viene dall'altra; perchè se nulla
r’ha di stabile, tutto è fenomeno od ap parenza. Vedete, o signori, come
l'idealismo nascesse dall' opinioni anteriori. E sulle due proposizioni già
dette si fonda il sistema di Protagora, che disse perciò: se tutto muta, nulla
è in sè stesso; e se tutto apparisce, l'apparenza solo è vera; vere l'apparenze
contrarie, veri i contradittorj, vero insomma tutto ciò che si pensa, e l'anima
è la somma dei diversi pensieri (Condillac, Kant), e il fine del discorso sta
nel produrre l'appa renza: qui è il sostanziale dell'arte sofistica. Che vi
pare, o signori, non lo dicono anch ' oggi: tutto è vero quel che si pensa?
Quasi contemporaneo, ma un po'dopo è Democrito d'Abdera, nato per Apollonio il
460, e per Trasillo il 470; talchè, se fiorito con Protagora il 444. ciò
sarebbe avanti a' 16 od a'26 anni; impossibile il primo caso, non verosimile il
secondo, perchè Democrito dettò le cose sue dopo lunghi viaggi. Sa degl'Ionj,
perchè materialista, tiene bensì degli Eleati, perchè muove dal concetto
dell'ente; e dice: unico ente il vuoto e lo spazio con gli atomi nel seno;
dalle loro congiunzioni e dalle figure matematiche conseguenti nascono le
qualità; e poiche il simile si conosce col simile (τα όμοια ομοιών είναι
apestira ), v'ha conoscimento nell'anima, essendo ella un atomo a cui vengono
le figurette o immaginette dei corpi; rozza fantasia che male s'attribui ad
Aristotile. E Dio che cosa è per Democrito? Compiacendo alle plebi, egli finse
dèi come immagini enormi, ma sotto posti a morte; vero ateismo. (Fragm. Phil.
Græc. Di dot.) Vuol notarsi che Leucippo fiori con Eraclito il 500; ma poichè
il materialismo giungeva non opportuno. mancò allora il successo, in tal
maniera che di Leucippo non si sa pressochè nulla. Se Protagora s'accostò allo
scetticismo universale, non mi pare che vi giungesse: affermò che tutto si
muta, e ch' è solo quale apparisce, non si sa per altro ch'e' ne gasse l'entità
delle cose in questa loro perpetua muta bilità ed apparenza; chi giunse a tal
punto, risoluta mente, espressamente, e GORGIA DI LEONZIO (V. Dial. di Platone
col nome di lui, e altri dialoghi); perchè scrisse un libro sul non ente, cioè
sulla natura, e volle provare che o nulla è, o se è non può conoscersi o se si
conosce non può significarsi. Con Protagora e GORGIA v ' ha una schiera che la
Grecia infamò col nome di So tisti, Prodico, Eutidemo e simiglianti. Chi erano
costo ro? L'antichità gli ebbe per uomini venali. In che ci viltà vennero? In
età di corruzione. Che frutto recarono? Dicon gli antichi: pessimo nell'arte,
nella scienza e nel l'educazione della gioventù; benchè, come si vedrà, fossero
occasione di qualche miglioramento. Ma ecco fiorire verso que' tempi (V. Tavole
del Storia della Filosofia. - I. 19 Krug) un uomo che vuol riparare a tanta
dubbietà. Chi? Empedocle di GIRGENTI. Con che? col misticismo a cui s'ac
compagna (come accade sulla fine dei sistemi) un fare d'ecclettico. (Fragm.
Phil. Græc. Didot. ) Da'frammenti del suo poema (népe ouro ) e da' detti d'
Aristotile e d'altri si raccoglie che il sistema d'Empedocle non è già fisico
solamente; Dio per lui è mente santa incor porea: e nè un pretto dualismo,
perchè il mondo è tutto, e c'è divinità mondane o fisiche: e nè un pretto pan
teismo, perchè si distingue la mente divina e gli atomi: che cos'è dunque?
Parmi ch'e' non avesse un concetto nitido, com'accade agli ecclettici; e così
di lui pensa rono gli antichi: alcuno lo fa di Parmenide, altri pita gorico,
Platone lo mette con Eraclito, e Aristotile con Leucippo, con Democrito e con
Anassagora. Ma prevale il misticismo; perchè ne' frammenti del poema, Empe
docle si dà com’uomo miracoloso, e si crede un Dio immortale; e veste da
sacerdote. In lui sentite lo scet ticismo e l'estasi; egli pone la mente, umana
in parte ed in parte divina; quella c' illude, questa (come dice il Ritter) dà
un santo delirio e sorge alla contemplazione mistica di Dio nella natura. Tal è
l'Yoga indiano, tali gli Alessandrini. E questi, di fatto, ebbero in grande
stima Empedocle; ma Platone ed Aristotile, osservato ri, lo pregian poco.
Tuttavia egli seppe dimolto, e valse in fisica, e fu ben altr'uomo dei sofisti;
onorato dai suoi cittadini ed in tutta Sicilia. Così terminò quest'epoca, ed
ebbe strascico lungo in due schiere d'uomini; atei la cui morale era il
piacere, Evemero, Ippone, Nicanore, Pelleo, Teodoro, Egesia e Diagora;
Pitagorici o dati anch'essi al materialismo, così Ecfante, o mistici la maggior
parte. Questi atei com ' Evemero interpretarono storicamente la mitologia: gli
dèi furono uomini indiati, non altro. La scuola fisica poi degl'Ionj, più
tralignati, la interpretò fisicamente: gli dèi son le forze uniche della natura
EPOCA QUARTA DELL' ÈRA PAGANA. SISTEMI GRECOLATINI. CICERONE. Moltitudine
di scuole tra la seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fin al
quarto secolo dell'era stessa, sullo spartimento delle quali non sono chiari
gli storici. Criterio per la distinzione del. l'epoche, e quindi per
l'assegnazione varia de ' sistemi. Con tal crite rio, le dette scuole si
spartiscono in due classi. – La prima classe si sud distingue; 1º negli eruditi;
2 ' negli scettici; 3 ne ' sistemi grecoasiatici: tutti formano la fine
dell'epoca terza, cioè sono la conseguenza de ' sistemi anteriori. La seconda
classe, o de' sistemi grecolatini, fa un'epoca da sė, cioè l'epoca quarta. È
un'epoca nuova, per la tentata riforma, e per l'efficacia grande cosi di
Cicerone come de' Giureconsulti. — Cagione del sorgere tardi la letteratura e
la filosofia in Roma. Elle sorsero, quando i Romani non furono più con tutta la
mente in fatti gravi e giornalieri. Allora può la riflessione volgersi alla
coscienza e contemplarvi l'uomo, – Il pensiero de ' Romani si distese
all'Italia e al genere umano. — Naziona lità naturale e politica degl' Italiani
merce i Romani. Affetti domestici nel buon tempo di Roma. Come si vedano in
Virgilio le qualità prin cipali della civiltà italica. I germi antichi di
questa erano in Roma; si svolsero per impulso di Grecia. Durò poco in Roma la
filosofia pura mente speculativa, perchè già la filosofia greca, declinando,
avea lasciato salve ben poche verità, e perché Roma cadde in servitù. Cicerone
e i Giureconsulti romani costituiscono la vera filosofia grecolatina. Cice rone
si proponeva di sceverare dal falso e dall'incerto le parti vere e certe ile'
sistemi greci, di comporle in ordine chiaro, d'applicurle praticamente, e che
se n' aiutasse l'eloquenza. - Sue virtù e suoi difetti. Si prova ch'egli non fu
copiatore de ' Greci, ma pensò di suo. Non pare da distinguere i suoi libri (com
' alcuno pensa) in popolari e dottrinali. Libri logici, fisici e morali.
Cicerone ripete il conosci te stesso come fondamento della filo sofia: la
coscienza con tutte le due relazioni. Indi l'evidenza interio Uso degli altri
criterj secondari, tenendo sempre in mente l'universi lità e dov'ella si
manifesti. Cosi egli potė cansare gli eccessi de ' sistemi; e si prova quanto a
’ Platonici, a' Peripatetici, agli Stoici, agli Accademici: rigettato
assolutamente l'Epicureismo. - Cicerone non elegyeva da ecclettico, ma per un
ordine di principj; vide cioè che la filosofia è da studiarsi entro di noi; e
da tale studio inferi tre verità, che gli furono regolatrici: 1º che l'uomo sta
sopr' all ' altre cose; 20 che la ragione dell'uomo prevale al senso e al
corpo; 3º che questa ragione con le sue leggi ci fa palese Dio. Talche delini
la filosofia: scienza delle cose divine e umane e delle cagioni di queste (off.):
l'altra definizione de' Tuscolani è come racconto dell'opinioni pitigori che.
Va seguito i principj spontanei, naturali, universali della ragione: ecco
l'assioma di Tullio. — Ma, per la moltitudine de ' sistemi, ei potè co gliere
poche verità; queste affermò, nel resto sospende il giudizio. Esem pio, il
finale de natura Deorum. Le dottrine certe di lui ne ' libri morali, o sulla
legge e sulla libertà; le opinioni verosimili ne'fisici, o sulla natura divina
e dell'anima; ne'ljbri logici l'une e l'altre; ossia, egli è certo su'prin cipj
e sull' evidenza interiore, ha solo verosimiglianza sul criterio delle per
cezioni esteriori. Dualismo. — Anche per la teorica del conoscimento. Teorica
dell'operare bellissima; legge naturale, eterna; Dio n'è la fonte; re. -. chi
non ammette Dio, non può ammettere la legge. — Il dovere. Gradi degli officj.
Quel ch'è giusto in sè stesso. Utile apparente, e utile vero; questo è
conseguenza della virtù. — Onestå. Le leggi positive nascono dalla naturale;
Dio è il proemio di tutte le leggi. - Buoni eifetti della filosofia di Cicerone.
Non anche terminata l' epoca terza cominciò la quarta, de' sistemi greco-latini
– LATINO – ROMANO. Dalla seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare
fino al quarto secolo dell' era stessa, troviamo una moltitudine di scuole, lo
spartimento delle quali dà qualche impaccio agli storici. Taluno le piglia
tutte insieme (e vi comprende gli Alessandrini) come una sequela de sistemi greci
anteriori; e così non pone ad esse un'epoca distinta. E per fermo se tutte le
dette scuole non fosser altro che discepoli, o raccoglitori eruditi,
mancherebbe la ragione del porle da sè, o del farne più classi. La ragione
d'un'epoca, quando si parla di scienze, è solamente una grande verità scoperta,
da cui dipende l'ordine universale d'una scienza qualunque, o il risorgimento
di essa dopo un tempo di scadimento, e quindi l'efficacia su ' tempi avvenire.
Insomma, v'ha un principio d'epoca, quando v’ha un principio di moto nuovo e
potente: la continuazione di moto, è continua zione d'epoca e nulla più.
Applicando tal criterio all' età sovraccennata, par chiaro che i sistemi vi si
distinguano in due parti; una sta nell'epoca terza precedente, ossia nella
greca e come termine di essa; la seconda costituisce un'epoca da se per qualità
sue proprie, o un'epoca quarta, benchè i siste mi dell'epoca terza la
precedano, l'accompagnino ed an che le sopravvivano: tanto è vero che la sola
divisione per tempi non segue la realtà. La prima parte che ter minò l'epoca
greca, si suddivide in tre, gli eruditi, gli scettici, i grecoasiatici. Da un
lato v'ha le scuole di pretta erudizione; le quali non iscopersero nulla, nè
rinnovarono nulla; gli Stoici eruditi; i Platonici eruditi, com’Areio Didimo,
Trasillo, Albino, Alcinoo, Massimo di Tiro; i Peripatetici eruditi o
commentatori d'Aristotile, come Alessandro d'Afrodisio; i Medici, eruditi
anch'essi, platonici e peripatetici, come Galeno. Poi da un altro lato v'ha lo
scetticismo d'Enesidemo e di Sesto Empirico, i quali compivano, anzi riducevano
a sistema il dubbio di Pirrone e di Timone, volgendosi specialmente contro la
causalità, e negandola per la singolare ragione che il modo intimo del causare
nol conosciamo; quasichè possa negarsi ciò ch'è ad evidenza, quando non si sa
spiegarlo. Da un terzo lato ancora, mescolati i Greci con gli Asiatici per le
conquiste d'Alessandro e poi per la vastità dell'impero di ROMA vediamo un
congiungimento tra la sapienza orientale e i sistemi greci; onde si svolse la
setta degl’Alessandrini, che non fecero altro se non ridurre a forme greche il
panteismo asiatico, già cominciato in Filone ebreo, nella Kabbala, in Apollonio
Tianeo e in Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio, Cronio, Numenio. Questi,
benchè distinti dalla scuola d'Alessandria (e fa male chi li confonde), in
sostanza cominciaron l'avvio di quella, che ne trasse i pensieri a compimento.
Gl’Alessandrini e i loro antecessori fanno essi dunque un'epoca nuova? No,
perchè i metodi sono affatto dell'età socratica, e i principj gli stessi. Lo
scetticismo poi che li conduce al misticismo, appartiene a quel medesimo tempo.
L'unione dell' orientalità con l'atticità pare un che nuovo, ma
scientificamente non è. Proviene dalle tendenze mistiche succedenti al dubbio,
non già da'me todi scienziali; piacque la misticità orientale, richiesta già
dagli animi. Ebbi l'opinione anch'io che gl’alessandrini facciano un'età da sè;
ma più attenta consi derazione m'hacondotto ad altro parere. La seconda parte
sì che fa un'epoca da sè, l'epoca quarta o LATINA O ROMANA. Introdotte le
scuole di Grecia in ROMA comincia ivi un ordine proprio di concetti per
efficacia delle tradizioni ITALICHE e per la civiltà di ROMA. Talchè, ripeto,
avvi un'epoca quarta, o de sistemi LATINI ROMANI; nuova per le riforme tentate
da CICERONE e per la novità dei iureconsulti, che hanno efficacia sì viva e
universale nella civiltà europea; e anco perchè CICERONE serve più che i greci
alla filosofia cristiana de' padri latini e dei dottori, i quali per via di lui,
piucchè in modo immediato, sanno l'antiche opinioni. Adunque in uno specchio
generale di storia si dee lasciare i filosofi eruditi, che non aggiungono nulla;
degli scettici dissi già nel passato. De'sistemi grecorientali poi si dee
trattare nella prim'epoca del l'èra cristiana, perch' essi combatterono la
sapienza de Padri e n'eccitarono la opposizione. Resta che noi parliamo qui de'
sistemi LATINI ROMANI, che soli ci danno un'epoca nuova. Non fa meraviglia che
in ROMA a nascesse tardi la filosofia. Nasce quando la riflessione si volge
alla coscienza, e vi contempla l'uomo interiore per elevarsi all'ideale
universalità. La filosofia vi s'eleva in modo astratto. Ma quando un popolo,
come IL ROMANO, è tutto inteso a fatti gravi e giornalieri che lo attirano o a
guerre esteriori od a contese interne; allora ti daranno bensì canti popolari
di guerra e d'illustri memorie (come gli accenna LIVIO. Ma non si possono dare
filosofia. In que' tempi guardasi al fine politico ed aʼmezzi, non alla natura
dell'uomo qualità generali delle operazioni, come fa il filosofo. Indi la
rozzezza de’ROMANI, talchè narra LIVIO, che lo storico più antico e FABIO
PITTORE a' tempi d'Annibale. Ma quando ROMA ha esteso la dominazione a tutta
Italia e oltre, allora IL ROMANO non vide più solo innanzi a sè le contese de'
vicini, e le contese del foro tra nobili e plebei, sì un'intera e grande
nazione e il genere umano. Così l'idea di ROMA si appresenta in relazione con
tutta l'Italia e l’Italia in relazione col mondo. Il pensiero de' ROMANI si
dilata. Si allarga fuori del cerchio de' fatti particolari. Il quirita si sente
più chiaramente e figlio di ROMA, e italiano, e uomo, tanto più che a poco a
poco LA CITTADINANZA ROMANA si estese a tutta Italia. A’tempi di Storia della
Filosofia. – 1. e alle 24 2 as 2 CICERONE non rimane quasi più possedimento in
ITALIA non assegnato a'cittadini per via di colonie; il qual fatto, unito
all'altro che già notai de’ primitivi abitatori ricaccianti le colonie greche,
spiega com’in Magna Grecia ed in Sicilia i dialetti sieno italici puri (chè i
pochi Greci di PUGLIA non sono gl’antichi), non già ellenici come in Grecia
moderna e in alcune parti del l'Asia minore. Le colonie di ROMA, aiutate
dall'affinità primitiva delle schiatte italiche, formano così l'unità naturale,
o la consanguinità della nostra nazione; nazionalità naturale determinata
da'naturali confini del nostro paese, e che si manifesta nell'unità formale de
dialetti, o già contemporanei al romano, o nati da esso. Indi allora nacque la
politica nazionalità benchè dopo cinque secoli di guerre; ma lasciando
a’municipj un'im magine di ROMA, consoli, senato e popolo com'a FIRENZE (Malespini
e Villani), e concedendo a que municipj amministrazione lor propria; indi
vennero i nostri comuni del medio evo. Roma e l'ITALIA, considerate in
relazione col mondo, formarono nelle menti romane com'un archetipo di perfezione.
Il vecchio PLINIO (giova ripeterlo qui) scrive dell' Italia. Omnium terrarum
alumna et parens, omnium terrarum electa; una cunctarum gentium in toto orbe
patria. E VIRGILIO, lodando magnificamente l'ITALIA nel secondo delle Georgiche,
non si ristringe a Roma, e dice. Hæc genus acre virumi, Marsos pubemque
Sabellam Adsuetumque malo Ligurem, Volcosque verutos Extulite.” E Virgilio finisce
con quell'alte parole. “Salve, magna parens, Saturnia tellus Magna virum.” Giunto
un popolo a questa larghezza di sentimento e di riflessione, possiede
l'idealità necessaria per la filosofia. Non lo stringono più le necessità
de'fatti speciali, stende il pensiero alle attinenze, considera la natura
dell'uomo e delle cose. Questo svolgimento di coscienza per la riflessione
venne promosso da una causa tutta particolare a Roma ed all'ITALIA. Qui, più
ch'altrove nell'antichità, e sacro il connubio; e gli affetti di famiglia
v’ebbero consistenza per molti secoli. La stessa mitologia nostra, come dice
Polibio, rigetta le nefandezze de' simboli elleni. Or bene, gli affetti di
famiglia tengono vivo il senso morale, che dipende dal l'idealità suprema della
legge e del dovere. Non v'ha dunque da stupire, se VIRGILIO, benchè imiti Omero,
si distingua tanto da lui ne' principali concetti che governano il poema;
ossia, nel concetto che ordina il poema stesso e ch'è una disposizione di
provvidenza rispetto a’ Romani; poi, nel concetto di patria ch' è Roma; in
quello altresì di nazione (non di schiatta soltanto, come la Grecia ), cioè di
tutte le genti italiane, non solo consanguinee (schiatta italica), ma dimoranti
pure in unico paese (nazionalità naturale) e poi congiunte da ROMA (nazionalità
politica): nell'altro di famiglia onde ri fulge l’Eneide dal principio alla
fine; per ultimo, nel l'intima e soave descrizione degli affetti, con la quale
il poeta mantovano prepara la poesia cristiana. Sicché, quand' io leggo in
alcuni libri ch'a Virgilio manca un'idealità propria, prego da Dio la fine di
certe passioni che impediscono la equità de' giudizj. Però, mentre allargavasi
il dominio romano, cresce vano le ragioni d'intima civiltà; le quali, per altro,
s'acchiudevano già in Roma ab antico. La prisca gente romana che ch'ella fosse
e in qualunque modo si ragunasse da prima, certo è, che s'ella fu rozza per le
necessità di continue guerre, sorse tuttavia tra popoli molto civili; ebbe
accanto la Magna Grecia e l'ETRURIA, e le tante città de’ SABINI e del LAZIO.
Ora chi non sa quanto valgano mai le tradizioni civili anco tra popoli rozzi? NUMA
vien detto alunno di Pitagora; ' e l'anteriorità di quello è spiegata
dall'antichità delle scuole pitagoriche, com'altrove narrai, Dice CICERONE. “Romuli
autem ætatem jam inveteratis literis atque doctrinis fuisse cernimus.” (De rep.):
e Agostino scrive nella “Città di Dio” che Romolo e venuto non “redibus atque
indoctis temporibus, sed jam eruditis et expolitis.” Plinio cita le belle
pitture d'Ardea più antiche di Roma. I Romani predarono dalla sola Volsinia
2,000 statue. Bolsena in Fenicio significa città degli Artisti (Cantù, St. Univ.)
Se a ciò aggiungo la tradizione, che le leggi de cemvirali si prendessero di
Grecia (tradizione falsa per le leggi che s'attengono a' costumi di Roma, vera
probabilmente quant'al modo d'ordinarle ), e se aggiungo altresì la perfezione
che graduatamente il gius positivo ha dal gius onorario, mi capacito che nel
seno di ROMA cresce un germe di civiltà e però di filosofia, da venire a compimento,
quando se ne offerisse la occasione. E questa occasione, testimonio la storia, è
sempre qualcosa d' esterno. L'occasione a Romani venne da Greci conquistati. Ed
ha il proprio segnale nell'ambasceria di Critolao, Carneade e Diogene
babilonese. CATONE si sforza di cacciare le sette greche. Invano, il terreno
era preparato. E la pianta fiorisce. Ben è vero che la speculazione puramente
filosofica non dura a lungo, ma prosegue a fecondare il diritto. E la qual
brevità ha due cagioni principali. I sistemi greci, che aveano menato tant'
oltre la FORMA LOGICALE della filosofia, quant'alla MATERIA poi l'aveano
lasciata in dubbiezze infinite, come vedemmo; talchè si richiede uno sforzo più
che umano a rilevarla: poche verità si conservavano intatte da ordirvi la
scienza. Quindi, o rimane solo a far opera d'eruditi e d'accozzatori, come gli
ecclettici d'allora; o bisognara trar fuori quel poco di certo, che non da
soggetto a copiose speculazioni. In secondo luogo, allorchè ROMA venn'a
maturità di pensiero, cadde in servitù che isterili la letteratura e la
scienza. Quindi, i sistemi latini ROMANI si riducono il più alla filosofia di CICERONE,
e alle scuole de' Giureconsulti. I filosofi anteriori a CICERONE seguirono i
Greci pressochè interamente. LUCREZIO ripette quasi le dottrine del Giardino;
ma nondimeno LUCREZIO mostra la coscienza di romano, allorchè, facendo
materiale l'anima, pur conta fra gl’elementi costitutivi di essa un elemento
innominato, quasi animo dell'anima. “Nobilis illa vis, initum motus ab se que
dividit ollis, Sensifer unde oritur primum per viscera motus.” (De Nat.). E, quando
stabilì negl’elementi un moto spontaneo per ispiegare la libertà E quando
celebra la divinità della natura con versi stupendi e la santità del matrimonio.
SENECA non si parte dal PORTICO, benchè fa professione di non ispregiare nessuna
scuola. ANTONINO, com’Epitetto, ha lasciato aurei precetti, ma senza
ordinamento di scienza. CICERONE, al contrario, istitue speculazioni proprie,
che certo hanno forza nell'universalità de' Romani culti e nella
giurisprudenza. Io dunque parlo di CICERONE e de' Giureconsulti. Fin d'ora io
dico che CICERONE si propone di sceverare (con un principio superiore) le parti
vere e certe de sistemi greci dalle false od incerte, di comporle in ordine
chiaro, d'applicarle alla vita privata, e ch'elle confere all'eloquenza. Questa
filosofia di CICERONE suol chiamarsi ecclettica; e chi la intenda per metodo
compositivo e logicamente ordinato, passi. Ma dice male chi la pigliasse per
una scelta a caso, senz’un principio interiore e ordinatore. Nessuno puo negare
che ciò distingua le speculazioni di Tullio dall' ecclettismo de' Greci
mentovati poco fa, i quali ragunavano nella memoria, ma non componevano nel
pensiero; e lè distingue pure da’migliori sistemi dell'epoca antecedente,
perchè CICERONE li giudica con libertà e li trasceglie. Nè si può mettere in
dubbio l'efficacia di CICERONE – non MARC’ANTONIO, chi lo assassina -- su'secoli
avvenire. I Padri e i Dottori lo studiarono molto; e Agostino, da uomo grande
che riconosce il vero ed il bene onde che venga, scrive nelle Confessioni. Hic
liber -- cioè la lettura dell'Or tension -- mutuvit affectum meum, et ad te ipsum, Domine,
mutavit preces meas, et vota ac desideria mea fecit alia.” Pare che CICERONE
trade la schiatta da quel Tullo Azio, che regna gloriosamente su’ Volsci (Plut.
in Cic.). E quegli se lo tene per certo, sicchè dice ne' libri Tuscolani, che
Ferecide era antico -- fuit cnim meo regnante gentili: indi la smania di
comparire tra gli otti mati. Lasciate le scuole, udì Filone accademico; ma
insieme pratica Mucio, personaggio assai versato nella politica, e principale
tra’senatori, imparando da lui scienza di leggi; e milita con SILLA tra’ Marsi (Plut.).
Sente anche Fedro epicureo e Diodoro stoico. In Atene segue Antioco accademico,
e non trascura Zenone all’Orto. Anda poi in Asia, e si ferma a Rodi, per esser
ammaestrato dallo stoico Posidonio. Favella con tal passione e con voce si
concitata, che gli reca danno alla salute. In Sicilia e pretore giusto, umano,
amatissimo. Dopo la congiura di Catilina, CATONE stesso chiama Cicerone padre
della patria dinanzi al popolo. Esiliato da Roma per le mene di CLODIO, vi
rientra poi come in trionfo. Gli furon trionfo tutte le vie d'Italia, per le
quali CICERONE passa. Stette fedele alla re pubblica contro la signoria di
GIULIO CESARE e la tirannia di MARC’ANTONIO. MARC’ANTONIO lo manda a trucidare,
e Cicerone porse il collo alla spada (Plut.) Ama la famiglia con tenerezza.
Esule, scrive a Terenzia sua e alla figliuola lettere d'amore sconsolato. Come
CICERONE intende la santità dei pubblici ufficj, lo mostra la famosa lettera a
Quinto fratello. Le sue lettere, scritte da lui senz'intenzione di pubblicità,
e che formano uno de' più bei libri del mondo, lo mostrano sempre d'animo
schietto e buono. Scrive a PETO. “Sii persuaso, che giorno e notte non altro
cerco, non altro penso, se non che i miei cittadini sien salvi e liberi. Non
lascio opportunità d'ammonire, di fare, di provvedere. Infine io son fisso qui,
che se in tanta cura e amministrazione ho da porre la vita, stimo di aver
finito preclaramente. (Ad fam.) Non pecca d'orgoglio, ma di vanità; si lodava
spesso, e questo aizza gl'invidiosi, e a lui diminusce rispetto. Faceto, morde
non di rado altrui, e, senza volere, s'accatta nemici; ma in lodare i meriti
veri abbonda con allegrezza e con liberalità d'uomo sincero e benevolo. Parve
talora incerto ne' propositi, e troppo addolorato nelle sventure. Prende due
mogli, ripudiando la prima. Volle dedicare un tempio alla figliuola morta. Loda
e invidia gli uccisori di GIULIO CESARE. Loda prima GIULIO CESARE troppo, ma
non l'opere mai. Dice Capponi (Archivio Storico ): Ma chi fosse più di me
severo a Tullio, pensi com'egli animosamente comincia la sua vita d'oratore e
la compiesse gloriosamente. Assalse nella difesa di Roscio d'Amelia un
Crisogono liberto di Silla ch'era affrontare SILLA medesimo. Principe nella
città e guida e anima del Senato, combatte MARC’ANTONIO e incontra la
morte.Oratore, accusa sempre gli scellerati, difese qualche volta i non
innocenti. FILOSOFO, stette per lo più dalla parte del vero. Bensì approvò il
suicidio, l'assassinio de' tiranni, la vendetta, un certo sfogo di carnalità, e
la schiavitù. Uomo di stato, cerca troppo la lode, ma insieme la grandezza e il
bene della patria. Scrive d'eloquenza, ed e oratore sommo. Scrive di filosofia
morale, ed e uomo dabbene. Scrive di cose civili, ed e gran cittadino. Ecco i
fatti principali e virtù e difetti che spiegano LA FILOSOFIA DI CICERONE. È impossibile non vedere in CICERONE tre forti
amori, di gloria, di patria e di famiglia. E' reca in tutto ciò un'ardenza di
cuore, la quale ha talvolta del molle, ma la tenerezza è temperata da un senso
vivo d'onestà e di decoro. (V. le Lettere scritte in esilio.) Ude tutte le
scuole, e però raccoglie il meglio; ma con iscelta libera e ordinata, perchè
uomo libero ed T 11 tro operoso, e ingegno forte. Romano e uomo di stato, segue,
più che non facessero le scuole greche, il precetto socratico di badare nella
scienza al fine del bene; e tal qualità pratica non diminuisce il valore delle
dottrine, anzi lo cresce, purchè la scienza si pregi anco per sè, come fa CICERONE.
Badando al bene, odia la parte ipotetica e vana de sistemi anteriori, e ne prende
il poco, ma certo e buono. Però, indulgente ad ogni setta, coll’Orto non volle
mai pace. Un po' vano, pompeggia assai nelle parole; il che gli scema vigore
qua e là. Ma nella filosofia va semplice e spedito. Uomo universale, senatore e
console di Roma, cerca l'universalità negli; e questa filosofia da a 'Romani
l'idea di tutto il sapere. Pieghevole alla opinione altrui per bontà di cuore e
per bramosía di favori popolari, combatte nella “Divinazione” le falsità del
culto, le rispetta in altri luoghi; ammira il suicidio dei filosofi del Portico,
non se l'attenta per sè, timido, dicon taluni, rimorso da coscienza non
confessata, dirò io, e lo credo. Taluno da quelle parole di CICERONE ad Attico:
ATÓMp492 sunt; minore labore fiunt, verba tantum affero, quibus abundo” (Ad
Att., XII, 52). Deduce ch'esso i libri filosofici traduce, non li facesse di
suo. Ma quando poi sentiamo che Cicerone stesso, in tempi che gli autori greci
erano familiari, e molti a Roma i maestri greci, e in opere dedicate a dotti di
greco, quali ATTICO e BRUTO, o a studenti in Grecia, come il figliuolo, dice
(De fin. 1, 3): Noi non facciamo ufficio d'interpreti, ma sosteniamo le
dottrine di coloro che approviamo, e aggiungiamo ad essi il nostro giudizio e
un ordine nostro di scrivere. E dice altrove (De off. I, 2): Ora seguiremo e in
tal soggetto il PORTICO principalmente, non come interpreti (non ut
interpretes); bensì, al solito nostro, berremo a’lor fonti quanto per giudizio
e arbitrio nostro ci parrà.” Allora, io affermo che Cicerone non poteva dire
una bugia così sfacciata ed inutile. Narra egregiamente Plutarco. Eragli studio
comporre dialoghi di filosofia e tradurre dal greco an 10 1:. bi lice. li 1 tes 377 (In Cic. ). E così un greco antico, più
che i moderni non greci, distingue bene i libri tradotti come il Timeo
da'propri di Cicerone. L ' opere di lui distingue Ritter in filosofiche o
riposte ed in popolari. A me non sembra; sì scorgo chiara la distinzione del
DIALOGO SPECULATIVO, come i libri accademici, dagli scritti che hanno un fine
pratico, ad esempio gli Offici, dell'Amicizia, e simili. Negli Officj chi mai
non vede un ordinamento scienziale? E se CICERONE rispetta gli dèi più qui che altrove,
pensiamo che ciò s'usa da tutti i filosofi, quando essi non ispeculavano
direttamente sulla divino. Mi pare, poi, manifesta la distinzione, e più
principale: tra la FILOSOFIA NATURALE (De natura Deorum, De divinatione ), LA
LOGICA -- Academicorum, Topica, De inventione, De oratore etc. – LA FILOSOFIA
MORALE (Tusculanorum, De officiis, De finibus, De senectute, De amicitia, De
legibus, De republica, De fato. Quantunque in ciascuna classe si trovino
mescolate più o meno le dottrine, non già divise assolutamente. L' Ortensio poi
è perduto, d'altri libri restano frammenti. Or dunque Cicerone, imitando
Socrate, tornò a'principj e al fondamento del sapere. Quegli, come questi, si
trova in mezzo a una confusione di sistemi, e, come Socrate, chiama i suoi al
conosci te stesso, affinchè nella coscienza di noi prendiamo il rimedio alle
superbie d'ipotesi vane e il principio della sapienza vera. Quand' io dico che
CICERONE imito Socrate, già non lo paragono a lui, nè come filosofo glielo fo
uguale, sì discepolo; dico bensì, che il tornare a'principj è in tutte le cose
rinnovamento unico e condizione di nuovo cammino; e chi rinnova, è istitutore
novello e cominciatore d'un'epoca propria. E se CICERONE non riuscì a tanto
come Socrate, ne chiarii altrove le cagioni; e a lui non s'ha da imputare. La
scienza e la civiltà del Paganesimo cadeno, e sempre più CICERONE le trova
quasi in fondo, nè potè nè sperò ritirarle in cima. Fatto è, che CICERONE, come
Socrate, capi la stranezza delle sette pagane. Ama con grand' amore la
filosofia, 2 ! la pre 18 MA Tha U.
>> TH e ne scrive lodi magnifiche in ogni suo libro; anzi l' Ortensio e
composto da lui per esortazione a filosofare; e nondimeno quand' ei volgevasi
attorno, e sente le strane opinioni di tante sette, esclama: Niente si può dire
di tanto assurdo, che non sia stato detto da qualche filosofo. (De div.) Ammone
per ciò a rientrare nella propria coscienza, a ripigliare il conoscimento di
noi, a seguire così una filosofia meno sicura de' propri sistemi, non presuntuosa
(minime arrogans: De div. II, 1 ). Ripeta il precetto che sta sul tempio
d'Apollo, nosce te ipsum, e dice: Essendo tante e sì grandi cose che si
scorgono nell’uomo interiore da quelli che voglion conoscere sè stessi, madre
loro e educatrice è la Sapienza (De off.). CICERONE invita a fermar l'occhio in
questa evidenza interiore, dove tante verità si veggono chiare -- quæ inesse in
homine perspiciuntur. In questa coscienza di noi stessi, CICERONE come Socrate,
più di Socrate forse perchè ROMANO, sente l'uni versalità del vero, distinta
dalle opinioni particolari, e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro
sociale e religioso, relazioni universali anch'esse; e però CICERONE inculca
sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo, ossia nella retta
ragione (De off.); e contro L’ORTO fa valere gli affetti più generosi
dell'animo (ivi, e negli Acc. e ne Tuscul. e quasi per tutto ); e chiama in
sostegno il senso comune e le tradizioni umane e divine. Così ne' libri
Tuscolani adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di un
divino e l'immortalità dell'anima umana; e dice ne'Paradossi contro gli Stoici Noi
più adope riamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono
cose non molto discordi dal pensar della gente. (Proem.) – cf. Grice,
“Philosopher’s Paradox” -. E nelle seguenti parole del Tuscolani si vede com'ei
raccogliesse, di mezzo alle opinioni varie, le tradizioni universali de
filosofi e le divine. Inoltre, d'ottime autorità intorno a tal sentenza --cioè
l'immortalità dell'anima -- possiamo far uso; il che in tutte le que HIE ale Di
D. 4 stioni e dee e suole valere moltissimo -- in omnibus causis et debet et
solet valere plurimum. E prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate ) -- la
quale, quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ),
tanto più forse discerneva la verità. » (Tusc.) E tra filosofi, che CICERONE
cita, preferisce appunto FERECIDE, come antico, antiquus sane; e indi ne
conferma l'autorità con quella di Pitagora e de' Pitagorici; il nome de'quali,
egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun al tro paresse dotto (S
16). E dice più oltre che, secondo Platone, la filosofia e un dono, ma quanto a
sè, una invenzione degli dèi. Philosophia vero omnium mater artium, quid est
aliud, nisi, ut Plato ait, donum, ut ego, inventio deorum? » ($ 26. ) Nel che s'accenna
il principio divino della sapienza e della tradizione. Condotto da questo filo
tra i ravvolgimenti delle sette cansa gli eccessi d'ogni maniera. IL PORTICO, per
esempio, la cui morale severità CICERONE approva e segue, dice, che nessun uomo
è buono fuorchè il sapiente. Ma di questo sapiente ne fa un'idea sì alta. che
confessavano poi, e' non darsi quaggiù; e però IL PORTICO, se consentanei a sè,
dovevan dire impossibile umanamente la loro superba virtù e disperarne come BRUTO
morente. CICERONE al contrario riconosceva una più umile sapienza e virtù, che
può essere di tutti, e che ci abbisogna nel vivere comune. (De amic.) IL
PORTICO, crede CICERONE, indiando la natura, di poter trarre le superstizioni
volgari a senso ragionevole (come tenta VARRONE per testimonianza d’Agostino –
“Città di Dio”. Ma Cicerone le deride (De nat. Deor.). Mena buono all’ACCADEMIA,
al LIZIO, e al PORTICO, che la più alta felicità dell'intellettuale natura sia
la contemplazione (Hort. in Agost. De Trinit.). Ma in questa vita, ei dice, la
contemplazione senza la pratica delle virtù è nulla (De off.); e quindi censura
Platone che scrive: Il savio non essere obbligato a civili negozi. (De off.).
IL PORTICO, per alterezza di ragione, spregia il corpo e i beni corporei. Ma
Cicerone dice: 11 he COL iti be 111 15:-11
19 Poichè s'ha da seguire la natura. Noi siam anima e CORPO. Non possiamo
spregiar il corpo, nè si dee imitare que'filosofi, che accorti d'un che
superiore a'sensi ne spregiano la testimonianza. Con che l'accoccava pure agl’Accademici.
(De fin.). IL PORTICO nega l'efficacia del dolore sull'uomo sapiente, e svile
ogni piacere. CICERONE invece mostra che il dolore eccessivo è impedimento agli
officj, e che le temperate giocondità son utili e buone. (De sen., De fin.). IL
PORTICO, concependo la virtù con altezzosa rigidità, stimano uguali tutti i
malvagi e tutti uguali i peccati, perchè tutti contrarj al bene. CICERONE
confuta in più luoghi tale uguaglianza e mostra, per esempio, ch'altro è mancare
a posta, altro è nell'impeto di passione. (De off.) Se nella morale ei tenne dal
PORTICO, rigettate le loro esagerazioni, in logica, metodo filosofico e analisi
di concetti stette per l’ACCADEMIA giacchè, come dissi altrove, la riforma del
filosofare comincia sempre da un dubbio temperato. Ma qui è il divario, la
temperanza; perchè, dove l’ACCADEMIA (a quello che ne sappiamo) nega ogni
verità e CERTEZZA nel percepire le cose e ammetteno solo una verosimiglianza,
uguale per tutte le opinioni. CICERONE invece ne' fondamentali principj e nelle
verità più alte non poneva dubbio, e quanto a' casi particolari li stima
probabili, non ugualmente, sì convarietà di gradi; e al probabile opponeva quel
ch ' è improbabile affatto. Ecco le sue parole: Vorrei che fosse ben chiaro il
nostro pensare; chè noi non siamo già di quelli il cui animo si crede aggirato
sempre in errori, e senz' alcun che da tenere: che sarebbe mai questa mente, o
questa vita piuttosto, negata ogni ragione, non solo del disputare, ma del
vivere altresì? Noi invece, come dagli altri si dicono certe alcune cose e
alcune incerte, così noi, dissenziendo da essi, diciamo probabili alcune e
alcune improbabili. (De off.) Qui si scorge, che il dubbio di Cicerone non cade
punto sulla ragione umana e sulla vita, o sull' essere proprio, ma sul domma fisico
e morale del PORTICO. E nel libro delle Leggi dice” « Preghiamo poi, che questa
Accademia nuova di Arcesilao e di Carneade, perturbatrice di tutto, si cheti;
perchè se darà dentro a tali dottrine, che ci sembrano ordinate e composte con
assai aggiustatezza, recherà troppo rovina. Io bensì desidero placarla, ma
cacciarla non oso.La qual conclusione mostra, ch'ei non rigetta in tutto i
dubbj, ma dov'essi erano cattivi. E più si discosta dagl’ACCADEMIA allor chè
dice. Quasi in tutte le cose, ma nelle fisiche più che mai, saprei dire
piuttosto quel che non è, che quel che è. (De nat. Deor.) Nel vivere nostro, e
massime a quei tempi fra tanto diluvio d'opinioni non monta già poco il sapere
quel ch’una cosa non è; significa sapere che il divino non è come noi, che il
divino o l'animo nostro non sono CORPO, che il fine dell'uomo non è la voluttà;
negazioni pregne d'affermazione, implicita si ma certa. E chi vuole stimare
quanto merita il ritegno di CICERONE, anc' allora ch ' ei parla di probabilità
negli officj particolari -- non mai nella legge suprema -- pensi l'assurdità
del panteismo e del dualismo antichi, le finzioni rozze di quella fisica,
l'incertezza della morale, anche in Platone e Aristotile; e s'accorgerà, che se
Socrate meritò lode dicendo, contro l’arroganza de' sofisti. Io so di non
sapere, merita pur lode il nostro CICERONE d'averlo imitato in tanta corruzione
di filosofia e di costumi. E quindi ei non ha dubbiezze contro L’ORTO. Dice a
loro: che la voluttà sia il nostro fine, voi non lo direste in Senato; nè la
voluttà va messa tra le virtù com'una meretrice in un'assemblea di matrone. (De
fin.) La natura ci ha fatti per qualcosa di meglio che non i piaceri del senso.
Il piacere stesso non cato per sè, ma per noi (De fin.). Il dovere ha da
cercarsi per sè stesso. E la dottrina dell’ORTO, se consentanea a sè, non
lascia luogo al dorere. (De off. ) Ma questo sceverare il vero dal falso, con
che 01. Jo (dine interno di principj si faceva? Già ho detto, che Cicerone
ritorna al conosci te stesso di Socrate, cioè al fondamento della coscienza. E
ho accennato, che ivi egli trova l'uomo non solitario, ma in relazione conl
divino, con gli altri uomini e col mondo. Però esclama: « In questa
magnificenza di cose, in questo cospetto e conoscimento della natura, o dèi
immortali, oh quanto conoscerà sè stesso l’uomo; il che c'impose Apollo Pizio! (De
off.) Per via della coscienza, s'accorse Cicerone in modo chiarissimo di tre
verità: prima, che l'uomo sta sopra l'altre cose; poi, che la ragione dell'uomo
prevale al senso e al corpo di lui; infine, che questa ragione ci mostra il
divino con le sue leggi. Viene da ciò la definizione della sapienza o della
filosofia nel II libro degli Officj (S2): scienza delle cose divine ed umane e
delle cagioni di queste; definizione più determinata che non l'altra ne' libri
Tuscolani (V. 3), dov'ei parla storicamente. E s'arguisce però, che Cicerone
stringe la scienza prima, secondo la universalità di essa, nel conoscimento
ragionato del divino e dell'uomo e de’sommi principj. CICERONE capisce, come
nella scienza si désse un ordinamento necessario; e diceva: « È malagevole
sapere alcun che in filosofia, chi non ne sappia o il più o il tutto. » (Tusc.
II, 1. ) Cicerone, come Socrate, ebbe una profonda coscienza della ragione.
Bisogna riflettere a noi stessi; in noi tro viamo la ragione, che ci distingue
da' bruti e dalle al tre cose; nella ragione troviamo i giudizj spontanei,
naturali, evidenti, universali. Questi fa d'uopo seguire. Ecco il principio
ordinatore della scienza e della virtù. Il tempo, scrive Cicerone, cancella i
capricci delle 110 stre opinioni, ma conferma i giudizj della natura. Opinionum
enim commenta delet dies, naturæ judicia con firmat (De nat. Deor.). Ma questi
giudizi erano avviluppati in una moltitudine di sistemi. Però, quanto alla
teorica dell'essere, Cicerone sta contento a poco. Chi potrebbe mai condannarlo
d'insipienza? Egli non si dà pensiero nella fisica nè de quattro elementi, nè
del quinto d'Aristotile, nè della materia o della forma. Le sue indagini hanno
per fine la esistenza e natura della divinità, le relazioni di questa col mondo
e l'immortalità dell'anima umana (Ritter). Quanto alla divinità, egli non ne
dubita punto, perchè sentiva nella ragione propria un che divino, la eterna
legge della giustizia (De leg.). Ma intorno alla natura di Dio non afferma gran
cosa. Del metodo di lui, su tali materie, porg' esempio il libro De natura
Deorum. Ivi disputano insieme un epicureo, uno stoico e un accademico.
L'accademico nega il dio animale degli Stoici, e termina dicendo: « Questo io
diceva, non perchè voglia negare la natura divina, ma per mostrare quant'ella
sia oscura e piena d'intrigate difficoltà. » Lo stoico poi combatte l '
epicureo. Cicerone, che si tiene da parte e non entra nel dialogo, che cosa
conclude? E' dice: la disputazione di COTTA (Accademico) sembra a VELLEIO (Epicureo)
più vera. A me l'altra di BALBO (Stoico), più verosimile. Cicerone, adunque,
mostra con singolare finezza quanto i dubbj dell'Accademia piacessero agli
Epicurei; e però com’egli, che s'allontana da questi, s'allontani pure da
quella ragionando sul divino. Pur tuttavia non sa nulla giudicare assolutamente
sulla natura del divino stesso e solo ammette verosimiglianze. Insomma, le
dottrine certe di lui le abbiamo ne' libri morali, dove si afferma l'esistenza
della divino (fonte ll'ogni giustizia e d'ogni diritto ), la legge morale e il
libero arbitrio, e dove perciò s'approva il detto di Crisippo, ch'ogni
proposizione è vera o falsa necessariamente (De fato); le opinioni verosimili
si hanno ne' libri di FILOSOFIA NATURALE, dove apparisce dubbj sulla natura del
divino e dell'anima, e sulle relazioni del divno con l'universo, e quindi sulla
prova fisica della divinità provvidente; ne' libri logici, finalmente, su '
principj della ragione e sull'evi denza interiore non v'ha dubbio di sorta,
beusì v'ha dubbio sul criterio per giudicare la natura delle cose esteriori
percepite da ' sensi. Anche Kant pose
superiore la certezza dell'argomento morale ad ogni altra certezza. Ma Kant
celebra quell'argomento dopo aver negata la validità della ragione pura o
teorica o speculativa. Cicerone, al contrario, non la nega mai, anzi la
magnifico, e solo crede ristretta di molto la possibilità de' giudizj
accertati. Dunque Cicerone, quant'alle dottrine supreme, e ch'egli poteva
conoscere fra l'ombre del Paganesimo sempre più fitte, ammette la verità e la
certezza; ma nel determinare più specificamente quelle verità pone la
verisimiglianza. In ciò solo fu accademico; e non pienamente nem men qui, come
avvertii già innanzi. Pare ch'egli cadesse nel dualismo, opponendo la necessità
della materia alla libertà divina; e che cadesse nel semi-panteismo, facendo
divina la nostra ragione. Il qual ultimo punto si raccoglie da più luoghi; ma
più da queste parole. Le altre parti, onde si compone l'uomo, fragili e
caduche, le prese da generazione mortale. Ma l'animo è generato dal divino (De
off.), e ammonisce di rammentare nel giuramento, che chiamiamo in testimone il
divino, « cioè, com'io penso (dice Cicerone) la mente propria, di cui non détte
il divino all ' uomo nulla di più divino. » Se non che, si vede la temperanza
dell'affermare in quello ut opinor; tant'era l' ecclissamento delle principali
verità sul finire del Paganesimo! Quant'alla teorica del conoscimento, CICERONE
distingue l'intelletto dal SENSO. Lo distingue tanto, che come Platone e Aristotile,
trovando un'immagine del divino nella mente nostra, la identifica con esso.
Anzi nel testimonio del SENSO non pone più autorità ch ' una verisimiglianza,
il che procedeva dal dualismo, secondo il quale il divino e la mente son divisi
dal resto. E per la logica si valse d'Aristotile, come si ha dal libretto de'
Topici. È stupenda la teorica dell'operare; perchè ivi reca Cicerone più che
altrove le verità universali raccolte dal testimonio della coscienza; e vi reca
quel suo modo di escludere l'esagerazioni e di comporre le spatse verità con un
principio più alto. Qual principio? Il rispetto della ragione, che, in quanto
conosce la verità, è retta ed è regola delle nostre operazioni. Bisogna
seguire, ei dice con gli Stoici, la natura, non l ' arbitrio delle passioni. Ma
la natura nostra è ragionevole; dunque ogni atto nostro dee farsi con ragione e
sottomet terle l' appetito. (De off. I, 28, 29. ) E questa ragione ha potestà
di comandare, perchè sta in essa una legge naturale ed eterna del bene. « La
legge (così Cicerone) è la ragione somma, insita nella natura, e che comanda
ciò ch'è da fare, proibisce il contrario. (De leg.) Questa legge è nata da
tutti i secoli, primache fosse scritta legge alcuna, o che qualche città fosse
istituita. Questa legge viene dal divino, perch' ell ' è divina; e chi non
ammette il divino, non può ammettere la legge eterna e naturale. La legge è la ragione divina partecipata a
noi; e poich' è comune la retta ragione, e la comunanza di questa è società,
però noi siamo primamente consociati coll divino. E poich' ell' è comune a
tutti gli uomini, noi in secondo luogo formiamo la società del genere umano « e
tutti obbediamo a que st' ordine celeste, e alla mente divina, e a Dio sovrap
potente » (parent huic celesti descriptioni, mentique divinæ et præpotenti divino.
. Avendo questa legge divina nell'anima « tutti gli uomini (soli essi fra gli
altri animali) han qualche notizia del divino, nè v'ha gente sì fiera che,
ignorando qual divino adorare, pur non sappia che ve n'è uno. Noi dunque siam
nati alla giustizia; e il gius non è costituito per opinione, ma per natura.
Sì, per natura, giacchè siam tutti simili per la ragione, e ciascun di noi si
definisce com’uomo, e la mente di ciascuno « è diversa in dottrina, ma nella
facoltà del sapere è uguale. Dalla legge si genera il dovere, che va quindi cer
cato per sè stesso, come sudditi alla retta ragione, ne vi può essere alcuna
virtù se non si cerchi per sè, ma per la voluttà o per l'utilità. (De off.)
Come la ragione guida ogni atto umano, così la retta ragione reca in ogni atto
un officio. Talchè, dice il grand’uomo, « nè in cose pubbliche, nè in private,
nè in forensi, nè in domestiche, nè se tu operi teco stesso alcun che, nè
Storia della Filosofia. 25 se pattuisci con altrui; non v ' ha momento di vita
che possa mancare di qualch 'officio; e nell'adempirlo è tutta l'onestà, nel
trascurarlo la turpitudine. » (De off.) Nell'adempire gli officj stanno le
virtù, cioè la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La virtù,
se guendo la retta ragione che ci fa conoscere l'ordinamento naturale delle
cose, non è altro che l'osservanza dell'or dine stesso (De off. I, 4); sicchè «
nella universale so cietà son varj i gradi degli officj; onde si può sapere ciò
che si conviene a ciascuno; e quello che si dee prima agli dèi immortali, poi
alla patria, poi a' congiunti, infine di grado in grado agli altri. » (De off.)
Ma tant'è vero, che tutto ciò si vuol fare per l'autorità della legge eterna in
sè, e per la bellezza del dovere, che certe cose turpi non le giustifica
nemmeno l'amore di patria. (De off.) Egli distingueva poi l'utile apparente
dalla virtù: ma l'utile vero, diceva star sempre insieme con l'onestà; e quand'
apparisce che vi sia contrasto, è turpe eziandio di star a pensare sulla scelta.
(De off..) L'utilità è l'effetto, non il fine della virtù. (De amicitia) E
dalla virtù nasce l'onestà (che in latino ha senso d'onorabilità ), anche se
niuno la conoscesse: « etiam si a nullo lauda retur, natura esset laudabile. »
(De off.) Giacchè la virtù reca con sè il decoro, ch'è come la bellezza: «
l'uno viene dall' animo onesto, l'altra dalla sanità del corpo (De off.); e
come il decoro de' poeti è la convenienza delle parole col significato, così il
decoro della onestà è la convenienza con la natura. » (Ib. 28. ) Però, come i
Greci dicevano o" te uovoy (yóv to 2026, il solo buono è bello, così
Cicerone (come romano) muta il bello nel concetto d'onorabile, e dice: quod
honestum sit, id solum bonum esse: onorabile è solamente ciò ch ' è buono. (Paradox.
I, Osservazione del Ritter. ) Dalla legge eterna, che genera il dovere e la
virtù. nascono le leggi positive; talchè l'esistenza di Dio è il proemio di
tutte le leggi (habes legis proemium, De leg.). « È stoltissima cosa (segue
Cicerone contro l’Orto) che credasi giusto tutto ciò ch'è negl'istituti e nelle
leggi de' popoli. E che? dunque, anco le leggi de'tiranni?... Ma v'ha un unico
gius, da cui è unita la società degli uomini, e cui stabilì un'unica legge ch'è
la retta ragione di comandare e di proibire: e chi la ignora, è ingiusto, o
ch'ella sia scritta o no. Che se la giustizia è solo l'obbedienza a leggi
scritte e agl'istituti de' popoli; e se, come dicono coloro, tutto è da
misurare con la utilità, trascurerà le leggi e le infrangerà se può chi lo
creda fruttuoso. Così non v'ha più giustizia se non v'ha legge naturale, e ciò
che per utilità è stabilito, da un'altra utilità vien tolto via. Anzi, se da
natura non si conferma il giure, cessano tutte le virtù. » (De leg. I, 15. ) La
legge naturale ha da regolare il diritto pub blico, quello delle genti e il
privato; e il filosofo nostro dà precetti santi sulle pene, sulla guerra, sui
trattati. sui contratti e va' discorrendo. Così, dovrebb' essergli più mite il
giudizio degli stranieri, a legger ciò ch'ei dice della Repubblica romana: dopo
averne narrato l'umanità ne’secoli primi, aggiunge che questa diminuì a poco a
poco, e dopo le vittorie Sillane cessò; e quindi esclama: jure igitur plectimur
« a ragione dunque siamo puniti. » De off. II, 8. ) E quella pena noi abbiamo
scontata per se coli. De' pubblici reggimenti loda il misto, per gli stessi
argomenti d'Aristotile e con l'esempio di Roma. (De rep.) Che fa adunque la
filosofia di Cicerone? Essa gli donò (com’ei ripete più volte) copia e
splendore e, col crescere degli anni, efficace brevità d'eloquenza; gli dettò
que' Dialoghi di metafisica, dov'hai il fiore de sistemi greci, eletti e
temperati; que' libri rettorici, che sono un codice dell'arte per comune
giudizio; e que' libri morali degli Officj, delle Leggi e della Repubblica,
dove al me todo sperimentale dello Stagirita è unita la contempla zione
platonica e la severità stoica, senza i loro eccessi. Però, quand' io sento uno
storico illustre' scusarsi del l'aver troppo parlato di Cicerone perchè in lui
non v'ha troppo di nuovo, prego Dio che la scienza ritorni alla natura, e, più
che dell'insolito, sia desiderosa del vero. La giurisprudenza è scienza
filosofica, perché riguarda gli alti umani o personali. La giurisprudenza
positiva non altro fa se non appli care il diritto naturale. Si cerca, quindi,
lo svolgimento della giurispru denza romana e quanto alle forme logiche, e
quanto alla materia. Quattro età del gius romano. Prima età: consuetudini. È
difficile determinare qual parte avesse la civiltà, e quindi la scienza, in
que' primi germi del diritto. Ma vestigi di sapienza ve n'ba. Che cosa abbia di
vero e di falso la tradizione sulle dodici tavole. La materia di esse certo è
romana. Probabilmente la forma logica loro è di Ermodoro Efesio. Seconda età:
si pubblica il segreto delle azioni. La giurisprudenza, perciò, viene alla
gioventù dalla puerizia. Ma crebbe in modo segnalato allorché, sul cadere del
sesto secolo di Roma, si propaga ivi la filosofia. Il settimo se colo è quello
di Cicerone. Si prova con l'autorità di Cicerone, che allora si lero a grande
stato la giurisprudenza per lo studio della filosofia. Allora si conceve l'idea
d'un codice -- idea che vuol abito filosofico delle universalita. Terza età: la
signoria de’ Romani, dilatandosi a tutta Italia, fa pos sibili le scienze.
Cittadinanza romana a tutti gl 'I taliani. Gius italico che da il dominio
quiritario, e il diritto de’ comizii anche per deputati ec. Colonie romane per
tutta Italia. Si determina bene il concetto del paese italico. Gius equo e
buono. Altra cagione della fiorente giurisprudenza; giureconsulti, per lo più,
non sono causidici. Un'altra: l'emulazione in filosofia con gl’oratori. Cenno
su’ principali giureconsul ti. Loro virtù. Com'apparisca dagl’autori, ch’essi
citado ne' frammenti, lo studio loro ne’ poeti, negli oratori e ne ' filosofi.
Si paragona que’ giure consulti a' matematici per tre ragioni. Vigore delle
conseguenze. Cura nel l'evitare contraddizioni. Metodo induttivo e deduttivo.
L'efficacia della filosofia non si ristringe alla forma logica. Passa alla
materia. Tale influsso non apparisce solo da prove particolari, ma più ancora
dalla universale conformità di quelle dottrine alle leggi del pensiero e (salvo
qualch'errore di tempi ) alla natura umana. Nozioni della giurisprudenza, e
perchè i giureconsulti la definissero come la filosofia morale. Distingueno la
scienza del diritto dall'arte. Però s'elevano al concetto della filosofia vera,
rigettando gli eccessi: la speculazione de’ giureconsulti è contenuta nel vero
da' dettami di senso comune e dal fine pratico. Distinzione del diritto in jus
naturale, ius gentium et ius civi. Si
mostra ch'a torto i giureconsulti vennero ripresi sul concetto de’ diritti
naturali. Non accettabile, quanto alla servitù, la nozione del gius civile. Ma
i giureconsulti ROMANI diceno la servitù non secondo il gius naturale, e riconosceno
un fatto. Come la parola “ius” non esclude l'idea d'un diritto eterno. E si
distingue dalla espressione “legge.” Poi, si ha ne’ giureconsulti ROMANI l'idea
precisa del diritto eterno e del diritto naturale. L'efficacia della filosofia
si mostra nella giurisprudenza per via del diritto onorario, per via del
diritto ricevuto, e per l'interpretazione de ' giureconsulti. Molte novilà
introdotte dal gius ricevuto. La virtù e la vera FILOSOFIA de' giureconsulti ROMANI
si fa sentire per fino nel loro stile. Si reca un saggio della loro sapienza e
brevità elegante. Dalla esposizione delle dottrine di Tullio e de'
giureconsulti romani apparisce che l'epoca quarta cerca la comprensione finale.
Parlato di Cicerone, è da parlare de' giureconsulti romani. La giurisprudenza è
una scienza che e una parte della FILOSOFIA perchè risguarda gli atti umani o
personali. La giurisprudenza procede dalla FILOSOFIA MORALE, che abbraccia la
scienza de' doveri e quella de' diritti naturali. La giurisprudenza POSITIVA
non altro fa che determi nare nella varietà de' casi particolari le immutabili
generalità del diritto eterno. Però, se LA FILOSOFIA entra in tutte le scienze
com'ordinamento di concetti e di giudizj, entra poi nella GIURISPRUDENZA ROMANA,
non solo com'ordine logicale, ma eziandio come scienza dell'uomo e delle
ragioni supreme. Avrò dunque a cercare lo svolgimento di LA GIURISRPUDENZA
ROMANA, per l'impulso di LA FILOSOFIA ROMANA, nel doppio aspetto della FORMA
LOGICA e della materia. La storia di quella e distinta bene dall' Hugo in
quattro età nella sua “Histoire du Droit Romaine.” La prima va dall'origine di
ROMA fino a le XII tavole, cioè fino alla repubblica. La seconda fino a CICERONE.
La terza fino ad OTTAVIANO. Se vero, oltre i due secoli dell'èra volgare. La quarta eta, fino a GIUSTINIANO. Età di
fanciullezza, di gioventù, di virilità, e di vecchiaia. Il giureconsulto
Pomponio c'insegna (Fr. 2. D. De Or. Juris) che Roma, ne' primi tempi, si regge
SENZA LEGGE nè diritto stabile -- cioè per CONSUETUDINE. La CONSUDETUDINE forma,
dice Forti (“Istituzioni Civili”), il diritto privato con l'autorità degli
esempi, cioè de' fatti ripetuti, e forma con gli accordi de'potenti il diritto
pubblico. Così il potere assoluto del padre, del marito e del padroni è da'
giureconsulti risguardato sempre per CONSUETUDINARIO, ed anche l'uso delle
clientele. Quanta parte ha la civiltà, e con la civiltà la scienza, in
que'primi rudimenti del diritto romano è difficile a definire in antichità si
remota e perduti dalle guerre i documenti etruschi. Della Magna Grecia restano
scritti, perchè le serba con la lingua loro la stirpe greca. Ma de’ LATINI
PRISCHI e dell'Etruria non abbiamo più se non epigrafi tuttora ignote. Ogni
lingua e schiatta si confusero nell'unità romana. Certo è, tuttavia, che, almeno
gl’etruschi sono molto civili. Sembra non si possa dubitare che il sangue loro
si mescolasse nel popolo di Roma -- benchè l'Hugo lo nega. Ma LUCIO FLORO, parlando
della guerra sociale, dice chiaro. Quantunque la chiamiamo guerra “sociale” a
diminuirne l'odiosità. pure, se stiamo al vero, quella e guerra *civile* -- giacche
il popolo romano, avendo mescolato insieme gl’etruschi, i latini e i sabini, e
traendo da tutti un sangue solo – “unum ex omnibus sanguinem ducat” -- , è di
più membri un corpo e di tutti è una unità (Rer. Rom.) Lerminier nella sua “Philosophie
du Droit” riscontra con molto acume in VIRGILIO la prima origine de' tre
popoli, in Virgilio studiosissimo delle memorie antiche. Lodando l'agricoltura,
VIRGILIO dice cosi. Questa vita tennero i vecchi Sabini, questa Remo e il fratello.
Così crebbe la forte Etruria. In tal modo si fa la bellissima di tutti
gl'imperi, Roma; e una, si circonda d'un muro i sette colli (Georgiche). Fatto
è che a taluno par vedere i *tre* popoli nelle tre tribù del primo popolo
romano, rammentate da Livio – TRIBU I: i Rannesi o Latini, -- TRIBU II: i Tarsi
o Sabini, e TRIBU III: i Luceri o Etruschi (Warnkoenig, “Histoire du Droit Romaine”).
Momen (Storia Romana) nega tal mescolanza. Ma Momsen non da le prove.
Probabile, a ogni modo, che quel nuovo comune di Roma. sorto fra ’comuni vicini,
si mescolasse pure di genti vicine. O si conceda dunque con Niebuhr la
preminenza agl’etruschi, o concedasi a’ latini con l’Hugo, un in dirizzo nelle
cose romane lo dettero i primi – gl’etruschi. Ciò spiega, come in tanta
rozzezza di popolo guerriero e racco gliticcio come il popolo latino LATINO DEL
LAZIO si possede un gius pontificio, e formule sacerdotali e simboli segreti.
Questo io dico per mostrare che le prime consuetudini ed istituzioni hanno
qualche ragione di civiltà, e riuscirono buon fondamento alla giurisprudenza
perfetta. Però, fin dalla prima età, si scorge in Roma la mirabile distinzione
da’magistrati (magistratus populi romani) che stabilivano il diritto, da'
giudici (judex, arbiter ) che giudicavano del fatto (Hugo) -- distinzione che a
poco a poco détte occasione al gius onorario. È noto che il reggimento di Roma
sott’i re e, più, ne' principj della repubblica, e degl’OTTIMATI, cioè, aristocratico.
Indi la opposizione civile dei PATRIZI colla plebe per avere un gius equo -- opposizione
che, divenuta incivile o violenta, rovina la repubblica, come la prima ne forma
la grandezza. La PLEBE dimanda leggi scritte per contenere l'arbitrio de' PATRIZI,
e si promulga la legge di le XII tavole. Narra il giureconsulto Pomponio, che
queste si raccolsero in Grecia, interprete d'esse l'efesio Ermodoro (Fr. 4, D.
De Orig. Juris.). Certamente, PLINIO il vecchio (“Hist. Nat.”) rammenta come
serbata fino a lui la statua fatta per decreto a questo Ermodoro. Talchè la
tradizione non pare favolosa in tutto. Ma è certo altresì che in le XII Tavole,
per quanto ne conosciamo, non si ha traccia del diritto che non e romano.
L’essenza – l’essenziale -- giudizj, patria potestà e connubio, eredità e
tutele, dominio e possesso, diritto pubblico e diritto sacro -- e cosa tutta
romana, come dice Vico, e ormai ripetono i più dotti stranieri come Warnkoenig.
Ma io credo abbisognasse l'opera di quel greco erudito per meditare questa o
quella vecchia CONSUETUDINE, e RIDURLA A CONCETTI determinati ed a’lor capi
principali, ufficio di riflessione addestrata. Nè ciò avrebber saputo I ROMANI,
dati all'armi anzichè agli studj. Ecco
il per chè quella primitiva sapienza, logicamente specificata e distinta d’Ermodoro,
trae in ammirazione Tullio. CICERONE scrive ne' libri “De Oratore”. Se ne
adirino pur tutti, io dirò quel che sento: a me, il solo libricciuolo di le XII
tavole, par superi (se tu guardi a' fonti e a'capi delle leggi) le biblioteche
de' filosofi tutti nel peso del l'autorità e nella copia dell'utilità. Quanto
prevalessero in prudenza i nostri maggiori a ogni altra gente, intenderà facile
chi le nostre leggi romane paragoni a quelle di Licurgo, di Dracone e di
Solone. È incredibile, di fatto, quant'ogni altro diritto civile, salvo il
nostro romano, sia in colto e quasi ridicolo. (De Or.) Le quali parole
attestano tre cose: l'antichissima civiltà di quelle genti che formano Roma, e
che vi recano le proprie tradizioni, benchè si dessero, poi, a vita agreste e
guerriera; la falsità che il gius civile romano procede ài Grecia ne' suoi
particolari; e come la perfezione della giurisprudenza si svolge da principj
non rozzi ne poco pensati. I ROMANNO danno la sostanza, i Greci probabilmente LA MERA FORMA LOGICA, per GENERE E SPECIE – cioè,
ordinamento di codice. Da le XII tavole nasce la necessità d'interpretarle per
disputare in giudizio, e di avere azioni utili a domandare la loro
applicazione. Di qui, come dice Pomponio venne il diritto civile non scritto o
l'autorità dei prudenti, e le azioni delle leggi (“legis actiones”). Ma tutto
ciò e un SEGRETO de' pontefici. Pubblicato il segreto nella seconda età, la
libera giurisprudenza passa dallo stato infantile alla gioventù. Ma quando mai accadde
tal cosa in modo più segnalato? A Roma si propaga il filosofare. Il secolo
posteriore è appunto il secolo di CICERONE. Or bene, la giurisprudenza,
cresciuta lentamente crebbe rapidamente. Allora proprio noi riscontriamo i
giureconsulti studiosi della filosofia e quant'alle leggi del pensiero e quanto
alla natura degl’atti umani in sè e nell' esteriori attinenze. Scrive CICERONE
la “Topica”, o logica inventrice degli argomenti a preghiera di TREBAZIO, come
si ha dal proemio di quel saggio, ov'è scritto. “Non potrei, adunque, con te,
che me ne pregavi spesso, benchè timoroso di noiarmi, come scorgevo facile, stare
in debito più a lungo, senza parer d'offendere lo stesso interprete del
diritto. Sicchè queste cose, non avendo libri con me, scrivo a memoria nella
mia navigazione, e dopo il viaggio ti ho mandate.” Il qual saggio è notevole
molto, perchè ogni precetto è confortato da esempi di giurisprudenza. E di SERVIO
SULPIZIO, primo in autorità tra' giureconsulti di que' tempi e solo studiato
da' giure consulti posteriori, ecco che scrive CICERONE, amico di lui. “Si
stima, o BRUTO, che grand'uso del gius civile s'avesse da SCEVOLA e da molt'
altri, ma l'arte da que st' unico, cioè da SULPIZIO -- al che non sarebbe giunta in lui la scienza
del giure, s'e' non avesse imparato quell'arte che insegna spartire le materie
composte, esplicare con le definizioni l'ascose, chiarire con le
interpretazioni l'oscure; e così a veder prima ben chiaro le cose ambigue, poi
a distinguerle, e ad avere in fine la regola per separare il vero dal falso, le
conseguenze diritte dalle contrarie. Questi adunque reca tal arte (massima di
tutte l'arti ), quasi luce in tutto ciò che dagli altri si rispondeva o si
faceva confusamente. (De CI. Orat.) Con le quali parole mostra CICERONE la
forma di scienza che si prese dal diritto in virtù della LOGICA. E la FORMA
scientifica, ch'è abito di riflessione interiore, leva le menti alle generalità,
senza cui, come non istà scienza nessuna, così nemmeno la scienza del diritto.
E il segnale n'è questo; che al termine dell'età seconda, cioè sul fiorire
della filosofia a Roma, GIULIO CESARE e POMPEO ebber disegno d'un codice;
disegno, che mostra l’uso e la stima degli universali astratti da ogni caso
particolare, ordinati poi secondo GENERI E SPECIE -- giacchè un codice val
quanto in istoria naturale un ordinamento PER CLASSI. Pare che SERVIO SULPIZIO effettuasse
un alcun che di somigliante a impulso di Cicerone, il quale alla sua volta ne'
libri delle leggi mostra un saggio di codice pel diritto pubblico, e al
trettanto promise pel diritto privato. Nè qui entro in disputa fra due scuole
alemanne, l'una che, con Savigny, sostiene il danno de’codici. Laltra che ne
difende l'utilità. Dico a ogni modo (nè si contrasta ) che un codice non si fa
senz'abito di speculazioni filosofiche. L'averlo pensato in Roma e tentato a
quel tempo, chia risce la efficacia loro nella giurisprudenza. Essa pervenne a
compimento nella terza età, cioè ne' primi due secoli e mezzo dell'impero. Il
dilatarsi del dominio romano a tutta Italia prepara il campo alla filosofia. I
Romani, sentendosi non più solo romani, ma italiani e uomini, la loro coscienza
si chiarì e s'arricchì, e l'intelletto loro medito le verità universali. Di
questo fatto non v' ha dubbio di sorta. Dopo la guerra sociale, per LA LEGGE
PLAUZIA e LA LEGGE GIULIA DE CIVITATE SOCIORUM e data, come nota Haubold nella
sua “Tavola cronologica per servire alla St. del Diritto”, a tutte le città
italiche CITTADINANZA ROMANA -- eccetto i Lucani e i Sanniti. Poi consegueno la
cittadinanza i galli oltrepò, conseguíta prima da'Galli cispadani. La ottenne
tutta perciò la Gallia cisalpina. (Framm. L. de Gallia Cisalpina). In tal modo,
come scrive Savigny, dopo la guerra italica i cittadini d'Italia divennero
parte del popolo sovrano (St. del Dir. rom). Questo gius italico da dominio
quiritario, o dominio solennemente e pie namente assicurato, immunità da tutte
l'imposte dirette, libero governo municipale delle città italiane (ivi),
diritto d'intervenire a'comizj o di mandarvi deputati. Talchè l'Italia, a '
tempi romani, con l'unità politica suprema serbò le unità politiche secondarie,
che si chiamavano socio confederati. E questo accadde perchè i romani hanno già
fatto l'unità naturale della nazione col mescolamento de’ sangui, spargendo
ovunque le colonie (com'osserva Forti), nè per sei secoli ne mandaron mai fuori
d'Italia. (Ist. Civ.). L'Italia, dice Hugo, non si considera mai una provincia;
chè le provincie furono soggette a magistrati non propri, non compagne ma
suddite (Hist. du Dr. Rom..) I romani, allora, si levarono con la mente
all'unità naturale del territorio, come vediamo ne' Digesti. Al Fr. 99, $ 1 de
Verborum significatione è scritto. Dobbiam credere provincie continue le unite
all'Italia, come la Gallia cisalpine. Ma e la provincia di Sicilia più si ha da
tenere per continua, essendo separata d'Italia da piccolo stretto. “Continentes
provincias accipere debemus eas, quæ Italiæ junctæ sunt, ut puta Galliam: sed
et provinciam Siciliam magis inter continentes accipere eas oportet, quæ modico
freto Italia dividitur” Ulpiano. E al Fr. 9, D. de Judiciis et ubi etc., si
dice.Le isole d'Italia son parte d'Italia e di ciascuna provincia. “Insulæ
Italiæ pars Italiæ sunt et cuiusque provincie.” A questo concetto sì pieno
vennero i romani tra gli ultimi tempi della repubblica e i primi del PRINCIPATO,
cioè tra la prima e la seconda età. Ecco il perchè la giurisprudenza romana,
con l'aiuto della filosofia, potè sorgere a tant'altezza. Si aggiunga poi, che
le sevizie de' principi cadevano in Roma su'patrizi più sospetti, ma quel
reggimento temperavano istituti repubblicani e ordini civili equi. Se no, come
dice Romagnosi, non si capirebbe il perchè in un governo da turchi uscissero
mai tanto insigni se natusconsulti e le belle costituzioni de' principi; e come
ALESSANDRO SEVERO ha un consiglio di XVI sapienti, tra cui i più chiari giureconsulti,
FABIO cioè, Sabino, Ulpiano, Paolo, Pomponio, Modestino e altri. (Ind. e
Fattori dell'incivilimento. P. 2, C. 1, § 1-5. ). E tanto è vero, che la notizia del “gius equo”
e buono splendesse viva nelle menti romane, che lo strapazzo delle provincie, finita
la guerra civile, non e punto legale, anzi contr'alle leggi; perchè, secondo le
costituzioni come dice Warnkoenig, le provincie stano bene, le imposte sono
lievi, lo stato pacifico, molto dell'amministrazione in mano di quelle (il che
scusa in parte il popolo romano); ma infierivano i governatori. Popolo e senato
li minacciavano con le leggi repetundarum, tornate vane per corruzione
de'giudizj. (Hist. du Dr. Rom.) Tali cagioni principalmente formarono la
sapienza de' giureconsulti romani. Inoltre, essi per lo più non eran causidici,
ma scioglievano questioni di diritto in generale. E ciò indica sempre più e la
natura scientifica del ministero loro, e perchè la scienza, libera da interessi
particolari, progredisse continuamente. (Cic., De CI. Orat.). Poi, l'emulazione
degli oratori che piegavano il gius alla varietà de’lor fini, co' giureconsulti
che ne volevano serbare la severità, incita questi a gareggiare in isplendore
di filosofia, e ad interpretare il diritto co' placiti del senso comune. Così
da una disputa tra l'oratore CRASSO -- contemporaneo al padre di Cicerone -- e MUZIO
SCEVOLA giureconsulto sull'interpretare i testamenti o a rigore di parola, o
secondo la probabile volontà del testatore, nacque la giurisprudenza in
quest'ultimo senso, ripresa da Forti, ma e forse meglio approvata da Cuiacio.
Infine, l'esercitarsi tale ufficio da’giureconsulti senz'ombra di lucro, la
illustre loro condizione e l'affetto all'antiche leggi e consuetudini di Roma,
indica il perchè tennero essi per lo più l'austerità della morale del Portico,
che ci chiarisce alla sua volta il decoro, l’equità e sottilità della loro
scienza; e tutto insieme poi spiega la nobiltà di vita de' più tra loro, e n'è
spiegato. Le poche notizie che n’abbiamo ce li fanno apparire la più parte
uomini onorandi. Nomino dapprima QUINTO MUZIO SCEVOLA, assassinato a’tempi di MARIO.
Dice POMPONIO che Muzio costitue primo il decreto civile, disponendolo per capi
di materie (“generatim”) in XVIII libri. SERVIO SULPIZIO riduce il diritto a
stato di scienza. SULPIZIO e prima oratore grande, poi giureconsulto per un rim
provero che gli fa MUZIO SCEVOLA d'ignorare le leggi del proprio paese, egli
oratore e patrizio. Sostenne la repubblica. Avversa i Triumviri. La repubblica
gli alza una statua. Abbiamo di que' tempi ALFENO VARO e OFELIO, ambidue
discepoli di SERVIO, e TREBAZIO (a cui la Logica di Cicerone) e un altro MUZIO
SCEVOLA – PONTIFICE -- e CASCELLIO. Muzio non accetta da Ottaviano il consolato.
Cascellio non volle mai comporre una formola secondo le leggi de' Triumviri; e
a chi lo consiglia si temperasse rispondeva, “Son vecchio e senza figliuoli.” LABEONE,
il cui padre e morto a Filippi, rifiuta il consolato da OTTAVIANO anch'egli, e
serba spiriti antichi. Dice Pomponio: Ageio Capitoni si détte moltissimo agli
studj. Divide l'anno in modo che sta sei mesi a Roma co' discepoli (“cum
studiosis”), e sei mesi lontano per iscrivere libri. Così lascia XL volumi, che
i più s'usano ancora. Ateio CAPITONE (segue Pomponio) persevere nell'antico. Ma
LABEONE, che molto medita nell'altre parti della sapienza (“qui et in cæteris
sapientiæ operam dederat”), per valore d'ingegno e per fidanza di dottrina
comincia innovare molto” (Fr., D. De Or. Jur. ). I cinque giureconsulti più
celebri e più recenti (lasciando gli altri) sono: EMILIO PAPINIANO, PAOLO,
GAIO, ULPIANO, E MODESTINO. PAPINIANO, familiare di SETTIMIO SEVERO e
principale nel governo, stette per GETA contro il suo fratello CARACALLA, e
volendo costui una difesa legale del fratricidio. PAPINAINO la nega e venne
ucciso. Scrive “I fatti,” che le dono la pietà, il buon nome e il pudore
nostro, e che, a dirlo in genere, son contro al costume, si dee tenere che noi
uomini dabbene non possiamo farli (Fr. D. De servis exportandis etc.). Gl’altri
quattro illustrano, come dice, il consiglio di ALESSANDRO SEVERO. I
giureconsulti, massime della terza età, levano a stato di scienza le loro
discipline. Ciò nacque dalla molta erudizione loro, non solo in filosofia, ma
eziandio in lettere; e se n'ha prova ne' lor libri per le citazioni da' Greci;
com'a dire Omero, Ippocrate, Platone, Demostene e Crisippo. E il primo effetto e,
come notai de' tempi di CICERONE, che la giurisprudenza prende forma logica
tanto sicura e stringente, ch'è una meraviglia. Si sa da molti e ab antico, dice
Hugo, la filosofia de' giureconsulti, ma si sa da pochi, che nessuno più di
quelli sta in confronto de’matematici per tre ragioni. Cioè per vigore di
conseguenze da principj fissi, per diligenza nell'evitare contraddizioni -- che
Gaio dimandava “inelegantia juris” -- , e pel metodo distintivo e compositivo,
induttivo e deduttivo ad un tempo -- distintivo e induttivo salendo alle specie
generali del diritto; compositivo e deduttivo traendone con brevità ed evidenza
le illazioni. Il gran Leibnitz, insigne filosofo, scrive nell' Epist. “Io
ammiro l'opera de Digesti, o, meglio, i lavori de' giureconsulti, ond' ell' è
presa. Ne vidi mai nulla che più s'accosti al pregio de matematici. O che tu
guardi all'acume degli argomenti, o a'nervi del dire. Ma questa efficacia della
filosofia non potè fermarsi all'ordine de' pensieri, dovè penetrare
nell'interno, giacchè, com'avvertii, materia della giurisprudenza son gl’atti
umani o personali, soggetto filosofico. Tal efficacia non si creda particolare
ma generale. Quindi, coloro che cercano ne'giureconsulti le traccie minute o del
Portico o d'altri sistemi, errano forte se non passano inoltre a considerare
l'opera generale della riflessione interna. È certissimo, com'avvertono gl’eruditi,
che i più de'giureconsulti tolsero dal Portico l'argomentare per analogia,
l'amore dell' etimologie, la spartizione delle materie, LA SOTTILE DIALETTICA che
conviene al foro, e molte dottrine sulla ragione dell'onesto, applicate da essi
egregiamente al gius civile. Ma l'essenziale sta in quel gran corpo, così
disposto bene secondo le leggi del pensiero, e, salvo qualch'errore de' tempi, così
con formato alla natura umana nelle regole eterne di lei e nelle relazioni
esteriori. Sicchè il gius romano serve di lume al gius de’ popoli più civili,
come si ha dal codice Napoleone: e gli Alemanni, dimenticata noi tanta gloria,
vi fanno su studj esimj e perseveranti. E perchè si chiarisca il filosofare
intimo de' giureconsulti, guardiamo la nozione, ch'e'si fanno della
giurisprudenza e della filosofia. Ulpiano nel Tit. 1 dei Digesti scrive. Dand'opera
al gius, occorre prima sapere onde ne venga il nome. “Gius” è chiamato da
giustizia. Perchè, come Celso lo define elegantemente, il gius è l'arte del
buono e dell'equo. Però siamo chiamati, con ragione, sacerdoti della giustizia.
Di fatto, professiamo la giustizia e manifestiamo la scienza del buono e
dell'equo; separando l'equo dall' iniquo, e discernendo le cose lecite dalle
contrarie; desiderosi di far buoni gl’uomini, non per timore delle pene, ma
eziandio per l'incitamento de'premj; ricercatori, se non m'inganno, di vera e
non simulata filosofia. Se la definizione della giurisprudenza si prenda qui a
rigore, ella non regge, perchè si stende a tutta la filosofia morale. Ma se
badiamo al concetto che avevano di questa gl’antichi, e al generarsi la scienza
del diritto dall'altra del dovere, ci formeremo idea chiara del come
intimamente e FILOSOFICA LA GIURISPRUDENZA ROMANA. Secondo i sistemi filosofici,
sommità di perfezione umana è LO STATO ROMANO. Talchè la morale s'ordina alla
politica. Concetto vero per l'attinenze esteriori, falso e pagano quant'
all'ultimo fine. Non faccia dunque meraviglia se i giureconsulti romani definino
il gius civile come la morale. Lo definano così, perchè, a sentimento di tutti
gl’antichi, le due scienze si mescolavano in una. Noi con più ragione le
distinguiamo, ma s'erra da chi ne dimentica l'unità superiore, ch'è la scienza
de' primi principj e dell' uomo -- dimenticanza ignota agl’antichi, che però
svolgeno razionalmente il diritto e non lo maneggiano materialmente. Notate
ancora che nel passo citato si distingue la scienza dall'arte. Se nelle
Istituzioni poi la giustizia è definita: Costante e perpetua volontà di rendere
a ciascuno il suo diritto: e se la giurisprudenza è definita; Notizia delle
cose umane e divine e scienza del giusto e dell'ingiusto, pr. e S 1, Inst. De
just. et jure, si vuol fare la stessa osservazione detta di sopra; e noto con Cuiacio,
che in tal luogo la giurisprudenza è indicata bene com' abito dell'intelletto o
scienza, e com’abito della VOLONTA, secondo l'antica filosofia. E la filosofia
la pensano essi, non senz'alta speculazione, ma contenuta nel vero da' dettami
del senso comune e dal fine pratico. Di fatto s' inalzarono all'eternità del
diritto -- come osserva Vico nella “Scienza Nuova” -- allorchè dissero: Il
tempo non muta nè scioglie i diritti: “Tempus non est modus costituendi vel
dissolvendi juris.” E, quando discernano il diritto naturale dal positive,
nello stesso tempo rigetteno gl’eccessi del Portico, come l'eguaglianza della
imputazione; finalmente derisero le stranezze, l'ipocrisie, l'avarizia di
quelle sette in età di scadimento. Così sente Ulpiano, che distingue filosofia
schietta dalla mascherata; e nel Fr. 6, § 7, D. al Tit. De his quæ in
testamento delentur, è schernito il suicidio de' filosofi per ostentazione, e
nel Fr. 1, § 4, D. de extraordinariis cognitionibus etc., dove si stabilisce gl’onorarj
delle professioni, li nega il giureconsulto a' filosofi che, vantando di
spregiare le mercedi, n'andano a caccia. I giureconsulti poi mostrno tre specie
di diritti: jus naturale, gentium, et civile; distinzione che non si vuol
confondere con l'altra più pratica in jus gentium vel naturale e in jus civile;
e chi non vi badi, tassa i giureconsulti d'errori, ch'e'non hanno. La
distinzione praticamette divario tra leggi proprie di Roma (jus civile) e
istituzioni comuni a ogni popolo non selvatico (jus gentium vel naturale). L’altra
è distinzione più speculativa e fondamentale. Ulpiano nel Tit. De just. et
jure, D. dal Fr. 2 al 6, distingue diritto pubblico da privato; e distingue il
privato in diritto naturale, che natura insegna a tutti gl’animali, come la
procreazione de’ figliuoli; in diritto delle genti, del quale, tra gl’animali, hann'
uso gl’uomini soli, come la religione verso il divino, l’obbedire a' genitori e
alla patria: in diritto civile ch'è proprio d'un popolo. Ora, s'accusa Ulpiano
d'aver confuso il diritto naturale con gl' istinti del l'animalità; ' e sì che
Piccolomini da qualche secolo fa, come Warnkoenig, nota che qui, secondo le
dottrine vere d' Aristotile, son distinti nel l'uomo i diritti che vengono
dalla natura animale, quelli che vengono dalla razionale, e gl’altri che pone
la comunanza civile. Non s'intende già che una bestia -- detta da'
giureconsulti cosa, non PERSONA – ha diritto, ma che le potenze animali
dell'uomo, in quanto appartengono all'uomo, generan diritti, come li generano
le potenze razionali. Talchè in Ulpiano si trova benissimo sceverata
l'animalità dalla razionalità. È da confessare invece, che il diritto civile si
define per quello che toglie o aggiunge al diritto naturale e delle genti; e
s'allude alla servitù ch'è contro alla natura, come si dice nel Tit. De regulis
juris. Ma tuttavia meritan lode i giureconsulti, che se non condannarono la
servitù, la dissero contraria bensì al diritto naturale, migliori di Platone e
di Aristotile. Anzi nelle Istituzioni è detto, che il gius naturale e istituito
dalla divina provvidenza, come insegna il Portico (De Jur. Nat. Gen. et Cir.);
nel qual testo il gius naturale abbraccia pur l'altro delle genti. Poi, essi
definino il gius civile qual e in fatto allora. Osservo di passaggio che il
chiarissimo Conforti nel l'annotazioni a Stahl (“Storia della Filosofia del
Diritto”, Torino) opina con altri, che i romani non avessero idea del diritto
eterno, perchè jus viene da “iubeo”, comandare; dove la parola diritto, e le
simili del francese, tedesco e inglese, hanno il concetto di rettitudine, o di
rittura alla legge eterna. Ma quel valentuomo non pensa forse al come definisce
la parola Jus Forcellini (Voc. ad V.). Gius è tutto ciò che in generale vien
costi tuito da leggi o naturali, o divine, o delle genti o civili -- Jus est
autem universim id, quod legibus constitutum est etc. Si nomina con altro nome
equità comune, equo universale, legittimo, cioè adequato alle leggi, quasi
norma e regola degli atti umani. Sicchè I ROMANI chiamano “ius” un che
costituito da una legge qua lunque. Così distingueno la legge da ciò che ne
procede, e ch’è l'EFFETO DEL SUO COMMANDO. Cicerone (Rep. et De Leg.) adopera
legge e gius in tal significato. Ma la risposta migliore si è
in quell'assioma de romani già citato: Il tempo non muta nè scioglie i
diritti; conobbero, dunque, i romani la santità del diritto fuori del tempo,
cioè nell'eternità, o nel suo fondamento assoluto. Inoltre vedemmo che il gius
civile si distingue dal naturale. Ma tornando a'giureconsulti, la loro scienza
origina il diritto onorario, di cui parla Forti se non con molta novità, certo
con più chiarezza di tutti gli altri da me esaminati. E io ritrarrò in breve la
sentenza di lui, e n'usce la prova del quanto potè la scienza dell'uomo e la
filosofia morale in tanta perfezione di gius. Ma prima dico che il gius
onorario contene gli editti del urbano e del peregrino, e quelli degli edili e
proconsoli e propretori delle provincie -- edictum provinciale. Pare che il
gius predetto, almeno in modo segnalato, principiasse per chè Cicerone nella
seconda Verrina dice. Postea quam jus prætorium constitutum est. Hugo dimostra,
contro Heinneccio, che tal diritto ha forza di legge; poichè, tra gli altri
argomenti, Cicerone non contrasta nelle Verrine che L’EDITTO DI VERRE SIA LEGGE
da tenere, ma lo accusa di averlo infranto VERRE stesso, o conformato non
secondo ragione (Hugo, Hist.). Or dunque, i pretori rendevano giustizia
ne'civili negozi, gli edili per le convenzioni de' mercati e per LA POLIZIA
DELLA CITTA. E tanto gli uni che gl’altri, quando pigliavano i magistrati,
mandano fuori un editto, ove stabilivano le forme del giudizio e LE MASSIME -- ottimo
istituto in repubblica popolare. Non mutano il gius, ne determinano
l'applicazione. Eccone gli esempi. In primo luogo, salva LA FORMA LEGALE,, si
supponga che i contraenti hanno pattuito o per inganno, o per errore, o per
timore, o per forza. Mancando la moralità dell'atto, la legge non conservavasi
uguale per tutti. Quindi i pretori statuiron una MASSIMA PER L’EFFICACIA CIVILE
DELLA MORALITA NEGL’ATTI, scuse legittime per negare agl'ingiusti la sanzione
della legge e i mezzi legali. Perchè QUESTA O QUELLA MASSIMA d'equità si
recassero ad effetto. I codici moderni han composto di questa o quella MASSIMA
le lor legge universale. Allora, dice Forti, gli editti de' magistrati sono uno
de' principali modi, per cui la filosofia venne applicata gradatamente ai
bisogni civili. Sicchè, quant'alla moralità degli atti, trovarono i magistrati
l'ECCEZIONI perpetue contro le obbligazioni per dolo, per timore, per errore,
per violenza; la restituzione in intero, i modi legali a sciogliere le dette
obbligazioni, od a ripetere ciò che pel tenore loro fosse stato pagato. In
secondo luogo, la legge, definito il diritto e ordinatane la sanzione, lascia
a'magistrati il modo d'effettuarla. Per esempio, la legge stabilice i modi
d'acquistare la proprietà, ma non i modi della sua difesa; che più torna
necessaria, quanto più divise le possessioni, e distinta la varietà
de'godimenti e diritti che si comprendono nella mozione del dominio -- onde
nacquero nuovi contratti e bisogni di nuove difese. Quind'i pretori differenziano
a capello il dominio e il possesso, e gl'interdetti che lo proteggono, e va'
discorrendo (Ist. Civ., L. I. S. 1). Le dottrine de'giureconsulti poi vennero a
formare un'altra maniera di gius -- ioè il diritto ricevuto -- “jus receptum”.
Essi, introducendo ne'contratti clausule, con cui si stipulava l'osservanza
della buona fede, costringeno i magistrati a giudicare di que'contratti, non
secondo la nude parola della legge, sì a lume di naturale onestà; come le
clausale, si lodate da CICERONE uti ne propter te, fidemre tuam captus,
fraudatusne sim; e ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione (De
Off.). I giureconsulti si dano all'interpretazione; e poi chè questa o
considera la legge in sè, o L’ATTO DELLA VOLONTA UMANA, così la filosofia di
que'sapienti gl’aiuto all’un fine con le spiegazioni delle parole e con la
definizione de'termini astratti, e col mirare alla ragione della legge stessa:
gli aiutò all’altro fine co giudizi sulla moralità dell’ATTO, e con le regole
per interpretare l'altrui volontà. Gravina così accenna le novità del gius
ricevuto. Dalle interpretazioni de' giureconsulti passate in uso, e mitiganti a
poco a poco e come di soppiatto l'asprezza della legge, sono venute le regole
di diritto, temperate dalla ragione d'equità. Nacquero da essi, l'uso dei
codicilli, l'azione del dolo, le azioni quasi tutte che chiamaron utili, perchè
procedono dall’equa e utile interpretazione, le stipulazioni aquiliane, autore
AQUILIO giureconsulto, le varie differenze delle successioni. la regola
catoniana, la sostituzione pupillare, il divieto della donazione tra marito e
moglie, e l'altro che i pupilli s'obblighino senza l'autorità del tutore. Da
essi vernero i giudizi di buona fede, le azioni rei uxorie, la querela
dell'inofficioso testamento, e infine tutto ciò che si trova citato sotto nome
di costumi, di consuetudini e di gius ricevuto (De ortu et progr. I, Civ., C. )
Tale acume di riflessione disciplinata reca i giureconsulti per fino ad un
computo di probabilità sulla vita umana quant'all' usufrutto ed agl’alimenti
(come si vede Fr. D Ad Legem Falcidiam ). Cosa notabile molto, perchè fa
supporre grand'abito d'osservazione e di giudizi astratti. La virtù e la vera
filosofia de' giureconsulti le sentiamo pur anche nel loro stile, che in mezzo
alle ampollosità di SENECA e degli altri si tien semplice e puro.. Nelle
Pandette v' ha errori di lingua, per vizio de' compilatori greci e de' copisti.
Ma specie i frammenti di Gaio e d'Ulpiano son gioielli, ammirati da' principali
maestri di latinità. Termino recando un saggio di tal sapienza ed elegante
brevità, in alcune regole di gius dall' ultimo titolo de' Digesti. I diritti
del sangue non posson finire per niuna legge civile (Fr.). Sempre nelle cose
oscure s' ha da tenere il meno. Sta in natura che le comodità d'una cosa seguan
colui che ne sente gl' incomodi. Ciò che dapprima è vizioso non si può col
tempo sanare. Nulla è più naturale che sciogliersi a quel modo ch' uno s ' è
legato. Però l ' obbligazione di parole sciogliesi con parole, e quella di nudo
consenso con altro consenso. Che si fa o si dice nel caldo dell'ira, non si
stima. Vi sia consenso d'animo, se non v' ha perseveranza. Nessuno può
trasferire altrui più diritti che non ha. Sempre nel dubbio son da preferire le
sentenze più benigne. L'erede si stima di quelle facoltà e di que' diritti che
il defunto. È proprio di quel sofisma che i Greci chiamano sorite, o
ammucchiato sillogismo, di trar la disputa, con lievissime mutazioni, da cose
evidentemente vere a evidentemente false. Quante volte l’espressione in un
discorso PARE rendere DUE sensi, prendasi quello ch'E PIU ADDATO AL DA FARE. Non
si dà benefizio per forza. Nes suno può mutare il proposito suo in altrui danno.
In ogni cosa, ma più nel gius, è da guardare all’equità. Ne’discorsi AMBIGUI è
il più da guardare all'INTENDIMENTO DI CHI LI FA. Nelle cose oscure si badi al
più verosimile, e a ciò che accade più spesso. Il timore vano non è buona scusa.
Per l'impossibile non c'è obbligo che tenga. Le cose proibite da natura non
sono convalidate da legge nessuna. Per gius di natura nessuno dee farsi più
ricco a danno altrui. Per gius civile i servi si stimano nulla. Non per diritto
naturale, secondo cui tutti gli uomini sono uguali. Quando l'impero si foggia
all'orientale, la giurisprudenza cadde in vano eccletticismo; come n'è segno “la
indigesta mole de’ digesti” e ciò accadde alla quarta età, o di vecchiezza.
Poichè abbiamo con qualche sufficienza esposto la filosofia latina di CICERONE
e de' giureconsulti, e abbiam veduto come proposito di questi e di quello
apparisca sempre l'armonia tra le speculazioni e la pratica, e, nelle
speculazioni, fuggire tutti gl’eccessi delle sette, componendone, guidati dalla
coscienza e dal senso comune, un'unità, siam chiari, mi sembra, che veramente
dopo la dialettica distintiva de' greci, tendevano I ROMANI alla comprensione
finale, e che tal è proprio la qualità prevalente in quest'epoca quarta della
filosofia. Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due
importanti ambiti della sua produzione teorica: e opere di argomento retorico;
(le opere che parlano dei segni divinatori. Se prendiamo in considerazione il
primo di questo ambito, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente
centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore,
l'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so- cio-politico, volta a definire la figura
dell'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione
rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut- to ciò
che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso
anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto
trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi;:ura come un vasto campo di
competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un
uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i
personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le
Partitio- nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate
dalla caratteristica di prendere in considerazio- ne e di sistematizzare la
gran massa delle nozioni che com- pongono l'apparato tecnico della retorica. Un
limite di que- ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del
procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa- rossismo, come nel
De inventione, e che spesso non trova un'adeguijta giustificazione teoretica.
Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli
spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.
9.2.1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone
e con- densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a
Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro- vino riprodotti alcuni
aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In
particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come
an- tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata
l'attenzione verso i segni involontari (l'im- pallidire, l'arrossire, il
balbettare dell'imputato) come indi- zi di colpevolezza. Infine compare la
classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il
fatto crimi- noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti
di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei
segni proposta da Cice- rone è in larga misura diversa da quelle precedenti.
Essa ap- pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar-
gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle
prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere
qualche cosa che si esco- gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in
maniera probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in"un mo- do
necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene
usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è
proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un
indizio che viene depositato nel dossier dell'avvocato) rinvia a qualcos'altro.
Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza
argomentativa debole (probabili- ter ostendens) e un'inferenza necessaria
(necessarie demon- strans). 9.2.1.1 Rinvio necessario e non necessario I segni
necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che
non può verificarsi né essere pro- vato diversamente da come viene detto"
(ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo"
(ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De
inv., I, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere
l'antecedente e il conseguente sono legati da una re- lazione inscindibile (cum
priore necessario posterius cohae- rere videtur, De inv., I. 86). Il rapporto
di rinvio non necessario viene poi cosi defini- to: "Probabile è poi ciò
che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha
in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso"
(De inv., I, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri:
(i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da
Aristotele attribuito peculiarmente al1'eik6s (verisimile). E infatti i primi
due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eik6s:
"Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del
giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di
generalizzazio- ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet.,
1357a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari,
era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., 9.2 CICERONE), che non
sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al semefon aristotelico. 9.2.1.2
L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar- tizione dei
segni non necessari, accanto al credibile (credibi- le), all'iudicatum
(giudicato) e al comparabile (paragonabi- le). Se le ultime tre nozioni
appaiono distinte in base a crite- ri estrinseci (e scompariranno nelle
trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni
abbastan- za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no-
stri sensi e indica (significat) un qualcosa che sembra deri- vato dal fatto
stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può
averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più
sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il
pallore", "la fuga", "la polvere". Si tratta, come si
vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e
generalmente non vo- lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio-
nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio- ni, come dimostra
il caso dell'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei
calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine,
vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso.
Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo- sta nel De inventione
(cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae
sono un'opera della tarda matu- rità di Cicerone, nella quale la
classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e
peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si
sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa- mente
latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati argumentatio~ Né questo
è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca,
si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si
esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane
l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche
dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno
caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin-
seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau- sa
congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i
verisimilia (verisimili) e le notae propriae rerum (segni caratteristici delle
cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo
più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al
piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri- sponde ali'
eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico e generalizzante.
La nata propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai
direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica il fuoco"
(Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario, come è
dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman- da
alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il segno
proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio,
il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70
b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat- tere
di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste
la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di
fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali necessaria
(•ea quae aliter ac discuntur nec fieri nec probari pos- sunt"I es.: ·se
ha partorito, è stata con un uomo" probabilis (•quod !ere solet fieri aut
quod in opi- nione μositum est") es.: ·se è madre, ama suo figlio"
signum credibile indicatt.:m comparabile ("quod sub sensum aliquem cadit,
et quiddam significat, quod ex ipso .!'rofectu.m .est"I. es.: sangue ,
fuga , "pallore", "polvere" vestigia facll) non compaiono
più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono ur.. ruolo
autonomo. Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo- ghi
estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche",
titechno1) e "luoghi intrinseci" (corrispondenti alle "prove
tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e
che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi
estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testimonianze umane, anche
quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi
sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è
sicuramente un residuo di una concezione orda- lica e antichissima
dell'amministrazione della giustizia; tut- tavia è anche un indizio di un
continuo riaffiorare del para- digma divinatorio all'interno dei fatti
semiotici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati. Né
questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura
greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così
si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze
umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi
anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: 105). 9.2.2.1
Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra
gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato
di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di
segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae rerum (segni
caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che
accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù è
incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri-
sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico e
generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che non
si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica il
fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario,
come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che
riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il
segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad
esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio
(An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva
carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se
non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli
indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali
vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti,
imbarazzo, alterazione del colorito, discor- so contraddittorio, tremore [...].
gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni
delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Part. or., 39).
Cicerone non definisce qufsto tipo di segni, se non dicendo che si tratta di
"fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte- ristica
condivisa anche dai signa del De inventione (I, 48), in cui ricorrono esempi
analoghi, e dagli argumenta di Cor- nificio (Rhet. ad Her., II, 8). I
commentatori si sono chiesti se i vestigia f acti siano più in relazione con i
segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis
1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non
avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi- che degli ultimi. È
plausibile che essa corrisponda alla cate- goria dei semefa aristotelici,
diversi tanto dai tekméria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle
Partitiones oratoriae (114), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti
(chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze
che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per
Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i semefa da
un punto di vista episte- mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a
rico- noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata
proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero- niana
nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione
Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina- zione. Innanzitutto
il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di
fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in
entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente- mente
congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o coniectura -- I
--vestigia facti osigna verisimili& notae propriae rerum c•quod plerumque
ita r11·1 es.: ·adolescenza- incllnazione alla libidine· c•quod numquam aliter
fit certumque declarat•) es.: ·tumo-fuoco· 1•sensu percipi potest") es.:
·sangue-uccisione• dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o
congettu- rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di-
vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con- gettura) e
divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole- micamente rileva (De div., Il,
55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera
diametralmente oppo- sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e
la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di- verse ed
entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi dell'indagine giudiziaria,
mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di- vinazione. In linea,
infatti, con un vasto gruppo di intellet- tuali della sua epoca, educati ai
metodi di indagine della fi- losofia greca, a fondamento razionalistico, e
contempora- neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una
distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per
lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta
come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione
dello stato ste~so; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli
elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa,
dev'essere respinta, anche per- ché non venga limitata la libertà del cittadino
romano nel suo impegno di gestione della repubblica. Cicerone affronta questi
argomenti nel De natura deo- rum, nel De fato e, soprattutto, nel De
divinatione. Que- st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e
il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie
storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni
di Cicerone contro la teoria soste- nuta da Quinto sono particolarmente
interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo
semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale
del segno. 9.2.3.1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di
Quinto, gli dei si pongono come fon- te dell'informazione e come emittenti nei
processi di comu- nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata-
ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro- cesso
comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla
divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars,
ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia- listi,
ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere),
interpretes monstrorum et fu/gurum (inter- preti dei fatti prodigiosi e dei
fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti
delle stelle), in- terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di
tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione
l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una
sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un
contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di
questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i
fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau- se ed effetti, senza
soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos
divino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero da
parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità
(De div., l, 125-127). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico
che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non
dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quanto prima è accaduto" (De
div., I, 127). Questo fa sì che gli uomini, attraverso l'osservazione attenta,
colgano il mo- do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere
direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi
caratteristici (signa tame.1causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è
possibile tramandare memoria dalle con- nessioni passate, si crea un vero e
proprio codice basato sul- la iteratività. Si può schematizzare così il
processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla
iter attività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di
divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque
tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione
divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte
di questo tipo le forme di preveggenza derivan- ti da invasamento profetico,
cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico
·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri-
patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no- minati, De div., II,
100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una
volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che
la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo
del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
emittente divino - Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione
presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso
segno sono spesso diametralmente opposte (De div., II, 83); (ii) si verificano
frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un
certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio- so, ma a
ben diverse cause naturali (De div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a
posteriori e così toglie ogni ne- cessità di rapporto tra antecedente e
conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata
da ra- gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.,
II, 74).segno interno - evento futuro •➔ ricevente umano 9.2.3.3
Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che
Cicerone muove ai sostenitori della divi- nazione si basano su argomenti
specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega
valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e
cioè che i fenomeni che essa interpreta come se- gni non siano veramente tali,
ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei
conse- guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della
divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come
la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino
e dell'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione
del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro- fessionali
adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars),
ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De
div., II, 14), le prati- che divinatorie si basano sul "capriccio della
sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue
prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade- re" (De
div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice
(anche se si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) 1 e
il caso è del resto la stessa con cui i medici ip- pocratici tendevano a
distinguere la propria scienza profes- sionale dalla divinazione e dalla
medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in
termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della
divinazione tecnica si farebbe appello all'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono
altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico:
(i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte
(De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa
identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a
quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De
div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni
ne- cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv)
in certi casi l'interpretazione è motivata da ra- gioni di faziosità politica e
quindi è priva di oggettività (De div., II, 74). Nel suo libro Semiotica
e filosofia de/linguaggio Eco osservava come la semiotica, proprio nel mo
mento storico in cui esce dalla marginalità, affermandosi come disciplina e
vedendosi riconosciuto addirittura il ruolo di scienza paradigma, proprio in
questo volgere di seco lo, appunto, diventa anche il referente ultimo di una
serie di dichiarazioni che proclamano la morte del segno o, almeno, la sua
crisi. Situazione non nuova, osserva Eco: la storia del pensiero occidentale è
anche leggibile come storia di una cancellazione e rimozione, quella della
semiotica come scienza, al di là dei (e nonostante i) numerosi preannunci,
progetti, ipotesi di una teoria dei segni che, a più riprese, hanno percorso la
riflessione teorica degli ultimi duemila cinquecento anni. La proposta
d i Eco è quella di pensare a un progetto attuale di semiotica che trovi
giustificazione proprio nello spazio che intercorre tra le attuali negazioni e
le reali presenze del passato. Ciò significa che la semiotica deve percorrere a
ritroso il cammino della storia e divenire archeologia del sapere segnico:
diverrebbe così possibile su perare i crampi linguistici che sono alla base
delle attuali de finizioni del segno (che ne criticano il formato come troppo
angusto o troppo ampio, che comunque non ne ritrovano il modello quando escono
dai sistemi verbali). Il presente lavoro costituisce un tentativo di accogliere
il suggerimento di Eco e si propone di indagare le pratiche se miotiche delle
origini e la riflessione teorica sul segno, che sono state elaborate dal mondo
antico e che ci sono state consegnate dalla tradizione letteraria, filosofica,
medica, storiografica, retorica. Si propone cioè di ritrovare le tracce di un
filo rosso che percorre il mondo antico, dalle origini fino almeno al IV se
colo d.C. e che porta alla costituzione di una nozione di se gno abbastanza
diversa da quella proposta dalle teorie del Novecento. La maggior parte,
infatti, delle dottrine del segno che so no state elaborate in questo secolo -
sia in ambito linguisti co, a partire dal Cours saussuriano, sia in ambito più
gene ralmente semiologico - si fondano su due presupposti, che risultano del
tutto assenti nella riflessione classica su questo soggetto: l. il modello di
segno, sul quale l'intera indagine semiologica viene articolata, è quello del
segno linguistico; 2. il tipo di rapporto postulato come instaurantesi tra le
due facce del segno è quello dell'equivalenza (p=q). Da que st'ultima
assunzione dipende il fatto che la nozione di signi ficato più diffusa fino a
qualche anno fa nelle teorie seman tiche fosse quella che lo vedeva come
sinonimia o come de finizione essenziale. A partire, infatti, dallo
strutturalismo hjelmsleviano, fino ad arrivare alle teorie di semantica com
ponenziale e interpretativa di impostazione generativista, il singolo termine
linguistico - o se si preferisce, la forma del l'espressione di un segno- è
sentito come equivalente a una serie di figure del contenuto, o marche
semantiche, espresse a loro volta metalinguisticamente da altrettante forme lin
guistiche (ad esempio luomol ="essere animato" + "uma no"
+ "maschio" + "adulto"). Una indagine sul modo in cui nasce
e si articola nell'anti chità classica la riflessione sul segno ci permette di
scoprire che, rispetto al primo punto, in origine, non solo non si ha
omologazione dei vari tipi di segno sotto la specie di quello linguistico, ma
che, anzi, le due teorie (quella semantica del linguaggio e quella del segno
non linguistico) procedono in maniera parallela, senza interconnettersi. Ne è
un esempio chiaro il fatto che Aristotele adoperi il termine symbolon per
indicare il segno linguistico e le espressioni smefon o tekmrion per indicare
quello non linguistico. La saldatura avverrà molto più tardi, in Agostino, ma,
in questo caso, sarà l'espressione linguistica a essere sussunta sotto la
categoria più generale e già costituita del segno non linguistico. Per quello
che riguarda il secondo punto, le pratiche se gniche che la tradizione ci ha
tramandato e le teorie classi che prevedono un funzionamento del segno non
secondo lo schema deli'equivalenza, bensì secondo quello deli'implica zione
(p:Jq); per citare un esempio celebre, che percorre l'intera tradizione antica
da Aristotele a Quintiliano, pas sando per gli stoici, un caso paradigmatico
di segno è: "Se una donna ha latte, allora ha partorito". A questo
punto è già possibile un confronto. Il modello antico, implicaziona le, appare
non solo molto più interessante rispetto a quello equazionale, ma certamente
molto più, per così dire, attua le: infatti è in corso nella ricerca
contemporanea una revi sione di paradigma, che tenta di superare le semantiche
co siddette "a dizionario" (che funzionano secondo il modello
dell'equivalenza) per passare alla proposta di semantiche
"istruzionali" (che funzionano secondo il modello dell'im
plicazione). Tuttavia, l'interesse di un lavoro di ricostruzione delle teorie
semiotiche dell'antichità non è limitato soltanto al re perimento di materiale
sommerso, finalizzato, magari, alla costituzione di un quadro da mettere in
confronto con quel lo attuale. C'è un interesse intrinseco anche
nell'osservare come i campi nozionali, e la terminologia associata a essi si
siano venuti distinguendo lentamente e abbiamo preso for ma a partire da
situazioni di usi linguistici originariamente molto più magmatici. Anche in
questo caso bisogna citare Aristotele come il primo che impone dei confini
netti a ter mini e concetti, che sono stati usati sino alla fine del V seco
lo a.C. e oltre (a esempio nei testi del Corpus Hippocrati cum) con una
oscillazione semantica considerevole. Prima della categorizzazione
aristotelica, espressioni quali semefon, aitia, prophasis, tekmrion, eikos, non
solo costituivano un campo di termini imparentati, ma anche di termini che
ammettevano una parziale sovrapposizione e in tercambiabilità (Lioyd).
Ugualmen te, il riferimento culturale di certe espressioni era stato, pri-ma
di Aristotele, eterogeneo e diverso: smafno, a esempio, come ci mostra il
frammento 93 (Diels-Kranz) di Eraclito era il verbo che indicava la rivelazione
oscura del dio di Del fi; tekmairomai, poi, denotava in generale il procedere
at traverso un ragionamento congetturale, ma nei tragici e nei lirici veniva
usato in riferimento alla pratica dell'interpreta zione divinatoria; smefon,
infine (o la sua variante omerica séma), era il termine più complesso di tutti,
indicando, fin dalle origini, una molteplicità di cose, dall'indizio al segno
di riconoscimento, al prodigio divino, fino a essere usato come termine
generale per il segno divinatorio (Bloch 1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr.
it. 477). È innanzitutto alla divinazione, all'astronomia e, tramite queste,
all'arte della navigazione, che la problematica del segno viene in origine
connessa. Come testimonianza di tale connessione, si può ricordare la
cosmogonia di Alcmane in cui all'origine del mondo compare la dea marina Teti,
accompagnata da tre perso naggi divini: da una parte P6ros (''la via") e
Tékmor ("il segnale", "il punto di riferimento");
dall'altra Sk6tos ("l'oscurità"). Come sottolineano Detienne e
Vernant, Tékmor svolge un ruolo fonda mentale: "Nell'oscurità [sk6tos]
del cielo e delle acque in origine confuse, egli introduce vie [p6roll
differenziate, che rendono visibili sulla volta celeste e sul mare le varie
dire zioni dello spazio, orientando una distesa prima sprovvista di ogni
tracciato, di ogni punto di riferimento, aporon kai atékmarton". I
naviganti devono congetturare (tekmafre sthal), sulla distesa indifferenziata
del mare, la loro rotta e gli dei e gli indovini la fanno loro intravedere,
fissando in anticipo percorsi e punti di riferimento. In questo modo i
naviganti gettano un ponte tra il visibile e l'invisibile. Con Aristotele, i
termini del vocabolario semiotico, che avevano mantenuto fino ad allora il
riferimento alla sfera del sacro (e che continueranno a essere usati in tal
senso fuori dagli ambienti filosofici e razionalistici), vengono pie gati a un
uso esclusivamente profano (Lanza 1979: 107). Tuttavia, se si perde il
carattere sacro delle origini, qual che traccia rimane ed è leggibile in
trasparenza, se è vero che Aristotele, nella sua delimitazione dei campi
concettua li, riserva l'espressione smeion al segno che non dà certez za e
che può risultare ingannevole (mentre riserva l'espres sione tekmrion al segno
sicuro): qui, quello che era stato il segno ambiguo della rivelazione divina,
diviene il segno am biguo del modello conoscitivo razionalistico. Se il
paradigma semiotico affonda le sue radici nelle pra tiche "non
scientifiche" della divinazione e della medicina magica (la
"iatromantica"), tuttavia lentamente depura, nel corso dei secoli,
queste origini da tutto ciò che in esse c'era di irrazionale e di non
controllabile (anche se sempre, al di fuori delle teorizzazioni della
filosofia, rimarranno usi magmatici e irrazionali di questo paradigma, come
dimo strano, a esempio, le opere di Artemidoro di Daldis o di Elio Aristide
sui segni onirici). Se si tiene presente quest'ottica, non è più sorprendente
osservare che la forma proposizionale e implicazionale che gli stoici danno al
segno ("Se c'è cicatrice, c'è stata piaga") si ritrova identica nelle
tavolette divinatorie mesopotamiche a partire dal III millennio a.C. Anche gli
antichi babilonesi esprimevano il segno attra verso un periodo ipotetico,
formato da una protasi, intro dotta dalla congiunzione summa (equivalente alla
ei greca, che introduce il condizionale stoico), e da una apodosi: es se,
rispettivamente, traducono in proposizioni linguistiche il segno e la sua
interpretazione ("Se il polmone è rossastro a destra e sinistra - vi sarà
un incendio,) (Bottero 1974). In ambiente greco, una saldatura tra segno
divinatorio e forma logica deli'implicazione la si trova testimoniata in uno
dei dialoghi delfici di Plutarco, L 'E di Delfi. In que st'opera, alcuni
prestigiosi personaggi discutono sul signifi cato di un oggetto, avente la
forma di E, che si trova tra i doni votivi del tempio di Delfi. Tra essi, Teone
propone un'interpretazione della E ricorrendo al nome che nella lin gua antica
questa lettera riceveva, e cioè ei. Teone assimila poi questo nome alla
congiunzione ipotetica ei (''se") e mo stra che tale congiunzione svolge
nella dialettica un ruolo essenziale, in quanto serve a esprimere il rapporto
logico per eccellenza, quello che si ha nei condizionali del tipo "Se è
giorno, c'è luce" (esempio, questo, che era tra i più classi ci della
logica semiotica stoica). Teone sottolinea, infine, che il dio di Delfi,
Apollo, è un dio "molto amante della dialettica", tanto è vero che i
vaticini presuppongono la for ma del condizionale, p--: q, che è la forma
stessa che assu mono i fenomeni dell'universo (e qui il richiamo è alla teo
ria stoica della "simpatia universale"). Certo, quello che risulta
dal testo di Plutarco (scritto pro babilmente all'inizio del II secolo d.C.) è
al massimo che la teoria stoica del fato e della divinazione si fondava su base
logica (il destino consisteva in una serie interconnessa di condizionali). Ma
se l'ipotesi da porre fosse quella esatta mente contraria? Se, cioè, lo
strumento così asettico e ra zionale della logica traesse in realtà le sue
origini dall'ambi to divinatorio? Come dimostra la sua stretta connessione con
i segni e la divinazione presso gli stoici (Goldschmidt; Verbeke). Un enorme
cammino è tuttavia stato compiuto dai testi divinatori babilonesi alla logica
stoica: la forma proposizio nale rimane la stessa, ma nel caso degli stoici è
stata depura ta non solo di ogni carattere sacrale, ma anche di ogni ele
mento contenutistico . È lì solo per il calcolo proposiziona le. Nel caso
degli antichi mesopotamici, invece, il contenuto della protasi permetteva di
inferire il contenuto dell'apodo si mediante più o meno complicati processi di
analogia e giochi tropici (il "rossore" del polmone permetteva di
infe rire "incendio" per un tratto semantico comune). Infine una
disamina sulla riflessione semiotica antica per mette di scoprire come il
dibattito sui segni, sulla loro natu ra e sulla loro classificazione si sia
attestato a livelli sor prendentemente alti, come è il caso della discussione
sui condizionali in seno alla stessa scuola stoica (tra Diodoro, Filone e
Crisippo) o della disputa tra stoici ed epicurei sul rapporto tra antecedente e
conseguente nei segni (di cui puntualmente ci informa il De signis di
Filodemo). La discussione di carattere semiotico, insomma, si riferi sce
sempre a (o si identifica decisamente con) il quadro più generale o più
fondamentale del problema della cono scenza. Sarà poi nel mondo romano che
queste problematiche di ordine conoscitivo generale verranno piegate alle
esigenze più pragmatiche della conoscenza giudiziaria: il problema dei segni si
identificherà con quello delle metodiche per as segnare un maggiore o minor
valore di prova agli indizi pre sentati in un procedimento processuale. La
semiotica verrà messa al servizio dell'arte del detective, in ciò prefigurando
uno degli aspetti più singolari deIl'interesse contemporaneo nei confronti dei
paradigmi indiziari (Eco e Sebeok 1983). Sarà, infine, con Agostino (nel IV
secolo d.C.) che la teo ria del segno fornirà un paradigma anche per la teoria
del linguaggio, permettendo di unificare in un'unica categoria anche i segni
verbali. Desidero ringraziare i molti amici che hanno letto e di scusso con me
parti di questo lavoro. Tra coloro che mi hanno offerto preziosi suggerimenti
critici vorrei ricordare Bernardini , Borutti , Crevatin, Fabbri,Manuli, Marmo,
Tabarroni, Vegetti, e Violi. Per molte delle idee e per l'impostazione
generale del libro sono debitore a Um berto Eco, che ha seguito e incoraggiato
il lavoro fin dai suoi inizi. Un ringraziamento particolare va a Amedeo G.
Conte, che ha rivisto una precedente versione del mano scritto, e dal quale ho
ricevuto una infinità di preziosi con sigli. Quanto agli errori e alle
imprecisioni, ne assumo inve ce totale responsabilità. C'è un campo specifico
in relazione al quale tutte le cul ture antiche riconoscevano l'eccellenza e
il magistero dei popoli mesopotamici: quello della divinazione. Non ci si può
nascondere tuttavia, a questo proposito, che l'atteggiamento sviluppato dalla
cultura moderna nei confronti delle pratiche che rientrano in questo campo è
fortemente svalutativo: esse, infatti, rappresentano un pa radigma che si pone
esattamente agli antipodi di quello che normalmente è assunto come il paradigma
scientifico. Ma ci sono almeno due ragioni che ci inducono a guardare alla
divinazione mesopotamica come a qualcosa che merita più di un interesse puramente
occasionale o erudito. In primo luogo, infatti, è necessario ripensare, come
sug gerisce Carlo Ginzburg (1979), ai rapporti tra paradigma
"divinatorio" e paradigma "scientifico" come a qualcosa di
molto più complesso di quello che si assume di solito e che non comporta
affatto una svalutazione del primo termine. Infatti, per Ginzburg, il paradigma
divinatorio (definito an che, a seconda dei contesti in cui si manifesta, come
"indi ziario", "semeiotico", "venatorio"),
costituisce un modello di sapere specifico, caratterizzato dali'aspetto
qualitativo: e cioè basato sulla conoscenza dell'individuale, attraverso l'uso
della congettura. Ciò gli permette di giungere a risul tati notevoli, in tutte
quelle aree del sapere che lo utilizzano privilegiatamente (al di là della
mantica, sicuramente, an-che la medicina, la filologia e cosi via, su su fino
alla detec tion, la connoisseurship, la psicoanalisi), anche se per que sto
deve pagare il prezzo di una ineliminabile dose di aleato rietà. Si tratta, in
realtà, di un sapere del tipo che Peirce (1980; 1984) avrebbe definito
"abduttivo", in contrapposi zione al modello del sapere quantitativo
che fa uso della de duzione come metodo di ragionamento. In secondo luogo
bisogna ricordare che in Mesopotamia la divinazione subisce un lungo processo
evolutivo che dalla fondamentale e primaria tendenza a inferire le cause dagli
effetti (procedimento tipico dell'abduzione) la porterà ad accentuare sempre di
più i tratti generalizzanti e aprioristici, in modo da gettare le basi per una
vera e propria scientifici tà di tipo astratto (Bottero 1974: tr. it. 211).
Ciò che risulta di maggiore interesse, dal punto di vista della ricostruzione
storica di una disciplina semiotica, è che al centro del pensiero divinatorio
si pone proprio il segno in una accezione non banale. Quest'ultimo, infatti,
costituisce anzitutto uno schema di ragionamento inferenziale, che permette di
trarre alcune conclusioni a partire da certi dati. È interessante notare come
il segno divenga centrale nel l'universo cognitivo mesopotamico, in quanto,
partendo dal campo della divinazione, si estenderà in seguito anche alel altre
pratiche culturali e discipline, come la medicina e la giurisprudenza, e
arriverà ad articolare, unificandola sot to il suo modello, la totalità del
sapere. Si raggiungerà dun que, in Mesopotamia, un punto in cui il sapere, a
livello molecolare, funzionerà secondo lo schema, unificato e for male, del
segno divinatorio, anche se contenuti di volta in volta differenziati verranno
utilizzati per dargli corpo. Pos siamo già accennare (anche se vi torneremo su
in seguito con maggiore ampiezza di dettagli) alal forma assunta nella cultura
mesopotamica dal modello segnico: quella di un pe riodo ipotetico in cui una
certa conclusione è data nella apodosi, come derivante direttamente dallo stato
di cose presentate nella protasi: in cui, in altre parole, la protasi è
"segno" deli'apodosi. Un modello segnico di questo tipo ("Se p,
allora q") è molto vicino a quello tramandatoci dalla cultura greca nella
fase della sua maggiore maturità semiotica: in particolare funziona secondo lo
schema implicativo il modello di segno elaborato dalla scuola stoica. Ma qui,
una volta rilevata l'affinità, devono subito essere messe in luce le differenze:
nel segno della divinazione mesopotamica sono in genere gli elementi materiali
(o contenutistici) che permettono il pas saggio dalla protasi all'apodosi; in
quello della semiotica stoica, invece, le inferenze sono rese possibili
unicamente grazie agli elementi formali. A ogni modo, nonostante queste
profonde divergenze e al di là del problema, che pure si pone, degli eventuali
debiti specifici della cultura greca nei confronti di quella mesopo tamica a
questo proposito,1 è interessante verificare la pre senza dello stesso schema
segnico p -:J q che attraversa due civiltà (quella greca e quella mesopotamica)
e due ambiti culturali (la divinazione e la filosofia) per altri versi tanto
distanti tra loro. 1. 1 Divinazione e scrittura Il fatto che quella mesopotamica
sia essenzialmente una civiltà della scrittura costituisce senz'altro uno dei
presup posti per capire il tipo di divinazione sviluppatosi in Meso potamia e
le ragioni della sua ampia diffusione: è la scrittu ra, infatti, che in
Mesopotamia fornisce la forma e il mo dello per tutta una serie di attività
intellettuali, prima fra tutte quella deli'interpretazione dei segni inviati
dagli dei. La lettura dell'avvenire e la conoscenza del nascosto non avvengono
qui per diretta ispirazione divina, ma seguono lo stesso procedimento messo in
atto neli'interpretazione dei segni della scrittura. 'l E proprio in relazione
alla grande importanza assunta dalla scrittura nella cultura mesopotamica che
il modello ri sultato egemone è quello della divinazione tecnica (Bouché
Leclercq 1 879-82 : vol . l, 1 11 e 274), quello cioè basato sulla
interpretazione di segni che si realizzano esternamente al l'uomo e che
richiedono l'intervento esplicativo degli spe cialisti. Per comprendere il
ruolo che la coppia scritturaloralità gioca negli orientamenti divinatori è
sufficiente mettere in relazione la civiltà mesopotamica con quella greca. Que
st'ultima, come noto, è una cultura essenzialmente orale, dove la scrittura si
sviluppa in un periodo relativamente re cente e non costituisce un fenomeno
autonomo rispetto al parlato, bensì, essenzialmente, una sua riproduzione in ca
ratteri fonetici. In stretta connessione con il carattere orale della cultura,
in Grecia risulta egemone proprio il modello della divina zione ispirata, in
cui il dio parla ali'uomo attraverso un profeta, avvertito come suo portavoce,
secondo il celebre esempio della divinazione oracolare della Pizia a Delfi. E
non è poi un caso che la società greca non abbia favorito, come avviene invece
in Mesopotamia, la nascita e la presen za stabile di una classe sacerdotale
preposta ali'interpreta zione specialistica sia dei segni della scrittura sia
di quelli della divinazione. Al contrario, nella cultura mesopotamica la
scrittura, per un verso, è un fenomeno piuttosto antico, per l'altro è un
dispositivo dotato di meccanismi in larga misura autonomi rispetto al parlato.
Le prime attestazioni della scrittura cuneiforme, infatti, si hanno tra la fine
del IV millennio e l'inizio del III.2 Nella sua forma primitiva la scrittura è
pittografica, in quanto fatta di segni che intendono designare ciò che
raffigurano: a esempio la rappresentazione di una testa di bovino, trac ciata
nei suoi contorni, ma perfettamente identificabile, in dicava in prima istanza
"il bue"; ma, per una sorta di am pliamento semantico del segno,
esso indicava anche "la vac ca" e "il bestiame grosso".
Ugualmente il disegno schemati co di un piede aveva anche il significato di
"stare in piedi" e quindi quello di "immobile", di
"camminare", di "parti re", fino ad arrivare addirittura a
quello di "portare via''. Come si vede l'abbinamento tra significanti e
significati non si presenta né univoco né banale: esso infatti comporta un
lavoro interpretativo piuttosto complesso per controlla re i processi di
ampliamento o di slittamento dei significati per uno stesso segno. Processi che
si complicavano attraverso nuove associa zioni derivanti dalla
giustapposizione di segni diversi: il se gno del pane messo accanto a quello
della bocca dà il pro dotto semantico "mangiare"; quello dell'acqua
accanto a quello deli'occhio significa "lacrime"; se invece è messo
ac canto a quello del cielo significa "pioggia". Più curioso an
cora è il caso del segno della montagna che, giustapposto al segno indicante la
donna, produce il senso "la schiava", in quanto le montagne
delimitavano a est e a nord la regione, e una donna portata da un paese situato
oltre la montagna era una straniera destinata a tale condizione. Ci sono dunque
complicati meccanismi enciclopedici che governano l'interpretazione. Ma si può
osservare anche che, nella sua forma più anti ca, quella cuneiforme è una
scrittura di cose (Bottero 1974: tr. it. 168), in quanto non ha bisogno di
passare attraverso il linguaggio verbale per designare gli oggetti della
realtà. La sua autonomia rispetto alla realizzazione verbale è tota le, tanto
è vero che i segni possono essere compresi da per sone che parlano lingue
diverse e, del resto, sono pronun ciati in modo diverso in ciascuna di queste
lingue come av viene, a esempio, per i numeri arabi nel mondo moderno. I
Mesopotamici si dimostrarono molto legati a questa "scrit tura di
cose" e non l'abbandonarono neppure quando ven nero fatti notevoli passi
avanti verso il fonetismo con l'in venzione della scrittura sillabica. In
effetti, circa un secolo dopo la sua prima scoperta, i segni della scrittura
pittografica avevano cominciato a subi re un processo di scollegamento dalle
"cose" che designava no, per essere collegati più direttamente alle
"parole" con cui il linguaggio verbale designava i medesimi oggetti.
Il ca rattere monosillabico di molte parole e l'alta percentuale di omonimi,
avevano favorito questo processo. Un esempio interessante del fenomeno, che è
anche il più antico, è quel- lo del segno della fr H 1--- , che viene a in-
dicare non più solo "la freccia" ma anche "la vita": la me
diazione è stata dali'omonimia tra le parole designanti i due concetti,
pronunciate entrambe ltil nella lingua sumerica.3 Possiamo così schematizzare
il processo: pronuncia l ti l l"" significato ..freccia· ..vita• l
::rafico HH H'VA questo punto per arrivare a un alfabeto sillabico per fetto
sarebbe stato sufficiente eliminare tutti gli ideogram mi indicanti parole per
lasciare soltanto i segni di sillabe, sorta di unità minime infinitamente
reimpiegabili. Invece i Mesopotamici lasciarono sopravvivere, accanto ai segni
presi nel loro valore fonetico (indicanti una sillaba), i segni presi nel loro
precedente valore pittografico. Ci sono almeno due importanti conseguenze che
derivano da questa organizzazione della scrittura, per la divinazione.
Anzitutto, come abbiamo visto da alcuni esempi, la scrit tura pittografica ha
la caratteristica essenziale di tessere una rete sottile e complessa di
rapporti tra le cose: abitua la mente a vedere nelle cose relazioni segrete e
legami inso spettati. Essa suggerisce, altresi, un'attitudine mentale che
porta a guardare anche alle cose del mondo reale come in nescanti un analogo
processo semiosico: non solo, quindi, l'abbinamento pittografico del segno
della montagna e di quello della donna indicheranno "schiava", ma
anche lo stesso abbinamento osservato nella realtà, oppure in un so gno,
porterà a trarre una inferenza analoga. È proprio un meccanismo inferenziale di
questo tipo che si pone alla base della divinazione. La seconda conseguenza è
connessa con il carattere spe cialistico delle conoscenze richieste per
l'interpretazione della scrittura: i caratteri cuneiformi non sono accessibili
a tutti, dato il sistema di cifrazione cosi complesso. Si crea al lora una
sorta di aristocrazia di esperti capaci di interpretare i segni della
scrittura. Allo stesso titolo si crea, per l'in terpretazione dei segni
mandati dagli dei, la casta degli in dovini baro, i quali hanno come emblema
della loro corpo razione proprio la tavoletta e il calamo. 1.2 La scrittura
degli dei Come sottolinea Jeannie Carlier (1978: 1227), in Meso potamia
"parlare di una scrittura degli dei non è una meta fora". Infatti
quella cultura proietta nel campo teologico lo stesso modello di organizzazione
che vede operante nel campo della burocrazia statale. Come ii re diffonde il
suo potere dal centro alla periferia attraverso una capillare e sviluppatissima
rete amministrativa che trasmette i suoi or dini scritti indirizzati ai
sudditi, così gli dei si servono della scrittura per far conoscere agli uomini
i destini che hanno fissato per ciascuno di loro; solo che "l'unica
tavoletta a lo ro misura è l'universo intero" (ibidem). Sama e Adad,
gli dei della divinazione, sono per un ver so come il sovrano che
notifica la sua volontà ai sudditi per mezzo di messaggi scritti; per un altro
sono come il giudice che, dopo aver preso una decisione, la ratifica sulla
tavolet ta per darle validità e pubblicità. Il mondo, dunque, in questa
concezione, è una immensa tavoletta, costituito da oggetti che sono il supporto
materia le dei presagi da cui verranno ricavati gli oracoli, come vie ne
testimoniato, tra l'altro, anche da un inno di Assurbani pal a Sama5: "Tu
scruti alla luce (del) tuo (sguardo) la terra intera come (altrettanti) segni
cuneiformi". Del resto i Babilonesi parlavano della disposizione degli
astri come "scrittura del cielo" che veniva "letta" dagli
astrologi. E d'altra parte non era raro il caso in cui un pre sagio
consistesse letteralmente in un segno di scrittura trac ciato nelle pieghe del
fegato di un animale o sulla fronte di un uomo. 1.3 Una semiologia "ante
litteram" Una volta messo in luce il carattere di profonda affinità tra il
sistema della scrittura cuneiforme e la divinazione concepita come scrittura
degli dei, passiamo a esaminare la struttura interna del segno divinatorio. È
possibile farsene un'idea abbastanza precisa attraverso i numerosi trattati di
vinatori che ci sono pervenuti. Questi ultimi consistevano in lunghissimi
elenchi di proposizioni complesse, ciascuna composta da una protasi e da
un'apodosi. La protasi è in trodotta dall'espressione summa (equivalente alla
congiun zione "se") e ha il verbo al presente o al passato: essa
costi tuisce il "presagio", cioè il segno ominoso che deve essere
interpretato; l'apodosi ha il verbo di solito al futuro e costi tuisce
!'"oracolo", ciò che viene indicato o svelato dall'in terpretazione
del segno. Vediamo alcuni esempi che, pur in relazione a differenti tecniche
divinatorie, presentano tutti la stessa struttura:4 Astrologia Se nel giorno
della sua scomparsa, la Luna si attarda nel cielo (invece di scomparire d'un
tratto)- vi sarà siccità-e-arestia nel paese. Fisiognomonia Se un uomo ha il
pelo delle spalle ricciuto - le donne lo ame ranno. Oniromanzia Se un uomo
sogna che gli consegnano un sigillo - avrà un fi glio. Lecanomanzia Se, dal
centro dell'olio (gettato sull'acqua), si staccano due "ponti", uno
maggiore dell'aJtro - la sposa dell'interessato met terà aJ mondo un figlio
maschio; quanto aJ malato, guarirà. Estispicina Se il polmone è rosso-vivo a
destra e a sinistra - vi sarà un in cend io. 1.4 PASSAGGIO DALLA PROTASI
ALL'APODOSI 17 Libanomanzia Se, quando versi (la sostanza aromatica) sulla
brace, il fumo si sprigiona (solamente) verso destra, e non verso sinistra -
avrai la meglio sul tuo avversario. Se si sprigiona (solamente) verso sinistra
e non verso destra - il tuo avversario avrà la meglio su di te. Questi esempi
permettono già di fare due osservazioni a proposito del meccanismo semiotico in
essi instaurato. In primo luogo la struttura del segno è espressa in termini di
rapporti tra proposizioni e non tra singole unità lessicali o tra un
significante e un significato in senso saussuriano. Questo fa sì che i segni
non verbali e gli eventi acquisiscano subito un'importanza predominante, in
quanto trovano ap punto nella proposizione il modo migliore di essere
espressi. In secondo luogo il rapporto che c'è, all'interno di cia scun segno,
tra la protasi e l'apodosi è di tipo implicativo, intendendo però questo
termine come designante un'infe renza ancora abbastanza generica: come
vedremo, all'inter no della scuola stoica, invece, l'interesse si accentuerà
pro prio sul tentativo di definire il nesso implicativo che caratte rizza il
segno e a questo proposito si accenderanno diver genze che alimenteranno una
lunga e complessa discus sione . 1.4 n passaggio dalla protasi all'apodosi
Messi di fronte ali'enorme massa delle proposizioni divi natorie documentate
dai trattati mesopotamici può sembra re che regni la più completa casualità
nel movimento che re gola il passaggio delle protasi-presagio alle relative
apodo si-oracolo. A ben guardare, però, è possibile rintracciare al cune
linee generali che consentono di mettere un po' d'ordi ne in un coacervo
altrimenti amorfo e di cogliere alcuni principi di regolazione. Sono
rintracciabili in realtà tre casi teorici di passaggio non casuale dalla prima
alla seconda proposizione: Il primo tipo di passaggio è connesso al
principio del co siddetto empirismo divinatorio: protasi e apodosi regi
strano eventi che si sono verificati effettivamente secon do una concomitanza
temporale. Questo genere di mec canismo si trova nei cosiddetti "oracoli
storici", caratte rizzati dal fatto di avere l'apodosi al passato,
anziché al futuro; essi riproducono verisimilmente la forma del tipo originario
di divinazione. 2. 3. Il secondo tipo di passaggio non arbitrario è connesso
alla possibilità di un gioco di associazioni tra elementi della protasi ed
elementi dell'apodosi: naturalmente sono possibili i due casi, tanto del gioco
fonetico sui signifi canti, quanto di quello tropico sui significati. Il terzo
tipo di passaggio tra le due proposizioni è con nesso alla presenza di codici
che prevedono una serie esauriente e completamente specificabile di casi. In
realtà, nella fase più recente della storia della divina zione mesopotamica, i
trattati subiscono un'evoluzione nel la direzione della sistematicità e
dell'astrazione. Il sistema astratto e, in un certo senso, totalmente deduttivo
prende il sopravvento anche sulla verisimiglianza stessa dei presagi. La furia
classificatoria dei Mesopotamici guarda più ali'e saurimento di tutti i casi
astrattamente possibili che non al la loro concreta possibilità di verifica.
Avviene così che l'abbinamento di un'apodosi con una certa protasi dipenda
dallo schema astratto e, dunque, divenga prevedibile. 1.4. 1 Gli "oracoli
storici" e l'empirismo divinato rio Sommersi, e quasi fossilizzati,
nell'insieme delle decine di migliaia di oracoli che i trattati mesopotamici ci
hanno con servato, gli oracoli "storici" costituiscono un numero non
grande, ma significativo. Essi possono essere attribuiti, in base all'analisi
interna, all'epoca delle origini, anche se compaiono in trattati più
recenti. 1 . 4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 19 Essi
presentano infatti quattro caratteristiche specifiche: l. hanno tutti la tipica
apodosi al passato; 2. gli argomenti di cui trattano fanno riferimento ad
avvenimenti storici che, nel caso in cui possano essere confrontati con altre
fonti, risultano degni di fede; 3. i fatti e i personaggi che in essi sono
menzionati sono collocabili, nella maggior parte dei casi, nell'epoca di Accad
(ca. 2340-2160 a.C.); 4. fanno, quasi tutti, iniziare l'apodosi con la formula
amat "(è il) presagio di", formula che è assolutamente inusuale negli
al tri oracoli. Vediamone alcuni esempi: Se (nel Fegato) la Porta del Palazzo
è doppia, se vi sono tre Ro gnoni e a destra della Vescichetta-biliare sono
scavate (pa/Iu) due perforazioni (pilsu) ben nette - (è il) presagio degli
abitanti di Apgal, che Naram-Sin (ca. 2260-23) per mezzo di scavi (pii fu)
fece prigionieri. Se, a destra del Fegato, si trovano due Diti - (è il)
presagio del l 'Epoca-dei-Competitori. In entrambi questi casi l'apodosi fa
riferimento a fatti e personaggi storici reali deli'epoca di Accad. Si può
ipotizza re che gli oracoli così formulati non siano stati molto di stanti cronologicamente
dali'epoca dei fatti storici di cui parlano le apodosi. Anzi, il punto
fondamentale è proprio che tali oracoli avrebbero registrato delle coincidenze
"significative", a po steriori, tra un particolare stato di cose
considerato ornino so e un evento della storia: tali coincidenze avrebbero as
sunto in seguito valore di paradigma. A persuaderei di questa ipotesi, che
risponde appunto al principio dell'empirismo divinatorio (Bouché-Leclercq
1879-82: vol. l, 298; Bottero 1974: tr. it. 161), c'è il fatto che spesso i
Fegati di Mari contengono una formula che mostra come il gioco delle
coincidenze si sia potuto stabi lire: Quando il mio paese si è rivoltato
contro lbbi-Sin (2027-2003), questo (=il Fegato) si trovava così
disposto. 20 l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMlCA Il plastico di Mari riproduce
la forma assunta dal fegato reale esaminato durante un rito di estispicina:
esso registra la coincidenza tra questa forma, assunta come ominosa, e un
evento storico di importanza determinante, cioè la rivol ta contro l'ultimo re
del periodo neosumerico, lbbi-S'ìn. L'ipotesi dell"'empirismo
divinatorio" si spinge anche ol tre, ipotizzando che alla base stessa
della scoperta della di vinazione si porrebbe la scoperta delle coincidenze
tra la se rie di presagi e quella degli oracoli; ipotesi che può essere
avvalorata dal fatto che tutti gli "oracoli storici" possono essere
cronologicamente situati nel periodo delle origini del la divinazione
mesopotamica. Nella istituzione stessa della pratica divinatoria si sarebbe
vicini, così, a una forma del principio del post hoc, ergo propter hoc, per cui
qualsiasi evento che fuoriesce in qual che maniera dal corso
"normale" e che è seguìto da un altro evento, considerato a sua volta
eccezionale, finirebbe per costituire con quest'ultimo una coppia inscindibile.
Il colle gamento tra i due eventi, una volta stabilito, diventerebbe
irresolubile; e il secondo evento, se non propriamente cau sato dal primo,
risulterebbe almeno annunciato da quello. Ciò che di fatto viene qui elaborato
è il metodo semiotico dell'inferenza delle cause dagli effetti, che è tipica
dell'ab duzione. È vero che in questo caso si arriva a conclusioni che ci
appaiono assurde, a causa di un errore fondamentale nell'applicazione del
metodo: infatti quello che viene preso come risultato (o effetto) (una certa
ben definita disposizio ne del fegato) che si presume essere il caso di una
certa re gola (o causa) (rivoltarsi contro lbbi-Sin), in realtà non è affatto
tale. Ma questo ha poca importanza: formalmente siamo di fronte a un'abduzione.
Un tale principio è applicato costantemente. Non c'è nes sun interesse della
divinazione a rivolgersi al passato: se le apodosi degli oracoli storici lo
fanno è appunto perché la fi losofia che sta dietro a questo tipo di oracoli è
che la storia può ripetersi. Nell'abduzione, infatti, una volta che sia sta ta
inferita la regola che spiega un certo risultato, è possibile tenere a
disposizione tale regola per successive applicazioni deduttive. 1 .4
PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 21 1.4.2 Oracoli con gioco associativo tra
protasi e apodosi La seconda possibilità di un legame non casuale tra pro tasi
e apodosi dipende dalla presenza di rapporti associativi tra elementi contenuti
nella prima ed elementi contenuti nella seconda proposizione. È operante qui in
maniera evidente il modello della scrit tura cuneiforme. Abbiamo infatti visto
che essa tende a creare o suggerire una rete di relazioni tra cose non diretta
mente in contatto. Sappiamo come l'interpretazione di un segno della scrittura
cuneiforme apra la strada a una catena di veri e propri interpretanti: la
rappresentazione ideografi ca dell'orecchio, a esempio, non solo significa
"ascoltare", ma anche "obbedire", "apprendere'',
"il sapere", "l'intelli genza". Ugualmente possono entrare
in corto circuito se mantico due ideogrammi omografi o che differiscano per
pochi tratti del significante. Cosi abbiamo due tipi di gioco associativo : l .
quello sui significati; 2. quello sui significanti. 1 .4.2. 1 Il gioco sui
significati Il rapporto che si instaura tra protasi e apodosi nel caso di un
gioco associativo sui significati è quello che si ha tra un "cifrato"
tropico, e una sorta di "chiaro" al grado zero. Vediamo alcuni
esempi: Se il 29 del mese di Aiiar (aprile-maggio) si verifica un'eclisse di
sole - il re morirà, duramente punito da Sam mortalità gene rale. Se un
parto-anormale è doppio, con due teste, l'una saldata al l'altra, e otto
zampe, ma una sola colonna-vertebrale - il paese sarà precipitato nella
confusione per effetto delle dispute inte stine . Se un cavallo cerca di
accoppiarsi con un bue - riduzione del l'incremento del bestiame. Nel primo
esempio )'"eclisse di sole" può essere conside rata una metafora
rispetto alla "morte del re"; del resto la metafora deli'eclisse come
segno della morte di un sovrano si catacresizzerà ed entrerà in una lunga
tradizione mantica anche greco-romana. Nel secondo esempio compare pure una
metafora complessa: infatti la protasi parla del corpo di un unico animale
(''una sola colonna-vertebrale"), che però ha organi doppi ("due
teste", "otto zampe"); viene al lora istituito un parallelo con
l'organismo statale (''il pae se"), unico, ma dilaniato e reso doppio
dalle "dispute inte stine". Il terzo esempio presenta un caso di
accoppiamento tra due animali di specie diverse, destinato dunque alla infe
condità, il quale simbolizza una "riduzione dell'incremento del
bestiame": la protasi ha la funzione (dal punto di vista della produzione
segnica) deli 'esempio (Eco 1 975 : 296; Eco 1984: 47), che vale per l'intera
classe. In generale, questi esempi mostrano come la logica che regola il
rapporto tra protasi e apodosi è dell'ordine del simbolico. Naturalmente molto
spesso la relazione tra il ci frato tropico e il chiaro ci sfugge, perché il
linguaggio figu rato è dipendente dal contesto culturale: è verosimile che in
molti casi operino associazioni che per la distanza spazio temporale tra le
culture non possiamo più avvertire. 1 .4.2.2 Il gioco sui significanti Vediamo
ora alcuni esempi di oracoli in cui nella protasi ci sono elementi che
differiscono per pochi tratti del signifi cante da elementi correlati
nell'apodosi: Se piove (zunnu iznun) nel giorno (della festa) del dio della
città - quest'ultimo sarà adirato (zenl) contro di essa. Se la Vescichetta
biliare è rientrante (na!Jsat) è inquietante (na!Jdat). - Se la Vescichetta
biliare è presa dentro (kussti) il grasso - farà freddo (kU$$U). 1 .4
PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 23 Se il Diaframma è aderente (emid) -
aiuto (imid) divino. La somiglianza tra i significanti fa sì che un fatto,
indica to da una parola con un certo suono, sia considerato segno di un altro
fatto, indicato da una parola con suono affine. 1 .4.3 I codici sistematici Il
terzo tipo di abbinamento non casuale tra protasi e apodosi è quello legato
alla presenza di codici sistematici. Come dicevamo, è possibile registrare
nella divinazione mesopotamica un'evoluzione diacronica per cui, dall'epoca
delle origini al periodo più recente, il modo di porre il rap porto tra
protasi e apodosi si modifica nel senso dell'astra zione. Il culmine di tale
processo porterà alla creazione di codici che prevedono una casistica generale
ed esaustiva: in questo caso verrà totalmente abbandonato il principio del
l'empirismo divinatorio per far spazio a una logica in un certo modo deduttiva,
che fa dipendere dalla configurazio ne generale del codice l'inferenza del
singolo caso. Infatti, a partire dal secondo quarto del II millennio, la
documentazione storica non ci presenta più oracoli singoli, ma registra la
presenza di un centinaio di "trattati", cioè di raccolte sistematiche
e spesso molto dettagliate, di segni di vinatori.s La sistemazione in
trattati, questo nuovo aspetto della di vinazione nel II millennio, ha come
tratto saliente quello di risultare funzionale al raggruppamento di diversi
segni ora colari in relazione a un unico oggetto, considerato ornino so.
Quest'ultimo veniva scomposto nell'intera gamma delle sue parti o variazioni,
ciascuna delle quali veniva a essere il tema di una singola protasi. Si
registra, in effetti, una mi nuziosa opera di pertinentizzazione del reale: se
un oggetto risulta esteso e divisibile, per ognuno dei singoli aspetti
identificati, viene costruita una coppia presagio-oracolo. Ecco come, a
esempio, in un trattato di estispicina, una sin gola porzione del fegato, la
cosiddetta "Porta del Palazzo", viene esaminata: Se, sulla
Soglia della Porta del Palazzo, a destra, si trova una fessura - . . . Se,
sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, una fessura è segnata per il
lungo - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, si trova
una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, una
fessura è segnata per il lungo - Se, nel bel mezzo della Porta del Palazoz , si
trova una fessura - ... Come si può vedere, tutte queste protasi
risultano co struite su un principio strutturale di opposizioni binarie tra
Ila Soglia! e Iii bel mezzo! della Porta del Palazzo, tra jde stral e
jsinistral , tra j fessuraj e l fessura segnata per il lungoj . È dunque
proprio il sistema, inteso in un senso strutturali stico ante litteram, a
prendere il sopravvento . Non vengono registrati più solo i casi che sono stati
effettivamente osser vati, ma tutti i casi virtualmente possibili, in
relazione a un sistema basato su opposizioni e regole astratte. Questo fatto
diviene particolarmente evidente quando in contriamo in un trattato delle
protasi che prendono in con siderazione fino a sette Vescichette biliari per
uno stesso fe gato: la logica del sistema (basata in questo caso sulla rego
la: n --+ n + l) prevale non solo sulla realtà, ma perfino sulla
verisimiglianza. Una cosa analoa avviene quando, all'ini zio del trattato di
teratomanzia Summa izbu, vengono pre viste, per un neonato perfettamente
umano, circa quaranta possibilità di aspetto mostruoso: tra esse, che il
neonato as somigli a un cavallo, a un leone, a un cane, a un maiale, a un bue,
a un asino, oppure a una mano, a un piede e, addi rittura, a un corno di capra
o a un mattone. Sotto la spinta della sistematizzazione, la divinazione cambia
radicalmente: tutto l'impegno non è più dedicato al la ricerca di eventi
ominosi, ma alla costruzione degli s-co dici (Eco 1975; 1984: 266) delle
sequenze di protasi; a parti- 1.5 ESPLICITAZIONE DELLE REGOLE DI
CODIFICA 25 re da queste sequenze verrà costruito il codice vero e pro prio di
abbinamento con le serie di apodosi. In questo sen so, anche se non formulate,
varranno regole generali del ti po: "ogni volta che trovi il numero x
nella protasi, assegna la caratteristica y all'apodosi"; cosi, a esempio,
se l'indovi no incontra in un evento-protasi il numero sette, che il siste ma
abbina costantemente, poniamo, alle caratteristiche del la
"perfezione" e della "totalità", può dare come oracolo
"vi sarà Pimpero". Sono del resto molte le regole di codifica non
espresse, ma costanti, come a esempio quella per cui tutto ciò che è a destra è
connesso con un auspicio favorevole, mentre tutto ciò che è a sinistra, esprime
un augurio contrario. Oppure quella per cui è possibile "cambiare di
segno", come in alge bra, alla predizione in base al contesto: a esempio,
un pre sagio di per sé sfavorevole, se messo in rapporto con la sini stra,
diventa favorevole, o viceversa. In questo senso l'apodosi diviene deducibile
dalla prata si, in quanto basta osservare le caratteristiche sistematiche che
in essa sono contenute per inferirla: è il trattato che for nisce in realtà la
regola (anche senza esplicitarla): di fronte a un nuovo caso sarà facile per
l'indovino trovare il risulta to applicando la regola. 1.5 L'esplicitazione
delle regole di codifica Se nei trattati del II millennio si assiste al
superamento della fase empirica a favore di una ristrutturazione della di
vinazione su base sistematica e deduttiva, tuttavia, le regole della deduzione,
per quanto largamente operanti, rimango no implicite. Nei trattati del I
millennio si assiste a un'ulteriore evolu zione della divinazione, che porta
ali'esplicitazione delle re gole stesse della codifica. Ciò è testimoniato dal
grande trattato di aruspicina del I millennio, che aveva un capitolo in cui
erano formulati i va lori essenziali di certe caratteristiche espresse dalle
protasi. Il testo era disposto non più su due, ma su tre colonne. La 26
l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMICA prima riguardava il presagio, o meglio la
caratteristica che appariva ominosa nell'oggetto preso come segno. Di solito si
trattava di una qualità, espressa o da un aggettivo ("gros so") o da
un sostantivo astratto ("lunghezza") oppure, an cora, da un verbo
all'infinito ("essere piegato verso il bas so"). Nella seconda
colonna veniva registrato il valore fon damentale dell'oracolo, come a esempio
"gloria", "poten za", "vittoria". La terza
colonna, infine, proponeva una esemplificazione con un oracolo completo, tale
che nella protasi comparisse la qualità registrata dalla prima colonna e
neli'apodosi il valore risultante nella seconda colonna. Ec cone un esempio:
Lunghezza Riuscita Se la Stazione è abbastanza lun ga da arrivare fino alla
Strada il principe riuscirà nella campa gna che avrà intrapreso. È evidente
qui l'ulteriore progresso compiuto nella dire zione dell'astrazione: abbiamo
infatti la vera e propria pre sentazione della chiave del deciframento dei
segni. Le leggi deli'esegesi sono messe in chiaro. Presentare il trattato sulle
tre colonne equivale proprio a mettere in luce le leggi di cifratura. Ciò che
vi è di arbitrario nell'abbina mento tra protasi e apodosi viene dichiarato
fornendo i due termini della corrispondenza. Questo processo di astrazione non
si arresterà qui, ma procederà fino alla completa riduzione dei valori alla
dico tomia fondamentale: favorevole/sfavorevole. All'estrema complessità e
particolarizzazione degli oraco li più antichi si contrapporrà l'estrema
semplificazione di una logica binaria che prevede solo il sì o il no. 2.
LA DIVINAZIONE GRECA 2.0 Divinazione e conoscenza Il campo delle pratiche
divinatorie costituisce il primo ambito sufficientemente omogeneo in cui nella
Grecia anti ca si parla di segni. Il termine semefon, che si incontra qui per
la prima volta, è un nome di genere, che indica un segno divinatorio di tipo
qualsiasi e comprende anche il responso oracolare, costituito in realtà da un
testo verbale.1 Accanto a esso, come sue specificazioni relative ad ambiti
particolari della divinazione (o, potremmo dire, a particola ri manifestazioni
di sostanza dell'espressione), si trovano vari altri termini; tra essi oion6s
che indica etimologicamen te il segno dato dal volo degli uccelli; phasma, che
si riferi sce inizialmente ai presagi che si possono trarre dai fenome ni
atmosferici, ma che si estende in seguito alle visioni in ge nere; téras, che
costituisce l'equivalente deli 'espressione la tina prodigium e sta a indicare
qualsiasi fenomeno o avve nimento insolito, e in qualche maniera mostruoso,
che pos sa essere preso come base per una interpretazione divinato ria (Bioch
1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr. it. 477). In tutti questi casi, qualcosa
sta per qualcos'altro, o meglio è assunto come base per un procedimento di
inferenza. Nonostante che in Grecia la divinazione come pratica ef fettiva
abbia avuto un'importanza abbastanza marginale,2 tuttavia il segno divinatorio
ha dato origine a una tradizio ne, letteraria e filosofica, che lo insedia nel
punto di origine mitico del processo di conoscenza. 28 2. LA DIVINAZIONE
GRECA Innanzitutto, infatti, l'indovino (mtintis), colui che è ca pace di
interpretare il segno proveniente dagli dei, è preci puamente un sapiente, e
il tipo di sapienza di cui il mantis è portatore non si identifica con
un'accezione limitativa del termine, come la conoscenza di una tecnica. Al
contrario, la sua è piuttosto una sapienza di ordine generale e sicura mente
superiore a qualsiasi tipo di conoscenza umana, co me suggerisce anche
l'etimologia del termine mantis, che è collegato alla radice •men, con cui
viene indicato un movi mento di accrescimento e di potenziamento dell'animo
(Crahay 1974: tr. it. 220). In Omero, per la prima volta, incontriamo
l'espressione che identifica la divinazione con la conoscenza "delle cose
che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato":
Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore tra gli scru tatori di
uccelli l che conosceva ciò che è e ciò che sarà e ciò che è stato prima (hòs
id ta t 'e6nta ta t 'ess6mena pr6 t 'e6nta) , l e aveva guidato verso Ilio le
navi degli Achei l con la sua arte di vinatoria, che Febo Apollo gli aveva
concesso. (Il., I, 69-72)3 Il passo omerico mette in risalto il carattere
generale e to tale della conoscenza rappresentata dalla divinazione; è una
conoscenza che trova un paragone solo con quella, molto più tarda, di ordine
filosofico: l'espressione tà eonta ("le cose che sono"), che nel
passo indica l'oggetto di conoscen za dell'indovino Calcante, rimarrà immutato
nella tradizio ne filosofica, in Eraclito, Empedocle, Platone, Aristotele,
come termine tecnico per indicare appunto gli oggetti della conoscenza
filosofica in generale. In secondo luogo, il segno, che è lo strumento
attraverso cui si attiva tale conoscenza, non proviene dalla sfera del
l'umano, ma da quella più alta e numinosa del divino; esso è lo strumento di
mediazione tra la conoscenza totale che ha il dio e quella limitata dell'uomo.
Il segno è altresì, nella prospettiva aperta da Colli (1977: 379; 1975: 40), il
luogo dell'irruzione della sapienza divina nella sfera dell'umano. Ma il
dio parla un linguaggio che non è quello dell'uomo. La parola del responso
oracolare, a esempio, è umana solo come suono, ma non produce alcun significato
se le viene applicato il codice del linguaggio verbale degli uomini. C'è dunque
una difformità nell'espressione dei contenuti della conoscenza che separa
l'uomo dal dio; ma c'è anche una più radicale differenza nelle modalità stesse
della conoscen za. Il dio padroneggia il tempo attraverso la "vista"
simul tanea e del passato, e del presente, e del futuro: la sua anni scienza
deriva appunto dal fatto di possedere una visione panoptica. Infatti Apollo,
secondo l'espressione usata da Pindaro (Pyth., III, 29), possiede
"l'occhiata che conosce ogni cosa". L'uomo, al contrario, può vedere
solo il suo presente, mentre gli sono irrimediabilmente sottratte le altre
dimen sioni del tempo. Solo il dio può permettergliene l'accesso; ma la
visione deve essere tradotta in parole, in quanto l'uo mo accede alla
conoscenza solo attraverso l'udito. Per il poeta, a esempio, la memoria del
passato è garantita dal racconto che traduce la visione panoptica delle Muse
(Horn., Il., Il, 484-486). Allo stesso titolo l'indovino è colui che rivela
all'uomo il futuro traducendo in parole la "visio ne" che il dio gli
comunica; ma proprio in questa traduzio ne il messaggio perde di perspicuità
(Lanza 1979: 99-l00; Detienne 1967: tr. it. 1). Per questi motivi il segno
divinatorio è enigmatico, oscu ro e per lo più incomprensibile. Per decifrarlo
c'è bisogno di un interprete, qualcuno che sia diverso dal soggetto nel quale
si è compiuto il processo di comunicazione e di tra sformazione della
conoscenza. Platone individua due distinte figure, rispettivamente "l'uomo
mantico" (colui che riceve la visione) e il "profeta" (colui che
interpreta le parole pronunciate dal primo duran te l'estasi). Il celebre
passo del Timeo, che propone tale di stinzione, in sé costituisce un piccolo
trattato teorico della divinazione quale se la rappresentavano i Greci, e
presenta con grande perspicuità la tradizione del segno divinatorio come segno
non direttamente decodificabile: Vi è un segno sufficiente che il dio ha
dato la divinazione alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padrone
dei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica.
Occorre piuttosto che la forza della sua intelligenza sia impedi ta dal sonno
o dalla malattia, oppure che egli l'abbia deviata es sendo posseduto da un
dio. Ma appartiene all'uomo assennato il ricordare le cose dette (tà rhthénta)
nel sogno o nella veglia dalla natura divinatrice ed entusiastica, il
riflettere su di esse, il discernere con il ragionamento tutte le visioni (tà
phasmata) al lora contemplate, il vedere onde quelle cose ricevano un signifi
cato e a chi indichino (smalnel) un male o un bene futuro o passato o presente.
A chi invece è esaltato e persiste in questo stato non spetta giudicare le
apparizioni e le parole da lui dette. Questa è una buona e vecchia massima:
soltanto a chi è assen nato conviene fare e conoscere ciò che lo riguarda, e
conoscere se stesso. Di qui deriva la legge di erigere il genere dei profeti a
interprete delle divinazioni ispirate dal dio. Questi profeti, alcu ni li
chiamano divinatori, ignorando del tutto che essi sono in terpreti delle
parole pronunziate mediante enigmi e di quelle immagini, ma per nulla
divinatori. La cosa più giusta è di chia marli profeti, cioè interpreti di ciò
che è stato divinato. (Plat., Tim., 7le-72a) Al centro concettuale del passo si
pone il verbo smafno, che indica appunto la rivelazione del dio; quest'ultimo
si presenta come il vero enunciatore, attraverso l'uomo ispira to, del testo
divinatorio. Il soggetto grammaticale di smal no è costituito dai due termini
che indicano le due forme di segno divinatorio, cioè "le cose dette"
e "le visioni contem plate", ma il responsabile della produzione di
questi segni è "la natura divinatrice ed entusiastica", cioè il dio
stesso che fa irruzione nell'uomo tramite l'invasamento (come indica anche
l'etimologia del secondo termine, collegata a theos). L'uomo non è che un
canale di trasmissione o un portavo ce. E perché il significato arrivi fino al
destinatario c'è biso gno di un complesso procedimento di interpretazione.
Cosi se prendiamo il verbo semalno come un predicato associato a un certo
numero di ruoli (o casi logici) e lo mettiamo in relazione a un processo di
comunicazione e a uno di inter pretazione, possiamo leggere il passo platonico
secondo il seguente schema (molto semplificato in alcune sue parti): 30
soggeno •te cose dette'" "le visioni contemplate'" il dio l'uomo
invasato significato - destinatario "'un male o un bene futuro o passato o
presente'" trice ed entusia- stica· 2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 3 1
---------------- - - - - - - - - - - - , '"la natura divina- l
l'uomo processo di interpretazione del segno , effe"uato da
personaggi con un sapere specializzato, a favore del destinatario "'i
profeti'" Il verbo smafno, dunque, non ha il banale senso di
"si gnificare", nel senso deli'instaurazione di un rapporto tra un
piano dell'espressione e un piano del contenuto all'inter no di un segno. Esso
sembra piuttosto riferirsi al processo di comunicazione stesso che il dio
attiva nei confronti del l'uomo: in altre parole, nel passo platonico, il
verbo sembra riferirsi alla situazione per cui il dio "indica attraverso
segni (enigmatici)" all'uomo qualcosa, che a quest'ultimo è sco nosciuto
. A confermare l'uso del verbo smafno con questo senso nei contesti divinatori
si trova una lunga tradizione che risa le almeno a Eraclito, al noto frammento
93 dell'edizione Diels-Kranz (tr. it. 1974). È stato Romeo (1976) che, in una
lucida e complessa analisi del frammento, ha messo in evi denza questo
significato del verbo smafno, arrivando alla traduzione: (sorgente) (strumento)
smafnei (oggetto) (scopo) enunciatore- segno -- canale -- l! 2. I.A
DIVINAZIONE GRECA Il ··•Hno• c du: ha l'oracolo in Delfi, né dischiude, né
nasconde il ,•.un pnJ.•,ac•o, rna lo indicaattraversosegni(smalner)4 rourro una
lunga tradizione che rendeva la forma verbale sl'nuJinei con
"significa" o con altre espressioni che avevano l'cffcllo di rendere
contraddittorio o incomprensibile l'inte ro frammento. Si viene qui a
profilare un'opposizione tra due tipi di lin guaggio, che hanno
caratteristiche antitetiche. Da una parte c'è il linguaggio umano,
caratterizzato dalla trasparenza e dall'immediata decifrabilità (e possiamo
fare l'ipotesi che proprio questo tipo di linguaggio sia circoscritto da entram
bi i termini della coppia oppositiva "dischiudo [/égO]"/"na
scondo [krfptO]": l'uomo o svela completamente il suo pen siero, usando
il linguaggio, oppure lo nasconde del tutto, non esternandolo in parole).
Dall'altra parte c'è un diverso tipo di linguaggio, quello attribuito
direttamente al dio nel frammento di Eraclito (e indirettamente nel passo
platoni co), che è indicato dal verbo semafno e che ha le caratteristi che
opposte dell'oscurità e della non immediata decodifica bilità. Il dio non
concede all'uomo una rivelazione comple ta, né gli nega totalmente la
conoscenza: gli fornisce piutto sto, attraverso il segno oracolare, una base
di inferenza sul la quale l'uomo dovrà lavorare per giungere a una conclu
sione, senza però dargli alcuna garanzia sulla via da seguire con il
ragionamento. Ci sono due spiegazioni al fatto che la cultura letteraria e
filosofica greca si sia rappresentata il segno divinatorio co me oscuro e
ambiguo. La prima è quella che abbiamo visto inquadrarsi nell'otti ca di
Colli, secondo cui il segno divinatorio può essere con siderato come
"l'impronta del divino" nell'uomo, indizio di un punto di contatto
(quello attraverso cui la conoscenza divina si comunica all'uomo), e
contemporaneamente di un punto di fuga.s La seconda spiegazione è quella messa
in luce da Vernant (1974: tr. it. 20-21), ed è inerente al tipo di razionalità
speci fica messa in gioco dalla divinazione, come pratica effetti va, oltre
che come teoria. Essa si connette al diverso ruolo 2.0 DIVINAZIONE E
CONOSCENZA 33 che gioca il destino rispettivamente nella sfera divina e in
quella umana. Infatti, a livello dell'esistenza umana, il de stino è
concepibile come una successione lineare di avveni menti (rappresentato
metaforicamente dal filo delle Par che), i quali si connettono tra loro
apparentemente senza che possa essere attribuito loro un senso globale. Questa
successione acquisisce un significato solo quando è arrivata al suo termine,
quando cioè il destino "si compie". È solo a questo punto che esso
diventa intelligibile e permette di spiegare, alla luce degli ulteriori
sviluppi, anche gli avveni menti passati ai quali non si era saputo dare un
senso. Fino a quel momento, tuttavia, l'uomo rimane in una fondamen tale
ignoranza: anzi, è proprio questa ignoranza a caratte rizzare l'esistenza
umana. A livello degli dei, al contrario, il destino di ciascun uo mo è
presente e intelligibile in ogni momento nella sua tota lità. Esso infatti è
stabilito in maniera irrevocabile e iscritto nell'eternità già prima della
nascita di ogni uomo. La divi nazione trova il suo spazio proprio in questo
scarto di cono scenza che si apre tra gli uomini e gli dei: l'oracolo (e in
ulti ma analisi anche ogni altro tipo di segno divinatorio) si sup pone che
riveli all'uomo, quando è ancora in vita, proprio il significato segreto del
suo destino, mentre questo sarebbe accessibile, dal punto di vista umano, solo
dopo la morte. Tuttavia, se la divinazione compisse la sua funzione pro fetica
sino in fondo, se cioè abolisse totalmente lo scarto di conoscenza che esiste
tra l'uomo e la divinità, risulterebbe con ciò cancellata anche la differenza che
distingue l'uomo dal dio. Per questa ragione il dio non svela il destino più di
quanto lo nasconda in effetti, secondo la formulazione di Eraclito. L'oracolo
lo lascia intravedere, ma nello stesso tempo lo dissimula; lo dà a indovinare
attraverso un segno oscuro ed enigmatico che per i consultanti non è più
intelli gibile di quanto lo siano gli avvenimenti per i quali si sono rivolti
all'oracolo. Così, la logica della divinazione fa in modo che con l'ambiguità
del segno venga reintrodotta, a livello umano, quella "opacità" circa
il destino che l'anni scienza divinatoria avrebbe il compito di attenuare, se
non di eliminare del tutto. 14 2. LA DIVINAZIONE GRECA 2. 1 llue tipi di
divinazione 2 . 1 . 1 La divinazione naturale Il passo platonico del Timeo,
come pure il frammento di Eraclito, fanno riferimento a un tipo di divinazione
che vie ne di solito definita "ispirata": essa rientra all'interno
della categoria generale della mantik atechnos, della divinazione cioè che non
richiede un apparato di mezzi tecnici per la sua messa in opera e per questo,
talvolta, riceve anche il nome di "divinazione naturale" (Cic. , De
divinatione). Il carattere specifico di questo tipo di divinazione è quel lo
per cui il sapere del dio non passa attraverso mezzi di ma nifestazione
esterni all'uomo: l'ispirazione divina raggiunge direttamente l'individuo
attraverso i sogni (cioè un testo iconico) o si comunica a un profeta-portavoce
che emette un responso (normalmente un testo verbale). Per usare l'e
spressione di Romeo (1976: 84), si tratta di un tipo di divi nazione
"endosemiotica". Secondo questo modello funzionava il più noto e
presti gioso oracolo della Grecia antica, quello di Delfi6 in cui la Pizia, la
sacerdotessa di Apollo, emetteva un responso co stituito da un testo verbale.
Ma, come abbiamo visto, per quanto esso fosse formulato nei termini del
linguaggio na turale, il suo senso non era decodificabile mediante la sem
plice applicazione delle regole del codice linguistico a livello denotativo.
Più avanti vedremo alcuni esempi di decodifica aberrante di responsi, fraintesi
proprio per la pedissequa applicazione di questo codice senza far ricorso a
regole più complesse (come quelle di tipo retorico-tropico). 2. 1 .2 La
divinazione artificiale Il secondo tipo di divinazione è la mantik technik,
defi nita, a seconda dei commentatori, come "congetturale",
"induttiva", "deduttiva" o "artificiale". Era
basata suli'a nalisi dei segni (visibili, acustici, sensibili) che si
realizzava-no nell'ambiente esterno all'uomo e che potevano essere spontanei
(come i fulmini o le eclissi) oppure provocati (co me il lancio dei dadi o
l'estispicina).7 Questo secondo tipo di divinazione mette in gioco una lo gica
particolare, basata sull'ipotesi che esistano rapporti di omologia e di
corrispondenza tra il microcosmo, rappresen tato dal fenomeno preso come
segno, e il macrocosmo, rap presentato dall'ordine generale dell'universo (J.
Vernant 1948; J.-P. Vernant 1974). A questo proposito vengono isolate delle
porzioni di spa zio - che possono essere, a esempio, le regioni del cielo per
l'astrologia, come pure la superficie del fegato della vittima sacrificale per
l'estispicina - che vengono caricate di valore simbolico e deputate a
funzionare da specchio dell'ordine cosmico generale. Negli spazi così
delimitati è possibile leg gere la configurazione futura degli eventi,
sottratta a quella aleatorietà, a cui gli eventi reali sono invece sottoposti,
e per sopprimere appunto la quale il consultante si rivolge al la divinazione.
Si creano così due serie, quella delle configurazioni strut turali interne al
testo segnico e quella degli eventi a cui tali configurazioni rimandano; tra le
due si stabilisce un vero e proprio codice di corrispondenza, che permette di
passare immediatamente dal segno al suo significato. Ne vediamo un esempio molto
semplice nel seguente passo di Omero: Dico che un cenno ci dette il Cronide
superbo l il giorno che sulle navi veloci in cammino salivano gli Argivi l a
portare stra ge e morte ai Troiani l tuonando da destra, mostrando segni di
buon augurio. (//., Il, 351-354) In questo caso la volta celeste viene
costituita come spa zio significativo, come microcosmo in cui sia possibile
leg gere i segni del destino. Questo spazio viene articolato in una struttura
binaria che oppone due regioni, la destra e la sinistra: a ciascuna di esse
viene abbinato un valore seman tico (ldestral--+"buon auspicio",
!sinistra!-+"cattivo auspi cio"). Una più articolata configurazione
del significato de- 36 2. LA DIVINAZIONE GRECA riva dalla circostanza di
enunciazione, cioè dalla sua rela zione con la domanda esplicita (o implicita,
come in questo caso) che l'interrogante pone alla divinità·. Nel passo omeri
co la circostanza di enunciazione è la partenza della spedi zione per Troia, e
la domanda implicita concerne la riuscita dell'impresa: dunque il tuono che
proviene dalla regione de stra del cielo viene a significare "buona
riuscita dell'impresa dei Greci contro Troia". Infatti, per quel che
riguarda l'individuazione del signifi cato ultimo del segno, tutti i sistemi
divinatori si basano su un equilibrio più o meno stabile tra le strutture
formali del codice che permettono di cifrare in maniera completa l'av
venimento prodigioso e insolito, e la molteplicità delle si tuazioni concrete
a cui tale avvenimento-segno può riman dare nei contesti specifici.
Nell'esempio omerico il codice è così semplice da essere diventato patrimonio
comune, tanto che non si fa cenno della presenza di un indovino, per decifrare
il segno. Di so lito non è così per la divinazione artificiale, il cui
carattere "tecnico" risiedeva proprio nel fatto che per
l'interpretazio ne dei segni era necessario fare ricorso alla conoscenza spe
cializzata di personaggi depositari di un sapere che verte sulle regole di
decodifica. L'indovino è infatti essenziale nel caso, appena più com plesso,
riportato da Plutarco nella Vita di Dione (24). L'a neddoto riguarda la
spedizione effettuata nel 357 a.C. da Diane contro Dionigi di Siracusa, durante
la quale si verifi cò un'eclisse di luna. L'indovino Miltas, chiamato a inter
pretare quel segno, dichiarò che esso annunciava che qual cosa che era stato
splendente fino ad allora, si sarebbe oscu rato: non poteva, dunque, che
trattarsi del regno tirannico di Dionigi, il quale era destinato a soccombere
sotto l'attac co portatogli da Dione. Anche qui ci sono le due fasi: la prima
determina il signi ficato degli abbinamenti del codice e la seconda quello
deri vante dalla sua applicazione alla situazione concreta. Inol tre
l'indovino Miltas si avvale di una tecnica più sofisticata, che fa ricorso
anche alle trasformazioni retoriche: la rela zione tra il macrocosmo della
luna che viene oscurata dal- 2. 1 DUE TIPI DI DIVINAZIONE 37 l'eclisse e
il microcosmo del regno di Dionigi destinato a soccombere è mediata
dall'elemento comune !splendore! con cui si designa in modo proprio una qualità
della luna e in modo figurato una proprietà del regno di Dionigi. Esistevano
poi codici notevolmente elaborati già al sem plice livello degli abbinamenti,
come a esempio il codice dell'estispicina. In questa pratica venivano esaminate
le vi scere degli animali, in particolare il fegato, del quale si os
servavano l'aspetto e la posizione del lobo, della vescichetta e delle porte.8
Per quello che riguarda la cultura greca non abbiamo esempi del modo in cui
venivano effettivamente realizzati gli abbinamenti tra gli elementi
significanti e quel li a cui essi rinviavano. Tuttavia Luc Brisson (1974), in
uno studio molto interessante e completo sulla divinazione in Platone, ha
segnalato un passo del Timeo (71 a-d) in cui, nonostante non si parli
direttamente di estispicina, si descri ve un fenomeno che con essa ha molti
punti di contatto. Il passo illustra i processi che si determinan9 quando
l'anima razionale, che ha sede nel cervello, lascia la sua impronta, "come
in uno specchio", sul fegato che è la sede dell'anima appetitiva: questo
permette di vedere riprodotte nel fegato (nei suoi aspetti via via
diversificantisi) le impressioni la sciate dali'anima razionale. La
specularità è, però, solo metaforica perché si verifica no in realtà dei
processi di codificazione molto forte, che fanno pensare ai meccanismi della
"comunicazione biochi mica" . In definitiva il fegato viene a
costituire un testo segnico sul quale I 'anima appetitiva legge i contenuti
intelligibili, di venuti sensibili attraverso un processo di codifica. Esso co
stituisce altresì un microcosmo che rispecchia, anche se in modo molto
particolare, l'assetto del macrocosmo costitui to dali'anima razionale. Si può
presumere che i codici dell'estispicina funzionasse ro in un modo analogo a
quello descritto per i processi di comunicazione "intrapsichica"
illustrati dal Timeo. Tuttavia, proprio da Platone scaturisce una delle più
reci se condanne che la Grecia classica abbia espresso nei con fronti della
divinazione artificiale. Tale condanna si trova 38 2. LA DIVINAZIONE
GRECA formulata nei due testi del Timeo (72 b) e del Fedro (244 c-d). Nel primo
di questi, in particolare, è contenuta una condanna dell'epatoscopia: infatti
Platone, che accetta la possibilità di leggere sul fegato molti segni quando
questo è contenuto in un organismo vivente, sostiene che esso non può rivelare
niente di sicuro agli uomini, quando è privato della vita e non è più
sottoposto all'influsso luminoso del l'anima razionale. Più generale e
radicale è la condanna della divinazione tecnica nel Fedro. In quel testo
Platone fa l'elogio della fol lia, di cui considera la divinazione una specie,
e separa la mantica ispirata ed entusiastica da tutte le altre forme di in
vestigazione del futuro. In particolare la "mantica", nel senso
ristretto, viene contrapposta alla "oionistica", cioè la divinazione
mediante l'osservazione dei segni dati dal volo degli uccelli. La ragione della
discriminazione è chiara: nella divina zione tecnica la ragione umana pretende
di sostituirsi ali'i spirazione divina. Per indicare che in questo modo non si
raggiunge che un grado molto pallido e incerto di conoscen za, Platone inventa
addirittura una connessione etimologi ca tra "oionistica" e olsis
(''opinione") ("L'investigazione del futuro [. . .] attraverso gli
uccelli [. . .] fu chiamata 'oio noistica', che i moderni, rendendola solenne
con un omega, dicono oionistica": Phaedr., 244 c). Nella divinazione ispi
rata, invece, la conoscenza deriva all'uomo da una posses sione divina e
questo è garan.zia di verità. Sembra profilarsi un'opposizione tra smafnein e
tekmal resthai, il primo verbo indicando, come nel Timeo e in Era clito, il
dono della conoscenza elargita dal dio, mentre il se condo indica la
congettura puramente umana. Questa op posizione richiama il motto di Alcmeone:
Delle cose invisibili e delle cose visibili gli dei hanno conoscenza certa; ma
agli uomini tocca procedere per indizi (tekmafre sthal) . (Diels-Kranz, 24 b
l) su cui avremo occasione di tornare. 2.2 DUE MODELLI DI
DIVINAZIONE ORACOLARE 39 I passi platonici non esemplificano soltanto
l'opinione del filosofo ateniese, ma si pongono altresì in linea con la scelta
di fondo compiuta da tutta la civiltà greca nei con fronti della divinazione
ispirata. Infatti, per quanto in Gre cia venissero praticate anche forme di
divinazione tecnica, a esse è stata sempre riservata un'importanza secondaria,
mentre l'attenzione si è concentrata soprattutto sulle forme della divinazione
oracolare, che si esprimevano attraverso la parola. D'altra parte questo
fenomeno deve essere messo in rela zione con il fatto che la civiltà greca è
essenzialmente di tipo orale; in essa la scrittura è non soltanto un fenomeno
recen te, ma del tutto dipendente dal parlato, che essa tende a ri produrre
foneticamente. In altre civiltà, come quella meso potamica o quella cinese, la
scrittura è molto più antica e funziona come un sistema autonomo rispetto alla
lingua, presentando a suo modo, attraverso i segni grafici, quelle realtà che
la lingua presenta in altra maniera: in queste ci viltà la scelta compiuta nei
confronti del tipo di divinazione è opposta a quella greca. 2.2 Due modelli
della divinazione oracolare Esistono tuttavia profonde differenze tra
l'immagine che della divinazione oracolare propongono i testi letterari e il
modo in cui essa veniva praticata effettivamente nei santua ri a essa adibiti.
J.-P. Vernant (1974) parla di due distinti modelli. Nella Grecia dell'età
classica, infatti, la divinazione come pratica effettiva ha una rilevanza
marginale nel regime della polis. Infatti l'oracolo viene consultato non per
ottenere una predizione sul destino, ma per prospettargli, in forma di
alternativa, un certo corso di eventi che si ha intenzione di intraprendere e
per domandargli se la via sia libera o pre clusa.9 Si instaura a questo
proposito un vero e proprio dialogo tra il consultante e l'oracolo (Crahay
1974): quest'ultimo ri sponde innanzitutto alla domanda che è stata posta in
for- 40 2. LA DIVlNAZIONE GRECA ma chiusa, predicendo al consultante se
farà o non farà una determinata cosa. Il consultante pone poi all'oracolo una
seconda domanda, in forma aperta, ma limitata a una con dizione rituale di
successo: in sostanza, esso domanda al l'oracolo quali ostacoli debbono essere
rimossi perché l'im presa prospettata giunga a buon fine. È interessante a que
sto punto vedere come la formula usata di solito dall'oraco lo nell'emanare il
consiglio di carattere rituale rispecchi quella che veniva usata per redigere
le decisioni dell'assem blea sancite dal popolo. L'oracolo dice infatti loion
kai ameinon éstai (''sarà più conveniente e preferibile"), pro prio come
nei decreti deli'assemblea si usano formule che pongono l'accento sulla
"preferenza" tra le opinioni, piut tosto che sull'intimatività della
decisione. Ciò è indice del fatto che nella civiltà greca è il modello della
discussione as sembleare che si proietta sulla divinazione, e non viceversa
come avveniva nella civiltà mesopotamica. Ed è interessante che in questo
modello di divinazione non si trovi alcuna traccia di risposta ambigua o
oscura. Ambiguità e oscurità si trovano solo nel secondo model lo, quello
"teorico,, della divinazione oracolare, presente in tutta la letteratura
scritta, da Erodoto ai poeti tragici, ai fi losofi. Esso costituisce la
rappresentazione che la cultura della città si dà della divinazione.
Secondo·questo modello, l'oracolo viene consultato non per ottenere un
consiglio, ma direttamente sul destino. Ciò determina la supposizione che
l'oracolo sia onnisciente, in quanto deve conoscere sia lo sviluppo futuro
degli eventi, sia, nel contempo, il passa to, in cui si situano le remote
origini delle sorti attuali e fu ture deli'indi\iduo o del gruppo consultante.
La logica a cui questo modello risponde non è più bina ria: l'oracolo deve qui
impegnarsi a ridurre a una sola, spe cifica, opzione l'infinità dei possibili.
Il responso oscuro e ambiguo reintroduce, del resto, l'in certezza che
caratterizza la condizione umana che l'oracolo tende ad annullare. Così, nei
racconti oracolari dei testi let terari, la profezia sembra sempre inadeguata
rispetto al cor so preso dagli eventi. Il segno rimane oscuro fintantoché il
"compiersi" della sorte si incarica di fare chiarezza e di de-
2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARI 41 sambiguare, ormai troppo tardi,
la polisemia del testo pro fetico. 2.3 Il problema interpretativo nei racconti
oraco lari Naturalmente, per capire come la nozione di smefon si sia
sedimentata nella cultura greca, per vedere quale sia il nucleo semantico con
cui il termine indicante il segno è sta to consegnato alla tradizione
filosofica, il riferimento ali'u so di smefon nei testi letterari è
altrettanto importante quanto il suo significato nelle pratiche divinatorie
effettive. Soprattutto nei testi di Erodoto e dei tragediografi è pos sibile
vedere come costantemente venga tematizzato il pro blema interpretativo che il
segno oracolare pone: l'oscurità del segno è in principio legata alla
difficoltà, che diviene immancabilmente impossibilità, di risolvere tale
problema. Si deve però dire che in primo luogo l'uomo è accecato dal la
hjbris, e palesa la sua scarsa ricettività alla parola della profezia in vari
modi: la dimentica, non ne segue le diretti ve, sbaglia la modalità di
consultazione; alla fine, però, il suo errore fondamentale è quello di
scegliere sempre il ter mine errato dell'alternativa posta dal segno ambiguo.
Se la sua colpa è, dunque, un peccato di tracotanza, il suo errore è un errore
di conoscenza, e ha un carattere squi sitamente semiotico. Ancora una volta
compare l'opposizione "linguaggio umano"/"linguaggio
divino": l'uomo infatti interpreta sempre la profezia secondo il proprio
codice, non tentando mai di intendere la parola della rivelazione come cifrata
in un altro linguaggio, quello appunto della divinità. In termini semiotici, in
tutti i racconti sul tema della divi nazione oracolare, l'uomo interpreta
invariabilmente il te sto in modo letterale, mentre questo dovrebbe ricevere
una lettura secondo quello che potremmo definire modo enig matico.10 Infatti,
l'idea fondamentale che i racconti oracolari sug geriscono è che esista sempre
nella profezia un senso secon- 42 2. LA DIVINAZIONE GRECA do, che è
nascosto e che costituisce il vero e unico significa to del segno: è la
scoperta di questo secondo senso, scartan do il primo, che qui chiamiamo
interpretazione secondo il modo enigmatico. Invece l'uomo coinvolto
nell'interpreta zione, data la sua incapacità di attingere la sapienza divina,
compie proprio il gesto contrario, scartando la possibilità di un senso non
letterale. Vi sono tuttavia diverse forme dell'errore di interpreta zione. (i)
La prima consiste nella incapacità di assegnare un senso al testo, o meglio, di
adeguarlo a circostanze reali no te: non si trovano oggetti a cui le parole
della profezia pos sano essere riferite e il testo appare totalmente assurdo.
(ii) La seconda forma di errore consiste nel riferire la profezia a oggetti
reali, ma erroneamente identificati; ve ne sono due sottospecie, a seconda che
l'errore sia dovuto a una omoni mia o a un equivoco (e quest'ultimo è
ulteriormente suddi visibile). Tutto ciò può essere illustrato mediante il
seguente schema: Interpretazione secondo
il modo enigmatico ~l et t e r a l e n o n se n so sen~ so errato per
omonlmia per equivoco errate scambio assunzioni di prospettiva di
credenza 2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLAR.I 43 Vediamo ora
alcuni racconti oracolari in cui sono esem plificate queste modalità di
errore. L'incapacità di assegnare un senso al testo profetico si ha in vari
racconti nei quali vengono utilizzati meccanismi re torici, tra cui alcuni di
tipo metaforico. È naturale che, quando il veicolo metaforico viene
interpretato "letteral mente", si ottenga una assurdità sul piano
del senso, a me no che non si immagini un mondo possibile, diverso da quello
reale, in cui i muli possano diventare re dei Medi e gli araldi siano dipinti
di rosso. Il consultante, che prende in considerazione soltanto il mondo reale,
si trova in difficoltà ad assegnare un senso e una denotazione a testi
siffatti. Ma vediamo che cosa succede nel primo di questi racconti. È Erodoto a
narrarci la storia degli abitanti deli'isola di Sifno, i quali, essendo giunti
a un notevole grado di ricchez za con le loro miniere d'oro e d'argento,
decisero di consul tare l'oracolo di Delfi per sapere se avrebbero potuto con
servare a lungo la loro prosperità. La Pizia rispose: "Ma quando, a Sifno,
il pritaneo sarà bianco e bianco il bordo della piazza pubblica, allora c'è
bisogno di un uomo accor to per guardarsi dall'agguato di legno e dall'araldo
rosso" (Herod., Hist. , III, 57). La storia continua narrando del
l'arrivo di una nave dei Sami, della loro ambasceria per chiedere denaro e del
saccheggio che questi ultimi fanno dell'isola dei Sifni. Erodoto sottolinea
l'incapacità manifestata dai Sifni di dare un senso al testo ("l Sifni non
furono capaci di com prendere l'oracolo"); per loro il testo, e in
particolare, si presume, le espressioni "agguato di legno" e
"araldo ros so", sono prive di senso, perché appunto essi si fermano
a un livello letterale di interpretazione. In realtà il dio gioca con vari
meccanismi tropici: innan zitutto con una doppia enallage1 1 (è il legno [ =
nave] che anticamente è rosso, come spiega Erodoto, ed è l'araldo [ = gli
ambasciatori] che organizza un agguato), complican do poi il testo con
meccanismi metonimici (legno per nave, il singolare araldo per il plurale
ambasciatori). Un secondo esempio di mancata comprensione si trova in un
episodio di quel lungo e complesso "romanzo oracolare" 2 . LA
DIVINAZIONE GRECA t·hc l·:rodotodedicaaCreso,quandoquest'ultimochiedeal l '
oracolo di Delfi se la sua monarchia sarebbe durata a lun o . La Pizia
risponde: "Quando un mulo sarà re dei Medi, allora, Lidio dai piedi
delicati, fuggi lungo l'Ermo sassoso, non indugiare e non temere di essere
vile" (Herod., Hist., l, 55). Anche in questo caso, l'interpretazione che
viene data alla profezia sceglie il senso letterale: Creso ritiene, di con
seguenza, impossibile che venga a verificarsi uno stato di cose che soddisfi
alla descrizione della frase "un mulo sarà re dei Medi"; la
conclusione che egli trae da questa impossi bilità è che sia altrettanto
impossibile che il suo regno abbia una fine. Sarà poi il dio stesso a spiegare
al re il suo gioco metafo rico, quando ormai i fatti si saranno compiuti e
Creso sarà caduto sotto la dominazione dei Persiani . Il "mulo" è, in
ef fetti, Ciro, e il passaggio è mediato dalla proprietà "sangue
misto", che è condivisa sia dal termine metaforizzante sia dal termine
metaforizzato: ·sangue misto• / Tanto maggiore è la cecità di Creso se si pensa
che l'ele mento comune è doppiamente esemplificato in Ciro, in quanto figlio
"di madre nobile e di padre di oscuro lignag gio" e "di madre
meda e di padre persiano", come il testo di Erodoto non manca di
sottolineare. Vale la pena di rilevare che l'interpretazione del senso fi
gurato è un'operazione realmente più difficile di quello che si potrebbe
immaginare, fatto che giustifica in qualche ma niera gli insuccessi dei
consultanti. Essa è legata a cono scenze enciclopediche locali, oltre che ai
meccanismi retori ci che su quelle conoscenze si applicano. Ciò è tanto più ve
ro se si considera che è impossibile anche per il lettore mo derno fornire
l'interpretazione del testo profetico quando il testo letterario non ci informa
sulle relative porzioni di enciclopedia. Ciò avviene, a esempio, nel racconto
oracolare di Arcesilao (Herod., Hist., IV, 163-164) in cui, accanto a scambi
metaforici tra "anfore" e "uomini", tra "torri" e
"forni" che vengono spiegati dal prosieguo della narrazio ne,
compare l'espressione "il tuo più bel toro" che rimane inspiegata ed
è anche per noi incomprensibile. Vediamo ora il caso in cui il testo appare
interpretabile secondo un percorso di senso letterale, in cui cioè sia rin
tracciabile un corso di eventi corrispondente a esso, senza però essere quello
inteso dalla profezia. Consideriamo in particolare il caso in cui l'errore
interpretativo sia dovuto a omonimia. Questo meccanismo, accompagnato dal
costante frain tendimento, caratterizza l'intero romanzo oracolare di Cambise.
Si tratta di una storia in cui i vari segni si collega no tra di loro in una
catena di rimandi interni. Questa storia ha inizio con un sogno: Smerdi
(fratello di Cambise) era già tornato in patria (la Persia) quando Cambise ebbe
in sogno questa visione: gli parve che un messo, giunto dalla Persia, gli
annunciasse che Smerdi, seduto sul trono regale, toccava con la testa il cielo.
Temendo perciò che il fratello meditasse di ucciderlo per impadronirsi del
regno, mandò in Persia Prexaspe, che gli era fedelissimo fra tutti i Per
siani, a uccidere Smerdi. (Herod., Hist., III, 30) Dopo parecchi paragrafi, in
cui la storia continua narran do le stravaganze e le crudeltà di Cambise, ci
viene raccon tata la ribellione in Persia dei due fratelli Magi, uno dei quali,
che si chiamava anch'esso Smerdi, era stato collocato sul trono. Quando Cambise
viene a conoscenza di questo fatto, comprende il vero senso del sogno. Ma la
storia non finisce qui: Dopo che ebbe pianto e si fu afflitto di tanta
sciagura, Cambise balzò a cavallo per muovere al più presto verso Susa contro
il Mago; ma, mentre saliva in arcione, gli cadde il puntate del fo dero della
spada, che rimasta nuda lo ferì alla coscia. Colpito così nello stesso punto in
cui aveva trafitto il dio egizio Api, il 2. LA DIVINAZIONE GRECA fl\
iudicando mortale la sua ferita, domandò ancora come si chiarnassc la città
dove si trovavano e gli risposero che si chia rnava Ecbatana. Ora, molto tempo
addietro, a lui che l'aveva consultato, l'oracolo di Buto aveva risposto che
sarebbe morto ad Ecbatana ed egli aveva interpretato che sarebbe morto, vec
chio, ad Ecbatana di Media, dove aveva tutti i suoi beni, men tre l'oracolo
aveva inteso di indicare Ecbatana di Siria. Pertan to Cambise, come ebbe
saputo il nome della città, sotto il dupli ce colpo della rivolta del Mago e
della ferita, rinsavì e, com prendendo finalmente il divino responso, esclamò:
"Qui è desti no che muoia Cambise, figlio di Ciro". (Herod., Hist.,
III, 64) La rivolta del Mago e la ferita sono, più che avvenimenti, dei segni,
in quanto permettono a Cambise di accedere alla conoscenza, di comprendere,
finalmente senza più ambigui tà, l'oracolo, di non rimanere più prigioniero
dei giochi di parole: la rivolta che gli fa capire la differenza tra Smerdi suo
fratello e Smerdi Mago; la ferita mortale, la differenza tra Ecbatana in Media
ed Ecbatana di Siria. Infine c'è l'ulteriore caso di errata interpretazione a
cau sa di un equivoco, non strettamente linguistico, e che può essere di varia
natura. L'equivoco più famoso di tutta la letteratura oracolare greca è
senz'altro quello di cui cade vittima Edipo. Come noto, durante un banchetto
Edipo viene insospettito dalle insinuazioni fatte da un convitato circa la sua
paternità e decide allora di interrogare il dio della sapienza, il quale gli
predice che ucciderà il padre e che si congiungerà con la ma dre (Soph.,
Oedipus tyrannus, 787-798). L'equivoco riguar da le assunzioni di crede...zza:
Edipo non sa che i suoi veri genitori sono Laio, re di Tebe, e Giocasta, ma
crede che sia no Polibo, re di Corinto, e Merope; per questo, al fine di
stornare gli avvenimenti predetti dall'oracolo, si allontana da Corinto per
andare in direzione di Tebe, e compie, così, inconsapevolmente, proprio il
destino che gli è stato annun ciato. Altre volte l'equivoco riguarda lo
sca1nbio diprospettiva. Il caso emblematico è quello di Creso che manda a
consul tare congiuntamente l'oracolo di Delfi e quello di Anfiarao 46
2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARJ 47 per sapere se dovesse fare
guerra ai Persiani. I due oraco li, concordemente, predicono che "se
avesse mosso contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande impero"
(Herod., Hist., l, 53). Creso interpreta il responso come facente rife rimento
alla distruzione dell'impero dei Persiani, mentre, come si scopre in seguito,
sarà proprio il suo impero a subi re tale destino. A sviare il re dalla giusta
interpretazione in terviene un meccanismo semiotico implicito: l'assunzione di
Creso che, dal momento che l'oracolo è rivolto a lui, anche il dio assuma la
sua prospettiva. E, ovviamente, nella pro spettiva di Creso, il grande impero
da distruggere non può che essere quello persiano. Si incomincia a intravedere
in questo esempio, più che nei precedenti, una caratteristica che è tipica
deli'enigma: una fortissima carica aggressiva, potenzialmente distrutti va, da
parte del dio nei confronti dell'uomo quando gli po ne un problema
interpretativo da risolvere. Una conferma si trova nel racconto analogo in cui
l'ora colo di Delfi predice agli Spartani che misureranno la terra di Tegea
con le funi (Herod., Hist., l, 66). Gli Spartani in terpretano il riferimento
alle funi come indicante Patto di misurare le terre per distribuirle ai
conquistatori e, di conse guenza, fanno una spedizione contro Tegea. In realtà
esse sono inserite in un altroframe o sceneggiatura (Eco 1984), in quanto
serviranno agli Spartani , ridotti in schiavitù dopo la sconfitta, per misurare
le terre che dovranno lavorare. L'attributo con cui viene qualificato il
responso è klbd los che, nel suo senso traslato, significa
"ambiguo", "fal so", "ingannevole", ma nel suo
senso base fa riferimento alla carica estranea che adultera il metallo
prezioso. Ciò che ne risulta, come nei casi presi in considerazione, è la com
mistione di due metalli, uno buono e uno non, che fa lucci care come oro ciò
che oro non è. Analogo meccanismo, infine, si trova negli aneddoti, ri portati
da Diodoro Siculo (Biblioteca, XVI, 91-92; XX, 29), nei quali viene annunciato
a un generale che pranzerà o alloggerà nella città che sta assediando; queste
cose si verifi cheranno, ma la prospettiva non sarà quella del vincitore bensì
quella del prigioniero. 48 2. LA DIVINAZIONE GRECA 2.4 Il segno come
sfida: divinazione ed enigma Abbiamo accennato alla carica di aggressività che
si cela dietro al segno oscuro. Questo aspetto collega immediata mente il
segno divinatorio all'enigma vero e proprio, an ch'esso oscuro e insolubile e,
mitologicamente, espressione della sfida che la divinità lancia ali'uomo. È
stato Colli ( 1 975 : 1 8) a mettere in luce il rapporto tra la divinazione,
l'enigma e l'altra faccia di Apollo, quella mi nacciosa e distruttrice. 1 2
Apollo, infatti, non è soltanto di vinità benefica che dona agli uomini l'arte
mantica e la me dicina: egli è anche il dio della freccia e dell'arco. Queste
in dicazioni assumono un valore direttamente semiotico quan do si scopre che
la freccia di Apollo e il segno oscuro sono non due cose diverse, ma due mezzi
di espressione della me desima potenza del dio e che possono avere anche lo
stesso funzionamento, come si può inferire da un passo di Pinda ro (0/ymp.,
II, 83-85). Il vero destinatario delle frecce di Apollo è l'uomo in quanto
interprete. Fuori dal linguaggio figurato l'uomo-in terprete raccoglie una
sfida che il dio, con intenzione ostile, gli lancia; e, dagli esempi stessi che
abbiamo visto nei rac conti oracolari, si è potuto notare che il non riuscire
a vin cere questa gara con il dio, cioè non riuscire a interpretare il segno
oscuro, conduce alla rovina. Non sembrano esserci, a questo punto, più dubbi
sulla relazione assolutamente stretta tra segno divinatorio ed enigma. Ciò
viene confermato anche da un'analisi diacroni ca del "genere"
enigma, che nasce proprio all'interno della sfera religiosa della divinazione
con i due ben precisi carat teri dell'ostilità divina nei confronti dell'uomo
e dell'aspet to di sfida a una gara. Lentamente l'enigma si staccherà dal
contesto sacro per dare origine a una sua storia evolutiva, nel corso della
quale attenuerà, pur conservandone traccia, i caratteri iniziali. La storia
deli'enigma è la storia stessa dell'interpretazione intesa come gara, fino ad
approdare al l'idea di interpretazione come confronto dialettico tra due
opinioni opposte. Può essere interessante per il nostro discorso, inteso
a 2.4 n SEGNO COME SFIDA 49 enucleare l'aspetto del segno divinatorio
come dispositivo scatenatore di interpretazione, seguire alcune delle fasi più
salienti dell'evoluzione deli'enigma. Come noto, il primo e più celebre esempio
di apparizione dell'enigma in un contesto sacro è quello presente nel mito
della Sfinge. La creatura mostruosa mandata da Apollo im pone agli abitanti di
Tebe l'enigma sulle tre età dell'uomo. La posta in gara è la vita: chi non
riesce a risolverlo è divo rato dalla Sfinge; chi invece lo risolve - e il
solo Edipo ne è capace - fa precipitare la Sfinge nell'abisso. Ma nella prima
evoluzione deli'enigma, già in età arcai ca, la lotta tra un personaggio
divino e uno umano, si spo sta a quella tra due personaggi umani, che però
conservano ancora un aggancio con la sfera del sacro in quanto sono due
divinatori. Questa fase è illustrata dall'aneddoto di Strabone sulla gara tra
Calcante e Mopso. Calcante propo ne a Mopso di "indovinare" quale è
il numero di frutti che porta un fico selvatico che si trova sul loro cammino.
Mop so dà una risposta estremamente dettagliata ("Sono dieci mila di
numero, la loro misura è un medimno, ma uno di questi fichi è di troppo e non
rientra nella misura") di fron te alla cui esattezza Calcante viene
colpito da un "sonno di morte" (Geogr., VI, 232-235). Di fronte alla
sapienza, ancora di origine divina, dei due personaggi, anche il contenuto
dell'enigma passa in secon do piano, come dimostra la banalità deli'oggetto
che deve essere scoperto. È, del resto, la stessa irrilevanza contenuti stica
che si poteva notare nell'enigma della Sfinge, cosi sproporzionato rispetto ai
rischi mortali che comportava. Tuttavia, nel passaggio ulteriore, quando
l'enigma si umanizza completamente, anche il suo testo assume un as setto
formale elaborato, basato sulla formulazione di una contraddizione che, anziché
non designare niente (come av viene di norma in un caso del genere), designa
altresì qual cosa di reale. Questa forma la si trova nella leggenda ri
guardante la morte di Omero: Omero interrogò il dio per sapere chi fossero i
suoi genitori e quale la sua patria; e il dio così rispose: "L'isola di lo
è patria di 2. LA DIVINAZIONE GRECA tua madre, ed essa ti accoglierà
morto; ma tu guardati dall'e nigma di giovani uomini [. . . ]" . Giunse
ad Io. Qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano alla
riva e chiese loro se avessero qualcosa. Quelli, poiché non avevano pescato
nulla, ma si spidocchiavano, per la mancanza di pesca, cosi risposero:
"Quanto abbiamo preso l'abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo
portiamo", alludendo con un enigma al fatto che i pidocchi che avevano
preso li avevano uc cisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso li
portava no nelle vesti. Omero, non essendo capace di risolvere l'enig ma,
morì per lo scoramento. (Arist., Dept., fr. 8) Nel frammento compaiono ancora
gli elementi dell'enig ma che abbiamo già incontrato: la sfida circa un
oggetto di conoscenza e il rischio mortale per il sapiente che non si di
mostra in grado di risolvere l'enigma; ma in più compare la forma elaborata di
una contraddizione, che da allora sarà tipica di questo genere. Più
precisamente compaiono due coppie di determinazioni contraddittorie
"abbiamo preso - non abbiamo preso" e "abbiamo lasciato -
portiamo", che possono essere così disposte sul quadrato logico: 50
·abbiamo preso· CONTRARI {non abbiamo fasciato = ) ·portiamo· ·non abbiamo
preso'" SUB CONTRARI ·abbiamo fasciato• 2.5 AGONISMO,
DIALETTICA, RETORICA 51 Ciascun singolo termine della prima coppia di contrad
dittori ("abbiamo preso"/"non abbiamo preso") entra in
relazione di congiunzione con un singolo termine della se conda coppia
("abbiamo lasciato"/"portiamo"), ma in mo do diverso da
quello che ci si attenderebbe intuitivamente (cioè "quanto abbiamo preso,
lo portiamo" e "quanto non abbiamo preso, l'abbiamo lasciato").
Invece nell'enigma ri sultano congiunti termini che logicamente sono in opposi
zione contraria: "quanto abbiamo preso, l'abbiamo lascia to" e
"quanto non abbiamo preso, lo portiamo". Eppure l'enigma non è, come
sappiamo, assurdo. Il sapiente, che domina la ragione, deve essere in grado di
sciogliere questo groviglio problematico. Umanizzandosi completamente, l'enigma
mette in evi denza l'aspetto competitivo, di gara per la sapienza, e si sta
bilizza sulla forma della contraddizione apparentemente in solubile.
L'ulteriore e ultima tappa di questa evoluzione conduce, secondo l'ipotesi di
Colli (1975), alla nascita della dialet tica. 2.5 Agonismo , dialettica,
retorica La dialettica, nel senso antico del termine, nasce infatti sul terreno
stesso dell'agonismo: essa si presenta come di scussione tra due persone su un
qualsiasi argomento cono scitivo; su questo campo comune si instaura una gara
desti nata a far emergere un vincitore. L'andamento generale della discussione
segue questo schema (Arist., Top.): inizialmente, lo sfidante propone una
domanda in forma alternativa, presentando i due corni di una contraddizione.
L'avversario sceglie uno dei due cor· ni e ne sostiene la verità. A questo
punto lo sfidante deve dimostrare come vera l'altra alternativa e cosi
confutare l'affermazione dell'avversario. Naturalmente il procedi mento può
richiedere anche una serie molto lunga e artico lata di successive domande e
risposte, miranti, in maniera diretta o, per lo più, indiretta, alla
dimostrazione. 52 2. LA DIVINAZIONE GRECA Al suo nascere, però, il
linguaggio dialettico è limitato a un ambiente ristretto e in qualche modo
elitario. l)ccisi vi cambiamenti sono, tuttavia, destinati a verificar si con
l'accrescersi della cultura ad Atene e con il definitivo affermarsi del regime
democratico; infatti le forme della dialettica entrano nella sfera pubblica e
si connettono con il mondo politico. Così la discussione si allarga indefinita
mente e la dialettica, in una sua forma in qualche modo adulterata, si
trasforma in retorica. Dialettica e retorica sono basate entrambe su un forte
spirito di competizione. Tuttavia ciò che le distingue è che, nella prima, non
c'è bisogno di un giudice per assegnare la palma della vittoria a uno dei due
contendenti: la vittoria di uno dei partecipanti risulta dalla discussione
stessa, in quanto, durante lo sviluppo del dibattito, l'avversario ha
contraddetto la tesi che prima affermava. Nel caso della re torica, invece,
l'agonismo è molto più diretto e acceso, in quanto saranno gli ascoltatori a
giudicare quale è stato il migliore discorso; manca nella retorica una sanzione
intrin seca (come c'è nella dialettica) e per questo deve aggiungere un
elemento emozionale, legato all'intento persuasivo. 2.6 Divinazione e
interpretazione persuasiva Il processo evolutivo che abbiamo descritto è
iniziato con il segno divinatorio come sfida conoscitiva posta dal dio al
l'uomo ed è approdato, nel punto del suo massimo allonta namento, alla
competizione conoscitiva della dialettica e della retorica. Ma proprio a questo
punto il cerchio sembra chiudersi tornando al punto iniziale, con
l'introduzione, ali'interno della divinazione stessa, dei metodi della
discussione dialet tico-retorica. È molto indicativo , a questo proposito , un
passo di Ero doto, in cui assistiamo a una sorta di conciliazione appunto tra
la divinazione, con la sua tipica concezione deterministi ca del mondo, e
l'eloquenza politica, legata a una visione mobile della vita, che sottopone
ogni cosa a una incessante 2.6 DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA
53 discussione. Egli infatti narra che gli Ateniesi, trovandosi di fronte alla
minaccia di una invasione persiana, mandarono a Delfi degli ambasciatori per
consultare l'oracolo. Ma, in un primo momento, la Pizia li affrontò con
l'annuncio di gravissime sciagure. Costernati, senza però darsi per vinti, gli
Ateniesi sollecitarono una seconda consultazione, im plorando un responso più
favorevole e stabilendo di non muoversi più dall'oracolo fino a che non
l'avessero ottenu to. La Pizia accettò di emettere un secondo responso: Zeus
concede a Tritogenia (Atena) che solo un muro di legno sia inespugnabile, il
quale salverà te e i tuoi figli. Non aspettare, inerte, la cavalleria e le
forze di terra che arrivano in massa dal continente, ma ritìrati, volgi le
spalle; verrà il giorno in cui po trai tenere testa. O divina Salamina, farai
perire figli di donne, o quando si semina o quando si raccoglie il frutto di
Demetra. (Herod., Hist., VII, 141) Il racconto d i Erodoto mostra chiaramente
come i l segno divinatorio, il responso oracolare, innanzitutto non venga accolto
con atteggiamento fatalistico. l messaggeri non si accontentano del primo
responso, ma sfidano a loro volta il dio, minacciando di non muoversi dal
santuario fintanto ché non abbiano indotto il dio a mitigare il suo atteggia
mento ostile. Ma, ciò che è più interessante, il testo erodo teo mostra bene
come il segno oracolare sia sottoposto a una discussione. Infatti i messaggeri,
una volta ottenuta la risposta, la trascrivono e ripartono alla volta di Atene
per riferire il responso all'Assemblea. La forma della discussione che si
svolge davanti aiPAs semblea è quella tipica della dialettica. Il segno oscuro
sca tena un processo interpretativo che prevede varie possibilità di percorso.
Ma, anzitutto, dialetticamente, si presenta co me una dicotomia tra due
soluzioni opposte e mutualmente escludentisi: (i) ritirarsi sull'acropoli,
anticamente fortifica ta con una palizzata, perché a essa alludeva il dio con
l'e spressione "muro di legno"; (ii) allestire una flotta, perché il
dio intende riferirsi (sma(nein), con quella espressione enigmatica, a una
barriera di navi. 54 2. LA DIVINAZIONE GRECA Ciascun corno della
contraddizione è fatto proprio da un gruppo: (i) "alcuni anziani"
(affiancati dai cresmologi) so stengono il primo termine; (ii)
"altri" (tra i quali compare Temistocle) assumono il secondo. Per ora
siamo solo alla presentazione del problema: è poi necessario sviluppare una
dimostrazione che porti a contraddire una delle due tesi. La discussione segue
il secondo corno del dilemma; è co me se si dicesse: "Ammettiamo che
l'interpretazione giusta sia quella che consiglia di allestire una flotta.
Quale con traddizione comporta questa interpretazione?". I cresmologi
fanno notare, a questo punto, che accettare il secondo corno del dilemma
comporta una contraddizione con quella parte del testo che predice a Salamina
di divenire causa della morte di molti uomini. Accettare la giustezza di questo
sottoproblema posto dai cresmologi comporterebbe l'autoconfutazione della tesi
principale. Si è però nel frattempo verificato uno spostamento del li vello
tematico della discussione: a questo punto, per avere ragione sulla tesi dei
cresmologi, è sufficiente dimostrare in.. fondata la loro obiezione. È appunto
quello che fa Temistocle, negando che l'obie zione dei cresmologi comporti una
reale contraddizione. E anche in questo caso il ragionamento procede per
assurdo e prende in considerazione una questione di prospettiva: se infatti
avessero ragione gli avversari con il dire che Salami na (metonimia per "battaglia
con la flotta") avrebbe causa to morte agli Ateniesi, e se anche questa
seconda parte della profezia fosse rivolta, come la prima, ancora agli
Ateniesi, il dio non avrebbe attribuito all'isola l'epiteto di
"divina", ma di "sventurata". In altre parole, c'è contraddizione
tra l'epiteto "divina" usato per Salamina e la morte degli Ate
niesi. Dunque questa seconda parte del responso, contenen te una predizione di
morte, deve essere intesa come rivolta ai nemici. Non sfuggirà che in questa
seconda fase della discussione il metodo dialettico va impercettibilmente
sfumando in quello più propriamente retorico. Conclusivamente Temistocle
propone una interpretazio ne che tende più a persuadere in positivo della
validità del 2.6 DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 55 proprio
ragionamento che non a dimostrare la falsità della tesi fondamentale degli
avversari. Infine interviene il giudi zio dell'uditorio, elemento fondamentale
appunto del di scorso retorico, per sancire la vittoria di uno dei due con
tendenti. Il testo dice che gli Ateniesi "giudicarono preferì bile
(hairetbtera)" la spiegazione di Temistocle rispetto a quella dei
cresmologi. Al discreto della logica binaria del l'alternativa dialettica,
succede il continuo della logica gra duata del preferibile. La discussione può
aver fatto perdere di vista che oggetto di dibattito è un vaticinio del dio di
Delfi. Ma non a caso. La logica, appunto, che viene fatta intervenire
neli'interpre tazione del responso divinatorio è esattamente la stessa che
guida le assemblee politiche. E del resto non è senza significato il fatto che
in questo contesto gli avversari di Temistocle siano dei
"cresmologi", cioè interpreti specializzati dei responsi divini, ed è
notevole che essi risultino sconfitti: è la conferma paradigmatica di come
nella Grecia della polis sia la razionalità politica a im porre i suoi metodi
alla divinazione e non viceversa. In definitiva, il carattere di oscurità
attribuito al segno divinatorio rende un ottimo servigio ali'orientamento fon
damentalmente orale e dialettico della cultura greca: con ferma il segno
stesso come dispositivo scatenatore di inter pretazioni, da sondare con la
procedura del confronto tra discorsi contrapposti. Il segno rinvia a una realtà
altra da sé, nascosta e ambi gua, ma alla quale si può arrivare se ci si
impegna in un confronto tra interpretazioni contrastanti: procedura che, lungi
dali'essere paralizzante, è invece stimolante e produt tiva. In questa
prospettiva il segno divinatorio si allontana da quelle che erano due sue
caratteristiche fondamentali, cioè il primato della visione e la concezione
della verità come ri velazione: la verità come a-ltheia, intesa come caduta
dei veli che la tenevano nascosta (lanthano). 1 3 Nel passo di Erodoto non sono
gli indovini con la loro vi sione panoptica a rivelare il senso nascosto del
segno: esso prende qui luce dalla congettura (che in Erodoto è sempre 56
2. LA DIVINAZIONE GRECA espressa dal verbo symba/10 e dai suoi derivati,
equivalente al più diffuso tekmafroma1). E saranno proprio la congettura e
l'abbandono della vi sione che permetteranno di far evolvere il segno dal
campo della divinazione a quello della scienza vera e propria. SEGNI E PROCESSI
SEMIOSICI NELLA MEDICINA GRECA 3.0 Introduzione Ci siamo finora interessati
dell'ampio e magmatico cam po della divinazione, dove abbiamo visto emergere
le prime pratiche semiosiche, connesse, nella cultura greca, con la nascita
stessa di un pensiero sapienziale. Ci occuperemo ora dell'altra grande area di
manifestazione di un pensiero se mioticamente orientato, che sorge prima e in
maniera indi pendente dalla ricerca filosofica in senso stretto: la medici na
greca. In quest'area, accanto alla presenza fondamentale dei processi
semiosici, si possono registrare anche le prime vere e proprie elaborazioni
teoriche intorno al segno e all'infe renza (Vegetti 1976: 49 ss.). In seguito,
la riflessione semio tica sarà consegnata direttamente alla filosofia e alla
retori ca; ma ampie tracce delle origini rimarranno sia negli esempi che
filosofi e trattatisti di retorica sceglieranno per illustrare il segno (esempi
spesso di carattere medico, talvol ta fisiognomico) sia nella scelta di un
modello di funziona mento logico del segno secondo lo schema "Se p,
allora q", che abbiamo visto operante nella divinazione e che vedremo
trasposto nella medicina con diversi contenuti, ma con eguale forma. A
differenza della divinazione, per la quale disponiamo di testimonianze per lo
più indirette e disorganiche, la medi cina greca può contare su una ricca
documentazione, rap presentata in particolare dal Corpus Hippocraticum, 1
un 58 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA insieme abbastanza ampio e vario di
testi (circa un centi naio) in cui si trovano illustrate le pratiche e le
teorie medi che del V e IV secolo a.C. Tali testi non appartengono a un unico
autore, come la tradizione aveva indotto a credere, attribuendoli a Ippocrate,2
né a un'epoca circoscrivibile con la vita di un uomo. Sono invece presenti
all'interno del C.H. opere con diverse finalità ed3esprimenti indirizzi di
versi nel campo del sapere medico. Tuttavia, nonostante la disomogeneità che è
dato riscon trare all'interno del C.H., è possibile vedere nello studio della
medicina del V e IV secolo uno dei più importanti campi di indagine del
pensiero greco, che si affianca sen z'altro alla ricerca filosofica e alla
storiografia coeve e che intrattiene con esse dei rapporti fecondissimi di
interscam bio. È noto il giudizio di Werner Jaeger, secondo cui il pen siero
socratico non sarebbe stato possibile senza le opere ip pocratiche,4 ed è
stato sottolineato il debito che la storio grafia scientifica, inaugurata da
Tucidide nell'ultimo scor cio del V secolo, ha contratto nei confronti della
téchn ip pocratica. Ciò che la medicina aveva da offrire tanto alla filosofia
quanto alla storiografia era un modello di sapere specifica mente semiotico,
articolato sul doppio livello rappresenta to, da una parte, da una solida
struttura formale (il loghi smos, cioè il ragionamento inferenziale, nei suoi
due mo menti abduttivo e deduttivo) e, dall'altra, da un orienta mento di
base empirico.6 Come vedremo meglio in seguito, il segno medico costi tuisce
proprio il prodotto del ragionamento inferenziale ap plicato alla ricorrenza
dei fenomeni, i quali in tanto acquisi scono senso, divenendo segni, in quanto
sono riconducibili appunto al loghismos. 3.1 Ambiguità della prognosi A
differenza del medico moderno, che legge i segni in funzione della diagnosi, il
medico antico elaborava il suo ragionamento in funzione della prognosi. Un
intero trattato 3. l AMBIGmTÀ DELLA PROONOSI 59 del C.H. , Ilprognostico,
è specificamente dedicato a questo problema. Eccone il passo iniziale e
programmatico: Quanto al medico, mi sembra che la cosa migliore sia che egli
pratichi la previsione; infatti, con una conoscenza e dichiara zione
preventiva, di fronte ai malati, dei loro casi presenti, pas sati e futuri, e
con una puntuale esposizione di quanto gli infer mi tralasciano di dire, egli
conquisterà maggiore fiducia di po ter conoscere le condizioni dei malati,
così che gli uomini si ri solvano ad affidare se stessi al medico. (cap. 1)7
Dal passo si può osservare che la prognosi non è concepi ta come previsione di
eventi soltanto futuri, ma coinvolge anche elementi di conoscenza che
riguardano sia il presente sia il passato:8 il medico deve avere la capacità di
descrivere anche quei sintomi, o quei fatti in generale, che gli ammala ti
tralasciano di esporre. Dal procedimento descritto nel Prognostico non sono
assenti scopi chiaramente manipola tori: dicendo ciò che sfugge ai malati, il
medico mira ad ac quistare maggiore credito presso di loro per persuaderli ad
affidarsi alle sue cure. È interessante che una procedura che vuole presentarsi
con i crismi della scientificità e dell'obiet tività, si ponga non tanto lo
scopo del rispecchiamento del la realtà (nosologica in questo caso), ma quello
della sua manipolazione. II discorso del medico è fatto, in questo ca so,
anche di "segni efficaci" come uello della retorica in cantatoria di
Gorgia o della magia. Del resto, la formula con il triplice riferimento al
passa to, al presente e al futuro, che non costituisce un caso isola to, ma
ricorre a esempio anche in Epidemie l (come pure, per definire la medicina, nel
Lachete platonico, 198 d), spinge a istituire un parallelo con l'analoga
formula usata per individuare il procedimento divinatorio (Brtescu 1 975: 46) .
1 0 D'altra parte, se per un verso si possono riscontrare ele menti comuni tra
la medicina e la divinazione, per un altro molti degli scritti medici del C.H.
sottolineano esplicita mente e con forza la distanza e i punti di divergenza.
A 60 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA esempio l'autore del libro Il regime
nelle malattie acute (cap. 8) polemizza contro le pratiche discordanti dei
cattivi medici, paragonandole alle pratiche di interpretazione divi natoria.
L'attacco sferrato alla divinazione è su base semiotica: il segno divinatorio è
ambiguo, può significare due cose dia metralmente opposte, e perciò è lontano
da quel piano di oggettività al quale aspira la scienza medica. Anche l'autore
del Prorretico II si scaglia contro i cattivi medici criticando le loro
predizioni miracolose, che li rendono simili agli in dovini, e contrappone
orgogliosamente il proprio metodo basato sui segni umani e sulla congettura:
Per parte mia non farò affatto delle divinazioni del genere (ou manteU.somat),
ma scriverò i segni (smeia) attraverso i quali si deve congetturare (tekmafresthat),
tra i malati, quali guariran no e quali moriranno, quali guariranno e quali
moriranno in poco o in molto tempo. (cap. l) L'inferenza divinatoria
(manteuein) è direttamente con trapposta alla congettura (tekmairesthaz). La
violenza con cui i medici polemizzano contro la divinazione e la netta presa di
distanza rispetto a essa è sicuramente indizio del fatto che essi tentavano di
imporre un nuovo e autonomo paradigma epistemologico, una "semiotica
profana"; ma è indizio, anche, del fatto che il rischio di confusione o di
fraintendimento era ancora presente. Sotto certi aspetti la medicina
ippocratica appare effetti vamente come la continuazione di una medicina
preceden te, popolare e antichissima, impostata su basi magiche (Parker 1983:
213 ss.). Certi settori della terminologia de nunciano chiaramente questa
situazione: Pimportanza cen trale, nel C.H., della katharsis
("purificazione") rimanda alle purificazioni magiche dello
iatr6mantis "medico-indo vino" e dei purificatori apollinei come
Epimenide e Bacide; lo stesso termine che indica il medicamento, pharmakon, era
in origine impiegato per indicare ciascuno dei due citta dini di Atene che
regolarmente il 6 di Targelione, o anche in 3.2 MEDICINA E SEMIOTICA
MAGICHE 61 caso di pestilenze, erano sottoposti a osservanze rituali, fla
gellati e scacciati dalla città e forse uccisi, per adempiere a una cerimonia
di purificazione (Lanata 1967: 45). Proprio per questi motivi il tentativo di
autodifferenzia zione dei medici ippocratici rispetto al paradigma magico doveva
assumere toni molto accesi, come ci mostra uno dei trattati più interessanti
del corpus, il Male sacro. Poiché, dal punto di vista della storia della
semiotica, la medicina magica non è meno importante di quella laica,
dedicheremo il prossimo paragrafo a illustrare il suo paradigma. Dopodi ché
esporremo la critica di questo stesso paradigma quale ci viene presentata
dall'autorè del Male sacro. 3.2 Medicina e semiotica magiche Molte fonti
letterarie suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la divinazione e
per la medicina: entram be le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo
e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio (197
a): "In verità Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la
divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due
pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite
come originariamente collegate. E un effettivo stretto colle gamento esse lo
trovano nella figura antichissima dello ia tr6mantis, il medico-indovino, che
unisce in sé le facoltà di un veggente e la capacità di curare le malattie.
L'appellati vo iatr6mantis è riferito in prima istanza allo stesso Apollo; ma
passa poi a una serie di personaggi in vario modo legati al dio, che uniscono
al dono della mantica e della medicina, anche quello di effettuare delle
purificazioni. Un elemento fondamentale che caratterizza la figura del lo
iatr6mantis è la sua capacità di usare una procedura dia gnostica: trattandosi
di un veggente, egli è in grado di indi viduare la causa nascosta di una
malattia, causa che è da at tribuirsi sempre a un intervento soprannaturale.
In epoca antichissima la malattia è concepita infatti come miasma, come
contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità 62 3. I SEGNI NELLA
MEDICINA GRECA divina o demonica. 1 1 Per questa ragione c'è bisogno di un
medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono accessibile il
mondo delle forze oscure e soprannaturali alle quali è imputato il presente
stato di contaminazione; in se guito alla sua diagnosi, lo iatr6mantis può
indicare gli stru menti magici atti a purificare il miasma. Questa concezione
è ben iliustrata da una notizia di un autore di scuola pitagorica, Alessandro
Poliistore, che cita le Memorie pitagoriche: L'aria (secondo i Pitagorici) è
piena di anime; ed essi le conside rano demoni ed eroi e pensano che siano
essi a inviare agli uo mini i sogni e i segni premonitori (smefa) e le
malattie, e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli altri animali da
pa scolo; e a questi (demoni ed eroi) sono dirette le cerimonie ca tartiche e
apotropaiche e tutta la mantica e i vaticini e tutto ciò che è di tal genere.12
Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una se miologia sacra
abbinata a una medicina magica. I demoni sono la fonte delle malattie che
affliggono gli uomini; ma, contemporaneamente, sono anche la fonte
dell'informazio ne che concerne il mondo invisibile, inviando agli uomini i
segni (compreso quel particolare tipo di segno che sono i so gni) dai quali si
rende riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo
si chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a
produrre: i riti catartici e apotropaici. In particolare le cerimonie apotro
paiche sono costituite dalla recita di epOidal, cioè di formu le verbali
incantatorie, ritenute idonee a scongiurare il ma le: si tratta di segni
linguistici che da una parte chiudono il circuito comunicativo con il soprannaturale,
dall'altra sono "efficaci", nel senso che intendono agire sul mondo e
non rispecchiarlo. 3.3 La critica alla magia e alla semiotica sacra Prenderemo
ora in considerazione le critiche rivolte alla 3.3 LA CRITICA ALLA
SEMIOTICA SACRA 63 magia sul piano specificamente semiotico ed epistemologi
co. L'autore del Male sacro si muove sostanzialmente in due direzioni: l .
contrapporre alla nozione di "sacro" quel la di struttura naturale
(phjsis) e di causa razionale (pro phasis); 2. mostrare l'inconsistenza sul
piano logico del ra gionamento sotteso dalle procedure della medicina magica,
apponendovi un tipo di ragionamento inferenziale basato sul tekmérion (che qui
compare già con il senso di "prova", di "segno sicuro")
(cap. l). Ciò che l'autore del trattato vuole contestare è la conce zione di
un'origine divina della malattia; e questo vale tanto per il "male
sacro", cioè l'epilessia, quanto per qualunque altro tipo di morbo. Sotto
accusa è la nozione di "sacro'', come qualcosa che si riconduce all'intervento
divino. In ef fetti, il termine hier6s, anche se in greco si specializzò molto
presto in senso religioso, in origine non apparteneva alla sfera olimpica, ma
era legato a una concezione animistica: hier6s è tutto quello in cui si rivela
una vitalità prodigiosa e magica, e una malattia è sacra in quanto inviata da
una for za soprannaturale. Lo stesso termine iasthai, "curare" (da
cui iatr6s "medico"), originariamente doveva indicare un curare come
"un ristorare, un ridonare le forze attraverso appropriate operazioni
magico-mediche" (Ramat 1962: 20). In effetti, l'idea della malattia come
riconducibile a un intervento diretto "del piano verticale della
trascendenza su taluni punti di quello orizzontale della causalità
naturale" (Vegetti 1976: 291) appare mettere fuori gioco ogni idea di
regolarità dei fenomeni ed escludere, contemporaneamente, la possibilità di
controllo su di essi e di previsione. La no zione di "natura", che
l'autore del trattato contrappone a quella di "sacro", viene a
reintrodurre proprio la regolarità nel movimento di cause ed effetti, rendendo
possibile l'im postazione della medicina su basi scientifiche. Inoltre, se la
nozione di phjsis individua la struttura oggettiva e omoge nea di ricorrenze
tra cause ed effetti, quella, correlata, di pr6phasis (in altri casi aftion,
aitle) rimanda al momento della spiegazione del singolo fenomeno. 64 3. I
SEGNI NELLA MEDICINA GRECA 3.4 Le forme di argomentazione logica e il "tekmérion"
Tuttavia il punto di maggior forza dell'autore del Male sacro rispetto ai suoi
avversari consiste nelle modalità di ar gomentazione logica che adotta:
facendo un esplicito ricor so al tekmrion (''prova", "segno
sicuro") egli riesce a indi viduare delle contraddizioni interne al
sistema della medici na magica e a confutarla. Vediamone subito un esempio: E
v'è un 'altra grande prova (méga tekmrion) che questa non è più divina delle
altre malattie; insorge ai flegmatici per natura, ma non colpisce i biliosi:
mentre, se fosse più divina delle altre, in tutti ugualmente dovrebbe prodursi
questa malattia, senza distinguere tra biliosi e flegmatici. (cap. 2)13
L'argomentazione assume la forma rigorosa di quello che in seguito sarà
chiamato nzodus tollens, cioè "Se p, allora q; ma non-q; di conseguenza non-p''.
In altre parole l'autore del A-lale sacro ragiona così: "Se questa
malattia fosse più divina delle altre (p}, essa dovrebbe colpire
indistintamente tutti (q); ma questo non si verifica (perché colpisce i flegma
tici, ma non i biliosi) (non-q); ne consegue che essa non è più divina delle
altre (non-p)". Si deve rilevare che l'autore utilizza la non verità del
conseguente nel modus tollens (''che la malattia non colpisce
indiscriminatamente tutti") come segno (teknzérion "segno
sicuro", "prova") della non verità dell'antecedente (''che
l'epilessia non è più divina del le altre malattie"). Naturalmente
bisognerà aspettare Aristotele prima che il nzodus tollens come schema
ragionativo venga teorizzato e che venga fornita una definizione rigorosa di
teknzérion. Del resto, spetterà poi agli stoici di dare un'analisi formale di
questo schema argomentativo e di dire che ogni schema argomentativo deve essere
considerato come un segno. È in teressante, tuttavia, che già l'autore
ippocratico leghi l'e spressione tekmrion (che da Aristotele in poi assumerà
ine quivocabilmente il significato di "segno inconfutabile")
con 3.5 LA VISTA E OLI ALTRI SENSI 65 lo schema inferenziale del modus
tollens: logica e semiotica vengono già a trovare un punto di convergenza e di
saldatu ra. Saldatura che con gli stoici sarà totale. 3.5 La vista e gli altri
sensi Tuttavia la contrapposizione tra una semiologia sacra e una profana non
si basa soltanto sulla capacità, che la se conda possiede, di utilizzare un
ragionamento rigoroso e di fare ricorso a segni che si inquadrino in uno schema
logico inferenziale. Come ha mostrato Lanza (1979: 103), un altro importante
elemento di divergenza tra il paradigma divina torio e quello della medicina
ippocratica è dato dal diverso ruolo che la vista gioca nei processi di
conoscenza. Nella divinazione e nella medicina magica la vista ha una parte
fondamentale, in quanto è fonte primaria, e in qual che modo unica,
dell'attività conoscitiva. Non per niente Apollo, dio della divinazione, è
nelle parole di Pindaro co lui che possiede "l'occhiata che conosce ogni
cosa" (Pyth., III, 29): niente infatti è sottratto alla sua vista nel
passato, nel presente e nel futuro; a lui appartiene il "dominio del
tempo". L'uomo può conoscere solo ciò che contingente mente capita sotto
il suo sguardo. Solo l'indovino e il poeta possiedono una seconda vista, che
permette loro di vedere anche ciò che è al di là delle limitazioni cui sono
sottoposti i comuni mortali; per questo spesso i primi sono ciechi, per essere
ricettivi a questa vista; e un'analoga limitazione delle facoltà percettive si
verifica anche nell'attività onirica, du rante la quale la raccolta di stimoli
esterni si attenua fin quasi a scomparire.14 Tanto nel poeta quanto nell'indovi
no, poi, la visione si tramuta in parola, diventando il segno che supplisce
alla mancanza di presenza. Questa concezione comporta una dipendenza del segno
dalla divinità e una di cotomia tra ciò che è percepibile con la vista e ciò
che non lo è. Ma un primo superamento della dipendenza dalla divi nità per la
conoscenza dell'invisibile si ha nel famoso motto di Anassagora "Vista
dell'invisibile è ciò che appare" (6psis ad/On tà phainomena) (D-K, 59 B
21a). Il fenomeno viene 66 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA qui a sostituirsi
alla divinità. La vista tuttavia rimane cen trale. Caratteristicamente in un
trattato medico arcaico. Malattie delle donne, al cap. 60, si dice che
attraverso il dito il medico "vedrà" il modo di presentarsi del collo
dell'u tero. Certamente le opere del C.H. procedono sul cammino aperto da
Anassagora, ma contemporaneamente in esse il ruolo della vista perde di
importanza nel processo di cono scenza. Ci sono ragioni specificamente
inerenti alla téchn ippocratica che portano a una svalutazione, o almeno a un
ridimensionamento, del ruolo della vista. Nel trattato L 'ar te si dice
esplicitamente che "delle malattie alcune hanno se de in luoghi non
celati alla vista, e non sono molte, altre in luoghi non aperti alla vista, e
sono molte" (cap. 9). Per giungere alla conoscenza di queste ultime, il
medico trae congetture da segni tattili, uditivi, olfattivi e talvolta persi
no gustativi: è attraverso l'intera gamma della tipologia se gnica che il
medico può elaborare la sua previsione, percor rendo il tempo anche nella
dimensione di un passato e di un futuro che sono nascosti. Non solo, ma avviene
che, quan do i segni non si presentano spontaneamente, il medico giunga a
"forzare la natura" per costringerla a fornire degli indizi (cap.
13). A questo punto è possibile tentare un riesame dell'oppo sizione
visibile/invisibile nel momento in cui essa passa dal la divinazione, che
l'aveva inventata, agli altri ambiti del sapere. La ritroviamo, a esempio, in
ambito giuridico, con l'anti tesi tra "beni apparenti" e "beni
non apparenti" che, secon do la penetrante analisi di Gernet (1968: tr.
it. 399 sgg.), si configura come opposizione tra i beni materiali (fondiari e
patrimoniali soprattutto) che si possono percepire, e i credi ti in genere,
"invisibili" (a esempio, i crediti nei confronti di un banchiere
presso cui si è depositato del denaro). Poi, nell'ambito strettamente
filosofico, l'opposizione assume un carattere squisitamente antologico, dando
vita a una duplicazione dei livelli di realtà. In Eraclito, a esempio, il
"nascosto" costituisce la realtà vera in contrapposizione
all'"apparente", dicotomia di cui si trova chiara traccia nei
3.6 L'ANALOGIAE LACONGETTURA 67 due frammenti: "L'armonia che non si vede
è superiore a quella manifesta" (D-K, 22 B 54) e "La natura ama
nascon dersi" (D-K, 22 B 123). Come si può osservare, mentre nella
divinazione il "visibile" richiamava apertamente la funzio ne, tutta
fisiologica, svolta dali'organo della vista, una vol ta avvenuta la
trasposizione in altri campi questo legame si attenua. Di fatto scompare quasi
del tutto nella scienza, do ve visibile e invisibile vengono concepiti come
due mondi, la cui comunicazione è garantita non dalla vista, ma dalla
congettura. 3.6 L'analogia e la congettura Il carattere semiotico della
rivoluzione effettuata dal pen siero ippocratico è stato messo in luce da
Vegetti (1976), il quale, ponendo in relazione gli scritti dei medici
ippocratici con la cultura scientifica e filosofica del loro tempo, ha mo
strato come essi fossero impegnati in una lotta a favore di un "metodo
semiotico", contro il cosiddetto "procedimento analogico",
tipico della filosofia ionica e di quei medici e intellettuali che a essa in
qualche maniera si richiamavano. In effetti, quella ionica, più che come una
filosofia vera e propria, si caratterizzava come una physiologhla, cioè una
indagine sulla natura (phjsis), e come ricerca di un suo principio (arch). La
natura dei filosofi ionici è in sostanza il mondo quale si manifesta all'osservatore,
ma presenta un duplice aspet to: esso è, contemporaneamente, molteplice,
perché si com pone di una infinità di fenomeni, e unitario, in quanto cia
scun fenomeno manifesta lo stesso principio rintracciabile in ogni altro
frammento del reale. L'unico procedimento conoscitivo, in questo quadro, è
l'analogia: di fronte a qualsiasi fenomeno, si tratta di riper correre il
cammino della phjsis che porta, per via analogi ca, dal singolo fenomeno
all'arch. Dal punto di vista se- miotico, la filosofia ionica ragiona come se
qualsiasi tipo di modalità di produzione segnica fosse ridotto al solo metodo
del riconoscimento di campioni: un frammento sta costan- 68 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA temente per una totalità che è a esso completamente omoge
nea (Eco 1975: 296; 1984: 48). Un paradigma diverso è quello che si impone a
partire da Alcmeone di Crotone proprio con la proposta del principio semiotico
della congettura: Delle cose invisibili e delle cose visibili solo gli dci
hanno cono scenza certa; gli uomini possono soltanto congetturare (lekmaf
resthal). (Diog.Lart.,VIII,83== D-K,24Bl) Mentre per i filosofi ionici e per la
medicina dei postulati c'era continuità tra i principi della natura, i suoi
fenomeni e l'osservatore stesso di quei fenomeni, con lcmeone nasce una
frattura profonda tra l'uomo e la realtà. Il mondo del l'esperienza non si dà
a conoscere spontaneamente, non è più trasparente. Proprio sulla frattura
inaugurata da Alc meone si impernia il metodo semiotico. Essa conduce alla
necessità di sostituire il procedimento dell'analogia con uno basato
sull'indizio: la conoscenza umana assume per princi pio il tekmafresthai, il
procedere per indizi e congetture. Ciò che la medicina ippocratica svilupperà,
e che è ancora assente in Alcmeone, è l'inquadramento del metodo conget turale
in una struttura logica compiuta. 3.7 Metodo analogico e metodo semiotico A
questo punto è possibile domandarsi quale forma assu ma la metodologia della
ricerca congetturale nei trattati ip pocratici. Una prima risposta a questa
domanda può essere cercata attraverso un'analisi della polen1ica che, a questo
proposito, ha opposto Regenbogen (1930) a Diller (1932) nella prima metà di
questo secolo. In questa polemica ritro viamo una contrapposizione tra
"metodo semiotico" e "me todo analogico"; ma in un senso
sensibilmente diverso da quello esaminato finora, in quanto la nozione di
"analogia" era assunta in un senso lato, molto vicino alla nozione se
miotica di "omomatericità".15 3 .7 METODO ANALOGICO E METODO
SEMIOTICO 69 In questo secondo caso la nozione di "analogico" viene
assunta in un senso strettamente tecnico, come istituzione di un parallelismo
tra un fenomeno da spiegare e un altro fenomeno noto, con conseguente
possibilità di inferenza dal secondo al primo. L'inferenza analogica del tipo
de scritto costituisce, secondo Regenbogen, il carattere specifi co della
metodologia di ricerca utilizzata dali'autore del gruppo di trattati Sulla
procreazione, Sulla natura del bam bino, Sulle malattie I V: in questi testi
vengono spesso messi a confronto processi di tipo non osservabile con processi
osservabili e i primi vengono chiariti mediante un'analogia con i secondi, come
si verifica a esempio quando viene isti tuito un parallelo tra lo sviluppo del
feto e quello delle pian te (Littré 1839, VII 528, 22 e sgg.) o quello di un
uccello (Littré 1839, VII 530, 14 e sgg.). L'autore dei trattati si at tiene
di fatto al principio di Anassagora secondo cui ciò che appare permette di
avere una visione anche di ciò che è invi sibile, e applica questo principio
sistematicamente. Il para gone con l'oggetto visibile, su cui si basa
l'analogia, viene visto come una prova deli'oggetto di partenza. Il
procedimento analogico non è limitato ali'ambito me dico-biologico, ma se ne
possono rintracciare esempi chia rissimi in ambito storico. A esempio Erodoto
(Hist., II, 33), quando parla del Nilo, il cui corso, le cui sorgenti e la cui
lunghezza gli sono sconosciuti, sostiene: "a quanto io ri tengo,
congetturando (tekmair6menos) dalle cose note quelle ignote, (il Nilo) muove da
una longitudine eguale a quella da cui muove il Danubio". Il ragionamento
è il se guente: il corso del Danubio è conosciuto dalle sorgenti alla foce, e,
posto sullo stesso meridiano, nella concezione di Erodoto, scorre nella
direzione opposta a quella del Nilo, cioè da nord a sud verso il mar Nero, così
come il Nilo scor re da sud a nord verso il mar Mediterraneo; il Danubio, in
fine, è il fiume maggiore dell'Europa, come pure il Nilo lo è dell'Africa. Dati
questi elementi, si può immaginare il corso del Nilo in analogia con quello del
Danubio. Secondo Diller (1932: 17), tuttavia, l'analogia non riesce a coprire
tutti i casi di inferenza dal visibile all'invisibile, e porta a questo
proposito un certo numero di esempi, tra i 70 3 . I SEGNI NELLA MEDICINA
GRECA quali l'inferenza sperimentale contenuta al cap. 8 del tratta to Le
arie, le acque, i luoghi. L'esperimento vuole dimo strare che le acque che
provengono dalla neve e dai ghiacci, perdono le qualità di leggerezza, di
limpidezza e di dolcez za, mentre conservano quelle di pesantezza e di
torbidezza. L'autore del trattato suggerisce a questo proposito di versa re,
durante l'inverno, dell'acqua in un recipiente e, dopo averla misurata, di
esporla all'aperto per lasciarla gelare. Il giorno seguente va messa di nuovo
al caldo e fatta scioglie re: misurandola, ci si accorgerà che la sua quantità
è molto diminuita. Questa è una prova (tekmrion) del fatto che, gelando,
l'acqua ha lasciato andar via la parte più leggera e delicata e dimostra,
contemporaneamente, la scadente qua· lità dell'acqua proveniente dalla neve e
dai ghiacci. Questo esperimento viene definito tekmrion e si basa sulla istitu
zione di un parallelismo tra due serie di dati di realtà. Ma, giustamente,
Diller mette in dubbio che si tratti an che di un procedimento analogico: in
effetti l'unica analo gia che vi si può istituire è che per una piccola
quantità di una materia (acqua: ghiaccio) valgono le stesse leggi che valgono
per l'elemento nella sua totalità. Si può esprimere quello che avviene
nell'esperimento attraverso la formula "parte : parte = tutto :
tutto"; la vera inferenza consiste nel trarre conclusioni dalla parte sul
tutto. Comunque, per Dil ler, qui siamo di fronte a un tipo di inferenza che
non è ana logica nello stesso senso in cui è analogica l'inferenza che abbiamo
visto in Erodoto, in quanto qui "tutto si svolge al l'interno del
processo che dovrebbe essere spiegato, senza che un processo analogo sia
chiamato in causa" (ibidem, 19). Con un ragionamento non diverso, secondo
Diller, l'au tore del trattato Le arie, le acque, i luoghi sostiene che la
parte più fine e più pura deli'acqua ingerita viene espulsa dall'organismo,
quella che è più densa e più torbida sedi menta: la prova (tekmrion) è data
dall'osservazione di co loro che soffrono di calcoli alla vescica, i quali
espellono un'urina limpidissima, in quanto la parte più densa e torbi da si
condensa appunto in calcoli. Ciò che questi esempi hanno in comune è che
qualcosa di 3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 7 1 non percepibile
viene spiegato attraverso dei fenomeni per cepibili. Però questi fenomeni non
sono degli analoga di ciò che deve essere spiegato, bensì dei segni: essi
stabiliscono, rispetto al processo che deve essere spiegato, lo stesso rap
porto che c'è tra l'effetto e la causa. Quindi, per Diller, l'in ferenza
semiotica (propriamente: semeiotisch, ibidem, 20, da lui collegata strettamente
al procedimento medico) deve intendersi nel preciso senso (che sarebbe stato
poi quello aristotelico) di inferenza dal conseguente. Ulteriormente per
Diller, mentre l'inferenza analogica rende chiaro il "So sein" di un
processo o di uno stato sconosciuto quella se miotica indizia del suo
"Dasein". Recentemente la problematica è stata ripresa da Lonie
(1981: 79 ss.),16 che ha sottolineato come nei trattati presi in considerazione
dal Regenbogen, ma anche in altri testi del C.H. in generale (a esempio in Le
arie, le acque, i luoghi, cap. 8), sono rintracciabili degli esempi di processi
esplicati vi complessi, che comportano sia una inferenza semiotica (inferire
le cause da fenomeni osservabili), sia una induzio ne analogica. Molto
interessante a questo proposito è il capitolo 12 (= Littré 1839, VII 486, 3
ss.) del trattato Sulla natura del bambino: l'autore stabilisce anzitutto la
teoria (elemento non osservabile) per cui lo sperma, trovandosi nell'ambien te
umido e caldo dell'utero materno, acquisisce una capaci tà di respiro (pneuma)
che si apre una breccia verso l'ester no: esso emette un soffio e, in una
seconda fase, inspira aria fresca attraverso la breccia. Per provare questa
teoria, l'autore ricorre a un'analogia con tre diverse classi di ogget ti, in
cui si verificherebbe lo stesso fenomeno: il legno, le foglie, le sostanze
commestibili. Viene poi descritto il com portamento del legno quando brucia:
esso espelle aria cal da, in corrispondenza del punto in cui è stato tagliato
e, contemporaneamente, attira a sé un altro soffio freddo. L'azione dei due
movimenti contrapposti fa sì che il fumo e il vapore si avvolgano intorno al
legno. Questo fatto viene descritto come un fenomeno osservabile ("noi
vediamo che accade questo"), dal quale viene tratta un'inferenza (eklo
ghismos) circa la causa del fenomeno stesso. Tale inferenza 72 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA assume la forma di un modus tollens "Se non-p, allora
non-q; ma q; perciòp": "Se non ci fosse questo duplice mo vimento
contrapposto, allora il soffio (fumo e vapore) non si avvolgerebbe intorno al
legno, fuoriuscendo" (Littré 1839, VII, 486, 20-21). L'autore passa poi a
illustrare lo stesso tipo di comporta mento negli altri esempi di analoga e
procede quindi alla formulazione di una legge generale per induzione:
"tutte le cose che sono riscaldate emettono un soffio (pneuma) e fanno
entrare un soffio freddo per rimpiazzarlo". Alla fine l'autore sostiene
che i fenomeni descritti devono essere con siderati come "prove
necessarie" della sua affermazione teorica intorno allo sperma. Nel
procedimento conoscitivo messo in scena nell'esem pio precedente possono
essere messi in luce tre diversi ele menti . Anzitutto si ha l'istituzione di
un'analogia tra un fatto non osservabile (il comportamento dello sperma
neli'utero materno) e alcuni fenomeni osservabili. In secondo luogo, c'è una
inferenza semiotica (che è pro priamente quella di cui parlava Diller,
chiamandola "infe renza semeiotica'' e che Lonie chiama "inferenza
causale") consistente nel risalire dal fenomeno osservabile (a esempio
l'emissione di fumo e vapore durante la combustione del le gno) alla sua causa
ovvero alla natura del processo. È inte ressante notare che inferenze di
questo tipo sono molto fre quenti nei trattati considerati e che l'espressione
che designa il fenomeno da cui l'inferenza è tratta è smefon. In terzo luogo,
si ha la formulazione, per induzione, di una legge generale, che è intesa come
valida anche per il pri mo termine (quello da dimostrare) dell'analogia. In
com plesso si può dire che il valore probante dell'analogia consi ste nel
fatto che essa permette di convalidare una proposi zione di partenza (relativa
a fatti non osservabili) mediante il ricorso a proposizioni concernenti fatti
analoghi, ma os servabili, che sono considerati come esempi di una legge va
lida generalmente. Lonie (1981: 85) iliustra i rapporti tra analogia, principio
generale ed enunciazione di partenza con il seguente diagramma: 3.8 LA
SEMIOTICA NEI TRATTATI METODOLOGICI 73 principio generale esemplifica/
tt(" , , conferma /// '' /' > analogo illustra asserzione di pertenza
3.8 Il metodo semiotico nei trattati metodologici Nel gruppo di opere del C.H.
dove vengono maggior mente approfonditi gli aspetti teorici della medicina
(Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Ilprognostico, Il regi me nelle
malattie acute, Male sacro, Le epidemie l e III e le maggiori opere
chirurgiche) è possibile rintracciare, nel mo do più chiaro, la formulazione
della metodologia/semioti ca, quella appunto a cui si riferiva Diller (1932) e
che Lonie (1981) individua come procedimento di "inferenza causa
le". In questo paragrafo cercherò di approfondire in che co sa consiste
tale metodologia, indipendentemente dagli altri procedimenti che possono
esserle associati, come abbiamo visto che avveniva con l'analogia. Nelle
opere che abbiamo sopra menzionato viene innan zitutto aperto il problema del
significato dei dati di osserva zione.17 Il singolo fenomeno (hékaston), non
essendo più collegato con (né riconducibile a) una presunta unità della natura,
come nella physiologhla, ha bisogno di essere inter pretato, cioè riconnesso a
un sistema di riferimento. È a questo punto che inizia il procedimento
inferenziale, o loghism6s, che è in un primo momento essenzialmente abduttivo:
18 si comincia a ipotizzare che il fenomeno singo lo, che si presenta
ali'osservazione del medico, sia un caso di una qualche regola generale. Si
prova, cioè, a pensare che lo hékaston, di per sé insignificante, possa essere
consi derato come un smeion, un segno che rimanda a un siste- 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA ma, e dal quale riceve senso. Questo primo momento ascen
dente, di costruzione del sistema di riferimento, viene segui to da un secondo
movimento, discendente, di verifica. Se il sistema ipotizzato sia valido e
funzionante, può essere pro vato applicandolo a nuovi e diversi casi: il segno
si trasfor ma così in tekmirion e il metodo diviene deduttivo. Usando lo
schema proposto da Eco (1984: 41) per l'abduzione si po trebbe cosi illustrare
il processo: codice eziologico e/o prognostico: r------------, son: h,jksston
(singolo fenomeno) : l risultato l -- 1 r - - - - - - - - - - -, l l regola
1 l ------------_j l l lL - - - - - - - - - - - - - 1
.------------l L Vegetti (1976: 49) mette molto bene in luce questo dupli ce
movimento abduttivo-deduttivo della téchnippocratica: "Ciò d'altro canto
conferiva alla funzione dello hékaston, spogliato dai privilegi 'metafisici',
una dignità nuova. Esso infatti era, da un lato, chiamato ad essere segno,
smeion, sull'altro da sé, sul sistema cui, per via di inferenza, era supposto
appartenesse; e dall'altro lato, acquistava il ruolo di 'prova', tekmirion,
sulla validità dell'inferenza stessa, che si misura appunto sulla possibilità
di trovare conferma ___________..J 1 l 74 3.9 LA STRUITURA FORMALE DEL
SEGNO 75 negli hékasta. Il metodo semeiotico si configurava cosi, per la téchn
ippocratica, come un movimento - 'dialettico' - che procedendo dallo hékaston
posto dall'osservazione (ma è il caso ormai di parlare di 'esperienza'
scientifica), lo tra sforma in smefon, mediante un'inferenza logico-concet
tuale (loghism6s) e poi in prova o tekmrion, per conclude re, se il circolo si
fosse saldato, nella capacità di compren sione e di intervento pratico su
sempre nuovi hékasta". Sicuramente lo schema di riferimento che il medico
deve costruire è un codice, ma di tipo particolare: è infatti pro babilistico.
Come ha messo in evidenza Di Benedetto (1966 e 1986: 132), i testi del C.H.
sono disseminati di espressioni che indicano una tendenza o una probabilità
quali "la mag gior parte", "i più", "molti",
"soprattutto", "spesso", "tal volta" ecc. Questo
non significa che i medici della collezio ne ippocratica non siano impegnati
nella costruzione di si stemi di riferimento costanti e funzionanti
generalmente. Semplicemente la logica del hoi pleistoi ("la maggior par
te") si sostituiva alla logica del ptintes ("tutti"). Del resto,
proprio il carattere probabilistico contraddistingue l'infe renza abduttiva o
ipotetica rispetto a quella strettamente deduttiva. 3.9 La struttura formale
del segno La nozione di smeion ("segno", "sintomo") è una
delle nozioni centrali nei testi del C.H. La struttura formale at traverso la
quale il segno è introdotto è relativamente co stante, in quanto prevede
l'inquadramento in uno schema implicativo del tipo: p-:Jq Dal punto di vista
linguistico, molto spesso p e q sono rap presentate da proposizioni (o da
sequenze di proposizioni), il cui collegamento costituisce un periodo
ipotetico, come possiamo vedere da un brano tratto dal cap. 9 del Progno stico
: 76 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ma bisogna osservare anche gli altri
sintomi (smefa): se (n) in fatti il malato sembra sopportare favorevolmente il
male, oppu re, oltre a questi, mostra qualche altro dei sintomi salutari, c'è
speranza che il male si risolva in ascesso, sicché l'uomo soprav viva, pur
perdendo le parti annerite del corpo. In questo esempio la prima parte
dell'implicazione è co stituita da una sequenza di due proposizioni
condizionali introdotte da n ("se"), che si riferiscono a dati di
osserva zione (protasi), mentre la seconda parte presenta un perio do
complesso (apodosi) relativo a una previsione medica. Se il riempimento
semantico della protasi con dati di osser vazione, ovvero elenchi di sintomi,
è relativamente costan te, l'apodosi può contenere anche una enunciazione
diagno stica, sebbene ciò avvenga meno frequentemente, data la centralità
della prognosi nella medicina antica.. Inoltre l'a podosi può contenere anche
(e talvolta essere sostituita da) una indicazione terapeutica. 3. 10 Moduli
espressivi arcaici Il modello "Se p, allora q", che serve molto
spesso (a esempio nei trattati tecnico-terapeutici) a introdurre la ma lattia
stessa, è molto antico e può essere messo in relazione agli analoghi moduli di
presentazione della malattia nei trattati medici assiro-babilonesi e in quelli
egiziani.19 Il mo dello implicativo nei testi assiro-babilonesi prevede la pre
senza di una protasi, introdotta da §umma ("se", "nel caso
che"), contenente l'indicazione dei sintomi, seguita da un'a podosi
contenente un'indicazione terapeutica. A esempio: Se il cranio di un uomo ha
una infiammazione, le sue tempie so no afflitte da SA.ZI (?) con turbamento
dei suoi occhi, essendo i suoi occhi affetti da offuscamento, obnubilamento,
disturbo, arrossamento (?), con le vene infiammate (?), e molto pianto, tu devi
tritare in una macina l/3 di ka di lolium (e) spelta mon data, setacciare,
quanto più puoi, e quindi prendere l/3 di kq, impastare in acqua di rose,
radere a sua testa), applicare legando, e non toglierlo per tre giorni.2
3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 77 La struttura implicativa del modulo
assiro-babilonese può essere considerata struttura segnica (anche se non si
parla esplicitamente di segno), con la particolarità che al li vello semantico
è sostituito direttamente il livello praxeolo gico:21 il segno (propriamente,
l'antecedente del condizio nale) suggerisce, senza mediazione, un
comportamento. Questo modulo, comunque, estremamente arcaico, è tal volta
rappresentato anche in alcuni dei trattati tecnico-tera peutici, che sono
anche i più antichi del C.H. : in Malattie II A e nello stato arcaico (A) del
trattato ginecologico Su/le malattie delle donne. Si tratta tuttavia di
attestazioni spora diche, che sono presenti accanto a moduli diversi, centrati
sulla relazione tra sintomatologia e malattia. Un discorso a parte merita il
trattato Sulle affezioni in terne, dove il modulo espressivo di presentazione
della ma lattia assume un carattere del tutto particolare. Esso è infat ti
composto di tre elementi strutturali: (A) una prima pro posizione (o serie di
proposizioni) introdotte da "se", dove è presentato un fenomeno
interno, non visibile, da conside rarsi come "la causa" della
malattia; (B) una seconda serie di proposizioni, introdotte dall'espressione
tade paschei ("tali cose soffre il malato"), nella quale è presentata
la sin tomatologia (i fenomeni rilevabili esternamente); (C) una terza serie
di proposizioni che sono relative alle indicazioni terapeutiche. Avviene molto
spesso che la parte A sia sdop piata in due: At (le cause dirette dei
sintomi); A2 (le cause che hanno prodotto la malattia stessa). Ecco un esempio,
tratto dal cap. 8, dove distinguiamo gli elementi strutturali: (At) Se (in) nel
petto e nelle spalle si produce una rottura, (A2) fatto che si verifica
soprattutto a causa di uno sforzo, (B) ecco i sintomi (tade [...] ptischez):
tosse vivace, espettorazione talvolta sanguinolenta; di solito brividi e
febbre; dolore acuto nel petto e nelle spalle. Il malato ha l'impressione che
una pietra gli pesi sul fianco; i dolori lo trapassano come se lo si bucasse
con un ago. (C) Stando così le cose, lo si farà ingrassare con il latte e
subito si cauterizzeranno il petto e le spalle. (Littré 1839, VII, 186,
3-10) 78 3. l SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ciò che è interessante di questo
modulo dal punto di vista semiotico è che l'inferenza tra i primi due elementi
("Se A, allora B") è non abduttiva (cioè dagli effetti alle cause),
ma deduttiva. Ciò significa che l'accento è posto sul sistema, già
preliminarmente ricostruito, delle cause che possono produrre determinati
sintomi. Questo è il punto di vista del trattatista: nella pratica il medico
risalirà invece dai sintomi alle cause. Si deve inoltre notare che Sulle
affezioni interne presenta anche una sezione prognostica (D), collocata tra B e
C oppure dopo C: il testo citato continuava con "In que sto modo il
malato sarà molto presto guarito". Un altro termine di confronto per i
moduli della medici na greca è quello rintracciabile nei testi egiziani. Le
formule che questi ultimi adoperano sono diverse da quelle della medicina
assiro-babilonese in quanto hanno anche una se zione dedicata alla diagnosi.
Come Vincenzo Di Benedetto (1986: 91) ha mostrato, esse potevano essere divise
in tre elementi strutturali: una prima sezione (A), introdotta dalla
congiunzione "se", presenta la sintomatologia come il risul tato di
un esame/visita del medico; una seconda sezione (B), sempre attraverso la messa
in rilievo della parola del medico che fa la diagnosi, enuncia la causa; una
terza sezio ne (C) presenta l'intervento terapeutico del medico. Vedia mo un
esempio tratto dal papiro Ebers (scritto intorno al 1550 a.C.): (A) Se tu
esamini un uomo che soffre al suo stomaco, tutte le parti del suo corpo sono
appesantite come per l'insorgere della stanchezza: tu devi allora mettere la
mano sul suo stomaco e lo trovi a mo' di timpano, in quanto va e viene sotto le
tue mani. (B) Allora tu devi dire "è un'inerzia nel mangiare che non per
mette che egli mangi dell'altro". (C) Allora tu devi preparargli un
rimedio che svuoti (seguono le indicazioni degli ingredienti della ricetta). In
questo caso si ha un andamento abduttivo: la sintoma tologia costituisce il
punto di partenza per ricostruire il qua dro eziologico, cioè una realtà
nascosta che deve essere in terpretata a partire dai dati esterni
disponibili. 3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 79 Tutti questi moduli,
attraverso i quali si definisce la pre sentazione della sintomatologia medica,
costituiranno una base di riflessione, rimanendo talvolta sullo sfondo, ma più
spesso affiorando negli esempi, quando la filosofia cerche rà di definire la
struttura formale del segno. PLATONE 4.0 Introduzione Platone è il primo
compiuto erede della grande tradizione culturale che lo precede. Nelle sue
opere tale tradizione dà luogo a un'ampia e articolata teoria del linguaggio,
ma non produce, allo stesso tempo, una separata teorìa del segno, come invece
avverrà in Aristotele e in genere nelle scuole fi losofiche successive. Si
possono, però, osservare due fatti: da una parte l'ana lisi dei contesti in
cui Platone usa termini scmiotici permette di ricostruire un can1po teorico di
sfondo abbastanza omo geneo, i cui contorni definiscono il segno; dall'altra
certi aspetti della stessa teoria platonica del linguaggio presenta no un
carattere intrinsecamente semiotico, fatto che non si verificherà nelle teorie
Enguistichc dei filosofi successivi. Esaminiamo separatamentc i due problemi.
4.1 I segni 4. 1 . 1 La comunicazione divina Raccogliendo la tradizione
divinatoria, Platone parla di "segni" in tutti quei contesti in cui
si instaura una comuni cazione tra dei e uomini (Repubblica, 382 e; Timeo, 71
a - 4.1 I SEGNI 81 72 b; Fedro, 244 b-e). In questi casi viene anche
usato il ver bo smafno che, come abbiamo già visto, nell'ambito divi natorio
non indica tanto il "significare", quanto l"'inviare un
segno", vero tramite della comunicazione divina. Tale segno può essere un
testo verbale, come il responso della Pi zia di Delfi, o anche un testo
visivo, come lo sono le imma gini del sogno (Timeo, 71 e), o quelle impresse
nel fegato che funziona come uno specchio (Timeo, 10 b). Il segno può anche
essere rappresentato da un evento na turale, come il volo degli uccelli; ma in
questo caso (che è quello più classico della divinazione tecnica) la comunica
zione è troppo mediata per avere davvero alore e produce più opinione che
conoscenza (Fedro, 244 c). In effetti, il ca so della comunicazione più
efficace con il soprannaturale è quello del "segno demonico" di
Socrate, che si manifesta come una "voce" interna (Fedro, 242 b-e;
Apologia, 31 d) che parla direttamente al destinatario. 4. 1 .2 Il segno come "impronta
nell'anima" In una seconda serie di contesti il segno appare come im
pronta (tjpos), nel preciso senso in cui è un segno l'impron ta lasciata da un
sigillo. Questa accezione è presente nel Teeteto (191 a - 195 b), dove, per la
soluzione di problemi epistemologici, viene sviluppata la metafora dell'anima
co me blocco di cera, su cui vanno a imprimersi i segni prodot ti dalle
sensazioni (tOn aisthseon smefa). Questi segni, quando sono incisi
profondamente, costituiscono la base per le elaborazioni della memoria e per la
formazione della retta opinione. In effetti si crea falsa opinione in tutti
quei casi in cui gli uomini si dimostrano incapaci di "assegnare ciascuna
cosa al proprio segno'' (195 a), cioè di far combaciare il segno impresso
nell'anima con la nuova sensazione, in quanto il rapporto che si viene a
stabilire nel rinnovato processo per cettivo è lo stesso che si instaura tra
"copie e originali" (apotypOmata kaì tjpous) (194 b). 82 4.
PLATONE 4.1.3 I segni della scrittura Il tema della memoria, che abbiamo
trovato accennato a proposito dei segni impressi nell'anima nel Teeteto,
ritorna in maniera centrale nel Fedro (274 c - 276 a), quando l'at tenzione di
Platone si focalizza sui segni della scrittura. Nel mito che Socrate racconta,
infatti, i segni alfabetici sono un dono che il dio egizio Theuth offre al re
di Tebe Thamus, invitandolo a diffonderli in tutto l'Egitto perché, secondo il
dio, essi sarebbero stati "una medicina per la sapienza e la memoria"
(Fedro, 274 e). Thamus però non accoglie senza riserve il dono di Theuth,
convinto che i segni della scrittura abbiano un effetto contrario rispetto a
quello previsto dal dio, indebolendo la memoria: gli uomini "fidandosi
dello scritto richiamerebbero le cose alla mente non più dalPin terno di se
stessi, ma dal di fuori, attraverso segni (tjpol) estranei" (Fedro, 275
a). Sviluppando questo concetto, Socrate giunge a una con trapposizione tra
"le parole scritte" e "il discorso scritto nell'anima":
quest'ultimo è "vivente e animato", è scritto con la scienza ed è
capace di selezionare i buoni destinatari; le parole scritte, invece, hanno
solo l'apparenza della vita, ma in realtà sono capaci di dire una sola cosa e
sempre la stessa, al pari delle immagini pittoriche che, se interrogate,
"mantengono un maestoso silenzio"; inoltre si rivolgono in
discriminatamente a tutti. Ma, posto il primato del discorso scritto
nell'anima, si istaura tuttavia una relazione semiotica tra i due termini: come
propone Fedro, le parole scritte possono essere consi derate "un'immagine
(eldolon)" del discorso scritto nell'a nima (276 a); ciò nonostante esse
rimangono segni estrinse ci, capaci solo di "rinfrescare la memoria di
coloro che già sanno" (277 e). Si possono rappresentare questi rapporti se
miotici con un triangolo (cfr. p. 83). La linea tratteggiata indica il fatto
che per Platone le pa role scritte, di per sé, non permettono la vera
conoscenza, che deve essere mediata dal discorso interiore, ma produco no solo
opinione (275 b). 4.1.4 Il segno come inferenza 4.1 I SEGNI discorso
scritto nell'anima 83 immagini { 8 /d lJI B ) parole scrrtte oggetti
della conoscenza Infine, una serie di contesti ci presenta un uso del termine
"segno" (stmeion, in alternanza con tekmrion) come indi cante un
fatto, un evento, uno stato dal quale si può inferi re un altro fatto, evento
o stato secondo il modello già in contrato nella divinazione mesopotamica e
nella medicina greca (p::)q). Nel Teeteto (153 a), a esempio, si dice che il
fatto per cui il movimento e lo sfregamento producono il calore e il fuo co, i
quali a loro volta producono tutte le altre cose, è un se gno sufficiente
(hikanòn stmeion) per argomentare che il moto produce l'essere e il divenire,
mentre la quiete produ ce il non essere e il perire. Negli stessi termini si
parla di se gno nell'Epistola VII (332 c), dove il fatto di avere o meno degli
amici viene presentato come il più grande segno del carattere virtuoso o
vizioso di una persona. Ancora, nel Gorgia (520 d-e) si definisce un bel segno
(ka/òn stmeion) del successo ottenuto il fatto che chi ha reso un servigio ri
ceva un adeguato contraccambio. In tutti questi casi il se gno è espresso da
una proposizione legata da un rapporto implicativo con un'altra proposizione.
Ma, su questa accezione basilare, si innesta l'idea del st- 84 4. PLATONE
mefon come segno che serve a distinguere una certa cosa da tutte le altre. In
un passo del Teeteto (208 c - 209 c) si dice che il segno distintivo del sole,
sufficiente (hikan6n) per co noscerlo, è dato dal fatto che esso è il più
risplendente tra tutti i corpi celesti che girano intorno alla terra. Natural
mente la forma logica sottesa a questa formulazione super ficiale è quella
implicativa ("Se un corpo celeste che gira in torno alla terra è il più
risplendente di tutti, allora esso è il sole"). Ma a questo punto Platone
si interroga sul valore episte mologico della conoscenza attraverso i segni,
chiedendosi se cogliere il segno distintivo di una data cosa (''il segno onde
la cosa di cui si domanda differisce da tutte le altre", 208 c),
significhi cogliere anche la ragione (/6gos) di quella stessa cosa.
L'interrogativo non è di piccola importanza e si può notare che esso riapparirà
in Aristotele sotto forma di ricer ca dei rapporti tra il "segno" e
la "causa" di un fenomeno. E, come farà Aristotele, anche Platone qui
distingue il se gno dalla ragione di conoscenza (/6gos epistms), soste nendo
che il segno contribuisce al formarsi della retta opi nione, ma non della
conoscenza. 4.2 La teoria del linguaggio 4.2. 1 Carattere semiotico della
concezione lingui stica di Platone Nella speculazione successiva a Platone, la
teoria del se gno e quella del linguaggio verranno a costituire due ambiti
completamente separati, che considereranno diversi gli og getti delle
rispettive indagini, chiamandoli con nomi diversi (in Aristotele, a esempio, il
segno linguistico sarà sjmbo lon, e non smefon). Nella filosofia platonica,
invece, que sta divaricazione non si è ancora affermata, ma, al contra rio,
si può notare che la sua teoria linguistica ha un caratte re spiccatamente
semiotico. 4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 85 In generale, nella cultura
greca, il segno è concepito come un elemento percepibile che rimanda a (o
permette di giun gere alla conoscenza di) un elemento che non è manifesto
(adlon, aphanés ecc.); come abbiamo visto, del resto, nel caso della medicina
e, prima ancora, della divinazione, il segno costituisce la mediazione tra il
piano delle cose acces sibili ai sensi e il piano delle cose non accessibili.
Proprio con questi caratteri si presenta il segno linguisti co nei dialoghi
platonici (soprattutto nel Crati/o e nel So/i sta): esso è d/Oma
("rivelazione") di un oggetto non perce pibile (sia esso un
"significato", sia esso l"'essenza" della cosa nominata).
Costantemente il verbo smafno ("signifi co", "manifesto
attraverso segni") si alterna al verbo d/60 (''rivelo",
"manifesto") quando si parla di una forma espressiva che rimanda a un
contenuto che non viene colto con i sensi. Ciò avviene a esempio in un passo
del Crati/o (422 e), nel quale Socrate indaga la capacità che hanno i prO/a
on6mata (gli elementi primi e irriducibili del linguag gio) di rendere
evidenti (phanera) ciascuno degli enti: a que sto proposito li paragona ai
segni gestuali dei muti, che so no capaci di indicare (smalnein) le cose con
le mani, con il capo e con il resto del corpo, pur essendo impossibilitati a
manifestarle (dlot2n) con il linguaggio verbale. A più riprese nel corso del
Crati/o viene affermato il compito semiotico di "rivelazione" (d/Oma)
che hanno gli elementi del linguaggio. Ma Platone distingue la rivelazione
effettuata dai nomi da QUella effettuata dagli enunciati (Lo renz e
Mittelstrass 1967: 8): questi ultimi, infatti, rivelano sempre qualcosa intorno
agli oggetti (Sofista, 262 d), men tre soltanto i nomi "corretti"
rivelano gli oggetti come sono (Crati/o, 422 d). Anzi, è proprio il carattere
di rivelazione che riveste il nome a costituire il suo criterio di correttezza.
Nel Sojzsta (262 a) il nome è definito espressamente "se gno vocale"
(smefon tis phonis), espressione che è usata come equivalente a d/Oma e la cui
funzione è quella di ma nifestare l'"essenza" della cosa nominata:
"lo direi infatti che c'è un duplice genere dei nostri segni fonici (tii
phonii [.. .] dlomaton) che indicano l'essere di qualche cosa" (So- fista,
261 e). 86 4. PLATONE Particolari combinazioni di questi "segni
vocali" danno luogo agli enunciati (/6go1), facendo scattare un livello su
periore. In effetti, nel Sofista viene preso in considerazione il problema che,
in termini aristotelici, sarà descrivibile co me opposizione tra
"semantico" e "apofantico". In Plato ne, questa si
presenta come opposizione tra il livello ono mazein ("nominare") e
il livello légein ("enunciare") (262 d). I singoli segni vocali,
siano essi on6mata ("nomi") o rhimata ("verbi"),
manifestano un contenuto nel momento in cui nominano qualcosa. Le corrette
combinazioni di que sti segni vocali si situano a un diverso livello, perché,
oltre a manifestare un contenuto, lo presentano come "essere il ca
so" o "non essere il caso" di un determinato evento, stato o
processo, cioè ne costituiscono un'asserzione (De Rijk 1986: 199-200). 4.2.2 La
teoria linguistica del "Cratilo" Il problema fondamentale che viene
affrontato nel Crati lo è quello della "correttezza dei nomi". Esso
è posto fin dali'inizio del dialogo al centro di una disputa che oppone Cratilo
a Ermogene e per la quale Socrate è scelto come giu dice. Complessivamente,
nella discussione, Cratilo sostiene una tesi che possiamo definire
"naturalista", mentre Ermo gene una tesi
"convenzionalista"; ma le rispettive posizioni sono più stratificate
e presuppongono alcune distinzioni. Innanzitutto c'è un primo livello di
discorso che riguarda l'atto della nominazione in un momento del linguaggio che
possiamo considerare aurorale. Per Ermogene tale atto è frutto di convenzione e
nasce dali'accordo degli uomini, che già hanno una conoscenza preliminare delle
cose. Per Cratilo, al contrario, l'atto della nominazione non presup pone
alcun accordo tra gli uomini, ma avviene in maniera naturale. Un secondo
livello di discorso è rappresentato dall'analisi dello stesso fenomeno
trascurando il momento diacronico della formazione del linguaggio e
focalizzando il rapporto di correttezza rintracciabile tra il nome e la cosa a
cui esso è 4.2 LA TEORIA DEL LINOUAOOIO 87 applicato sincronicamente. In
questo caso tanto Ermogene quanto Cratilo propongono la stessa soluzione,
sostenendo che i nomi sono sempre correttamente riferiti alle cose. L'u nica
differenza tra le due posizioni consiste nel fatto che per Cratilo la
correttezza dei nomi segue una legge naturale, mentre Ermogene sostiene il
carattere convenzionale delle regole che stabiliscono la correttezza, e adduce
come prova il fatto che i nomi possono essere cambiati a piacere, senza
disturbare tale rapporto. Un terzo livello di discorso, che scaturisce
direttamente dal precedente, è quello che riguarda l'estensione della vali
dità del rapporto di correttezza. Per Cratilo la correttezza del nome è
"universale", vale tanto per i Greci, quanto per i barbari. Per
Ermogene, invece, sembra che tale correttezza debba essere limitata alla
comunità linguistica particolare che ha adottato la convenzione. Si possono
distribuire questi dati su una matrice: Ermogene
Cratilo atto della nomina- zione primordiale frutto di accordo n aturale sempre
presente sempre presente correnezza basata su leggi con- venzionali basata su
leggi naturali validità del rap- porto di correnezza limitata alla comu- nitè
inguistica particolare universale Come abbiamo visto, entrambi i
contendenti danno per scontato il carattere di correttezza dei nomi rispetto
alle co se. Tuttavia ciascuno fornisce una risposta diversa alla do manda su
chi garantisce la correttezza. La legge naturale, 88 4. PLATONE che ne è
responsabile per Cratilo, focalizza il rapporto che si stabilisce tra il nome e
gli oggetti che lo portano, senza che abbia alcuna importanza ciò che gli
utenti del nome ne pensano. Al contrario, la convenzione, che per Ermogene è
garanzia di correttezza del nome, è una regola che riguarda gli utenti del
nome, senza che venga presa in alcuna consi derazione la natura dei portatori
del nome stesso (Kretz mann 1971: 127). 4.2.3 Il problema linguistico e la
dialettica Accanto a quelle di Ermogene e di Cratilo, nel dialogo è presente
anche una terza teoria, sviluppata dallo stesso So crate attraverso la
confutazione delle posizioni dei due con tendenti. Socrate, come al solito, è
portavoce delle opinioni di Platone e le ragioni per cui egli rifiuta entrambe
le altre posizioni sono da connettersi con la concezione generale del metodo
della filosofia che propugna Platone. Infatti, se Cratilo o Ermogene avessero
ragione, la via della dialettica, come mezzo per raggiungere la conoscenza,
risulterebbe impercorribile (Weingartner 1969: 6). Platone prevede il
linguaggio come mezzo necessario nella ricerca fi losofica, ma pensa anche che
la verità vada cercata nelle co se e non nel linguaggio stesso, come suona
appunto la con clusione del dialogo. Le teorie di Ermogene e di Cratilo
mettono entrambe in pericolo questo principio. Vediamo brevemente in quale
modo. La teoria di Ermogene si presenta all'inizio come una teoria
"convenzionalista classica", sostenendo il principio secondo cui la
convenzione e l'accordo costituiscono il cri terio di correttezza dei nomi
(384 c-d). Tuttavia questa non è l'unica posizione che Ermogene sostiene e non
è quella che è effettivamente attaccata da Socrate. Subito dopo Er mogene
sostiene anche che, "qualsiasi nome uno imponga a una cosa, questo è
quello corretto", precisando che, "se uno sostituisce quel nome con
un altro, non usando più il precedente, il secondo nome non è affatto meno
giusto del primo" (384 d). A questo punto Socrate costringe Ermoge-
4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 89 ne a effettuare un cambiamento di
focalizzazione e a preci sare che chiunque può operare questo cambiamento di
no mi, non solo una comunità, ma anche un singolo individuo. Ne risulta una
dottrina degli idioletti autonomi, tanto parcellizzati da coincidere con la
parlata di un solo uomo, che fa scoppiare il convenzionalismo di Ermogene in un
soggettivismo totale; tanto che Socrate non manca di met terlo in parallelo
con il relativismo di Protagora (386 a). Questa "Humpty Dumpty
position", come è stata arguta mente chiamata (Weingartner 1969: 7), fa
perdere al lin guaggio la funzione comunicativa e rende impossibile la
dialettica, in quanto non permette di distinguere tra enun ciati veri ed
enunciati falsi. Tuttavia anche la posizione di Cratilo conduce, altrettan to
perentoriamente, a una impossibilità della dialettica. Egli infatti elabora una
teoria che ha le caratteristiche di un "iconismo assoluto": il nome
rivela la natura della cosa che nomina, imitandola; ma questa imitazione è
totale o è un nonsenso. La configurazione sonora, che si distaccasse an che
per una piccola parte dalla perfezione deli'imitazione, verrebbe a essere
niente di più che "il rumore che fa uno che agita un vaso di bronzo
percuotendolo" (430 a). Poiché per Cratilo la produzione linguistica
sembra dare luogo in certi casi a imitazioni corrette, in certi altri a dei
nonsensi, in entrambe le evenienze la dialettica verrebbe ri dotta a uno
strumento sprovvisto di senso. Se, a esempio, la ricerca dialettica cominciasse
con il chiedersi "Che cos'è la giustizia?" e sperasse di raggiungere,
nel corso del dibattito, la conoscenza dell'entità sotto indagine. Si
presenterebbero allora due possibilità: (i) se l'espressione !giustiziai
rivelasse naturalmente l'oggetto, che nomina, la ricerca finirebbe prima di
cominciare; (ii) se invece essa fosse analoga al "ru more prodotto da un
vaso di bronzo percosso", la domanda stessa non avrebbe senso. La
dialettica, per quanto debba giungere a giudizi veri, deve avere la possibilità
di enunciare giudi.zi falsi, che devono essere corretti nel corso del dibatti
to. Ed è appunto questa possibilità che viene eliminata dalla teoria di
Cratilo. 90 4. PLATONE 4 . 2 . 4 Il nome come strumento Uno dei punti
fondamentali del dialogo platonico è costi tuito dalla ricerca di un criterio
oggettivo che permetta di assegnare un valore di verità tanto agli enunciati
quanto ai nomi. Per raggiungere adeguatamente questo scopo, Socra te sposta
temporaneamente il discorso dal piano linguistico a quello ontologico,
affermando che le cose (pragmata) hanno in loro stesse una stabile essenza e
non dipendono dal giudizio soggettivo (386 e). Una tale caratteristica di
oggettività è attribuita da Socra te anche alle azioni (praxeis), che al pari
delle cose (pragma ta) sono delle specie di enti (onta). Infatti, dal momento
che ci aspettiamo che le azioni abbiano certi effetti, esse non possono essere
compiute arbitrariamente. Ma, per Socrate, anche il dire (légein) e il
denominare (onomazein, che è una parte del dire), costituiscono delle forme di
azione e, di con seguenza, devono essere compiute in maniera non arbitra ria.
Possiamo illustrare questa serie di divisioni attraverso il seguente schema:
enti (6nts) cose (pr8gmsta) l ""azioni (prAxtJis) /\ dire (/(lgein)
/\ Nel resto del dialogo l'intuizione che il dire e il denomi nare
costituiscono delle specie di azioni non verrà ulterior mente sviluppata, ma
rimane comunque una importante in dicazione di una possibilità di sviiuppo in
senso pragmatico che avrebbe potuto avere la linguistica greca. In questo
contesto, lo scopo di mostrare che il linguaggio ha un legame oggettivo con la
realtà, commisurato con il fi- denominare (onomAzein) 4.2 LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO 91 ne di raggiungere una comunicazione efficace, è perseguito
attraverso il paragone del nome con uno strumento (orga non): proprio come la
spola serve a sceverare la trama del tessuto, così il nome è "uno
strumento didascalico e sceve rativo dell'essenza" (388 c). In altre
parole, in primo luogo, i nomi operano una tassonomia della realtà, separando
gli oggetti del reale, in maniera tale da rispettare le loro nature (Kretzmann
1971: 128); in secondo luogo i nomi permetto no di comunicare questa
tassonomia. 4.2.5 Forma ("eldos") e materia del nome Se lo scopo dei
nomi è quello di far acquisire la conoscen za delle cose e di comunicarla agli
altri, è necessario che chi ha denominato la realtà (il "nomoteta",
personificazione di un'autorità linguistica accettata), categorizzandola in una
certa maniera, già ne possedesse una conoscenza prelimi nare. In effetti, per
garantire la correttezza dei nomi, il nomo teta ha agito come il costruttore
di spole. Come quest'ulti mo guarda ali'eidos ("forma",
"idea") della spola, così il nomoteta, per costruire il nome, guarda
al "nome in sé", cioè alla forma ideale del nome (389 b; 390 a). Allo
stesso titolo, come non ogni materiale è adatto alla costruzione di uno
strumento, ma è necessario usare la ma teria che meglio si adatta alla forma
(a esempio il ferro per il trapano e il legno per la spola, e non viceversa),
ugual mente sarà necessario che i nomi siano costruiti con suoni e sillabe,
piuttosto che con altro materiale, se devono com piere bene la loro funzione.
Tuttavia non sarà necessario che la forma fonica (direm mo: di superficie) dei
nomi sia identica per tutte le lingue, ma ciascuna lingua suddividerà in modo
diverso il conti nuum sonoro (nello stesso modo in cui non ogni fabbro adopera
lo stesso ferro per lo stesso strumento atto allo stesso scopo) (389 e). In
questo modo Platone spiega la di versità delle lingue, le quali pure,
indistintamente, sono or ganizzate in maniera da rispettare i medesimi
modelli. Ciò 92 4. PLATONE che varia da lingua a lingua è la materia, da
interpretarsi co me la configurazione superficiale di nomi e di sillabe che as
sume ciascun nome. Ciò che rimane costante è laforma (eidos, idéa) del nome che
conviene a ciascuna cosa (390 a). Un modo di pensare a questa forma è quello
proposto dali'interpretazione di Kretzmann (1971: 129-130), che la identifica
con la funzio ne e lo scopo essenziali a ciascun nome, di separare le cose e
di separarle in maniera da rispettare le loro giunture natura li. In questo
modo, a esempio, il nome greco l hippos l o quelli barbari lchevall, lcavallol,
lborsel, lPferdl ecc. saranno tutti corretti se riusciranno a ritagliare la
realtà se condo le "naturali" giunture; e sembrerebbe esserci il pre
supposto che tali giunture debbano essere le stesse per tutte le culture. Come
si vede, Platone qui sta affrontando una questione che potremmo definire
"hjelmsleviana",1 e così potremmo parlare, più che di funzione, come
fa Kretzmann, di forma e sostanza, di espressione e contenuto, come fa Hjelmslev:
la forma espressiva (la materia di Platone) può variare da lingua a lingua; ma,
affinché il nome sia quello giusto, è ne cessario che la forma del contenuto
(l'eidos o idéa di Plato ne) ritagli la materia del contenuto secondo le
medesime ar ticolazioni. Cosi l hippos l , l cheval l , l cavallo l , l borse
l , l Pferd l saranno tutti nomi giusti se ritaglieranno il conti nuum
materiale del contenuto ("la cavallinità, all'interno dello spettro
relativo agli animali) esattamente secondo le stesse giunture. Che poi
l'elaborazione dei nomi debba essere messa in corrispondenza con una corretta
tassonomia del continuum della realtà, da effettuarsi verosimilmente con il
metodo della divisione (diairesis), è dimostrato dal fatto che spetta al
dialettico, personificazione dell'autorità scientifica e filo sofica,
giudicare se il lavoro dei vari nomoteti è stato fatto bene (390 d). 4.2
LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 93 4.2.6 La prima teoria semantica Seguendo
l'interpretazione di Donatella Di Cesare (1981) si possono rintracciare nel
Crati/o due diverse teorie seman tiche, che si riferiscono, la prima a una
situazione di lin guaggio ideale, e la seconda a una situazione di linguaggio
come realtà storicamente data. Esaminiamo brevemente la prima. A un certo punto
del dialogo (393 d), infatti, Socrate so stiene che ciò che è veramente
importante per il nome è di significare (smalnein) l'essenza della cosa (ousfa
tofl prag matos), la quale viene chiaramente espressa (dJoumén) dal nome. Una
volta che il nome esprime l'essenza della co sa, non ha nessuna importanza se
vengono aggiunte o tolte delle lettere al nome. L'esempio che viene portato è
quello del nome di una let tera dell'alfabeto, il bita: esso nomina la lettera
l b l , ma a essa aggiunge ita (lel), tau (ltl) e alpha (lal); nonostante
queste aggiunte, esso nomina correttamente il l b l , in quan to fa comparire
il "valore" della lettera che doveva essere nominata. Un analogo
ragionamento vale per tutti i nomi: essi sono corretti se nominano l'essenza
della cosa di cui so no nomi. Il significato è, dunque, identificato con
questa essenza della cosa. Più avanti (394 b-e) Socrate introduce un altro
concetto, quello di djnamis ("valore"), che sembra anch'esso identifi
carsi con il significato. Infatti egli sostiene che chi è vera mente pratico
di nomi guarda al loro valore (djnamis), non lasciandosi sviare né da aggiunte
né da trasposizioni di let tere. Cosi i nomi Astyanax ("Astianatte"
= "signore della città") e Héktor (''Ettore" = "che tiene
saldo"), pur avendo in comune solo la lettera l t l , significano la
stessa cosa (tau tòn smalne1). Dunque il significato del nome è dato da
entrambi gli ele menti, l'essenza della cosa nominata e la djnamis del nome:
essi di fatto coincidono, in quanto il nome, attraverso il suo significato,
deve esprimere la cosa che nomina. Si possono illustrare i rapporti tra nome,
significato e cosa con il se guente triangolo: 4. PLATONE essenza della
cosa = In effetti , come l03), per Platone il nome non "rispecchia"
la cosa, ma solo la sua essenza, ed è questa la ragione per cui possono esserci
nomi diversi per lo stesso oggetto. Del resto, per rispecchia re l'essenza
della cosa, il nome deve "associare l'individuo al genere cui
appartiene" (ibidem); fatto che corrisponde a quanto avevano sottolineato
Lorenz e Mittelstrass (1967: 6- 8), con la loro attribuzione di una funzione
predicativa al nome. Il significato specifico del nome, la sua dynamis,
consiste allora neli'assegnare ciascuno degli oggetti al con cetto
appropriato, o al genere che gli compete. Ed è rispetto a questa operazione che
si può valutare oggettivamente la correttezza o meno del nome. Se ci
soffermiamo a considerare i risultati della teoria del significato esposta
nella prima parte del dialogo, vediamo che tutta la dimostrazione di Socrate è
rivolta a mostrare la coincidenza della struttura linguistica con quella
logico-on tologica: il linguaggio, attraverso i nomi, ritaglia il reale se
condo le stesse giunture che quest'ultimo naturalmente pre senta. Così,
imitando e rappresentando la struttura della realtà, il linguaggio costituisce
una mediazione tra il mondo delle idee e quello sensibile. Del resto il nome
rappresenta il genere stesso che può essere predicato di ciascuna cosa e che,
inafferrabile in natura, si concretizza nella materia fo nica. dynamis
nome cosa sottolinea Donatella Di Cesare ( 1 98 1 : 94 4.2 LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO 95 Tuttavia, come dicevamo, l'identità descritta nella prima parte
del dialogo non costituisce per Platone un dato di fat to, ma un obiettivo
ideale. Infatti dalla parte finale del dia logo, che segue la digressione
etimologica scaturirà una se conda e ben diversa teoria semantica. 4.2.7 La
seconda teoria semantica In effetti, l'analisi etimologica svolta da Socrate
nella parte centrale del dialogo, e la congiunta riflessione sull'ori gine del
linguaggio, erano state intraprese per dimostrare la sostanziale identità tra
la struttura linguistica e quella anto logica, in generale, e tra l'essenza
dell'oggetto e la djnamis, in particolare. Ma il risultato a cui esse approdano
è esatta mente l'op,posto: il linguaggio non rispecchia la struttura oggettiva
del reale , ma piuttosto è espressione dell'idea che del reale si è formato il
nomoteta. Il significato, dunque, viene a essere identificato con la
rappresentazione del reale che si forma nel soggetto (Di Ce sare 1981 : 131),
rappresentazione che è il risultato delle opi nioni, sensazioni, impressioni
che vengono esercitate sul soggetto dagli oggetti della realtà. Pagliara (1956
a: 73) ave va del resto individuato questo passaggio da una prima a una
seconda teoria semantica come analisi di due aspetti di stinti del fatto
linguistico: (i) il rapporto tra il significante e l'oggetto, nella prima parte
del dialogo; (ii) il rapporto tra il significante e il significato, nella
seconda. In base alla seconda teoria, il triangolo che illustra i rap porti
tra nome, significato e cosa dovrebbe avere una parti colare struttura (cfr.
p. 96). Il linguaggio, dunque, non rispecchia il mondo delleidee, cioè
l'essenza delle cose, ma piuttosto il mondo empirico: esso costituisce una
realtà storica, che contiene la visione del mondo che avevano i primi nomoteti,
quando tentarono di dare un ordine al reale, classificandolo e categorizzando
lo, proprio servendosi dei nomi come "strumenti sceverati vi". Ciò
non esclude, tuttavia, che si potrebbe arrivare a un adeguato rispecchiamento
della realtà mediante il linguag- 96 4. PLATONE rappresentazione
soggettiva = significato nome gio, qualora si raggiungesse una completa
conoscenza delle cose. Di particolare interesse risulta poi il fatto che è
prevista una precisa funzione mediatrice dell'anima, grazie alla qua le la
teoria platonica si avvicina a quelle moderne, in cui il linguaggio viene
riconosciuto come fatto psichico. Platone raccoglie qui l'eredità dei sofisti,
che unici tra i filosofi pre cedenti avevano insistito sulla dimensione
psichica del lin guaggio, in contrapposizione a quanti prevedevano la possi
bilità per il reale di essere rispecchiato nel linguaggio in ma niera diretta
e senza mediazione. 4.2.8 La mimesi La prima parte del dialogo era stata
dedicata alla confu tazione della teoria convenzionalista. L'ultima parte è
inve ce dedicata alla confutazione della teoria del rispecchiamen to
sostenuta da Cratilo. Già la sezione centrale, dedicata al l'etimologia, ha
portato alla conclusione che il linguaggio costituisce una rappresentazione
soggettiva, fatto che, di per sé, contraddice la tesi di Cratilo. Tuttavia
Socrate, per condurre ancora di più all'assurdo la tesi di quest'ultimo,
solleva il problema della mimesi, proponendo provvisoria mente una definizione
del nome come "imitazione con voce cosa 4.2 LA TEORIA
DEL LINGUAGGIO 97 di cosa che si imita; e colui che imita nomina con la voce
ciò che imita" (423 b-e). Quel che è interessante è che anche l'imitazione
sembra avere, in linea generale, un carattere semiotico: infatti l'imi tazione
"svela" (dloi) l'essenza della cosa. Ma quello di imitazione non è un
concetto pacifico e So crate lo indaga in tre diversi ambiti: (i) nel
ritratto; (ii) nel caso dei doppi; (iii) nel caso del rispecchiamento
"metafisi ca". Esaminiamo il primo caso. Tanto il ritratto quanto il
nome possono essere messi a confronto con l'oggetto che imitano. Per Socrate si
verifica allora il fenomeno per cui certi elementi presenti nell'origi nale
possono risultare trascurati, come pure elementi assen ti possono risultare
aggiunti. La copia ha dunque un carat tere di iconicità, ma presenta
variazioni all'interno di un continuum. Questo, per Socrate, è lo stesso
fenomeno che presentano i nomi, fatto che equivale a sottolineare il loro
carattere segnico. Ma Cratilo non è della stessa opinione, in quanto pensa che
i nomi debbano avere un carattere di so miglianza assoluta, in mancanza della
quale non sono affat to tali. Ecco in schema le due posizioni:
Socrate Cratilo rapporto ..nome/oggetto• iconico icon ico
carattere della mimesi continuo discreto A questo punto Socrate
introduce l'argomento del dop pio: se nella mimesi tutti i caratteri
deli'originale venissero riprodotti, non si avrebbe una imitazione, ma una
occor- 98 4. PLATONE renza identica dello stesso oggetto. Non si sarebbe
dunque in presenza di un rapporto di rappresentazione, ma di un vero e proprio
doppio, in una situazione in cui è impossibile stabilire quale è il
rappresentante e quale il rappresentato. In altre parole, il nome possiede un
carattere segnico pro prio in virtù di questa sua dissimiglianza rispetto
all'oggetto cui rimanda. Il terzo caso considerato, che abbiamo definito come
"ri specchiamento metafisico", pone in primo piano il tema
dell'imitazione che il singolo suono compie di un singolo frammento della
struttura del reale. La parola sklrots, che significa "durezza",ontrariamente
a quanto ci aspette remmo se i suoni rispecchiassero in tutto le essenze delle
co se, contiene al suo interno un /ambda ( I I I ), che esprime
"mollezza" e "scivolosità". Dunque la parola imita la
"du rezza" solo in parte, mentre in parte se ne discosta. Con ul
teriori esempi, poi, Socrate mira a negare anche un'altra ipotesi, più
fondamentale filosoficamente: quella secondo cui nel linguaggio venga
rispecchiata la veduta eraclitea del la realtà come eterno flusso e movimento
(41 1 c; 436 e); ciò infatti non si verifica perché, come sottolinea Socrate,
nel linguaggio molte voci lessicali presentano la realtà come perfettamente
immobile (437 c). 4.2.9 L'uso e la convenzione Dalle critiche che Socrate
muove, soprattutto a Cratilo, scaturisce una proposta positiva. Avendo infatti
osservato che il nome sklrots (''durezza") è inesatto, in quanto con
tiene nel suo significante elementi che non corrispondono alla qualità della
cosa designata, Socrate osserva anche che, nonostante ciò, esso adempie
perfettamente alla sua funzio ne comunicativa: infatti i Greci si intendono
quando tale nome viene usato. La responsabilità di questa comprensione è
attribuita da Socrate ai due fenomeni dell'uso (éthos) e della convenzio ne
(xynthk): questi fenomeni non circoscrivono soltanto un rapporto tra i due
utenti del nome, ma si rintracciano 4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA
Vll» 99 anche a livello delle relazioni tra il nome e l'oggetto, cioè al
livello denotativo (Kretzmann 1971: 138). L'idea che il no me sia
"rivelazione" (d/Oma) dell'oggetto denotato non viene abbandonata, ma
viene solo spostata la responsabilità di questa rivelazione dal rapporto di
somiglianza tra i due termini, alla convenzione che li associa (435 a-b).
Platone, tuttavia, non sostituisce semplicemente una con cezione
convenzionalista a una in cui la semiosi avviene per somiglianza. Per lui la
situazione ideale rimane quella in cui i nomi sono immagini che riproducono
l'essenza degli og getti nominati; ma sono i limiti del linguaggio naturale
che rendono necessario il ricorso all'accordo (435 b-e). Questo è del resto il
punto in cui i commentatori hanno scorto un compromesso tra il convenzionalismo
di Ermogene e il na turalismo di Cratilo. Nella chiusura del dialogo si deve
rilevare anche uno spo stamento nella funzione assegnata al segno linguistico:
c'è una accentuazione della funzione comunicativa a scapito di quella
cognitiva. Il linguaggio non è uno strumento abba stanza valido per la
conoscenza della realtà, per raggiungere la quale sarà necessario percorrere
una via più diretta: quel la del ricorso alle cose stesse (439 b). Esso però
si configura come un ottimo strumento per il buono svolgersi della co
municazione interoggettiva. 4.3 La teoria linguistica deii'"Epistola
VII" Un'interessante trattazione degli elementi coinvolti in una teoria
del significato la si può trovare nell'Epistola VII, un testo attribuito a
Platone, ma la cui autenticità è stata più volte messa in dubbio (Edelstein
1966). A molti è sem brato che essa non contenesse niente di veramente non pla
tonico, e a ogni modo presenta un interesse intrinseco che induce a farne
oggetto di un'analisi particolare. Nella sua parte centrale, la lettera
contiene un passo teo rico (342 a - 344 d), in cui vengono indagati gli
elementi che permettono di raggiungere e trasmettere la conoscenza. Si tratta
anche, allo stesso tempo, di elementi che intervengo- 100 4. PLATONE no
nel processo di semiosi. Il primo di questi è il nome (onoma); il secondo la
definizione (/ogos); il terzo l'imma gine (efdo/on); il quarto la conoscenza
(epistm); il quinto, infine, l'oggetto conoscibile (gnost6n) e veramente reale
(althos 6n) (342 a-b). Questi elementi , secondo P interpretazione di Morrow
(1935: 68), sono organizzabili secondo un ordine interno. Infatti, da una parte
si possono collocare i fattori che costi tuiscono gli strumenti di conoscenza:
i nomi, le definizioni, le immagini o diagrammi; dall'altra, in opposizione
diame trale, si trovano gli oggetti conoscibili e reali. A mediare tra gli
strumenti e l'oggetto della conoscenza si trova l'epist mt, che Morrow
interpreta come "apprensione soggettiva", e che è ulteriormente
suddivisa, come Platone dice più avanti (242 c), in retta opinione (a/ths
doxa), conoscenza (epistm) (ritorna curiosamente come nome di una specie,
quello che è il nome dell'intero genere) e ragione o intuizio ne (noas), del
quale ultimo Platone precisa che è il più vici no al quinto fattore. Nella
lettera si dice che questi tre elementi, che compon gono complessivamente
l'epistémt e che devono essere con siderati come un unico grado, non risiedono
"né nelle voci, né nelle figure corporee, ma nelle anime (en
psychais)", fat to che, come Platone sottolinea, li distingue sia
dall'oggetto reale, sia dagli strumenti di conoscenza. Il richiamo ali'ani ma,
che può essere messo in parallelo con il ruolo assegnato all'anima nella
seconda teoria semantica del Crati/o, induce ad accostare questa nozione di
epistm alla nozione di si gnificato; fatto che del resto può venir confermato
se leg giamo il passo con l'ottica della tradizione posteriore, so prattutto
aristotelica, che colloca il significato esattamente nell'anima (tà en tii
psychr) (De interpreta/ione, 16 a). Possiamo distribuire i cinque elementi sul
triangolo se miotico nel modo illustrato alla p. 1 0 1 . Tutto l'interesse del
passo è orientato a mostrare il carat· tere difettoso degli strumenti di
conoscenza. E, per suggeri re come si può ovviare a questo inconveniente,
Platone ela bora una dottrina che è molto vicina alla teoria di Peirce della
semiosi come "fuga di interpretanti". Vediamola at- 4.3 TEORIA
LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 101 4. apprensione soggettiva ( epistml)
3. immagine- (efdDion) 2. definizione (/6gos) l intuizione (noùs) l
conoscenza (epistmlJ} l retta opinione (allfths d6xa) 6. oggetto conoscibile
(gnst6n) e veramente reale (sleth;;s 6n) 1 . nome (6noms) traverso l'esempio
stesso che fa da filo conduttore al discor so platonico. Si tratta
deli'esempio del "cerchio", non a caso di carat tere matematico. Non
è difficile per Platone mostrare che il referente dell'espressione l cerchio l
non è un oggetto del mondo reale, sottoposto al divenire e alla corruzione, ma
è un'entità di altro tipo. A essa non si può arrivare se non passando attraverso
l'intera serie dei gradi preliminari e, so prattutto attraverso un processo di
continua sostituzione dell'uno con l'altro: "trascorrendo continuamente
fra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si
ha buona natura, generare a gran fatica la cono scenza" (343 e). Ciascun
elemento, di per sé incompleto (co me lo sono gli interpretanti di Peirce),
contribuisce al rag giungimento della conoscenza se inserito in questo
processo instancabile di sostituzione e di confronto. Questo processo di
continua sostituzione permette di ovviare all'imperfezio ne degli
strumenti. 102 4. PLATONE In effetti il carattere di imperfezione del
nome è dovuto al fatto che, come sappiamo dal Crati/o, nel linguaggio sto
ricamente dato esso non è l'immagine della cosa che nomi na, ma è legato alla
convenzione. Questo, secondo l'autore ' Epistola VII, gli toglie stabilità, in
quanto potremmo dell usare l'espressione l linea retta l per riferirei alle
cose circo lari e l'espressione l cerchio l per designare la linea retta,
senza provocare cambiamenti nelle cose stesse (343 a-b). Si può ricorrere
allora alla definizione del cerchio come "quella figura che ha tutti i
punti distanti dal centro" (342 b); ma anch'essa, per quanto aggiunga qualcosa,
risulta composta di nomi e di verbi e dunque presenta difetti ana loghi a
quelli incontrati a proposito dei nomi. Tra l'altro, sottolineare che la
definizione è "formata di nomi e di ver bi" significa accentuarne il
carattere di significante, piutto sto che quello di significato. Essa è
semplicemente un'altra espressione, che può essere sostituita, nel processo
conosci tivo e/o semiosico, al nome. Del resto, alla possibilità di una
sostituzione tra nomi, Platone aveva già accennato, presupponendo
l'intercambiabilità di l cerchio l (kyklos), l rotondo l (strongylon), l
circolare l (peripherés) (242 b-e). Qualcosa ancora viene aggiunto dal terzo
livello, quello rappresentato dagli eldola ("immagini"). Qui il
cerchio è conosciuto come "quello che si disegna e si cancella, che si
costruisce al tornio e che perisce" (242 c). Si tratta della so
stituzione di un interpretante iconico ai precedenti interpre tanti verbali:
per capire che cosa è il cerchio in sé, non sono necessarie solo le spiegazioni
verbali, ma anche le illustra zioni e le astensioni. Anche a questo livello la
conoscenza presenta un carattere incerto, in quanto incontra oggetti in cui
l'essenza (tò 6n) risulta inquinata dalla qualità (tò poi6n 11), cioè da
proprietà accidentali e contrarie, talvolta, alla vera natura del suo referente
metafisica: infatti per ogni punto del cerchio può essere costruita una
tangente (343 a), tale che, isolando quel brevissimo tratto, non si saprebbe se
esso fa parte di un cerchio o di una retta (Taylor 1912: 361). Il passo teorico
deli'Epistola VIl si chiude ritornando su un concetto assai vicino a quello
della semiosi illimitata, an che se ovviamente modulata in chiave platonica:
"mentre 4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 103 ciascun
elemento (nomi , definizioni , immagini visive e per cezioni), in dispute
benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri,
avviene che l'intuizione e l'intellezione di ciascuno brillino a chi compie
tutti gli sforzi che può fare un uomo" (344 b-e). La metafora dello
"sfregamento", con cui il passo si av via alla conclusione, è
funzionale sia all'idea epistemologica dell'improvviso accendersi e brillare
deli'intuizione, sia an che all'idea semiotica che il senso finale non lo si
ottiene at traverso l'immediata e semplicistica sostituzione di un signi
ficante con un significato, ma attraverso una strategia di mosse successive e
ripetute, come sono quelle appunto del processo di semiosi illimitata.
LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.0 Introduzione Con Aristotele vengono a
inaugurarsi nella storia del se gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una
notevole du revolezza. Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di
normalizzazione teorica che Aristotele compie nei confronti del lessico delle
scienze e delle pratiche professio nali che avevano fatto riferimento ai segni
e al sapere con getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di
usi forti, o pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz zato per tutto il
V secolo termini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti
medici, nella storiogra fia, nella stessa letteratura filosofica, viene
piegato alle esi genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi
esatti dei termini e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come
rileva Lanza (1979: 107), non ha che un successo parziale nella pratica
linguistica, in quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere
rigoro se e rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi
analitici e della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del la Retorica e in
generale nelle opere che trattano di argo mento scientifico, come ha fatto
rilevare Le Blond (1939, ried. 1973: 241), l'uso dei vari termini del lessico
semiotico gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie gati
senza speciali sfumature di significato. Ciò non con traddice, tuttavia, il
fatto che la revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata
profonda e abbia inau- 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 105 gurato
una solida tradizione, che continuerà nella trattati stica successiva, fin
nella retorica romana del I secolo d.C. Del resto le esigenze di distinzione
teorica non si limite ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice
sul lessico, ma entreranno anche nel vivo delle concezioni pro fonde coinvolte
dal sapere congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse
centrale tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico
della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del
futuro era un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in
entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega
alle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella
classificazione dei tipi di discorso proposta nella Retorica, Aristotele
individua in primo luogo due ca tegorie di destinatari dei discorsi: colui che
osserva (theo ros) e colui che decide (krits). Il primo agisce nella dimen
sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di scorso
epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi re nelle altre due
dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice
(dikasts) decide sul passa to; il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul
futuro.2 Co me osserva giustamente Lanza (1979: 102), la classificazio ne è
totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento
aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con
le tre dimensioni del tem po che fin dall'epoca di Omero appaiono associate
agli am biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. 5.1 Teoria
del linguaggio e teoria del segno 5 . 1 . 1 Il triangolo serniotico Il secondo
fatto importante, inaugurato dalla riflessione aristotelica, è quello che
riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della
teoria del linguag- }()6 5. UNGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE gio e della
teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto
rilevante proprio perché nelle teorie semiologiche moderne è assolutamente dato
per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se gni":
anzi, secondo un certo strutturalismo, sono i segni per eccellenza, e non sono
stati pochi coloro che sono arri vati ali'eccesso di pensare che essi
potessero fornire il mo dello anche per gli altri tipi di segno. In
Aristotele, invece, gli elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio
ricevono il nome di sjmbola, mentre gli altri elementi di una teoria del segno
vengono denomi nati smeia o tekmiria.3 In realtà, come vedremo, la teoria del
segno propriamen te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un
in teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del
problema delle modalità di acquisizione della co noscenza, mentre il simbolo
linguistico è connesso princi palmente al problema dei rapporti che si
instaurano tra le espressioni linguistiche, le astrazioni concettuali e gli
stati del mondo. È nel De interpreta/ione che Aristotele espone la sua teo ria
del simbolo linguistico, articolandola secondo uno sche ma a tre termini: i
suoni della voce, che sono i "simboli" delle affezioni dell'anima, le
quali, a loro volta, sono le im magini degli oggetti esterni: Ordunque, i
suoni della voce (tà en tii phoniz) sono simboli (symbola) delle affezioni che
hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte
(graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le
lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me desimi;
tuttavia, suoni e lettere risultano segni (smela), anzi tutto, delle affezioni
dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini
(homoi6mata) di oggetti (pragma ta), già identici per tutti. (Arist., De int.,
16 a, 3-8) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter mine
smeia come apparente sinonimo di sjmbola non si gnifica affatto che le due
espressioni siano intercambiabili: 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO
107 in realtà in questo passo Aristotele usa il termine smefon in un'accezione
debole, che ci conferma appunto la tenden za a un uso sfumato delle
espressioni del lessico semiotico, quando non sia in questione la costruzione
del sistema di demarcazioni teoriche. In secondo luogo qui Aristotele usa smeia
per dire che l'esistenza di suoni e lettere può essere considerata come indizio
deli'esistenza parallela di affezio ni dell'anima. A ogni modo, è possibile
costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo
tipo: 1 ) affezioni dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil 2) pensteri
(nomat8) rapporto convenzionale motivato ra ppo rto ( sn ti phntl
(prSgmsta) suoni della voce oggetti esterni Come si può osservare, diverso è il
rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade: tra suoni e stati
d'animo c'è un rapporto immotivato e convenzionale, in quanto gli stati d'animo
sono uguali, secondo Aristotele, per tutti gli uomini, ma essi vengono espressi
in maniera diversa a se conda delle varie lingue e culture, esattamente come
avvie ne per le forme scritte;4 invece tra gli stati d'animo e gli og getti
c'è un rapporto di motivazione, che appare addirittura iconico, in quanto i
primi sono le immagini dei secondi. Bi sogna precisare che sarebbe scorretto
identificare in manie ra diretta la tesi della convenzionalità degli elementi
del lin guaggio, cui aderisce Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà
108 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE del segno linguistico sviluppata da
Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra
due en tità strettamente interne al linguaggio: il significante e il si
gnificato sono le due facce del segno, in quanto unità lin guistica. In
Aristotele troviamo invece un rapporto conven zionale tra elementi del
linguaggio (il nome, il verbo, il 16- gos) ed elementi che propriamente non
appartengono al lin guaggio, in quanto sono entità psichiche. Si deve inoltre
ri levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce
nei testi di prevalente interesse logico, quali il De interpreta/ione, ma
continua anche nei testi di interesse estetico: in questi ultimi, dove prevale
la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in
parte attenuato (Belardi 1975: 75 e passim). 5.1.2 I "suoni della
voce" Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen ta
aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che
cosa intende Aristotele con l'espressio ne tà en tii phonii? A questa domanda
vi sono risposte di verse. Donatella Di Cesare (1981: 161) sostiene che
Aristotele attribuisce a questa espressione lo stesso valore che Saussu re dà
al termine "significante" quando spiega la natura del segno
linguistico. Belardi (1975: 198), invece, aveva sostenuto che tà en tii phonii
doveva riferirsi non ai significanti, ma alle "espres sioni
linguistiche" intese nella loro forma compiuta di 6no ma (nome), rhima
(verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione) e ap6phasis
(negazione); le ra gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi
elemen ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven gono
definiti "simboli" delle affezioni dell'anima (An. Pr. , 16 a, 25; 24
b, 2). Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni
della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara mente la veste fonica e
il carattere di "significante". Tutta- 5.1 TEORIA DEL
LINGUAGGIO E DEL SEGNO 109 via si deve anche sottolineare che l'ottica con cui
Aristote le, almeno neli'Organon, guarda ai fatti di linguaggio sem bra
diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare
le possibilità e le garanzie deli'uso del linguaggio neli'analisi della realtà.
Tali garanzie sembrano esserci quando si dia una reciproca bilità tra i due
ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che per Aristotele la simbolicità
del linguaggio nei confron ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto
il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul
vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici
perseguiti nel De interpreta/ione) sia intercambiabile con ciò che si trova al
vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di sjmbolon, che Ari
stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri to (D-K, 68, B 5,
1). Le ragioni che permettono la specializ zazione di questo termine nel senso
di indicare le espressio ni linguistiche convenzionali, sono connesse alla sua
etimo· logia. Nella lingua greca, infatti, il termine sjmbolon indica ciascuna
delle due metà in cui viene spezzato un oggetto (a esempio un astragalo, una
medaglia, una moneta) in ma niera intenzionale, affinché possano servire, in
un momen to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una
certa cosa (Belardi 1975: 198; Eco 1984: 199): il fat to che le due metà
riescano a combaciare perfettamente vie ne a indicare la presenza di un
rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di
amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla
congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una
situazione in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra,
senza che venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna
parte pre suppone l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri
spondenza, l'espressione sjmbolon viene ad acquisire il si gnificato di
"ciò che sta per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel
contesto della teoria linguistica aristote lica la parola sjmbolon
all'espressione smefon (che pure indica uno "stare per") induce a
indagare su una possibile 1 10 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE
specificità del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca so del segno,
i due termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono
sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo, senza che
necessaria mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i
due termini sono perfettamente reciprocabili; non è un caso che sjmbo/on dal
III secolo a.C. al III d.C. sia attestato anche nel senso di
"ricevuta", talvolta redatta in duplice copia: le due parti hanno,
per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto etimologico è presente neli'uso
che in particolare Aristotele fa dell'espressione sjmbolon nel De
interpreta/ione: i nomi ono simboli degli stati d'animo nel preciso senso che
si realizza, previo un accordo (synthk), un combaciare perfetto tra di loro e
una perfetta intercam biabilità, che garantisce la correttezza del nome stesso
(Be lardi 1975: 199). In quanto sjmbolon, il nome non è più dloma
("rivela zione"), come lo era per Platone: in Aristotele il nome è
"suono della voce significativo per convenzione" (phon s mantik katà
synthkn) (De int., 16 a, 19). Questo marca il passaggio da una linguistica che
conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che
non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per
Platone le espressioni linguistiche erano segni che "rivelano"
qualcosa di non percepibile (l'essenza del l'oggetto o la djnamis), per
Aristotele esse sono simboli che stabiliscono convenzionalmente una pura
relazione di equivalenztr tra i due correlati, senza alcuna preoccupazio ne
che l'un termine "riveli" l'altro. 5 . l . 3 Il linguaggio degli
animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet te di
distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali,7
questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii) interpretabili.
Già la nozione di "voce" (phon) presenta alcune interes- 5. 1
TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1 santi particolarità. Nel De anima si
dice che un suono può essere definito una "voce" quando: (i) sia
emesso da un es sere animato (II, 420 b, 5); (ii) sia dotato di significato (s
mantik6s) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoni emessi dagli ani mali, per quanto
definiti ps6phoi (''rumori"), hanno tutta via le due precedenti
caratteristiche. Ciò che li distingue dalle voci emesse dagli uomini sono due
fattori: (i) non sono convenzionali (e di conseguenza non possono essere né
simboli né nomi), ma sono "per na tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii)
sono agrammatoi, cioè "inarticolabili" o "non combinabili"
(ibidem, e Pot., 1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del
resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del
carattere di semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici
(adiafretoi, "invisibili") possono articolarsi in uni tà più grandi
dotate di significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili,
ma non combinabili (Pot., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare
riassuntivamente i caratteri del lin guaggio umano in contrapposizione ai
suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano -
per convenzione - elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili -
lettere - elementi dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali
- per natura - elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi
che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare,
tra l'altro, che la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal
verbo dlofìsi (''rivela no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma
l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel
caso del linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri mo piano il carattere
semiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la
loro causa. 1 12 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5. 1 .4 Le
"affezioni dell'anima" Ritornando poi al triangolo aristotelico della
significa zione, la seconda nozione degna di rilievo è quella di pathmata en
tii psychi. Si noterà che, dove ci si aspetterebbe la nozione di
"significato", troviamo invece un'entità psichi ca, qualcosa che non
è posto all'interno del linguaggio, ma nella mente stessa degli utenti del
linguaggio. Per di più le affezioni dell'anima concepite da Aristotele, pur
configu randosi come eventi psichici, non sono affatto individuali: si tratta
piuttosto di elementi che, come dice Aristotele, so no identici per tutti,
fatto che connette la teoria del lin guaggio con una sorta di psicologia
sociale, se non addirit tura universale, piuttosto che individuale (Todorov
1977: 16). In secondo luogo è necessario rilevare una sorta di ambi guità che
si trova nella nozione posta al vertice superiore del triangolo. Infatti
Aristotele dice che i pathimata en tii psychii sono le immagini (homoiomata)
degli oggetti esterni: con ciò in tende che tra gli oggetti e le entità
psichiche c'è lo stesso rapporto che esiste tra l'originale e la copia.
Tuttavia, poi, per indicare la rappresentazione mentale usa anche, più avanti,
l'espressione noma ("pensiero", "nozione", 16 a, 10): ma,
in questo secondo caso, precisa che i pensieri, sot to certe condizioni,
possono essere veri o falsi. Da ciò con segue che i nomata vengono concepiti
come forme di giu dizio . Si tratta di due nozioni completamente diverse, e il
fatto che venissero entrambe messe in rapporto con le medesime espressioni
linguistiche aveva fatto pensare a un loro uso si nonimico, che risultava
aporetico. In realtà, come ha messo in evidenza Belardi (1975: 109), nessuna
delle due nozioni esaurisce da sola il livello della rappresentazione psichica,
ma esse rimandano a due facoltà differenti dell'anima: i pathtnata rimandano a
una facoltà passiva dell'anima, quella di subire impressioni dagli oggetti del
mondo ester no; i nomata rimandano a una facoltà attiva, quella di ela borare
giudizi. Questa relazione è del resto confermata dal 5.l TEORIA DEL
LINGUAGGIO E DEL SEGNO 113 rinvio che Aristotele fa al De anima, trattato nel
quale non vengono discussi solo i pathimata, ma anche le altre fa coltà. 5.1.5
Semantico e apofantico Non si può, a questo punto, non fare un cenno (anche se,
di necessità, breve) a una distinzione che si affaccia, nel pensiero
linguistico di Aristotele, tra la categoria del "se mantico" e
quella dell'"apofantico". Nel De interpretatione (16 a, 9 e sgg.)
viene aperta la problematica circa la diffe renza tra phasis (il semplice
"detto") e kataphasis (!'"affer mazione"). I nomi (ma così
anche i verbi) in sé costituisco no un "detto", ma non possono da
soli costituire un'affer mazione o una negazione. Correlatamente, vengono
distin ti due tipi di rappresentazioni mentali (noimata): l . quella "che
prescinde dal vero e dal falso"; 2. quella "cui spetta
necessariamente o di essere vera o di essere falsa". Ciò che in realtà
viene a essere contrapposto è la nozione di significato rispetto a quella di
condizioni di verità. Al primo tipo di rappresentazione, infatti, corrispondo
no i nomi (e anche i verbi) presi da soli, i quali possono avere un
significato, ma non hanno condizioni di verità. Ciò è provato da Aristotele
mediante la scelta di un caso particolare: il termine "ircocervo"
(traghélaphos). Esso "si gnifica bensì qualcosa" (cioè una
commistione mostruosa tra un caprone e un cervo), ma non può essere detto vero
o falso. Il "qualcosa" a cui si riferisce qui Aristotele indivi dua
appunto la dimensione della semanticità pura, regolata da leggi diverse da
quelle della referenzialità. Al secondo tipo corrispondono, invece, quelle
entità che hanno la dimensione linguistica della proposizione: è quan do si
passa agli enunciati affermativi e negativi che diviene possibile parlare di
verità o di falsità. È solo in questo caso che diviene possibile parlare di
apofanticità come dimensio ne aggiuntiva (non contrappositiva) rispetto a
quella se mantica. Ma qual è il mezzo specifico per passare dalla
dimensio- 1 14 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE ne semplicemente
semantica a quella apofantica? Non ci sono dubbi che esso consiste nell'uso del
verbo come predi cato. Del verbo Aristotele valorizza essenzialmente la fun
zione predicativa, quando, parlando del giudizio, riduce il verbo a !copula +
predicatol: "non c'è differenza", sostiene egli infatti, "tra
dire: l'uomo cammina, e dire: l'uomo è camminante" (De int. , 21 b, 9-10).
In effetti il verbo viene qui concepito come nome assunto in funzione
predicativa (Morpurgo-Tagliabue 1967: 62). Tuttavia, affinché il verbo possa
esplicare questa sua funzione occorre che esso sia congiunto a qualcos'altro
(cioè a un nome); preso da solo, cioè quando la sua funzio ne predicativa non
può dispiegarsi, esso non può affermare alcunché (De int., 16 b, 19-25).
L'incapacità del verbo preso da solo, ad affermare l'esi stenza di una certa
cosa (cioè a fare asserzioni) è dimostrata da Aristotele con il ricorso
all'esempio del verbo "essere": nemmeno esso preso da solo è capace
di affermare che una cosa è. Così commenta Eco (1984: 25): "Pertanto,
quando Aristotele dice che neppure il verbo essere da solo è segno
dell'esistenza della cosa, vuoi dire che l'enunciazione isola ta del verbo non
è indizio che si stia affermando l'esistenza di qualcosa: perché il verbo possa
avere tale valore indiziale occorre che sia congiunto gli altri termini
dell'enunciato, il soggetto e il predicato (e quindi il verbo l essere l è
indizio di asserzione di esistenza, o di predicazione deli'inerenza attuale di
un predicato a un soggetto, quando appaia in contesti come lx è yl oppure lx èl
, nel senso di "x esiste di fatto)". 5.2 La teoria del segno 5.2.1 La
definizione Completamente irrelata rispetto alla teoria del linguag gio, in
Aristotele la dottrina del segno si pone nel punto di intersezione tra logica e
retorica e i segni sono trattati tanto nei Primi analitici quanto nella
Retorica. 5.2 LA TEORIA DEL SEGNO 115 Allo stesso tempo, la nozione di
segno presenta due aspetti fondamentali: da una parte infatti ha un interesse
epistemologico e antologico, in quanto si configura come strumento di
conoscenza, che deve servire a condurre l'at tenzione dei soggetti conoscenti
a operare un passaggio da un fatto a un altro (Todorov 1977: 19; Simone 1969:
91); dall'altra ha un carattere prettamente logico, in quanto è dotato di un
meccanismo formale che presiede al suo fun zionamento. La definizione generale
del segno (smeion) è data nei Primi analitici (II, 70 a, 7-9). Di questo passo
esistono di verse traduzioni (Colli 1982: 252; Todorov 1977: 19 ecc.); ma
quella che sembra individuare nel modo più soddisfa cente il significato del
passo è quella di Preti (1956: 5): Quando, una cosa essendo, un'altra è, oppure
quando una cosa divenendo, un'altra diviene anteriormente o posteriormente,
queste ultime sono segni del divenire o dell'essere. La sottolineatura che
abbiamo effettuato intende mettere in risalto appunto la specificità
deIl'interpretazione di Pre ti, che restituisce al passo aristotelico tutta la
sua carica di problematicità e la complessità, che appunto gli ulteriori
sviluppi, a opera delle scuole successive, della dottrina del segno metteranno
in luce. Prima di tutto vediamo però ciò su cui tutte le interpreta zioni del
passo concordano, cioè che la nozione di segno proposta da Aristotele prevede
l'instaurarsi di un rapporto di tipo implicativo: il segno coincide press'a
poco con il rapporto di implicazione "p implica q", accezione,
questa, abbastanza comune della nozione di segno e che abbiamo già trovato
operante in altri ambiti, diversi dalla filosofia. Ma più precisamente, e
particolarmente in questa defini zione, il segno coincide con uno dei termini
dell'implicazio ne. L'interpretazione di Preti suggerisce che esso coincida in
particolare con il secondo termine, cioè suggerisce che la definizione
aristotelica vada letta nel senso che "q è segno di p": ora questa
definizione, che viene a configurare il rap porto segnico come "Se q,
allora p", comporta, ai fini della 116 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN
ARISTOTELE sua applicazione ad argomentazioni inferenziali, un'inver sione da
"p implica q" a "q implica p". È proprio questo fatto che
conferisce alla nozione di se gno il carattere di problematicità e che conduce
all'instau razione di un dibattito serrato e complesso in seno alle scuole
filosofiche postaristoteliche, anche se esse non fa ranno esplicitamente
riferimento ad Aristotele. D'alta parte, questo tipo di inversione sembra porsi
an che alla base della richiesta, ai fini della validità del segno, di
un'implicazione tra p e q più stretta di quanto non sia, a esempio,
l'implicazione materiale. Sembra, in sostanza, che già nella definizione
aristotelica venga richiesta la con dizione "Se non-q, non-p"
("q, o non-p"), cioè esattamente quel tipo di implicazione stretta
che verrà dagli stoici consi derata necessaria per la validità del segno. Al
di là di questo si deve anche notare che nella defini zione (e in genere
nell'intera trattazione) del segno condot ta da Aristotele è riscontrabile
un'ambiguità di fondo nel modo di concepire i due termini del rapporto
implicativo. Per un verso, infatti, essi costituiscono dei fatti (o delle
proprietà) (e non a caso una parola centrale della definizio ne è tò pragma
"il fatto"). Aristotele del resto dà esempi di questo genere:
"il mostrare che una certa donna è gravida attraverso il fatto che essa ha
il latte"; il segno è "l'aver lat te", che appare appunto
essere l'espressione di un fatto o di una proprietà. Per un altro verso il
segno è concepito come una proposi zione, in quanto un segno può costituire la
premessa da cui si sviluppa un sillogismo: "Un segno, invece, vuole essere
una premessa dimostrativa, o necessaria o fondata sulla opinione" (An.
Pr., II, 70 a, 6-7). In realtà, la definizione di segno come proposizione, che
può costituire una premes sa in un ragionamento infcrenziale, è abbastanza
centrale in Aristotele. Infatti il ruolo fondamentale che egli attribui sce al
smefon è proprio quello di essere uno degli elementi che forniscono premesse a
quel particolare tipo di siilogi smo che è I'entimema. 5.2 LA TEORIA DEL
SEGNO 1 17 5.2.2 L'entimema e i segni Nella nozione di entimema coesistono due
aspetti com plementari, che la tradizione successiva svilupperà talvolta
separatamente. Da una parte l'entimema può essere consi derato un sillogismo
tronco, in cui una delle premesse è mancante, perché ritenuta nota o ovvia.9
DalPaltra, l'enti mema viene considerato un sillogismo che tende alla per
suasione, e non alla dimostrazione; in quanto tale non è ne cessario che le
sue premesse siano vere, ma soltanto che sia no probabili (hos epì tò poly).
Aristotele sviluppa esplicita mente il secondo aspetto delle definizioni
parallele dei Pri mi analitici (II, 70 a, 9-10) e della Retorica (1, 1357 a,
30- 32) . Dunque il segno trova la sua principale applicazione nel l'ambito
del discorso persuasivo, ovvero retorico, dove, sotto forma di proposizione,
entra nel meccanismo dell'en timema e vi svolge il ruolo di
"protasi", di premessa. Ma, in quell'ambito, si profila una prima
distinzione tra la no zione di smeion e quella di eikos "verosimile"
o "probabi le"), pur imparentate per il fatto di poter figurare
entrambe come premesse negli entimemi. Ciò che contraddistingue la nozione di
eikos è essenzial mente il suo carattere probabilistico, che lo lega irrevoca
bilmente all'opinione, rimuovendolo in una zona del sapere piuttosto insicura,
lontano dalla possibilità di una dimo strazione scientifica. 5.2.3 L'inferenza
dal conseguente Per quello che riguarda la nozione di segno, la situazione è
diversa e senz'altro molto più complessa. In effetti il s meion non costituisce
una categoria semplice, bensì una classe composita che prevede al suo interno
tipi con carat teristiche molto differenziate tra loro. Ma, prima di porre
l'accento sulle differenze interne, è forse possibile osservare che qualcosa
unisce i vari tipi di segni rispetto alla nozione di eikos: invece che sulla
probabilità, nel caso del segno 118 5. LINGUAGGIO ESEGNI IN ARISTOTELE
l'attenzione è concentrata sul carattere di "consequenziali tà". Il
ragionamento inferenziale, basato sui segni, procede tipicamente ek ton
hepomén{Jn, "per conseguenze", tende cioè a inferire la causa
dall'effetto. Per questa ragione sono possibili sia applicazioni corrette sia
applicazioni inganne voli. ÈinparticolarenelleConfutazionisofistiche(167b,
1-5) che Aristotele sviluppa chiaramente la teoria del ragiona mento per
conseguenze: quest'ultimo porta a conclusioni ingannevoli come, a esempio, nel
caso in cui qualcuno, avendo osservato una volta che la terra è bagnata dopo la
pioggia, volesse concludere in generale che, se la terra è ba gnata, allora è
piovuto. Un secondo esempio di ragiona mento per conseguenze dato da
Aristotele concerne le pro prietà, anziché gli eventi, come avveniva in quello
prece dente: se qualcuno, avesse sperimentato che il miele ha la proprietà di
essere giallo e volesse conciudere che qualcosa è miele partendo dalla
proprietà che ha il colore giallo, cor rerebbe il rischio di scambiare per
miele il fiele (ibidem, 167 b, 6-8). In tale contesto Aristotele giunge a
identificare de cisamente questo tipo di inferenza con quello specifico del
segno: "Nei discorsi retorici, del pari, le dimostrazioni trat te da
segni si fondano sulle conseguenze" (ibidem, 167 b, 8- 9). È possibile a questo
punto tornare agli Analitici e com prendere meglio perché Aristotele proceda
innanzitutto alla distinzione fondamentale tra due tipi di segni: il tekmrion,
segno "necessario" o "inconfutabile",10 e il generico s
meion, che ha le caratteristiche opposte. In realtà quest'ultima distinzione
(che, come vedremo, comporta non solo due, ma tre tipi di entità, poiché vi
sono due specie di segni non necessari) corrisponde a un tentati vo di
Aristotele di articolare una tipologia dei segni alle modalità di sviluppo
possibile del sillogismo. Sono infatti tre i modi in cui il sillogismo può
utilizzare la premessa che esprime un segno, corrispondenti alle posizioni
possibili del medio nelle varie figure. In questo modo si possono avere
inferenze che partono da un segno sulla prima, sulla secon da o sulla terza
figura. 5.3 n. MECCANISMO LOGICO 1 19 5.3 D meccanismo logico 5 . 3 . l
Il tekmérion come segno nella prima figura del sillogismo Prima però di entrare
nei dettagli tecnici di questa distin zione, vale la pena di rilevare
preliminarmente che ben di verso è il valore epistemologico che Aristotele
attribuisce al segno che si sviluppa in un sillogismo di prima figura, cioè il
tekmrion, rispetto a quelli che si sviluppano in seconda e in terza figura,
cioè i generici smefa. In realtà, nei due ultimi casi si verifica la tipica
illusione segnalatanelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5),cioèav viene di
credere che ci sia possibilità di conversione tra ra gione e conseguenza,
senza che questo sia di fatto giustifi cato: dunque, in questi casi,
l'inferenza dalle conseguenze alle cause è estremamente ipotetica e insicura.
Nel primo caso, invece, cioè con il tekmrion, si ha un ti po di inferenza che
parte anch'essa dalle conseguenze, co me dimostra l'esempio "se una donna
ha latte, allora essa è gravida", in quanto l'"avere latte"
costituisce sia una con seguenza dell'essere gravida, sia un segno di tale
fatto; tut tavia, al contrario che nei casi precedenti, sembra esserci
possibilità di conversione tra causa ed effetto; o, come sug gerivano le
osservazioni di Preti (1956: 6) riportate prima, sembra essere previsto da
Aristotele, in questo caso, un ti po di implicazione più stretta che non
l'implicazione mate riale. Possiamo vedere ora come Aristotele sviluppa
l'aspetto tecnico dei tre tipi di segno, partendo da quello in prima fi gura:
Ad esempio, il provare che una donna è gravida, in quanto essa ha latte, si
fonda sulla prima figura: il medio è infatti l'aver lat te. Poniamo che A
indichi "esser gravida", che B indichi "aver latte", che C
indichi "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 12-16)11 120 5. LINGUAGGIO
E SEGNI IN ARISTOTELE Traducendo il ragionamento di Aristotele nel comune
schema illustrativo del sillogismo, si otterrà: 8 "chi ha latte" c
"donna" c "donna" In questo esempio il segno "avere
nello schema sillogistico come noi ma è anche il termine intermedio dal punto
di vista esten sionale, tanto che potrebbe essere costruita la seguente fi
gura per illustrare i rapporti tra i termini del sillogismo: A essere gravida l
. A "essere gravida" 2. 8 "avere latte" si predica di si
predica di 3. A sipredicadi "essere gravida" latte" non solo è
medio lo abbiamo riportato, 5.3 n MECCANISMO LOGICO 121 5.3.2 La
seconda e la terza figura del sillogismo e i "semeia" Nella seconda e
nella terza figura il termine medio è il le game che consente Pinferenza, ma
non occupa, né nella formula né estensionalmente, la posizione centrale. Questo
fa sì che l'etichetta di "maggiore" e "minore" sia
"arbitra ria nella seconda o nella terza figura, a qualunque dei due
termini si voglia dare il nome di maggiore o minore" (Allan 1970: tr. it.
1973, 123). Del resto è indubbio che il punto di vista adottato da Aristotele
nella trattazione che egli fa delle premesse sia quello estensionale. Legata a
questo punto di vista è di cer to la svalutazione della seconda e della terza
figura. Passiamo ora ad analizzare il tipo di segno che si svilup pa in un
sillogismo basato sulla seconda figura: "Se una donna è pallida, allora
essa è gravida". Questa è l'analisi di Aristotele: Infine, la presunta
prova che una donna risulta gravida, in quanto è pallida, si sviluppa
attraverso la seconda figura. In realtà, dato che il pallore è una
determinazione conseguente delle donne gravide, e che tale determinazione
appartiene altre si a una certa donna, si crede allora provato che questa
donna sia gravida. Indichiamo con A "la nozione di pallore", con B
"l'essere gravida" e con C "donna". (An. Pr., Il, 70 a,
20-24) Lo schema che può essere costruito in corrispondenza di questo
sillogismo è il seguente: l . 2. 3. A "essere pallida" A "essere
pallida" 8 si predica di si predica di si predica di 8 "chi è
gravida" C "questa donna" C "essere gravida" "questa
donna" 122 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE In questo caso il
segno "essere pallida", che è anche il medio, ha la posizione di un
estremo e si predica contem poraneamente dei due termini "essere
gravida" e di "donna". 12 Aristotele condanna questa inferenza
come non valida. Come si può osservare, ci ritroviamo qui di fronte al ca so
più emblematico di inferenza tratta dalle conseguenze. Una conferma di questa
condanna la si trova anche nel pas so corrispondente della Retorica (1, 1357
b, 17-21): "Se uno respira rapidamente è segno che ha la febbre".
Anche que sto esempio di segno dà origine a un sillogismo sulla secon da
figura, in cui il medio, "respirare rapidamente", ha la posizione
dell'estremo maggiore e si predica di entrambi i termini "avere la
febbre" e "uomo". Nella definizione di questo tipo di segno data
nella Reto rica vengono aggiunte due particolarità interessanti rispetto a
quella presentata negli Analitici: (i) la prima è che il se gno è confutabile
anche se esso risultasse vero (kàn althès i1): viene dunque prevista la
possibilità di costruire un'infe renza che risulti conforme alla verità, anche
se questo è so lo un caso, si direbbe, accidentale; ciò deriva dal fatto che
il sillogismo èformalmente scorretto, ma ci sono casi in cui esso porta,
nonostante tutto, a conclusioni materialmente vere (Plebe 1966); (ii) la
seconda particolarità consiste nel l'accennare al fatto che questo tipo di
segno instaura una relazione "dall'universale al particolare": ciò è
probabil- mente da mettersi in relazione al fatto che è proprio il ter mine
estensionalmente maggiore a svolgere la funzione di medio, e che si predica
prima di una classe, poi di un indi viduo . Vediamo ora un segno dal quale si
sviluppa un sillogismo basato sulla terza figura. Ecco la definizione che ne
viene data negli Analitici: D'altro canto la presunta prova che i sapienti sono
eccellenti - poiché Pittaco è eccellente - si costruisce attraverso l'ultima fi
gura. Poniamo che A indichi "la nozione di eccellente", che B indichi
"i sapienti", che C indichi "Pittaco". Risponde in tal ca
so a verità il predicare di C tanto A quanto B; senonché la pre- 5.3 IL
MECCANISMO LOGICO 123 messa BC non viene enunciata, perché risaputa, mentre
Paltra è assunta espressamente. (An. Pr., II, 70 a, 16-20) Il segno, più
precisamente, è la protasi del condizionale "Se Pittaco è eccellente, i
sapienti sono eccellenti " . Su di es so si sviluppa un sillogismo che
può essere rappresentato dalla formula: l . 2. 3. A si predica di "essere
eccellente" c "Pittaco" c "Pittaco" 8 "chi è
sapiente" 8 "essere sapiente" si predica di A si predica di
"essere eccellente" In questo caso il medio è "Pittaco",
che ha la posizione del termine minore estensionalmente. Anche il sillogismo
costruito su questo tipo di segno vie ne condannato in quanto confutabile (/jsimos).
Del resto Aristotele aggiunge che esso rimane confutabile (come quello in
seconda figura) anche nell'evenienza in cui esso conduca a una conclusione
accidentalmente vera. Inoltre, nel passo parallelo della Retorica (I, 1357 b,
10-11), viene precisato che esso instaura un rapporto che va "dal partico
lare all'universale"; anche in questo caso è la posizione del medio, che
qui è il termine estensionalmente minore, a sug gerire questa determinazione
ad Aristotele; in effetti si par te dalla proprietà di un individuo
particolare per conclude re che tale proprietà appartiene a un'intera classe
di cui l'individuo fa parte. 5.3.3 La classificazione Una volta stabilita una
distinzione fra i tre tipi di segno sulla base della posizione che prende il
medio in ciascuna 124 5. LINGUAOOIO E SEGNI IN ARISTOTELE delle figure,
Aristotele procede a una ricapitolazione gene rale, dove consolida le
distinzioni terminologiche e ribadi sce la diversità della potenza conoscitiva
in relazione a cia scun tipo: il nome tekmirion ("indizio sicuro",
"prova") viene riservato a quei segni che prendono realmente la posi
zione del termine intermedio (cioè in cui il termine è medio anche dal punto di
vista estensionale, sul quale si sviluppa un sillogismo in prima figura);
invece il nome generico s meion viene lasciato a quei segni che all'intero
sillogismo hanno la posizione di un estremo (sui quali cioè si svilup pano
delle inferenze in seconda e terza figura) (An. Pr. , Il, 70b, 1-6). Rispetto a
quanto abbiamo già detto, è necessario ag giungere una precisazione sulla
nozione di éndoxon, che ca ratterizza nel massimo grado il sillogismo basato
sul· tekmi rion. In effetti nei Topici Aristotele precisa che i sillogismi dia
lettici che danno il massimo di garanzia sono i sillogismi che derivano da
premesse che sono degli éndoxa. Vengono poi definite éndoxa quelle proposizioni
che sono "condivise da tutti o dai più o dai sapienti, e tra questi da
tutti, dai più o dai più noti e famosi" (Top., l, 100 b, 21-23). Sono
queste, del resto, le condizioni che permettono di confermare dialetticamente
una tesi (Viano 1958 a). Il passo parallelo della Retorica propone un'analoga
classificazione che distingue tra il segno necessario (anan kaion),
corrispondente al tekmjrion, e il segno non neces sario m anankaion),
corrispondente al generico s meion, 3 e ulteriormente suddivisi in "segno
che si trova in rapporto dali'universale al particolare" (da mettersi in
rela zione ai segni in seconda figura del sillogismo) e "segno che si trova
nel rapporto del particolare ali'universale" (da met tersi in relazione
ai segni in terza figura). La classificazione aristotelica può allora essere
disposta sullo schema della pagina seguente: premesse da cui derivano gli
entimemi / eik6s smelon (segno) ("probabile", "verisimile")
- è tmdoxon ("fondato sulla opinione") es.: "è amato -ama"
·è invidioso -detesta• m'S snsnkslon ("'non necessario") - è
éndoxon ("fondato sulla opinione") snsnkslon (..necessario")
tekm"érion ("prova") - è IJ/yton (..inconfutabile·) - è il medio
di un sillo- gismo in 1 • figura es.: ..essa ha latte-è gravide" "ha
la febbre -è malata" t6 ksth ' kéksston pr6s t6 ksth61on ("dal
particolare all'universale") rl) ksth6/on pr6s rl) kstll méros ( ·dall'universale
al particolare") - è lyron (..confutabile") - è medio in un
sillogismo - è lyton (..confutabile") - è medio in un sillogismo in 3•
figura es.: "Pittacco è giusto-i sapienti sono giusti" in 2• figura
es.: ..respira rapidamente-ha la febbre" "è pallida -è
gravido" 126 5 . LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.4 Un sistema
particolare di segni non linguisti ci: la fisiognomica La particolare
concezione che Aristotele ha del segno, come cosa o fatto che serve a condurre
l'attenzione del sog getto conoscente su un'altra cosa o fatto, permette di
por tare in primo piano un tipo di conoscenza che si ottiene in modo
indipendente dal linguaggio verbale. Ciò conduce a un'evidente valorizzazione
dei sistemi di segni non lingui stici . Aristotele, infatti, nei Primi
analitici, dopo aver esposto la teoria del segno, propone un'interessante,
quanto curio sa applicazione a un tipo di segni molto speciali: quelli del la
fisiognomica. Neli'esempio dato si tratta di risalire da un segno visivo a un
tratto del carattere: le grandi estremità del leone vengo no assunte come
segno del suo coraggio. Tutto l'interesse di Aristotele è concentrato su due
punti: da una parte egli tende ad acquisire una conoscenza circa l'ordine
psichico partendo da un fatto rilevabile attraverso i sensi; dall'altra tende a
stabilire il legame più stretto pos sibile tra due fatti che l'esperienza gli
mostra associati (in questo caso: grandi estremità e coraggio), come presuppo
sto dell'affidabilità stessa della conoscenza. Per dare validi tà al suo
esempio di fisiognomica Aristotele propone di fa re tre assunzioni: 1 4 (i)
che "le affezioni naturali trasformino simultaneamente il corpo e
l'anima"; (ii) che vi sia un solo segno di un unico fatto, cioè
dell'affezione dell'anima che deve essere scoperta; (iii) che ogni genere abbia
un'affezio ne propria e un proprio segno (fdion [... ] semefon). Come si può
osservare, Aristotele, con queste assunzio ni, tenta di razionalizzare e di
dare dignità filosofica a una materia che era eminentemente mantica. Qui non
c'è più la divinità che garantisce la corrispondenza fra un tratto per
cepibile dell'aspetto fisico e qualcosa che si inscrive nell'or dine
dell'invisibile (sia esso il carattere di un uomo o più generalmente il destino
legato a quel carattere). Per Aristo tele vi può essere corrispondenza fra un
tratto fisico e un 5.4 LA FISIOGNOMICA 127 aspetto interiore perché
qualsiasi affezione trasforma con temporaneamente corpo e anima, proprio come
avviene nel caso di chi ha imparato la musica, che si è trasformato non solo
nell'abilità fisica di suonare, ma anche nella sua sensi bilità interna. Ma
come avveniva per la mantica, in questa materia si può correre il rischio
deli'ambiguità. È proprio per elimina re quest'ultima evenienza che Aristotele
propone le sue ul teriori assunzioni. Infatti l'ambiguità si può verificare in
due casi distinti: (i) quando si hanno molti segni che riman dano a un'unica
affezione (fenomeno che potremmo avvi cinare alla sinonimia): l'unico rimedio
epistemologico è, in questo caso, assumere che i segni siano univoci, cioè che
un unico fatto sia significato da un solo segno; (ii) quando un genere abbia
più affezioni, in maniera tale che si rimane in decisi su quale sia quella a
cui rimanda il segno (fenomeno che potremmo avvicinare all'omonimia): la
soluzione pro posta da Aristotele è quella di stabilire per ogni genere qua
le sia l'affezione che gli è propria e quale il segno proprio, in maniera da
riferire quest'ultimo univocamente alla prima. Stabilendo preliminarmente le
tre precedenti assunzioni è possibile per Aristotele fare della fisiognomica
una scienza. E, rispettando appunto queste assunzioni, è possibile stabi lire
che per il leone le grandi estremità sono il segno del co raggio (An. Pr., II,
70 b, 16-17). Fin qui abbiamo seguito Aristotele nel suo ragionamento che si
svolge su un piano, per così dire, deduttivistico. È possibile ricostruire,
però, anche un altro versante dell'ar gomentazione che si colloca
geneticamente in un momento in cui la regola deduttiva non è ancora stata
posta. In effet ti è possibile pensare a un momento in cui si osserva che una
certa affezione, il coraggio, è associata al genere dei leoni;
contemporaneamente si osserva che ai leoni è asso ciata la caratteristica di
are grandi estremità. A questo punto viene formulata l'ipotesi che il segno del
coraggio sia rappresentato dal possesso di grandi estremità. Il processo logico
che verrebbe qui a configurarsi segui rebbe lo schema: 128 5. LINGUAGGIO
E SEGNI IN ARISTOTELE l. "essere coraggiosi" 2. "avere grandi
estremità" 3. "essere coraggiosi" (probabilmente) si predica di
si predica di si predica di "leoni, "leoni" "chi ha grandi
estremità" Un sillogismo in 3a figura, come è questo, secondo Peir ce
costituirebbe una induzione, ma di un tipo talmente "ti mido da perdere
totalmente la caratteristica ampliativa pro pria dell'induzione genuina"
(1984: 210). Esso avrebbe un forte carattere ipotetico. Tuttavia Aristotele non
segue in effetti questo ragiona mento perché non riesce ad accettare come
valido dal pun to di vista logico un procedimento che risulta privo di ga
ranzie. Così è costretto a inquadrare questo, si noti bene, quanto mai
aleatorio segno del coraggio in uno schema an cora una volta deduttivo. In
altre parole, l'osservazi,"ne deli'associazione tra coraggio e grandi
estremità deve tra mutarsi in un legame stretto e costante. Lo sforzo di Ari
stotele è tutto rivolto a dimostrare che ogni volta che ci sia coraggio, questo
venga manifestato dalla presenza di gran di estremità, e viceversa. In termini
tecnìci, la situazione ideale, cioè il massimo della certezza, si ottiene
quando si verifica conversione (antistréphein) tra ciò che funge da se gno e
ciò a cui esso rimanda, ovverosia quando l'estensione del primo termine è
esattamente uguale a quella del secon do. Da qui la necessità (puramente
logica, e non semiotica) che un unico segno si riferisca a un'unica affezione:
solo in questo modo è possibile la conversione tra i due termini. A questo
punto il problema di fare un'ipotesi su quale sia il segno del coraggio si
trasforma in quello di trovare un elemento di mediazione tra il
"coraggio" e il "genere dei leoni", che ne appaiono
costantemente provvisti. Tale elemento di mediazioneJ che sembra appunto giusti
ficare l'associazione, è "avere grandi estremità", che divie ne così
il segno, sul quale viene costruito il seguente schema sillogistico deduttivo
(An. Pr., II, 70 a, 32-38): l . 5.5 SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEONICO 129 A
si predica di B "essere coraggioso" "chi ha grandi
estremità" B si predica di c 2. 3. A si predica di c "avere grandi
estremità'' "leone" "essere coraggioso" "leone"
Ma ciò che Aristotele trascura di mettere in luce è che, come abbiamo visto, i
dati di partenza della deduzione stes sa poggiano su una precedente inferenza
a carattere più ipotetico. L'esempio proposto è interessante perché, prima
della presentazione dello schema formale, tutto il ragiona mento è rivolto a
stabilire i criteri che permettano di dire che qualcosa è segno di
qualcos'altro. Ma ciò è possibile solo formulando un'ipotesi, che solo in
seguito può essere verificata deduttivamente. 5.5 La svalutazione del sapere
segnico In effetti la diffidenza di Aristotele nei confronti della conoscenza
che si può ricavare dai segni è molto marcata. Infatti, nella concezione
aristotelica, anche quando tra i due termini del segno vi sia un legame
necessario, la cono scenza del termine non noto sembra imporcisi dall'esterno,
senza che si riesca a comprenderne la causa. Aristotele nei Secondi analitici
(1, 75 a, 28-36) oppone il ragionamento basato sull'essenza a quello basato
sulsegno; quest'ultimo infatti viene definito come ragionamento che si fonda
sulle determinazioni accidentali. Ne consegue, peraltro, che soltanto con il
primo tipo è possibile arrivare a conoscere la causa. Ciò non significa che la
conoscenza attraverso il segno sia totalmente esterio re. In certi casi, che
sono quelli dei segni necessari, il segno permette di risalire alla causa: così
la constatazione del fat to che una donna ha latte permette di risalire alla
causa, cioè al suo essere gravida, come pure l'accertamento della 130 5.
LINGUAGGIO E SEGNI IN ARlSTOTELE presenza della febbre permette di risalire
allo stato di ma lattia che la determina. Tuttavia questo tipo di ragionamento
non arriva a forni re una vera e propria scienza dei fatti, in quanto
quest'ulti ma si ottiene solo a partire dalla causa. Il ragionamento at
traverso il segno parte invece dall'effetto e permette soltan to
l'affermazione del fatto, cioè dello h6ti ("che"), senza condurre
alla comprensione delle cause, cioè del di6ti ("perché"). Nel
capitolo 13 dei Secondi analitici Aristotele insiste sul fatto che la
dimostrazione veramente scientifica non consi ste nella scoperta o nella
conclusione della causa, ma essa è scientifica proprio in quanto parte dalla
causa; in quel con testo viene infatti fondata la distinzione tra "il
sapere che qualcosa è" e "il sapere perché qualcosa è". In
effetti alle scienze dello h6ti viene riconosciuto un cer to diritto di
esistenza; tuttavia esse vengono considerate in feriori in quanto portano sui
fatti, senza raggiungere la co noscenza del necessario e a malapena quella
dell'universale. Ma quali sono queste scienze dello hoti? Dagli esempi che
Aristotele fornisce si direbbe che si tratta eminentemente di scienze
indiziarie, basate sui segni e fornite di un carattere fortemente ipotetico in
contrapposizione ad altre che invece hanno carattere deduttivo. Tra questi
esempi Aristotele cita il caso dell'astronomia (astrologhfa), nome condiviso
sia da una certa scienza nau tica (nautik) sia da una scienza basata su
fondamenti ma tematici (mathmatik). Solo la seconda è scienza delle cau se.
Ugualmente Aristotele contrappone la medicina alla geometria: infatti, nel caso
delle ferite circolari, spetta al medico di sapere che esse guariscono più
lentamente, men tre spetta all'esperto di geometria conoscere il perché di
questo fatto. Dunque abbiamo medicina e scienza della navigazione contro
matematica e geometria: il senso della scelta aristo telica contro il segno
non potrebbe essere più chiaro. È interessante osservare come per Aristotele
sia possibile anche sviluppare un ragionamento dello hoti oppure uno del dioti
all'interno di una stessa scienza. La differenza che 5.5 SVALUTAZIONE DEL
SAPERE SEGNICO 131 contraddistingue i due tipi è duplice. Infatti si fa un
ragio namento dello h6ti, in primo luogo, quando il sillogismo non si basa su
premesse immediate (che, nell'epistemologia aristotelica, significa assumere la
causa prima e prossima); in secondo luogo, quando, pur basandosi su premesse im
mediate, la deduzione non discende dal termine che indica la causa di un fatto,
ma dal più noto di due termini, en trambi riferiti al fatto. In altre parole,
la differenza specifi ca del sillogismo del dioti è ancora che esso va dalla
causa ali'effetto e non dali'effetto alla causa. L'esempio che Aristotele
fornisce è molto interessante. Posto, infatti, che c'è una certa relazione tra
il non sfavilla re dei pianeti e la loro vicinanza alla terra, Aristotele mo
stra come attraverso questi due termini sia possibile svilup pare due tipi di
ragionamento di diverso valore epistemolo gico . Da una parte è infatti
possibile dedurre la vicinanza dei pianeti dal fatto che non sfavillano (''Se non
sfavillano, so no vicini"). Si ha in questo caso un ragionamento dello
hoti e si può osservare che in questo contesto il "non sfavillare" è
tipicamente un segno del fatto che risulta come conclusio ne, cioè la loro
"vicinanza" alla terra. Il sillogismo costruito sul segno non parte
dalla causa del non sfavillamento dei pianeti (che è costituita dalla loro vi
cinanza), ma parte dell'effetto, che viene assunto come ter mine medio, per
arrivare alla causa. È possibile anche che la causa non venga mai realmente
conosciuta. Aristotele contrappone a questo tipo di ragionamento quello che
deduce il non sfavillamento dei pianeti dalla loro vicinanza. Si ha in questo
caso un ragionamento del dioti, che mostra il perché qualcosa sia, dal momento
che coglie la causa precisamente in quanto causatrice dell'effetto; for
malmente ciò avviene in quanto viene assunto come medio proprio il termine che
indica la causa. Dunque tra il sillogismo del dioti e quello dello hoti c'è un
rapporto di simmetria inversa. È sufficiente infatti in vertire i termini del
secondo per ottenere il primo. Tuttavia ciò non è sempre possibile, come
precisa il com mentatore del testo aristotelico Filopono: 132 5.
LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Spesso è necessario che, quando viene posta la
causa, anche l'effetto sia posto, mentre non è affatto necessario che, quando
si dà l'effetto, anche la causa si dia: così il fatto di avere il co lorito
pallido non si accompagna necessariamente al parto, ma se una donna ha
partorito, essa ha sempre il colorito pallido: infatti possono esserci varie
cause del medesimo fatto. (Philop., in Anal. Post., Wallies, 169-9)
L'aleatorietà del procedimento inferenziale tipico del se gno (dal pallore al
parto) viene qui messa in risalto preve dendo il caso che un effetto possa
avere molteplici cause, situazione nella quale, secondo Filopono, non potrà
essere costruito un vero sillogismo dello h6ti, ma soltanto un sil logismo del
di6ti. Del resto, Aristotele stesso aveva previsto il caso che un effetto
potesse avere cause differenti,15 che rendono difficile e aleatorio il percorso
di risalita dali'effet to alla causa. D'altra parte, però, secondo il
con1mentatore Filopono, si può verificare anche il caso opposto, quello cioè in
cui sia possibile soltanto un ragionamento dello h6ti. Infatti è possibile
risalire dal fatto che una donna ha partorito (co me effetto e segno) al fatto
che essa si è unita a un uomo (come causa): ma la reciproca non è necessaria,
poiché il parto non segue necessariamente all'accoppiamento (Phi lop., in
Ana/. Post., Wallies, 169-21). C'è infine un'ultima caratteristica che
contraddistingue il ragionamento dello h6ti da quello del di6ti, consistente
nel fatto che il primo è tipico del emplice osservatore dei feno meni, non
specialista, mentre il secoildo spetta all'uomo di scienza (An. Post. , I l ,
79 a, 2-3). In Aristotele, in definitiva, le scienze indiziarie e il segno in
generale sono oggetto di una svalutazione epistemologi ca, in quanto nella sua
concezione teorica della scienza non viene fatto alcuno spazio alla ricerca e
all'ipotesi, quale è presupposta invece da una concezione semiotica del sapere.
Come sottolinea Le Blond (1939, tr. it. 1973: l 05), per Ari stotele la
scienza "n'est elle pas principalement recherche, mais possession; les
Analytiques n'apportent guère d'indi cations sur la recherche: il décrivent la
science achevée, qui 5.6 DEDUZIONE E ABDUZIONE 133 descend des causes aux
effets et coincide absolument avec le dynamisme des choses - conception
singulièrement con fiante, on le voit, qui pose en principe la connaissance
par faite de la réalité". 5.6 Deduzione e abduzione Non si deve tuttavia
pensare che questa posizione teorica corrisponda esattamente alla pratica di
ricerca adottata di fatto da Aristotele, a esempio nelle opere scientifiche.
Né, d'altra parte, si deve accettare enza riserve l'asserzione ari stotelica
circa il carattere assolutamente deduttivo delle scienze del di6ti. Come ha
mostrato Eco (1983: 242), per Aristotele trovare il perché di un certo fenomeno
significa trovare un buon termine medio che spieghi quel fenomeno: ma questo
termine medio può essere, in certi casi, anche molto ardito e sofisticato, e
non corrispondere a nessuna conoscenza già accertata. Esso può essere, cioè,
una "ipote si" nel senso peirceano. È illuminante, a questo riguardo
, il ragionamento svilup pato da Aristotele nel trattato Parti degli animali,
in cui, a proposito degli animali provvisti di corna, vengono regi strati
alcuni "fatti sorprendenti" bisognosi di spiegazione. A esempio: (i)
che tutti gli animali con le corna hanno una sola fila di denti, cioè mancano
degli incisivi superiori (663 b - 664 a); (ii) che tutti gli animali con le
corna hanno quat tro stomaci (674 a-b); (iii) che tutti gli animali con
quattro stomaci mancano degli incisivi superiori (674 a) ecc. Il problema che
ha di fronte Aristotele, in questo caso, è quello di spiegare la ragione per
cui, innanzitutto, agli ani mali con le corna mancano gli incisivi superiori.
Come sot tolinea Eco, Aristotele "deve porre una Regola tale che, se il
Risultato che vuole spiegare fosse un Caso di questa Re gola, tale Risultato
non sarebbe più sorprendente'' (1983: 239). E del resto, secondo Peirce, quando
una circostanza "strana" si spiega supponendo che essa sia il caso di
una certa regola 0enerale, siamo di fronte a un'ipotesi o abdu zione .
134 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Proprio in questi termini procede
Aristotele, supponen do che, nel caso considerato, probabilmente, la materia
du ra è stata deviata dagli incisivi superiori alla testa con lo scopo di
formare le corna. A sua volta, la mancanza di in cisivi superiori è causa
dello sviluppo di un quarto stomaco ed è il medio dal quale si sviluppa un
ulteriore sillogismo. Espresso nei termini del sillogismo (nella
formalizzazione peirceana adottata da Eco) il primo ragionamento si rico
struisce così: Regola = Tutti gli animali devianti (cioè che hanno deviato la
materia dura dalla bocca alla testa) mancano degli in cisivi superiori.
Caso=Tutti gli animali con le corna hanno deviato. Risultato = Tutti gli
animali con le corna mancano degli in cisivi superiori. La "deviazione
deUa materia dura" costituisce contem poraneamente il medio del
sillogismo e la spiegazione del fenomeno. Quello che Eco mette giustamente in
risalto è che lo sforzo di spiegare a titolo ipotetico perché un feno meno è
così come è, costruendo una forma rigorosamente deduttiva, non differisce in
niente da ciò che Peirce chiama abduzione: in ciascuno dei due casi c'è un
lavoro su ipotesi che permettono di spiegare fenomeni che appaiono "sor
prendenti " . L'idea di Eco, in sostanza, è che al di sotto e prima del li
vello deduttivo preso in considerazione da Aristotele esista un livello
abduttivo che Aristotele rifiuta di riconoscere, ma al quale ricorre nel caso
che debba costruire delle defi nizioni scientifiche: definire il perché di un
fatto sorpren dente "significa stabilire una gerarchia di collegamenti
cau sali per via di una sorta di ipotesi che può essere convalida ta solo
quando dà luogo a un sillogismo deduttivo che agi sce come previsione di
successive modifiche" (ibidem, 241). Ed è in definitiva proprio il mancato
riconoscimento di questo movimento inferenziale preliminare che vieta ad
Aristotele di riconoscere il carattere ipotetico della scienza e, nel contempo,
la produttività dello stesso sapere segnico. 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO
E LA SEMIOTICA DEGLI STOICI 6.0 Introduzione La scuola stoica è quella che
nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessione
semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già av
venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di stinti tra di loro:
da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta anche
un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza
della terna "significante", "significato", "oggetto esterno");
dal l'altra, una teoria del "segno" proposizionale, connessa con la
teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoica trovano però un
pun to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legame con il lekt6n,
un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica stoica. In effetti, a
fondamento di quest'ultima, si pone la speciale dialettica tra le entità che
condividono la proprietà di essere "corpi" (sOmata) e quelle entità
che sono invece corporee (asOmata). Più in dettaglio si può dire che di solito
l'ontologia stoica prende in considerazione solo quegli individui che hanno la
caratteristica di essere oggetti tridimensionali e di possedere altresì una
resistenza nel tem po. Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi
derati esistenti. Ora, tanto nella teoria del linguaggio, quan to in quella
del segno proposizionale, accanto alle entità corporee vengono prese in
considerazione anche delle entità incorporee, quali i lekta. 136 6. LA
TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI Per il momento è invece necessario sgombrare
il campo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità
incorporee: esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del
non-esistente, ma vengono investite di una "esistenza derivativa'' (Long
197I a: 89-90). Il secondo pos sibile equivoco concerne la nozione stessa di
corpo. Contra riamente a quello che ci attenderemmo in relazione a una nozione
moderna di corpo, per gli stoici erano "corpi" an che le qualità, in
quanto venivano considerate come materia in un certo stato. Le proprietà di un
certo individuo costi tuiscono stati o modi del suo essere e, per la loro
esistenza, dipendono dall'esistenza di questo individuo. Se l'individuo esiste,
le sue proprietà sono appunto disposizioni esistenti di materia (Rist I969:
52-55). Si profila, a questo punto, una ontologia che pone al suo centro la
nozione di "particolare": quest'ultimo viene carat terizzato come un
oggetto materiale, che ha una forma defi nita come condizione necessaria e
sufficiente della sua esi stenza. La forma, del resto, è l'elemento
caratteristico di un oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long I97I
a: 76). È proprio su questi presupposti antologici che si innesta e si sviluppa
la teoria semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del
significato e della verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei "particolari",
ed è con nesso a una teoria della percezione. Così, si terrà presente
innanzitutto che per gli stoici le im magini (phantasfa1) prodotte nella mente
dagli oggetti ester ni danno luogo a una percezione vera se esse riproducono
esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto, le immagini giocano
un ruolo importante nella teoria del si gnificato degli stoici, come si sa che
avevano una parte im portante anche nella teoria del significato di
Aristotele. In secondo luogo si può considerare come fondamentale il fatto che
uno dei modi di identificare un "particolare" è quello di
identificarlo linguisticamente. In questo caso è fondamentale l'abilità di A
nel comunicare a B che sta par lando intorno a X, come pure l'abilità di B di
indicare ad A che egli ha compreso il suo riferimento. 6.1 LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO 137 6.1 La teoria del linguaggio 6 . 1 . 1 Il triangolo semiotico Il
passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fon damentali della teoria
linguistica stoica si trova proprio in un contesto che concerne un conflitto di
opinioni intorno alla verità. È importante sottolineare che per gli stoici una
teoria del la verità, cioè la ricerca delle basi per una verifica delle pro
posizioni, non può essere elaborata in maniera indipenden te da una concezione
della struttura del mondo e da ciò che può essere detto intorno a esso. Ecco il
passo di Sesto. Alcuni hanno riposto il vero e il falso nella cosa
"significata" (tò smainomenon), altri nella voce (phon), altri infine
nel mo vimento del pensiero. Della prima opinione sono stati i porta bandiera
gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa
significata (tò smainomenon), quella signi ficante (tò smafnon), e
quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn chanon), e che, tra queste, la cosa
significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella
significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce
pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi percepiamo come coesistente
(paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, pur
ascoltando la voce che lo indica, non lo compren dono; infine,
ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione
in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e
ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor porea, cioè l'oggetto significato
o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso. 2 (Sext.
Emp., Adv. Math., VIII, 11-12) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli
stoici il fe nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui to
nei termini di un triangolo (cfr. p. 138). Si può osservare che compaiono i
termini "significante" e "significato" (come è dato trovare
anche nella teoria mo derna di Saussure), ma non quello di "segno":
come anche 138 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI slmsin6menon
(significato) lekt6n ( detto) tmsm lnon (aignificente) tynchAnon in
Aristotele, la nozione di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che
non è quello strettamente linguisti co. Si può notare anche che l'esempio che
viene dato qui è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome pro
prio. In secondo luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che
individuano la significazione sono tre e com prendono anche l'oggetto, che
propriamente è esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli
è solo parziale: soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si
gnificante e l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. 6. 1 .2 Il
"lekt6n" come "asserzione" Un caso assolutamente a sé
costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo,
chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua se
conda denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del
linguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande
interesse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un
confronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente) 6.1 LA
TEORIA DEL LINGUAGGIO 139 Nella stessa posizione del triangolo della
significazione Ari stotele poneva delle entità psicologiche, che venivano
consi derate le medesime per tutti gli uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci
dice Sesto nel passo riporta to, ha caratteri completamente diversi, in quanto
i barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren dono . Come
rileva Todorov (1977: 17-18), la differenza tra le due nozioni consiste
innanzitutto nel fatto che, mentre l'en tità presa in considerazione da
Aristotele si situa a livello della mente dei locutori, quella considerata
dagli stoici si si- tua direttamente al livello del linguaggio: Todorov
interpreta il lekt6n come la capacità del primo elementodi designare il terzo.
Tale interpretazione poggia anche sul fatto che l'e sempio dato è un nome
proprio, che ha una capacità di de signazione come gli altri nomi, ma è molto
controverso se abbia un senso; la risposta che di solito si dà a questo inter
rogativo è negativa. I barbari odono sicuramente la sequenza di suoni l Dio ne
l e vedono l l Dione l l , ma sono incapaci di connettere il suono con il suo
oggetto di riferimento. Comprendere, dun que, come avviene appunto nel caso
dei Greci, consiste pro prio nel percepire la connessione tra la parola che
viene pro nunciata e l'oggetto cui si riferisce. Anche Long (1971 a: 77)
identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si configura
come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in
questo caso, la tra duzione più propria di lekt6n è "ciò che è
detto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di
"giudizio" che quella di "stato di cose significato da una
parola o da una serie di parole".3 L'idea che i lekta si potessero
configurare come "affer mazioni intorno agli oggetti" emerge da una
testimonianza di Seneca (Epistulae mora/es, 1 17, 13), in cui viene delinea to
uno schema triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una
proposizione ( l Catone cammina l ), laddove Sesto proponeva solo un nome ( l
Diane l ). Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Cato
ne, che è un oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso 140 6. LA
TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI ( l Cato ambulat l ), che è un
"incorporale". Tale asserzione è propriamente il lekton, del quale
termine Seneca propone tre diverse traduzioni latine: enuntiatum
("enunciazione"), effatum ("affermazione"), dictum
("asserzione"). Dato che l'esempio proposto da Seneca è una proposizio
ne, risulta più agevole, rispetto ali'esempio di Sesto, capire come possa
essergli applicato il predicato "vero" o "falso".4 Infatti
solo i lekta che costituiscono una proposizione com pleta possono essere veri
o falsi.5 6. 1 .3 I rapporti tra il "lekt6n" e il pensiero Nel
modello aristotelico della significazione le espressioni linguistiche sono i
simboli degli stati psichici (pathmata en tiipsychi1) elo dei pensieri
(noimata). In questo modo non viene operata una chiara distinzione tra la
nozione di "si gnificato" e quella di "pensiero". Tale
concezione ricompa re del resto nella nota teoria novecentesca di Ogden e Ri
chards (1936: tr. it. 37), i quali disegnano un triangolo se miotico in cui
figura al vertice superiore la nozione di "thought"
("pensiero"). Diversa è la concezione proposta dagli stoici. In
effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di Diogene si ricava una
nozione di significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenente
con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto: [Gli stoici] affermano
che il /ekton è ciò che sussiste in confor mità con una rappresentazione
razionale (loghik phantasia) e che una rappresentazione razionale è quella
secondo cui il rap· presentato (phantasthén) può essere espresso in parole.
(Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70) In termini del tutto analoghi si esprime
Diogene (Vitae, VII, 63), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da en
trambi i passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione
netta tra i lekta, che rappresentano il livello del "significato", e
le "rappresentazioni razionali" (loghikaì 6.1 LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO 141 phantasfa1), che possiamo definire come delle forme di atti
vità intellettiva o dei pensieri; quest'ultime entità sono pe culiari della
specie umana6 e possono, ali'occorrenza, essere espresse in parole (a questo
infatti si riferisce l'aggettivo lo ghikaf). Ma, sempre dai due passi, si può
ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono
messi in relazione. Long (1971 a: 82) cosi commenta il passo di Se sto:
"I take this difficult passage to mean that the /ekton is defined as the
objective content of acts of thinking (no sis)" e aggiunge anche "or,
what comes to the same thing in Stoicism, the sense of significant
discourse". Prima di ap profondire il senso di questa seconda asserzione
di Long, soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione che il lekton instaura
con l'attività di pensiero è tale per cui esso si configura come contenuto o
risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che ve niamo scoprendo
attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo
rispetto a quanto lo stessoSestoavevadettoaltrove(Adv.Math.,VIII, 11-12),
quando aveva messo in relazione il lekton con l'espressione significante (cioè
con il smainon). In effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che
sussiste in conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che
l'accen to appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a
un rapporto con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi
un'apparente contraddizio ne o un falso dilemma, ha diviso sia le
testimonianze degli esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi
moderni degli stoici. Come mette bene in evidenza Mignucci (1965: 92-93), i
lekta, essendo incorporei, "non possono essere disgiunti da qualcosa di
corporeo che faccia in qualche modo da sup porto ad essi e che permetta la
loro esprimibilità". Il proble ma diviene allora quello di stabilire se a
fare da supporto ai lekta siano: (i) i suoni della voce; o (ii) l'attività
della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto7 opta per la solu
zione (i),9mentre la seconda,8 come pure la definizione di Diogene, optano per
la soluzione (ii). Ugualmente, tra gli 1 42 6 . LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO DEGLI STOICI interpreti moderni, Mates10 risponde che sono le parole
a fare da supporto ai lekta; Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di
vista. Come dicevamo, questo è un falso dilemma, non resolu bile tuttavia
filologicamente, in quanto nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi
di convalida per ciascuno dei due punti di vista. Piuttosto è necessario
considerare un du plice presupposto che sembra agire nella teoria stoica: da
un lato il verificarsi di discorsi significativi rimanda a un'at tività
intellettuale, in assenza della quale non è possibile che si diano i
significati; dall'altra il risultato dell'attività intel lettuale ha bisogno
dei suoni della voce significativi per esplicitarsi oggettivamente. È
possibile, anzi, trarre le con seguenze dal fatto che i lekta siano definiti
da una parte co me contenuti delle rappresentazioni razionali e dali'altra
come significati delle parole: conseguenze che indicano la necessità di
postulare una stretta connessione tra i contenuti dell'attività rappresentativa
della mente e il loro essere si gnificati attraverso le parole. I due termini,
in realtà, non possono essere disgiunti l'uno dall'altro.13 A questo punto
possiamo comprendere la seconda asserzione di Long che abbiamo anticipato: il
senso del discorso significante e il contenuto oggettivo degli atti di pensiero
devono essere considerati come la stessa cosa.. La precedente conclusione viene
del resto appoggiata da tà14 è dato dalla "rappresentazione" (phantasia)
passo Diogene spiega che la phantasia ha un ruolo assoluta mente primario, in
quanto non è possibile, senza di essa, rendere conto di alcuni processi
fondamentali della cono scenza, quali l'assenso (synkatathesis), la
comprensione (kata/psis) e l'attività di pensiero (n6sis): "infatti la rap
presentazione viene per prima, poi il pensiero (dianoia) che è capace di
parlare (eklalètik), esprime in parole (/6g01) ciò che esperimenta come il
risultato della rappresentazione". Il passo di Diogene è importante perché
ripropone la no zione, già platonica,15 del pensiero come "discorso inter
no".16 Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla
considerazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae, VII, 49-50) in cui viene
detto che il criterio di veri- .. In questo 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 143
una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della
comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basati
sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teoria
linguistica del si gnificato. 6.2 La teoria del segno 6.2. 1 Il
"lekt6n" e la teoria del segno Il lekton, che abbiamo finora
incontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una
nozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un
fattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici
sono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa
sì che, come sottolinea Eco (1984: 30), nella se fllÌOtica stoica si verifichi
una saldatura "di diritto" tra la 0ottrina del linguaggio e la
dottrina dei segni. Infatti, "per ché ci siano segni occorre che siano
formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una
sintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi lingui
stica" (ibidem). Occorre tener presente che gli stoici non di cono ancora
che le parole sono segni (sarà Agostino il pri (110 a fare una simile
asserzione) e rimane, del resto, una òifferenza lessicale tra la coppia
smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei lekta
ci illumina sul ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il segno non
verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl maniera
implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che ci viene
data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è
una proposizione (axloma) che è l'antecedente (prokathegou menon) in un
condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del conseguente
(ekkalyptikòn tou ligontos). E di- 144 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI
STOICI cono che la proposizione è un lekt6n completo in se stesso; e il
condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ] Riprenderemo
più avanti le varie problematiche che ven gono presentate in questo passo. Per
il momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come un
lekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap porto di
implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione, secondo lo
schema: p -:J q. Si deve notare che, come per Aristotele, l'attenzione per il
segno è esercitata in funzione della conoscenza che esso pe_rmette di
raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella epistemica, e il segno
appartiene a un campo che è di stinto sia da quello logico sia da quello
semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una proposizione qualsiasi
che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma so lo quella
proposizione che permette di scoprire il conse guente (cioè che permette
l'accesso a una nuova conoscen za). Su questo torneremo tuttavia più avanti.
Va comunque notato che, se l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è la
stessa di quella di Aristotele, assolu tamente diverso è il tipo di
inquadramento logico. È nor mallnente accettato che Aristotele pratichi la
logica delle classi, mentre gli stoici introducono quella proposizionale. Ciò
comporta che l'attenzione venga spostata: (i) dalla so stanza degli eventi
(Todorov 1 977 : 21), per quanto concerne il punto di vista antologico; (ii)
dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione, per quanto
concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si poteva notare
un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come segni. Ciò che,
invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gli avvenimenti espressi
da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la differenza,
tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel
vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "essa ha
latte" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "essa
concepito". 17 (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 104-106) ... . Essi chiamano
antecedente la prima proposizione 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 145 via
fornisce alcuni esempi di segno (come quello della Reto rica, I, 1357 b,
16-18: "Se essa ha latte, essa ha partorito"), in cui vengono presi
in considerazione eventi e non sostan ze. Ma nella filosofia aristotelica la
teoria del segno ha una parte marginale: il segno viene fatto rientrare nel
procedi mento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene
confinato nel campo dei procedimenti retorico-dia lettici, se non è un
tekmirion, cioè un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul
sillogismo perfet to, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle
scuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale:
dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla
scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gli
epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è
noto a ciò che è ignoto. Preti (1956: 7-8) sostiene che, a proposito della
teoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un
anello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di
Democrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera,
il Tripo de, 1 8 è possibile cogliere i punti essenziali di questo passag gio
. Per Nausi fane, infatti , il discorso filosofico (basato per Aristotele sul
sillogismo) e quello retorico (basato sull'enti mema) presentano in realtà la
stessa struttura logica. In en trambi i casi è necessario distinguere tra la
"conseguenza" (ak6/outhon), la "premessa" (homologoumenon)
e "ciò che deriva dalle premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il
sillogismo?). In ognuno dei due tipi di discorso il problema è quello di
partire da cose presenti (hyparchonta) per giun gere in maniera metodica alle
cose invisibili. Il metodo del passaggio è la akolouthia, "la relazione di
consequenziali tà", di implicazione o implicitazione,19 comune appunto a
filosofia e retorica. 20 Ora, come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò
ton enargOn) alla comprensione del le cose oscure (adla) per mezzo del segno
come relazione di akolouthia costituisce proprio il nocciolo della dottrina de
gli stoici (come pure di tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità
di passaggio 146 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI il nome di
"dogmatici"). Non solo, ma come prova della centralità della
semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno:21 fatto che
testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che
conferma la tendenza delle scuole postaristoteliche a ridurre o trasfor mare
il sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I tipi di segno: A)
"comune" e "proprio" Nella semiotica stoica si registra la
scomparsa della di stinzione terminologica tra tekmrion e smeion: il primo
termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi nati smeia.
Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab bandono del sillogismo e
della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. Tuttavia,
al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra "segno comune"
(koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion). Tale distinzione non era
specificamente stoica, ma appartenente a una koini filosofica ellenistica,
sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro verso in contrasto. Una
definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se gno si trova nel
trattato semiotico di Filodemo (l secolo a.C.): Un segno è comune (koin6n) per
nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non
percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che
crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta
usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi
risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è
necessario (ananka stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che
noi di ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi dente
di cui è segno. 22 (Philodemus, De signis, I, 1-17) C'è una convergenza nelle
scuole postaristoteliche nel ri tenere il segno comune come non valido e
nell'accettare in vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione di Filo-
6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 147 demo si ricava che una differenza peculiare
consiste nel ca rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co
me "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello
comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno
necessario di Aristotele che ri chiedeva una connessione necessaria con
l'oggetto a cui rin viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel
segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa rebbe segno, ma può
anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza
di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri
no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda e
terza figura di Aristotele. Infatti per Ari stotele si poteva inferire dal
pallore di una donna il suo es sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla
bontà di Pit taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se
gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una
conclusione interessante: men tre Aristotele, pur negando validità scientifica
ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi
stemologicamente più basso, come quello della retorica, do minio delPopinione,
la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita
delle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B)
"rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il
suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto
riprende la di stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno
preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del
segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra
segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in due
maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno
quello che sembra rive lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare
segno an- 148 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI che ciò che
serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in sieme con esso. In
maniera propria si dice segno quello che è in dicativo di una cosa avvolta
nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera
contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione,
in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co mune e segno
proprio, dichiara di voler trattare solo di que st'ultimo (ibidem, 143); e
poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono
oscure, egli propo ne di distinguere preliminarmente le cose in
"manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente
quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le
cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla
conoscenza in maniera diretta; co me esempio Sesto porta "il fatto che è
giorno e che io sto di scorrendo"23 quando io faccio realmente queste
cose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han no una natura
tale da non arrivare alla nostra comprensio ne (kata/psis), come a esempio
"se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli
di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose
oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta
divengono, per certe cir costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio
è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene.
Atene, visibile per sua natura, diviene tempora neamente invisibile a causa
della distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una
natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen sabili (noto1).26
Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si
pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in
quanto le cose manifeste ven gono comprese in maniera non mediata e le cose
oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio
attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle
ultime due categorie. Ma i tipi 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 149 di segno sono
diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora neamente oscure si colgono
attraverso i segni rammemora tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni
indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondo
costoro [i dogmatici], alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri
indicativi (endeiktika). Chia mano segno rammemorativo quello che, osservato
insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se
quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata
osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente,
come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel
segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente,
pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così,
per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp.
Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso
ciazione costante tra cose comunemente osservate in con nessione empirica.
Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo
tipo si distribuiscano se condo la tripartizione28
contemporaneità/anteriorità/po steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel
caso di "fu mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in
"cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il
fatto indicato è anterio re; in "ferita al cuore-morte", il segno
rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del
precedente, non è su scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è
segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno
sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono
di risalire all'"anima", o "il su dore" che rimanda ai
"pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei
segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi,
che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei
"medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente
schema la classifi cazione di Sesto: cose manifeste oscure non
danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno
luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la
distinzione riportata da Se sto tra segno rammemorativo e segno indicativo
solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne
trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso
Sesto. Inoltre, tale distinzione appa re addirittura in contrasto con
l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento
logico-for male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto
importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile vante dal punto di
vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra segno
comune e segno proprio, secondo la testimonian za di Filodemo. È, tra l'altro,
il carattere necessario del se gno proprio che dimostra la coerenza di essa
con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un segno
"ne cessario", come un'analisi più dettagliata della sua struttura
ci permetterà di vedere. 6.2.3 La struttura del segno nel
"condizionale" Ritornando alla definizione stoìca di segno che
abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima di
tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa
"connesso" o "connessione". Il suo significato lo gico ci
viene chiarito da Diogene:32 si tratta dell'asserto temporanea mente 6.2
LA TEORIA DEL SEGNO 151 condizionale del tipo "Se p, allora q", in
cui a una prima proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se è
giorno, c'è luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la no
zione di condizionale valido (hyghiés, "sano"). Da un passo di Sesto,
dove se ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è
affine alla moderna interpretazione vero-funzionale di "Se p, allora
q"; infatti la validità o in validità dell'asserto condizionale "Se
p, allora q" dipende dal valore di verità deli'antecedente e del
conseguente di esso. 33 Sesto, in due passi paralleli, camente "quel
condizionale che non comincia dal vero e fi nisce nel falso" e fcrnisce
una tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica
contemporanea preve de per l'implicazione materiale: p q ·se p, allora
q• valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto
accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a pro posito del criterio
per giudicare un condizionale valido:34 esso corrisponde a ciò che è stato
definito dai Kneale ( 1 962: tr. it. 154 e sgg.) "il dibattito sulla
natura dei condizionali", che animò le discussioni di logica ali'epoca
degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla nozione di se-
definisce come valido uni valido 152 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI
STOICI gno come antecedente (prokathegoumenon) in un condizio nale valido. In
effetti, come fa rilevare lo stesso Sesto,3s i ti pi di condizionale valido
sono tre nella tavola dei valori di verità corrispondente all'implicazione
materiale (V V; F F; F V); il problema diviene dunque quello di vedere se la
struttura del segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale
valido, o solo in casi particolari. Ora, in effet ti, un segno non può non
essere espresso da una proposizio ne vera, come pure deve essere vera la
proposizione a cui es so rimanda. Così sono esclusi il secondo e il terzo caso
(F F; F V), in quanto hanno un antecedente falso. Dunque l'uni ca possibilità
è relativa al primo tipo di condizionale, cioè quello che comincia dal vero e
finisce nel vero.36 Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al ca·
rattere che il segno deve avere di essere rivelatore (enkalyp tik6n) del
conseguente. In effetti un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è
luce", nel momento in cui si verifichino le due condizioni che sia giorno
e che vi sia luce, è formato da due proposizioni entrambe vere. Tuttavia,
secondo Sesto,37 non si realizzano in questo caso le condizioni perché vi sia
un segno, in quanto entrambe le proposizioni rimand?no a fatti di per sé
evidenti. Il primo termine del condizionale non è rivelatore del secondo. In
effetti, per comprendere la vera natura del segno bisogna passare dal piano
strettamen te logico a uno più generalmente epistemologico. Il segno, per gli stoici,
non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista logico,
individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anche
possedere il carat tere di dispositivo che permette di accrescere la cono
scenza.38 Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si ap· poggia
su un livello logico, ma si inquadra in un'ottica co noscitiva. Gli esempi di
carattere medico denunciano l'ori gine di quest'ottica. In generale il segno
deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso,
come "egli ha sputato cartilagine bronchiale", a una cono scenza di
molto più difficile accesso, come "egli ha una pia ga nel polmone".
Tuttavia, ciò che la teoria del segno ac quisisce, passando dalle mani dei
medici a quella dei filoso.. 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO fi, è una solida
struttura dal punto di vista logico-formale, tale da escludere la possibilità
di inferenze scorrette. 6.2.4. 1 Il dibattito sulla natura dei condizionali
Quanto ampio e difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere,
sul piano logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze
scorrette, lo dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla "natura
dei condizionali" (Kneale 1962). Scrive infatti Sesto Empirico:
"Tutti quanti i dialettici sono generalmente d'accordo neli'affermare che
un condizionale è valido quando il suo conseguente segue (akolouthei) dal suo
antecedente, ma disputano sul come e quando esso segua, e propongono criteri
rivali" (Adv. Math., VIII, 12). Riferendosi a questo dibattito, Sesto
elenca quattro crite ri che erano stati proposti per stabilire la validità di
un as serto condizionale: (i) quello di Filone Megarico; (ii) quello di
Diodoro Crono; (iii) quello della srsnartsis attribuibile a Crisippo; (iv)
quello della émphasis. 9 Sulla disputa si può tuttavia fare un'osservazione
genera le preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa notare Martha
Hurst (1935: 492), è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è
riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una
definizione di questa rela zione di consequenzialità (akolouthla) in termini
formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici
antichi si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo,
che può possedere proprietà auto nome, essendo dotato di significato, non è
stato preso in considerazione se non nella misura in cui poteva essere pro
vato che esso coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione
tra i due livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente erano in
grado di elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della
relazione logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci
a comprendere meglio questo modo di pro cedere un paragone con i metodi della
logica contempora- 153 154 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI nea.
I logici contemporanei, infatti, sono in genere interes sati unicamente al
definiens, cioè alla relazione che essi pos sono stabilire in simboli, senza
riguardo alla questione se tale relazione sia identica a quella che è
ampiamente cono sciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa come quella
di una espressione di implicitazione ("fol/owing", Hurst 1935: 492).
A esempio Peirce e Russell erano interes sati alle proprietà della
implicazione materiale indipenden temente dal fatto che essa riproducesse il
significato "usua le" di "implica" ("implies").
Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida senza
sostenere che l ' im plicazione rigida rappresenti il significato di
"implica". Questa differenza nel modo di procedere tra antichi e
moderni comporta un'ulteriore differenza formale: mentre i logici antichi erano
interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a fornire due
definizioni: quella di "im plicazione materiale" e quella di
"implicazione rigida". 6.2.4.2 L'implicazione filoniana Filone è il
primo esponente della scuola megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che
dà un'interpretazione vero funzionale dell'espressione "Se p, allora
q": secondo lui, un'espressione condizionale è valida se, e solo se, non
co mincia con il vero e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, la
definizione che Filone dà del criterio di consequen zialità (ako/outhfas
kritrion) corrisponde al quadro del l'implicazione materiale. Infatti sono tre
i casi in cui il con dizionale è valido, corrispondente ai tre esempi
seguenti: (i) "Se è giorno, c'è luce" (VV); (ii) "Se la terra
vola, la terra ha le ali" (FF); (iii) "Se la terra vola, la terra
esiste" (FV). Come sottolineano i Kneale (1962: tr. it. 157), è probabi
le che Filone avesse in mente l'uso dell'espressione "Se p, allora q"
nei ragionamenti e che volesse attirare l'attenzione sul fatto che la
congiunzione dell'asserto condizionale con il suo antecedente implicita sempre
il conseguente. L'inter pretazione proposta da Filone è la più debole che
soddisfi tale requisito. 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 155 6.2.4.3
L'implicazione diodorea Diodoro Crono era il maestro di Filone, e la ragione
per cui Sesto lo cita per secondo può essere forse attribuita al fatto che,
mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que st'ultimo non riuscì a fare
altrettanto con il primo (Hurst 1935: 435 n.). La critica che Diodoro muove
all'interpretazione filonia na insiste proprio sul carattere di debolezza di
quest'ultima. Egli individua infatti degli esempi di condizionale che, pur
potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo tt , possono tuttavia
mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio, l'asserto "Se è
giorno, io sto conversando" sarebbe considerato vero da Filone se si
dessero le condizio ni , in un tempo t
, per cui fosse giorno e io stessi conversan do. Diodoro invece
dimostra che esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che
permetta di dire se esso cada o no sotto la definizione di Filone. Infatti esso
potrebbe essere pronunciato anche in un tempo t2, quando fosse giorno, ma io
rimanessi silenzioso. In questo caso es so avrebbe la forma invalida VF. Per
ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora una concezione secondo la quale
un condizionale è valido quan do "non ammise, né ammette di cominciare
con il vero e fi nire con il falso".40 L'esempio che egli dà è "Se
non esisto no gli elementi atomici delle cose, allora esistono gli ele menti
atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'ante cedente sempre falso
e il conseguente sempre vero: ciò ba sterà a escludere l'evenienza di un
antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il condizionale
sarebbe non valido.41 6.2.4.4 L'"implicazione connessiva"
("synartesis") di Cri sippo La terza concezione di condizionale
valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni
(Mates 1 56 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI 1949 a; Bochenski
1951 e 1956), corrisponde alla implica zione rigida di Lewis o comunque a una
forma di implica zione necessaria (Kneale 1962; Preti 1956). In maniera con
corde con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa con c e z i o n e v i e
n e r i p o rt a t a d a D i o g e n e ( Vi t a e , V I I , 7 3 ) : " È v
e r o un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon) del
conseguente è incompatibile (macheta1) con l'anteceden te, come a esempio 'se
è giorno, c'è luce' ". Il nome del sostenitore di questa concezione non ci
è sta to lasciato da chi la riferisce; ma vi sono prove che essa ap
partenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller 1978: 18-19). La nozione di
"incompatibilità", messa in scena da que sta definizione, è molto
interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita. Martha
Hurst (1935: 495), commentando il passo, tende a mostrare che la relazione di
incompatibilità e anche, più in generale, quella di "consequenzialità"
(jollowing), non possono essere espresse in termini estensionali, cioè mediante
relazioni esterne, che sussistono tra le proposizioni in virtù di pro prietà
che esse avrebbero al di fuori della relazione: al con trario, è necessario
ricorrere alle relazioni interne che sussi stono in virtù del loro
significato. Può essere interessante confrontare questa conclusione di M. Hurst
con le osservazioni di Preti (1956: 13), il quale so stiene che l'esempio di
Sesto, dato a proposito della synar tsis "sembra alludere a qualcosa di
ancora più forte (della strict implication di Lewis): alla vera e propria
tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notizie circa la
dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. In effetti in
quel testo (come vedremo meglio nel capitolo spe- cificamente dedicatogli) è
presentato come genuinamente stoico il metodo inferenziale della
"contrapposizione" (ana skeu), che appare analogo a quello della
synartsis. Infatti, l'inferenza per "contrapposizione" è quella in
cui la negazione del conseguente comporta la negazione del l'antecedente. Essa
si configura in maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo,
allora il secondo" è garantita dalla verità del corrispondente
condizionale "Se non il se condo, non il primo".42 6.3
CONCLUSIONI 157 Preti sottolinea le affinità tra la synartsis (secondo cui la
negazione del conseguente è incompatibile con l'anteceden te) e il metodo di
contrapposizione (anaskeu) (in cui la ne gazione del conseguente comporta la
negazione dell'antece dente), e in entrambi i casi chiama in causa la
implicazione rigida di Lewis, con la precisazione che gli esempi forniti da
Filodemo sembrano indicare un rapporto più forte, che ten de a risolvere
l'inferenza o in una forma di tautologia o in una forma di L-implicazione. 6.3
Conclusioni Nel passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quella stoica
c'è, come abbiamo visto, uno spostamento di accento dai termini su cui si
costruiscono le proposizioni categori che nel sillogismo, alle relazioni tra
le proposizioni nell'as serto condizionale. Contemporaneamente si registra
un'ac centuazione del carattere, già presente in Aristotele, di con
sequenzialità necessaria che la relazione segnica è chiamata a istituire:
l'inferenza dal termine noto a quello non noto deve presentare un carattere
cogente. Ci sono due ragioni di questo aspetto necessaristico della semiotica
stoica, una legata ali'analisi della natura della ra gione e dei suoi
processi, l'altra riferibile alla configurazio ne della metafisica stoica (De
Lacy 1978: 208). Per il primo punto è Sesto43 stesso a informarci che gli
stoici ritenevano che l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità
di "discorso interno " (16gos endiathetos) e in virtù della sua abilità
di combinare i concetti e di passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede
infatti la nozione di consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede
anche la nozione di segno, che ha appunto la forma: "Se questo, allora
quest'altro". Così l'esistenza del segno si pone in stretta dipendenza
dalla natura del pensiero umano. Quanto al secondo punto, la metafisica stoica
poggiava sull'idea che il reale fosse costituito da una catena ininter rotta
di eventi, legati tra loro da rapporti di causa-effetto. Tali relazioni erano
.:oncepite come necessarie in quanto di- 158 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO
DEGLI STOICI pendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo
modo, la consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce
quella stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione
degli eventi.44 L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e
sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col locata sulla
relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause
ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa
accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi
nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle ga certi
avvenimenti presenti e altri che avverranno.4Ora, per quanto la razionalità
degli uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei,
tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che
lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"),46 men tre ai primi è
preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi
caratteristici delle cause ("signa [.. . ] causarum et notas") degli
eventi e su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto
av verrebbe per gli dei, i condizionali degli uomini intorno al futuro mancano
di necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a
quello della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli cazione necessaria.
Ma questa, che è una caratteristica irri nunciabile, non è tuttavia
sufficiente a definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è
giorno, c'è luce»47 il giorno non potrebbe essere considerato un segno della
luce in quanto entrambe le cose sono evidenti e quindi l'in ferenza non può
provare nulla. La verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come
sembra richiesto nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo
della caratteristica di permettere di scoprire una nuova co noscenza. Il segno
stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello
deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per
collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore
dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presen- 6.3
CONCLUSIONI 1 59 te che l'essenza del segno è l'inferenza che va dalle cose ma
nifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra delinearsi nella
semiotica stoi ca un problema difficilmente resolubile: come è possibile che
l'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui
parla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di
un fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti
anche la dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un
segno):48 - sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque , il
secondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre sentato
dallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi stano pori nella pelle. La
presenza dei pori è un fatto oscuro per natura: infatti essi possono soltanto
essere conosciuti dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il
microscopio non era ancora stato inventato. Sesto aggiun ge, come argomento
rafforzativo delle premesse nel ragio namento precedente, un'ulteriore
argomentazione:49 - compatto e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il
corpo. - Pertanto non è possibile che il corpo sia compatto, ma esso è poroso.
La premessa maggiore di questa argomentazione sembra essere basata sul test di
contrapposizione (Q::jJ) applicato alla premessa maggiore del precedente.
Infatti se al condi zionale: p (se il sudore scorre attraverso la superficie
del corpo) ::q (ci sono pori intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre
attraverso la superficie del corpo, ci È impossibile che un liquido scorra
attraverso un corpo 160 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI
applichiamo il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo
compatto e non poroso) :>p (un li quido non vi può scorrere attraverso),
espressione che è alla base della premessa del secondo ra gionamento di Sesto.
Essa permette di sviluppare un ragio namento corrispondente al modus tollens,
che convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se
gli stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la
contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a
priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno
produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la
relazione anche nel caso di verità fattua li, poiché parte dall'assunzione che
il fatto oscuro per natu ra sia legato a quello evidente in modo tale che ciò
che è evi dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse
quale viene rivelato essere. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO 7.O Introduzione
Contemporaneo allo sviluppo della riflessione stoica sul segno è il capitolo
della semiotica antica scritto dalla scuola epicurea. Uno dei cardini
dell'epistemologia epicurea, in fatti, è il principio semiotico del
congetturare dai fenomeni visibili fatti che sono per natura non percepibili
con i sensi. Gli stessi elementi fondamentali della metafisica epicurea (cioè
l'esistenza degli atomi e del vuoto, le configurazioni e le ragioni dei
fenomeni celesti) vengono stabiliti attraverso inferenze semiotiche che partono
dai fenomeni percepibili: Gli indizi (semeia) dei fenomeni celesti ce li
forniscono alcuni fenomeni che accadono presso di noi, e che si vede dove e
come avvengono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte
maniere. (Epic., Epistula ad Pythoclem, 87) Epicuro rifiutava il ragionamento
deduttivo, tipico di Aristotele e degli stoici, giudicandolo vuoto e privo di
utili tà, ma accettava e valorizzava l'inferenza analogica che si sviluppa a
partire dai segni. Nel periodo ellenistico, anzi, gli epicurei divennero i
portabandiera di un metodo di ragiona mento qualificabile come "induzione
semiotica", e proprio sul metodo deli ' in ferenza si posero in polemica
con gli esponenti della scuola stoica. Un intero trattato del I secolo a.C. ,
il Perì smelon kaì smeioseon (Sui segni e sulle infe- 162 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO renze), redatto dall'epicureo Filodemo di Gadara, è
dedica to, del resto, al dibattito intercorso fra stoici ed epicurei sul tema
dell'inferenza semiotica.1 Epicuro, così, e la scuola epicurea nel suo insieme,
pro pugnano la possibilità di elaborare giudizi che siano oggetti vamente
validi su fenomeni non direttamente conosciuti at traverso l'esperienza, sulla
base di inferenze elaborate a partire dai segni. Il problema centrale diviene,
allora, quello di stabilire il criterio per verificare se ed entro quali limiti
tali giudizi pos sano essere considerati attendibili o non attendibili (cioè
ve ri o falsi) e di fornire le basi per poter dire se certe asserzio ni
corrispondano effettivamente ai fatti che esse descrivo no. Si fa strada
quindi la nozione di "criterio di verità", che costituisce la cornice
di sfondo all'interno della quale si col locano tanto la teoria deli'inferenza
semiotica quanto la teoria del linguaggio. In effetti il criterio di verità è
non uni co, ma molteplice: secondo la testimonianza di Diogene Laerzio,2 esso
comprende le sensazioni (aisthseis), le affe zioni (path), le preconcezioni
(prolpseis), a cui può essere aggiunta, per motivi che vedremo, l'evidenza
immediata (enargheia). I criteri di verità, e tra essi la pro/essi
("antici pazione", "preconcezione") in particolare,
giocano un ruo lo fondamentale in entrambe le teorie sia nella teoria del
l'inferenza3 sia nella teoria del linguaggio;4 in questo modo essi
costituiscono un elemento di connessione tra le due teo rie. Tuttavia ciò non
è ancora sufficiente a permettere un'articolazione comune tra segno
inferenziale e segno lin guistico, che rimangono ancora una volta oggetti di
due in dagini separate. Si ricorderà che anche per gli stoici la teoria del
segno lin guistico, chiamato smafnon, nasceva ali'interno di una di scussione
sul criterio di verità e sul "vero"; e anche in quel caso il segno
inferenziale, chiamato smefon, non aveva al cun punto di contatto con il
precedente se non per il ruolo giocato dalla nozione di lekt6n, a cui spettava
il carico di essere vero o falso. Si deve però notare una peculiarità della
semiotica epicurea: essa si arricchisce anche di una teoria deli'immagine
percettiva, che si collega al criterio di verità, 7 . l CRITERIO DI
VERITÀ ED EPISTEMOLOGIA EPICUREA 1 63 ma che anticipa anche alcuni problemi
interessanti per una teoria semiotica deli'iconismo. Così, nei paragrafi
seguenti esamineremo le questioni del criterio di verità, della prolessi e
deli'immagine percettiva in Epicuro, che collegheremo con la teoria
deli'inferenza se miotica, da una parte, e con la teoria del linguaggio,
dall'al tra. Gli sviluppi che la teoria semiotica epicurea avrà nel trattato
De signis di Filodemo saranno esposti , data la loro ampiezza, a parte nel
prossimo capitolo. 7.1 ll criterio di verità e l'epistemologia epicurea
L'impostazione generale della filosofia di Epicuro, dal punto di vista
epistemologico, è un tentativo di fondare la conoscenza su basi puramente
empiriche. In primo piano vengono posti i fatti o gli oggetti; ma anche le
parole essen zialmente costituiscono una via per giungere alle cose. In questo
modo si presentano per la filosofia due metodi di ri cerca: (i) uno orientato
alla conoscenza che proviene dalle parole; (ii) l'altro a quella che proviene
direttamente dalle cose.s Tuttavia il primo è considerato un processo prelimi
nare rispetto al secondo, e spesso la conoscenza che si ottie ne attraverso
gli strumenti del linguaggio, come quella che si produce attraverso le
proposizioni, è vuota e inganne vole.6 Il fondamento ultimo della conoscenza
sono i criteri di verità, i quali sono in grado di procurare all'uomo niente
meno che l'imperturbabilità.7 Essi sono dunque posti alla base stessa della
filosofia generale di Epicuro; del resto essi erano trattati in un'opera
perduta, intitolata Canone, in cui era contenuta la materia propedeutica
rispetto all'intero si stema dottrinario.8 Se noi pensiamo alla verità in
termini moderni , cioè come una funzione delle proposizioni, corriamo il
rischio di non comprendere il pensiero di Epicuro. In effetti, nella lingua
greca in generale, l'aggettivo althés ("vero") può servire tanto a
qualificare la verità di una proposizione, quanto a indicare ciò che sussiste
di fatto o che è reale. In Epicuro, in 164 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN
EPICURO particolare, l'aggettivo "vero" implica un'effettiva consape
volezza di qualcosa. Si giustifica così la sua applicazione al le sensazioni e
alle affezioni, in quanto dire che una certa sensazione (o una certa affezione)
è vera equivale a dire che essa fornisce un indizio effettivo su un fatto
reale, renden docene consapevoli.9 Prima di passare in rassegna le varie forme
del criterio di verità, è necessario sottolineare fin d'ora come esso sia fun
zionale a una teoria dell'inferenza semiotica. Infatti esso tende a stabilire
delle verità basilari riguardanti le cose per cepibili, che servono a loro
volta come punto di partenza per fare inferenze intorno alle cose non
direttamente rag giungibili con i sensi.10 7.2 Le forme del criterio di verità
Epicuro, dunque, considerava come criteri di verità le sensazioni, le
p[econcezioni (o prolessi), le affezioni (o sen timenti). 1 1 Nel paragrafo 82
della Lettera ad Erodoto veni va fatto cenno anche alla enargheia
("evidenza immediata, o "chiara visione"). Riferendosi a questi
passi, Long (1971 b: 116) fa una interessante proposta circa l'organizzazione
interna delle forme del criterio di verità. Suggerisce infatti di ordinarie in
modo gerarchizzato: in primo luogo ci sono le affezioni e le sensazioni; poi
l'evidenza immediata; infine le preconcezioni. Secondo Long, le prime due hanno
un va lore di verità puramente soggettivo, se prese da sole, e devo no essere
coordinate all'evidenza immediata e alle prolessi, per giungere a costituire un
criterio oggettivo. Le affezioni e le sensazioni comportano la consapevolez za
di qualcosa, e la loro "verità" consiste proprio in questa
consapevolezza, anche se, appunto, soggettiva. Si possono riprodurre le
relazioni tra le forme del criterio di verità se condo il seguente
schema: 7.3 TEORIA DEI SIMULACRI 165 criteri di veritè consapevolezza consapevolezza soggettiva
oggettiva ll affezioni sensazioni evidenza 7.3 Teoria dei simulacri
prolessi Finora abbiamo considerato il processo conoscitivo dalla
parte del soggetto che prova una sensazione o ha una affe zione in relazione
agli stimoli esterni. Se consideriamo lo stesso processo dalla parte opposta,
cioè partendo dall'oggetto, possiamo constatare che Epicu ro aveva elaborato
una vera e propria teoria dell'immagine che ha molti elementi di interesse per
una semiotica dell'ico nismo. Dal paragrafo 46 della Lettera ad Erodoto
Epicuro inizia a parlare del modo in cui si rende possibile la perce zione
degli oggetti. Questi ultimi, infatti, emettono in conti nuazione degli
efflussi di atomi estremamente fini, che compongono configurazioni in tutto e
per tutto identiche alla forma esterna dei corpi solidi.12 Queste
configurazioni prendono il nome di simulacri (eldO!a). Essi viaggiano a una
velocità estremamente alta e possono penetrare nei no stri organi di senso o
nella nostra mente, e lì produrre un ' immagine (phantasfa) più o meno esatta
del corpo da cui i simulacri sono stati emanati. Il processo può essere sche
matizzato così: oggetti - - - - - - - -
simuh1cri - - - - - - - - .-.. immsgini mentali (stertJmnia)
(sfd"lJfs) (phsntssfst) 166 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO
Quella di Epicuro può essere definita una teoria "causa le" (Long 1
97 1 b: 1 1 7) della percezione, in quanto gli ogget ti sono responsabili
dell'esistenza dei simulacri e questi ulti mi causano direttamente il formarsi
delle immagini nella mente. Si deve però dire che le immagini sono una diretta
conseguenza dei simulacri, ma solo secondariamente una conseguenza degli
oggetti, dai quali possono anche essere difformi. In effetti la continuità del
processo può essere interrotta al livello del passaggio dell'efflusso dagli
oggetti esterni ai simulacri . Questi ultimi , sebbene di solito risultino
delle co pie esatte degli oggetti, talvolta possono subire delle modifi
cazioni per il fatto di entrare in collisione con altri atomi nel passaggio
attraverso l'aria e possono anche ridursi in di mensione nel momento in cui
entrano in una persona (in quanto, anche in questo caso, entrano in collisione
con altri atomi). 1 3 Epicuro è, con questa teoria, impegnato a rendere conto
del fatto che gli oggetti, visti da vicino, presentano certe di mensioni,
mentre ne presentano altre, molto minori, se visti da lontano, senza entrare in
contraddizione con il principio che la sensazione è garanzia di verità in ogni
caso, e ci si troverebbe di fronte veramente a una contraddizione se la
phantasfa fosse un'immagine dell'oggetto, mentre in realtà è un'immagine del
simulacro (ekiOion). Sesto Empirico sembra riportare correttamente il pensie
ro di Epicuro quando cita, a questo proposito, l'esempio della
"torre": Così io non oserei dire che la vista suggerisca il falso per
il fatto che a grande distanza essa vede la torre piccola e rotonda e a di
stanza accorciata la vede più grande e quadrata, ma direi piut tosto che la
vista suggerisca il vero, perché l'immagine ricevuta dai sensi, quando le
appare piccola e di una certa forma, è real mente piccola e di quella
determinata forma, per il fatto che i li miti appartenenti ai simulacri
(eldola) vengono cancellati dal passaggio attraverso l'aria. (Sext. Emp., Adv.
Math., VII, 208-209) 7.4 TEORIA DELL'ERRORE E DELL'OPINIONE 167 In
effetti, ciò che i sensi recepiscono è il flusso di atomi che si stacca
dall'oggetto e che costituisce il suo simulacro e non l'oggetto stesso. Tale
flusso, passando attraverso l'a ria, si altera nella sua configurazione,
producendo la diver sità delle immagini che si hanno dello stesso oggetto.
Cosi ogni immagine mentale (phantasfa) è effettivamente vera perché è relativa
non all'oggetto, ma a ciascuno dei simula cri dell'oggetto, che sono diversi
in relazione alla distanza percorsa per raggiungere il soggetto che percepisce.
L'importante è non identificare il simulacro che si produ ce nelle vicinanze
dell'oggetto con quello che si ha in una vi sione a distanza. 7.4 Teoria
dell'errore e dell'opinione Il tema deli'inferenza semiotica diventa sempre più
cen trale nel campo dei processi percettivi quando si abbandona il terreno
sicuro della sensazione per esplorare quello insi dioso delle opinioni, in cui
si può verificare l'evenienza del l'errore. Se gli uomini si attenessero
soltanto alle loro sen sazioni e si limitassero a descrivere le loro immagini
mentali (phantasfa1), non ci sarebbe possibilità di errore. Ma ciò non avviene,
e l'errore sorge quando viene ad aggiungersi alla sensazione qualche processo
mentale che Epicuro, nella Lettera ad Erodoto (5 1), chiama "secondo
movimento" (al l klnèsis). Long (1971 b: 1 18) identifica questo
"secondo movimen to" proprio con il processo di elaborazione
deli'opinione. Infatti Epicuro dice che esso è "connesso" con il
primo mo vimento (cioè la semplice apprensione di immagini), ma, a differenza
di questo, "ammette una distinzione": quella tra il falso e il vero.
Il primo movimento, cioè l'apprensione di immagini, non ammette alcuna
distinzione di questo gene re, perché è prodotto da cause esterne, ovvero dai
simula cri; il secondo movimento, invece, consistendo nell'aggiun ta di un
giudizio che noi facciamo su queste immagini, può ricevere conferma o
attestazione contraria. Si può così sche matizzare il processo: 168 7.
INFERENZA E LINOUAOQIO IN EPICURO processo conoscitivo / apprensione di immagmi
lphsntsstik epiboli'J sempre vera opinione (d6xs) conferma e non
attestazione contraria vera attestazione contraria e non conferma falsa
In effetti, se, sulla scorta di una visione distante e oscura, io dico,
traducendo in parole le mie sensazioni: "Quella ha le apparenze di una
torre rotonda" , io parlo in maniera veri tiera; ma se dico: "Quella
è una torre rotonda", il mio giu dizio è disconfermato nel caso che,
avvicinandomi, riceva l'immagine di una torre quadrata. In definitiva, le
immagi ni sono tutte vere mentre le opinioni sono alcune vere e altre false.
14 Quello che comunque risulta è il carattere congettu rale dell'opinione. 7.5
La congettura È naturale che all'interno di una teoria dell'opinione uno spazio
privilegiato venga dedicato alla congettura. Infatti, in generale, la
congettura consiste proprio in un'ipotesi co noscitiva su una dimensione che
va oltre ciò che può essere colto attraverso i sensi. L'opinione, come la
concepisce Epi curo, è associata esattamente a queste caratteristiche, consi
stendo appunto in un giudizio che prevede l'impegno del soggetto su qualcosa
che attende conferma. Ci sono alcune parole chiave che definiscono il processo
conoscitivo attuato attraverso l'opinione. La prima è pro- 7.5 LA
CONGETTURA 169 sménon, "ciò che attende conferma", 1 5 che è appunto
l'og getto sul quale si esercita il giudizio. Una seconda e una terza parole
chiave, collegate tra loro da una relazione di antonimia, sono epimartjrsis
"attesta zione" e antimartjrsis "attestazione contraria" o
"conte stazione". Tuttavia, il sistema di Epicuro per la conferma o
la disconferma di una certa opinione non gioca su due, ben si su quattro
termini: c'è infatti conferma quando si ha "at testazione" o
"non contestazione"; c'è disconferma quando c'è
"contestazione" o "non attestazione". Si viene cosi a
creare un vero quadrato semiotico: attestazione contestazione ( epimsrtyrlJsis)
non contestazione (ouk sntimsrtyrsis) ( sntimsrtyrlJsis) non attestazione (ouk
epimsrf'jrlJsis) in cui, per Epicuro, due termini (o quelli della deissi
positi va, o quelli della deissi negativa) congiuntamente sono ne cessari per
decidere di un'opinione. 1 6 Tuttavia ciascuno dei quattro termini è idoneo a
stabilire la validità di un'opinione. Infatti nella teoria semiotica ri
portata nel De signis da Filodemo, il criterio per decidere sulla validità di
un'inferenza induttiva sarà rappresentato dalla sola non contestazione, ovvero
dal non conflitto del l'espressione segnica con i fenomeni percepibili. Nel
quadrato di Epicuro sorge il problema di stabilire un criterio per definire in
che cosa consista il termine base, cioè l'attestazione. Questo criterio è
rintracciabile nella enargheia ("l'eviden za", "la chiara visione"),
come ci dice Sesto: 170 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Ed è
attestazione (epimartjris) una apprensione, conseguita mediante evidenza (di'
enarghefas), del fatto che l'oggetto opi nato è appunto quello che
precedentemente veniva opinato, co me, ad esempio, se Platone da lontano
incede verso di me, io congetturo ed opino, a causa della distanza, che si
tratti di Pla tone, e, quando egli mi si è accostato, viene attestato che si
trat ti eli Platone, mercé la soppressione della distanza, e la confer ma si
è avuta in virtù della stessa evidenza. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 212) In
effetti Epicuro era ben consapevole del fatto che si possono commettere degli
errori neli'identificazione o nel riconoscimento degli oggetti della percezione
e, probabil mente, egli pensava che in ogni atto percettivo, accanto alla pura
e semplice sensazione, anche la d6xa gioca sempre un ruolo. In questo modo la
congettura diviene onnipresente, in quanto è coinvolta in ogni atto percettivo.
Di conseguen za, la funzione che vengono ad assumere le sensazioni e le
immagini mentali è quella di fornire i dati sulla base dei quali elaborare le
congetture. 1 7 Nella Lettera ad Erodoto (38) sembrano essere presi in
considerazione due tipi di oggetti sui quali l'inferenza se miotica si
esercita: (l) ciò che attende conferma (prosménon) (2) ciò che non cade sotto i
sensi (adlon) che danno luogo a due tipi di processi inferenziali. Il primo è
relativo al genere di congettura che si instaura all'interno degli stessi
processi percettivi ed è illustrato dal l'esempio, riportato da Sesto, del
vedere in lontananza Pla tone che si avvicina, e poter solo congetturare che
si tratti proprio di lui. In questo caso l'oggetto su cui si esercita la
congettura è qualcosa che viene colto dai sensi, ma non di stintamente.
Tuttavia, questo processo si conclude con una verifica: in questo caso, la
conferma del dato congetturato, attraverso una visione chiara. Chiameremo
questo tipo in ferenza percettiva. Il secondo è relativo all'inferenza su cose
assolutamente escluse dal processo percettivo: è il caso della congettura nel
senso fliù classico. Anche di questo ci fornisce un esempio Sesto. 8 Si tratta
di risalire dali'esistenza del moto (cioè di 7.6 L'INFERENZA DA SEGNI 171
un elemento percepibile, un phain6menon) all'esistenza del vuoto (cioè di un
elemento non percepibile, adlon). È la ti pica relazione logica di
implicazione (chiamata da Sesto akolouthfa) tra un antecedente e un
conseguente. Chiame remo questo secondo tipo di processo inferenza al non per
cepibile. 7.6 L'inferenza da segni L'inferenza al non percepibile è una tipica
inferenza da segni. Infatti in molti casi, come quello che abbiamo visto,
"Se c'è moto-+c'è vuoto", non è possibile conoscere diret tamente
l'oggetto sul quale viene fatta l'inferenza ("il vuo to"), ma lo si
deve attingere attraverso un segno ("il mo to"). In effetti, anche
per Epicuro, l'inferenza da segni è connessa con la possibilità di ampliare i
limiti della cono scenza oltre la sfera degli oggetti sensibili. È proprio
grazie a una teoria dell'inferenza segnica che la scuola epicurea riesce a
superare i limiti del proprio radicale empirismo, aprendo la via anche alla
conoscenza di fenomeni non per cepibili direttamente dai sensi. Anzi, nel De
signis di Filode mo (fr. 2), c'è un esplicito invito a considerare le conoscen
ze ottenute tramite inferenza, altrettanto sicure di quelle di rette. Un
programma conoscitivo di questo tipo presuppone un'epistemologia che divide gli
oggetti in quattro categorie, in maniera del resto non molto diversa da quanto
avveniva nella semiotica stoica: ( l ) Oggetti o fatti evidenti (enarghi):
"quegli oggetti che vengono recepiti involontariamente per mezzo di una
rappresentazione o di una affezione" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 316).
Come esempi vengono dati il fatto che sia giorno o il riconoscimento che una
certa persona è un uomo. (2) Oggetti oscuri in modo assoluto (phjsei adla):
"quegli oggetti che né furono conosciuti nel passato, né sono conosciuti
nel presente, né saranno conosciuti nel futu- 172 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO ro, ma sono inconoscibili in eterno" (Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 317-318). Come esempio viene data l'im possibilità di
conoscere se il numero delle stelle sia pari o dispari. Fatti di questo genere
sono inconoscibili, co me spiega Sesto, non per la loro natura, ma per la no
stra natura, dato il tipo di limitazioni a cui è sottoposta la conoscenza
umana. (3) Oggetti oscuri di per sé (ghénei adla): "quegli oggetti che
sono oscuri per la propria natura, ma che si stima vengano conosciuti per mezzo
di segni e di dimostrazio ni" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 319). Gli
esempi so no gli atomi e il vuoto infinito. L'esistenza degli atomi e del
vuoto era postulata da Leucippo e da Democrito su basi puramente razionali, ma
Epicuro insisterà, in con formità con il suo empirismo, che possono essere
cono sciuti attraverso l'inferenza analogica. (4) Oggetti che attendono
conferma (prosménonta): sono quegli oggetti posti immediatamente oltre la
nostra esperienza (Ep. Hdt. , 38), la cui conoscibilità è limitata da fattori,
quali la distanza nello spazio o il loro essere situati nel futuro. Come si può
vedere, gli unici oggetti che possono essere conosciuti attraverso l'inferenza
sono quelli che apparten gono alla terza e alla quarta classe. Essi sono da
porre in corrispondenza con i due tipi di inferenza di cui abbiamo già parlato.
L'inferenza percettiva, infatti, verte intorno agli oggetti appartenenti alla
quarta classe, quelli "che attendono con ferma". L'inferenza al non
percepìbile, invece, verte intorno agli oggetti appartenenti alla terza classe,
cioè è rivolta alla co noscenza di quegli oggetti che sono "oscuri di per
sé" e che non arrivano mai a essere esperiti dai sensi . In questo caso il
metodo di verifica assume una forma indiretta: la "non at testazione
contraria" (ouk antimartjresis). Il vuoto, come abbiamo visto, non è
verificabile per esperienza diretta, ma gli epicurei sostengono che la sua
esistenza non è in contra sto con nessun fatto conosciuto, 1 9 mentre la sua
negazione 7.7 LA PROLESSI 173 entra in conflitto con l'esperienza
empirica del movimento, che richiede il vuoto per attuarsi. Il cuore del
ragionamento basato sulla non attestazione contraria consiste nel fatto che,
quando si hanno due proposizioni contraddittorie in torno a qualcosa che non è
percepibile, e una di esse risulta falsa in base a una prova empirica
(nell'esempio preceden te, la non esistenza del vuoto, in quanto entra in
conflitto con l'esistenza del moto), allora l'altra può essere conside rata
vera (De Lacy 1978: 188). 7.7 La prolessi La prolessi (o
"anticipazione" o "preconcezione") costi tuisce il secondo
dei due criteri di verità che abbiamo defini to "oggettivi". Essa ha
un ruolo determinante nell'inferenza percettiva, come mostra Diogene: Per
esempio, per poter affermare: "Ciò che sta lontano è un ca vallo o un
bue", dobbiamo per prolessi (o anticipazione) già aver conosciuto una
volta la figura di un cavallo e di un bue. (Diog. Lai!rt.. Vitae, X, 33) In
effetti la protessi è necessaria perché si abbia percezio ne in senso proprio,
cioè affinché si passi dalla semplice consapevolezza del fatto che si sta
vedendo un'immagine, al giudizio oggettivo che questa è immagine di un oggetto
pre ciso. In altre parole, secondo Epicuro, per poter effettiva mente
percepire un cavallo o un bue, si deve: l . avere avuto precedentemente
un'immagine di questi animali; 2. averla immagazzinata nella mente; 3.
effettuare un confronto con i dati che vengono forniti dalla propria attuale
sensazione. Le prolessi sono in realtà delle immagini mentali o dei concetti
che si sono formati in seguito a numerose esperien ze relative agli oggetti
esterni. Esse hanno due caratteri fon damentali: (i) sono strettamente legate
alla memoria di esperienze precedenti; (ii) sono evidenti (enargeis). Come
concetti, le prolessi non necessariamente corri spondono a singoli oggetti
esterni, ma costituiscono piutto- 174 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN
EPICURO sto il tipo, di cui le singole esperienze percettive sono le oc
correnze. Ciò, del resto, è strettamente collegato al fatto che esse
rappresentano un test di verità: solo possedendo il concetto generale di
"uomo", si può decidere se ciò che si ha di fronte sia o non sia
un'occorrenza particolare di esso. 7.8 La teoria del linguaggio Le protessi
costituiscono anche una condizione necessaria del linguaggio e agiscono tanto
al livello della decodifica quanto a quello della codifica. Infatti, da una
parte, l'atto di pronunciare un nome (a esempio juomol) richiama nella mente
dell'ascoltatore un'immagine o un concetto, cioè un'entità che è soggiacente,
hyfootetagménon, a quel nome e che è derivata dalla protessi; 0 potremmo dire
che la pre senza di un significante fa scattare nell'ascoltatore I'abbina
mento con un significato. Dall'altra, il Iocutore deve posse dere una
preconcezione di ciò che intende esprimere, altri menti non gli sarebbe
possibile dire niente: in questo caso, il locutore codifica un significato
presente nella sua mente per mezzo di un artificio espressivo (un
"nome"). Nella teoria epicurea la prolessi sembra coinvolta in ogni
caso nella formazione dei concetti. Infatti Diogene dice che "tutti i
concetti (epfnoia1) sorgono dalle sensazioni, o per diretta esperienza, o per
analogia, o per somiglianza, o per combinazione, con una certa collaborazione
anche da parte del ragionamento" ( Vitae, X, 32). Long (1971 b: 1 19) sug
gerisce di identificare con le prolessi la prima classe di con cetti, cioè
quelli che sorgono per diretta esperienza dalle sensazioni. Se dunque le
prolessi sono alla base di ogni concetto, si viene a configurare una teoria del
segno linguistico sensibil mente diversa da quella che è normalmente
attribuita agli epicurei sulla scorta delle testimonianze di Sesto e di PIutar
co.21 Questi ultimi, infatti, sostenevano che nella teoria lin guistica di
Epicuro solo due fattori erano implicati: la cosa significante (sèmainon, o
voce, ph(Jn) e la cosa designata (tynchanon). In effetti, la ragione per cui
Plutarco e Sesto 7.8 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 175 trascurano le protessi
nella teoria del significato linguistico è imputabile al fatto che essi non
vedono nella teoria epicu rea niente di simile al lekt6n stoico, che è
contemporanea mente incorporeo e completamente diverso da un'immagine mentale.
Ciò non impedisce, tuttavia, alle protessi di avere la stes sa funzione dei
lekta stoici, cioè di costituire un elemento di mediazione tra le parole e le
cose. Di conseguenza, la teoria epicurea del segno linguistico dovrebbe essere
così rico struita: prolessi nomi cose Del resto, se a Epicuro fosse
attribuita una teoria lingui stica secondo cui le parole si riferiscono
direttamente alle cose, senza la mediazione delle protessi, entrerebbe in con
traddizione tutta la sua dottrina della falsa credenza. A esempio, poiché gli
uomini credono erroneamente che gli dei siano malevoli nei loro confronti ed
esprimono verbal mente questa credenza, se non esistesse il livello
concettuale delle prolessi, non ci sarebbe niente che corrisponde alla
proposizione "Gli dei sono malevoli nei confronti degli uo mini". La
presenza della prolessi come elemento mediatore tra le parole e le cose può
rendere conto di molte asserzioni false e di asserzioni su cose che non
esistono. Ciò che gli uo mini fanno, pensando agli dei come malevoli, è una
falsa supposizione, ovvero un concetto non derivato dali'ogget to, cioè dagli
dei stessi. La centralità della protessi nella teoria linguistica epicu rea è
dimostrata anche dal fatto che essa deve essere identi ficata anche con quel
particolare significato che è il "signifi- 176 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO cato basico" o "primario" (proton ennoma),
di cui si parla nella Lettera ad Erodoto (37-38) e che si oppone a tutti gli altri
significati che possono essere considerati derivati da esso.22 7.9 L'origine
del linguaggio La teoria linguistica in Epicuro è connessa con quella del
l'origine stessa del linguaggio, che è discussa principalmen te nella Lettera
ad Erodoto (75-76).23 Per Epicuro il linguaggio è un'attività che gli uomini
han no sviluppato nel corso della loro evoluzione, passando at traverso due
stadi distinti. Nel primo stadio il linguaggio esprime una relazione con la
realtà che potrebbe essere defi nita naturale, mentre nel secondo una
relazione che potreb be essere definita convenzionale. In effetti Epicuro,
nella polemica phjsisln6mos, assume una posizione mediana e molto particolare,
rifiutando sia l'idea che ci sia stato un unico datore di nomi, sia l'idea (per
altro sostenuta dagli stoici) che le parole si accordino in maniera naturale
alle co se. Esaminiamo più in particolare come è descritto il pro cesso di
nascita e sviluppo del linguaggio nella Lettera ad Erodoto . In una prima fase
l'attività linguistica degli uomini non è affatto diversa dai processi naturali
quali tossire, starnuti re, gemere ecc.: infatti gli uomini emettono suoni,
simili a parole, sotto lo stimolo involontario e naturale delle affe zioni
(path) che provano e delle immagini (phantasmata) che si formano in loro. Il
linguaggio primitivo costituisce una reazione istintiva all'arnbiente, e la
tesi di Epicuro sem bra essere, in relazione a questo stadio, a pieno titolo
quella naturalista. Ma, a ben guardare, essa presenta qualcosa di più. Infatti
ha sempre costituito un problema, per i sosteni tori della tesi del naturale
accordo tra le parole e le cose, spiegare la diversità delle lingue: qui
Epicuro non evita que sto aspetto del problema,24 ma lo integra nella sua
teoria. La diversità delle lingue è diretta conseguenza della diver sità degli
ambienti in cui i vari popoli si trovano e in relazio- 7. l0 EPICURO E
TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 177 ne ai quali emettono suoni diversi. Insomma, le
lingue va riano perché le cose variano da regione a regione. Inoltre gli
uomini, accorgendosi che si producono suoni diversi in re lazione alle
affezioni e alle immagini prodotte dagli oggetti, trovano utile usare questi
suoni come nomi-etichette degli oggetti. A questo punto interviene il secondo
stadio nel processo evolutivo del linguaggio, in cui vengono introdotti degli
ele menti di convenzione. Questi ultimi si instaurano sotto una duplice
spinta: da una parte c'è un movimento che tende a razionalizzare il linguaggio,
rendendo le espressioni ambi gue, createsi naturalmente "più chiare"
e "più concise"; dal l'altra c'è l'operato degli "uomini
colti", i quali tendono a introdurre concetti relativi a cose che vanno
oltre la perce zione e che dunque non hanno potuto essere nominate at traverso
il processo naturale. Come sottolinea Sedley (1973: 19), il tentativo
deliberato di introdurre processi di semplifi cazione nell'evoluzione del
linguaggio corrisponde al desi derio di rendere conto dei processi astratti,
come quelli in cui la relazione uno e uno tra parole e cose non è più soste
nibile. Ciò avviene sostanzialmente in due casi, che sono le gati all'intera
problematica linguistica di Epicuro, cioè (i) nella formazione dei termini
generali e (ii) nei processi di metaforizzazione. 7.lO Epicuro e la tradizione
"physis/nomos" Dopo aver esaminato la teoria epicurea dell'origine
del linguaggio, è possibile ritornare al triangolo semiotico e analizzare quali
relazioni siano implicate tra i vari termini, in rapporto con altre posizioni
della tradizione linguistica. Un primo confronto può essere stabilito con
Aristotele. Spesso gli studiosi hanno suggerito una dipendenza della teoria
linguistica di Epicuro da quella di Aristotele (tra gli altri, Arrighetti 1960:
476), o almeno una stretta somiglian za (Long 1971 b: 121). In effetti nel De
interpreta/ione (16 a) Aristotele pensa alle affezioni dell'anima come a immagi
ni provenienti dalle espressioni sensoriali derivate dalle cose 178 7.
INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO esterne, in un modo non molto diverso da come
le protessi di Epicuro derivano dagli oggetti. Se questo è un punto di contatto
tra le due teorie, tuttavia maggiori sono, secondo Sedley (1973: 20), le
divergenze. Anzitutto, per Aristotele i diversi popoli hanno esattamente le
stesse affezioni mentali, ma le rappresentano attraverso espressioni
linguistiche diverse. Per Epicuro, invece (come abbiamo visto a proposito
dell'origine del linguaggio), le forme linguistiche sono diverse perché le
affezioni mentali (path e phantasmata, ambedue inclusi negli aristotelici
pathmata) sono diverse da popolo a popolo, in relazione ai diversi ambienti
naturali. Ma ci sono anche altri elementi di divergenza tra Aristotele ed
Epicuro. Per il primo, infatti, nessun nome preso di per sé ha funzione apofantica,
cioè nessun nome può essere detto vero o falso; inoltre nessuna espressione
diviene un simbolo se non in seguito a conven zione. Per Epicuro, invece, i
nomi di oggetti individuali comportano verità o falsità, come avveniva, del
resto, an che nel Crati/o platonico; inoltre, una certa espressione, che può
essere anche un semplice rumore, può essere usata co me un simbolo, per quanto
in assenza di elementi conven zionali, come avviene negli stadi primitivi
della comunica zione. Un secondo confronto può essere stabilito poi anche con
la posizione platonica. Sicuramente in Epicuro non è pre sente alcuna
posizione simile a quella della prima teoria se mantica di Platone,25 adottata
in seguito anche dagli stoici, secondo la quale il nome è una lista abbreviata
delle pro prietà dell'oggetto a cui si riferisce. Platone, infatti, vede le
parole primitive come una rappresentazione fedele delle proprietà dell'oggetto,
quasi che tutto il vocabolario fosse deliberatamente costituito da onomatopee.
La posizione naturalistica di Epicuro si limita a sostenere che, ali'interno di
ciascun linguaggio, ogni nome ha un uso corretto quando viene impiegato per
denotare l'oggetto, o la classe di oggetti, a cui è stato associato nel momento
del la sua origine naturale. Tuttavia, nonostante questa distin zione, ci
sono forti elementi di convergenza tra la posizione platonica e quella
epicurea, in quanto in entrambe i nomi 7.l0 EPICURO E TRADIZIONE
«PHYSIS/N6MOS» 179 hanno alla loro origine un valore cognitivo, che viene par
zialmente obliterato attraverso i cambiamenti del linguag gio nel corso del
tempo.26 Per Platone il recupero del senso originario delle parole avviene
attraverso l'etimologia, stra da sulla quale lo seguiranno anche gli stoici.
Epicuro ritie ne, invece, che la relazione originaria del linguaggio con gli
oggetti percepibili sia stata oscurata soprattutto da processi metaforici e,
per recuperare il valore epistemologico origi nario dei nomi, suggerisce di
ricercare "la prima immagine" (prOton enn6ema: Ep. Hdt., 38). Questa
prima immagine è da identificarsi con la prolessi, cioè con il concetto che si
è formato alla prima percezione dell'oggetto e che è stato as sociato al nome.
In conclusione, rispetto alla teoria di Aristotele e alla pri ma teoria
semantica di Platone, si può dire che Epicuro as sume una posizione
intermedia. Per Aristotele i nomi sono simboli e sono convenzionali. Per
Platone, invece, i nomi sono delle icone degli oggetti e sono naturali. Per
Epicuro i nomi sono simboli, come per Aristotele, in quanto non riproducono le
proprietà degli og getti, ma sono naturali, come per Platone, nella loro origi
ne, coincidente con il primo dei due stadi evolutivi del lin guaggio . Gli
elementi di convenzionalità si sviluppano soltanto in seguito, nel secondo
stadio. Questa posizione intermedia di Epicuro spiega perché non venga fatto
ricorso all'etimolo gia, come invece avviene in Platone e negli stoici, e, pur
tut tavia, si chieda di tenere presente "la prima immagine": in
realtà, la corrispondenza biunivoca tra il nome e "la prima immagi
ne" si fonda non sulla forma, ma sulla origine natu rale . 8. IL
''DE SIGNIS'' DI FILODEMO 8.0 Introduzione Dopo Epicuro la teoria del segno
trovò un ampio svilup po negli scritti dei suoi seguaci. Un trattato del I
secolo a.C.,1 ilPerìsmet'Onkaìsmei8seon(Suisegniesulleinfe renze)2 di
Filodemo, testimonia ampiamente del grado di raffinatezza e di complessità che
la teoria del segno aveva raggiunto in seno alla scuola epicurea. Si tratta di
un'opera composta probabilmente a uso della scuola epicurea di Er colano,
della quale Filodemo fu uno dei più importanti esponenti. Il De signis non
costituisce un vero e proprio trattato metodologico, né un'esposizione
sistematica della teoria epicurea del segno, ma riporta la polemica allora in
corso fra stoici ed epicurei sull'inferenza da segni e su varie tematiche
semiotiche a essa connesse. Il trattato è diviso in quattro sezioni, nelle
quali sono esposte le argomentazioni di tre maestri epicurei, Zenone di Sidone,
Bromio e Deme trio di Laconia,3 a favore della teoria epicurea del segno e
contro le critiche a essa mosse dagli esponenti della scuola stoica. Il
trattato è di grandissima importanza semiotica, perché tanto gli stoici quanto
gli epicurei costruivano la loro teoria logica sull'inferenza da segni. Nel
confronto le due teorie si illuminano a vicenda. Inoltre il De signis dibatte
una serie di problemi che ancora oggi sono al centro della discussione
semiotica. Del resto, per la sua pertinenza semiotica, que st'opera aveva
attirato anche l'interesse di Charles Sanders 8.l RELAZIONE SEGNICA «A
PRIORI» E «A POSTERIORI» 181 Peirce, che ne aveva affidato l'approfondimento e
l'analisi all'allievo Allan Marquand; di quest'ultimo ci rimane un saggio sulla
logica semiotica degli epicurei.4 8.1 La relazione segnica è "a
priori" o "a poste riori"? Al centro del trattato di Filodemo
si colloca il contrasto fondamentale tra le due scuole circa il modo di
concepire il rapporto che si instaura tra i due termini della relazione se
gnica: gli stoici sono sostenitori di una posizione che vede tale relazione
come a priori, formale e di natura razionale; gli epicurei, invece, sostengono
che tale relazione è a poste riori e interamente fondata su basi empiriche. Il
punto di vi sta epicureo, in effetti, è che per poter stabilire una relazio
ne tra un segno e ciò a cui esso rinvia, è necessario aver os servato più
volte i due termini in un qualche tipo di con giunzione (sia essa spaziale,
temporale, causale ecc.). Così la relazione si stabilisce in seguito
ali'esperienza, e non a priori, come sostenevano gli stoici. Di conseguenza, il
me todo semiotico proposto dagli epicurei è quello deH'analo gia (ho katà tn
homoi6tta tr6pos), cioè un "metodo stret tamente empirico e basato
sull'osservazione delle similarità nella nostra esperienza e su certe
congiunzioni costanti, dal le quali noi inferiamo ugualmente delle similarità
e delle congiunzioni nella sfera di ciò che è oscuro" (De Lacy 1938: 398).
In corrispondenza con i due modi di concepire la relazio ne segnica, stoici ed
epicurei sviluppano anche due differen ti teorie sulla verifica della validità
logica della relazione. Gli stoici consideravano valida la relazione segnica
basata sulla contrapposizione (anaskeu), secondo cui la negazione del
conseguente comporta la contemporanea negazione del l'antecedente. A esempio,
nell'inferenza "Se c'è moto, c'è vuoto", gli stoici sostenevano che
la negazione della cosa si gnificata ("c'è vuoto") implicherebbe
anche la negazione del segno (''c'è moto"). Si tratta di un metodo di
verifica as solutamente a priori e astratto, al quale gli epicurei con-
182 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO trappongono un metodo completamente
empirico. Anzi, gli epicurei sostengono che nessun metodo a priori è possibile
fino a che non sia stata costruita un'inferenza su base empi rica: l'esistenza
del vuoto, nell'esempio precedente, è inferi ta a partire dalla osservazione
empirica che non si verifica il moto senza l'esistenza congiunta del vuoto, e da
una conse guente generalizzazione.5 Ciò significa che il principio astratto
degli stoici può esse re formulato soltanto dopo che l'inferenza è stata
costruita su base empirica e con il ricorso a un ragionamento analogi co. Così
gli epicurei sostengono che il metodo della con trapposizione poggia,
inconsapevolmente, sul fondamento ultimo dell'analogia epicurea. In questo modo
le verità ne cessarie, che gli stoici consideravano analitiche e a priori,
sono in realtà stabilite attraverso l'induzione. Gli epicurei prospettano un
punto di vista secondo cui la logica dedutti va è susseguente a una logica
induttiva in ordine di svilup po: la prima dipende infatti dalla seconda (De
Lacy 1978: 221). Se questa idea è chiaramente espressa nel trattato di
Filodemo, non ci si deve tuttavia aspettare una discussione articolata sulle
relazioni tra la logica formale e deduttiva da una parte, e logica induttiva e
metodo empirico dall'altra. Anzi, a ben vedere, nel corso del trattato,
entrambi i prota gonisti della discussione tendono a confondere due cose che
la logica moderna avrebbe piuttosto tendenza a tenere di stinte: da una parte,
il metodo per la costruzione di un'infe renza segnica; dall'altra, il criterio
per la verifica della sua validità (Martinelli 1 986) . Così , il metodo di
costruzione deli'inferenza per gli epicurei è l'analogia, mentre il criterio è
più precisamente quello della inconcepibilità (adianosfa). Tuttavia la
distinzione non è così forte, in quanto sia il me todo sia il criterio sono su
base empirica: in effetti, nel di battito, gli stoici tenderanno ad attaccare
il metodo per in validare il criterio e viceversa. 8.2 Contrapposizione vs
inconcepibilità Vediamo di analizzare, in termini formali, l'opposizione
8.2 CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPmiLITÀ · 1 83 che si stabilisce tra il criterio
stoico della contrapposizione e quello epicureo della inconcepibililà. Data
l'inferenza p-:Jq il criterio della sua verifica secondo la contrapposizione
stoica è esprimibile come il che equivale a dire che, negando per ipotesi il
conseguen te, anche l'antecedente risulta negato. La prova dell'infe renza,
dunque, avviene su base formale e non empirica. Il criterio della
inconcepibilità epicurea, invece, prescinde da considerazioni formali ed è
basato sull'analogia empiri ca. Esso viene così illustrato nelle parole di
Filodemo: Ma talvolta l'inferenza non è provata essere vera in questo mo do (
= per contrapposizione), ma proprio per l'impossibilità di concepire che il
primo sia, o abbia una certa proprietà, mentre il secondo non sia, o non abbia
tale proprietà, come per esem pio: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è
un uomo". Se è vera questa inferenza, diviene vero anche che "Se
Socrate non è un uomo, nemmeno Platone è un uomo", non perché, attraver
so la negazione di Socrate, Platone sia negato insieme ad esso, ma perché non è
possibile che Socrate non sia un uomo e Plato ne sia un uomo; e questa
inferenza appartiene al metodo dell'a nalogia . (col. XII, 14-31=cap. 17) Dal
punto di vista formale il criterio della inconcepibilità è esprimibile come
impossibile (pl\q) In effetti le due formule che corrispondono rispettiva
mente al criterio di verifica stoico e a quello epicureo non esprimono un
contenuto logico molto diverso l'una rispetto all'altra. La stessa presenza di
un operatore modale nella 184 8. n «DE SIGNIS» DI FnODEMO formula
del criterio di inconcepibilità è controbilanciata dal carattere, ugualmente
modale, di necessità, che sappiamo essere richiesta dali'implicazione come la
concepivano gli stoici . Tuttavia, in Filodemo i due metodi sono presentati
come contrapposti, e anzi, nel passo citato, sembra che trovino applicazione in
casi diversi. Se non è dunque sul piano del contenuto logico che si dif
ferenziano, che cosa è allora che li rende diversi? È possibi le cercare una
risposta a questo interrogativo soffermando ci sull'esempio che viene
riportato da Filodemo di inferenza verificata con il metodo
dell'inconcepibilità: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo"
Questa inferenza, ci dice Filodemo, appartiene al metodo dell'analogia.
Infatti, entrambi i membri dell'inferenza condividono un elemento, cioè la
proprietà attribuita ai soggetti rispettivi delle due proposizioni, fatto che
potrem mo esprimere come: u {P) u {S)
in cui "u" è la proprietà di "essere un uomo",
"P" è "Plato ne" e "S" è "Socrate".
Questo aiuta a capire che cosa intendano esattamente con "analogia" e
con "inferenza segnica basata sull'analogia" gli epicurei. In
effetti, mentre per gli stoici non è necessario alcun elemt.nto in comune tra i
due membri dell'inferenza segnica, una tale caratteristica diviene essenziale
per gli epi curei.6 Il fatto, però, che l'analogia, da un punto di vista
logico, si venga precisando come situazione in cui c'è una proprietà condivisa
dai soggetti delle due proposizioni membri del l'inferenza, ci permette di
dire che la logica usata dagli epi curei non è la stessa di quella usata dagli
stoici: mentre que sti ultimi si servono della logica delle proposizioni, gli
epi curei ritornano a una logica dei predicati, sotto un certo punto di vista
più simile a quella aristotelica. 8.2 CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPIBILITÀ
185 A distinguere il metodo della contrapposizione da quello
dell'inconcepibilità è dunque l'ambito di applicazione: le proposizioni nel
primo caso, le proprietà nel secondo. Lo scopo è tuttavia lo stesso: dimostrare
che l'inferenza ha un carattere di necessità. Ora non c'è nessun problema a
considerare necessaria la relazione stoica verificata dalla contrapposizione,
in quanto il metodo adottato è aprioristi co. Ci sono maggiori problemi,
invece, come gli stoici sot tolineano, a considerare necessaria l'inferenza
analogica. A ogni modo, per gli epicurei le relazioni segniche vengo no
scoperte empiricamente e, se la ricerca è ben condotta, la relazione tra il
segno e l'oggetto a cui il segno rimanda' è necessaria. Tuttavia, il metodo
stesso dell'inconcepibilità è un metodo empirico, in quanto una certa cosa è
inconcepi bile solo nei termini della nostra esperienza. Le inferenze
verificate dall'inconcepibilità sono basate sull'analogia tra il segno e ciò a
cui esso rimanda: "Un oggetto che non ab bia niente in comune con ciò che
appare è inconcepibile" (col. XXI, 27.;.29 = cap. 36). Anche le inferenze
su ciò che va di là dell'esperienza sono basate sull'analogia con le proprietà
che presentano le cose ali'interno deli'esperienza. Se non è possibile
verificare di rettamente la presenza di quelle proprietà negli oggetti non
percepiti, si ricorre alla prova indiretta della non incompati bilità (ouk
antimartjrsis) con i dati empirici.7 L'inferenza che viene presa in
considerazione è la seguente: Se gli uomini che noi conosciamo direttamente,
una volta deca pitati muoiono, senza che ricrescano nuove teste, allora tutti
gli uomini, dovunque, una volta decapitati muoiono e non ricre scono nuove
teste. Il primo membro del condizionale è considerato segno del secondo. Tra i
due membri si stabilisce un elemento co mune, e l'inferenza è propriamente
un'induzione: l'espe rienza ripetuta dell'associazione tra decapitazione da
una parte e morte congiunta alla non ricrescita della testa dal l'altra, porta
alla generalizzazione di questa associazione, in modo da poter fare inferenze e
previsioni anche in casi 186 8. IL «DE SIONIS» DI FnODEMO non
precedentemente osservati, o non osservabili in asso luto. Inoltre, poiché è
impossibile verificare l'inferenza sui casi non osservabili , gli epicurei la
ritengono veri ficata basando si sulla non incompatibilità con i casi che
cadono nel domi nio deli'esperienza. La condizione è tuttavia quella di sce
gliere i casi giusti, che sono quelli che appartengono allo stesso genere: a
esempio, per inferire la non ricrescita delle teste, è necessario non basarsi
sulla ricrescita dei capelli o delle unghie (coli. XIII, 20 - XIV, 2 = cap.
18). 8.3 Segni comuni e segni propri La disputa sui metodi di verifica
dell'inferenza si lega alla discussione sui tipi possibili di segno. Tanto gli
stoici quan to gli epicurei distinguevano tra segno comune (koinòn s mefon) e
segno proprio (fdion smefon). Definivano il segno comune come quella entità che
può esistere anche in assen za di un'entità cui dovrebbe rinviare (a esempio,
nell'infe renza "Se quest'uomo particolare è ricco, allora è buono"!
la ricchezza può sussistere anche se non sussiste la bontà). Definivano poi il
segno proprio come quell'entità che può esistere solo se esiste un oggetto non
percepibile a cui essa rinvia (a esempio, nell'inferenza "Se c'è moto,
c'è9vuoto", il moto può esistere solo se esiste anche il vuoto). Gli
epicurei erano d'accordo con gli stoici nel rifiutare i segni comuni come basi
inaffidabili di inferenze, ma non concordavano sul fatto che ogni caso di segno
proprio fosse anche un caso (come sostenevano gli stoici) di segno stabili to
per contrapposizione, cioè stabilito aprioristicamente. Per essi era possibile
stabilire dei segni propri usando un criterio empirico, come è quello
dell'inconcepibilità.10 Se consideriamo l'inferenza: "Se Epicuro è un
uomo, allora anche Metrodoro è un uomo " ci troviamo di fronte a un segno
proprio costruito per ana- 8.3 SEGNI COMUNI E SEGNI PROPRI 187 logia,
cioè sull'osservazione di una proprietà in Epicuro che è inconcepibile pensare
che Metrodoro non abbia esatta mente negli stessi termini. In altre parole si
può dire che, posto l'accordo tra le due scuole sulla validità dei soli segni
propri, gli stoici costituivano un oggetto come segno a par tire dal
conseguente (ovvero dal rinviato), mentre gli epicu rei lo costituivano a
partire dall'antecedente. È l'oggetto che compare nell'antecedente, infatti,
che nella semiotica epicurea viene associato a certe proprietà (costantemente
osservate) e diviene segno di un altro ogget to non percepibile a cui vengono
attribuite le proprietà del primo. Tuttavia, il primo oggetto X deve avere
almeno due proprietà Pt e P2 e il secondo oggetto deve avere almeno una di
queste: la proprietà comune diviene il segno della presenza della seconda
proprietà che può non essere perce pibile direttamente nel secondo oggetto. A
esempio, se un certo individuo X ha le due proprietà: Pt = "essere un
uomo" p2 = "non poter avere la ricrescita della testa, una volta
tagliata" sarà sufficiente che un altro individuo Xt abbia la proprietà Pt
perché gli si possa attribuire anche la proprietà p2. Le condizioni della
validità generale di questa inferenza sono due: (i) che l'associazione tra le
due proprietà nel pri mo membro dell'inferenza sia costante; (ii) che tale
associa zione non si stabilisca tra proprietà casuali. Come vedremo in
seguito, si tratta di scegliere delle proprietà che siano "es
senziali". Rimane da fare una considerazione generale sul tipo di segno
proposto dagli epicurei: esso sembra costantemente configurarsi come segno
iconico, in quanto, in termini peir ceani, rimanda al suo oggetto in virtù di
una somiglianza o per avere alcune proRrietà in comune con esso (Peirce 1980:
140; Eco 1973: 51). 1 188 8. ll «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.4 Critica
stoica all'induzione epicurea Gli stoici non accettano la validità
dell'inferenza basata su un criterio induttivo, come proponevano gli epicurei.
A essa contrappongono inferenze segniche basate sostanzial mente su due tipi
di criterio: (i) la tautologia; (ii) la L-impli cazione. 12 Seguiamo lo
sviluppo dell'argomentazione degli stoici. Essi prendono come punto di partenza
una tipica in ferenza induttiva, o analogica, epicurea: "Se gli uomini
tra di noi sono mortali, allora tutti gli uomi ni lo sono''. Per gli stoici
l'inferenza cosi formulata è inaccettabile. Per acquisire validità, essa deve
essere riformulata secondo l'uno o l'altro dei criteri che abbiamo menzionato.
Vedia mo il criterio definito come tautologia. Gli stoici sostengo no che,
per rendere valida l'inferenza, cioè, dal loro punto di vista, per rendere
necessaria la relazione tra i due mem bri, entrambe le proprietà prima
considerate devono essere contenute nella premessa. 1 3 Gli stoici propongono
così di riformulare l'inferenza nel modo seguente: Dal momento che gli uomini
tra di noi sono mortali, e se in altri luoghi vi sono uomini simili a quelli
tra di noi sotto tutti i ri spetti, e anche nell'essere mortali, essi sono
eventualmente mor tali . (coIl. II, 37 - III, 4= cap. 5) Il carattere
tautologico dell'inferenza è sottolineato dagli stoici stessi, i quali
sostengono espressamente che "la con clusione appresa attraverso questo
segno non differisce dal segno a partire dal quale si trae l'inferenza
(smeioume tha)".14 Infatti viene assunta la premessa che entrambe le
serie di entità (cioè sia gli uomini che si trovano tra di noi, sia gli uomini
che sono in luoghi sconosciuti) hanno non so lo la proprietà comune di essere
"uomini", ma anche con temporaneamente quella di essere
"mortali". 8.5 RISPOSTA EPICUREA A FAVORE DELL'INDUZIONE 189
L'assunzione nella premessa dello stesso carattere di "mortalità" che
dovrà essere anche oggetto di inferenza è, per gli stoici, condicio sine qua
non della necessità dell'infe renza. L'inferenza sarà valida, dunque, solo se
totalmente analitica o tautologica. Vediamo ora l'argomentazione stoica contro
l'induzione secondo il criterio definito L-implicazione. In questo secon do
caso gli stoici propongono di riformulare l'inferenza epi curea di partenza in
maniera tale che il carattere di "morta lità" da inferire sia
contenuto nella definizione stessa di "uomo". Per esprimere l'idea
che la parola luomol implicita semanticamente tutto un insieme di proprietà che
una defi nizione metterebbe in luce, essi introducono le espressioni hii
"in quanto" e kath6 "nella misura in cui". L'inferenza
riformulata secondo questo principio assume la forma se guente: Dal momento
che gli uomini tra di noi, in quanto (hi1) e nella misura in cui (kath6) sono
uomini, sono mortali, anche in qual siasi altro luogo gli uomini sono
mortali.ts in cui la semplice espressione l uomo l è data come implici tante
la proprietà "mortale" da inferire. Gli stoici sostengono che
l'attribuzione della proprietà di essere "mortale" a l uomo l , se
avviene in qualsiasi altro modo diverso da questo, come appunto fanno gli
epicurei, rende vana l'inferenza. 8.5 La risposta epicurea a favore
dell'induzione La sostanza della replica epicurea è che il sistema stoico, per
quanto appaia analitico e a priori, tuttavia poggia in ul tima analisi su una
base induttiva. In realtà, secondo gli epicurei, la necessità della relazione
inferenziale è costruita sull'osservazione di congiunzioni costanti. È a causa
del fatto di non vedere mai il fumo senza il fuoco, né il moto senza la presenza
del vuoto, che noi arriviamo a dire che il fumo è segno del fuoco e il moto
segno del vuoto.16 Cosi è 190 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO su base
empirica che viene stabilito il sistema di necessità lo gica a priori alla
quale fanno ricorso gli stoici . Del resto, la stessa connessione necessaria
tra due termini, espressa at traverso il test della contrapposizione, può
essere verificata solo dopo che l'esperienza ha mostrato la costante congiun
zione tra di essi. Come giustamente interpreta Estelle De Lacy (1938: 405),
"le ipotesi sul livello logico e teoretico sono formulate sulla base di
informazioni intorno alla connessione di termini da ti dali'osservazione
deli'esperienza dei sensi. La validità di queste ipotesi, di conseguenza,
dipende dalla loro corri spondenza con i fatti e dalla loro adeguatezza nel
compren dere tali fatti, come pure dalla loro interna coerenza o com
patibilità dell'uno con l'altra". Se questa è la sostanza della replica
epicurea alle critiche stoiche sull'induzione, vale però anche la pena di analizzare
la risposta specifica17 alla seconda critica stoica. Infatti, in relazione alla
L-implicazione, gli epicurei, ribaltando l'ar gomento stoico, sollevano una
questione interessante: la de finizione di uomo in quanto mortale è non il
punto di par tenza di un'inferenza deduttiva, ma il punto di arrivo di ri
petute inferenze induttive. In altre parole, si costruisce la definizione di
uomo in quanto tale, come comprendente an che la proprietà di essere
"mortale" in conseguenza di due serie di informazioni: (i) le
informazioni che ci fornisce la storia sulle vite degli uomini che ci hanno
preceduti; (ii) le informazioni che ci derivano dali'esperienza diretta dei no
stri contemporanei. Così gli epicurei pongono l'equivalenza tra la
proposizione: (a) "Gli uomini , in quanto uomini , sono mortali "
(che è la formula suggerita dagli stoici, e che indica dedutti visticamente il
fatto che nella nozione di "uomo" vi è com presa la proprietà
"mortale"), e la proposizione: (b) "Gli uomini con questa
proprietà (di essere mortali) sono uomini"18 8.6 PROPRIETÀ
ESSENZIALI E ACCIDENTALI 191 che è la formula epicurea, la quale suggerisce in
qual modo venga costruita la definizione. In sostanza, gli epicurei sem brano
sostenere che la definizione di "uomo" viene costrui ta mediante
un'accumulazione di proprietà che sono rileva te mediante un metodo analogico
in entità che sono9deno minate in un certo modo, in questo caso, luominil.1
8.6 Proprietà essenziali e proprietà accidentali Un altro interessante problema
che emerge nella disputa tra stoici ed epicurei è quello della distinzione tra
proprietà primarie e proprietà secondarie. Questa distinzione risale a
Democrito, che è stato il primo a usarla (De Lacy 1938: 403). Il problema non è
affatto banale e ancora oggi, in molte teorie semantiche, si ricorre a
un'analoga distinzione. Gli epicurei affrontano l'argomento per rispondere a
una critica stoica che attacca il metodo dell'analogia mostrando il rischio che
si corre neli'applicarla a proprietà che non hanno tutte la stessa ripartizione
o generalità. Infatti, so stengono gli stoici, allo stesso modo in cui viene
universaliz zata la concomitanza osservata tra la proprietà "uomo" e
la proprietà "mortale'', altrettanto potrebbe essere fatto per la
concomitanza osservata tra "uomo" e "di breve vita": il ri
schio è che, così facendo, si viene ad attribuire quest'ultima proprietà anche
agli abitanti del monte Athos, che nell'anti chità erano proverbialmente
considerati longevi.20 Proprio da questo tipo di critica gli epicurei sono
spinti a elaborare una distinzione tra proprietà che sono variabili (cioè
peculiari a certi individui) e proprietà che sono costan ti (cioè
rintracciabili in ogni individuo). L'inferenza corret ta sarà quella che parte
dalle proprietà costanti. Tuttavia, sostengono gli epicurei, la stessa presenza
di proprietà va riabili, invece di indebolire la teoria dell'inferenza analogi
ca, la rafforza: posto infatti che gli uomini conosciuti diffe riscono
moltissimo rispetto alla lunghezza della vita (essen do alcuni di breve vita e
altri longevi), diviene possibile, proprio sulla base dell'esistenza della
variazione, fare cor rettamente l'inferenza che altrove esistano uomini di
ecce- 192 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO zionale longevità, come lo sono
appunto gli abitanti del monte Athos.21 Ma ciò che spinge gli epicurei ad
andare ancora più a fon do su questa strada è l'attacco stoico a proposito di
inferen... ze che hanno conseguenze sulla loro teoria metafisica. La
provocazione stoica concerne la teoria degli atomi, che, nel la metafisica
epicurea, hanno la proprietà di essere "incolo ri" e
"indistruttibili"; però essi hanno anche la proprietà di essere
"corpi", a cui, nell'esperienza, sono associate le pro prietà
opposte (cioè "colorati" e "distruttibili"). Queste so no
le due inferenze che, secondo gli stoici, gli epicurei do vrebbero fare,
applicando correttamente il metodo analo gico: (l) "Dal momento che tutti
i corpi della nostra esperienza hanno colore e anche gli atomi sono corpi, anche
gli atomi hanno colore." (2) "Dal momento che tutti i corpi nella
nostra esperienza sono distruttibili, e anche gli atomi sono corpi, gli atomi
devono essere tutti distruttibili."22 La replica epicurea è molto
interessante, per due motivi. In primo luogo, perché precisa ulteriormente la
necessità di fare distinzioni tra proprietà a cui il metodo analogico si
applica, e proprietà a cui non si applica; infatti il metodo agisce
selettivamente sulle proprietà e non in modo ca suale.23 In secondo luogo, la
replica epicurea è interessante per ché modula la precedente distinzione in
termini teoricamen te più forti: essa diviene una distinzione in proprietà che
possiamo definire essenziali e proprietà accidentali. Infatti gli epicurei
parlano di certe proprietà che i corpi hanno pro prio "in quanto
corpi" (hei somata), che essi mantengono in ogni occasione: prima fra
tutte la proprietà di "opporre resistenza al tocco". Questa è dunque
una proprietà essen ziale. Poi ci sono quelle proprietà che non sono strettamen
te legate alla natura dei corpi e che possono variare a secon da delle
condizioni: si tratta di proprietà accidentali, che i 8.6 PROPRIETÀ
ESSENZIALI E ACCIDENTALI 193 corpi hanno "in quanto partecipano di una
natura opposta a quella corporea e non resistente",24 come a esempio la di
struttibilità o il colore, il quale ultimo è tanto accidentale che scompare
nelle condizioni di buio. Possiamo schematizzare queste due serie di proprietà
at traverso una tabella: proprietè entitè corpi A B proprietè
accidentali (in quanto partecipano di una nature opposta) ..distruttibilitè•
·colore• (in quanto tali) ·resistenze al tocco· proprietè
essenziali Gli epicurei precisano molto chiaramente che le inferenze
induttive generalizzanti non dovranno partire dalle proprie tà della colonna
B; ma niente impedirà di fare inferenze ge neralizzanti, con il metodo
dell'analogia, partendo dalle proprietà della colonna A.25 A conferma di questo
schema si può riportare l'esempio del "fuoco'',26 per il quale, accanto alla
proprietà essenziale di bruciare, viene elencata una serie di proprietà
variabili peculiari ai vari tipi: 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO proprietà
essenziali proprietà accidentali (koin6ttes) (idi6ttes) ·di lunga o corta
durata• ·non tutte le sostanze sono bruciate nello stesso modo· ·facili o
difficili da spegnere · ·duri o teneri· •di colore variabile a seconda del
combustibile· Nella sezione di Bromio27 viene anche prevista una specie di
topica per individuare la ripartizione delle proprietà: in fatti, ai fini
della correttezza delle inferenze, le proprietà es.. senziali (o comuni,
koin6ttes) e quelle accidentali (o pecu liari, idiOttes) devono essere
analizzate nei vari campi o ca tegorie che sono di pertinenza di un oggetto:
nelle sostanze, nei poteri, nelle qualità, negli attributi, nelle disposizioni,
nelle quantità, nei numeri. Lo scopo di questa topica appare essere quello di
giustifi care inferenze universalizzanti ali'interno di categorie omo genee:
infatti, a esempio, pur essendoci un'infinita varietà di esseri umani e di cibi
che li nutrono, se si considera il fie no rispetto alla categoria dei
"poteri", si troverà che esso ha due proprietà costanti: "di non
nutrire gli esseri umani" e "di non essere digerito da essi".28
Perciò, al di là delle diverse caratteristiche che questo og getto potrà
presentare (diversi colori, diversa consistenza, diverso grado di maturazione
ecc.), potremo fare con sicu rezza l'inferenza che da nessuna parte si troverà
del fieno che abbia la proprietà di nutrire gli uomini e di essere da lo ro
digerito. Ma che cosa sono propriamente per gli epicurei quelle proprietà degli
oggetti ''in quanto tali", che abbiamo defini to proprietà essenziali?
Dai precedenti esempi (e da altri analoghi) appare chiaramente che esse sono ,
per loro , le ------------------- 194 propnettt r entità ! fuochi
8.6 PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 195 proprietà definitorie di un
oggetto, cioè quelle che concor rono alla sua definizione essenziale. Abbiamo
visto che per gli stoici una definizione viene co struita analiticamente,
attraverso una ricognizione delle proprietà implicite nella nozione da
definire: un individuo, in quanto è uomo, ha la proprietà di essere mortale.
Per gli epicurei le cose vanno nel senso opposto. La defi nizione di una
nozione viene costruita per accumulo delle proprietà comuni a certi individui.
Di conseguenza, tra le proprietà comuni (o essenziali) rilevate empiricamente e
le proprietà che fanno parte della definizione, non c'è diffe renza. Lo dimostra
anche l'uso della particella hi ("in quanto") che viene utilizzata
(come vedremo meglio più avanti) nelle espressioni definitorie. Rimane aperto
il pro blema se sia possibile costruire empiricamente una defini zione
annotando le proprietà comuni a una classe di ogget ti, o se il processo non
sia in qualche maniera viziato (alme no in parte) proprio dalla preliminare
esistenza di definizio ni che rimandano alla lingua come struttura globale
interde finita e/o storicamente stratificata. Questa seconda ipotesi sembra in
parte prospettarsi con la definizione di l uomo l . Per gli epicurei, infatti,
la pro prietà "mortale'' è, come abbiamo visto, una proprietà es
senziale o definitoria di l uomo l . Si deve però notare che es sa fa parte
della definizione di l uomo l già in una lunga tra dizione che risale per lo
meno ad Aristotele. Quest'ultimo definiva infatti l uomo l come "animale
mortale provvisto di ragione" (Top. , V, l , 128 b, 35-36). Gli stoici poi
lo defi nivano come "animale razionale mortale" (Epictetus, Diss.
II, 9, 2). La tradizione epicurea, infine, lo definiva come "mortale
provvisto di sapienza pratica" (De signis, col. XXII, 22-24=cap. 37).29 È
probabile, dunque, che definizioni di questo genere co stituissero
un'implicita guida nella stessa ricognizione empi rica delle proprietà comuni
a una serie di oggetti (gli uomini percepibili) analizzati in vista di
un'inferenza al non perce pibile . 196 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.7
Modalità di inerenza delle proprietà essenziali ai soggetti Quando nel trattato
di Filodemo si parla di proprietà co muni o essenziali, queste vengono
congiunte al soggetto me diante le particelle héi, kath6, par6, che
equivalgono nel si gnificato alle espressioni italiane "in quanto",
''nella misura in cui". Esse vengono a indicare una condizione restrittiva
nell'inferenza al non percepibile, come abbiamo visto nel l'esempio della
natura degli atomi come "corpi in quanto tali", o degli uomini come
mortali "nella misura in cui sono uomini". Nella sezione di Demetrio
sono elencate quattro accezioni fondamentali di queste particelle, che
rimandano a quattro modi di inerenza delle proprietà ai soggetti: (i) Secondo
la prima accezione, le proprietà possono es sere viste come conseguenze
necessarie (ex ananks synépe tar): come esempio di conseguenza necessaria del
fatto di essere uomini, sono riportati i fatti di avere un corpo e di essere
soggetti alla malattia e alla vecchiaia.3° Con questo esempio l'autore sembra
individuare un tipo di proprietà che in certe semantiche contemporanee sono
chiamate fat tuali o sintetiche3 1 o proprietà secondo il modo 1r). 32 (ii)
Nella seconda accezione, le proprietà sono individua te come essenziali alla
definizione o alla concezione fonda mentale (prolessi)33 di un certo oggetto.
Questo si verifica a esempio con espressioni del tipo: "I corpi, in quanto
corpi, hanno volume e resistenza", o come: "L'uomo, in quanto uomo, è
un animale razionale''. In questo caso il rapporto sembra essere di tipo
equativo: l'estensione del primo termi ne viene a coincidere con quella del
secondo. Nel caso del l'esempio di l uomo l , l'equivalenza definizionale
viene data in termini di genere ("animale"), più differenza specifica
("razionale"). (iii) Secondo la terza accezione, certe proprietà sono
vi ste come sempre concomitanti (synbebekénar), come nell'e sempio:
"L'uomo nella misura in cui è uomo, muore".34 8.8 CONCLUSIONI
197 L'autore sembra individuare qui delle proprietà che nelle teorie
contemporanee sono state definite semantiche, anali tiche o proprietà secondo
il modo E : "uomo,, infatti, è in cluso nella classe più vasta di
"mortale". Quest'ultima, poi, ritorna sotto forma di marca semantica
a comporre il seme ma corrispondente al termine l uomo l . (iv) La definizione
della quarta accezione è perduta in una lacuna, ma essa può essere ricostruita
dagli esempi che il testo ha conservato: "L'uomo, nella misura in cui è
folle, è massimamente infelice,, "Un coltello taglia nella misura in cui è
affilato", "Gli atomi, nella misura in cui sono soli di, sono
indistruttibili", "Un corpo, nella misura in cui ha peso, cade verso
il basso". Marquand (1883: 125) interpreta questi come esempi di proprietà
che implicano gradazioni o proporzione. I De Lacy (1978: 125) fanno invece la
conget tura che si tratti di proprietà delle proprietà. Certi di questi esempi
farebbero pensare al rapporto se miotico della connotazione, inteso come
significato che si appoggia su un altro significato e che comunque è fissato da
un codice. Si possono schematizzare i quattro modi in cui le proprie tà
ineriscono al soggetto, · sia secondo l'interpretazione di Marquand, sia
secondo quella della semiotica contempora nea (cfr. p. 198). 8.8 Conclusioni
Se gli stoici avevano fornito alla semiotica una solida im palcatura logica,
gli epicurei arricchiscono la problematica del segno mediante una serie di
specificazioni destinate ad avere valore operativo nella ricerca concreta ed
effettiva. Abbiamo già visto le distinzioni tra i tipi di segno, i tipi di
proprietà, i modi di inerenza delle proprietà ai soggetti. Ol tre a questi
temi gli epicurei affrontano anche il problema della gamma di variazione a cui
i fenomeni sono sottoposti e quello dei limiti di tale variazione, come
condizione per fare inferenze corrette. Infatti ammettono l'esistenza di
proprietà che variano da individuo a individuo, ma negano 198 8. IL «DE
SIGNIS)) DI FILODEMO semiotica contemporanea Marquand
conseguenza 1. 2. concezione estensionalmente necessaria definizione o
proprietè fattuali o sintetiche essenziale (protessi ) proprietà
equivalenti al soggetto 3. concomitanza proprietà semantiche o
analitiche 4. gradazione o connotazioni proporzione codificate che nei
fenomeni non percepibili la gamma di variazione sia illimitata e che comunque
superi i confini della variazione osservabile nei fenomeni conosciuti. Così non
si potrà infe rire che gli uomini fuori dalla nostra esperienza siano tanto
resistenti da essere invulnerabili, oppure che essi siano fatti di ferro, o che
passino attraverso le pareti, come quelli co nosciuti passano attraverso
l'aria. La giustificazione di que sto fatto viene data dal metodo
deli'inconcepibilità: "è in concepibile che ci sia un ogetto che non
abbia niente in co mune con ciò che appare". 5 Nel De signis vengono
anche affrontati i problemi con nessi ai vari tipi di inferenza: da classe a
classe; da oggetti identici ; da casi rari ; da casi unici . Tutti questi
problemi so no collegati a un tema che è costante nella semiotica epicu-
8.8 CONCLUSIONI 199 rea: quello delle garanzie di validità di
un'inferenza. A esempio, un'inferenza scorretta è quella che porta a concludere
che tutti gli uomini sono bianchi, partendo dal l'osservazione che gli uomini
greci lo sono, o che, al contra rio, porta a concludere che tutti gli uomini
sono neri, par tendo dali'osservazione che gli Etiopi sono tali. In effetti,
simili inferenze sono errate perché non sono frutto di "una accurata
supervisione di tutti i casi percepibili".36 Ciò che, dal punto di vista
logico, avviene in casi di questo genere è che si tenta di applicare ali'intera
classe o genere (quello de gli "uomini") una proprietà che di volta
in volta è caratteri stica di una sottoclasse o specie (quella dei
"Greci" o, ri spettivamente, quella degli "Etiopi"). In
effetti, per garantire il massimo di sicurezza, gli epicu rei pongono alla
base del loro metodo per costruire inferen ze una teoria della progressiva
inclusione semantica tra in dividui, specie e generi, cioè una teoria delle
classi. È infatti legittimo fare inferenze tra membri (classi o in dividui
particolari) i quali si situino a un livello analogo o che siano il più
possibile vicini e simili. Naturalmente que sto non significa che l'inferenza
debba essere fatta esclusi vamente tra membri che si situano esattamente allo
stesso livello, altrimenti l'induzione perderebbe molta della sua forza, ma
nella maggior parte dei casi viene previsto un mo vimento ascendente di
generalizzazione.37 Una teoria delle classi è implicita anche nella trattazione
epicurea dei casi unici, elaborata ancora una volta in rispo sta a una critica
stoica. In effetti gli stoici avevano tentato di attaccare il metodo
deli'analogia ricorrendo ali'argomen to deli'esistenza in natura di casi
unici, che non presentano analogia con alcun altro fenomeno: a esempio, in
mezzo al la stragrande quantità di pietre che esistono nella nostra
esperienza, ce n'è una sola, il magnete, che è capace di atti rare il ferro;
ugualmente, solo l'ambra ha la proprietà di at tirare la paglia; infine, non
c'è che il quadrato che misura 4 di lato che ha il perimetro e l'area espressi
dallo stesso nu mero.38 Secondo gli epicurei, però, le critiche degli stoici,
invece di inficiare l'inferenza analogica, in realtà la rafforzano. 200
8. IL «DE SIGNIS» DI Fll.ODEMO Per dimostrare questo, gli epicurei ricorrono al
metodo di ridurre ad altrettante classi gli oggetti unici. Così, essi dico no,
se alcuni magneti attirassero il ferro e altri no, l'inferen za per analogia
sarebbe inficiata; ma poiché così non avvie ne, è possibile inferire le
proprietà degli altri magneti a par tire dal magnete che cade sotto la nostra
percezione.39 Molti ancora sarebbero i punti particolari da prendere in
considerazione, per mostrare il modo con cui gli epicurei tentano di
dettagliare la teoria del segno. Ma quello che in definitiva caratterizza la
semiotica epi curea è il suo richiamo a un completo programma empirista (che
era condiviso, tra l'altro, anche dai medici empirici). Tale programma
comprende tre tappe fondamentali: (i) os servazione; (ii) storia; (iii)
inferenza da simile a simile. I pri mi due momenti del programma permettono di
individuare le "proprietà essenziali", e quindi di passare al terzo
mo mento, che è quello della ricostruzione del processo semioti co vero e
proprio. Nei primi due momenti, infatti, vengono suggerite delle condizioni sui
fenomeni da osservare per ottenere le pro prietà costanti: essi devono essere
"molti", devono essere diversi tra di loro (''vari") e,
contemporaneamente, devono essere "omogenei".40 Il terzo momento,
infine, combina le proprietà deli'enciclopedia semantica con le leggi della
logi ca (che per gli epicurei sono quelle della logica delle classi). In
questo compromesso, appunto, tra i concreti suggeri menti in vista della
produttività empirica e il tentativo di mantenere il massimo rigore formale
deve essere individua ta l'originalità della proposta epicurea. 9.
RETORICA LATINA 9.0 Introduzione L'interesse per la problematica semiotica nel
mondo ro mano fa parte di quel processo di costante e progressiva ac
quisizione del patrimonio culturale greco, che inizia nel III secolo a.C. Ma,
nel passaggio dal mondo greco a quello ro mano, il paradigma semiotico
abbandona il campo della fi losofia in senso stretto, per installarsi, in
maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia la conoscenza
attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole postaristoteliche, il
modello stesso della conoscenza in generale e, a partire dagli stoici, aveva
trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica, una delle branche più
astratte della filosofia, in quanto sotto partizione della stessa logica.
Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente orientati in direzione
pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del paradigma se miotico,
ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più congeniali, del dibattito
politico e giudiziario, dibattito de stinato a essere condotto con gli
strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi conto, nel modo più
chiaro, del cambiamen to di prospettiva, basta mettere a confronto
l'atteggiamento di Aristotele con quello di Cicerone nei riguardi della retori
ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un suo
importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema dei
segni; ma, come era già avve- 202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi
analitici, aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella
dei tipi di sillogismo. Cosi fa cendo, aveva indicato un percorso ben preciso:
la logica stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de vono
rimanere un punto di riferimento anche quando l'inte resse si sposta, come nel
caso della retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni
referenziali a quelli efficaci . In Cicerone, e in genere nella trattatistica
retorica roma na, si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori
ca non occupa più il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al
contrario, è la filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui
scopo è quello di contri buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è
l'elo quenza l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del
De oratore (Il, 159-160) mostra abbastanza chia ramente l'opinione di Cicerone
circa i rapporti tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene
detto che i dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma
non di produrne. In effetti, per Cicerone la retorica costituisce il
"corona mento" della filosofia, dalla quale non può essere
dissociata (De orat., III, 59-61), e non deve essere considerata una tec nica
capace di aggiungere un'espressione elegante a un pen siero già formato. Come
mettono bene in luce Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in Cicerone
agisce un principio, sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si
parla bene, si pensa anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente
bene se non quando si parla ve ramente bene. Tuttavia la retorica,
indiscutibilmente, presenta anche un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra
che essa è organiz zata secondo due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di
di scorso: il discorso dei tribunali (giuridico); il discorso del l'assemblea
(politico); il discorso delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo
riguarda le parti della retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono
essere messi in atto per strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri
cerca degli argomenti); dispositio (ordinamento di quel che 9.l LA
«RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è stato trovato); elocutio (resa degli argomenti
in forma or nata); memoria (procedimenti mnemotecnici); actio (recita zione
del discorso: gesti e dizione). La problematica riguardante il segno si colloca
nel cuore della inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove
che convincano l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato.
Le prove, in retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e
si inseriscono nel pro gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo
dei due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro gramma è il
commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio
o sulla sua forza proba toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia,
come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare
l'espressione "prova" per indicare le probationes (pf steis)
retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno tazione scientifica la
cui assenza appunto definisce le "pro ve" retoriche. Tuttavia, un
merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di
dare una classifi cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza
argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni
autore ha assolto in ma niera particolare, proponendo una classificazione che
non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi
paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li nee secondo le quali i tre
grandi autori della trattatistica re torica romana, cioè Cornificio (autore
della Rhetorica ad Herennium) , Cicerone e Quintiliano , ricostruiscono nelle
rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia scuno secondo
diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una
documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati
del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium , attribuita un tempo a
Cicerone sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi
asse gnata a Cornificio (Calboli: 1969). 204 9. RETORICA LATINA La
problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della
constitutio coniecturalis dove, per verifica re se sia stata commessa o no una
determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col
pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret tamente a cui i segni
devono rimandare non è il fatto o rea to, che è ovviamente noto, ma l'agente
responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un
certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed
è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi
reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla
spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma
insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del
fratello con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la verità
per congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione nell'esempio Oa
colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può scaturire da una
intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La retorica antica, come ha
sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia incrollabile nel
metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e l'ametodico non
portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti pico procedimento
diairetico, suddivide lo stato congettura le in sei parti, sei diverse vie per
arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità), conlatio (confronto),
signum (pro cedimento indiziario), argumentum (segno), consecutio
(conseguenza), adprobatio (conferma). 9. 1 . 1 La probabilità Troviamo qui una
terminologia in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la
trasposizione la tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo
a questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so- 9.l LA
«RHETORICA AD HERENNIUM» 205 no completamente difformi dalle corrispondenti
nozioni greche. Infatti il probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che
era utile commettere il crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da
comportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi nizione nella quale non
rimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è
connessa alla caratteriz zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se
[l'accu satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem pre stato
avaro, se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto
congenito con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla
sua ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di
"movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento
indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che
serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione
(del crimine)" (II, 6). Non ritro viamo nemmeno qui la nozione greca di
smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia
ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico struire il fatto
scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine
separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di
por tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il
segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la
sua definizione non è ancora molto elo quente ("Argumentum è ciò
attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e
con un so spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci
tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe nomeno
percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile 206 9. RETORICA
LATINA direttamente; la sua struttura è quella in ferenziale, espressa da
un periodo ipotetico: "Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per
gonfiore o lividezza, significa che è stato uc ciso da una dose di
veleno" (Il, 8); se si trova del sangue sulle vesti dell'imputato, se è
stato visto sul luogo del delit to, significa che egli è colpevole (ibidem)
ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene suddiviso in tre tipi, in relazione
al rapporto temporale (anteriorità, con temporaneità, posteriorità) che si
instaura fra antecedente e conseguente del segno; classificazione, questa, che
risale al la retorica prearistotelica (si trova a esempio nella Rhetori ca ad
Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le
reazioni fisiche non controllabili Un'altra nozione interessante è quella di
consecutio, che Calboli (1969: 232) mette in relazione ai sjmptoma della
terminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio, dei "segni (signa)
che solitamente presentano i colpevoli e gli innocenti" (II, 8), come, a
esempio, che l'imputato, quando si è giunti a interrogarlo, "sia
arrossito, sia impallidito, ab bia titubato, sia caduto in contraddizione, si
sia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che sono segni di coscienza non
tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle reazioni fisi che non
controllabili, dei segni involontari che possono ve nire messi in relazione,
in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo (come il senso di
colpa). Questi se gni, per quanto non siano facilmente dissimulabili, sono pe
rò manipolabili a livello di interpretazione: infatti l'avvoca to difensore
può intervenire sulla loro presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è
turbato per la gravità del pe ricolo e non per la coscienza della colpa;
d'altro canto, l'ac cusatore può intervenire sull'assenza di segni di tal
genere sostenendo che l' imputato aveva a tal punto premeditato la cosa da
presentare la massima sicurezza, ragione che rende l'assenza di turbamento
"segno di sicurezza, non d'inno cenza" (ibidem). probabile
causa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem alium potuisse slgnum occasio
- spes per- ficiendi spes celandi l argumentum consecudo adprobatio -
praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 207 9. 1 .5 La
classificazione e la forza argomentativa Come si può vedere, il procedimento
indiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari
li velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della premeditazione. che nella
tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il probabile, la conlatio (che
consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e
possibilità di commettere il delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci
sono i segni delfatto stesso, che sono rappresentati dagli ar gumenta: essi
mettono in relazione diretta l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è
quella sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal
comportamen to dell'imputato osservato in un momento diverso e succes sivo
rispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente
la classificazione della materia congetturale effettuata da Cornificio con il
se guente schema (Curcio 1900): - locus - tempus - spatium -
consequens Se messa a paragone con quella della Retorica aristoteli
ca, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non
saldamente fondata. Tuttavia, con temporaneamente, appare molto più aderente
alla materia instans conscientiae - signe confidentiae - signa
innocentiae 208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non
priva di una logica inter na nel suo seguire i segni deli'imputato in un
percorso che parte dal momento precedente il crimine e culmina nel pro cesso .
Cornificio discute anche della forza argomentativa dei se gni, quando propone
di organizzare in una struttura logica gli argomenti trovati. E, a questo
proposito, nota che ci so no dei segni che non garantiscono nessuna certezza
come a esempio: uoeve aver partorito, poiché porta in braccio un bimbo
piccolo", oppure: "Dal momento che è pallido, deve essere
ammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di segni che
corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono sicuri perché,
a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una quantità di
altre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li rifiu ta,
ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in gran
numero ("se però vi si aggiungono an che tutti gli altri, tali segni
hanno un certo peso per accre scere il sospetto", ibidem). 9.2 Cicerone
Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti
della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere
che parlano dei se gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di
questo ambi to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è
ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De
oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so cio-politico, volta a definire la figura
deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione
rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut to ciò
che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso
anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto
trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo
di 9.2 CICERONE 209 competenza che rimane implicito sullo sfondo e
affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima
persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi,
il De inventione, le Partitio nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse
tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio ne e
di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com pongono l'apparato
tecnico della retorica. Un limite di que ste opere, in generale, è
rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che
raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel De inventione, e che spesso non
trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di
queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la
ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De
inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con densa
l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi
naturale che al suo interno si tro vino riprodotti alcuni aspetti della
concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è
presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an tecedente che
permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i
segni involontari (l'im pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato)
come indi zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli
indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi noso
(anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la
tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da
Cice rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap pare
infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar gomentazione), cioè
del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare
una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco
gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera 210 9.
RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens) , o la dimostra in . un mo
do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non
viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa
definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato
trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a
qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra
una forza argomentativa debole (probabili ter ostendens) e un'inferenza
necessaria (necessarie demon strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio necessario e non
necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo
necessario ciò che non può verificarsi né essere pro vato diversamente da come
viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con
un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è
luce" (De inv. , l, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi
di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re lazione
inscindibile (cum priore necessario posterius cohae rere videtur, De inv., l.
86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini to:
"Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla
comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia
esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone
mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello
doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente
all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che
Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo
figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv.,
I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio ne che per
Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo
esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un
viaggio" (De inv. , 9.2 CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello
stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La
categoria di signum, poi, compare come una sottopar tizione dei segni non
necessari, accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum (giudicato) e al
comparabile (paragonabi le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in
base a crite ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il
signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan za particolare:
"Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no stri sensi e indica
(significar) un qualcosa che sembra deri vato dal fatto stesso, e che può
essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e
tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv. ,
I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la
fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi,
intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo
lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio nale; ma niente vieta
che vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra il caso deli'indizio
"polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente
reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la
nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare
la classificazione propo sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2
"Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della
tarda matu rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia
semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato
giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei
modelli greci e viene completa mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi
(qui chiamati 212 9. RETORICA LATINA argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori
élut quod in opi nione positum est") es.: .. "pallore'",
..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di
un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac
discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se ha partorito, è
stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig
nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"',
Sa è madre, ama suo fi\]lio --- ---
- l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine
viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo ghi estrinseci"
(corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi
intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che
veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei
Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino
posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli
oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici,
interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una
concezione orda lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut
tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para digma divinatorio
all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono
completamente laicizzati. 9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in
ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L
,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva:
"Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete
udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai
segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il
verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli
argomenti intrin seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di
cau sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di
segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni
caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che
accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è
incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri
sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili stico e
generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non
si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co me il fumo indica il
fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi dentemente, del segno necessario,
come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che
riman da alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari stotele il
segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad
esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio
(An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva
carat tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se
non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli
indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei
quali 214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma,
macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor
so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione,
le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se
non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratte ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor nificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione
con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile)
(Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma
non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli
ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate goria dei semefa
aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo
delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i
vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia,
cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva
appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava
i smefa da un punto di vista episte mologico per la loro insicurezza, Cicerone
è pronto a rico noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero
(coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione
cicero niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla
divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina zione.
Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla
conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo
luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente
mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o trt•)
(·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza
inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l -----
verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt
certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla
dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecniche
corrisponde la distinzione tra di vinazione artificiale (basata
sull'interpretazione e sulla con gettura) e divinazione naturale. Infine, come
Cicerone pole micamente rileva (De div. , II, 55), i segni della divinazione
sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo sta, proprio come
avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto
due interpretazioni di verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i
metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei
confronti della di vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di
intellet tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi
losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora neamente impegnato in
politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e
superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione
appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti
dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la
superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che
inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta,
anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo
impegno di gestione della repubblica. 216 9. RETORICA LATINA Cicerone
affronta questi argomenti nel De natura deo rum, nel De fato e, soprattutto,
nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra
l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi
sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le
osservazioni di Cicerone contro la teoria soste nuta da Quinto sono
particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a
un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una
concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale"
Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon te dell'informazione
e come emittenti nei processi di comu nicazione divinatoria, dei quali gli
uomini sono i destinata ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di
divinazione, il pro cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il
primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione
dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di
decriptazione, demandata a specia listi, ciascuno esperto in un settore:
extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum
(inter preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo
degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in terpretes sortium
(interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a
caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si
materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars
permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano
le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica,
secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau se
ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento
primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per
intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola
divinità (De div., I, 125-127). 9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista
l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo
srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete
sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini,
attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si
ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però
arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas
cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con
nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività.
Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi
futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione
"naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito
naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma
derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso
la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di
preveggenza derivan ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e
quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo
secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri patetiche (Dicearco e
Cratippo vengono esplicitamente no minati, De div. , II, 100), secondo le
quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia
spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al
corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è
in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro
.... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni
divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi nazione
si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la
quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente
carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se gni non
siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli
antecedenti rispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri rispetto
a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le
tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la
tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In
entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi;
ma, mentre le pratiche pro fessionali adottano una vera e propria metodologia
che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in
definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla
frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip
pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes sionale dalla
divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi
si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso
della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28).
9.3 QUINTILIANO 219 Ma ci sono altri gravi difetti che la
divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di
uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div. , Il, 83); (ii) si
verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente,
per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio
so, ma a ben diverse cause naturali (De div., II, 62); (iii) l'interpretazione
avviene a posteriori e così toglie ogni ne cessità di rapporto tra antecedente
e conseguente (De div. , II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è
motivata da ra gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De
div., II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del
regime politico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re torica
divenisse inutilizzabile come mezzo di agitazione po litica e sociale: per
questo, da strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita
Cicerone, era divenuta so prattutto materia teorica. In questo quadro
Quintiliano è colui che espone i principi dell'arte retorica nella maniera
migliore e più completa di chiunque altro e contemporanea mente registra il
processo di cadaverizzazione che l'elo quenza stava subendo. Nella sua
Institutio oratoria (ca. 93-95 d.C.) tratta un programma completo del ciclo
educativo del perfetto orato re, in cui la competenza semiotica ha una
posizione di rilie vo. Gran parte degli elementi che compongono l'opera di
Quintiliano hanno indiscutibilmente una pertinenza semio tica; ma nella
lnstitutio è presente anche una sezione speci ficamente dedicata ai segni,
come era ormai consuetudine per ogni trattato di retorica. Vaie anche nel caso
di Quintiliano la considerazione fatta a proposito degli altri trattatisti di
retorica, e cioè che la ri flessione sul segno è saldamente inquadrata
all'interno del l'ottica giuridica con cui viene trattata la materia. I segni
in fatti fanno parte delle probationes artificiales, cioè delle 220 9.
RETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars) dell'oratore saprà trovare per far
assolvere o condannare un imputato. D'altro canto, le pro bationes
inartificiales sono quegli elementi che derivano dali'esterno del processo e
vengono consegnati ali'oratore insieme al suo dossier. Il seguente schema ne
mostra l'inventario completo: 9.3. 1 Orientamento della retorica di Quintiliano
probstiones (prove) i n a rt i f i c/i a l tJ s praejudicia (pregiudizi)
rumores (voce pubblica) tormenta , quaesita ( inter rogatorio sotto tortura) tabulae
(scritture, atti, contratti ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia
(testimonianze) a rt i f i c i s l e s formale Va pure detto che la
retorica di Quintiliano, accanto a un orientamento giuridico, ne presenta anche
uno fortemente teorico, che tende a inquadrare la materia il più possibile in
termini logici e formali (anche se è stato rilevato che Quinti liano non si
trova del tutto a suo agio in questo campo) (Kennedy 1969). Così tutti e tre i
tipi di prove tecniche (signa, argumenta, exempla) vengono inquadrati in un
reticolo di relazioni lo giche vicine al genere deli'implicazione, ovvero del
rappor to "se p, allora q". Infatti il meccanismo di avvaloramento
signum (segno, prova di fatto) argumentum (prova di ragionamento) exemplum
(esempio) ed epistemologico 9.3 QUINTlIANO 221 delle prove deve assumere
una forma logica che coincide con uno dei seguenti quattro tipi: (i) il
concludere dalPesse re una cosa che un'altra non sia (p-+ - q) ("È
giorno, dun que non è notte"); (ii) il concludere dall'essere una cosa
che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende sulla terra, dunque è giorno");
(iii) il concludere dal non essere qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q)
(''Non è notte, quindi è giorno"); (iv) il concludere dal non essere qualcosa
che un'altra sia ( -p-+ - q) ("Non è un essere razionale, quindi non è un
uomo") (lnst. or. , V, 8, 7). Analizzati ali'interno di questa griglia, i
segni tendono a configurarsi come degli antecedenti rispetto a dei conse
guenti; nozione, questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di rendere
esplicita, in quanto attinta direttamen te dalla tradizione della retorica e
della logica greca. Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti anche
molti esem pi, tra cui l'ormai celebre "Se una donna ha partorito, si è
unita con un uomo", che, più o meno variato, ritorna in tutti i
trattatisti del segno. Come Aristotele, a cui fa costante riferimento,
Quintilia no è orientato verso un'ottica epistemologica, piuttosto che di
calcolo logico: ciò che lo interessa è soprattutto la possi bilità di
acquisire una conoscenza a partire da un segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo
proposito: "Aristotele, inte ressato ad argomentazioni che in qualche
modo rendessero ragione dei legami di necessità che reggono i fatti, poneva
distinzioni di forza epistemologica tra segni necessari e se gni deboli. Gli
stoici, interessati a puri meccanismi formali dell'inferenza, evitano il
problema. Sarà Quintiliano, inte ressato alle reazioni di un'udienza forense,
a cercare di giu stificare, secondo una gerarchia di validità epistemologica,
ogni tipo di segno che in qualche misura risulti 'persua sivo' ". A
proposito del carattere persuasivo dei signa, Quintilia no fa una precisazione
preliminare: i signa hanno molto in comune con le prove extratecniche, in
quanto, a esempio, una veste insanguinata, le grida o i livori non vengono esco
gitati dali'arte deli'oratore, ma gli vengono consegnati nel dossier. Inoltre,
se esi rimandano a un significato inequi- 222 9. RETORICA LATINA
vocabile, scompare la possibilità di argomentazione; se, in vece, essi sono
ambigui, non sono delle prove ma necessita no essi stessi di prove (lnst. or.,
V, 9, l). Per questa ragione i segni devono essere divisi innanzitut to in
necessari e non necessari. 9 . 3 . 2 I segni necessari l signa necessaria sono
quelli che, come dice Quintiliano, "aliter se habere non possunt"
(lnst. or. , V, 9, 3), cioè sono degli antecedenti che rimandano in maniera
necessaria a dei conseguenti, e vengono messi in corrispondenza con i tekmria
della tradizione greca. Si tratta di segni insolubili (alyta smefa), ovvero
legati inscindibilmente ai conseguen ti. L'informazione che se ne ricava è
sicura e incontroverti bile . La furia classificatoria, tipica del mondo
antico, porta inoltre Quintiliano a sottoclassificare questo tipo di segni in
base al fatto che i loro conseguenti siano individuabili nel tempo passato
("Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo"), nel presente
(''Se soffia un forte vento sul ma re, si formano su di esso le onde"),
nel futuro ("Se uno è stato ferito al cuore, morirà") (lnst. or., V,
9, 5). Questi segni vengono, poi, sottoposti anche a un altro ti po di
classificazione basata sul criterio di reversibilità dei termini: ci sono
relazioni segniche, come "Se vive, respira", che mantengono la
relazione di necessità anche invertendo antecedente e conseguente: "Se
respira, allora vive"; ma vi sono anche relazioni segniche in cui la
reversibilità non è possibile, come in "Se cammina, si muove",
"Se ha partori to, si è unita con un uomo", "Se è ferito al
cuore, morirà", "Se si è raccolta la messe, si è seminato",
"Se è stato ferito dalla spada, ha una cicatrice" (lnst. or. , V, 9,
7). Quintilia no sembra sollevare qui il problema della
"conversazione" (antistréphein), che per Aristotele (An. Pr. , 70 b,
32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè dell'"esserci un unico
segno di un'unica cosa". 9. 3 QUINTllANO 9.3.3 I segni non necessari
223 I signa non necessaria, che Quintiliano mette in corri spondenza con gli
eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei fatti su cui vi è comunemente
accordo, quelli che, se condo Eco (1984: 40), potendo essere altrettanto
convincen ti di un segno necessario, dipendono dai codici e dalle sce
neggiature che una certa comunità registra come "buone". Quintiliano
ne distingue tre tipi fondamentali, in base al l'intensità del legame che si
stabilisce fra antecedente e con seguente: firmissimum (sicurissimo),
corrispondente alla norma statistica, come "Se sono genitori, amano i
propri fi gli"; propensius (molto probabile), come "Se uno sta bene
in salute, allora giungerà fino al giorno successivo"; non re pugnans
(non contraddittorio), cioè non contrastante con il senso comune, come "Se
c'è stato un furto dentro la casa, allora è stato fatto da chi era in
casa". Nessuna di queste inferenze presenta un grado di certezza
accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos sono essere molto
efficaci, soprattutto nel caso che si pre sentino in gran numero avvalorandosi
a vicenda (lnst. or. , V, 9, 8), poiché ricostruiscono una tessitura isomorfa a
quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali Nel contesto dei
signa non necessaria (lnst. or., V, 9, 8) Quintiliano parla del signum senza
altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e vestigium, sia
con il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga considerato una
categoria autonoma rispetto alle due prece denti (segni necessari e
verisimiglianze), come del resto av veniva nella fonte aristotelica, o se
Quintiliano consideri analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda ipotesi si
potrebbe parlare di un vero e proprio errore di Quintiliano, come fa Cousin
(1936). Tuttavia il fatto che consideri un sinonimo l'espressione vestigium e
ricorra all'esempio del sangue che permette di scoprire l'uccisione, spinge a
stabilire un paral- 224 9. RETORICA LATINA lelo con i vestigia facti
delle Partitiones oratoriae (39) cice roniane, dove compariva lo stesso
esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria degli indizi
materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I l) percepibili
sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli "attraverso cui si
comprende un'altra cosa, (per quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9),
sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di significazione, che
parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella precedente categoria
(quella dci signa non necessa ria == eik6ta) venivano classificati fatti o
proprictfi che forni vano un'informazione non sicura, perché non convalidabile
dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente
sicuro che arriverà a domani); nella cate goria dei signa sono classificati
fatti che sono insicuri per ché ambigui (una macchia di sangue su una veste
può ri mandare tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare
del sangue di una vitti1na durante un sacrifi cio). La classificazione,
allora, dovrebbe essere così formu lata: necessaria relazione necessaria tra
a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita
con un uomo· l ------- signa non necssaria verisimiglianze non
conva!idabili scienti ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà
fino al g iorno successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se
macchia di sangue, allora omi cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega
anche come mai Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di
verisimiglianza (e non si gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora
e che 9.3 QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma
non necessari, Er magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché
vaga nei boschi con i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti liano ha una
certa riluttanza a considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto
deboli come elementi pro banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo
come se gno, temo che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si
traggono da un fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano
allo stesso modo dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la
condizione tipica della semiotica giuridi ca, in perenne dialettica tra la
forza oggettivamente proba toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di
fare un uso persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica
semiotica generale, non c'è al cun problema a considerare come segni
"tutte le conseguen ze che si traggono da un fatto". Le proprietà
che l'enciclo pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono
tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno
poi le relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella
forza probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono
i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un
poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente
intuito dalla retori ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da
Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer
tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura
li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco mandando, nel
secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a
vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin guaggio
Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa
saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una
altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di
lin guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande
importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte
dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il
trattato giovanile De dialectica (387 d.C.): in esso sono riassunti molti dei
principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi pio che la
conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra verso segni (Simone 1969:
95). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia na da quella
stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco gliendo e formalizzando una
lunga tradizione di origine so prattutto medica e mantica, consideravano
propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il
fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri ta. Agostino, invece,
per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni
non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc.,
ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene rale
segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le
parole", De Magistro, 4.9). 10. 1 STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227
In secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e nunciato il punto di
congiunzione tra il significante (semaf non) e il significato (semain6menon),
elemento che comun que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve
ce, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum
(''parola"), l'elemento in cui significante e signifi cato si fondono, e
considera questa fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver
sufficientemente assoda to che le parole [verba] non sono nient'altro che
segni [si gna] e che non può essere segno ciò che non significhi [si
gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare
che cosa significhino le singole paro le", De Mag., 7.19). In terzo
luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due
caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva con alcuna
sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora una teoria
del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si gnificati si
trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore)
(Todorov 1977: 35; Markus 1957: 72). 10.1 n triangolo semiotico e la
stratificazione ter minologie& È del resto con l'analisi della nozione
stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa
nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche.
Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere
in corrispondenza con i moderni con cetti di significato, significante e
referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus)
della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene
pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal
punto di vista della trasposizio ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito
come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo
luo- 228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la res, che viene definita
come un og getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op
pure che sfugge alla percezione (De dialect. , cap. V). È così possibile
ricostruire il triangolo semiotico nei se guenti termini: dicibile vox
articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista
del loro potere di designazione, oltre che da quello della signifi cazione.
Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi sione terminologica in
corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente di una parola: (i)
può infatti avve nire che la parola rimandi a se stessa come proprio referente
(fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero della designazione
metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire
che la parola, intesa co me combinazione del significante e del significato,
abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso
denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di dictio.3 È
precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva to Baratin ( 198 1 ),
costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella
del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione stoica di
léxis (si gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por tatore
di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui stici antichi.
10.2 RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis;
ma non ha lo stesso significa to che le attribuivano gli stoici, bensì quello
che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che
definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato
costruito" (Grammatici graeci, l , l , 22, 4), a metà strada tra le
lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al tra. Questa sua
particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di
un significato (in contrappo sizione alle lettere e alle sillabe che non lo
posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen so
completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e nunciato
alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima
assuma al(\une delle funzioni prima spet tanti solo all'enunciato. In
particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la
parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per
ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso
dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come "ciò
che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi bile, presenta anche
qualche cosa alla percezione intellet tuale (animus)" (ibidem). 10.2
Relazione di equivalenza e relazione di im plicazione Ponendo l'accento sulla
parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra
parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di
Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag gio; per Platone,
infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente
percepibile, ovvero dell'es senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico
si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe raltro
con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto -
configura subito come una rela zione di significazione: il nomt
"significa" una cosa (nozio- 230 10. AGOSTINO ne equivalente a
quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino
propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune
modificazio ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In
effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti no il rapporto
tra le espressioni linguistiche e i loro conte nuti era stato concepito come
una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere
epistemologico e ri guardava la possibilità di lavorare direttamente sul
linguag gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin
guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (per
quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui
esso rin via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui
il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla
conoscenza del secondo. Eco (1984: 33) ha suggerito che, nell'enunciato stoico,
i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere
illustra ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello
equazionale: onIE=>c __________________ m_E:! c dove E indica
"espressione", C "contenuto", ::J "implica" e ==
"è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive
avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di
equivalenza. Caso mai la dic tio, che è rappresentabile con il livello i, è
costituita dali'u nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un
dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al tro (livello
ii). 10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI 231 10.3 Conseguenze
dell'unificazione delle prospet tive La prima conseguenza dell'unificazione
agostiniana, co me sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro
varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in fatti costituisce
un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei
segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si
ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma na.
Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili tà di percorrere
l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua,
come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere
peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere
un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun que altro
sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della
lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e
che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui
stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec cellenza. Ma
quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto
culminante, si è ormai venuto a per dere il carattere implicativo, e il segno
linguistico si è cri stallizzato nella forma degradata del modello
dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito
come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante
conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione
della dia lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto ché
il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce pito nei termini
dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente responsabile della
conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di
segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra
implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di cui esse
sono segno. Tutta la grande tradizione sernio- 232 10. AGOSTINO tica, del
resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza
ulteriori mediazioni, alla conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il
problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione
rispetto alla questione se il linguag gio fornisca o meno , di per se stesso ,
informazioni sulle co se che significa. 10.4 Linguaggio e informazione
Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici
nel De Magistro (389 d.C.). L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il
figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio:
(i) in· segnare (docere) e (ii) richiamare alla memoria (commemo rare), sia propria
sia degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamente informative e
comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del
destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del
dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa,
sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti,
che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro
possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però,
Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva.
Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in sieme di segni,
egli mostra che si possono presentare due ca si: (i) il primo caso è quello in
cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al
destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di
fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino,
dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non
permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa
effettua; (ii) il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che
si rife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno 10.5
COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE 233 in questa evenienza si potrà parlare di
un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag. , 10.33). Alla fine Agostino
conclude invertendo il rapporto cono scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo
che è necessario co noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter
dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co sa che informa
sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza
chiaramente platonica, e a es sa si collega anche la presa di posizione, di
marca ugual mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata
maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per
un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De
Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni
che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso
delle cose puramente intelligibi li (intelligibilia). Per queste ultime
Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza
deriva dalla rive lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga
ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche
con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al
linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del
segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di
riferi mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo
, ci spingono a cercare (De Mag. , 1 1 . 36) . 10.5 Espressione e comunicazione
del verbo inte riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia
per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove
problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema
dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella
profondità dell'ani mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli
uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter 234 10.
AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che
si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte
Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene
a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan do
ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio ne dei destinatari. Il
verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso
costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra
esso è determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di
conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in
quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano
qui gli embrioni del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà nella
cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia
rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia na, che è
individuabile anche nello schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42):
oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore -
esteriore - esteriore pensato proferito sa pere 10.6 Le
classificazioni È comunque innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2),
che se la semiologia agostiniana presenta un aspet to "teologico",
connesso al problema del verbo divino, tut tavia possiede anche un ben
individuato e autonomo aspet to laico, che prende in considerazione i
caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto
le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si dedica soprattutto
nel trattato De doctrina Christiana (397 d.C., l . 2. 3. 4. 5. secondo il
modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni
naturali/segni intenzio nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni
conven zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra slato
secondo la natura del designato: segno/cosa 10.6 LE CLASSffiCAZIONI 235 con
aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977:
43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino
sottopone la nozione di se gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino
giustappone quel lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene
ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del
tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una
classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è
possibile ricostruire tale classifica zione ordinandola secondo uno schema
arboriforme (Ber nardelli 1987), secondo il modello dell'albero di Porfirio
(Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è
totalmente a inclu sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può
osser vare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb bero
comparire, una seconda volta, alcune categorie elenca te sotto il ramo
principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei sulla strada di una
classificazione inclusiva da ge nere a specie quando definisce la relazione
tra nome e paro la come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e
includen do la categoria delle parole in quella più ampia dei segni (DeMag.,
4.9). genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME ------ segno udibile di cose
(funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze
significanti qualcosa verbale (voce articolata) differenze ( s i g n i fi
c s b i l i s l non significanti nome in senso particolare
non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del
discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni
udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili ( virtus)
SIGNIFICANTE delle .. AES" 10.6 LE CLASSIFICAZIONI 237
10.6. 1 "Res" e "signa" La prima relazione interessante è
quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in
cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co me
ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle
res e l'uomo è libero di as sumere come segno una res che fino a quel momento
era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita
in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio
ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni
di qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr.
Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente dopo, cosciente del la pervasività dei
processi di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè
gettò nelle acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né
quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua testa (Gen., XXVIII, I l); né
quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio (id., XXII, 13)".
L'articolazione che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi
essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ. , l, IV, 4). Le cose
di cui si usa sono tran sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere
a qual cos'altro; le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in
considerazione per se stesse (Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino
propone anche un nome per le cose che non sono usate come segni, ma sono
signifi cate attraverso segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo
momento anche quest'ultime possano essere assun te con funzione significante.
Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e cose, Ago stino propone
questa definizione di segno nel De doctrina Christiana (Il, l, 1): "Il
segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che produce sui sensi, di
per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem) qualcos'altro".
238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni verbali e non verbali Nel nostro albero
porfiriano abbiamo deciso di ricostrui re la principale suddivisione
agostiniana dei segni secondo la dicotomia verbale/non verbale, anche se altre
opzioni, ugualmente esplicite nei testi di Agostino, erano disponibili. Questa
decisione è autorizzata da un passo del De doctrina Christiana (Il, IV, 4) in
cui, a conclusione di un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene:
"Infatti di tutti quei se gni, di cui ho brevemente abbozzato la tipologia,
ho potuto parlare attraverso le parole; ma le parole in nessun modo avrei
potuto enunciarle attraverso quei segni". Viene esplicitamente fatto
riferimento al carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema
modellizzante primario, e tale carattere viene assunto come criterio della
divisione fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati in base al canale
di perce zione Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è
quella effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene
che "tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro
ciò che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dali'udito,
pochissimi dagli al tri sensi" (De doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i
segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel li, fondamentalmente
estetici, emessi dagli strumenti musi cali, come il flauto e la cetra, o anche
quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente,
ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una posizio ne dominante,
anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il
primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di
essi vuole ester nare" (Dedoctr. Christ., II, III, 4). Tra i segni
percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i
movimenti corporei degli attori, le ban diere e le insegne militari, le
lettere. 10.6 LE CLASSIFICAZIONI 239 Infine vengono presi in
considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come l'odorato (l'odore
dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca
ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri sto e fu
guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data"
Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro
albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa
naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né
desiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi,
come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ. , II, I, 2). Ne sono
esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che
rivelano, inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti ,
Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente
interessato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche i
segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che
tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto
possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e
pensano" (De doctr. Christ. , II, II, 3). Gli esempi sono soprattutto i
segni linguistici umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in
questa classe an che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno
quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo
crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli
animali tra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva
"naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono
i "segni convenzionali", come Markus (1957: 75) aveva suggerito (e
come del resto era sta to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J.
Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367;
Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na 240 10. AGOSTINO ben
precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ. , Il , III, 4). È del resto
il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa
data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura
di que sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov
(1977: 46), porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto
semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni
intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione,
possono essere messi in corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della
combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali,
ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici
che stoici. 10.7 Semiosi illimitata a modello "istruzionale" Uno dei
punti fondamentali della semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla
ricerca dei modi in cui si può stabi lire il significato dei segni. Tale
indagine è condotta soprat tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una
conce zione semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi
tata" di Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato
di un segno, per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri
segni, per esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito
puntato; per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag. , III e VII). Questa
concezione del significato si rende possibile sol tanto nel momento in cui
viene abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa
Agostino, quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago stiniana
si apre così, come ha messo in evidenza Eco (1984: 34 e sgg.), verso un modello
"istruzionale" della descrizione semantica. Se ne può cogliere un
esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso
virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag.
, II, 3). Esso viene definito come composto di otto segni, dei quali, appunto
si cerca il significato. l0.7 SEMIOSI ILLIMITATA 241 L'indagine comincia
da l si l , di cui si riconosce che espri me un significato di
"dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che non si è trovato un
altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si
passa, poi, a lni hi/1 , il cui significato viene individuato come
!'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una
cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il
significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa rebbe
equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e
argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha
bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l
significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe
rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica
contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a qualcosa che non
esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso
virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è
ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni negozianti
provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco
(una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni
contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di versi (ma
tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La
struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti
x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni
tanto al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva,
è proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che
la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni
semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come
potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca
attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è
ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice
a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in
generale, è possibile, però, rilevare una connes sione storicamente
documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti colare del segno. A
esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno
implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi
eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in
cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di
Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C.
la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona
(1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri
cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che
"la scrittura cu neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso
il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3
Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu rioso
notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios
(''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era
clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera
morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un
trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi,
come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca
pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero
(1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle
fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie
contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio. Si potevano contare oltre cento oracoli per
tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti
tavolette. 244 NOTE CAPITOLO 2. 1 Infatti da un'analisi del vocabolario
dell'azione oracolare compiuta da Crahay (1974: tr. it. 220) risulta che alcuni
vocaboli presentano il testo della rivelazione come un segno, molto spesso un
segno anticipatorio, in quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi
si ricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè "informare in anticipo
con segni") e l'ag gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime
l'idea di un'informazio ne prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si
opera un confronto con civiltà come quella mesopotamica che mettevano la
divinazione al centro della vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il
modello formale anche a tutti gli altri ambiti culturali (a esempio, alla
medicina e alla giurisprudenza). 3 Cfr . anche //. , I I I , 277 . Per i passi
citati sono utilizzate, nel corso del l'intero testo, traduzioni correnti,
talvolta parzialmente modificate. 4 Traduco dal testo in inglese di Romeo
(1976: 86): "The lord, who has the oracle in Delphi, l neither discloses
nor hides his thought, l but indica tes it through signs". s Infatti la
divinazione è indissolubilmente legata ad Apollo, e Apollo è indissolubilmente
legato alla sapienza. La sapienza del dio è totale e simul tanea e non ha
bisogno di essere frammentata in parole. Tuttavia agli uo mini egli concede,
invece, solo la frammentazione della parola oracolare, oscura e
incomprensibile, in quanto in essa la sapienza divina appare come follia
dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone ritiene essere l'essenza
stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244 a-c) l'etimolo gia di
mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro che la sapienza vista
dal l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry (1950) per la presenza di possibili
procedi menti anche di cleromanzia (divinazione attraverso il lancio delle
sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi fenomeni naturali potevano
perdere il carattere di ca sualità ed essere sottoposti a un processo di
istituzionalizzazione, come av veniva nel caso dell'oracolo di Dodona, dove si
interpretavano i segni dati dallo stormire del vento tra le fronde di una
quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il tubare e il volo dei
piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un gong). Per gli
oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per una disamina
generale e approfondita dei vari ti pi di divinazione i testi basilari sono
Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8 "Lobo",
"vescichette" e "porte" erano i termini tecnici designanti
par ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione prendevano come segni
da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia anima/ium, l, 17, 496 b
32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della consultazione oracolare ci sono
note attraverso un cer to numero di iscrizioni epigrafiche, provenienti
principalmente da Delfi e da Dodona; cfr. Parke-Wormell ( 1 956) e Fontenrose (
1 978) . 10 Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla nozione di enigma,
come era presente nella cultura greca: esso comportava, come vedremo NOTE
245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del dio all'uomo), sia
la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine, l'idea che il primo
senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine "modo", poi,
pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un unico meccanismo, ma di
una galassia di procedimenti espressivi molto eterogenei, che vanno dalla
banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo scambio di prospetti va
(metalogismi) ecc. L'espressione "modo" enigmatico fa naturalmente
riferimento alla categoria di modo simbolico elaborata da Eco ( 1 984). Pur
troppo non è qui possibile usare direttamente quella categoria perché essa, pur
avendo molti punti in comune con questa che qui proponiamo, se ne discosta per
la presenza di alcuni caratteri specifici (rapporto stretto tra si gnificante
e significato, nebulosa di sensi multipli tendenzialmente coesi stenti ecc.)
che qui non si ritrovano. È un peccato, perché ci sarebbe sem brato
appropriato definire "simbolico" il modo di parlare del dio. 1 1 Il
meccanismo retorico dell'enallage ricorda il meccanismo oracolare usato dalla
Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio (Aen. , VI): la sa cerdotessa di
Apollo scrive le varie parti del responso su delle foglie, se guendo l'ordine
sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia quelle fo glie al vento, che
scompiglia l'ordine precedente, creandone un altro, in cui i riferimenti
incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e difficile
l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due attributi
antitetici della li ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia benigna ed
esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche); l'arco,
quella maligna e deva stante. Del resto l'etimologia stessa del suo nome
suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente", ed è
sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove le sue
frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli 1 975 : 1 8) .
1 1 Per una nozione complessa e articolata della nozione di "verità"
nel mondo antico, si veda Detienne (1967). In particolare, sulla concezione di
a/theia come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune
al poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne
(1967, tr. it. 99). CAPITOLO 3. 1 D'ora in avanti ci riferiremo al Corpus
Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente, per una documentazione completa
sulla medicina gre ca, dovrebbero essere prese in specifica considerazione
almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste ultime, appartenendo a
un'epoca molto più recente (II sec. d.C.) e attingendo a una tradizione
filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato molto avanti lo
studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso che stiamo
svolgendo . Rimandia mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia
attribuzione dei trattati di medicina del V e lV secolo 246 NOTE 3 Si
possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto
il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter ne, il libro
II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar caica del
trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato
di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della
medicina (Di Benedetto 1986: 5 e 80). In secondo luogo, un gruppo di trattati
in cui appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me todologici
della medicina. Vegetti (1976: 21 e sgg.) ha proposto di definire
convenzionalmente "pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi
ri sulta (indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti
autori e probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460
e il 370 a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà
del V secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4
Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti (1976: 65 ss.); Vegetti (1967:
78). 6 Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati ca
non arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni
ci atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal volta apportandovi
delle modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita
una distin zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni collocati nel
passato, diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis,
cioè previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami
(1983: 166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (1983: tr. it. 499 ss.). Si
deve poi segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai
verbi di "dire", con il significato di "pubblicamente ",
anziché con un si gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate
avviene nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr.
Di Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male
sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella
testa, Le articola zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.).
10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri
calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si
dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi
pro cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale
la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica,
animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds
(1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento
magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (1890-94: tr.
it. 1982). 12 Cfr. Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di
sfug gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano
è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della
comunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini
e bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio
assolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del = NOTE 247
trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol
/ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do
vuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen
do questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse
di origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti.
1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son
no di cui parla Platone nel Timeo (7 1 e) e a1la diminuzione dei turbamenti
nell'aria che rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di
vinatione per somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico", cfr. Eco
(1975: 295): per "omoma tericità" si intende il fenomeno per cui
"l'oggetto, visto come pura espres sione, è fatto della stessa materia
del suo possibile referente". 16 Cfr. anche Lichtenthaeler (1983) e
Wenskus (1983). 17 Cfr. Vegetti (1976: 48); Manuli (1985: 233). 18
Sull'abduzione si vedano Thagard (1978); Proni (1981); Eco (1983);
Bonfantini-Proni (1983); Bonfantini (1985); Peirce (1984); Eco (1984). 19 Di
Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti tra
i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi cina greca e
quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani; cfr. anche Di Be nedetto-Lami
(1983). 2° Cfr. Campbell Thompson (1937: 285, I, 1). 2 1 Per questa nozione,
cfr. Conte ( 1 986) . CAPITOLO 4. 1 Cfr. Hjelmslev (1943). CAPITOLO 5. 1 Cfr.
Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet., 1, 1357 a-b. 2 Cfr. Arist., Rhet., l, 1358
a, 36 e sgg. 3 Cfr.Arist.,Deint.,16a;An.Pr.,11,70a-b. "' Su questa nozione
cfr. Di Cesare (1981 : 161). s Cfr. Eco (1984: 6-7; 1987: 75). 6 Cfr. Heinimann
(1945). 7 Cfr. Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco (1987). 8 Emerge qui,
per quanto nebulosamente, il tema della doppia articola zione del linguaggio
umano, che verrà poi sviluppato in epoca contempo ranea da André Martinet
(1960). 9 Anche se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione,
tuttavia nella Retorica (1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea
dell'enti mema come sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi
analitici 248 NOTE (Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di
distinguere il segno dal sillogi smo in base al numero di premesse assunte
(una sola nel primo caso, due nel secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion
verrà definito esplicitamente "neces sario" (anankaion), mentre il
smefon è definito ..non necessario" (mè anankafon) (Rhet., I, 1357 b, 4).
1 1 Lo stesso punto di vista e la stessa terminologia ricorrono anche nel passo
parallelo della Retorica (l, 1357 b, 16-18). 12 Quanto al carattere di
confutabilità di questo tipo di segno, Aristote le così commenta l'esempio
dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi smo che si sviluppa
attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu tabile (ljsimos), senza
eccezione. In realtà, quando i termini si comporta no come si è detto sopra,
non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida è pallida, e
se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà necessario che
questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a, 34-37). 1
"(Dei segni) quello necessario è la prova, quello non necessario non ha un
nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le proposizioni
da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è tale è la
prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la proposizione
enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie ne dimostrata
e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar ('prova') e pé ras
Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet. , l , 1357 b, 4-10). Si
deve tuttavia segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di
stinzione tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di
questi termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza
distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un
terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; cfr. Le
Blond (1939, ried. 1973, 241, n.). 14 Cfr. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!.
Cfr. Arist., An. Post., II, 98 b, 25-30. CAPITOLO 6. 1 È del resto sulla base
delle immagini prodotte nella mente dagli oggetti esterni, in particolare su
certi tipi di immagini, chegli stoici chiamano ka talptikaì phantasfai, che
viene basato il "criterio di verità", cioè "ciò a cui ci
atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose
determinate sono vere ( = sono il caso) e certe altre sono false ( = non sono
il caso)" (Sext. Emp., Adversus Mathematicos, VII, 29); cfr. Mi gnucci
(1965 e 1966); Sandbach (1971 a, e 1971 b); il capitolo "The crite rion
of truth" di Rist (1969). 2 Cfr. anche Sext. Emp. , A dv. Math. , VII I ,
69-70. 1 Si deve sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo
/éghein. 6 Cfr. Diog. Lart., Vitae, VII, 51; Long (1971 a: 83). 7 Cfr.
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12. 8 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9
Cfr. Diog. Lart., Vitae, Vll , NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che,
come sostiene Diogene Laerzio ( Vitae, VII, 57), gli stoici distinguevano tra
il "proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei
suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da
significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente; cfr. anche Sext. Emp.,
Adv. Math. , VIII, 80. Long (1971 a: 77) sostiene di preferire, per lekt6n, la
traduzione "what is said" rispetto a quella propo sta da Mates e dai
Kneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene rale e
permette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logica
quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione,
risalente al Crati lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a
dire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto
dovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come
"'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione"; cfr.
Long (1971 a: 107 n. 1 1). ..s I lekta venivano classificati dagli stoici in
completi e incompleti; cia scuno dei due tipi dava luogo a una
sottoclassificazione, anche molto com plessa, che non prenderemo qui in
considerazione; si veda a questo propo sito Mates (1953: 11-26). 63. 1° Cfr.
Mates (1953: 1 1-12): Mates infatti concepisce i lekta come signi ficato delle
parole e avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di
intension di Carnap. 1 Cfr. Zeller (1865: 78-79). 12 Cfr. Bréhier (1909:
114-125). 13 Cfr. Mignucci (1965: 96). 14 Una definizione del criterio di
verità la fornisce Sesto (A dv. Math. , VII, 29): "Ciò a cui ci atteniamo
nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate
sono vere e certe altre sono false". Sul problema del criterio di verità,
cfr. Rist (1969: 133-151); Sandbach (1971 a: 9 e sgg.); Mignucci (1966). 17
Cfr. anche Adv. Math., VIII, 245-257. 18 Cfr. Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda,
a proposito di questa questione terminologica, la esaustiva 1 Cfr. Platone,
Th., 190 a (206 d); Soph., 263 a. 16 In effetti il "discorso interno"
(endiathetos /6gos), a differenza delle espressioni emesse materialment
(prophorikòs 16gos), è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo
dagli animali. Dice infatti Sesto (Adv. Math. , VIII, 275-276): "(Gli
stoici) dicono che l'uomo differisce da gli animali irrazionali a causa del
discorso interno, non a causa di quello pronunciato, in quanto corvi,
pappagalli e gazze pronunciano suoni arti colati"; cfr. anche Pohlenz
(1959, 1: 61-62). trattazione di Conte (1972: XXXV), curatore dcll'edizione
italiana dei Kneale (1962). 20 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21
Ibidem: "anche la dimostrazione in quanto al genere è, a quel che
pa- 250 NOTE re, un segno"; cfr. anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il
testo del De signis, con traduzione inglese, è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy
(1978). 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA Cfr.
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2' Cfr. Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 146; Hyp. Pyrrh., Il, 98. 27 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28
Tale tripartizione verrà esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na:
vedi il capitolo relativo. 29 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30
Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 154. 11 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII,
156. Al di là del carattere pole mico, l'osservazione di Sesto è interessante
perché, citando "medici" e "fi losofi", fissa i due punti
estremi di un ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione
di tale interesse da parte dei medici (come, poi, di mostrano anche i numerosi
esempi di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio
sistematico del segno da parte dei filosofi. 12 Cfr. Diog. Latrt., Vitae, VII,
71. 13 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII, 245- 247 .
34 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250;
Hyp. Pyrrh., Il, 106. 37 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251. 11 Cfr.
Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39 Cfr.
Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in consi derazione solo i
primi tre criteri, perché il quarto sembra avere un'origine diversa dalla
scuola megarico-stoica. 4() Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv.
Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie interpretazioni del
condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in considerazione.
Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a), dei Kneale
(1962) e di Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una successione
cronologica e teo rica. "2 Cfr. Phil., De signis, XIV, 11-14= 19; Xl,
32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del testo greco, sono
messi in correlazione con il segno " = " ai capitoli della traduzione
inglese dei De Lacy (1978). "3 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276;
287. Cfr. Goldschmidt (1953: 79 e sgg.);
Verbeke (1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e
divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva molto opportunamente che per gli
stoici il filosofo "est le médecin de cet organisme vivant qu'est le
monde; il est aussi une sorte de prophète, un de vin, un exégète, un
interprète des signes qu'il observe". 46 Cfr. Cic., De divinatione, I,
125-127. 49 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., 309. CAPITOLO 7. NOTE 251
"7 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 140; Adv. Math., VIII, 305. 48 Cfr.
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180: "D'altronde anche la dimo strazione è,
in linea generale, un segno, giacché essa è considerata come di svelatrice
della conclusione". 1 Il testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il
papiro ercolanese 1065, è ora disponibile nell'ottima edizione critica dei De
Lacy (1978); d'ora in poi citeremo quest'opera con il titolo latino De signis:
a essa è dedicato il prossimo capitolo. 2 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31; cfr.
ancheEpic., EpistulaadHerodo tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai
(d'ora in poi K.D.), XXIV. 3 Cfr.Phil.,Designis,fr.l. " Cfr. Diog. Laert.,
Vitae, X, 33; Epic., Nat., XXVIII, fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960:
296-297). Long (1971 b: 1 14) sostiene che un simile rap porto tra linguaggio
e pro/essi è presupposto anche nella Ep. Hdt. , 37-38. Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 34. 6 Cfr.
Epic., Ep. Pyth., 86-87. 7 Cfr. Epic., Ep. Hdt., 82. 8 Cfr. Diog. Laert.,
Vitae, X, 31. 9 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 9. 1° Cfr. Diog. Laert.,
Vitae, X, 32. 11 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31. 12 Cfr. Epic., Ep. Hdt., 46.
13 Cfr. Epic., Ep. Hdt., 48. 1" Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 15
Cfr. Epic., K.D., XXIV. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La
congettura semiotica è espressa dal verbo smeiolJ (Ep. Hdt. , 38) e prende la
forma dell'induzione nella teoria epicurea. Il sostantivo da esso derivato,
smeilJsis, non direttamente attestato negli scritti di Epicuro, avrà ampio
spazio nel trattato di Filodemo. 18 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math. , VII, 21
3-214. 19 Come vedremo nel prossimo capitolo, il criterio della "non
incompa tibilità" con i fatti conosciuti è centrale nella teoria
dell'inferenza come è esosta nel De signis di Filodemo. ° Cfr. Diog. Laert.,
Vitae, X, 33. 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus
Colo tem, 1119f. 22 Si deve segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta
il problema semantico in Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo
abbiamo trattato qui e recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di
Plutarco, sostenendo che non esiste nella filosofia linguistica epicurea un
livello spe- 252 NOTE cifico del "significato" in termini
intensionali. 23 Cfr. Sedley (1973: 17-18); il testo di Sedley in parte si
discosta da quello di Arrighetti (1960: 66-67). 24 Come veniva evitato, nel
Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate. 2Cfr. capitolo relativo
a Platone in questo libro. 26 Cfr. Plat., Crat., 421 d, 435 c; cfr. Sedley
(1973: 20). CAPITOLO 8. 1 La data di composizione del trattato, che è
controversa, oscilla tra il 542e il 40 a.C.; cfr. De Lacy (1978: 163-164). Il
titolo greco, essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget tura
di T. Gompers; altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo
a esso nella sua versione latina De signis; cfr. De Lacy ( 1978: 1 1-I4). 3
Nella prima sezione vengono riportate le risposte di Zenone di Sidone alle
critiche stoiche; nella seconda viene esposta la versione di Bromio del
l'enumerazione e confutazione di Zenone degli argomenti contro l'inferen za
empirica; nella terza viene riportata l'enumerazione di Demetrio di La conia
degli errori comuni degli antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione,
che espone una seconda lista degli errori degli oppositori, è anoni ma, ma,
con molta probabilità, è anch'essa da attribuire a Demetrio. .. Cfr. Marquand
1883; Deledalle 1984.
Cfr.Phil.,Designis,coll.VIII,32-IX,3=cap.13).Ilriferimentobi
bliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima
la colonna e il numero delle righe del testo greco del papiro, poi il numero
del capitolo corrispondente nella traduzione inglese effettuata dai De Lacy
(1978). 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terza sezione che riporta
il pensiero di Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45, e col. XXXVII,
12-24=cap. 57. 7 Cfr.col.XIII,1-15=cap.18. 8 Cfr. col. I, 1-12 9 Cfr. col. I,
12-16=cap. 2. 1° Cfr. col. XII, 14-31=cap. 17. 11 In Peirce (1980: 140), del
resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla
possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale
sembra riproporre, in epoca contem poranea, una tematica simile a quella
stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni:
"Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og getto che essa denota
semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello
stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef fettivamente, sia che
non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona
non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19. NOTE 12
Cfr. Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. 13 Cfr. col.
II, 25·36=cap. 5. ... Cfr. col. III, 4-8=cap. 5. 1Cfr. col. III, 30-34 = cap.
6. 16 Cfr. coli. XXXV, 35 - XXXVI, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle obiezioni
stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. XVI, 4 · XVII, 28 = capp.
23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. XXII, 28 - XXIII, 7=cap. 38. 18
Cfr. col. XVII, 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai
"dogmatici" sul problema della defini zione come combinazione di
attributi, a esempio "animale", "mortale",
"ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico,
Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. XVII, 1 1-28 =
cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A Cfr. coli.
XVII, 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll.
XXIII, 13 - XXIV, 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col.
XXVI, 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda
antichità le de finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di
Galeno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac.
Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionale
mortale, provvisto di intelli genza e razionalità" (Adv. Math., VII,
269). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18
Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. XIV, 28 - XV, 13=cap. 20. 40
Cfr.coli.XX,32-XXI,3=cap.35. coli. XXXIII, 35 - XXXIV, 5=cap. 52. Eco (1984:
130 e sgg.). Groupe p. (1970: 100). col . col. col . col. col. XXXIV, 5-7 =
cap. 52. XXXIV, 11-15=cap. 52. XXI , 27-29 = cap. 36. XXX, 27-31 =cap. 47.
XVIII, 23-29=cap. 26. CAPITOLO 9. 1 A questo proposito Cicerone parla di
"regolarità della ragione" (ratio et constantia) contrapposta alla
"sorte" (fortuna) (De div. , I l , 1 8). 253 254 NOTE CAPITOLO
10. 1 In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione significatio;
a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino adopera
l'espressione verbum in due sen si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello
dell'uso metalinguistico della pa rola; (ii) uno generale, che corrisponde
alla nozione ampia di "parola", co me "segno di ciascuna cosa
che, proferito dal parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap.
V). 1 La natura della nozione di dictio, come composizione di significante e
significato, è messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De
dialectica: Quel che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi
ormaj le due unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e
ciò che è prodotto nell'animo per mezzo della parola [di cibile]". La
dictio, inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa
d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito,
in termini propo sizionali, come un antecedente che rimandava a un
conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr.
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Swimming-Pool Library. Conti.
Grice e Contri: l’implicatura
conversazionale del Napoleone di Hegel – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cazzano
di Tramigna). Filosofo. Grice: “I like Contri – he reminds me of my days at
Rossall! Of course Contri is interested in Hegel – “a la ricerca del segreto
sofisma di Hegel” – and attempts to reveal it as Stirling never could! But
Contri is also interested in ‘il bello’ – being an Italian! – The interesting
thing is that he goes back to Italy – Aquino! He has a good exploration on
‘verum’ in Aquino, too, which reminds me of Bristol, Revisited!” Allievo di Zamboni,
elabora una minuziosa critica alla logica di Hegel di cui mise in rilievo le
incongruenze gnoseologiche e metodologiche che portano alla errata concezione
hegeliana della realtà come vita dell'idea. Rovesciando l'immanentismo
hegeliano, scopre un mondo di realtà sviluppando una concezione di filosofia
della storia che denomina “storiosofia”. Studia a Verona. Si laurea a
Padova. Discepolo fervente di Zamboni, di cui accolse e sostenne la dottrina
della gnoseologia pura. In alcune occasioni si descrisse come elaboratore in
contemporanea al suo maestro Zamboni di alcune teorie, collegate all’estetica
ma non solo. Insegna a Bologna. Zamboni fu espulso dall'Università Cattolica
con la motivazione di allontanamento dalla ortodossia tomistica e con accusa di
non conformità al Magistero della Dottrina Cattolica Romana. C. definì la
posizione della Cattolica con il termine da lui coniato di “archeo-scolastica”.
La posizione “archeo-scolastica” della Cattolica di Milano, di una conoscenza indimostrata,
a priori, dell’essere e degl’esseri era bersaglio di critiche da parte di
filosofi cristiani e non che la ritenevano inadeguata nell’ambito del pensiero
moderno. Contri sostenne che la dimostrazione della conoscenza dell’essere e
degl’esseri data dalla Gnoseologia Pura di Zamboni superava definitivamente
tali critiche e ridava certezza dimostrata della conoscenza e dell’esistenza di
Dio. Accusa di plagio Gemelli per aver pubblicato nella monografia Il mio
contributo alla filosofia neoscolastica (Milano) pagine già scritte da Mercier
e Wulf, senza indicare le citazioni. Gemelli diede le dimissioni da Rettore
della Università Cattolica ma rimase in carica. Insegna Bologna. Il prof.
Ferdinando Napoli, Generale dei Barnabiti, cultore di scienze naturali, venne
depennato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, allora presieduta dal
Gemelli. Venne dato ordine di non pubblicare articoli a firma di C.. Continuando
la difesa della dottrina di Zamboni, fondò la rivista quadrimestrale di
polemica e di dottrina neoscolastica “Criterion”. Il confronto con l’Università
Cattolica di Milano continuò negli anni successivi con relazioni a numerosi
congressi di cui C. da resoconto sulla rivista. Insegna a Ivrea. Sulla
rivista Criterion apparvero intanto i saggi del C. sui suoi studi hegeliani che
prelusero all'opera definitiva dLa Genesi fenomenologica della Logica
hegeliana. Partecipa attivamente agli organi culturali del fascismo. Sscrisse
su giornali quali Il Secolo Fascista, Quadrivio, Il Regime Fascista, Il
meridiano di Roma e La Crociata Italica. Contri si avvalse della tribuna
offerta da queste testate per promuovere i suoi studi filosofici e critica
filosoficamente l’ ebraismo di Spinoza, di Durkheim e di Bergson. Insegna a Milano
e tenne conferenze su studi hegeliani. Sorse una disputa con Zamboni in seguito
all'articolo Il campo della gnoseologia, il campo della storiosofia, in
risposta alla pubblicazione del Contri Dallo storicismo alla storiosofia. Prese
parte attiva a congressi tomistici internazionali e a congressi
rosminiani. Partecipa attivamente alla “Missione di Milano”, lanciata
dall’allora Arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini. Come riconoscimenti
ai suoi studi conseguì alcuni premi fra i quali uno indetto dall'Angelicum sul
tema “Quid est veritas”, e una segnalazione all'Accademia dei Lincei per
l'opera: Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, Milano, LSU. Discepolo
e geniale continuatore di Zamboni. Così potrebbe definire la situazione
filosofica di oggi. Il mondo del pensiero, perduta la bussola non teologica
d'orientamento, è costituito da una miriade di metafisiche che cozzano le une
contro le altre tanto da definirsi che heghelianicamente come il divenire in
sè, che è puro fenomenismo. A tale fenomenismo corrispondono molteplici
fenomenologie. Per esempio quella di
Heidegger, afferma che il reale è un solo, una totalità onniafferrante
(Hegel direbbe begriff), tanto come essere quanto come niente. Anche Hidegger
poi tenta la via della salvezza ammettendo la realtà del mondo esterno come di
un che, che resiste al soggetto, ponendosi nel solco del pensiero di Zamboni.
In questo modo Hidegger tocca il problema che si volle e che si vuole eludere:
la realtà del mondo esterno. Esistono queste realtà, come la mia realtà, indipendentemente
dal pensarle? Per dare risposta a questo interrogativo cruciale, è necessaria
la gnoseologia pura. La gnoseologia secondo C., scoprì la risoluzione
definitiva del problema della certezza della conoscenza umana. Essa permise di
risolvere il problema dell'esistenza di Dio, riavvalorando criticamente le
cinque vie della dimostrazione Aquino. Sono meriti del metodo filosofico di
Zamboni il poter affermare la sostanzialità del mio “io” personale, la mia
realtà individua e dimostrare l'esistenza di Dio, trascendente, personale. Il
metodo zamboniano distingue gli elementi della conoscenza umana tra la
sensazione, che e sempre oggettiva, e lo stato d'animo e tra questi
"quello stato d'animo che è anche atto: l'attenzione". Ogno stato
d'animo e sempre soggettivo. La gnoseology riesce a cogliere la realtà del
proprio “io”, nei suoi atti e stati. Essi sono reali, perché immediatamente
presenti all'”io”, e se sono reali gli accidenti dell'io, perché essi sono modo
di essere dell'io, reale è l'io, come sostanza, cui essi ineriscono. Perciò
dall'immediata certezza della realtà degli accidenti di un ente si giunge alla
certezza della realtà sostanziale dell'io." La critica alla posizione
della neoscolastica di Gemelli, Olgiati e Masnovo sulla conoscenza indimostrata
dell'ente e la soluzione tramite la gnoseologia pura. Rispetto alla dimostrazione
della realtà dell'ente, si fonda così nell'esperienza immediata ed integrale il
concetto di essere e ‘esseri’ che non è più necessario assumere acriticamente,
come qualcosa di razionalmente immediato, pena l'impossibilità di una logica
razionale. L'assunzione acritica del concetto di essere ed esseri è propria del
neotomismo dell'Università Cattolica, che in un suo autore, Masnovo, perviene
alla sua massima teorizzazione nel "mio hic et nunc diveniente atto di
pensiero". Ma con questo l'essere e gli esseri è solo pensato e ammesso
acriticamente come pensiero, è un presupposto, mentre nella gnoseologia
zamboniana è il risultato di un processo di astrazione, che deriva da una
realtà immediatamente presente all'autocoscienza dell'io, che non ha la natura
del pensiero, non è pensiero essa stessa, ma qualcosa di diverso. Si può
pertanto uscire dalla formula logica della ragion sufficiente, che è sempre e
comunque razionalista e riduce al razionalismo anche il neotomismo. Nell'ambito
dell'esperienza immediata ed integrale si scopre invece non la ragion sufficiente,
ma la sufficienza ad esistere o no. E la fondazione ed il ripensamento delle
prove dell'esistenza di Dio, e in particolare della terza via tomistica,
diventano inoppugnabili. Nessuno più può dubitare dell'esistenza del
sufficiente ad esistere, che è Dio." Secondo Peretti la fondazione
gnoseologica della metafisica è il più grande merito di Zamboni.
L'ambiente filosofico dell'Università Cattolica non accetta la gnoseologia
zamboniana e fonda la metafisica sul concetto di ente, assunto acriticamente,
come un presupposto indimostrabile. Esso finì per identificarsi con l'ente di
ragione (ens rationis), non sfuggendo all'insidia hegeliana, che lo aveva
dialettizzato sia come essenza che come esistenza. La dialettica negativa di
Hegel produsse ben presto nella corrente neotomista di Milano (ma anche in
altre università cattoliche) i suoi effetti devastanti. Aveva messo in guardia
i neotomisti dalla fraus hegeliana, che si svela nell'antitesi (contra-posizione)
come negazione. Seguendo la metodologia gnoseologica, Contri affronta
Hegel, il "padre del fenomenismo" compiendo una minuziosa e
sistematica analisi della fenomenologia hegeliana. Dopo averle individuate ha
messo in rilievo le incongruenze gnoseologiche e perciò metodologiche che
sfocia nella concezione della realtà come vita dell'idea, presentandola come uno
svolgimento dialettico del ‘begriff’, come qualche cosa che non mai in sé, ma
diviene eternamente in sé e per sé. C. resa evidente questa impostazione, anima
del fenomenismo, e scoperta nella deficienza gnoseologica e pertanto
metodologica, derivata dall'impostazione razionalista ed empirista che al fondo
dello stesso criticismo, rovescia l'immanentismo hegeliano, che si gli scopre
non più come mondo di idee, ma di realtà, di cui ognuna è altro del suo altro,
in un ordito cosmologico, di cui la storia dell'uomo rappresenta l'essenza. Ed
ecco la storiosofia, che reclama, al posto dell'immanentismo
gnoseologicamente insostenibile, la trascendenza della trama di questo ordito,
che a questo punto in sé e per sé non può più essere spiegato (si ricordi che
l'anima della spiegazione hegeliana è la "negazione"!). Tale
trascendenza prova l'esistenza di un Dio trascendente, che ha concepito la
trama creando le realtà ordito di questa trama, di realtà in reciproca
relazione, in cui non c'è membro che sia fermo. In questo ordine si risolvono
in modo nuovo i rapporti tra le realtà, che per esempio tra l'anima e il corpo,
superando così gli scogli di una spinosa questione di eredità aristotelica, di
grande importanza anche oggi, in cui le realtà terrene e spirituali non trovano
la sintesi equilibratrice. La storiosofia rappresenta uno sviluppo del
metodo di Zamboni, considerandolo la via per rinnovare tutta la filosofia poiché
esso non è storicismo filosofico, non è naturalismo, è avanti positivistico,
non è speculazione, ma metodo appunto, (metodo) che da secoli la filosofia
europea ha cercato, perdendolo oggi nella disperazione del momento." Altri
saggi: “Il concetto aristotelico della verità in Aquino” (Torino, SEI);
“Gnoseologia” (Bologna, L.Cappelli); “Il concetto d’armonia” (Bologna); “Il
tomismo e il pensiero moderno secondo le recenti parole del Pontefice, Bologna,
Coop. tipografica Azzoguidi): “Del bello” (Firenze, Libreria Editrice
Fiorentina); “La filosofia scolastica in Italia nell' era presente” (Bologna,
Cuppini); “L’essere e gl’esseri” (Bologna, C. Galleri); Un confronto
istruttivo: Mercier, Gemelli, De Wulf ed altri ancora, Bologna, C. Galleri); “Pane
al pane: riassunto d'una situazione, Bologna, Costantino Gallera. “Neo-scolastici
e archeo-scolastici” (palaeo-scholastici) sulla rivista Italia letteraria; “Il
segreto sofisma di Hegel” (Bologna, La Grafolita), “Mussoliniana: il discorso
del duce” (Bologna, La Diana scolastica); “Gnoseologia pura di A. Hilckmann; Il
segreto di Hegel di S. Contri, Bologna, Stabilimento Tipografico Felsineo); “Hegel,
Ivrea, ed. Criterion); “La genesi fenomenologica della logica hegeliana” (Bologna,
ed.Criterion; Ambrogino o della neoscolastica, dialogo filosofico,
Bologna); “La soluzione del nodo centrale della filosofia della storia,
Bologna, Criterion); “Complementi di storiosofia, Bologna, Criterion); “Punti
di storiosofia, Bologna, Criterion; Lettera a S.S. Pio XII sulla filosofia
della storia, Bologna, Criterion; Il Reiner Begriff (=concetto puro) hegeliano
ed una recensione gesuitica, Bologna, Criterion; Dallo storicismo alla
storiosofia. Lettura prima, Verona, Albarelli; I tre chiasmi della storia del
pensiero filosofico. Inquadratura unitotale della controversia sulla
storiosofia, Milano, ed. Criterion); “Rosmini” (Domodossola, La cartografica C.
Antonioli); Ispirazione da dei” divina della S. Scrittura secondo
l'interpretazione storiosofica” (Milano, Criterion); “La sapienza di Salomone,
Milano, ed. Criterion; “La riforma della metafisica” (Milano, ed. Criterion); Filosofia
medioevale. Raggiungere la forma nuova, Fiera Letteraria; Punti di
trascendenza nell'immanentismo hegeliano, alla luce della momentalità
storiosofica” (Milano, Libreria Editrice Scientifico Universitaria); “Rosmini”
(Milano, Centro di cultura religiosa); “Posizioni dello spiritualismo
Cristiano: La dottrina della poieticita in un quadro rosminiano” (Domodossola,
Tip. La cartografica C. Antonioli); “Assiologia ed estetica”, Theorein; Posizione
dello spiritualismo cristiano. La dottrina della poieticità, in un quadro
rosminiano, Rivista rosminiana; Heidegger in una luce rosminiana: la favola di
Igino e il sentimento fondamentale, Domodossola, La cartografica); Missione di
Milano. Chiosa storico-filosofica, Ragguaglio); “Heidegger in una luce rosminiana,
Rivista rosminiana); La coscienza infelice nella filosofia hegeliana” (Palermo,
Manfredi); “Husserl edito e Husserl inedito” (Palermo, Manfredi); “Kierkegaard:
profeta laico dell'interiorità umana”; “Saggio di una poetica vichiana” (Milano,
Il ragguaglio librario); La fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Rivista
rosminiana; L'unità del pensiero filosofico, Sapienza; Il pluralismo filosofico
nell'ambito di una concezione cristiana, Sapienza; In margine al centenario
dantesco, Sapienza; La negazione come principio metodologico di unificazione
speculativa, Theorein; Vita e pensiero di Hegel, Rivista rosminiana; Possibilità
di un accordo tra la dottrina rosminiana del sentimento fondamentale e le
concezioni moderne sull'inconscio, Rivista rosminiana; Morale e
religione nella Fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Palermo); “Parallelo
tra Hegel e Rosmini, Palermo, Mori); “Metafisica e storia, Palermo, Mori); “Il
sofisma di Hegel” (Milano, Jaca book). “Il caso Contri”; “Gnoseologia”;
noseologia, storiosofia; Contri, Note mazziane; La propedeutica metafisica
hegeliana al problema del pensare e la lettura rosminiana di S. Contri, Contri
tra gnoseologia e storiosofia, Punti di trascendenza in S. Contri, in Sophia,
Crociata Italica, Fascismo e religione nella Repubblica di Salò, L'Estetica di
Benedetto Croce. Certi gestiscriveva la Vanni Rovighiche gli furono
rimproverati come acquiescenza al potere politico fascista (e furono ben pochi
in confronto a quelli di molti altri) furono dettati dalla preoccupazione di
difendere la sua Università dalla minaccia di chiusura da parte del potere
politico, minaccia tutt’altro che immaginaria. E forse fu il timore di fronte
alle obiezioni di un’altra autorità, quella ecclesiastica, che gli premeva ben
più di quella politica, a indurlo ad allontanare dall’Università un uomo di
grande ingegno e di purezza adamantina: Zamboni, un gesto che non può non
essergli rimproverato e che lasciò anche a noi allora studenti dell’amaro in
bocca. Contri, (Circa il volume di Croce 'La storia come pensiero e come
azione. Siro Contri Presidente dell' Istituto di Cultura Fascista. CONDOTTA POLITICO-MILITARE
ESPRESSA DAI FATTI UNIVERSALMENTE NOTI, I QUALI CELEBRANO COTANTO
LA SINGOLARITÀ DI BONAPARTE. Paralello degli uomini ipiù celebrati
dalla Storia dei Secoli. ]N"on è del mio proposito il qui
premet- tere alle azioni di NAPOLEONE le cau- se che
rivoluzionarono la Francia, e i fatti che a danno proprio, o di
altrui operarono i Francesi, poiché questi sono noti a tutti, o se
qualcuno' vi è, che non li sappia, da quelli stessi, che io dirò,
operati da Lui, meglio si rileverà la gran- dezza degli altri
distinguendosi troppo bene riunite in un solo quelle grandi
ia qualità, con le quali si va a riordinare, e regolare
in pace il cittadino, come in guerra a vincere e superare
l'inimico. Nè vi voleva di meno: conobbe BONA- PARTE
opportunamente, che non si ha la pace, se non si fa la guerra, che non
può tornare all'ordine il Francese, se non è vittorioso, subito che
la gloria di aver vinto altrui richiama, per goder dei frut- to, al
dovere di vincere se stesso se non si dipende? Col dipendere dagl'ordini
di BONAPARTE nel campo di battaglia, si volò dal Francese alla
vittoria: che me- raviglia, se all'un fatto autorevole per- ciò
riesci agevole inculcare con altri i doveri di giustizia, nell'osservanza
de' quali, rimesso l'ordine pubblico, si passò ad unire a quelli di
conquista i frutti preziosi della pace. Troppo è singolare
NAPOLEONE BONAPARTE nella storia dei secoli. Quegli uomini che
arrichirono di beni, che fornirono di gloria la Patria, ed i re-
gni, di cui erano signori, di cui erano cittadini, con le loro imprese in
guerra, con i loro consigli in pace, daranno a me tutto quel meglio
che ciascuno di essi possedeva parzialmente, per provarlo riunito
in BONAPARTE a riordinare la Francia, a pacificare V Europa.
Non si vuol qui osservare l'ordine dei fatti, nei quali BONAPARTE
si mostrò da prima grande Capitano, ma presa sib- bene l'epoca del
Consolato tanto glorioso per Lui, e dove Egli si mostrò grande
politico, si faranno servire i fatti nell 9 uno, e nell'altro stato
operati all'espres- sione di quella condotta, la quale prati- cata
da Lui solo, celebra veracemente la sua Singolarità. Dirò
pertanto, con tutto che io non ignori, che Giulio Cesare fu l'uomo
in Roma, il quale più d'ogni altr'uomo del- le storie antiche può
dare a me una qualche simigliala di NAPOLEONE in Francia, pure i
fatti che me lo descrivo- no per grande, non sono quegli stessi che
ora mi dimostrano grandissimo BONAPARTE. 11 ritorno di GIULIO CESARE dal
Governo della Spagna non è simile a quello di BONAPARTE dopo V
occupazione dell' Egitto; Cesare trovò la Repubblica Ro- mana
divisa in due fazioni, una di GNEO POMPEO, e l'altra di MARIO CRASSO. BONAPARTE
trova la Repubblica non divisa in fazioni, ma in tanto disor- dine e
confusione, che più non è divisi- bile, poiché l'eccesso dell'anarchia
pro- duce la serie indefinita delle divisioni sempre rinascenti e
rovinose; pure non altri vi fu, se non che Egli, tanto poten- te,
che la divise per trarla dalla sua confusione. GIULIO CESARE vien
pregato da ognuno dei due rivali a farsi del suo partito, e Cesare si fa
mediatore di pace. BONAPARTE non pregato va da se a
rimproverare d'ingiustizia, e di oppres- sione i Governanti, e a nome del
Popolo Francese ingiustamente oppresso intima la loro
destituzione. Digitized by Google
iS Giulio Cesare si fa pacificatore di chi voleva la
pace. BONAPARTE assicura la pace a fron- te di coloro che
volevan la guerra. Giulio Cesare dee vincere con la per-
suasione due nemici, che erano nel se- no della Patria a promovere con la
di- visione l'interna discordia. BONAPARTE dee vincere con la
for- za i nemici esterni della Francia, e dee persuadere la Francia
in disordine della necessità di un nuovo ordine di cose per
felicitarla. Giulio Cesare accetta l' incarico di mediatore
non per servire, ma per regna- re; perchè coll'esser così fra Crasso
e Pompeo, ambidue li vedeva dipendenti da Lui; regna chi non
dipende, non di- pende chi giudica, e quello che giudica si fa
arbitro dei due nemici: non voleva Cesare con la sua dipendenza
rendere più forte uno dei rivali, ma voleva col pretesto della sua
mediazione indeboli- re ambidue. Trattò la pace non per unirli fra di
loro, ma per unirli a se, non per- chè fossero amici, ma perchè fossero
di- sarmati. BONAPARTE instruito dei disordi- ni della
Francia e delle sue perdite, con eroica risoluzione veste il carattere
di guerriero, di 'pacificatore; si mostrò così al Consiglio dei
Cinquecento, dove era maggiore l'autorità, e dove erano tanti che
volevano governare; non si ritiene da dirli indegni di quest'ufficio,
quando per due anni avevano così male governa- ta la Francia. Il
rimprovero di un simile delitto, la fermezza di chi rimprovera, ed
il coraggio, avvilì e disperse i delin- . quenti, (molto più di Trasibulo
che cac- ciò d'Atene i trenta suoi tiranni): si rimi* se allora
BONAPARTE al voto del Popòlo Francese, che lo acclamò Liberatore; ed
assicurato di lealtà, annunziò il Con- solato, e la sua
Costituzione. Fatta la pace fra Pompeo, e Crasso per opera di
Cesare, tutti due concorse- ro a farlo Console, e in tutto il tempo n
Consolato il di Lui Collega non compar- ve mai a palazzo.
Si vide BONAPARTE Primo Console, e gli altri due furono sempre con
Lui nel Consolato. Se fu solo Cesare a comandare fu con
usurpazione. Se ha BONAPARTE nel comando la primazia, glie la
concede la costituzione: Cesare non soffriva che gli applausi
di buon governo fossero attribuiti ad al- cun altro che a Lui: per tal
modo andava avvezzando Roma al governo di un solo, e disponeva gli
animi ad approvare nel Consolato la Monarchia. BONAPARTE
sebbene il primo nel Consolato, ed il maggiore nella autorità; è
però sempre insieme con gli altri a go- vernare; non sprezza l'opera
altrui, non sfugge l'altrui consiglio, e vuole che tut- ti abbiano
parte al merito della sua bon- tà, della sua aggiustatezza; non vuol
cam- biar governo nei momenti che tanto si opera per stabilirlo;
tutto quello che si fa, si fa per conoscere, 3e il Francese può
essere buon repubblicano: il grido della libertà democratica non è un
voto vale- vole per la esclusione della monarchia; quantunque
siansi veduti i Francesi ele- trizzati andare incontro alla morte
per vendicare la libertà; si deve dar ciò alla forza di quel
barbaro terrore difuso per avvilimento universale con la op-
pressione dell'innocente; sostenuto con la franchigia ed esaltazione del
malva- gio per accrescere il numero dei terrori- sti; non già ad un
maturo consiglio, ad una risoluzione giudiziosa, unanime, uni-
versale, che però il procedere di BONA- PARTE fu assai prudente per
richiamare all'ordine i Francesi in rivoluzione, e metterli
veracemente in libertà, col co- stituire la forma di un buon
governo. Cesare ha finito il Consolato. BONAPARTE viene
dichiarato a Vita Primo Console. Cesare dopo il Consolato si
elesse il Governo delle Gallie dove andò con E-sercito, e fece guerra a
molte nazioni. Vide pesare che le fazioni lo potevano fare il primo
della Repubblica, ma non bastavano a farlo padrone, per cui era
necessario un esercito: come armarsi però senza scoprire il suo disegno?
Ecco l'arte di Cesare; si armò per servizio della Re- pubblica, la
servì valorosamente per po- terla signoreggiare, la esaltò per
poterla opprimere: nel regnare l'arte del segreto non è tacere, ma
consiste in rivelare una intenzione verisimile che nasconda la
vera, ma che non sia la principale: la più fina simulazione del mondo
consiste nel sapersi ben servire della verità. BONAPARTE fu
fatto Primo Console non dalle fazioni, ma dal voto libero di una
gran nazione: i meriti della guerra, e quelli maggiori della pace
precedettero la sua perpetuità nel Consolato; non ser- vì alla
Francia per signoreggiarla, non la esaltò per opprimerla, quando con
averla levata da suoi disordini, e fatta amica di tutte le nazioni
5 non cercò di escludere i tanti dall'onore di questa grand'opera, i
quali ora sono con Lui nel governo vi- gilantissimi per
conservarla. Per dare però una maggior rilevanza al paragone
di BONAPARTE con Giulio Cesare, mi farò a tracciar questi nè suoi
principj per condurmi così a provar me- glio la singolarità dell'altro; e
giusta la diversità di tante sue virtuose azioni, mi farò pure a
dir di quelli, i quali nei bei secoli della Grecia, e di Roma
onorarono la loro patria, perchè i più valorosi nell' arte della
guerra, i più sapienti nel go- verno dei popoli tra coloro tutti, che
il precedettero, scorrendo la vita de' me- desimi, dimostrerò,
senza osservare l'or- dine dei tempi, giacché non è ciò del mio
soggetto, riunite in BONAPARTE le grandi virtù di tutti quelli
celebratis- simi nella storia delle nazioni. CeSare nella sua
più fresca età passò la prima volta a militare sotto Marco Minucio
GermOj allora Pretore in Asia., e mandato in Bitinia all'assedio di Mitiiene,
la sola città che ricusava sottomet- tersi ai Romani, si distinse tanto
nella sua presa, che meritò diverse corone civiche, le quali davansi a
chi aveva sal- vata la vita ad alcun cittadino romano. BONAPARTE
che nel principio della Rivoluzione Francese trovavasi in Parigi
tutto intento a coltivare i grandi suoi ta- lenti nella scuola militare,
e nella vera filosofia, fu mandato all'assedio di Tolo- ne
Ufficiale in una compagnia d'artiglie- ri,, allora di soli ventitre anni,
ed ivi le prove del suo valore furono tanto lumi- nose e così
sollecite, che i Rappresen- tanti del popolo ivi presenti, non
tarda- rono a promoverlo Generale di Brigata, nel qual posto più
d'ogn'altro suo pari si mostrò esperto nell'arte difficilissima di
condur i soldati alla vittoria; e singo- larmente intrepido si rendette
in quei terribili momenti di assalto, sotto l'im- peto del quale
ebbe a tornar Tolone in potere dei Repubblicani. Giulio Cesare fu
accusato da L. Vezio cavalier romano complice nella cospirazione di
Catilina. BONAPARTE fu accusato, e fatto ar- restare a Nizza dal
Convenzionale Befroi come terrorista. Il terrore allora era di-
retto a dominare sugli uomini per disor- dinarli, per perderli.
La Congiura di Catilina si volgeva a fare un dominatore di Roma per
felici- tarla. Il Valore mostrato nell'armi da BONAPARTE
mosse l'invidia di tanti ad accreditarne l'accusazione. Fu
accusato Giulio Cesare di troppa parzialità per Lentulo, Gabinio,
Cetego, Statilio capi dei congiurati. Questi per salvar la vita
ebbe bisogno di un CICERONE; fuggì gli occhi di tutti; si rinserrò nella
propria casa timoroso d'incontrare nuovamente il risentimento dei
Padri. BONAPARTE va da se a Parigi per fa- re delle
rimostranze al Comitato di salute pubblica contro una simigliante
ingiustizia, ha cuore di orare la propria causa in faccia a quel
Tribunale istesso eret- to per distruggere gli innocenti; e non
avendo più dove ricorrere per denegata giustizia, chiede il permesso di
ritirarsi a Costantinopoli, perchè soverchiamen- te delicato, non
vuol vivere a fronte di un'accusa troppo ingiusta. Il
patrocinio delle Vestali, l'amor del Popolo tant'altre volte come in
questa capriccioso, perchè mosso dall'ingenita avversione al volere
dei grandi, richiama Giulio Cesare al suo uffizio. Affidato
BONAPARTE al patrocinio più sicuro della sua giustizia, attende da
filosofo il momento propizio alla sua gloria, poiché il Vendemiatore
vide BONAPARTE col comando di un corpo numeroso di linea tanto ben
disposto, e regolato, trarre dall'estremo periglio la Convenzione,
e salvar Parigi dal furore di un nuovo disordine, che urtando libe-
ramente, poteva nelle sue rovine aprire la tomba a tutti i Cittadini :
un'operazione tanto salutare, li procurò dei potenti amici, li meritò la
pubblica ammirazio- ne, la riconoscenza nazionale; in questo giorno
egli trionfò di tutti i cuori: gli amici lo amavano teneramente, lo temevano
grandemente gl'inimici : il suo trion- fo fu molto dissimile a quello di
Mario, di Siila, di Cesare, e di Pompeo; questi volevano,
trionfando, signoreggiare, ed avvilire tutti i Romani: BONAPARTE
riponeva nella grandezza dei Francesi, e nella maggiore loro felicità il
suo trionfo, la sua gloria era di vincere., lasciando alla nazione di
trionfare. La prima azione di questo Giovine Guerriero fu
quella di sostenere nella Patria i diritti delle supreme podestà
contro un forte partito dei suoi, il qual voleva nella morte dei
Governanti assi- curare al disordine la sua dominazione, che è
quanto dire, a Lui viene affidata la grande impresa di frenare, di
avvilire gl'inimici interni della Patria, che sono i più potenti, i
più terribili, perchè i più sicuri di unire alla forza aperta i
funesti progressi di una domestica prodizione. Per tutto questo era
mal sicuro dell'istes^ ssl sua vita, perchè Comandante di tanti
altri armati troppo facili a cedere alla se- duzione di alcuni di quelli,
coi quali ol- tre ad aver comune la patria, erano del medesimo
sangue, divisi soltanto di sen- timento per la formazione di questo,
o dell'altro Governo* pure BONAPARTE superiore ad ogni pericolo,
va, come si disse, condotto dal suo genio a farsi il terrore dei
sediziosi, il salvatore dei Go- vernanti: molto più grande questa
im- presa di quella di Petrejo contro Catili- na, poiché questi
comandava all'aperto a piè dell'Alpi i suoi Armati, dove la co-
gnizione del luogo, e la sua ampiezza dava al Capitano in caso di perdita
il piano per una gloriosa ritirata. Quando per BONAPARTE il campo
di battaglia era Parigi; aveva pertanto comune con gl'inimici
gFistessi ostacoli, i medesimi pericoli, che anzi si facevano
maggiori per Lui; perchè doveva esser sempre nel sospetto, che
quella immensa popo- lazione rivoluzionata, inquieta per l'in-
certezza di un felice destino, potesse fornire ad ogni momento di un
maggior numero di soldati le legioni dei ribelli: con tutto questo
le sue disposizioni fu- rono così giudiziose, il suo coraggio tan-
to sorprendente, che con poco sangue sparso vinse interamente la fazion
nemi- ca, e levò ad essa ogni speranza di risor- gere, per tornare
contro di Lui a nuova pugna. Egli adunque, come Filopemene mandato
a guerreggiare contro gFistessi Greci suoi, non si disse per Lui
ventura il trionfar di loro, ma una soda virtù, mentre quelli, che
eguali han tutte le co- se, non possono che per virtù primeggia- re
sugli altri, e distinguersi più di loro. Se fu capace BON APARTE di
trionfa- re sugl'istessi suoi Francesi, e ciò non per se, ma per il
solo bene dei vinti, ra- gion voleva, che i Governanti ad una prova
tanto singolare d'amore, scegliesscio Lui Comandante in Capo dell'Armata
d'Italia, siccome gl'interpreti sicuri del voto universale dei Francesi,
per aprire cosi un nuovo campo di gloria ai suo valore, ed
assicurare a loro il bene della vittoria sugl'esterni nemici della
Francia. NAPOLEONE va senza ritardo al luogo, ^ove lo attende la
grandezza de' suoi destini; quivi essendo si mostra a tutti i suoi,
come Marc'Autonio mirabi- lissimo nella idea delle sue imprese, le
concepisce quali dovevano essere nel- la mente di un regnante; e più di
Marc" Antonio l'eseguisce con facilità, mentre questi mancava
di una pronta attività per una felice esecuzione. È dunque BO-
NAPARTE, dove nasce l'Appennino e mancan l'Alpi, fra strette gole ed
inacces- sibili dirupi, in quei luoghi istessi prati- cati altra
volta con bravura da un Fla- minio, da un Postumio celebratissimi
Capitani di Roma; quivi egli è a fronte di un inimico, che si avanza
vittorioso da Voltri per battere Monteligino, ulti- mo trinceramento
repubblicano, di dove poi andar più oltre con maggior spedi- tezza,
perchè minori gli ostacoli del luo- go, ed arrivare una volta a por piede
sul terreno Francese, per risvegliare così, ed animare il partito
nemico delia liber- tà. Con tutto questo che pareva tanto prossimo
ad eseguirsi, BONAPARTE nelle concepite disposizioni guerresche, ve- de
sicura l'occupazione dell'Italia; e più oltre andando, non vede tanto
incerto l'approssimarsi alla Capitale dell'Alema- gna: le grandi
distanze, gl'infiniti perico- li, che si frappongono, non lo
distraggo- no un momento dal porsi sulle mosse per dar principio
all'opera, e giungere ad occupare la grandezza del suo fine: i modi
sono presti per vincere; in caso di mancanza, sono pronti gli altri per
trarre dalla sua difesa gli utili di una grande vittoria. Sagace
nella previdenza di tutte le cose, passa con risolutezza dallo
stato di difesa, a quello di offesa; e mentre si occupava rinimico a
vincere le resisten- ze del Capo di Brigata Rampon, BONA- PARTE,
seguitato dai prodi Generali Berthier, e Massena, dirige le truppe
dei suo centro, e della sua sinistra sul fian- co, e alle spalle
degli Alemanni. Questa manovra tanto difficile nel luogo., ed eseguita
sugl'occhi di un inimico vigilantis- simo, preparò la memorabile vittoria
di Montenotte, e la decise; poiché simile ad Alessandro, e a Pirro
nella prestezza delle disposizioni, nell'impeto, e violen- za del
conflitto, divise il corpo di Beau- lieu dagli Austro-Sardi; e mentre
batteva un corpo, l'altro era tenuto a bada, e poi piombando su di
questo, ambedue furon vinti, disordinati, dispersi; la conseguen-
za di ciò fu l'essersi reso padrone del Cairo, di Dego, e della posizione
impor- tantissima di santa Margherita, per cui trovossi al di là
delle cime dell'Alpi, su i declivi, che guardano la bella Italia.
La impresa non fu strepitosa soltanto per essere stata eseguita nel breve
corso 3o di quattro giorni, ma perchè opera di
un Capitano di soli ventisette anni, come Pompeo nell'Affrica
contro Domizio della Fazion Mariana, e Jarba Re de' Mori suo
aleato, per cui questi ebbe da Siila, al- lora Dittatore in Roma, il
titolo di Gran- de. BONAPARTE però più grande di Pompeo per aver
superatigli ostacoli del- la natura in un con quelli opposti
dall'ar- te militare la più studiata, la più per- fetta.
A che ricordarsi più con meraviglia del passaggio dell'Alpi fatto
da Anniba- le? sebben'egli partito dal Rodano con la sua armata di
Numidi, e di Spagnuoli per passar le Gole transalpine, e le Alpi*
per nove giorni di cammino fino alle sue vet- te combatter dovesse
ad ogni passo i Gal- li che in imboscata e con prodizione at-
traversavano, estremamente molesti, la sua gita; e negli altri sei giorni
impiegati nella discesa, niuno essendovi più, che il molestasse,
pure le nevi altissime, i ghiacci, e le bufere rendessero tanto più malagevole,
e pericoloso il suo tragitto: ciò non pertanto più maraviglioso fu
il salire, e il discendere di BONAPARTE, quando in questo si deve
aggiugnere il dover vincere passo passo un inimico, che in un
momento era pronto alla di- fesa, e nell'altro prontissimo
all'Offesa; per cui gli avvenne di essere una qualche volta
respinto; lo che sembrava, e ciò a tutti, una volontaria ritirata,
tant'era presto a riprendere il combattimento con più veemenza, e
risoluzione; come chi, per accrescere il colpo contro le mura
nemiche, par si discosti per levar più alto l'ariete, e la mazza ferrata
a far maggiore la gravità del colpo, e più sol- lecita la sua
distruzione: ed è per questo che il General Augereau forza le Gole
di Millesimo; Menard, e Joubert discac- cian l'inimico da tutte le
posizioni di quei contorni; ma l'inimico è sulle altu- re a
riprenderne delle nuove, e più for- midabili per cui i Francesi in ogni
ora sono chiamati a nuovi disastrosissimi conflitti essi vi vanno
non un movimento pronto, ben regolato e risoluto, in ogni luogo perciò
sormontano il potere dell'inimico. Dopo fatiche così ecceden- ti,,
e sì luminosi vantaggi più non si teme della vittoria; in fatti quando
sugl'albo- ri del sesto dì della battaglia Beaulieu gli attacca,
supera il villaggio del Dego, respinge il general Massena per tre
vol- te assalitore, Victor, e Lannes per ordine di BONAPARTE
piombano sulla sini- stra dell'inimico; ma l'inimico è più for- te;
le truppe repubblicane vacillano per un istante; indi ritornano
all'assalto; raddoppiano il coraggio, e Dego è nuova- mente in lor
potere. Il piano delle ope- razioni dei diversi corpi d'armata è
trop- po concorde perchè il risultato non la- sci mai d'essere
utilissimo al loro avan- zamento: i suoi capi sono sempre insie- me
a combinare su d'un piano troppo attivo e giudizioso, mosso e regolato
dal capo supremo, che lo ideò, che lo compose. La valle pertanto di
Borimela, e quella del Tanaro sono aperte ai repubblicani; le
trincee di Montezimo, e di Ceva sono superate; passano questi il Tanaro,
e ri- nimico è in piena ritirata per la strada del Mondovì: sul far
del giorno i due eserciti sono a fronte l'uno dell'altro; co- mincia nel
villaggio di Vico la zuffa, Fio- rella, e Dammartin attaccano con
impe- to il ridotto, che cuopre il centro del ne- mico, questi
abbandona il campo, passa la Stura, e si pone fra Cuneo, e Chera-
sco entro un recinto bastionato; Masse- na si muove contro, e rovescia le
gran guardie nemiche. Dopo questa operazio- ne i Francesi si
trovano vicino a Turino: il General Colli propone una sospen- sion
d'armi; BONAPARTE vi acconsen- te con la condizione, che vengano a
lui rimesse Cuneo, e Tortona; il Re non sa non approvarlo, e
BONAPARTE con ciò dà alla sua armata in Italia una situazio- ne
sicura ed imponente, e vede aperta senz'altri ostacoli la sua
libera comunicazione con la Francia. Ogni giorno pertanto crescono gli
armati,, BONAPAR- TE gl'impiega al passo del Pò nella gran- de
battaglia di Lodi; con marce, e con- tromarce cuopre air inimico i veri
suoi movimenti, si fa strada tra l'Adda, e il Ticino per dirigere
la sua marcia sopra Milano, mentre Beaulieu ingannato, si
affaticava a fortificarsi tra il Ticino, e la Sesia. Il resultato di
queste felici ope- razioni non aveva in se tutto, che si vo- leva,
per andare senz'altro intoppo dritto dritto alla capitale della
Lombardia. Sono eccellenti le disposizioni del generale inimico per apporne dei
nuovi. Questi ritardarono la marcia, non l'impe- dirono', Beaulieu col
suo corpo d'armata dall'opposta parte dell'Adda guarda con numerosa
artiglieria l'estremità del pon- te di Lodi, che lo cavalca per
l'estensione di cento tese; non volle tagliare il ponte, lusingandosi
cosi di meglio diri- gere il fuoco alla distruzione di tanti ne-
mici insieme strettamente riuniti al suo passaggio. Il soldato francese,
sotto un tanto Duce, conosce il grande pericolo, ma troppo è
animato a superarlo; vede che il passo del ponte è angusto e mici-
diale, ma ad impadronirsene ve li spro- na l'onore, e gl'interessi della
patria: la morte di alcuni aprirà il varco a molti, si muoja,
dicevan essi, purché si vinca. Quanti mai sono che vogliono essere
i primi, contenti di assicurare ai supersti- ti col loro sangue gli
utili d'una gran- de vittoria: il secondo hattaglione de'ca-
rahinieri precede l'armata francese ser- rata in colonna: i prodi si
presentano sul ponte, il fuoco dell'inimico è tanto ter- ribile e
continuato, che la testa della colonna stette in forse per alcuni momen-
ti a fronte di un sì alto pericolo, e se un solo istante di più
s'indugiava, tutto era perduto:Berthier, Massena, Cervoni, Du- prat
si precipitarono alla testa delle trup- pe, e fissarono la fortuna ancor
vacillan- te: l'inimico nell'istante è rovesciato, l'Adda è aperta
alla cavalleria, la vitto- ria è definitivamente decisa. Più di
Cesare glorioso BONAPARTE poiché quello sostenne il ponte sul Aisne
contro Galba, che con le sue forze nu- merosissime tentava superarlo;
quando l 'a i t ro acquistò il ponte di Lodi contro gli Alemanni,
che lo guardavano tanto for- ti: Noyon atterrita apre le porte a
Cesa- re. Milano festeggiante incontra BONA- PARTE; in quello Noyon
teme il suo ti- ranno; in questo Milano ama il suo bene- fattore:
Cesare vinceva per far schiavi i vinti: BONAPARTE trionfa per farli
li- beri. Dalle divisate azioni guerresche chi non vede
riunito in BONAPARTE il co- va ^gio, l'operativa prontezza di
Marcel- la; ìa circospezione, ed il provedimento Fabio Massimo?
Conobbe troppo be- > bON APARTE la importanza delle <e
imprese; e potè dire molto avanti to quello, che solo aveva pensato
di . Si valse opportunamente dei suoi .ta^i con non lasciarsi alle
spalle al- trui inimico: vinto uno dalle sue armi, gli altri
maravigliati, ed atterriti dalle sue vittorie fecero delle proposizioni
di pace, che furono accordate con i vantag- gi dovuti al vincitore;
i quali però non portavano il vinto ad un odioso avvili- mento.
Riunì BONAPARTE in queste opera- zioni la esecuzione dei pensieri
di Mar- cello in Siracusa; di Fabio Massimo nella capitale de' Tarentini,
popolazioni da loro debellate. Marcello per trattato leva
molti bel- 1 issimi simulacri, perchè servissero di ornamento alla
sua patria; la quale siuo allora non aveva, ne avuti, nè veduti ab-
bigliamenti cosi gentili ed isquisiti. Fabio Massimo trasse fuori denari e
ric- chezze, lasciando ai Tarentini i loro nu- mi sdegnati che eran
di marmo. Marcello fu applaudito dal popolo e condannato dagli
uomini di probità. Fabio Massimo fu celebrato da questi, e non curato
dagli altri. Siro Contri, «Il regime fascista». Siro Contri. Contri.
Keywords: il Napoleone di Hegel, del bello, il bello, assiologia, poetica
vichiana, Mussolini, discorso, duce, logica di Hegel, filosofia dell’essere, l’essere
e gli esseri, Hegel contraddetto, il bello, pulchrum, archeo-scolastici,
paleo-scolastici, Aquino, aristotele, il vero, l’errore di Croce, l’equivoco di
Croce, percezione del bello, l’armonia e il bello, del storicismo alla
storiosofia, storiosofia o filosofia della storia, interpretazione dommatica di
Aquino, la negazione di hegel, il concetto puro di Hegel, la negazione come
metodo in Hegel, nihilismo e negazione in Hegel, l’errore di Hegel, il sofisma
di Hegel, Gentile e il bello. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contri” – The
Swimming-Pool Library. Contri.
Grice e Corbellini: l’implicatura
conversazionale del darwinismo politizzato – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Cadeo,
Cardeo). Filosofo italiano. Grice: “I like Corbellini; of course he has to
defend science versus what he calls – alla Popper? – ‘pseudoscenza’ in Italy,
which he calls ‘il paese della pseudoscenza’ – I thought that was Oxford!” I
sui interessi riguardano la grammatical del vivente, la storia della medicina e
la bioetica. Insegna Roma. Si laurea con “L’epistemologia evoluzionistica”.I
suoi interessi di studio hanno riguardato la storia e la filosofia della
biologia evoluzionistica, delle immunoscienze e delle neuroscienze, per
includere poi anche lo studio della storia della malaria e della malariologia
in Italia, delle ricadute della genetica molecolare, delle implicazioni
dell’evoluzione e l'evoluzione. L'approccio storico-epistemologico all'evoluzione
trovato una sintesi nella ricostruzione della storia delle idee di “salute” e
malattia e delle trasformazioni metodologiche a cui è andata incontro la
ricerca delle spiegazione causale della salute. La sua ricerca si è orientata
anche verso l'esame delle radici delle controversie bioetiche. Difende un'idea
non confessionale della bioetica, che ha radici filosofiche in uno scetticismo
morale radicale, naturalistico e non relativista (Bioetica per perplessi. Una
guida ragionata, Mondadori). Coltiva anche
un interesse per la percezione sociale e il ruolo della scienza nella
costruzione del valore civile. Sostiene che l'invenzione e l'espansione del
metodo scientifico hanno consentito e favorito l'evoluzione del libero mercato
e della stato di diritto, ovvero che la scienza ha funzionano come
catalizzatore nella costruzione e manutenzione dei valori critico-cognitivi e
morali che rendono possibile il funzionamento del sistema liberal-democratico. Altre opere: “Nel Paese della Pseudoscienza.
Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà” (Milano, Feltrinelli); “Cavie?
Sperimentazione e diritti animali” (Bologna, Il Mulino); “Tutta colpa del
cervello: un'introduzione alla neuro-etica” (Milano, Mondadori Università,;
Scienza, Torino, Bollati Boringhieri); “Dalla cura alla scienza” (Milano,
Encyclomedia Publishers); “Scienza, quindi democrazia, Torino, Einaudi); “Perché
gli scienziati non sono pericolosi” (Milano, Longanesi); “La razionalità
negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia (con Giovanni Jervis), Torino,
Bollati Boringhieri, EBM); “Medicina basata sull'evoluzione” (Roma-Bari,
Laterza); “Bi(blio)etica” (Torino, Einaudi); “Breve storia delle idee di salute
e malattia” (Roma, Carocci); “La grammatica del vivente. Storia della biologia
e della medicina molecolare” (Roma-Bari, Laterza); “L'evoluzione del pensiero
immunologico” (Bollati Boringhieri, Torino). L’errore di Darwin. Introduzione; Dall’etica medica alla bioetica; Il senso
morale umano e le controversie bioetiche; 3. Sperimentazione sull’uomo e
consenso informato; Scelte di fine vita; Scelte di inizio vita; Medicina
genetica; Sperimentazione animale; Medicina dei trapianti e definizione di
morte; Etica della ricerca responsabile; Medicina rigenerativa e staminali; Neuroetica;
Etica ambientale e OGM; Etica della comunicazione scientifica, della percezione
della scienza e del «gender»; Indice dei box; Indice analitico; Indice dei
nomi. Come nota C. nella prefazione all’edizione italiana del libro di Ru- bin,
il tentativo di applicare l’approccio evoluzionistico alla filosofia politica
spesso rischia di venire frainteso. Il fraintendimento più comune e pericoloso
deriva dalla mancata distinzione tra il darwinismo politicizzato e la politica
darwiniana: il primo è costituito, come è accaduto nel caso del “social darwinismo”,
dall’nterpretazione strumentale e priva di coerenza logica o di basi scientifiche
delle idee darwiniane per difendere qualche particolare ideologia politica»; la
seconda, invece, consiste nell’«uso delle conoscenze evoluzionistiche sulla
natura umana per meglio comprendere le origini delle preferenze politiche individuali,
la loro distribuzione sociale e le dissonanze tra gli adattamenti ancestrali e
l’ambiente attuale. Ridley si mostra ben consapevole del rischio di trasformare
la politi- ca darwiniana in ideologia. Questo, tuttavia, non gli impede di
avanzare alcuni suggerimenti di politica economica Cfr. Skyrms, The Evolution
of Social Contract, e Festa “Teoria dei giochi, metodo delle scienze sociali e
filosofia della politica”, Prefazione a de Jasay, Scelta, contratto, consenso).
Alcune immani tragedie che hanno segnato la storia degli ultimi due secoli
sembrano dovute, almeno in parte, all’ignoranza – e, talvolta, alla ne- gazione
– di alcune caratteristiche essenziali della natura umana. Per esempio, Ridley osserva
che Marx vagheggia un sistema sociale che avrebbe funzionato solo se fossimo
stati degli angeli, ed è fallito perché siamo invece degli animali. Singer, Una
sinistra dawiniana. Politica, evoluzione e CO0OPERAZIONE, Torino, Edizioni di
Comunità, Arnhart, Darwinian Conservatism, Exeter (UK), Imprint Academic, Rubin,
La politica secondo Darwin; Corbellini, “Politica darwiniana vs darwinismo
politicizzato”, prefazione a Rubin, La politica secondo Darwin; Ridley.Origini.Virtu.indd
Le origini della virtùsi vedano soprattutto gl’ultimi tre capitoli del saggio –
che gli sembrano compatibili con le nostre tendenze evolutive. La prospettiva
filosofico-politica che ne emerge è un libe- ralismo con tendenze anarchiche,
che non sarebbe inappropriato chiamare anarco-liberalismo. Tale prospettiva,
ispirata dalla grande fiducia di Ridley negl’ISTINTI CO-OPERATIVI e altruistici
degl’esseri umani, sfocia infatti nella difesa di un ordine politico-economico
nel quale il ruolo del gover- no e dell’intervento pubblico è ridotto ai minimi
termini: Recuperiamo la visione di Kropotkin, che immaginava un mondo di liberi
individui. Non sono così ingenuo da pensare che ciò possa accadere da un giorno
all’altro, o che qualche forma di governo non sia necessaria. Ma metto se-
riamente in dubbio la necessità di uno Stato che decide ogni minimo dettaglio
della nostra vita e si attacca come una gigantesca pulce alla schiena della
nazione. D’altra parte, Ridley si rende conto che, mentre le soluzioni
politico-economiche da lui favorite si accordano con alcune tendenze evolutive
umane, confliggono però con altre. Per esempio, egli osserva che certe
istituzioni economi- camente adeguate nella società moderna, come la proprietà
privata, possono entrare in tensione con le tendenze primi- tive
all’egualitarismo, alla redistribuzione e al rifiuto dell’accumulazione di
ricchezza. L’analisi dei conflitti tra le moderne istituzioni
politico-economiche e le nostre ten- denze primitive è uno degli argomenti
centrali del già citato libro di Rubin.Le “Imperfezioni umane” di Pani e C. Covato
Mailing Le “Imperfezioni umane” di Pani e C. Fornire un punto di vista
innovativo, cioè evoluzionistico, di tutto quello che riguarda la salute e le
disfunzioni comportamentali, e suggerire qualche punto di vista originale sul
perché nonostante le dissonanze evolutive, la condizione umana è globalmente
migliorata. È questo l’obiettivo del libro dal titolo “Imperfezioni umane.
Cervello e dissonanze evolutive: malattie e salute tra biologia e cultura”
(Rubbettino), scritto da Luca Pani e C., Roma, Centro studi americani a Via
Caetani. Dopo i saluti di Messa, direttore Centro studi americani,
interverranno alla presentazione moderata da Micaela Palmieri (Tg1) monsignor
Lorenzo Leuzzi, Vescovo ausiliare di Roma, Mingardi, direttore generale
Istituto Leoni, Ippolito, professore di storia della Filosofia a Roma. Negli
ultimi vent’anni una nuova ipotesi di lavoro si è fatta strada in ambito medico
sanitario, definita nel mondo anglosassone «evolutionary mismatch» (dissonanza
evoluzionistica) – raccontano gl’autori -. Questa teoria assume, in pratica,
che l’ambiente nel quale la nostra specie ha acquisito i suoi tratti adattativi
sia drammaticamente cambiato in un tempo troppo breve perché predisposizioni o
tratti genetici e fenotipici dell’organismo fossero in grado di adeguarsi, per
selezione naturale, alle novità”. Le conseguenze di queste dissonanze?
“Disfunzioni o disturbi o rischi che richiedono un approccio medico”. “Il
libro è diviso in tre parti – spiegano Pani e Corbellini – Si inizia con un’illustrazione
dei presupposti di qualunque strategia motivazionale, cioè dei meccanismi che
sono alla base del piacere e delle ricompense, e da cui deriva – in ultima
istanza – la possibilità di acquisire nuove conoscenze che consentono di
affrontare le incertezze psicologiche che si accompagnano a qualunque
comportamento esplorativo. La riflessione prosegue con esemplificazioni di
risposte comportamentali che in particolari (o mutate) condizioni si
manifestano come malattie. Il terzo capitolo è dedicato in modo specifico al
comportamento alimentare e discute l’esempio più eclatante di dissonanza
evoluzionistica: il mismatch metabolico. Gl’ultimi due capitoli affrontano una
serie d’imperfezioni e predisposizioni comportamentali umane che scaturiscono
da compromessi evolutivi, e che risultavano vantaggiose o meno nel contesto
dell’adattamento evolutivo, mentre i cambiamenti ambientali determinati
dall’evoluzione culturale hanno generato, a loro volta, ulteriori fenomeni
disadattativi”. Nel dettaglio gli autori descrivono le dissonanze create
dai nuovi contesti di vita per quanto riguarda cicli del sonno, accesso al
cibo, comunicazione, cooperazione ovvero isolamento sociale, oppure di
comportamenti più complessi come la rabbia aggressiva o l’altruismo; ma anche
le preferenze politiche o l’intelligenza. Negli ultimi capitoli del volume
emergono anche idee e ipotesi relative a scoperte cognitive e innovazioni che
hanno migliorato la condizione umana, o reso possibili cambiamenti
comportamentali incredibili.Il concetto di libero arbitrio implica che sussista
nelle persone, dato un certo grado di sviluppo cognitivo e morale, la capacità
di decidere e di agire, scegliendo tra diverse alternative disponibili, senza
essere condizionati da fattori fisici o biologici di qualunque genere. Si
assume, in altri termini, che le persone maturino una cosiddetta “agenticità”,
cioè una capacità di agire e decidere in un quadro di consapevolezza degli
effetti prodotti, che non è riducibile o spiegabile sulla base dei processi
neurobiologici che hanno luogo nel cervello e/o alle leggi fisiche che li
governano. Di libero arbitrio si può parlare, comunque, in molti modi e da
diverse prospettive: filosofica, metafisica, giuridica, psicologica, etc.
Nel corso dell’evoluzione della specie, abbiamo sviluppato strutture cerebrali
che ci fanno appunto credere di essere liberi e poter decidere in completa
autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro straordinario
successo di animali sociali Negli ultimi decenni le neuroscienze
cognitive e comportamentali hanno profondamente messo in dubbio, con una
quantità crescente di prove, la visione classica di libero arbitrio, aprendo un
dibattito scientifico ancora in corso. Qual è la sua posizione
all’interno del dibattito? La mia posizione è che il libero arbitrio è
una credenza senza senso, come aveva spiegato bene, molto prima delle
neuroscienze, il filosofo Spinoza. Se ci fosse qualcosa come il libero arbitrio,
allora davvero potrebbe esserci qualsiasi cosa ci possiamo immaginare.
Tuttavia, è vero che,nel corso dell’evoluzione della specie,abbiamo sviluppato
strutture cerebrali che ci fanno appunto credere di essere liberi e poter
decidere in completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il
nostro straordinario successo di animali sociali. Il libero arbitrio è
un’illusione, ma un’illusione molto produttiva. L’intuizione di ritenersi
liberi, in un senso vago o indefinito, è una forma di autoinganno, come tante
altre che sono prodotte dalla nostra coscienza, che nel tempo è stata
socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno, cioè un senso
individuale di responsabilità, con tutte le conseguenze che ne derivano anche
per l’organizzazione di un ordine sociale efficiente sulla base di un sistema
di obblighi. Ovviamente questa strategia è modulata da specifiche
condizioni ecologiche e sociali, per cui in alcuni contesti questa illusione si
può espandere e diventare la base di sistemi anche molto progrediti per qualità
di vita, come quelli occidentali, mentre in altri ambienti di vita sarà più
adattativo che tale intuizione e illusione non maturi neppure, o maturi in
forme che sono funzionali a all’accettazione di un comportamento
consapevolmente eterodiretto. L’intuizione di ritenersi liberi è una
forma di autoinganno che nel tempo è stata socialmente addomesticata per
inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di
responsabilità Quali sono i rapporti fra emozioni e pensiero razionale?
Con quali modalità le due componenti guidano il comportamento umano? In
che misura siamo (o possiamo essere) consapevoli di queste influenze?
Non è del tutto chiaro nei dettagli come interagiscano le strutture del
cervello che controllano le emozioni o le reazioni impulsive, e quelle che controllano
la pianificazione di azioni calcolate. Quello che si sa è che alcune
condizioni, come trovarsi di fronte un’altra persona preferibilmente con le
proprie stesse caratteristiche somatiche o un parente, induca l’inibizione di
un comportamento utilitaristico, cioè volto a massimizzare qualche beneficio in
generale a prescindere dai danni che si possono arrecare alle persone; ovvero
che induca un comportamento di accudimento o altruistico, di carattere
parentale o reciproco. Mentre situazioni contrarie all’ordine morale appreso
socialmente e attraverso l’educazione scatenano quasi automaticamente reazioni
di disgusto o qualche altra avversione emotiva (ad esempio, rabbia o
disprezzo). Se non ci sono di mezzo contatti fisici, o rapporti parentali
con altre persone, o impulsi emotivi avversi, le persone possono applicare un
calcolo razionale e quindi scegliere un’azione in base all’utilità percepita o
calcolata. Comunque esistono diverse teorie su come emozioni e ragione
entrano in gioco nelle scelte in generale, e in quelle morali in particolare.
Quello che si sta sottovalutando, penso, è il ruolo che le emozioni, che
mediano i valori morali, possono giocare nell’apprendimento di comportamenti,
che a loro volta retroagiscono sui valori, cioè che possono cambiare nel tempo
le predisposizioni delle persone nel rispondere a situazioni identiche o
diverse. In altre parole, le emozioni servono direttamente alla sopravvivenza
ed entrano in azione quando è minacciata l’omeostasi funzionale a qualche
livello, e quindi servono a premiare o punire i comportamenti appresi sulla
base della funzionalità che manifestano. Ma questi nuovi comportamenti possono
far scoprire nuovi valori, cioè trovare premianti strategie diverse da quelle
prevalenti nella società, e quindi modulare le emozioni originarie, evitando
che gli impulsi emotivi inducano risposte non calcolate e che potrebbero essere
deleterie. In fondo, dato che noi occidentali sul piano genetico siamo
praticamente uguali agli altri gruppi umani, qualcosa del genere potrebbe spiegare
come ci siamo affrancati moralmente e politicamente da schemi decisionali
tribali od oppressivi. Credits to Unsplash. Parliamo del legame tra
violenza ed evoluzione: qual è il ruolo ricoperto dall’aggressività
nell’evoluzione della specie, e quali sono le possibili determinanti genetiche
del comportamento aggressivo? L’aggressività, come la cooperazione,
è stata un fattore chiave per la sopravvivenza e l’evoluzione della nostra
specie. Come tutti i tratti, l’aggressività è polimorfica e quindi ci sono
persone geneticamente più predispostedi altre all’aggressività. È
verosimile che la selezione sociale abbia col tempo reso più vantaggiosi i geni
della cooperazione in alcuni contesti ecologici, e quindi favorito il processo
socio-culturale che nell’età moderna ha ridotto drammaticamente la violenza sul
pianeta, e soprattutto nel mondo che ha inventato la scienza e ha abbracciato
lo stato di diritto. I governi occidentali continuano giustamente la lotta
contro la criminalità e la violenza, ma nella storia del pianeta non c’è mai
stata così poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in
generale, rispetto a oggi. Pinker ha dimostrato questo fatto in un
dettagliatissimo e acuto saggio, “Il declino della violenza”. Nella
storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non
solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi E per quanto
riguarda la differenza di genere? Cosa sappiamo dei rapporti tra cervello
maschile, cervello femminile e comportamento aggressivo? Le differenze di
genere nel comportamento aggressivo esistono. Studiando complessivamente
l’aggressività di bambini e bambine si è visto che i due generi sono egualmente
aggressivi verbalmente, mentre i bambini lo sono di più fisicamente rispetto
alle bambine. Nel complesso i bambini sono più aggressivi delle bambine sul
piano dell’aggressione diretta. Mentre le bambine sono indirettamente
aggressive anche più dei bambini. Queste differenze, come altre, dipendono
verosimilmente da stimoli ormonali nel corso dello sviluppo e rispondono a
strategie adattative selettivamente vantaggiose nell’ambiente dell’evoluzione.
Il modo in cui maturano il cervello maschile e femminile dipende molto dai
contesti e si conoscono diversi fattori ambientali e culturali che influenzano,
ad esempio, la violenza a carico delle donne. Ci sono prove concrete del fatto
che il patriarcato e la sua istituzione giuridica sono fattori importanti per
la persistenza della violenza maschile ai danni delle donne, e del fatto che
ridurre il dominio maschile attraverso delle adeguate politiche sociali riduce
la violenza maschile e che la cooperazione tra donne riduce la violenza
maschile sia contro le donne sia contro altri uomini. Parliamo ora delle
differenze individuali nel controllo degli impulsi. Non ci sono moltissimi
dati, ma uno studio di qualche anno fa ha esaminato cosa avviene nel cervello
quando si fanno scelte impulsive, che svalutano una ricompensa ritardata,
ovvero come viene rappresentata dinamicamente nel cervello la svalutazione del ritardo
quando si sta aspettando e anticipando una ricompensapossibile che è stata
desiderata e scelta. La corteccia prefrontale ventromedialemanifesta uno
schema caratteristico di attività durante il periodo di ritardo nel ricevere la
ricompensa, oltre a esercitare un’attività modulatoria durante la scelta, che è
coerente con la codificazione del tempo durante il quale avviene una
svalutazione del valore soggettivo. Lostriato ventrale esibisce a sua volta uno
schema di attività simile, ma preferenzialmente negli individui impulsivi. Un
profilo contrastante di attività collegata al ritardo e alla scelta è stata
osservata nella corteccia prefrontale anteriore, ma selettivamente in persone
pazienti, cioè non impulsive. Quindi corteccia prefrontale ventromediale e
corteccia prefrontale anteriore esercitano – sebbene ciò sia ancora da chiarire
come – influenze modulatorie ma opposte rispetto all’attivazione dello striato
ventrale. Ovvero quell’esperimento ci dice che il comportamento impulsivo e
l’autocontrollo sono collegati a rappresentazioni neurali del valore di future
ricompense, non solo durante la scelta, ma anche nelle fasi di ritardo
post-scelta. Cosa può voler dire tutto questo per il nostro discorso? Mi
lasci citare ancora Spinoza, per il quale è «libera quella cosa che esiste e
agisce unicamente in virtù della necessità della sua natura». La vera libertà,
è autonomia e indipendenza, non arbitrio o scelta indeterminata. Quindi si è
tanto più liberi e non soggetti a impulsi, quanto più alcune strutture del
nostro cervello, altamente connesse e addestrate dall’esperienza, lo rendono
autonomo e meno soggetto o costrizioni esterne. Credits to
Unsplash.com Quali sono le possibili influenze delle disfunzioni cognitive e
dei fattori ambientali sulla capacità decisionale (anche ai fini
dell’imputazione penale)? Può condividere con noi qualche caso di studio?
Casi di studio ce ne sono diversi, ma quelli al momento più esemplari
riguardano gli effetti delle varianti alleliche del gene della mono-amin-ossidasi
A, detto anche “gene del guerriero”, in quanto collegato all’aggressività su
basi osservazionali mirate. In sostanza, le persone con la variante che produce
meno mon-amino-ossidati A. rispondono in modi più aggressivi e violenti,
rispetto a chi esprime livelli più alti. Il fatto interessante è che se
queste persone predisposte all’aggressività sono state allevate in ambienti
accoglienti, esprimono un’aggressività minore rispetto a omologhi genetici
cresciuti in famiglie disagiate. Anche dati sperimentali in ambito psicologico
e di economia comportamentale dimostrano che le aggressioni hanno luogo con
maggiore intensità e frequenza, quando provocate in un contesto sperimentale, soprattutto
in soggetti con una bassa attività di mono-amino-ossidati A. Gli studi sperimentali mostrano anche che il mono-amin-ossidati
A è meno associato con la comparsa dell’aggressione in una condizione di bassa
provocazione, ma predice più significativamente il comportamento aggressivo in
una situazione molto provocatoria. Esiste ormai una letteratura
sterminata anche sui casi di persone con anomalie morfologiche e funzionali
dell’amigdala che regolarmente esprimono un profilo sociopatico, ovvero che non
provano emozioni negative quando provocano sofferenze in altri individui. Si
conoscono inoltre casi di tumori cerebrali o lesioni neurologiche che alterano
la personalità individuale, e non poche persone hanno commesso crimini in
quanto un tumore cerebrale ha alterato le loro capacità decisionali. La memoria
del testimone: in particolare, come si accerta l’attendibilità della
testimonianza e quali sono i principali metodi di verifica? Il sistema
giudiziario si fonda sulla memoria: interrogatorio/confronto, testimonianze,
ricordo dei giurati al momento di discutere il verdetto. Ma la memoria umana è
falsata: il cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a
false memorie. Gli stati emotivi influenzano la qualità della memoria. La
nostra storia personale influenza il modo in cui ricordiamo. Gli psicologi e
gli esperti studiano soprattutto il problema della testimonianza oculare,
perché in ben tre casi su cinque le identificazioni si rivelano
sbagliate. Esistono diversi metodi di controllo/verifica e volti a
ridurre gli errori nelle testimonianze. Uno di questi analizza per esempio
l’accuratezzadella testimonianza oculare e delle modalità di interrogatorio del
testimone, per arrivare a una probabilità relativa al caso. Il
sistema giudiziario si fonda sulla memoria. Ma la memoria umana è falsata: il
cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false
memorie. Esiste anche un diritto alla riservatezza per i nostri ricordi.
Nel senso che se io non intendo comunicare a qualcuno un ricordo, ho diritto a
tenerlo per me. Un giudice deve avere forti ragioni per forzare l’accesso alla
mia memoria, ed è comunque tenuto a rispettare i miei diritti fondamentali se
ci prova. Se davvero si riuscirà a costruire affidabili brain lie detector,
macchine della verità con accesso alle memorie cerebrali, si configurerà un
problema sul fronte di normare i limiti del diritto di un giudice far rilevare
impronte mnestiche del nostro cervello, i ai fini di un’indagine processuale.
Non tanto per la riservatezza del dato di interesse, cioè se un imputato o un
testimone mentono o dico la verità nel caso in specie, ma per il fatto che
quell’accesso può rendere noti dei fatti che non hanno rilevanza con l’indagine
e che potrebbero danneggiare la persona. Inoltre, alcuni farmaci e
tecnologie possono potenziare la memoria individuale. Ebbene, sarebbe lecito
consentire a o incentivare alcuni attori del procedimento giudiziario (giudici
e giurati) a potenziare le loro memorie ai fini di un più efficiente funzionamento
del sistema? La morale ha, o potrebbe avere, un fondamento
biologico? La morale ha un fondamento biologico. La morale serve a tenere
insieme i gruppi umani sociali, e ha creato le premesse sociobiologiche per
l’affermarsi della religiosità quale sistema di controllo incorporato nelle
persone e alimentato socialmente per garantire che i valori morali adattativi
in società meno complesse delle nostre siano mantenuti e trasmessi. In
prospettiva: quali sono a suo avviso i possibili intrecci tra acquisizioni neuroscientifiche
e diritto penale? Quale impatto potrebbero avere sugli attuali meccanismi di
attribuzione della responsabilità e di applicazione della pena? Su questo
punto la penso come chi ha detto che con l’arrivo delle neuroscienze, nel
diritto, cambia tutto e non cambia niente. Vale a dire che il concetto di
libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione
(caratteristico del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati,
perché privi di basi teorico-fattuali. Mentre si potrebbe affermare un concetto
consequenzialista(utilitarista) della concezione della pena, più vicino al
diritto positivo. Il concetto di libero arbitrio e quello intuitivo
di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale) sono
destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali In
Italia, come vengono accolte dalla magistratura le evidenze neuroscientifiche?
E a livello internazionale? L’Italia è all’avanguardia, se così si può
dire, nell’uso di prove neuroscientifiche in tribunale. Due sentenze in
particolare, Trieste e Como, riconobbero il ruolo causale di tratti
neurogenetici nel comportamento delittuoso, e di conseguenza attribuirono uno
sconto di pena. Le sentenze italiane sono state accolte con allarme in
diversi contesti internazionali. Ma c’è poco da fare: se queste conoscenze e
tecnologie acquisiranno una base sperimentalmente solida e consentiranno di
prevedere con buona attendibilità le predisposizioni a commettere reati, è
inevitabile che entreranno a far parte dello strumentario di lavoro dei
giudici. Tuttavia, esiste un’ambivalenza in Italia, come in altri paesi,
verso l’uso delle prove neuroscientifiche. Intanto in Italia non tutti i
giudici hanno ancora chiaro cosa sia una perizia neuroscientifica e ignorano
criteriepistemologicamente validi e formalmente definiti per scegliere periti
che apportino davvero prove scientifiche e controllate nel contesto di un
dibattimento processuale. Ciò sebbene la Cassazione abbia in sentenze recenti
fatto proprio lo Standard Daubert, che elenca regole di ammissibilità delle prove
nei processi statunitensi. Inoltre, si tratta comunque di definire cosa
implica una diminuita imputabilità per colui che commette un reato, in quanto
le sue azioni e decisioni dipendevano dal modo di funzionare del cervello e
dalla sua dotazione genetica. Questo individuo è meno libero di altri e quindi
anche meno responsabile, e quindi le sanzioni dovrebbero essere volte a ridurre
al minimo le probabilità di reiterazione del o dei reati. Il riferimento è
al noto scritto di Greene, J. Cohen, For the law, neuroscience changes nothing
and everything, in Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci. Ricerca Storia del
pensiero evoluzionista aspetti storici dell'evoluzionismo Lingua Segui Modifica
Evoluzione CollapsedtreeLabels- simplified.svg Meccanismi e processi
Adattamento Deriva genetica Equilibri punteggiati Flusso genico Mutazione
Radiazione adattativa Selezione artificiale Selezione ecologica Selezione
naturale Selezione sessuale Speciazione Storia dell'evoluzionismo Storia
del pensiero evoluzionista Lamarckismo Charles Darwin L'origine delle specie
Neodarwinismo Saltazionismo Antievoluzionismo Campi della Biologia
evolutiva Biologia evolutiva dello sviluppo Cladistica Evoluzione della vita
Evoluzione molecolare Evoluzione degli insetti Evoluzione dei vertebrati
Evoluzione dei dinosauri Evoluzione degli uccelli Evoluzione dei mammiferi
Evoluzione dei cetacei Evoluzione dei primati Evoluzione umana
Filogenetica Genetica delle popolazioni Genetica ecologica Medicina evoluzionistica
Genomica della conservazione Portale Biologia La prima traccia dell'idea
di un'evoluzione biologicadegli esseri viventi è la teoria sull'origine della
vitaattribuita ad Anassimandro di Mileto. Gli animali ebbero origine
nell'acqua, dove erano tutti simili a pesci; con il tempo sono saliti sulla
terraferma dove, liberati dalle scaglie, hanno continuato a vivere. Tale fu
anche l'origine dell'uomo. Con l'avvento del Cristianesimo, e fino almeno
all'evo moderno, l'indagine scientifica fu dominata dall'impianto filosofico
essenzialista di derivazione aristotelica, nel quale la possibilità stessa
della conoscenza si fonda sulla fissità della specie; inoltre, l'evoluzione non
si armonizza con la Genesi e non trova collocazione in un sistema di
riferimento che considera le specie immutabili perché perfette, in quanto
create ex nihilo da Dio. Nel XVII secolo, col riaffiorare delle antiche
concezioni, la parola evoluzione cominciò ad essere utilizzata come riferimento
a un'ordinata sequenza di eventi, particolarmente quando un risultato si
trovava, in qualche modo, già dall'inizio contenuto all'interno di essa. La
storia naturale si sviluppò enormemente, mirando ad investigare e catalogare le
meraviglie dell'operato di Dio. Le scoperte effettuate dimostrarono
l'estinzione delle specie, che fu spiegata dalla teoria del catastrofismo di
Georges Cuvier, secondo cui gli animali e le piante venivano periodicamente
annientati a causa di catastrofi naturali per poi essere rimpiazzate da nuove
specie create dal nulla. In contrapposizione ad essa, la teoria
dell'Uniformitarismo di James Hutton, del 1785, ipotizzava un graduale sviluppo
della Terra, il cui aspetto non era dovuto ad eventi catastrofici ma a un lento
processo perpetuatosi attraverso gli eoni. Darwin, nonno di Charles,
avanza delle ipotesi sulla discendenza comune affermando che gli organismi
acquisivano "nuove parti" in risposta a degli stimoli e che questi
cambiamenti venivano trasmessi alla loro discendenza; nel 1802 suggerì la
selezione naturale. Nel 1809, Jean-Baptiste Lamarcksviluppò una teoria simile
(l'"ereditarietà dei caratteri acquisiti"), la quale ipotizzava che
tratti "necessari" venissero ereditati col passaggio da una
generazione alla successiva. Queste teorie di trasmutazione furono sostenute in
Gran Bretagna dai Radicali come Robert Edmond Grant. In questo periodo l'opera
di Thomas Malthus, Saggio sul principio della popolazione, influenzò il libero
pensiero mostrando come l'incremento della popolazione mondiale fosse correlato
a un eccesso nelle risorse disponibili. Varie teorie furono proposte per
riconciliare la Creazione biologica con le nuove scoperte scientifiche, incluso
l'attualismo di Charles Lyellsecondo cui ogni specie aveva un suo "centro
di creazione" ed era progettata per un particolare habitatil cui
cambiamento portava inevitabilmente alla sua estinzione. Charles Babbage
ritenne che Dio avesse creato le leggi per un programma divino che operava per
la produzione delle specie e Owen seguì Johannes Müller nel pensiero che la
materia vivente avesse un'"energia organizzativa", una forza vitale
(Lebenskraft) che, dirigendo lo sviluppo dei tessuti, determinava l'arco di
vita degli individui e delle specie. AntichitàModifica GreciModifica
Ipotesi secondo cui un tipo di animale, perfino l'essere umano, potesse
discendere da altri tipi di animali erano state formulate dai filosofi greci
Presocratici. Anassimandro di Mileto suppose che i primi animali vivessero in
acqua, durante una fase umida del passato della Terra, e che i primi avi
viventi a terra della razza umana dovevano essere nati in acqua, e aver passato
solo una parte della loro vita sulla terraferma. Intuì anche che il primo umano
della forma conosciuta oggi doveva essere stato il figlio di un altro tipo di
animale, perché l'uomo ha bisogno di un lungo periodo di accudimento per
raggiungere l'autonomia. Empedocle di GIRGENTI; intuì che quello che noi
chiamiamo nascita e morte degli animali sono solamente il mischiarsi e il
separarsi degli elementi che formano "l'infinita tribù delle cose
mortali". Più in particolare, i primi animali e le prime piante erano
simili alle parti divise che formano quelli che vediamo oggi, qualcuna delle
quali sopravvisse unendosi in differenti combinazioni, e poi mescolandosi di
nuovo, finché "tutto riuscì come se fosse stato fatto di proposito, lì le
creature sopravvissero, essendo accidentalmente composte in modo
corretto". Altri filosofi diventarono più importanti nel Medioevo, fra cui
Platone, Aristotele, ed esponenti della scuola stoica di filosofia, credevano
che le specie di tutte le cose, non solo viventi, fossero state stabilite da un
progetto divino. Epicuro dell’ORTO ha anticipato l'idea della selezione
naturale. Il filosofo romano e atomista LUCREZIO espone queste idee nel suo
poema De rerum natura (Sulla natura delle cose). Nel sistema Epicureo, si è
ipotizzato che molte specie siano state generate spontaneamente da Gea in
passato, ma che solo le forme più funzionali siano sopravvissute e abbiano avuto
progenie. Gli epicurei non sembrano aver anticipato l'intera teoria
dell'evoluzione come la conosciamo oggi, ma sembra che abbiamo postulato una
teoria abiogeneticaseparata per ciascuna specie, piuttosto che postulare un
singolo evento abiogenetico con la differenziazione delle specie a partire da
uno o più organismi progenitori originari. Cinesi Antichi pensatori
cinesi come Zhuang Zhou, un filosofo taoista, hanno espresso varie idee su come
le specie biologiche si siano diversificate. Secondo Joseph Needham, il Taoismo
nega esplicitamente la fissità delle specie biologiche, e filosofi taoisti
ipotizzano che le specie abbiano sviluppato diversi attributi in risposta ad
ambienti differenti. Il Taoismo insegna che gli esseri umani, la natura e il
cielo sono in uno stato di "trasformazione costante" noto come il
Tao, una visione della natura in contrasto con quella più statica tipica del
pensiero occidentale. Romani Il poema di Lucrezio De rerum natura
fornisce la migliore spiegazione superstite del pensiero dei filosofi epicurei
greci. Esso descrive lo sviluppo del cosmo, la Terra, gli esseri viventi, e la
società umana attraverso meccanismi puramente naturalistici, senza alcun
riferimento al coinvolgimento soprannaturale. De rerum natura potrebbe aver
influenzato le speculazioni cosmologiche ed evolutive di filosofi e scienziati
durante e dopo il Rinascimento. Il suo punto di vista è in forte contrasto con
le opinioni di filosofi romani della scuola stoica come CICERONE, Seneca, e PLINIO
il Vecchio che avevano una visione fortemente teleologica del mondo naturale
che ha influenzato la teologia cristiana. CICERONE riporta che la visione
peripatetica e stoica delle natura riguarda fondamentalmente il produrre vita
"capace di sopravvivere nel migliore dei modi", cosa data per
scontata tra l'élite ellenistica. Agostino. Agostino in un dipinto di Lippi In
linea con il precedente pensiero greco, il vescovo e teologo del IV secolo,
Agostino di Ippona, scrisse che la storia della creazione nel libro della
Genesi, non doveva essere letta troppo alla lettera. Nel suo libro De Genesi ad
litteram ("Sul significato letterale della Genesi"), ha dichiarato
che in alcuni casi le nuove creature potrebbero essersi originate attraverso la
"decomposizione" di precedenti forme di vita.[9] Per Agostino — a
differenza di quelle che considerava le forme teologicamente perfette degli
angeli, il firmamento e l'anima umana — le "piante, uccelli e la vita
animale non sono perfetti… ma creati in uno stato di potenzialità".[10]
L'idea di Agostino che le forme di vita siano state trasformate
"lentamente nel corso del tempo" ha spinto padre Giuseppe
Tanzella-Nitti, docente di teologia presso la Pontificia Università della Santa
Croce di Roma, a sostenere che Agostino abbia suggerito una forma di
evoluzione. Osborn scrisse in From the Greeks to Darwin (1894): "Se
l'ortodossia di Agostino fosse rimasta una dottrina della Chiesa, la scoperta
dell'evoluzione sarebbe avvenuta molto prima di quanto non abbia fatto,
certamente nel corso del XVIII invece del XIX secolo, e la controversia su
questa verità della Natura non sarebbe mai sorta… Chiaramente la creazione
diretta o istantanea di animali e piante sembrava essere insegnata dalla
Genesi, Agostino lesse questo alla luce del nesso di causalità primaria e il
graduale sviluppo da imperfetto a perfetto spiegato da Aristotele. Questo
influente insegnante ha così tramandato ai suoi seguaci pareri strettamente
conformi alle vedute progressiste di questi teologi del nostro tempo che hanno
accettato la teoria evoluzione. In Storia della lotta della scienza con la
teologia nella cristianità (A History of the Warfare of Science with Theology
in Christendom, 1896), dove Andrew Dickson White scrisse sui tentativi di
Agostino di preservare l'antico approccio evolutivo alla creazione:
"Per secoli una dottrina largamente accettata era che l'acqua, la
sporcizia, e le carogne avevano ricevuto il potere dal Creatore per generare
vermi, insetti, e una moltitudine di piccoli animali; e questa dottrina era
stata accolta con particolare favore da Sant'Agostino e molti dei padri
fondatori, in quanto solleva l'Onnipotente dal creare, Adamo dal nominare, e
Noè dal vivere nell'arca con queste innumerevoli specie disprezzate. In De
Genesi contra Manichæos, Agostino dice: "Supporre che Dio creò l'uomo
dalla polvere con le mani è molto infantile… Dio non plasmò l'uomo con le mani
né soffiò su di lui con la gola e le labbra…" Agostino suggerisce in altri
lavori la sua teoria dello sviluppo degli insetti dalle carogne, e l'adozione
della vecchia teoria dell'evoluzione, mostrando che "alcuni animali molto
piccoli non possono essere stati creati nei giorni quinto e sesto, ma possono
essere stati originati in seguito dalla putrefazione della materia." Per
quanto riguarda l'agostiniana De Trinitate ("Sulla Trinità"), Andrew
White ha scritto che Agostino "…sviluppa finalmente l'idea che dietro la
creazione di esseri viventi c'è qualcosa di simile a un'evoluzione, di cui Dio
è l'autore ultimo, che opera attraverso le cause seconde; e, infine, sostiene
che alcune sostanze sono dotate da Dio del potere di produrre alcune classi di
piante e animali.. Una pagina del Kitāb al-Hayawān (libro degli animali) di
Al-Jāḥiẓ La filosofia islamica e la lotta per l'esistenzaModifica Anche se le
idee evolutive di greci e romani si estinsero in Europa dopo la caduta
dell'Impero romano d'Occidente, non furono abbandonate dai filosofi e
scienziati islamici. Nell'Epoca d'oro islamica, dall'VIII al XIII secolo, i
filosofi esplorarono nuove idee nel campo della storia naturale, quali la
trasmutazione dal non vivente al vivente: "dal minerale al vegetale, dalla
pianta all'animale, e dall'animale all'uomo. Nel mondo islamico medievale, lo
studioso al-Jahiz(776 -868) scrisse un libro sugli animali nel IX secolo, dove
descrive la catena alimentare.[16] Nel 1377, Ibn Khaldun scrisse il
Muqaddimah in cui afferma che gli esseri umani si sono sviluppati dal
"mondo delle scimmie", in un processo attraverso il quale "le
specie diventano più numerose". Alcuni dei suoi pensieri, secondo alcuni
commentatori, anticipano la teoria biologica dell'evoluzione. Nel primo
capitolo si legge: "Il mondo con tutte le cose in esso create ha un certo
ordine e la sua solida costruzione mostra nessi tra cause ed effetti,
combinazioni fra alcune parti della creazione ed altre, trasformazioni di
alcune cose esistenti in altre, in uno straordinario reticolo senza fine. Aquino
in un dipinto di Carlo Crivelli Durante il Medioevo, la cultura classica greca
decadde in Occidente. Tuttavia, il contatto con il mondo islamico, dove i
manoscritti greci erano stati conservati e ampliati, ben presto portò a
un'ondata massiccia di traduzioni latine nel XII secolo, che re-introdussero in
Europa le opere greche, nonché quelle del pensiero islamico. La maggior
parte dei teologi cristiani credeva che il mondo fosse progettato secondo una
gerarchia immutabile, la grande catena dell'essere o scala naturae, che
influenzò il pensiero della civiltà occidentale per secoli. Altri teologi erano
più aperti alla possibilità che il mondo si fosse sviluppato attraverso
processi naturali. AQUINO si spinse oltre il pensiero di Agostino nel sostenere
che i testi sacri come la Genesi non dovessero essere interpretati in modo
letterale, poiché ciò si poneva in conflitto con quello che i filosofi naturali
avevano imparato sul funzionamento del mondo naturale, e li vincolava dallo
scoprire nuove cose[non chiaro]. L'Aquinate pensava che l'autonomia della
natura fosse un segno della bontà di Dio, e che non vi era alcun conflitto tra
il concetto di un universo divinamente creato, e l'idea che l'universo si
potesse essere evoluto nel tempo attraverso meccanismi naturali.Tuttavia,
Tommaso contestava i sostenitori di Empedocle, che sostenevano che l'universo
avrebbe potuto svilupparsi anche senza un obiettivo di fondo.[21]
Rinascimento e IlluminismoModifica Comparazione di uno scheletro umano
con uno scheletro di uccello ad opera di Pierre Belon La filosofia meccanica di
Cartesio incoraggiò l'uso della metafora dell'universo come macchina, un
concetto che avrebbe caratterizzato la rivoluzione scientifica. Alcuni
naturalisti, come Benoît de Maillet, produssero teorie che sostenevano che
l'universo, la Terra, e la vita, si erano sviluppati meccanicamente, senza una
guida divina. Nel 1751, Pierre Louis Maupertuis virò verso un'idea più
materialista, scrivendo che le modifiche naturali si verificano durante la
riproduzione e si accumulano nel corso di molte generazioni, producendo razze e
specie nuove; una descrizione che ha anticipato il concetto di selezione
naturale.[22] La parola evoluzione (dal latino evolutio, "srotolare,
svolgere") è stata inizialmente utilizzata in riferimento allo sviluppo
embrionale; il suo primo impiego in relazione allo sviluppo della specie è
venuto nel 1762, quando Charles Bonnet la ha utilizzata per il suo concetto di "pre-formazione",
in cui le donne portavano una forma in miniatura di tutte le generazioni
future. Il termine ha poi guadagnato gradualmente il significato più generale
di crescita o sviluppo progressivo. Più tardi nel XVIII secolo, il filosofo
francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, uno dei più importanti
naturalisti del tempo, ha suggerito che le specie erano in realtà solo delle
varietà ben delineate, prodotte dalle modifiche, dovute a fattori ambientali,
di un organismo originale. Ad esempio, credeva che leoni, tigri, leopardi e
gatti di casa potessero avere tutti un antenato comune. Leclerc ha inoltre
ipotizzato che le circa 200 specie di mammiferi conosciute in quel periodo
potessero essere derivate da solo 38 forme animali originali. Le idee evolutive
del conte erano però limitate; credeva che ciascuna delle forme originali
fossero sorte per generazione spontanea e che ognuno fosse stata modellata da
"muffe interne" che limitavano la quantità di cambiamenti possibili.
Le opere di Buffon, Histoire Naturelle (1749-1789) e Époques de la nature
(1778), contengono teorie ben sviluppate sull'origine materialista della Terra;
la sua messa in discussione della fissità della specie è stata estremamente
influente.[24] Un altro filosofo francese, Denis Diderot, scrive che le
cose viventi possono essere sorte per generazione spontanea, e che le specie
sono in uno stato di costante evoluzione attraverso un processo in cui nuove
forme di vita sorgono continuamente, e possono sopravvivere o meno in base al
caso; un'idea che può essere considerata un'anticipazione parziale della teoria
della selezione naturale.[22] Tra il 1767 e il 1792, James Burnett, Lord di
Monboddo, incluse nei suoi scritti, non solo il concetto che l'uomo era disceso
dai primati, ma anche che, in risposta all'ambiente, le creature avevano
trovato metodi di trasformare le loro caratteristiche in lunghi intervalli di
tempo.[25] Il nonno di Charles Darwin, Darwin, pubblicò Zoonomi, dove suggerì
che "tutti gli animali a sangue caldo sono sorti da un filamento
vivente".[26] Nel suo poema Tempio della Natura (1803), Erasmus ha
descritto il progredire della vita dai minuscoli organismi viventi nel fango
fino a giungere alla biodiversità moderna.[27] La nascita della teoria di
DarwinModifica All'Università di Edimburgo, durante gli studi, Charles Darwin
fu coinvolto direttamente negli sviluppi della teoria evoluzionistica di Robert
Edmund Grant, ispirata dalle idee di Erasmus Darwin e Lamarck. In seguito,
all'Università di Cambridge, i suoi studi di teologia lo convinsero ad
accettare le considerazioni di William Paley sul "disegno" di un
Creatore, mentre il suo interesse nella storia naturale aumentò grazie al
botanico John Stevens Henslow e al geologo Adam Sedgwick, entrambi fermamente
credenti in una creazione divina e nell'antico uniformismo della terra. Durante
il viaggio del Beagle, Darwin si convinse della fondatezza dell'attualismo di
Lyell e cercò di conciliare le varie teorie creazionistiche con le prove che
riuscì ad evidenziare. Al suo ritorno, Richard Owen dimostrò che i fossili che
Darwin aveva trovato, appartenevano a specie estinte mostranti relazioni con
delle specie viventi in alcune località. John Gould rivelò con sorpresa che gli
uccelli completamente diversi ritrovati nelle Isole Galápagos erano, in realtà,
13 specie diverse di fringuelli (conosciuti ora, volgarmente in tutto il mondo,
come i Fringuelli di Darwin). Schizzo di un albero filogeneticodisegnato
da Darwin negli appunti preparatori del suo First Notebook on Transmutation of
Species. Dagli inizi del 1837 Darwin
meditò sulla trasmutazionein una serie di appunti segreti. Si occupò inoltre
della selezione artificiale delle razze domestiche, consultando William Yarrell
e leggendo un opuscolo scritto da un amico, Sir John Sebright, il quale
commentava come "con un severo inverno, o una scarsità di cibo, attraverso
l'uccisione degli individui deboli e malaticci, si avessero tutti i migliori
effetti della più abile selezione". Nel 1838, in uno zoo, vide per la
prima volta una scimmia antropomorfa: il bizzarro comportamento di un orango lo
impressionò per la somiglianza con quello di un "bambino dispettoso"
e, dalla sua esperienza sui nativi della Terra del Fuoco, lo portò a pensare
che non ci fosse poi un grande abisso tra gli uomini e gli animali, a dispetto
della dottrina teologica che considera solo la specie umana possedente
un'anima. Nel tardo settembre del 1838 Darwin cominciò a leggere la sesta
edizione del Saggio sul principio della popolazione di Malthus, con la quale
ricordò la dimostrazione statistica secondo cui la popolazione umana,
riproducendosi al di sopra dei propri mezzi, competesse per la sopravvivenza.
In questo periodo tentò di applicare per primo questi principi alle specie
animali. Darwin applicò nella sua ricerca il pensiero liberista sulle leggi di
Natura, considerando la pura lotta per la vita priva di sostegni esterni. Dal
dicembre 1838 intravide una somiglianza tra il concetto della selezione
artificiale e la Natura Malthusiana che selezionava, attraverso il cambiamento,
le varianti da eliminare, in modo che ogni parte delle nuove strutture
acquisite fosse pienamente pratica e perfetta. L'origine delle
specieModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
L'origine delle specie. La sintesi evolutiva modernaModifica Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Neodarwinismo.Anassimandro di
Mileto afferma che dall'acqua e dalla terra riscaldate sarebbero nati dei pesci
o degli animali molto simili a pesci; in questi concrebbero gli uomini, e i
feti vi rimasero rinchiusi fino alla pubertà. Quando questi si spezzarono,
allora finalmente ne uscirono uomini e donne che potevano già nutrirsi."
(Censorino, De die natali) ^ "[Anassimandro] dice pure che da principio
l'uomo fu generato da animali di altra specie." (Plutarco, Doxa) ^ Franco
Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Colin A. Ronan, The Shorter Science
and Civilisation in China: An Abridgement by Colin A. Ronan of Joseph Needham's
Original Text, vol. 1, Cambridge; New York, Cambridge, Miller James, Daoism and
Nature ( PDF ), su jamesmiller.ca (archiviato dall' url originale il 16
dicembre 2008). ^ David Sedley, Lucretius, in Stanford Encyclopedia of
Philosophy, Stanford, CA, Stanford University, 2013. ^ Peter Bowler, The Earth
Encompassed: A History of the Environmental Sciences., in Norton History of
Science, New Yorki, W. W. Norton, Cicerone, De Natura Deorum. ^ Sant'Agostino,
La genesi alla lettera. ^ Gill, Meredith J., Augustine in the Italian
Renaissance: Art and Philosophy from Petrarch to Michelangelo, Cambridge; New
York, Cambridge, Owen, Vatican buries the hatchet with Charles Darwin, su Times,
Bergoglio, "Teoria del Big Bang non contraddice la creazione divina. Dio
non è stato un mago", su huffingtonpost.it, Huffington Post, 27 ottobre
2014. ^ Henry Osborn Fairfield, From the Greeks to Darwin: An Outline of the
Development of the Evolution Idea, New York, Macmillan, Dickson White, Storia
della lotta della scienza con la teologia nella cristianità, edizione inglese:
A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom, vol. 1, New
York, Londra, D. Appleton & Company, Gutenberg. ^ Ben Waggoner, Medieval
and Renaissance Concepts of Evolution and Paleontology, su ucmp.berkeley.edu,
University of California Museum of Paleontology. ^ Frank N. Egerton, A History
of the Ecological Sciences, Part 6: Arabic Language Science Origins and
Zoological Writings ( PDF ), in Bulletin of the Ecological Society of America,
Washington, D.C., Teodros, Explorations in African Political Thought: Identity,
Community, Ethics, in New Political Science Reader Series, New York, Routledge,
Khaldūn, Chapter 1: "Sixth Prefatory Discussion, in Muqaddimah. ^ Ian C.
Johnston, . . . And Still We Evolve: A Handbook for the Early History of Modern
Science, 3ª ed., Nanaimo, British Columbia, Liberal Studies Department,
Vancouver Island University, Carrol, Creation, Evolution, and Thomas Aquinas,
in Revue des Questions Scientifiques, vol. 171, n. 4, Namur, Belgium,
Scientific Society of Brussels. ^ Tommaso d'Aquino, Commentario al "De
Anima". ^ a b Peter J. Bowler, Evolution: The History of an Idea, 3ª ed.,
Berkeley, CA, University of California Press, Pallen, The Rough Guide to
Evolution, in Rough Guides Reference Guides, Londra, Rough Guides, Larston,
Evolution: The Remarkable History of a Scientific Theory, New York, Modern
Library, 2004, ISBN 0-679-6Jan-Andrew Henderson, The Emperor's Kilt: The Two
Secret Histories of Scotland, Edinburgh, Erasmus Darwin, Zoonomia o Le leggi
organiche della vita, Londra, Joseph Johnson, Erasmus Darwin, Tempio della
Natura , ossia L'origine della Società: Un poema con note filosofiche, Londra,
Joseph Johnson, 1803. Voci correlate Evoluzione Creazionismo Dibattito fra
creazionismo ed evoluzionismo Altri progettiModifica Collegamenti
esterniModifica ( EN ) Storia del pensiero evoluzionista, in Catholic
Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Portale
Biologia Portale Filosofia Portale Storia L'origine
delle specie saggio di divulgazione scentifica di Charles Darwin
Darwinismo teoria dell'evoluzione proposta da Charles Darwin
Evoluzionismo teista dottrina. In the few years of the pre- Christian
period that remained the teaching of Empedocles, and of Epicurus as the
mouthpiece of the y atomic theory, was revived by LUCREZIO in his “De Rerum
Natura.” Of that remarkable man but little is recorded, and the record is
untrustworthy. LUCREZIO died by his own hand, Jerome says, but of this there
is no proof. It is difficult, taking up LUCREZIO’s wonderful poem, to resist
the temptation to make copious extracts from it, since, even through
the vehicle of Munro's annotations, it is probably little known to
the Oxford pupil in Literae Humaniores in these evil days of snippety philosophy.
But the temptation must be resisted, save in moderate degree. With
the dignity which his high mission inspires, LUCREZIO appeals to us in the
threefold character of teacher, reformer, and poet. First, by reason
of the greatness of my argument, and because I set the mind free
from the close-drawn bonds of your Roman superstitions; and next because, on so
dark a theme, I compose such lucid verse, touching every point with
the grace of poesy. As a teacher, LUCREZIO expounds the doctrines of The
Garden (L’Orto) concerning life and nature. As a reformer, LUCREZIO attacks
the Roman superstitions. As a philosophical poet, LUCREZIO informs both the
atomic philosophy and its moral application with harmonious and beautiful verse
swayed by a fervour that is akin to religious emotion. Discussing at the
outset various theories of origins, and dismissing these, notably that which
asserts that things came from nothing — "for if so, any
kind might be born of anything, nothing would require seed," LUCREZIO
proceeds to expound the teaching of the atomists as to the constitution
of things by particles of matter ruled in their movements by unvarying
laws. This theory LUCREZIO works all round, explaining the processes by
which the atoms unite to carry on the birth, growth, and decay of
things, the variety of which is due to variety of form of the atoms and
to differences in modes of their combination; the combinations being
deter- mined by the affinities or properties of the atoms
themselves, " since it is absolutely decreed what each thing can and
what it cannot do by the conditions of Nature." Change is the law of
the universe;. what is, will perish, but only to reappear in another
form. Death is "the only immortal"; and it is that and
what may follow it which are the chief tormentors of men. " This
terror of the soul, therefore, and this darkness, must be dispelled, not
by the rays of the sun or the bright shafts of day, but by the outward
aspect and harmonious plan of Nature." LUCREZIO explains that the
soul, which he places in the centre of the breast, is also formed of very
minute atoms of heat, wind, calm air, and a finer essence, the pro-
portions of which determine the character of both men and animals. It
dies with the body, in support of which statement LUCREZIO advances XVIII
arguments, so determined is he to " deliver those who through fear
of death are all their lifetime sub- ject to bondage."
These themes fill the first three books. In the fourth he grapples
with the mental problems of sensation and conception, and explains the
origin of belief in immortality as due to ghosts and appari- tions
which appear in dreams. " When sleep has prostrated the body, for no
other reason does the mind's intelligence wake, except because the
very same images provoke our minds which provoke them when we are
awake, and to such a degree that we seem without a doubt to perceive him
whom life has left, and death and earth gotten hold of. This Na-
ture constrains to come to pass because all the senses of the body are
then hampered and at rest throughout the limbs, and cannot refute the unreal by
real things." In the fifth book Lucretius deals with
origins — of the sun, the moon, the earth (which he held to be
flat, denying the existence of the antipodes); of life and its
development; and of civilization. In all this he excludes design,
explaining everything as pro- duced and maintained by natural agents,
"the masses, suddenly brought together, became the rudiments
of earth, sea, and heaven, and the race of living things." He
believed in the successive appearance of plants and animals, but in their
arising separately and di- rectly out of the earth, " under the
influence of rain and the heat of the sun," thus repeating the
old speculations of the emergence of life from slime, "
wherefore the earth with good title has gotten and keeps the name of
mother." He did not adopt Empedocles's theory of the " four roots of
all things," and he will have none of the monsters — ^the
hippo- griflFs, chimeras, and centaurs — ^which form a part of the
scheme of that philosopher. These, he says, ** have never existed,"
thus showing himself far in advance of ages when unicorns, dragons, and
such-like fabled beasts were seriously believed to exist. In one respect,
more discerning than Aristotle, he accepts the doctrine of the survival
of the fittest as taught by the sage of GIRGENTI. For he argues that
since upon "the increase of some Nature set a ban, so that they
could not reach the coveted flower of age, nor find food, nor be united
in marriage," ..." many races of living things have died out,
and been unable to beget and continue their breed." LUCREZIO
speaks of GIRGENTI in terms scarcely less exaggerated than those which he
applied to Epi- curus. The latter is " a god " who first found
out that plan of life which is now termed wisdom, and who by tried
skill rescued life from such great billows and such thick darkness and moored
it in so perfect a calm and in so brilliant a light, ... he cleared
men's breasts with truth-telling precepts, and fixed a limit to lust and
fear, and explained what was the chief good which we all strive to
reach." As to GIRGENTI," that great country (Sicily)
seems to have held within it nothing more glorious than this man,
nothing more holy, marvellous, and dear. The verses, too, of this godlike
genius cry with a loud voice, and make known his great discoveries,
so that he seems scarcely bom of a mortal stock." Continuing his
speculations on the development of living things, Lucretius strikes out
in bolder and l.^ original vein. The past
history of man, he says, lies in no heroic or golden age, but in one of
struggle out of savagery. Only when "children, by their
coaxing ways, easily broke down the proud temper of their fathers,"
did there arise the family ties out of which the wider social bond has
grown, and soft- ening and civilizing agencies begin their fair
offices. In his battle for food and shelter, " man's first
arms were hands, nails and teeth and stones and boughs broken off
from the forests, and flame and fire, as soon as they had become known.
Afterward the force of iron and copper was discovered, and the use
>^. ' of copper was known before that of iron, as its nature is easier
to work, and it is found in greater quantity. With copper they would
labour the soil of the earth and stir up the billows of war. . . . Then
by slow steps the sword of iron gained ground and the make of the
copper sickle became a byword, and with iron they began to plough through
the earth's [soil, and the struggles of wavering man were rendered
equal." As to language, " Nature impelled them to utter
the various sounds of the tongue, and use struck out the names of
things." Thus does Lucretius point the road along which physical and
mental evolution have since travelled, and make the whole story
subordi- nate to the high purpose of his poem in deliverance of the
beings whose career he thus traces from super- stition. Man " seeing
the system of heaven and the different seasons of the years could not
find out by what causes this was done, and sought refuge in handing
over all things to the gods and supposing all things to be guided by
their nod." Then, in the sixth and last book, the completion of
which would seem to have been arrested by his death, LUCREZIO explains
the law of winds and storms, of earth-quakes and volcanic outbursts, which men
" foolishly lay to the charge of the gods," who thereby
make known their anger. So, loath to suffer mute, We,
peopling the void air, Make Gods to whom to impute The ills we
ought to bear ; With God and Fate to rail at, suffering easily.
And what a motley crowd of gods they were on whose caprice or
indifference he pours his vials of anger and contempt! The tolerant
pantheon of Rome gavie welcome to any foreign deity with respectable
credentials; to Cybele, the Great Mother, imported in the' shape of a
rough-hewn stone with pomp and rejoicings from Phrygia 204 b. c; to
Isis, welcomed from Egypt; to Herakles, Demeter, As- klepios, and
many another god from Greece. But these are dismissed from a man's thought
when the prayer or sacrifice to them had been offered at the due
season. They had less influence on the Roman's life than the crowd of
native godlings who were thinly disguised fetiches, and who controlled
every action of the day. For the minor gods survive the changes in
the pantheon of every race. Of the Greek peasant of to-day Mr. Rennel
Rodd testifies, in his Custom and Lore of Modern Greece, that much
as he would sliudder at the accusation of any taint of paganism,
the ruling of the fates is more immediately real to him than divine
omnipotence. Mr. Tozer confirms this in his Highlands of Turkey. He
says: " It is rather the minor deities and those as- sociated with
man's ordinary life that have escaped the brunt of the storm, and
returned to live in a dim twilight of popular belief. In India, Lyall
tells us that, " even the supreme triad of Hindu allegory, which
represents the almighty powers of creation, preservation, and
destruction, have long ceased to preside actively over any such
correspond- ing distribution of functions. Like limited monarchs, they
reign, but do not govern. They are superseded by the ever-increasing
crowd of godlings whose influence is personal and special, as shown
by Mr. Crooke in his instructive Introduction to the Popular
Religion and Folk-lore of Northern India. The old ROMAN CATALOGUE of
spiritual beings, abstractions as they were, who gfuarded life in
minute detail, is a long one. From the indigitamenta^ as such lists
are called, we learn that no less than forty- three were concerned with
the actions of a child. When the farmer asked Mother Earth for a
good harvest, the prayer would not avail unless he also invoked
" the spirit of breaking up the land and the spirit of ploughing it
crosswise; the spirit of furrow- ing and the spirit of ploughing in the
seed; and the spirit of harrowing; the spirit of weeding and
the spirit of reaping; the spirit of carrying com to the barn; and
the spirit of bringing it out again." The country, moreover, swarmed
with Chaldaean astrolo- gers and casters of nativities; with Etruscan
harus- pices full of " childish lightning-lore, who foretold
eve'tits from the entrails of sacrificed animals; while in competition
with these there was the State-sup- ported college of augurs to divine
the will of the gods by the cries and direction of the flight of
birds. Well might the satirist of such a time say that the place was
so densely populated with gods as to leave hardly room for the
men." It will be seen that the justification for
including Lucretius among the Pioneers of Evolution lies in his two
signal and momentous contributions to the science of man; namely, the
primitive savagery of the human race, and the origin of the belief in
a soul and a. future life. Concerning the first, an- thropological
research, in its vast accumulation of materials during the last sixty
years, has done little more than fill in the outline which the insight
of LUCREZIO enabled him to sketch. As to the second, he anticipates,
well-nigh in detail, the ghost-theory of the origin of belief in spirits
generally which Her- bert Spencer and Dr. Tylor, following the lines
laid down by Hume and Turgot (see p. 255), have formulated and
sustained by an enormous mass of evidence. The credit thus due to
Lucretius for the original ideas in his majestic poem — Greek in
con- ception and Roman in execution — has been obscured in the general
eclipse which that poem suf- fered for centuries through its
anti-theological spirit. Grinding at the same philosophical mill,
Aristotle, because of the theism assumed to be involved in his
" perfecting principle," was cited as " a pillar of the
faith" by the Fathers and Schoolmen; while Lucre- tius, because of
his denial of design, was “anathema maranatha.” Only in these days, when
the far-reach- ing effects of the theory of evolution, supported by
observation in every branch of inquiry, are apparent, are the merits of
Lucretius as an original seer, more than as an expounder of the teachings
of GIRGENTI and L’ORTO, made clear. Standing well-nigh on the
threshold of the Chris- tian era, we may pause to ask what is the sum
of the speculation into the causes and nature of things which,
begun in Ionia (with impulse more or less slight from the East), by
Thales, ceased, for many centuries, in the poem of Lucretius, thus
covering an active period of about five hundred years. The caution not to
see in these speculations more than an approximate ap- proach to
modern theories must be kept in mind. There is a primary substance which
abides amidst the general flux of things. All modern research
tends to show that the various combinations of matter are formed of some
prima ma- teria. But its ultimate nature remains unknown. 2.
Out of nothing comes nothing. Modern science knows nothing of a
beginnings and, moreover, holds it to be unthinkable. In this it
stands in direct opposition to the theological dogma that God
created the universe out of nothing; a dogma still accepted by the
majority of Protestants and binding on Roman Catholics. For the doctrine
of the Church of Rome thereon, as expressed in the Canons of the
Vatican Council, is as follows: " If any one confesses not that the
world and all things which are contained in it, both spiritual and
mental, have been, in their whole substance, produced by God out of
nothing; or shall say that God created, not by His free will from
all necessity, but by a necessity equal to the necessity whereby He loves
Himself, or shall deny that the world was made for the glory of God: let
him be anathemaJ' The primary substance is indestructible. The
modern doctrine of the Conservation of Energy teaches that both matter
and motion can neither be ere- ated nor destroyed. The universe is
made up of indivisible particles called atoms, whose manifold
combinations, ruled by unalterable affinities, result in the variety
of things. With modifications based on chemical as well as
mechanical changes among the atoms, this theory of Leucippus and Democritus
is confirmed. (But recent experiments and discoveries show that
reconstruction of chemical theories as to the properties of the atom
may happen.) Change is the law of things, and is brought about
by the play of opposing forces. Modern science explains the changes
in phenomena as due to the antagonism of repelling and attracting
modes of motion; when the latter overcome the former, equilibrium will be
reached, and the present state of things will come to an end.
6. Water is a necessary condition of life. Therefore life had its
beginnings in water; a theory wholly indorsed by modern
biology, Life arose out of non-living matter. Although modern biology
leaves the origin of life as an insoluble problem, it supports the
theory of fundamental continuity between the inorganic and the
organic. Plants came before animals: the higher organ- isms are of
separate sex, and appeared subsequent to the lower. Generally
confirmed by modern biology, but with qualification as to the undefined
borderland between the lowest plants and the lowest animals. And,
of course, it recognises a continuity in the order and succession
of life which was not grasped by the Greeks. Aristotle and others before
him believed that some of the higher forms sprang from slimy matter
direct. 9. Adverse conditions cause the extinction of some
organisms, thus leaving room for those better fitted. Herein
lay the crude germ of the modern doctrine of the survival of the fittest.
Man was the last to appear, and his primi- tive state was one of
savagery. His first tools and weapons were of stone; then, after the
discovery of metals, of copper; and, following that, of iron. His
body and soul are alike compounded of atoms, and the soul is extinguished
at death. The science of Prehistoric Archceology confirms the theory
of man's slow passage from barbarism to civili- zation; and the science
of Comparative Psychology de- clares that the evidence of his immortality
is neither stronger nor weaker than the evidence of the immortality of the
lower animals. Such, in very broad outline, is the legacy of sug-
gestive theories bequeathed by the Ionian school and its successors,
theories which fell into the rear when Athens became a centre of
intellectual life in which discussion passed from the physical to those
ethical problems which lie outside the range of this survey.
Although Aristotle, by his prolonged and careful observations, forms a
conspicuous exception, the fact abides that insight, rather than
experiment, ruled Greek speculation, the fantastic guesses of parts
of which themselves evidence the survival of the crude and falsei deas
about earth and sky long prevailing. The more wonderful is it, therefore,
that so much therein points the way along which inquiry travelled after
its subsequent long arrest; and the more apparent is it that nothing in science
or art, and but little in theological speculations, at least among us
Westerns, can be understood without reference to Greece. Approxi-Namb. Place.
mate Speciality. Thales. Miletus.Cosmological (Ionia).Ae Pri f Water.Substance
Anaximender. the Boundless. Anaximenes.Air. Pythagoras. Samos Numbers: the
Ionian a Cosmos built coast). up of geometrical figures or(Grote, Plato) generated
out of number. Xenophanes. Colophon. Founder of the (Ionia). Eleatic
school. Heraditus. Ephesus Ionia Fire. Empedocles. Agrigentum Fire, Air,Earth,
(Sicily). And Water ruled by Love and Strife. Anaxagoras. Clazomenae
(Ionia). Nous. Leucippus Democritus. Abdera. Formulators of the Atomic Thrace
Theory Aristotle. Stagira (Macedonia). Naturalist. i Epicurus.
Samos. Expounder of the Atomic Theory and Ethical Philosopher.
LUCREZIO. Roma Interpreter of Epicurus and EMPEDOCLE DI GIRGENTI:
the first Anthropologist. Gilberto Corbellini. Keywords: darwinismo
politizzato, Dawkins’ selfish gene – read selfish gene – medicina in Roma
antica -- evoluzione, emergentismo, biologia filosofica, grammatical del
vivente, cooperazione, altruismo, razionalita, utilitarismo, darwinismo
sociale, evolluzione, filosofia dell’evoluzione, progresso ed evoluzione.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corbellini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cordeschi: l’implicatura
conversazionale della logica della guerra – filosofia italiana – Luigi Speranza
(L’Aquila). Filosofo italiano. Grice: “Cordeschi is fine if you
are into how we can model a pirot from an automaton – Descartes’s old idea!” --
Roberto Cordeschi (L'Aquila) filosofo. Si laurea a Roma sotto Somenzi. Si appassiona
subito alla storia della cibernetica, di cui Somenzi fu tra i primi studiosi e
contributori in Italia. Con la co-supervisione di Radice discute una tesi sui
Teoremi di incompletezza di Gödel. Insegna a Morino, Avezzano, Torino, Roma, e
Saerno. Altre opere: “Turing” – homo mechanicus (Alan Mathison); “Turing’s homo
mechanicus” (Pisa: Edizioni della Normale); “La cibernetica in Italia” (Roma:
Scienze, Istituto della Enciclopedia Italiana); “Un padrino per l’Intelligenza
Artificiale. Sapere; “L’intelligenza meccanica”; Alfabeta; “Dalla cibernetica a
internet: etica e politica tra mondo reale e mondo virtuale; “Dal corpo bionico
al corpo sintetico. Roma: Carocci); “Somenzi. testimonianze. Mantova: Fondazione
Banca Agricola Mantovana); “Natura, machina, cervello e conoscenza”; “Autonomia
delle macchine: dalla cibernetica alla robotica bellica” (Roma: Armando);
“Rap-resentare il concetto: filosofia e modello computazionale”. Sistemi
Intelligenti, “Fare a meno delle metafore: il metodo sintetico e la scienza
cognitive” (Milano: Franco Angeli). Nuove prospettive nell’Intelligenza
Artificiale, XXI SecoloNorme e idee. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana
Treccani), “Quale coscienza artificiale? Sistemi intelligenti, “Adattamento” e
“selezione” nel mondo della natura” (Milano: Franco Angeli); “Computazionalismo
sotto attacco” (Padova: CLEUP); Premessa al Documento di Dartmouth, Sistemi
Intelligenti, “Psicologia, fisicalismo e Intelligenza Artificiale. Teorie e Modelli;
“Forme e strutture della comunicazione linguistica. Intersezioni. Filosofia
dell’intelligenza artificiale. In Floridi L., a cura di. Linee di ricerca,
SWIF. Una lezione per la scienza cognitiva. Sistemi Intelligenti, Funzionalismo
e modelli nella Scienza Cognitiva. Forum SWIF. C Vecchi problemi filosofici per
la nuova Intelligenza Artificiale. Networks. Rivista di Filosofia
dell’Intelligenza Artificiale e Scienze Cognitive, In ricordo di Vittorio
Somenzi Quaderno Filosofi e Classici SWIF; Intelligenza artificiale. Manuale
per le discipline della comunicazione. Roma: Carocci. L’intelligenza
Artificiale: la storia e le idee. Roma: Carocci); “Naturale e artificiale”
(Bari: Edizioni Laterza); La scoperta dell’artificiale. Psicologia, filosofia e
macchine intorno alla cibernetica, Milano-Bologna: Dunod-Zanichelli); “Pensiero
meccanico” e giochi dell’imitazione. Sistemi Intelligenti; Prospettive della
Logica e della Filosofia della scienza. Atti del Convegno SILFS. Pisa: ETS. I
modelli della vita mentale, oggi e domani. Giornale Italiano di Psicologia, Filosofia
della mente. Quaderni di Le Scienze, L’intelligenza artificiale. In: Bellone,
E., Mangione, C., a cura di. Geymonat L., Storia del pensiero scientifico. Il
Novecento, Milano: Garzanti); Somenzi, La
filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati
Boringhieri); Indagini meccanicistiche sulla mente: la cibernetica e
l’intelligenza artificiale. In: Somenzi, V., Cordeschi, R., a cura di. La
filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati
Boringhieri: Qualche problema per l’IA classica e connessionista. Lettera
matematica PRISTEM, Una macchina protoconnessionista. Pisa: ETS: Le radici
moderne del recupero scientifico della teologia. Nuova Civiltà Delle Macchine);
Scienza e filosofia della scienza; La mente nuova dell’imperatore. La mente, i
computer, le leggi della fisica. Milano. Wiener. In: Negri, A., a cura di.
Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti, Milano: Marzorati, Turing.
In: Negri, A., a cura di. Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti, Milano: Marzorati: Significato e creatività:
un problema per l’intelligenza artificiale. L’Automa spirituale: Menti,
Cervelli e Computer, Cervello, mente e calcolatori: précis storico
dell’intelligenza artificiale. In: Corsi, P., a cura di. La fabbrica del
pensiero. Dall’arte della memoria alle neuroscienze, Milano: Electa: L’intelligenza
artificiale tra psicologia e filosofia. Nuova Civiltà delle Macchine, Mente,
linguaggio e realtà. Milano: Adelphi. Linguaggio mentalistico e modelli
meccanici della mente. Osservazioni sulla relazione di Boden. L’evoluzione dei
calcolatori e l’intelligenza artificiale. Manuscript; La psicologia
meccanicistica, Storia e critica della psicologia, La teoria dell’elaborazione
umana dell’informazione. Aspetti critici e problemi metodologici. Roma: Editori
Riuniti); Dal comportamentismo alla simulazione del comportamento. Storia e
Critica della Psicologia, I sillogismi di Lullo. Atti del Convegno
Internazionale di Storia della Logica. San Gimignano: Il duro lavoro del
concetto: il neoidealismo e la razionalità scientifica. Giornale critico della
Filosofia Italiana; La psicologia come scienza autonoma: Croce, De Sarlo e gli
“sperimentalisti”. Per un’analisi storica e critica della Psicologia, 2Dietro
una recensione crociana di Couturat. Quaderni di Matematica, Metodi per la
risoluzione dei problemi nell’intelligenza artificiale, Per un’analisi storica
e critica della psicologia, Manuscript. La psicologia tra scienze della natura
e scienze dello spirito: Croce e De Sarlo. In: Cimino G., Dazzi, a cura di. Gli
studi di psicologia in Italia: Aspetti teorici scientifici e ideologici,
Quaderni di storia critica della scienza. Nuova serie. 9, Pisa: Domus Galileana);
Una critica del naturalismo: note sulla concezione crociana delle scienze.
Critica marxista; Introduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Predicati.
In: CIntroduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Elementi di logica
matematica. Roma: Riuniti); Bilancio dell’empirismo contemporaneo. Scientia; La
filosofia di Leibniz: esposizione critica con un’appendice antologica. Roma:
Newton Compton Italiana); Filosofia e informazione. Padova: La Cultura;
Validità e reiezione nella logica aristotelica. Il problema della decisione.
Report: Storia della Filosofia Antica. Istituto di Filosofia, Roma. Manuscript.
In generale, nella implicatura robotica c’è la tendenza a ricorrere al
vocabolario delle rappresentazioni solo quando, per così dire, non se ne può
fare a meno, ovvero, più precisamente, quando si lascia il livello puramente
reattivo nel quale il lessico delle rappresentazioni sarebbe banale, per
passare a quello topologico e, a maggior ragione, a quello metrico o delle
mappe cognitive. Due robot puramente reattivi sono capaci di risolvere alcuni
compiti per i quali, nella ricerca su animali (la squarrel Toby di Grice), si
erano invocate rappresentazioni complesse come le mappe cognitive. Questi
stessi robot reattivi, man mano che si riducono le restrizioni sull’ambiente,
diventano sempre meno abili nell’affrontare quegli stessi compiti, che possono
essere risolti solo da agenti dotati di stati interni (attitudine psicologica)
ai quali essi riconoscono lo status di rappresentazioni. La massima sarebbe in
questi casi quella di esaminare tutti i modi possibili di spremere l’ultima
goccia di informazione dal livello reattivo prima di parlare dell’influenza
della rappresentazione, modello del mondo o mappa sul comportamento
intelligente. Circa la natura delle rappresentazioni, una volta ammesse, le
opinioni sono contrastanti, e riflettono la varietà dei punti di vista ormai
usuale in intelligenza artifiziale e intelligenza naturale, classica o nouvelle
che sia. Si può parlare di rappresentazione anche per i pattern connessionisti,
a patto di distinguere la relativa computazione. La rappresentazione e solo
simbolica, quale che sia la loro complessità, e un pattern connessionista, non
essendo considerato simbolico, non e una rappresentazione. Si parla di una
rappresentazione che possono essere di diversa complessità e accuratezza,
esplicita (spliegatura) o implicita (impiegatura), metrica o topologica,
centralizzata o distribuita. E in generale si parla di ra-presentazione
simbolica quando si è in presenza di un costrutto dotato di proprietà ritenuta
analoga a quella del segno. Ricorrenti valutazioni polemiche da parte di alcune
tendenze dell’IA nouvelle identificano nell’Ipotesi del Sistema Fisico di
Simboli il paradigma linguistico per eccellenza dell’IA classica. Tuttavia, un
confronto di qualche anno fa tra sostenitori e critici di questa ipotesi mostra
come questa interpretazione sia quanto meno opinabile. Sarebbe opportuno
tenerne conto, per evitare di porre in un modo troppo sbrigativo l’identificazione
tra simbolo e il concetto piu generale
di segno in IA classica e per affrontare senza pregiudizi i difficili problemi
che stanno alla base della costruzione di un modello di conversazione, tra i
quali quello della natura della rappresentazione. Mi riferisco
all’interpretazione in termini di un sistema di elaborazione simbolica
dell’informazione (dunque in termini di un sistema fisico materiale di simboli)
di sistemi tradizionalmente non considerati tali, come quelli proposti dai
teorici dell’azione situata. L’idea di simbolo che sta alla base di questa
ipotesi è che un simbolo è un pattern che denota, e la nozione di denotazione è
quella che dà al simbolo la sua capacità rappresentazionale. Il pattern puo
denotare altro pattern, sia interni al Si veda per una formulazione
particolarmente esplicita (Gallistel). Detto in breve, tali proprietà
riguardano, tra l’altro, la produttività, ovvero la capacità di generare e
capire un insieme illimitato di frasi, e la sistematicità, ovvero la capacità
di capire ad esempio tanto aRb quanto bRa. Fodor ne ha fatto la base per la sua
controversa ipotesi del “linguaggio del pensiero” Per una introduzione
all’argomento, si veda (Francesco). Per pattern si intende, come sarà più
chiaro nel seguito, una struttura fisica, biologica o inor- ganica, che può
essere oggetto di processi computazionali—codifica, decodifica, registrazione,
cancellazione, cambiamento, confronto—i quali occorrono in sistemi diversi, in
un calcolatore e nel sistema nervoso, anche se in quest’ultimo caso non
sappiamo nei dettagli come. Questa tesi provocò diverse reazioni (si vedano Cognitive
Science). Si noti che nelle intenzioni di Simon e Vera la tesi non comporta che
ogni pattern sia dotato di meccanismo sistema che esterni ad esso (nel
mondo reale), e anche stimoli sensoriali e azioni motorie. Processi tanto
biologici quanto inorganici possono essere simbolici in questo senso e, dal
punto di vista sostenuto da Simon e Vera, i relativi sistemi sono sempre
sistemi fisici di simboli, ma a diversi livelli di complessità. Per esempio,
nel caso più semplice che riguarda gli organismi, anche l’azione riflessa
(subcorticale) è un processo simbolico: la codifica di un simbolo provocata da
un ingresso sensoriale, poniamo la bruciatura di una mano, dà luogo alla
codifica di un simbolo motorio, con la conseguente rapida effettuazione dell’azione,
in questo caso il ritirare la mano. Più precisamente, l’idea è che “il sistema
nervoso non trasmette certo la bruciatura, ma ne comunica l’occorrenza. Il
simbolo che denota l’evento [la brucia- tura] viene trasmesso al midollo
spinale, che a sua volta trasmette un simbolo ai mu- scoli, i quali esercitano
la contrazione che consente di ritirare la mano.” Nel caso degli artefatti, già
il solito termostato è un sistema fisico di sim- boli, sebbene particolarmente
semplice: il suo livello di tensione è un simbolo che denota uno stato del
mondo esterno. Come ho ricordato, anche Brooks ha finito per riconoscere alle
rappresentazioni un loro ruolo nel comportamento dei suoi robot, se non altro
alle rappresentazioni “relati- ve al particolare compito per il quale sono
usate” (i “modelli parziali del mondo”), quali potrebbero essere, a diversi
livelli di complessità, quelle usate da agenti naturali come Cataglyphis o da
agenti artificiali come Toto o il solutore di labirinti sopra ri- cordato.
Simon e Vera considererebbero senz’altro agenti del genere come sistemi fisici
di simboli, dotati di un’attività rappresentazionale molto sofisticata, anche
se specializzata a un compito particolare. Ma essi includono tra i sistemi
fisici di simboli anche artefatti molto più semplici, come il ricordato
termostato, e agenti robotici pu- ramente reattivi o collocabili al livello del
taxon system (che, seguendo Prescott, era stato definito come una catena di
associazioni consistenti in coppie <stimolo, risponsa>). Secondo i due
autori, i primi robot alla Brooks sono (un tipo relativamente sem- plice di)
sistemi fisici di simboli: anche l’interazione senso-motoria diretta di un
agen- te con l’ambiente nella misura in cui dà luogo a un comportamento
coerente alle rego- larità dell’ambiente, non può essere considerata se non
come manipolazione simboli- ca. Ho ricordato sopra il semplice comportamento
reattivo di Allen, che tramite sonar evita ostacoli presenti in un ambiente
reale. In questo caso, i suoi ingressi sensoriali danno luogo a un processo di
codifica, e i costrutti in gioco (i simboli, secondo la definizione sopra
ricordata) che risultano da tale interazione sensoriale, e poi motoria,
dell’agente con l’ambiente sono rappresentazioni interne (degli ostacoli
esterni da evitare) in un senso non banale: l’informazione sensoriale captata
dal robot è converti- ta in simboli, i quali sono manipolati al fine di
determinare gli appropriati simboli motori che evocano o modificano un certo
comportamento. L’assenza di memoria in questo tipo di agente comporta che
l’azione sia eseguita senza una rappresentazione esplicita del piano e
dell’obiettivo che orienta l’azione stessa (senza pianificazione), ma non che
non ci sia attività rappresentazionale simbolica. Qual è la natura di questi simboli,
di queste rappresentazioni simboliche? denotazionale, cosa che evidentemente
renderebbe banale questa definizione di simbolo: ci sono pattern che non
denotano, tanto naturali quanto artificiali. Sulla sufficienza della
denotazione per caratterizzare la nozione di simbolo (come di rappresen-
tazione) si è molto discusso. Nel caso degli artefatti più semplici si tratta
di rappresentazioni analogiche che stabiliscono e mantengono la relazione funzionale
del sistema con l’ambiente. Questo, si è visto, è già vero per il solito
termostato. Nel caso di (come pure di certi sistemi connessionisti, o che
includono sistemi connessioni- sti), tali rappresentazioni (analogiche) hanno
carattere temporaneo (senza intervento di memoria) e distribuito (non sono
sottoposte a controllo centralizzato). In questi casi, una rappresentazione
certo imprecisa ma sufficientemente efficace è fornita da un sonar sotto forma
di un pattern interno fisico (un pattern di nodi della rete, nel caso di un
sistema connessionista): essa denota o rappresenta per il robot un ostacolo o
una certa curvatura di una parete o di un percorso. Una volta che tale pattern
venga comu- nicato a uno sterzo, esso determina l’angolo della ruota sterzante
del carrello del robot. Per quanto diversa a seconda dei casi, è sempre
presente un processo di codifica- elaborazione-decodifica non banale, che
stabilisce una ben precisa relazione funziona- le tra il sistema e l’ambiente,
e spiega il comportamento coerente dell’agente nell’interazione con il mondo.
Non parlare di rappresentazioni interne, e limitarsi a dire che un agente
“intrattiene certe relazioni causali con il mondo, non spiega come tali
relazioni vengano mantenute. E’ del tutto ragionevole sostenere che un agente mantiene
l’orientamento verso un oggetto tramite una relazione causale (Grice, “La
teoria causale della percezione”) con esso e che tale relazione è un pattern di
interazione, ma non ha senso pensare che tale pattern venga prodotto per magia,
senza un corrispondente cambiamento di stato rappresenta- zionale dell’agente,
ovvero che esso possa aver luogo senza una rappresentazione interna fosse pur
minima.” Rappresentazioni più complesse, che sono alla base di un’attività non
semplicemente percettiva diretta, sono presenti in altri casi, quando entrano
in gioco la me- moria, l’apprendimento, il riconoscimento di oggetti e
l’elaborazione di concetti, la formulazione esplicita di una mappa o di piani
alternativi, sotto forma di rappresentazioni off-line, e ancora. In molte di
queste attività “alte” intervengono rappresentazioni esplicite, linguistiche e
metriche, ma se si riconosce che la cognizione richiede questo tipo di
rappresentazioni, è difficile mettere in dubbio che tali attività non
condividono con attività più “basse” come la percezione, sulle quali esse
vengono elaborate, il meccanismo denotazionale, sia pure in una forma minimale.
A meno di restringere arbitrariamente la nozione di rappresentazione e di simbolo,
non c’è ragione di riservarla esclusivamente a pattern linguistici, o ai
costrutti della semantica denotazionale (variabili da vincolare ecc.). Penso si
possa sottoscrivere questa conclusione di Bechtel: “la nozione base [di
rappresentazione] è effettivamente minimale, tale da rende- re le rappresentazioni
più o meno ubique. Esse sono presenti in ogni sistema organiz- zato che si è
evoluto o è stato progettato in modo da coordinare il suo comportamento con le
caratteristiche dell’ambiente. Ci sono dunque rappresentazioni nel regolatore,
nei sistemi biochimici e nei sistemi cognitivi”. Il riferimento di Bechtel al
regolatore di Watt è polemico nei confronti di van Gelder, che ne faceva il
prototipo della sua concezione non computazionale e non simbolica della co-
gnizione. In realtà questo tipo di artefatti analogici (sistemi a feedback
negativo e servomecca- nismi) erano stati interpretati come sistemi
rappresentazionali già all’epoca della cibernetica, in primo luogo da Craik,
che ne aveva fatto la base per una “teoria simbolica del pensie- ro”, come egli
la chiamava, per la quale “il sistema nervoso è visto come una macchina
calcola- trice capace di costruire un modello o un parallelo della realtà”. Non
entriamo in questa sede sui diversi problemi relativi al contenuto delle Simon
e Vera distinguono il livello della modellizzazione simbolica da quello della
realizzazione fisica (sia biologica che inorganica) di un agente.
Nell’interazione con l’ambiente, un agente ha un’attività rappresentazionale
che è data dalle caratteri- stiche specifiche del suo apparato fisico di
codifica-elaborazione-decodifica di simboli. Si pensi ancora alla codifica,
molto approssimativa ma generalmente efficace, at- traverso sonar degli
ostacoli da parte di un robot reattivo, e alla relativa decodifica che si
conclude in un ben determinato movimento. La modellizzazione simbolica di
questa capacità non appare in linea di principio diversa da quella “alta” sopra
ricordata. L’idea è che tutti questi tipi o livelli di rappresentazioni, da
quelli legati alla percezio- ne a quelli più alti della “ricognizione”, possono
essere opportunamente modellizzati attraverso regole di produzione, come
livello di descrizione di un sistema fisico di simboli. Un robot basato
sull’architettura della sussunzione non fa eccezione. Ad esempio, il funzionamento
di un modulo reattivo al livello più basso dell’architettura, che con- trolla
la reazione di evitamento di ostacoli, potrebbe essere reso da un’unica regola
di produzione del tipo “se c’è un ostacolo rilevato attraverso sonar e bussola
allora fermati”. Questa possibilità sembra essere stata presa in considerazione
dallo stesso Brooks, che però la respingeva in questi termini: “Un sistema di
produzione standard in realtà è qualcosa di più [di un robot behavior-based],
perché ha una base di regole dalla quale se ne seleziona una attraverso il
confronto tra la precondizione di ogni regola e una certa base di dati. Le
precondizioni possono contenere variabili che de- vono essere confrontate con
costanti nella base di dati. I livelli dell’architettura della sussunzione
funzionano in parallelo e non ci sono variabili né c’è bisogno di tale
confronto. Piuttosto, vengono estratti aspetti del mondo, che evocano o
modificano direttamente certi comportamenti a quel livello. Tuttavia, se
distinguiamo il livello della realizzazione fisica da quello della sua
modellizzazione, quella che Brooks chiama l’estrazione degli “aspetti del
mondo” rilevanti per l’azione è descritta in modo adeguato da un opportuno
sistema di regole di produzione, e tramite tale sistema un certo comportamento
di una sua creatura può essere evocato o modificato nell’interazione con
l’ambiente. E questo modello (a regole di produzione) delle regolarità
comportamentali di diversi livelli dell’architettura della sussunzione può
essere implementata in un dispositivo che, grazie all’elevato grado di
parallelismo, presenta doti di adattività, robustezza e rispo- sta in tempo
reale paragonabili a quelle di un dispositivo behavior-based. In questo senso,
le regole di descrizione danno una modellizza- zione adeguata del comportamento
di un agente situato. Oltre alle risposte automatiche, che nel caso dell’azione
riflessa o “innata” e di quella reattiva possono essere rese attraverso un’unica
regola di produzione (qualcosa che corrisponda a una relazione comportamentista
S→R), esistono le azioni automa- rappresentazioni, al ruolo dell’utente degli
artefatti e alla natura della spiegazione cognitiva. L’articolo di Bechtel
contiene una disanima efficace di questi problemi, rispetto a posizioni diverse
come quella sostenuta da Clancey contro la tesi di Vera e Simon. In breve, le
regole di produzione hanno la forma “se... allora”, o CONDIZIONE → AZIONE. La
memoria a lungo termine di un sistema fisico di simboli è costituita da tali
regole: gli antecendenti CONDIZIONE permettono l’accesso ai dati in memoria,
codificati dai conseguenti AZIONE. tizzate a seguito dell’apprendimento,
quando cioè le regolarità relative a un certo comportamento sono state
memorizzate, o quelle che comportano una relazione “di- retta” con il mondo
tramite le affordance alla Gibson. Un esempio sono le risposte immediate che
fanno seguito a sollecitazioni improvvise o impreviste provenienti
dall’ambiente Ora i teorici dell’azione situata (e, come si è visto, i nuovi
robotici) insistono sul fatto che questi casi di interazione diretta con
l’ambiente si svolgono in tempo reale, senza cioè che sia possibile quella
presa di decisione, diciamo così, meditata che ri- chiede la manipolazione di
rappresentazioni e la pianificazione dell’azione. Si pensi all’esempio di
Winograd e Flores dell’automobilista che, guidando, affronta una curva a
sinistra. In primo luogo, secondo i due autori, non è necessario che egli
faccia continuamente riferimento a conoscenze codificate sotto forma di regole
di produzione—non è necessario riconoscere una strada per accorgersi che è
“percorribi- le” (la “percorribilità”, questa è la tesi, è colta nella
relazione diretta agente- ambiente). In secondo luogo, la decisione è presa
dall’agente, per così dire, senza pensarci (senza pensare di posizionare le
mani, di contrarre i muscoli, di girare lo sterzo in modo che le ruote vadano a
sinistra ecc.). Tutto ciò avviene automaticamente e immediatamente, dunque
senza applicare qualcosa come una successione di regole di produzione “se p, q”.
In conclusione, la tesi è che non è possibile modellizzare questo aspetto della
presa di decisione istantanea, o in tempo reale, attraverso un dispositivo che
comporta codifica-elaborazione-decodifica di simboli, dunque computazioni,
regole di produzione e così via. L’obiettivo della critica di Winograd e Flores
è la teoria della presa di decisione nello spazio del problema, con il quale ha
a che fare l’agente a razionalità limitata di Simon. Ora, se prendiamo sul
serio la teoria di Simon, va detto che alla base del carat- tere limitato della
razionalità dell’agente sta la complessità dell’ambiente non meno dei limiti
interni dell’agente stesso (limiti di memoria, di conoscenza della situazione
ecc.). Nel prendere la decisione, quest’ultimo, secondo la teoria di Simon, in
generale non è in grado di considerare, come spazio delle alternative
pertinenti, lo spazio di tutte le possibilità, ma solo una parte più o meno
piccola di esso, e questa selezione avviene sulla base delle sue conoscenze,
aspettative ed esperienze precedenti. Ora una presa di decisione istantanea,
non meno di una presa di decisione meditata, è condi- zionata da questi
elementi, i quali, una volta che abbiano indotto, poniamo attraverso
l’apprendimento, la formazione di schemi automatici di comportamento (di
risposte motorie, nell’esempio di sopra), finiscono per determinare
l’esclusione immediata di certe alternative possibili (come, nell’esempio della
guida, innestare la marcia indietro) a vantaggio di altre (come scalare marcia,
frenare ecc.), e tra queste altre quelle suggerite dalla conoscenza
dell’ambiente stesso (fondo strada bagnato ecc.) e dalle Le affordance, nella
terminologia di Gibson sono invarianti dell’ambiente che vengo- no “colte”
(picked up) dall’agente “direttamente” nella sua interazione con l’ambiente
stesso, e “direttamente” viene interpretato come: senza la mediazione di
rappresentazioni e di computa- zioni su esse. Un esempio sono i movimenti
dell’agente in un ambiente nel quale deve evitare oggetti o seguirne la
sagomatura e così via: un po’ quello che fanno i robot reattivi di cui ho
parlato. L’esempio del termostato è ricorrente in scienza cognitiva e in
filosofia della mente dai tempi della cibernetica. E’ evidente che definire
sistemi fisici di simboli artefatti di questo tipo (e del tipo dei robot di
Brooks, come vedremo) comporta rinunciare al requisito dell’universalità per
tali sistemi (sul quale si veda Newell). aspettative pertinenti.17
Secondo le stesse parole di Simon “il solutore di problemi non percepisce mai
Dinge an sich, ma solo stimoli esterni filtrati attraverso i propri pre-
concetti” (Simon). Di norma, dunque, l’informazione considerata dall’agente non
è collocata in uno spazio bene ordinato di alternative, generato dalla
formulazione del problema: tale informazione è generalmente incompleta, ma è
pur sempre sostenuta dalla conoscenza della situazione da parte dell’agente. La
proposta è, dunque, che la modellizzazione a regole di produzione di un’azione
del genere, e in generale di una affordance, è un simbolo che, via il sistema
percettivo di codifica, raggiunge la memoria del sistema per soddisfare la
CONDIZIONE di una regola di produzione esplicita. In questo modo, soddisfatta
la CONDIZIONE, si attiva la regola, e la produzione (la decodifica) del simbolo
di AZIONE avvia la risposta motoria. Da questo punto di vista, le affordance
sono rappresentazioni di pattern del mondo esterno, ma con una particolarità:
quella di essere codificate in un modo particolar- mente semplice. Nell’esempio
di sopra, una volta che si sia imparato a guidare, la regola è qualcosa come:
“se la curva è a sinistra allora gira a sinistra”.Questa regola rappresenta la
situazione al livello funzionale più alto nel quale la rappresentazione che
entra in gioco è “minima”. Un termine del genere, a proposito delle
rappresentazioni, lo abbiamo visto usato da Gallistel, ma per Simon e Vera il
termine rimanda alla forma della regola indicata, che può essere rapidamente
applicata: in questo caso, cioè, non c’è bisogno di evocare i livelli “bassi” o
soggiacenti, quelli coinvolti con l’analisi dettagliata dello spazio del
problema e con l’applicazione delle opportune strategie di soluzione, che
comportano computazioni generalmente complesse, sotto forma di successioni di
regole di produzione. Questi livelli intervengono nelle fasi dell’apprendimento
(quando si impara come affrontare le curve), e possono essere evocati
dall’agente quando la situazione si fa complicata (si pensi a una curva a
raggio variabile, che rivela la complessità dell’interazione codi- fica
percettiva-decodifica motoria). E tanto un apprendimento imperfetto quanto una
carenza, per i più svariati motivi, dell’informazione percettiva rilevante
possono anche ostacolare l’accesso ai livelli soggiacenti che potrebbero dare
luogo alla risposta cor- retta (non tutti coloro che hanno imparato a guidare
riescono ad affrontare tutte le curve con pieno successo in ogni situazione
possibile). Insomma, in questa interpretazione di Simon e Vera l’interazione in
tempo reale dell’agente con l’ambiente è data non dal fatto di essere non
simbolica e di non poter essere modellizzata mediante regole di produzione, ma
dal fatto di non dover accede- re, per dare la risposta corretta, alla
complessità delle procedure di elaborazione sim- bolica dei livelli soggiacenti
a quello alto. E’ nell’attività cognitiva ai livelli soggiacenti, allorché si
elaborano piani e strategie di soluzione di problemi, che viene evidenziata la
consapevolezza dell’agente. Simon e Vera ponevano infine un problema che
riguarda i limiti degli approcci reattivi, sul quale mi sono già soffermato, e
che mi sembra condivisibile: “E’ tuttora dubbio se questo approccio
behavior-based si possa estendere alla soluzione di pro- blemi più complessi.
Le rappresentazioni non centralizzate e le azioni non pianificate possono
funzionare bene nel caso di creature insettoidi, ma possono risultare insuffi-
cienti per la soluzione di problemi più complessi. Certo, la formica di Simon
non ha 17 Su questo tipo di comportamento, che può essere visto in termini di
“percezione attesa”, si veda bisogno di una rappresentazione centralizzata e
stabile del suo ambiente. Per tornare al nido zigzagando essa non usa una
rappresentazione della collocazione di ciascun gra- nello di sabbia in
relazione alla meta. Ma gli organismi superiori sembrano lavo- rare su una
rappresentazione del mondo più robusta, una rappresentazione più complessa di
quella di una formica, più stabile e tale da poter essere manipolata per
astrarre nuova informazione”. La successiva evoluzione della robotica sembra confermare
questa osservazione. Wikipedia Ricerca Entrata dell'Italia nella seconda
guerra mondiale Dichiarazione di guerra dell'Italia verso gli alleati nella
seconda guerra mondiale 1leftarrow blue.svg Voce principale: Storia del Regno
d'Italia. A seguito dell'attacco tedesco contro la Polonia, il capo del governo
Benito Mussolini, nonostante un patto di alleanza con la Germania, dichiarò la
non belligeranza italiana. L'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale
avvenne con una serie di atti formali e diplomatici solo dopo nove mesi,, e fu
annunciata da Mussolini stesso con un celebre discorso dal balcone di Palazzo
Venezia. Durante i nove mesi di incertezza operativa, il Duce, impressionato
dalle folgoranti vittorie tedesche, ma conscio della grave impreparazione
militare italiana, restò a lungo dubbioso fra diverse alternative, a volte
contrastanti fra loro, oscillando tra la fedeltà all'amicizia con Adolf Hitler,
l'impulso a rinnegarne la soffocante alleanza, la voglia di indipendenza
tattica e strategica, il desiderio di facili vittorie sul campo di battaglia e
la brama di essere ago della bilancia nello scacchiere della diplomazia
europea. Mussolini annuncia la dichiarazione di guerra dal balcone di
Palazzo Venezia a Roma AntefattiModifica Gli attriti con la Francia e
l'avvicinamento alla GermaniaModifica L'ambasciatore francese in Italia
André François-Poncet. Il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop incontra a
Roma MUSSOLINI e il ministro degli esteri italiano CIANO. Durante il colloquio,
Ribbentrop parlò di un possibile patto di alleanza fra Germania e Italia,
argomentando che, forse nel giro di tre o quattro anni, un confronto armato
contro Francia e Regno Unitosarebbe stato inevitabile. Alle molte domande di
Mussolini, il ministro degli esteri tedesco spiegò che esisteva un'alleanza fra
inglesi e francesi, i quali avrebbero cominciato insieme a riarmarsi, che
esisteva un patto di assistenza reciproca fra sovietici e francesi, che gli Stati
Uniti d'America non erano nelle condizioni di intromettersi in prima persona e
che la Germania era in ottimi rapporti con il Giappone, concludendo che «tutto
il nostro dinamismo può dirigersi contro le democrazie occidentali. Questa la
ragione fondamentale per cui la Germania propone il Patto e lo ritiene adesso
tempestivo. Il Duce non sembrava convinto e iniziò a tergiversare, ma
Ribbentrop catturò la sua attenzione affermando che il mar Mediterraneo, nelle
intenzioni di Adolf Hitler, sarebbe stato posto sotto il totale dominio
italiano, aggiungendo che l'Italia aveva in passato dimostrato la sua amicizia
verso la Germania e che adesso era «la volta dell'Italia di profittare
dell'aiuto tedesco. L'obiettivo di Hitler, cogliendo l'importanza strategica di
avere Roma dalla propria parte, consisteva nel ridurre il numero dei potenziali
nemici in una futura guerra, scongiurando l'eventuale avvicinamento dell'Italia
a Francia e Regno Unito, il che avrebbe significato il ritorno al vecchio
schieramento della prima guerra mondiale e al blocco marittimo che aveva
contribuito a piegare l'Impero tedesco di Guglielmo II. L'incontro fra
Ribbentrop, MUSSOLINI e CIANO, però, si concluse con un momentaneo nulla di
fatto. Dopo la conferenza di Monaco del 1938 la Francia si era
riavvicinata all'Italia, inviando a Roma un suo ambasciatore nella persona di
André François-Poncet, e Mussolini ritenne di poter approfittare del periodo di
buoni rapporti per farle tre richieste riguardanti il mantenimento della
particolare condizione degli italiani in Tunisia, l'ottenimento di alcuni posti
nel consiglio di amministrazione della compagnia del Canale di Suez e un
arrangiamento relativo alla città di Gibuti, che era il terminale dell'unica
ferrovia esistente per Addis Abeba, all'epoca capitale dell'Africa Orientale
Italiana. Infatti, gli obiettivi del Duce non comprendevano la conquista di
territori europei. Il primo ministro inglese Chamberlain e il suo ministro
degli esteri, lord Halifax, si recarono a Parigi e ultimarono i dettagli per la
collaborazione militare tra Francia e Regno Unito, mentre i rapporti fra Italia
e Francia iniziavano a deteriorarsi. Il successivo 30 novembre, durante un
discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni, il ministro degli esteri
Ciano pronunciò un discorso durante il quale, accennando alle rivendicazioni
irredentistiche italiane, venne interrotto dalle acclamazioni Nizza!, Savoia!,
Corsica!, partite da una trentina di deputati. In quel momento, nella tribuna
diplomatica, assisteva alla seduta anche l'ambasciatore francese André
François-Poncet, arrivato a Roma da appena una settimana. Una manifestazione
simile si verificò il giorno stesso in piazza di Monte Citorio, dove un
centinaio di dimostranti esternò le stesse acclamazioni. Nonostante la parvenza
di spontaneità, si era trattato di iniziative organizzate da Ciano e da Achille
Starace, i quali, chiedendo molto di più delle tre richieste di Mussolini per
poi fingere di accontentarsi del poco ottenuto per via negoziale, avevano
inscenato le manifestazioni per impressionare François-Poncet, il quale infatti
avvisò immediatamente Parigi dell'accaduto.[8] Il governo francese gli ordinò
allora di chiedere spiegazioni e arrivò alla conclusione che, se la situazione
era quella, una futura guerra contro l'Italia sarebbe stata inevitabile. La
sera stessa, durante una seduta del Gran consiglio del fascismo, Mussolini
prese però le distanze da quanto accaduto in aula, dato che l'Italia aveva da
poco ripreso buone relazioni con la Francia e che la protesta era stata
intrapresa a sua insaputa. François-Poncet chiese a CIANO se le grida dei
deputati potevano rappresentare gli orientamenti della politica estera italiana
e se l'Italia riteneva ancora in vigore l'accordo franco-italiano. Ciano,
dissimulando la propria paternità su quanto accaduto, rispose che il Governo
non poteva assumersi la responsabilità delle affermazioni dei singoli, ma che
le riteneva un chiaro campanello d'allarme del sentire comune nazionale, e che
era auspicabile, secondo la sua opinione, una revisione dell'accordo. Di fronte a risposte così poco rassicuranti,
la Francia iniziò ad aspettarsi un attacco italiano. Tuttavia, lo stato d'animo
dei vertici militari d'oltralpe era improntato all'ottimismo: il generale Henri
Giraud affermò infatti che un eventuale conflitto sarebbe stato, per le truppe
francesi, «una semplice passeggiata nella pianura del Po», mentre altri
ufficiali parlavano di un'azione militare «facile come infilare un coltello nel
burro. Il primo ministro francese Édouard Daladier, irrigidendo la propria
posizione nei confronti dell'Italia, affermò che non avrebbe mai ceduto ad
alcuna pretesa straniera, facendo così sfumare anche la speranza di
accoglimento delle tre richieste del Duce su Tunisia, Suez e Gibuti. Lo Stato
Maggiore francese, fin dal 1931, aveva disposto dei piani per l'invasione
militare dell'Italia, ampliandoli dopo ma il generale Alphonse Georges fece
notare che nessuna azione sarebbe stata possibile contro l'Italia se, sulla
Francia, fosse pesata una minaccia tedesca. Mussolini decise di aderire al
patto italo-germanico, comunicando a Ribbentrop il proprio impegno. Secondo
Ciano, il Duce si convinse ad accettare la proposta tedesca a causa della
comprovata alleanza militare tra Francia e Regno Unito, dell'orientamento
ostile del governo francese nei confronti dell'Italia e dell'atteggiamento
ambiguo degli Stati Uniti d'America, che mantenevano una posizione defilata, ma
che sarebbero stati pronti a rifornire di armamenti Londra e Parigi. Il maresciallo
Pietro Badoglio, ribadendo la linea mussoliniana tracciata l'anno precedente,
riferì allo Stato Maggiore Generale il contenuto di un suo colloquio avuto con
il Duce due giorni prima, durante il quale «il Capo del Governo mi ha
dichiarato che, nelle rivendicazioni verso la Francia, non intende affatto
parlare di Corsica, Nizza e Savoia. Queste sono iniziative prese da singoli, le
quali non entrano nel suo piano di azione. Mi ha dichiarato, inoltre, che non
intende porre domande di cessioni territoriali alla Francia perché è convinto
che essa non ne può fare: quindi si metterebbe nella situazione o di ritirare
una eventuale richiesta (e ciò non sarebbe dignitoso) o di fare la guerra -- e
ciò non è nelle sue intenzioni. Gli sforzi sostenuti per la guerra d'Etiopia
del 1935-36 e per il supporto alla guerra civile spagnola del 1936-39avevano
comportato spese eccezionali per l'Italia, le quali, unite alla limitata
capacità produttiva dell'industria, alla lentezza del riarmo e alla scarsa
preparazione dell'esercito, spinsero il Duce ad annunciare al Gran consiglio
del fascismo, il 4 febbraio 1939, che il Paese non avrebbe potuto partecipare a
un nuovo conflitto. La firma del Patto d'AcciaioModifica Italia e
Germania, rappresentate rispettivamente dai ministri degli esteri Ciano e
Ribbentrop, concretizzarono la proposta tedesca dell'anno precedente e
firmarono a Berlino un'alleanza difensiva-offensiva, che Mussolini aveva
inizialmente pensato di battezzare Patto di Sangue, ma che poi aveva più
prudentemente chiamato Patto d'Acciaio. Il testo dell'accordo prevedeva che le
due parti contraenti fossero obbligate a fornirsi reciproco aiuto politico e
diplomatico in caso di situazioni internazionali che mettessero a rischio i
propri interessi vitali. Questo aiuto sarebbe stato esteso anche al piano
militare qualora si fosse scatenata una guerra. I due Paesi si impegnavano,
inoltre, a consultarsi permanentemente sulle questioni internazionali e, in
caso di conflitti, a non firmare eventuali trattati di pace
separatamente.[16] Pochi giorni prima, Ciano aveva incontrato Ribbentrop
per chiarire alcuni punti del trattato prima di firmarlo. In particolare la
parte italiana, conscia della propria impreparazione militare, voleva
rassicurazioni sul fatto che i tedeschi non avessero intenzione di iniziare a
breve una nuova guerra europea. Il ministro Ribbentrop tranquillizzò Ciano,
dicendo che «la Germania è convinta della necessità di un periodo di pace che
dovrebbe essere non inferiore ai 4 o 5 anni»[17] e che le divergenze con la
Polonia per il controllo del Corridoio di Danzica sarebbero state appianate «su
una strada di conciliazione». Siccome la rassicurazione di nessun conflitto
armato per quattro o cinque anni faceva arrivare al 1943 o al 1944e, quindi,
coincideva con la previsione di Mussolini del 4 febbraio 1939 di essere
militarmente pronto per il 1943, il Duce diede il suo assenso definitivo per la
firma dell'alleanza.[17] Vittorio Emanuele III, nonostante la decisione di
Mussolini, continuò a manifestare i propri sentimenti antigermanici e il
successivo 25 maggio, al ritorno di Ciano da Berlino, commentò che «i tedeschi
finché avran bisogno di noi saranno cortesi e magari servili. Ma alla prima
occasione, si riveleranno quei mascalzoni che sono».[18] Dal 27 al 30
maggio il Duce fu impegnato nella stesura di un testo indirizzato ad Hitler,
successivamente passato alla storia come memoriale Cavallero dal nome del
generale che glielo consegnò ai primi di giugno, nel quale venivano inserite
alcune interpretazioni italiane del Patto da poco stipulato. Nello specifico,
Mussolini, nonostante ritenesse inevitabile una futura «guerra fra le nazioni
plutocratiche e quindi egoisticamente conservatrici e le nazioni popolose e
povere», ribadì che Italia e Germania avevano «bisogno di un periodo di pace di
durata non inferiore ai tre anni» allo scopo di completare la propria
preparazione militare, e che un eventuale sforzo bellico avrebbe potuto avere
successo. Ciano si recò al Berghof, vicino Berchtesgaden, per un colloquio con
Hitler. Quest'ultimo, parlando del Corridoio di Danzica, prospettò un eventuale
confronto armato circoscritto a Germania e Polonia qualora Varsavia avesse
rifiutato le trattative proposte dai tedeschi, specificando che, in base alle
informazioni in suo possesso, né Parigi né Londra sarebbero intervenute.
Inoltre, il Cancelliere tedesco accennò a delle trattative segrete in corso con
l'Unione Sovietica per un'alleanza. Ciano ricordò che era stato definito, alla
firma del Patto d'Acciaio, di far passare alcuni anni prima di intraprendere
azioni belliche, ma il Führer lo interruppe dicendo che «li avrebbe attesi,
secondo quanto era stato concordato. Ma le provocazioni della Polonia e l'aggravarsi
della situazione» avevano «reso urgente l'azione tedesca. Azione però che non
provocherà un conflitto generale. Hitler chiede al Capo del Governo italiano di
quali mezzi e di quali materie prime avesse bisogno per riuscire a prendere
parte a un'eventuale nuova guerra. Nella speranza che il Paese ne fosse
esonerato, il Duce rispose con una lunghissima lista appositamente abnorme e
impossibile da soddisfare, talmente esagerata da essere definita da Galeazzo
Ciano «tale da uccidere un toro. L'elenco - soprannominato Lista del molibdeno
a causa delle 600 tonnellate richieste di questo materiale - comprendeva, fra
petrolio, acciaio, piombo e numerosi altri materiali, un totale di quasi
diciassette milioni di tonnellate di rifornimenti e specificava che, senza tali
forniture da ricevere subito, l'Italia non avrebbe potuto assolutamente
partecipare a una nuova guerra. Il Führer, nonostante il sospetto che Mussolini
lo stesse ingannando, rispose dicendo che comprendeva la precaria situazione
italiana e che poteva inviare una piccola parte del materiale, ma che gli era
impossibile soddisfare per intero le richieste nostrane.[21] Il 30 agosto
la Germania inviò alla Polonia un ultimatum per la cessione del Corridoio di
Danzica e la Polonia ordinò la mobilitazione generale. La mattina del giorno
successivo, nonostante la situazione fosse già disperata, Mussolini si offrì
come mediatore presso Hitler affinché la Polonia cedesse pacificamente Danzica
alla Germania, ma il ministro degli esteri inglese Halifax rispose che tale
soluzione era inaccettabile. Appresa la notizia, nel pomeriggio dello stesso
giorno il Duce propose allora a Francia e Regno Unito una conferenza per il
successivo 5 settembre, «con lo scopo di rivedere quelle clausole del trattato
di Versaglia che turbano la vita europea».[23] Mussolini,
precedentemente, aveva già tentato di instradare la situazione nell'alveo di
una soluzione diplomatica. Ciano, nel suo diario, in più momenti annotò che il
Duce «è d'avviso che una coalizione di tutte le altre Potenze, noi compresi,
potrebbe frenare l'espansione germanica»;[24] «Il Duce sottolinea la necessità
di una politica di pace»;[25] «[...] si potrebbe parlare col Führer di lanciare
una proposta di conferenza internazionale»;[26] «Il Duce tiene molto a che io
provi ai tedeschi che lo scatenare una guerra adesso sarebbe una follia [...]
Mussolini ha sempre in mente l'idea di una conferenza internazionale. Il Duce raccomanda
ancora ch'io faccia presente ai tedeschi che bisogna evitare il conflitto con
la Polonia [...] il Duce ha parlato con calore e senza riserve della necessità
della pace»;[28]«Vedo nuovamente il Duce. Tentativo estremo: proporre a Francia
e Inghilterra una conferenza per il 5 settembre»;[29] «[...] facciamo cenno a
Berlino della possibilità di una conferenza».[30] Durante la sera del 31
agosto, però, Mussolini venne informato che Londra aveva tagliato le
comunicazioni con l'Italia. La scelta della non belligeranzaModifica
Truppe tedesche, il 1º settembre 1939, rimuovono una sbarra di confine tra
Germania e Polonia All'alba del 1º settembre le forze armate tedesche,
utilizzando come casus belli l'incidente di Gleiwitz, diedero inizio alla
campagna di Polonia, varcandone il confine alla volta di Varsavia. Mussolini,
avendo firmato solo tre mesi prima l'alleanza con il Reich, fu messo di fronte
alla scelta se scendere o meno in campo a fianco di Hitler. Ricevuta notizia
dell'attacco tedesco e conscio dell'impreparazione italiana, la mattina dello
stesso giorno il Duce telefonò subito all'ambasciatore italiano a Berlino,
Bernardo Attolico, chiedendo che Hitler gli mandasse un telegramma per
sganciarlo dagli obblighi del Patto, in modo da non passare per traditore agli
occhi dell'opinione pubblica. Il Führer rispose immediatamente, in modo molto
cortese, accogliendo senza problemi la posizione dell'Italia, dicendo che
ringraziava Mussolini per l'appoggio morale e politico e rassicurandolo sul
fatto che non aspettava il sostegno militare italiano. Il telegramma, però,
probabilmente per punire la beffa italiana della Lista del molibdeno, non venne
pubblicato da alcun quotidiano del Reich e non venne trasmesso alla radio,
facendo successivamente nascere, nell'opinione pubblica tedesca, una crescente
ostilità nei confronti degli italiani, percepiti come inaffidabili e traditori
del Patto.[32] Galeazzo Ciano riferì che Mussolini, avendo percepito questa
crescente avversione, ancora il 10 marzo 1940 disse a Ribbentrop di essere
«molto riconoscente al Führer per il telegramma nel quale questi ha dichiarato
che non aveva bisogno dell'aiuto militare italiano per la campagna contro la
Polonia», ma che sarebbe stato meglio «se questo telegramma fosse stato
pubblicato anche in Germania».[33] Non potendo scegliere la neutralità
per non tradire l'amicizia con Hitler, nella seduta del Consiglio dei Ministri
delle 15:00 del 1º settembre 1939 il Duce rese nota ufficialmente la posizione
di non belligeranza.[34]La mancata consultazione dell'Italia da parte della
Germania prima dell'invasione della Polonia e prima della firma del patto
Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 fra Germania e Unione Sovietica,
comunque, secondo l'interpretazione italiana erano violazioni dei tedeschi
dell'obbligo di consultazione fra i due Paesi, previsto dal testo del Patto
d'Acciaio, consentendo perciò a Mussolini di dichiarare la non belligeranza
senza formalmente venir meno ai patti sottoscritti. Il 2 settembre
Mussolini ripropose l'idea di una conferenza internazionale: inaspettatamente,
Hitler rispose dichiarandosi disposto a fermare l'avanzata tedesca e a
intervenire in una conferenza di pace cui avrebbero partecipato Germania,
Italia, Francia, Regno Unito, Polonia e Unione Sovietica. Gli inglesi,
tuttavia, posero come condizione inderogabile che i tedeschi abbandonassero
immediatamente i territori polacchi occupati il giorno prima. Galeazzo Ciano
riportò nel suo diario che «non tocca a noi dare un consiglio di tale natura a
Hitler, che lo respingerebbe con decisione e forse con sdegno. Dico ciò ad
Halifax, ai due Ambasciatori e al Duce, e infine telefono a Berlino che, salvo
avviso contrario dei tedeschi, noi lasciamo cadere le conversazioni. L'ultima
luce di speranza si è spenta».[30] Secondo lo storico Renzo De Felice: «Così,
nelle prime ore tra il 2 e il 3 settembre, sulle secche dell'intransigenza
inglese forse più che su quelle dell'intransigenza tedesca [...], naufragò la
navicella della mediazione italiana».[35] Il 3 settembre Regno Unito e Francia,
in virtù di un trattato di alleanza con la Polonia, dichiararono guerra alla
Germania. Il 10 settembre l'ambasciatore Attolico, facendo riferimento
all'accordo fra Hitler e Mussolini per una non immediata entrata in guerra
dell'Italia e al telegramma di conferma di Hitler, comunicò che nel Reich «le
grandi masse popolari, ignare dell'accaduto, cominciano già a dar segno di una
crescente ostilità. Le parole tradimento e spergiuro ricorrono con
frequenza».[36] Il successivo 24 settembre, a conferma
dell'impreparazione italiana, il Commissariato Generale per le Fabbricazioni di
Guerra sondò il grado di approntamento delle Forze Armate, ricevendo come
risposta dagli Stati Maggiori che, salvo imprevisti, la Regia Aeronautica
sarebbe riuscita a ripianare sufficientemente le proprie carenze entro la metà
del 1942, la Regia Marina alla fine del 1943 e il Regio Esercito alla fine del
1944.[37] Inoltre l'economia italiana risultava fortemente danneggiata dal
blocco navale alle esportazioni tedesche di carbone, imposto da Regno Unito e
Francia e dall'applicazione del diritto di angheria, il quale prevedeva che
Londra e Parigi potessero non solo attaccare il naviglio nemico, ma anche
controllare il naviglio neutrale (o non belligerante) e porre sotto sequestro
merci e navi neutrali (o non belligeranti) provenienti da una nazione nemica o
dirette verso di essa. Dall'agosto al dicembre 1939, infatti, gli inglesi
fermarono a Gibilterra e a Suez, con vari pretesti, 847 navi mercantili e
passeggeri italiane (cifra poi salita a 1.347 navi al 25 maggio 1940),
rallentando fortemente i traffici di qualsiasi merce nel Mar Mediterraneo,
arrecando grave danno alla produttività nazionale e peggiorando i rapporti fra
Roma e Londra.[39] Durante l'inverno il Regno Unito fece sapere di essere
disposto a vendere carbone all'Italia, ma ad un prezzo stabilito
unilateralmente da Londra, senza garanzia sulle tempistiche di consegna e a
patto che l'Italia rifornisse di armamenti pesanti Regno Unito e Francia.[40]
Siccome l'accettazione di una simile proposta avrebbe comportato il crollo
delle relazioni fra Italia e Germania e una sicura reazione di Hitler, Galeazzo
Ciano comunicò il rifiuto del governo italiano. La cronica mancanza di carbone
e di approvvigionamenti causata dal blocco navale anglo-francese, però, minava
fortemente la stabilità nazionale e rischiava di portare il Paese all'asfissia
economica. La Germania intervenne, rifornendo l'Italia del carbone necessario e
rendendola così ancora più dipendente da Berlino, anche se la fornitura era
molto rallentata perché, per aggirare il blocco marittimo, doveva
obbligatoriamente avvenire via rotaie dal passo del Brennero. Per i generi di
prima necessità, invece, l'Italia sopperì parzialmente mediante l'estensione
delle politiche autarchiche adottate ai tempi della guerra d'Etiopia.[41] Gli
esorbitanti costi di gestione dell'Africa Orientale Italiana, uniti ai suoi
magri guadagni, stavano però rivelando che la conquista dell'impero era stata
più un aggravio che un beneficio per le casse dello Stato.[42] Per quanto riguarda
le risorse umane, le truppe italiane risultavano impreparate sotto ogni
aspetto: nonostante le «otto milioni di baionette» millantate da Mussolini, la
stragrande maggioranza dei soldati italiani non era motivata da alcun odio
contro inglesi e francesi, non era addestrata a impieghi specifici come
l'assalto a opere fortificate o l'aviotrasporto ed era cronica la mancanza di
munizioni, mezzi motorizzati e indumenti adatti.[43] Il Duce, a
conoscenza della crescente ostilità dei tedeschi nei confronti degli italiani,[32]
aveva paura di una possibile ritorsione di Hitler vincitore e si era posto il
problema di quale sorte, in caso di vittoria tedesca, il Führer avrebbe
riservato all'Italia qualora questa si fosse sottratta ai suoi doveri di
alleata.[44] Il generale Emilio Faldella, infatti, testimoniò che «più si
profilava l'eventualità della vittoria germanica, più Mussolini temeva la
vendetta di Hitler».[45] Sulla situazione, poi, pesava la questione dell'Alto
Adige, una zona di territorio italiano popolata prevalentemente da abitanti di
lingua e cultura tedesca che, nonostante le rassicurazioni sull'inviolabilità
dei confini, Hitler avrebbe potuto sfruttare come casus belli, nell'ottica
pangermanista di unificare tutte le popolazioni di stirpe germanica, per
annettere quel territorio al Reich e per invadere militarmente l'Italia
settentrionale.[46]Addirittura, il Duce fu anche sfiorato dall'idea che
convenisse cambiare campo e schierarsi con gli anglo-francesi. Il 30 settembre
1939, infatti, alludendo alla scarsità delle riserve di carburante necessarie
per la guerra, commentò che, senza tali scorte, non sarebbe stato possibile
impegnarsi «né col gruppo A né col gruppo B», facendo perciò supporre che,
almeno in linea teorica, il Duce non escludeva a priori un ribaltamento delle
alleanze.[47] Spaventato dalla situazione, diffidente nei confronti dei
tedeschi e preoccupato da una loro eventuale calata nella Penisola, il
successivo 21 novembre Mussolini ordinò il prolungamento difensivo del Vallo
Alpino del Littorioanche sul confine con il Reich, nonostante l'alleanza fra
Italia e Germania, creando il Vallo Alpino in Alto Adige. La zona,
massicciamente fortificata a tempo di record, venne poi soprannominata dalla
popolazione locale "Linea non mi fido", con evidente riferimento
ironico alla Linea Sigfrido.[48] Il problema della non
belligeranzaModifica La bandiera da guerra tedesca e la bandiera italiana
sventolano insieme Gli esiti della campagna di Polonia, contraddistinta da una
serie di impressionanti e fulminee vittorie dei tedeschi, contrastavano con la
condizione di non belligeranza italiana, mettendo implicitamente in risalto il
fallimento della politica militarista che Mussolini aveva condotto durante
tutto il suo governo e dando l'inaccettabile impressione che l'Italia potesse
essere considerata, in sede internazionale, come un Paese debole, ininfluente,
secondario o codardo.[49] Il Duce era infatti convinto che, nonostante
l'insufficienza militare nostrana, l'Italia non avrebbe potuto astenersi dalla
guerra. Secondo il cosiddetto Promemoria segretissimo 328 del 31 marzo 1940,[N
1][50] infatti, l'Italia non poteva restare non belligerante «senza
dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di
una Svizzera moltiplicata per dieci». Il problema, secondo Mussolini, non
consisteva nel decidere se il Paese avrebbe partecipato o no al conflitto,
«perché l'Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra, si tratta soltanto
di sapere quando e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile,
compatibilmente con l'onore e la dignità, la nostra entrata in guerra».[49]
Nello stesso testo, il Duce tornò a riflettere sull'opportunità di denunciare
il Patto d'Acciaio e di schierarsi al fianco di Londra e Parigi, concludendo
però che si trattava di una strada non praticabile e che, anche «se l'Italia
cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non
eviterebbe la guerra immediata colla Germania», ritenendo uno scontro con il
Reich un'eventualità più disastrosa di un conflitto contro Francia e Regno
Unito.[49] Nonostante ciò Mussolini stesso covava la speranza, ormai
flebile, di riuscire ancora a riportare la situazione nell'alveo delle
trattative diplomatiche, credendo possibile una sorta di ripetizione della
conferenza di Monaco del 1938. Per alcuni mesi il Duce restò infatti dubbioso
fra tre possibili alternative:[51] fungere da mediatore in una riconciliazione
per via negoziale fra tedeschi e anglo-francesi, in modo da ottenere da tutti
qualche sorta di ricompensa, oppure rischiare e scendere in guerra al fianco
della Germania (ma solo quando quest'ultima sarebbe stata a un passo dalla
vittoria finale), oppure condurre una sorta di guerra parallela a quella della
Germania, in piena autonomia da Hitler e con obiettivi limitati ed
esclusivamente italiani, che gli avrebbe consentito di sedersi al tavolo dei
vincitori e di raccogliere qualche guadagno con il minimo sforzo, essendo
costretto a centellinare le poche risorse disponibili,[52] e senza perdere la
faccia.[53] Scartata la prima ipotesi, dal momento che le richieste di
trattative avanzate da Hitler erano state respinte, Mussolini si orientò allora
sulla seconda e sulla terza, in realtà strettamente interconnesse fra loro,
maturando questa convinzione almeno già dal 3 gennaio 1940, quando scrisse una
lettera al Führer per comunicargli che l'Italia avrebbe preso parte al
conflitto, ma solo nel momento che avrebbe ritenuto più favorevole:[54] non
troppo presto per evitare una guerra logorante, e non troppo tardi da arrivare
ormai a cose fatte.[55] Nella stessa lettera, però, nonostante l'impegno a
entrare in guerra, Mussolini dimostrò di nuovo la propria titubanza, suggerendo
contraddittoriamente a Hitler di trovare un accomodamento pacifico con Parigi e
Londra, in quanto «non è sicuro che si riesca a mettere in ginocchio gli
alleati franco-inglesi senza sacrifici sproporzionati agli obiettivi».[56] Il
10 marzo 1940, dopo un incontro con il ministro degli esteri tedesco
Ribbentrop, il Duce confermò questa linea, come risulta dal contenuto di una
sua telefonata con Claretta Petacci intercettata dagli stenografi del Servizio
Speciale Riservato.[N 2] Nella telefonata, Mussolini parlò dell'eventuale
entrata dell'Italia in guerra come di un fatto ineludibile, senza però
precisare come e quando.[57] I dubbi sul da farsiModifica Mussolini
e Hitler nel 1940 Il 18 marzo Mussolini e Hitler si incontrarono per un
colloquio al passo del Brennero. Secondo Galeazzo Ciano, l'obiettivo del Duce
era dissuadere il Führer dal proposito di iniziare un'offensiva terrestre
contro l'Europa occidentale.[58] L'incontro, invece, finì in un lunghissimo
monologo del Cancelliere tedesco, con il Duce che a stento riuscì ad aprire
bocca. Fra marzo e aprile Hitler intensificò la sua pressione psicologica su
Mussolini, mentre il fronte antitedesco sembrava crollare in una serrata
sequenza di vittorie germaniche. Le Forze Armate del Reich, mettendo in atto
l'efficace tattica del Blitzkrieg, travolsero infatti la Danimarca (9 aprile),
la Norvegia (9 aprile-10 giugno), i Paesi Bassi (10-17 maggio), il Lussemburgo
(10 maggio), il Belgio (10-28 maggio) e iniziarono l'attacco alla Francia. I
vertici militari italiani prevedevano, secondo il generale Paolo Puntoni, la
«liquidazione della Francia entro giugno e dell'Inghilterra entro luglio». Le
folgoranti vittorie tedesche, unite alle risposte tardive e inefficaci di
inglesi e francesi,[59]fecero rimanere gli italiani col fiato sospeso, tutti
più o meno consapevoli che dal conflitto sarebbero dipese le sorti dell'Europa
e dell'Italia, e causarono in Mussolini una serie di reazioni contrastanti che,
«con gli alti e bassi tipici del suo carattere», continuarono ad accavallarsi,
rendendolo incapace di prendere una decisione che sapeva di dover prendere, ma
alla quale cercava di sottrarsi.[60] A chi gli chiedeva un parere
sull'eventualità che l'Italia restasse fuori dal conflitto, Mussolini,
riferendosi all'attacco tedesco in corso in quei mesi, rispondeva che: «se gli
inglesi e i francesi reggono il colpo ci faranno pagare non una, ma venti
volte, Etiopia, Spagna e Albania, ci faranno restituire tutto con gli
interessi».[61] Il 28 aprile papa Pio XII inviò un messaggio al Duce per
convincerlo a restare fuori dal conflitto. Galeazzo Ciano, riferendosi al messaggio,
annotò sul suo diario che: «l'accoglienza di Mussolini è stata fredda,
scettica, sarcastica».[62] Il 6 maggio il re Vittorio Emanuele III, accennando
alla «macchina militare ancora debolissima», sconsigliò l'entrata in guerra,
raccomandando al Duce di rimanere nella posizione di non belligeranza il più a
lungo possibile.[63]Contemporaneamente la diplomazia europea si impegnò per
evitare che Mussolini scendesse in campo al fianco della Germania: per
impreparata che fosse l'Italia, il suo apporto rischiava di essere decisivo per
piegare la resistenza francese e avrebbe potuto creare grosse difficoltà anche
al Regno Unito. Il 14 maggio, su insistenza francese, il presidente degli Stati
Uniti d'America Franklin Delano Rooseveltindirizzò al Duce un messaggio dai
toni concilianti, il quarto da gennaio, per dissuaderlo dall'entrare in guerra.
Due giorni dopo anche il primo ministro inglese Winston Churchill seguì
l'esempio, ma con un messaggio più intransigente, in cui avvertiva che il Regno
Unito non si sarebbe sottratto alla lotta, qualunque fosse stato l'esito della
battaglia sul continente. Il 26 maggio partì un quinto messaggio di Roosevelt
al Duce.[64] Tutte le risposte di Mussolini confermarono che voleva
rimanere fedele all'alleanza con la Germania e agli "obblighi
d'onore" che essa comportava, ma privatamente non aveva ancora raggiunto
la certezza sul da farsi.[65] Pur parlando continuamente di guerra con Galeazzo
Ciano e con gli altri suoi collaboratori,[66] ed essendo profondamente colpito
dai successi tedeschi, almeno fino al 27-28 maggio (se si esclude un'improvvisa
convocazione dei tre sottosegretari militari la mattina del 10 maggio) non
risulta che il numero dei colloqui con i responsabili delle Forze Armate avesse
avuto alcun incremento, e nulla faceva presagire un intervento a
breve.[67] Mentre i francesi si aspettavano un lento avanzare della
fanteria tedesca attraverso il Belgio, o al massimo un improbabile attacco
frontale contro le fortificazioni della Linea Maginot, circa 2.500 carri armati
tedeschi penetrarono in Francia dopo aver attraversato in modo fulmineo la
foresta delle Ardenne, una regione collinare caratterizzata da profonde vallate
e da fitti arbusti che Parigi riteneva, fino a quel momento, del tutto inadatta
a essere attraversata da carri armati. Alla sorpresa di un'azione tatticamente
così brillante seguì il rapido e totale collasso delle Forze Armate francesi,
che fece nascere la convinzione, nei vertici militari italiani, che il Regno
Unito non sarebbe stato in grado di fronteggiare da solo un attacco tedesco e
che sarebbe stato costretto a scendere a patti con Berlino e che gli Stati
Uniti non avrebbero avuto la volontà né il tempo utile di impegnarsi
direttamente nel conflitto, dato che non lo avevano fatto neanche per salvare
la Francia e per servirsi di essa come una testa di ponte sul continente
europeo.[68] Inoltre, la maggioranza dell'opinione pubblica statunitense era
contraria alla guerra e Franklin Delano Roosevelt, impegnato nella campagna
elettorale per le elezioni presidenziali del 1940, non poteva non tenerne
conto.[69] Il direttore dell'OVRA, Guido Leto, dispose la raccolta di
indiscrezioni, informazioni riservate e intercettazioni telefoniche per sondare
i sentimenti degli italiani nei confronti della guerra, allo scopo di creare
uno spaccato il più aderente possibile alla realtà da sottoporre al Duce, che
chiedeva un quadro completo della situazione.[70] Secondo tali relazioni, «i
nostri informatori segnalarono, prima sporadicamente, poi con maggiore
frequenza ed ampiezza, uno stato di timore - che andava diffondendosi
rapidamente - che la Germania fosse sul punto di riuscire a chiudere assai
brillantemente e da sola la tremenda partita e che, di conseguenza, noi - se
pure ideologicamente alleati - saremmo rimasti privi di ogni beneficio per
quanto aveva tratto colle nostre aspirazioni nazionali. Che, a causa della
nostra prudenza - di cui veniva attribuita la responsabilità a Mussolini -
saremmo stati, forse, anche puniti dal tedesco e che, quindi, se ancora in tempo,
bisognava bruciare le tappe ed entrare subito in guerra».[71] Leto, inoltre,
aggiunse che «pochissime voci, e non certo di politicanti delle due parti
avverse e con debolissimi echi nel paese, si levarono ad ammonire sulle
tremende incognite che la situazione presentava».[71] In questo clima,
perciò, anche Mussolini si convinse che l'Italia potesse «arrivare tardi», in
quanto era opinione comune[72] che il Regno Unito avesse i giorni contati e che
la conclusione della guerra fosse ormai prossima.[73] A nulla servirono le
opposizioni del re e di Pietro Badoglio, motivate dall'impreparazione del Regio
Esercito e da un giudizio prudente sulle vittorie tedesche in Francia.[74] Il
sovrano, inoltre, pose l'accento sull'importanza che avrebbe potuto avere nel
conflitto un eventuale intervento armato statunitense, che sarebbe stato
foriero di numerose incognite.[75] Dello stesso avviso era anche il principe
ereditario Umberto di Savoia. Galeazzo Ciano scrisse nel suo diario: «Vedo il
Principe di Piemonte. È molto antitedesco e convinto della necessità di
rimanere neutrali. Scettico, impressionantemente scettico sulle possibilità
effettive dell'esercito nelle attuali condizioni, che giudica pietose, di
armamento».[76] Secondo Mussolini, invece, le rapide vittorie tedesche
erano il presagio dell'imminente fine della guerra, per cui l'insufficienza
effettiva delle Forze Armate italiane assumeva ormai un'importanza
trascurabile.[77]Accanto al suo timore che l'Italia non avrebbe ricevuto alcun
beneficio nella futura conferenza di pace qualora il conflitto fosse terminato
prima dell'intervento nostrano,[61] nacque in Mussolini la convinzione che gli
fosse necessario «solo un pugno di morti»[78] per potersi sedere al tavolo dei
vincitori e per avere diritto a reclamare parte dei guadagni, senza la
necessità di un esercito preparato e adeguatamente equipaggiato in una guerra
che, secondo l'opinione pubblica nella tarda primavera del 1940,[59] sarebbe
durata ancora solo poche settimane e il cui destino era già scritto in favore
della Germania.[75][79] L'entrata in guerra dell'ItaliaModifica Ultimi
tentativi di mediazioneModifica Il presidente statunitense Franklin
Delano Roosevelt A fine maggio, nei giorni in cui i tedeschi vincevano la
battaglia di Dunkerque contro gli anglo-francesi e il re del Belgio Leopoldo
III firmava la resa del proprio paese, il Duce si convinse che fosse arrivato
il «momento più favorevole» che attendeva da gennaio ed ebbe una decisiva
virata verso l'intervento: il 26 ricevette una lettera dal Führer che lo
sollecitava a intervenire e, contemporaneamente, un rapporto inviato a Roma
dall'ambasciatore italiano a Berlino Dino Alfieri, che era succeduto a Bernardo
Attolico, su un suo colloquio con Hermann Göring. Quest'ultimo aveva suggerito
all'Italia di entrare in guerra quando i tedeschi avessero «liquidata la sacca
anglo-franco-belga», situazione che si stava verificando proprio in quei
giorni. Entrambi produssero nel dittatore una forte impressione, tanto che
Ciano annotò nel proprio diario che Mussolini «si propone di scrivere una
lettera ad Hitler annunciando il suo intervento per la seconda decade di
giugno». Ogni settimana, di fronte all'ampiezza della vittoria tedesca, poteva
essere quella decisiva per la fine della guerra e l'Italia, secondo Mussolini,
non poteva farsi trovare non in armi.[80] Lo stesso giorno, in un estremo
tentativo di scongiurare la partecipazione italiana al conflitto, il primo
ministro inglese Winston Churchill aveva, previo accordo con il suo omologo
francese Paul Reynaud, inviato al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano
Roosevelt la bozza di un accordo, che quest'ultimo avrebbe dovuto
successivamente trasmettere al Duce. Secondo tale documento, conservato presso
i National Archives di Londra con il nome Suggested Approach to Signor
Mussolini, Regno Unito e Francia ipotizzavano la vittoria finale della Germania
e chiedevano a Mussolini di moderare le future richieste di Hitler.[81] Nello
specifico, secondo questa proposta di accordo, Londra e Parigi promettevano di
non aprire alcun negoziato con Hitler qualora quest'ultimo non avesse ammesso
il Duce, nonostante la mancata partecipazione italiana al conflitto, alla
futura conferenza di pace in posizione uguale a quella dei
belligeranti.[81] Inoltre, Churchill e Reynaud si impegnavano a non
ostacolare le pretese italiane alla fine della guerra (che principalmente
consistevano, in quel momento, nell'internazionalizzazione di Gibilterra, nella
partecipazione italiana al controllo del Canale di Sueze in acquisizioni
territoriali nell'Africa francese).[81]Mussolini, però, in cambio avrebbe
dovuto garantire di non aumentare successivamente le proprie richieste, avrebbe
dovuto salvaguardare Londra e Parigi frenando le pretese di Hitler vincitore,
avrebbe dovuto revocare la non belligeranza e dichiarare la neutralitàitaliana
e avrebbe dovuto mantenere tale neutralità per tutta la durata del conflitto.
Roosevelt si dichiarò personalmente garante per il futuro rispetto di tale
accordo.[82] Il 27 maggio l'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, William
Phillips, recò a Galeazzo Ciano la missiva, indirizzata a Mussolini, con il
testo dell'accordo.[83] Lo stesso giorno il governo di Parigi, per rendere la
proposta di Roosevelt ancora più allettante, mediante l'ambasciatore francese
in ItaliaAndré François-Poncet fece sapere al Duce di essere disponibile a
trattare «sulla Tunisia e forse anche sull'Algeria».[81] Secondo lo
storico Ciro Paoletti, «Roosevelt prometteva per un futuro incerto e lontano.
Sarebbe stato in grado di mantenere? E se per allora non fosse stato più
presidente? L'Italia aveva già avuto in passato, nel 1915 e negli anni
seguenti, delle notevoli promesse, poi non mantenute a Versailles nel 1919,
come ci si poteva fidare? Mussolini doveva scegliere fra le promesse a lunga
scadenza, fatte per di più da un presidente che di lì a sei mesi doveva
presentarsi alla rielezione, e le possibilità vicine, concrete, date da una
Francia al collasso, da un'Inghilterra allo stremo e dalla paura di cosa
avrebbe potuto fargli subito dopo la ormai certa vittoria in Francia - e assai
prima di qualsiasi intervento americano - una Germania trionfante».[82] Secondo
gli storici Emilio Gin ed Eugenio Di Rienzo, inoltre, il Duce non avrebbe mai
accettato di sedersi al futuro tavolo delle trattative di pace, accanto a un
Hitler trionfante, solo "per concessione" degli Alleati, senza aver
combattuto, in quanto la sua figura in sede internazionale ne sarebbe uscita
debolissima e la sua autorità, paragonata a quella del Führer, sarebbe stata
del tutto irrilevante.[81]Galeazzo Ciano, nel suo diario, alla data del 27
maggio riportò infatti che Mussolini «se pacificamente potesse avere anche il
doppio di quanto reclama, rifiuterebbe».[84] La risposta a William Phillips,
infatti, fu negativa.[83] Gli atti formali e l'annuncio
pubblicoModifica La folla, radunata di fronte a Palazzo Venezia, assiste
al discorso sulla dichiarazione di guerra dell'Italia a Francia e Gran Bretagna
Il 28 maggio il Duce comunicò a Pietro Badoglio la decisione di intervenire
contro la Francia e, la mattina successiva, si riunirono a Palazzo Venezia i
quattro vertici delle Forze Armate, Badoglio e i tre capi di Stato Maggiore
(Rodolfo Graziani, Domenico Cavagnari e Francesco Pricolo): in mezz'ora tutto
fu definitivo. Mussolini comunicò ad Alfieri la sua decisione[85] e il 30
maggio annunciò ufficialmente a Hitler che l'Italia sarebbe entrata in guerra
mercoledì 5 giugno.[86] Mesi prima, in realtà, il Duce aveva ipotizzato
un'entrata in guerra per la primavera 1941, data poi avvicinata al settembre
1940 dopo la conquista tedesca di Norvegia e Danimarca e ulteriormente
accorciata dopo l'invasione della Francia, fatto che faceva presagire un'ormai
imminente fine del conflitto.[55] Il 1º giugno il Führer rispose, chiedendo di
posticipare di qualche giorno l'intervento per non costringere l'esercito
tedesco a modificare i piani in corso di attuazione in Francia.[87]Il Duce si
mostrò d'accordo, anche perché il rinvio gli permetteva di completare gli
ultimi preparativi. In un messaggio del 2 giugno, però, l'ambasciatore tedesco
a Roma Hans Georg von Mackensen comunicò a Mussolini che la richiesta di
posticipare l'azione era stata ritirata e, anzi, la Germania avrebbe gradito un
anticipo.[88] Il Duce, tramite il generale Ubaldo Soddu, chiese a
Vittorio Emanuele III che gli venisse ceduto il comando supremo delle forze
armate che, in base allo Statuto Albertino, era detenuto dal sovrano. Secondo
Galeazzo Ciano il re avrebbe opposto notevole resistenza, finendo con il
concordare una formula di compromesso: il comando supremo sarebbe rimasto in
capo a Vittorio Emanuele III, ma Mussolini lo avrebbe gestito in delega. Il 6
giugno il Duce, scontento di questa soluzione e irritato dalla difesa del
sovrano delle proprie prerogative statutarie, sbottò: «Alla fine della guerra
dirò a Hitler di far fuori tutti questi assurdi anacronismi che sono le
monarchie».[89] Volendo evitare l'entrata in guerra venerdì 7 giugno, data che
era stata superstiziosamente considerata di cattivo auspicio,[90]si giunse a
lunedì 10 giugno. Galeazzo Ciano fece convocare per le 16:30 a Palazzo Chigi
l'ambasciatore francese André François-Poncet e, secondo la prassi diplomatica,
gli lesse la dichiarazione di guerra, il cui testo recitava: «Sua Maestà il Re
e Imperatore dichiara che l'Italia si considera in stato di guerra con la
Francia a partire da domani 11 giugno». Alle 16:45 dello stesso giorno venne
ricevuto da Ciano l'ambasciatore britannico Percy Loraine, che ascoltò la
lettura del testo: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che l'Italia si
considera in stato di guerra con la Gran Bretagna a partire da domani 11
giugno».[91] Entrambi gli incontri si svolsero, secondo i diari di
Galeazzo Ciano, in un clima formale, ma di reciproca cortesia. L'ambasciatore
francese avrebbe detto che considerava la dichiarazione di guerra come un colpo
di pugnale a un uomo già a terra, ma che si aspettava una tale situazione già
da due anni, dopo la firma del Patto d'Acciaio fra Italia e Germania, e che
comunque nutriva stima personale per Ciano e non poteva considerare gli
italiani come nemici.[N 3][92]L'ambasciatore inglese, invece, sempre secondo
Ciano avrebbe partecipato all'incontro restando imperturbabile, limitandosi a
domandare educatamente se quella che stava ricevendo dovesse essere considerata
un preavviso o la vera e propria dichiarazione di guerra.[93] Preceduto
dal vicesegretario del Partito Nazionale Fascista Pietro Capoferri, che ordinò
alla folla il saluto al Duce, alle 18:00 dello stesso giorno Mussolini,
indossando l'uniforme da primo caporale d'onore della Milizia Volontaria per la
Sicurezza Nazionale, di fronte alla folla radunatasi in Piazza Venezia,
annunciò, con un lungo discorso trasmesso anche via radio nelle principali
città italiane, che «l'ora delle decisioni irrevocabili» era scoccata, mettendo
al corrente il popolo italiano delle avvenute dichiarazioni di
guerra.[94] Di seguito, l'incipit e explicit del discorso: «Combattenti
di terra, di mare, dell'aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni.
Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno d'Albania. Ascoltate! Un'ora,
segnata dal destino, batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni
irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli
ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. [...] La parola d'ordine è una
sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori
dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un
lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo. Popolo
italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo
valore!».[95] Le reazioni dell'opinione pubblicaModifica La prima
pagina de Il Popolo d'Italia dell'11 giugno 1940 La notizia fu accolta con
entusiasmo dai gruppi industriali italiani, che vedevano l'inizio del conflitto
come un'occasione per aumentare la produzione e la vendita di armi e
macchinari, e da una buona parte dei vertici fascisti, nonostante le più alte
personalità del regime avessero in precedenza espresso scetticismo
sull'intervento italiano e avessero abbracciato la linea di condotta tracciata
da Mussolini il 31 marzo 1940, che prevedeva di entrare in guerra il più tardi
possibile allo scopo di evitare un conflitto lungo e insopportabile per il Paese.
In ogni caso, fra le personalità che avevano espresso dubbi - se non veri e
propri atteggiamenti ostili - sull'intervento militare italiano, nessuna palesò
pubblicamente la propria opposizione al conflitto e sulla scrivania del Capo
del Governo non vennero recapitate lettere di dimissioni. La stampa
italiana, condizionata da censura e controllo imposti dal regime fascista,
diede la notizia con grande enfasi, utilizzando titoli a caratteri cubitali che
facevano uso entusiasta di citazioni del discorso e manifestavano completa
adesione alle decisioni prese:[96] «Corriere della Sera: Folgorante
annunzio del Duce. La guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Il Popolo
d'Italia: POPOLO ITALIANO CORRI ALLE ARMI! Il Resto del Carlino: Viva il Duce
Fondatore dell'Impero. GUERRA FASCISTA. L'Italia in armi contro Francia e
Inghilterra. Il Gazzettino: Il Duce chiama il popolo alle armi per spezzare le
catene del Mare nostro. L'Italia: I dadi sono gettati. L'ITALIA È IN GUERRA. La
Stampa: Il Duce ha parlato. La dichiarazione di guerra all'Inghilterra e alla
Francia. Bertoldo: Londra non sarà piena di tedeschi, ma fra poco sarà piena di
italiani.» L'unica voce critica che si levò, oltre ai giornali
clandestini, fu quella de L'Osservatore Romano: «E il duce (abbagliato) salì
sul treno in corsa». Questo titolo fu accolto con grande disappunto dai vertici
italiani, tanto che Roberto Farinacci, segretario del partito fascista, in un
commento alla stampa affermò che: «La Chiesa è stata la costante nemica
dell'Italia».[96] Il capo dell'OVRA, Guido Leto, prendendo atto della
reazione dell'opinione pubblica italiana, riferì che: «Come nell'agosto del
1939 la polizia rilevò e riferì il quasi unanime dissenso del paese verso
un'avventura bellica, così nella primavera del 1940 essa segnalò il
rovesciamento della pubblica opinione presa da un ossessionante timore di
arrivare tardi. E nel primo e nel secondo tempo operò come un termometro: non
determinò, né influenzò, né menomamente alterò la temperatura del paese, ma
semplicemente la misurò».[71] Hitler, venuto a conoscenza dell'annuncio
pubblico, inviò immediatamente due telegrammi di solidarietà e ringraziamento,
uno indirizzato a Mussolini e uno a Vittorio Emanuele III, anche se,
privatamente, espresse delusione per le scelte del Duce, in quanto avrebbe
preferito che l'Italia attaccasse a sorpresa Malta e altre importanti posizioni
strategiche inglesi anziché dichiarare guerra a una Francia già sconfitta.[N
4][95] In sede internazionale l'intervento italiano contro la Francia fu
visto come un gesto vile, al pari di una pugnalata alle spalle,[97] in quanto
l'esercito francese era già stato messo in ginocchio dai tedeschi e il suo
comandante supremo, il generale Maxime Weygand, aveva già impartito ai
comandanti delle forze superstiti l'ordine di ritirarsi per mettere in salvo il
maggior numero possibile di unità.[98] Il giudizio di Churchillsull'ingresso
dell'Italia nel conflitto bellico e sull'operato di Mussolini fu affidato al
commento pronunciato a Radio Londra:[99] «Questa è la tragedia della storia
italiana. E questo è il criminale che ha tessuto queste gesta di follia e
vergogna». Quando venne raggiunto dalla notizia dell'intervento italiano contro
un nemico ormai sconfitto, il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano
Roosevelt rilasciò a Charlottesville una dura dichiarazione
radiofonica:[100]«In questo 10 giugno, la mano che teneva il pugnale l'ha
affondato nella schiena del suo vicino». Piani di guerraModifica
L'entrata in guerra fu la notizia principale su tutti i quotidiani italiani
dell'11 giugno 1940 I preparativi bellici italiani erano stati delineati dallo
Stato Maggiore dell'esercito nel febbraio 1940 e prevedevano una condotta
strettamente difensiva sulle Alpi Occidentali ed eventuali azioni offensive (da
iniziare solamente in condizioni favorevoli) in Jugoslavia, Egitto, Somalia
francese e Somalia britannica. Si trattava di indicazioni di massima per la
dislocazione delle forze disponibili, non di piani operativi, per i quali
veniva lasciata al Duce piena libertà di improvvisazione.[101] I vertici
militari riconobbero l'inadeguatezza del Paese ad affrontare una guerra ma,
allo stesso tempo, non presero posizione dinanzi all'intervento, ribadendo la
loro totale fiducia in Mussolini.[102] L'approccio del Duce al conflitto appena
iniziato dall'Italia si concretizzò in direttive più o meno frammentarie, che
egli indirizzava ai vertici militari: furono formulate richieste di operazioni
nei teatri più disparati, mai trasformatesi in scelte precise e piani concreti.
Venivano a mancare, in questo quadro, una strategia complessiva e di ampio
respiro, obiettivi reali e un'organizzazione razionale della guerra.[102]
Ciò fu evidente fin da subito, quando, il 7 giugno, lo Stato Maggiore Generale
notificò che: «A conferma di quanto comunicato nella riunione dei Capi di Stato
Maggiore tenuta il giorno 5 ripeto che l'idea precisa del Duce è la seguente:
tenere contegno assolutamente difensivo verso la Francia sia in terra che in
aria. In mare: se si incontrano forze francesi miste a forze inglesi, si
considerino tutte forze nemiche da attaccare; se si incontrano solo forze
francesi, prendere norma dal loro contegno e non essere i primi ad attaccare, a
meno che ciò ponga in condizioni sfavorevoli». In base a quest'ordine la Regia
Aeronautica ordinò di non effettuare alcuna azione offensiva, ma solo di
compiere ricognizioni aeree mantenendosi in territorio nazionale,[103] e
altrettanto fecero il Regio Esercito e la Regia Marina, la quale non aveva
intenzione di uscire dalle acque nazionali salvo per il controllo del canale di
Sicilia, ma senza garantire le comunicazioni con la Libia.[104] Come
preannunciato nella corrispondenza con il governo tedesco,[105] dall'11 giugno
le truppe italiane cominciarono le operazioni militari al confine francese in
vista della pianificata occupazione delle Alpi occidentali ed effettuarono
bombardamenti aerei, di carattere puramente dimostrativo, su Porto Sudan, Aden
e sulla base navale inglese di Malta. L'alto comando delle operazioni venne
affidato al generale Rodolfo Graziani, un ufficiale esperto in guerre coloniali
contro nemici inferiori per numero e per mezzi, che non aveva mai avuto il
comando su un fronte europeo[106] e che non aveva alcuna familiarità con la
frontiera occidentale.[107] I vertici militari italiani, costretti a
centellinare le poche risorse disponibili, decisero di muovere le truppe solo
in concomitanza con i movimenti dei tedeschi:[108]l'aggressione alla Francia
avvenne infatti solo quando la Germania l'aveva già praticamente sconfitta, poi
ci fu un periodo di inattività italiana contemporaneo all'inattività tedesca
nell'estate 1940, poi le azioni italiane ripresero quando la Germania iniziò la
pianificazione dell'aggressione al Regno Unito. Secondo lo storico Ciro
Paoletti: «Ogni volta che i Tedeschi si muovevano poteva essere quella decisiva
per la fine vittoriosa del conflitto; e l'Italia doveva farsi trovare impegnata
quel tanto che bastasse a dire che anch'essa aveva combattuto lealmente e
godeva il diritto di sedersi al tavolo dei vincitori».[109]L'atteggiamento
dell'Italia, che «entrava in guerra senza essere attaccata» né sapeva dove
attaccare,[110] e che «addensava le truppe alla frontiera francese perché non
aveva altri obiettivi»,[110] venne sintetizzato dal generale Quirino Armellini
con la massima: «Intanto entriamo in guerra, poi si vedrà».[111]
NoteModifica Note al testo ^ Il Promemoria segretissimo 328 era una relazione,
stilata da Mussolini il 31 marzo 1940, con destinatari Vittorio Emanuele III,
Galeazzo Ciano, Pietro Badoglio, Rodolfo Graziani, Domenico Cavagnari,
Francesco Pricolo, Attilio Teruzzi, Ettore Muti e Ubaldo Soddu. cfr. Il
«promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra redatto da Benito
Mussolini, su larchivio.com. URL consultato il 28 dicembre 2018. ^ Il Servizio
Speciale Riservato era un organo, istituito ai tempi di Giovanni Giolitti, per
tenere sotto controllo le principali personalità del Paese. ^ Diversa, invece,
la versione su toni e parole data dall'ambasciatore francese: «E così, avete aspettato
di vederci in ginocchio, per accoltellarci alle spalle. Se fossi in voi non ne
sarei affatto orgoglioso», e Ciano avrebbe risposto, arrossendo: «Mio caro
Poncet, tutto questo durerà l'espace d'un matin. Ben presto ci ritroveremo
tutti davanti a un tavolo verde», riferendosi a un futuro tavolo delle
trattative al termine del conflitto. cfr. Niente pugnale alla schiena
Archiviato il 15 settembre 2016 in Internet Archive., in Il Tempo, 10 giugno
2009. URL consultato il 28 dicembre 2018. ^ Di seguito i testi dei due
telegrammi, qui fedelmente riportati secondo le fonti reperibili. cfr. La
Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su storiaxxisecolo. URL consultato il 30
dicembre 2018. Berlino, 10/6/40, telegramma di Hitler al Re
La provvidenza ha voluto che noi fossimo costretti contro i nostri stessi
propositi a difendere la libertà e l'avvenire dei nostri popoli in
combattimento contro Inghilterra e Francia. In quest'ora storica nella quale i
nostri eserciti si uniscono in fedele fratellanza d'armi, sento il bisogno
d'inviare a Vostra Maestà i miei più cordiali saluti. Io sono della ferma
convinzione che la potente forza dell'ITALIA e della GERMANIA otterrà la
vittoria sui nostri nemici. I diritti di vita dei nostri due popoli saranno
quindi assicurati per tutti i tempi. Berlino, 10/6/40, telegramma
di Hitler a Mussolini Duce, la decisione storica che Voi avete oggi proclamato
mi ha commosso profondamente. Tutto il popolo tedesco pensa in questo momento a
Voi e al vostro Paese. Le forze armate germaniche gioiscono di poter essere in
lotta al lato dei camerati italiani. Nel settembre dell'anno scorso i dirigenti
britannici dichiararono al Reich la guerra senza un motivo. Essi respinsero
ogni offerta di un regolamento pacifico. Anche la Vostra proposta di mediazione
si ebbe una risposta negativa. Il crescente sprezzo dei diritti nazionali
dell'ITALIA da parte dei dirigenti di Londra e di Parigi ha condotto noi, che
siamo stati sempre legati nel modo più stretto attraverso le nostre Rivoluzioni
e politicamente per mezzo dei trattati, a questa grande lotta per la libertà e
per l'avvenire dei nostri popoli. Fonti ^ Ciano, Ciano, 1948, pp. 373-378. ^ a
b Ciano, 1948, p. 375. ^ a b Ciano, 1948, p. 383. ^ Paoletti, p. 31. ^ a b
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a b Ciano, 1990, nota del 31 agosto 1940. ^ a b Ciano, 1990, nota del 2
settembre 1940. ^ a b Ciano, 1990, p. 340. ^ a b Paoletti, p. 80. ^ Ciano,
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- Wikisource, su it.wikisource.org. URL consultato il 27 dicembre 2018. ^
L'Archivio "storia - history", su www.larchivio.com. URL consultato
il 27 dicembre 2018. ^ De Felice, pp. 837-838. ^ Ciano, 1990, nota del 6 giugno
1940. ^ Lepre, p. 238. ^ Corpo di Stato Maggiore, 1941, p. 400. ^ Niente
pugnale alla schiena, in Il Tempo, 10 giugno 2009. URL consultato il 28
dicembre 2018(archiviato dall' url originale il 15 settembre 2016). ^
Speroni, pp. 186-187. ^ De Felice, pp. 840-841. ^ a b La Dichiarazione di
Guerra di Mussolini, su www.storiaxxisecolo.it. URL consultato il 6 settembre
2016. ^ a b Luciano Di Pietrantonio, 10 giugno 1940: l'Italia dichiara guerra a
Francia e Gran Bretagna, su abitarearoma.net, 9 giugno 2013. URL consultato il
19 dicembre 2018. ^ De Santis, p. 40. ^ Bocca, p. 144. ^ Simonetta Fiori,
Mussolini e il 10 giugno del 1940: il discorso che cambiò la storia d'Italia,
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di Francia (1940), su storiaxxisecolo.it. URL consultato il 19 dicembre 2018. ^
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guerra, su larchivio.com(archiviato dall' url originale il 3 settembre
2017). ^ Bocca, p. 149. ^ Faldella, p. 176. ^ Pier Paolo Battistelli, I
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guerre italiane 1935-1943, Milano, Einaudi, Schiavon, La perception de la
menace italienne par l'État-Major français à la veille de la Seconde Guerre
Mondiale, intervento alle «Journées d'études France et Italie en guerre
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Française, 7 giugno 2012. Gigi Speroni, Umberto II. Il dramma segreto
dell'ultimo re, Milano, Bompiani, 2004, ISBN 88-452-1360-9. Voci
correlateModifica Battaglia delle Alpi Occidentali Lista del molibdeno
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accordo di reciproco aiuto politico, diplomatico e militare tra i governi del
Regno d'Italia e della Germania nazista Lista del molibdeno richiesta
italiana di materiale bellico nella II guerra mondiale Memoriale
Cavallero. Roberto Cordeschi. Cordeschi. Keywords: la logica della guerra, la
guerra del fascismo, Croce, sperimentalismo italiano, mente, homo mechanicus,
Turing, Craik, artificiale e naturale, filosofia, rappresentare il concetto,
logica matematica, reiezione in Aristotele, predicate, significato,
communicazione, creativita, informazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cordeschi” – The Swimming-Pool Library. Cordeschi.
Grice e Corleo – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Salemi). Filosofo italiano. Grice: “Corleo is a
genius -- His keyword is identity, the
Hegelian type, and that’s why he attracted Gentile’s attention! But my
favourite is his excursus on language! He talks like a veritable Griceian –
about ‘intenzione’ and ‘pre-convezione’ – and the spontaneous cry to seek
attention, Romolo from Remo, say – He very much elaborates on the subject and
the predicate and the copula, and the other parts of speech – But he retains an
empiricist, evolutionary viewpoint with which I wholly agree!” Studia nel
Seminario vescovile di Mazara del Vallo, laureandose a Palermo. Crea un
seminario di psicologia filosofica. Liberale, aderì alla rivoluzione siciliana.
Su saggio, “Progetto per una adeguata costituzione siciliana”. Durante la spedizione dei mille, fu nominato
da Garibaldi governatore di Salemi – Saggio: “Garibaldi e i Mille”. Saggio:
“Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia”. Diviene conte di
Salemi. Altre opere: “Meditazioni
filosofiche”; “Il sistema della filosofia universale; ovvero, la filosofia
dell’identità”; “Per la filosofia morale”; “Lezioni di filosofia morale”. Dizionario
biografico degli italiani. La regola d'identità, dipendente
dall’esperienza e dal concetto appartene a qualunque specie di giudizio, giudizio
affermativo (S e P) o giudizio negativo -- S non e P -- , giudizio condizionale
-- Se p, q -- , giudizio tetico -- S e P -- giudizio ipotetico -- si p, q --, giudizio disgiuntivo
-- p v q -- e via via. Poichè,ogni
proposizione o giudizio, semplice or complessa, debbe congiungere un predicate
ad un soggetto -- S e P -- o negare un predicato ad un soggetto -- S non e P --,
e ciò non può farsi altrimenti che in forza della identità parziale o totale
del predicato stesso col soggetto, ovvero del contrario o contrapposto del
predicato in caso di giudizio negativo, sia cotesta identità assoluta, o sperimentale,
sotto condizione, problematica, o in forma disgiuntiva. Il raciocinio è un
complesso di giudizi che serve a scoprire una verità incognita per mezzo di una
verità nota, o a dimostrare il nesso ignoto tra due verità conosciute. Onde il
raciocinio deve esser fodato sulla medesima legge d'identità, che costituisce
l'essenza dei giudizi di cui è composto. Ogni passaggio da una verità ad
un'altra, da un giudizio ad un altro, è giustificato dalla connessione che deve
esistere tra loro. Se connessione non vi è, non si può dall'uno inferir
l'altro, non vi è passaggio legittimo o accettabile dal noto all'ignoto, e
molto meno si può scoprire il nesso incognito tra due veri conosciuti. Or,
questa stessa connessione non è che effetto d'identità. Parrà strano che la
connessione si debba risolvere anch'essa in identità; ma riflettendo con
attenzione, si scorge chiaro che in fondo è così, nè può essere altrimenti. Se
S è connesso con P, ciò non importa che S sia identico con P, ma importa invece
che ambidue sieno identici con S-P, cioè, che sieno parti integranti del tutto
S-P, di guisa che la loro connessione non *significa* o signa altro, che il
loro legame necessario per la formazione di quel tutto complesso proposizionale
– “S e P” -- onde se essi non fossero con nessi a comporre il tutto S-P, quel
tutto non sarebbe mai quello che è, non sarebbe identico alla somma delle parti
che lo costituiscono. Due o più giudizi, tra loro connessi, sono parti
integranti di un giudizio di maggiore estensione che tutti li abbraccia, ed è
identico con essi come il tutto è identico con la somma delle sue parti. Laonde
non può esser vero l'uno senza che sia vero l'altro, perocchè in diverso non
sarebbe vero quel giudizio maggiore che risulta dalla verità di tutti i giudizi
subalterni dai quali è costituito. Se, per cagion d'esempio, prendiamo ad
esaminare ogni teorema geometrico intorno alle proprietà del “triangolo” in
genere e delle varie sue specie, scorgiamo tosto che vi ha una continua connessione
tra cotesti teoremi, nè puo uno esser vero se non sieno veri tutti gli altri di
seguito; onde essi si dimo strano a vicenda. La ragione di ciò è semplicissima.
Essi non sono che le parti necessarie di un solo tutto, del concetto di triangolo
e delle sue specie subalterne, e tutti più o meno mediatamente in quel concetto
complessivo sono compresi. Pertanto non vi ha che un identico totale (talora
nemmeno avvertito ), il quale, per esser quello che è, ha bisogno che ciascuna delle
sue parti sia quella che è, e che tutte insieme concorrano con unità di nesso a
costituirlo, come le parti si debbon legare fra loro per unirsi nella identità
di un sol tutto. Metto una grande importanza in queste osservazioni sul
raziocinio e sulla connessione (consequenza logica) de' suoi membri; poichè
l'unica che sembrerebbe scappare dalla rigorosa legge della identità sarebbe la
connessione tra i giudizi diversi (premessa e conclusion), di cui consta un
ragionamento. Eppure, quella connessione non è altro che il frutto
dell'identità totale di un giudizio maggiore e più esteso, il quale abbraccia come
sue parti necessarie ogni giudizio subalterno; e quelli sono per l'appunto
connessi, perchè tutti in sieme formano un solo e identico giudizio di più
larga estensione. Nè fa d'uopo che nel ragionare si abbia presente quel giudizio
maggiore, nel quale si congiungono con identità totale i giudizi connessi. Esso
opera senza che il ragionatore lo sappia, poichè è virtù dell'identico totale
riunire per necessità le parti fra di lor, senza di cui egli non potrebbe esser
quello che è. Ciò sapendo, chi ragiona può benissimo salire dai veri connessi a
quel vero più ampio che tutti li abbraccia e nella sua unità totale li
identifica. Sarà questo un sistema più completo di ragionare, perocchè non ci
contenteremo di scorgere il nesso tra parecchi giudizi, di procedere per mezzo
di tal nesso alla scoperta di un giudizio novella e di dire che uno essendo
vero, tutti gli altri debbono pure esser veri; ma cercheremo ancora in qual
giudizio plenario e più esteso essi tutti vadano a connettersi per la identità
di unico comune risultato. In ciò consiste l'analiticita logica. Il raciocinio
analitico ercano la dimostrazione dei teoremi singoli o la risoluzione dei
singoli problemi nella proprietà, o nella funzioni e simili, che sono appunto i
giudizii più ampli e plenary, nei quali tutti quei singoli s'identificano come
parti di un sol tutto. Nella parte logica la connessione non è che l'identità
del tutto più ampio con le sue parti subalterne, senza il cui necessario legame
egli non risulterebbe quello che è. Il ragionamento è dimostrativo, quando
serve a chiarire il nesso tra verità e verità. Dimostrare niente altro è che
legare tra loro i giudizi come connessi, e la connessione pertanto vi è, perchè
i loro rispettivi subbietti, quand'anco non si sappia, si raggruppano in unico
e identico subbietto più esteso che tutti li abbraccia come tante sue parti:
onde vi ha passaggio, dalla identità parziale di un predicato P col suo soggetto
S, all'identità parziale dell'altro predicato P2 con l'altro suo soggetto S2, e
così di seguito; perocchè essi tutti costituiscono un solo subbietto più
esteso, che di tutti quei predicati si compone, e che perciò è identico con la
loro somma. Un subbietto subalterno non potrebbe concorrere alla costituzione
del subbietto totale, se non possedesse quel tale predicato e se gli altri
subalterni non possedessero quelli altri predicati; onde la connessione fra
tutti, se è vero l'uno, debbono esser veri gli altri, ed *implicitamente* deve
esser vero il giudizio totale, con cui tutti s'identificano. È inventivo e non
dimostrativo il raziocinio, quando, dalla verità che si conosce, si passa a
quella che s'ignora; ed anco in tal caso la ragion del passaggio è fondata
sulla connessione, e perciò sulla legge d'identità, in quanto che dalla
identità parziale che si conosce, si sospetta prima e poi si scopre la identità
totale. Per causa di alcuni punti d'identità o di parziali somiglianze tra un
fenomeno ed un altro, si concepisce la *possibile* identità dei loro elementi
in un sol tutto, e delle leggi che li governano. In questo caso vi ha l'*ipotesi*
o supposizione, che annunzia come *possibile* identico totale quello che
tuttora non è che un identico parziale. La conoscenza dei punti, della cui
identità bisogna ancora certificarsi, conduce a cercare la medesima identità
con quei mezzi, coi quali essa ordinariamente si osserva in altri simili. Ed
allora uno dei due, o si giunge all'accertamento della identità di tutti gli
elementi essenziali tra un fenomeno e l'altro, tra una legge e l'altra, e si ha
perciò l'identità totale, si ha la tesi o posizione; o non si giunge ad
accertarla per ostacoli presentemente insuperabili, di cui però dobbiamo
renderci conto, e si resta in tal caso nella identità parziale, nella ipotesi o
supposizione, pur sapendo quello che manca e perchè manchi, per poterla
trasformare in tesi o posizione quando che sia. Tanto il raziocinio
dimostrativo, quanto l'inventivo si valgono dell’esperienza concetto; poichè la
*testificazione* della identità parziale tra predicato e soggetto di ogni
giudizio, che compone un raziocinio, deve esser data dall’esperienza. Se è
composto di giudizi sperimentali, risulta pur esso sperimentale; e la connessione
dipende dalla loro parziale identità con un giudizio sperimentale di ordine
superiore, il quale talvolta nemmeno è conosciuto, ma vi si deve giungere in
forza di altre esperienze, come per lo più accade nel raziocinio inventivo. Siccome
pero il giudizio sperimentale e tale temporaneamente, cioè fino a tanto che
l'identità del predicato P col soggetto S sia solo testificata dall'esperienza,
perchè ancora tutti gli elementi di essa non sono conosciuti, nè si ha
l'identico concettuale che dovrebbe trasformare in concettuale il giudizio em
pirico, così i raziocinî sperimentali, o anco misti, potranno divenire quando
che sia raziocinî concettuali, fondati sull'identità assoluta dei concetti,
quando cioè l'esperienza, per la perfetta analisi e sintesi delle parti col
tutto, si eleva a concetto fisso ed assoluto con la conoscenza degli elementi
proporzionali che costituiscono l'identico totale.Vi ha dunque passaggio dalle
verità empiriche e dai ragionamenti empirici alle verità assolute ed ai
raziocinî concettuali, a misura che la scienza progredisce nel conoscimento
delle parti integranti che costituiscono i subbietti dei giudizi sperimentali,
ed a misura che essa discopre il nesso tra quei subbietti parziali ed il
subbietto più esteso che tutti l'identifica in un complesso solo. È questo il
doppio scopo finale dell’uomo: la cognizione concettuale e necessaria dei fatti
sperimentali per mezzo degli elementi proporzionali che li costitui scono, e lo
svolgimento dei concetti più complessi nei loro con cetti subalterni, che sono
del pari i loro elementi costitutivi. Pertanto l'essenza del raziocinio non può
essere collocata in una forma piuttosto che in un'altra; essa consiste nel
passaggio dalla identità totale alle identità sparziali che la costituiscono, o
dalle identità parziali alla totale per mezzo della scoperta di quelle altre
identità parziali che sono con loro connesse per compiere l'identità totale.
Bisogna dunque assi curarsi, per mezzo dei concetti, della doppia identità
delle parti e del tutto per avere ragionamenti rigorosi; e non potendo giungervi
per mezzo dei concetti, assicurarsene per mezzo della esperienza. In questi due
soli modi è possibile il raziocinio. Chi cura soltanto la forma esteriore del
ragionamento e ripone la logica nello studio delle leggi della FORMA LOGICA,
non prende di mira lo scopo vero del raziocinio, che è l'accertamento della
identità de' giudizi connessi col tutto di cui sono parti; e perciò corre
l'aringo di un VUOTO FORMALISMO alla Hilbert, che non è mai garanzia sicura di
esatti ragionamenti. Or, perchè mai i subbietti di tali giudizi son dive nuti
concettuali e perciò includono necessariamente i loro pre. Tre sono state le più
grandi logiche formali. La prima e l’induzione primitiva: quella che argomenta
dal particolare al particolare per mezzo di un generale appoggiato ad altri particolari.
La seconda, quella che argomenta il generale dai particolari (necessario se i
particolari si presentano con caratteri di necessità, empirico se si presentano
soltanto come fatti di esperienza) per poter poi discendere dal generale ad
altri particolari: il sillogismo di Aristotele preceduto dalla classificazione
dei necessari e degli empirici, predicabili e predicamenti, che costituiscono
le sue categorie. Terza legge formale: la induzione di Bacone, e quella che
ascende dai particolari empirici ai generali pure empirici, adottata da ogni
naturalista sensista e positivista. Il sillogismo di Aristotele fu scompagnato
dalla sua precedente classificazione categorica per opera dei neoplatonici come
Porfirio e BOEZIO, che vollero così conciliare a forza Aristotele con Platone,
e poi per opera degli scolastici e dei moderni idealisti. Essi hanno adottato
la sola argomentazione dal generale al particolare ponendo il generale come
idea, che si afferma da sè per la sua evidenza e pei caratteri di necessità, di
universalità e di assolutezza che la distinguono, senza indurre le categorie dalla
classificazione dei fatti, come fa Aristotele. Niuna pero di queste
argomentazioni formali costituisce da sè un esatto ragionamento: esse sono o
inutili allo scoprimento del vero, o pericolose di errore, o tali almeno che
non posson menare al concetto scientifico e necessario, perchè non conducono al
vero identico totale. Difatti la induzione primitiva argomenta da un particolare
all'altro in forza d'identità parziali; e peggio, da un certo numero di
particolari, che si somigliano in taluni punti, argomenta il generale. Perchè
questa casa fuma, perciò si brucia! E perchè il legno delle nostre cucine
fumando si brucia, perciò: OGNI cosa che fuma si brucia! Da somiglianze o
identità parziali si vuole argomentare l'identità totale di un fatto con un
altro, o anche più, l'identità totale di tutti i fatti che parzialmente si assomigliano.
Il sillogismo dei neoplatonici e degli scolastici, conchiudendo dal generale al
particolare e ponendo il generale in virtù della luce dell'idea, non trova mai
verità nuove. Poichè, s'io dico, che il tutto é maggiore della parte, e percið
ne deduco che il libro dicati, mentre altri rimangono soltanto empirici e
perciò la identità tra predicato e subbietto dev'essere soltanto attestata dal
l'esperienza? Chi fa che taluni giudizi siano concettuali ed altri non? D'altra
parte, è poi sicuro che le idee che noi abbiamo siano tutte esatte, e non può
accadere che vi si contengano predicati che loro non appartengano veramente, in
modo che apparisca una identità necessaria tra predicato e subbietto, mentre
essa non è che l'effetto di una inclusione di predicato che veramente nel
concetto non deve entrare? Quanto alla formazione di un concetto si deve
notare, che essa avviene per opera di astrazione, la quale procede in due modi,
o spontaneamente, per effetto d'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e di separazione dei diversi, ovvero riflessivamente e
volontariamente, cioè per deve esser maggiore di ciascuna pagina, non affermo
in conclusione una verità nuova; ma dico due proposizioni, di cui l'una è tanto
vera e tanto evidente, quanto è vera ed evidente l'altra, nè vi è affatto
ragionamento. Se però il generale è posto in forza di un cumulo di esperienze o
di fatti (sia quanto si voglia lungo ed esteso quel cumulo) si corre pericolo
di errare; poichè allora dalla similitudine, o dalla identità par ziale che
hanno fra loro alcuni fatti, si vuol provare che tutti gli altri, i quali
abbiano identità parziali conformi, debbano somigliarli in tutto il resto. È
allora una induzione mascherata sotto le forme assolute di un sillogismo.
Poichè, una delle due: o il particolare, di cui si cerca, si ebbe già presente
nella formazione del generale, o il generale fu formato per gli altri particolari
simili, ma senza di lui. Nel primo caso, lungi che il particolare, di cui si
cerca, acquisti luce dal generale, è desso che con corre a formarle. Nel second,
si ha il solito vizio di argomentare da alcune identità parziali, tra un fatto
particolare e gli altri dello stesso genere, alla loro totale identità. Perchè
moltissimi esseri che hanno la figura umana hanno la ragione, percio qua lunque
selvaggio che presenta la figura umana, deve avere la ragione? La induzione
baconiana ha lo stesso difetto, perocchè non potendo raccogliere che un certo
numero di fatti particolari, grande quanto pur si voglia, da’ essi soli suo
generale, e poi ne argomenta agli altri casi particolari per ragione di
parziali somiglianze. Essa inoltre non perviene mai al necessario ed
all'assoluto, perchè non giunge alla identità concettuale del tutto cogli
elementi che lo costituiscono. Tutto al più, vi giunge come la categorizzazione
di Aristotele (che per lui deve precedere il sillogismo), cioè ritiene
l'assoluto ed il necessario nel generale, perchè i particolari si presentano
anch’essi con tali caratteri di necessità e di assolutezza. Il tutto è
necessariamente maggiore della parte, o è assolutamente identico alla somma
delle parti, perchè con tale necessità ed assolutezza nei fatti singoli il
tutto si presenta in tali rapporti con le sue parti. Non si perviene mai
all'identico, si rimane sempre nell'empirico, in tutte coteste forme di
ragionare. Come la necessità ed assolutezza dell'idea si accetta empiricamente,
perchè essa con tali caratteri si presenta alla coscienza, cosi nelle varie suddette
forme di ragionare si rimane pur sempre nel passaggio empirico da identità parziali
ad altre parziali, o peggio, ad altre total, senza assicurarne la totale
identità. rea analisi che l'uomo fa di proposito sui complessi ancora inde
composti delle percezioni, e sugli stessi primi astratti tuttavia
decomponibili. Seguendo sempre la regola dell'identico e del di verso, con la
quale si forma idee tipiche e concettuali delle parti più salienti delle
percezioni, e di quelle altre che, pur connettendosi con le percezioni stesse,
non potranno mai divenire oggetto immediato di percezione. Nasce da ciò un
doppio ordine di concetti ben distinti, cioè di quelli che si formano spontaneamente
e primitivamente per l'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e per la spontanea separazione dei diversi, e di quelli altri che da
sè non si offrono, ma è neces sario l'uomo se li procuri colla propria
riflessione e col proprio studio, cioè con l'applicazione della legge
dell'identità nelle analisi ulteriori, e se li trasmetta tradizionalmente per
non per derli. Nel primo caso, l'identico tipico del concetto si costituisce da
sè spontaneamente, e perciò il predicato si trova tosto incluso nel soggetto
concettuale di cui fa parte. Nel secondo, l'identico tipico del concetto
riflesso si costituisce mediante la voro mentale, e per lungo tempo, in
mancanza dell'idea, è d'uopo ricorrere all'esperienza, affinchè essa testifichi
l'identità del predi cato col soggetto, non potendo nel soggetto trovarsi il
predicato a prima fronte, sino a tanto che non sorga netta e chiara l'idea in
tutte le sue parti costitutive. Nei concetti spontanei e primitivi, formati
dalla identificazione tipica dei punti più chiaramente identici delle percezioni,
non può esservi pericolo di errore, logicamente parlando; poichè identicamente
si presenta e si presenterà sempre ciò che identicamente si presenta, e
diversamente il diverso. Onde i concetti fissi, fondati sulla identità logica,
e perciò as loluti e necessarî. All'incontro, le idee (concetti riflessi) ela
borate dall'uomo, ben vero con la stessa regola della identità, ma composte di
elementi ch'egli astrae da gruppi diversi e che egli poi mette insieme, possono
per avventura non es sere logicamente esatte; poichè per un momento si fallisca
o per disattenzione, o per precipitanza, o per pregiudizi, alla rigorosa regola
della identità nel condurre l'analisi riflessa, o nel mettere insieme gli
elementi astratti dai gruppi diversi, potrà uscirne un'idea monca ed imperfetta
nel primo caso, erronea nel secondo. E quel ch'è peggio, divenuta tipica tale
idea che contiene o non contiene il predicato, l'operazione del giudizio o del
raziocinio, che verrà a cercarlo in essa, riuscirà difettiva oppure erronea,
come difettosa o erronea era l'idea. Difettiva o erronea l'idea (cioè, mancante
di elementi necessari, o intrusi in essa elementi che non le convengono), sarà
sempre causa di errore nel giudizio ideale che su di essa si fonderà per legge
logica d'identità, e conseguentemente nel raziocinio. Nello stesso modo,
un'esperienza mal condotta o per difetto o per syista e confusione di una cosa
con un'altra, sarà fonte d'errore nel giudizio empirico, e quindi nel
ragionamento che da esso prenderà le mosse. Gl’errori di esperimento si
correggono con la ripetizione e col controllo di tutti quelli che se ne
occupano. Gl’errori però dell'idea debbonsi correggere con un buono ed accurato
esame ideologico, al quale debbono collaborare tutti gli studiosi delle
rispettive materie. Ma qual sarà la regola, con la quale si potrà fare l'esame
delle idee, o di quei concetti riflessi che l'uomo si è formati col proprio
lavoro, per conoscere se elementi vi man chino, o se vi siano intrusi degli elementi
che non possono en trarvi? La regola dell'esame non può essere che quella
stessa la quale deve presiedere alla loro formazione, cioè quella del
l'identità totale dell'idea con l'identità parziale dei singoli ele menti che
la costituiscono. L'idea deve essere decomposta nei suoi elementi, e deve
essere osservato se tra essi e l'idea vi sia perfetta e totale identità: così
soltanto potranno includersi quelli che difettano e potranno escludersi quelli
che non convengono; poichè nell'uno e nell'altro caso l'identico totale mostra
quello che gli manca, o quello che gli conviene, per essere quel che è. In tal
modo è possibile l'esame, e la rettificazione delle idee, occorrendo; ed in ciò
consiste un buon trattato d'Ideologia. La scuola empirica, duce il Locke, aveva
già compreso la necessità dell'esame delle idee, all'oggetto di non ammetterle
soltanto in forza dei loro caratteri este riori di evidenza, necessità,
universalità ed assolutezza, con cui s'impongono. La disposizione che si dà al
complesso de' giudizi ed ai ragionamenti, sia per esporre, sia per dimostrare,
sia per avviare alla ricerca, costituisce il metodo, il quale non può avero
altro scopo, che quello di condurre all'identico totale per mezzo di tutti i
suoi parziali, o ai parziali per la decomposizione del loro totale. Il metodo
sta ai ragionamenti, come il ragionamento sta ai giudizi: egli ha lo scopo di
fare un ragionamento com plessivo di tutti i ragionamenti subalterni mediante
la regola della doppia identità parziale e totale. Onde il vero metodo
scientifico è certamente analitico e sintetico insieme, man è l'ana lisi sola,
nè la sola sintesi, nè entrambe unite, potrebbero con durre a risultati
scientifici, se non avessero per rigorosa regola l'identità, e se non mirassero
al suo conseguimento finale in tutti i giudizi e raziocinî, sperimentali,
concettuali, o misti. Parlo del vero metodo scientifico; poichè per comunicare
alle masse i risultati della scienza, o per indurre in loro la persua sione
necessaria all'adempimento dei proprî doveri, una esatta analisi degli elementi
delle idee o dell'esperienze, ed una esatta loro sintesi, all'oggetto di
condurle a rigorosa identità totale, Perd essa voleva rimontare, senza alcuna
ragione nè possibilità di riuscita, alla ori gine cronologica delle idee.
Voleva inoltre, far provenire le idee dai sensi. Onde, in vece della vera
origine cronologica, ben difficile a trovarsi per le singole idee, diede spesso
supposizioni romanzesche sulla prima nascita delle medesime, e sopra tutto
delle idee morali, col preteso stato naturale e col contratto sociale. Tutte
quelle idee che non potè giustificare coi sensi, le rigetto, o le ammise alla
credenza pubblica come necessità indemostrabili della nostra natura. Onde i
posteriori idealisti, visto l'inte lice esito dell'esame, son tornati ad
ammettere le idee in virtù della loro evidenza e dei loro caratteri che
s'impongono alla nostra ragione, sia ritenendole verità prime indiscutibili ed
indispensabili ad ogni ragionare (scuola del senso comune); sia supponendole
forme assolute del pensiero quidquid
recipitur ad formam recipientis recipitur (scuola kantiana ); sia riputandole
innate e facienti parte del nostro intel letto, almeno in una prima idea fondamentale,
quella dell'essere (*scuola rosminiana*); sia ammettendole come frutto
d'interne azioni e reazioni dello spirito (scuola di Herbart); sia credendole
comunicazioni della mente medesima di Dio, intuizioni, tocchi misteriosi (*scuole
giobertiane*), o anche evoluzioni della stessa idea divina, assumente caratteri
di progressiva attuazione per la legge dialettica de contrari (scuola hegeliana
), attuazione dell'idea in forza di volontà preordinante e producente (scuola
di Schopenauher ), o attuazione inconscia (scuola di Hartmann ). Tutti
supposti, appoggiati a me tafore, a superficiali osservazioni, o a dogmi, per
dare una spiegazione dei caratteri delle idee senza volerle esaminare in sè
stesse, nei loro attuali elementi costitutivi, adducendo a prova della
impossibilità dello esame l'infelice risultato ottenuto dagli empirici, i quali
ebbero bensì il buon volere, ed anche la presunzione dell'esame, senza mai averne
studiato i mezzi convenienti non sono punto possibili, nè anche utili. Laonde è
d'uopo r correre ad esperienze ovvie, a idee evidenti e generalment ammesse,
per inferirne le bramate conseguenze. Or se è vero che percepire distintamente,
sintetizzare, analizzare, ricordare, astrarre, concettuare, ideare, giudicare,
connettere e ragionare, non sono altro che più o men largamente identificare le
parti ed il tutto, spontaneamente o riflessivamente, in forma sperimentale o in
forma tipica assoluta, se cid è vero, diviene pur troppo evidente che, per
potere scorgere l'identità più prontamente e con maggiore chiarezza, sarebbero
assai utili due cose. Primo, abbreviare e ravvicinare tra loro con SEGNI le
percezioni ed i loro elementi, le idee ed i loro elementi. Secondo indicare con
segni le successive operazioni che vengon fatte spontaneamente o riflessivmente
sui detti complessi e loro elementi. L'algebra ed il *calcolo* per sè non sono
scienza, ma sono potenti mezzi di scienza, in quanto abbracciano e ravvicinano
le idee e le operazioni su di esse fatte rendendo più facile e più sicuro il
colpo d'occhio su di loro per scorgerne le identità e le differenze. Or, perchè
non sarà possibile una logica aritmetica o matematica per agevolare la
conoscenza delle identità parziali e totali, dalle quali dipende tutto l'eser cizio
della intelligenza? Non vale il dire che nell’aritmetica e la geometria si
tratta di rapporti tra sole quantità, e perciò e possibile un segno abbre viativi
e le operazioni identiche. Mentre invece nella logica generale si dovrebbero
trattare molti altri rapporti di QUALITà, che variano tra loro indefinitamente,
e perciò l'aritmetica non si potrebbe applicare alla logica. Non vale il dire
questo; poichè tutti i rapporti tra le QUANTITà hanno unico fondamento comune,
l'identità costante di ogni unità con sè stessa, in guisa che non possa
crescere nè decrescere in alcun modo, e che ogni unità valga quanto un'altra.
Onde il fondamento vero dell’aritmetica e dei loro processi è tutto nella
identità, come in generale il fondamento di tutte le operazioni
dell'intelletto; e la loro unica regola consiste nella IDENTIFICAZIONE. Non vi
ha dunque difficoltà vera contro la formazione di un'aritmetica logica; il cui scopo
non dev'essere altro che quello di fissare, abbreviare, e con un segno,
costante e certo, ravvicinare fra loro le idee ed i loro elementi, e le
operazioni che su di esse si fanno. Nella scelta del segno per tale oggetto, non
occorre far tutto a nuovo. Come nell'aritmetica, si posson prendere le lettere
alfabetiche per indicare i complessi della percezione e dell'idea, non che i
loro elementi, cioè le lettere maiuscole (A, B, C…) pei complessi, e le lettere
minuscole (a, b, c, …) per gli elementi, se fossero gli uni e gli altri
conosciuti e categorizzati. Se ancora non fossero conosciuti distintamente,
potrebbero adoperarsi i soli punti. Ogni segno dell’aritmetica, più, meno,
eguale, maggiore, minore, hanno posto nella logica o semiotica matematica o
aritmetica. Il dubbio ha un segno nella scrittura ordinaria, l’interrogativo –
la quesserzione --. Un segno pure abbiamo nella stessa scrittura per indicare
un seguito di cose simili, che corrisponde all' &. Soltanto resterebbero a
stabilirsi un segno per quell’operazione che nell'aritmetica e nel linguaggio
ordinario non esiste. Questo segno si riducono a distinguere lo stato spontaneo
dal stato riflesso, che sono i due stati del nostro animo, ed ambidue i detti
stati dal di fuori di essa. Per tale scopo descrivo due spazi, uno spazio inferiore
e l'altro spazio superiore, chiusi da tre linee parallele orizzontali. Il di
fuori è tutto quello ch'è al disotto dello spazio inferiore e lo spazio
superior. Lo spazio inferiore indica lo *spontaneo*. Lo spazio superiore indica
il *riflesso*. Indico con quadrati di linee, di punti, o di lettere, i
complessi e le loro parti, sia percepito, sia non percepito, o sia salito allo
stato di riflessione. Un punto e una lettera minuscola indicano i loro
elementi. Il punto indica che l’elemento non e conosciuto. La lettere indica
che l’elemento e conosciuto. Denoto il simile con due parallele verticali.
Rappresento l'identico con la convergenza di due linee in un angolo verticale.
Se l’identità non è completa, ma sol tanto parziale, una delle due linee sarà
più corta dell'altra, quasi per indicare la mancanza. Due quadrilateri che
convergono e si toccano con un lato rispettivo in un angolo vertical rappresentano
la sintesi dei punti identici. Se i due lati divergono, le quadrilateri rappresentano
l'analisi dei diversi. Indico il connesso con una serie di anelli di una
catena. Esprimo il negativo col segno 3 del meno sovrapposto a quello che
voglio negare, il non identico, il non simile, il non dubbio, ecc. $ 54. Ecco
così la serie dei segni principali: + più, meno, = uguale, <: maggiore; ‘>’: minore; ‘ll’
simile, 1 identico, ^ identico parziale,? dubbio, 000 connesso, (II) in
contatto, & etcetera, -1-- non simile, ^ non identico,?- non dubbio cioè
riflesso spontaneo, [ ] non percepito, I percepito in comcerto, plesso,
percepito distintamente senza categorizzazione di TAI parti, 71 percepito e
sintetizzato, !! percepito e analizzato, DU U IV / TAL sintesi ed analisi
spontanea e riflessa, |A| astratto com Ul Tala plessivo, Tala astratto con la
parte a. | A la S 55. Quando non occorre distinguere lo stato di spontaneità da
quello di riflessione, cioè quando si è nei concetti riflessi (idee), nei
giudizii e nei raziocinii nei quali non entrino l'esperienze e le percezioni, i
due spazî, che segnano lo spontaneo ed il riflesso, si trascurano. L'idea ed i
suoi elementi si rappresentano così ovvero al ovvero A:, ovvero secondo chè
sieno più o meno distinte e conosciute le sue parti elementari. Il giudizio ha
una delle due formole: 10 AA? Bİ, il concetto o la percezione A è identica a B?
A A? Bİ, non è identica certamente, oppure la risposta contraria: è iden tica
certamente, 1 -?-; 2º Aja?, l'elemento a fa parte dell'idea a _?. o della
percezione A? La risposta si dà col negare il dubbio (A) а h g bAt a b A. cde?
с a hg an. Or, dire che a fa parte di A è lo stesso che dire 1A | {4} +/ biali,
с de cioè l'elemento a è identico ad uno degli elementi di A, essendo OOO gli
altri elementi b c d e f g h. Il raziocinio in generale ha la formola della
connessione logica, cioè della connessione nello stato riflesso, che è
l'identità de’ suoi membri in un tutto mag giore, di cui sono parti; onde è
necessario che sieno veri i membri con reciproca connessione, affinchè sia vero
il loro tutto. Onde la formola del raziocinio in generale sarebbe: ^()()(). Con
le parentesi esprimo i membri di versi del raziocinio che fanno da premesse (e
possono essere parecchi) e quello che fa da conclusione, indicando la loro connessione
e l'identità di essi in un sol tutto più ampio con quel segno intermedio di
connessione riflessa e d'identità, che qui equivale al dunque. Il ragionamento
erroneo si esprimerebbe con l'identico non identico Â, con la contraddizione. $
56. Il raciocinio è o dimostrativo, o inventivo; ed in ogni caso esso passa
dalla identità parziale di una idea con un'altra, o di un esperimento con un
altro, alla identità totale (S 43). Onde la formola generale di ogni raziocinio
ne' suoi passaggi è i sempre questa: (a"B') (a000bcdefghh), a h g с de b h
g ovvero OOO d e (a), (^Bİ). Quanto a dire: A e B contengono a, sono
parzialmente identici. Come si farà per sapere se sieno totalmente identici?
Bisogna dalla parziale identità a riconoscere se pur vi sieno le altre parziali
identità b c d e f g h. Ciò si può sapere in due modi: o che vi sia connessione
tra a e tutti quegli altri, o che a li contenga. Bisogna accertare uno dei due,
o decomponendo i rispettivi concetti, o sperimentalmente. Accertato uno dei
due, o per connessione 000 che signa l’identità dei membri col loro tutto, o
per continenza che signa lo stesso (il tutto che contiene le parti), si ha
passaggio logico legittimo 000 al dunque, alla conclusione; e pongo il segno
d'identità 1 sul dunque, perchè ogni connessione di membri esprime la loro identità
col tutto che li contiene $57. Lo scopo di cotesti segni non deve esser quello
di sostituirli al linguaggio ordinario; poichè in tal caso ogni ragionamento
prenderebbe l'aspetto della matematica e del convenzionalismo di Poincare e il
formalism di Hilbert; onde sarebbero ben pochi coloro che avrebbero la forza di
mente e l'abitudine necessaria per condurre così i loro raziocinî. Io mi son
limitato nella mia semiotica (significa) universale a servirmene come mezzi di
reddiconto e di controllo, a ragionamenti finiti; poichè giova il riassumerli
con segni e presentare la forma logica della percezione, dell’idea e del
concetto, i loro rispettivi elementi, e le varie serie di operazioni su di loro
eseguite, per potere a colpo d'occhio discernere il cammino della identità in
tutti i giudizi e ragionamenti. Nella cennata mia opera ne ho fatto largo uso
in questo modo, nè domando per ora che sieno adoperati altrimenti. Qui pero, in
questo lavoro sintetico e riassuntivo del sistema, non renderebbero più facile
la comprensione delle idee, alla quale aspiro; onde io non me ne servirò,
lasciando che i leggitori di mente più ferma ne prendano esperimento nelle
singole dimostrazioni, alle quali già li ho applicati nella suddetta semiotica universale.
Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere
qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o
un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter”
-- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo
esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome
il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser
pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione*
da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di
suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o
concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui
che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro
quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere,
cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia
volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion
di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o
pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio
co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto,
cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno
per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico,
assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione
convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima
espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di
communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato
segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee
co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una
proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”),
il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della
esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione
il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che
s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta
naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque
non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca
stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto
spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien
pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè
ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il
segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far
nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione
e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo
solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose
per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi
stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci
rappresentiamo una idea astratta. La influenza del segno sull’astrazione
comincia ad esser guardata con attenzione quando i filosofi della scuola
sensista credettero che l'unica differenza tra l'uomo ed il bruto consistesse
nel segno communicativo. In verità è ben facile rilevare che senza gl'innumerevoli
segni articolati l’uomo non puo mai formarsi e ritenere l'immensa serie d'idee
astratte, e per dirla più esattamente, non puo egli nè sintetizzare ne
analizzare in sì gran copia, posciachè l’astrazione è figlia dei grandi
incrociamenti delle sintesi e delle analisi. Certamente i punti simili delle
percezioni rappresentandosi similmente si sintetizzano, ed i dissimili si
analizzano rappresentandosi dissimilmente. Ma se per ciascuno di quei punti simili
e dissimili non vi fosse un segno associato, non e mica possibile riprodurre e
ritenere la immensità delle similitudini e delle differenze che offrono da un
momento all’altro la percezione. Imperciocchè tra moltissimi punti simili, che
fra loro si differenziano in picciola cosa, sarebbe più fa eile la confusione,
anzichè la distinta rappresentazione di ciascun grado minimo di somiglianza e
di differenza per mezzo delle percezioni medesime. Al contrario, il segno
articolati e diversissimi d’altro segno articolato; e perciò attaccando un
segno a ciascuna di quelle minute sintesi ed analisi, si ha di già quanto basta
per poterle esattamente richiamare, senza poterle mai confondere un segno per
altro. Per esempio, quante gradazioni diverse non offre un colore solo, il
concetto di “bianco” (o “bianca”)? Or si potrebbero mai ritenere senza
confonderle tutte queste gradazioni? Ma l’uomo vi adatta un segno diverso per
signarle, e la confusione è evitata. Egli dice “bianco chiaro”, “bianco
sbiadito”, “bianco lordo”, “bianco latte”, ec. Vi sono poi delle parti di percezioni
che si isolano dal complesso mediante l’astrazione, e se non vi fosse un segno
per risvegliarne l'idea, non puo esser pensate giammai. Per esempio, l'idea o
il concetto astratto o generale o universale di “colore” – il nero non e un
colore; il bianco no e un colore --, siccome abbraccia ogni colore, con qual di
essi partitamente o complessivamente si puo rappresentare, se non vi fosse un
segno distinto (gaelico glas: verde o blu?) da tutti i co fori singoli per
richiamarla? Vi e pure un gruppo d'idee astratte che con maggior ragione han
bisogno di un segno per essere pensate, come la “gloria”, la “virtù”, l’
“onore”, il “dovere”, ec. Cosi anche e
il concetto meta-fisico dell’essere sopra-sensibile, Iddio, la sostanza, ec. É
in forza dell'unità del segno, che sorge l'unica idea astratta; poichè, se
vogliam provarci a idear (o mentare) la cosa senza segno alcuno,
particolarmente in una nozione astratta che non ra-presentano o signa un essere
reale, ma soli rapporti fra gli esseri, non sappiamo veramente come farcene
l'idea. Oltre a tutto ciò il segno ha una virtù speciale, che fa vedere il
legame di una idea coll’altra; perciocchè, messo un segno radicale o di radice
(“amare”), ogni variazione di desinenza e e ogni derivativo indica o signa,
come un gruppo che costituisce un'azione risultante venga variandosi in mille
modi: il che importa una sintesi mista all'analisi, perchè la radicale ferma
indica il punto fondamentale della somiglianza, mentre ogni desinenza e ogni
derivato fa vedere ogni categoria: quantita, qualita, relazione, modalita – per
citare la funzione kantiana della categoria d’Aristotele -- tempo, luogo. Questo
vantaggio non si puo altrimenti ottenere, che coll’articolazione del segno
sub-segmentale (prima e seconda articolazione), poichè rimanendo fermo un segno
come segno radicale sub-segmentale (articolazione prima e seconda) (“am-”), il
segno articolato (mutato della radice) indica la differenza (“amans”, “amatus”,
“amiamo” “ambi due amiemo”) fine a formare una proposizione compieta: il
mittente con il signans signa al recipient *che* il mittente crede che ama al
recipiente. Siegue da tutto ciò che il segno articolato ha un'influenza
grandissima nella operazione della sintesi, dell'analisi e dell'astrazione; e
siccome senza del segno articolato l'uomo non può nè giudicare (operare con una
proposizione) nè ragionare (inferire una proposizione d’altra), cosi il segno
articolato ha un'influenza suprema nel giudizio e la volizione e nel raziocinio
(di giudizio e di volizione). Infatti il sordo-muto ha un limite strettissimo
nella sintesi, nell’analisi e
nell’astrazione; ed a misura che si allarga in loro la sfera dei segni per
mezzo della gesticolazione, e più anche per mezzo di un sistema alternativo, il
sordo-muto inoltransi nell'astrazione, il suo giudizio, la sua volunta, ed il
suo ragionamento – di giudizio o di volonta -- divene più estesi e più esatti.
Dopo che si disse che l'uomo non puo mai dare origine al segno articolato o
communicativo, la scuola di Bonald si valse di questa stessa dottrina per
fondarvi sopra l'edificio della divina rivelazione, che dovette communicarsi al
primo uomo coll'insegnamento diretto del segno communicativo, e che dovette
tradizionalmente discendere col segno medesimo in tutta l'umana generazione,
fino a che colla dispersion babeliana delle lingue venne a guastarsi la forma
genuina primitiva del segno soppranaturale, praeternaturale rivelato, e varii
innesti di origine umana si attaccarono al primitivo tronco, cosicchè insiem
col segno furono anche travisate le idee della rivelazione prima. Questa stessa
dottrina è stata abbracciata con molta facilità da Gioberti, quantunque in
tutt'altro alla scuola di Bonald egli non appartenesse. Non entro in questa questione
dal lato teologico (o genitoriale), molto più che non veggo nella antica
religione romana nessuna espressione che alluda all'insegnamento primitivo del
segno per mezzo di un dio. Veggo per altro che le anzidette scuole han preso a
dimostrare filosoficamente che l'uomo da sè stesso non può dare origine al
linguaggio, e con questa dimostrazione negativa credono dare il più saldo
appoggio alla necessità della primitiva rivelazione della parola. Guarderò
adunque le loro ragioni da questo stesso lato filosofico, e porrò così il
quesito: È egli vero che per poter ‘signare’ comunicativamente in qualunque
guisa bisogna l’uso preventivo dell’astrazione, e viceversa per potere astrarre
bisogna l'uso antecedente del ‘signare communicativo? Se ciò fosse vero, sarebbe
questo un circolo vizioso (“a Schifferian loop”), da cui non potrebbe mai
uscire l'origine puramente umana del ‘signare communicativamente’; e perciò,
essendo un fatto che l'uomo signa communicativamente, ed ammesso che egli sia
stato *creato* da un dio (Prometeo), re sterebbe come una ipotesi interamente
consona alla divina bontà di Prometeo che egli stesso gli abbia insegnato o
signato a signare communicativamente fin dalla origine o dalla genesi alle
rivelazioni! Resterebbero cosi giustificati gli argomenti della scuola teologica
o genitoriale di Gioberti. Ma a me pare che, posto a quel modo il quesito, la
necessità del circolo vizioso venga tutta dal non voler discendere nella minuta
analisi di un tutto complessivo – un complesso proposizionale --, e dal volere
la spiegazione sintetica di un fatto che costa d'innumerevoli elementi, senza
volere esaminare come nascano gli elementi medesimi, e come gradatamente si
combinino fra loro per costituire il fatto totale nel modo che oggi si presenta.
Uno dei difetti delle scuole dell'età nostra è questo precisamente, che i nodi
voglionsi tagliare invece di scioglierli; e cosi mi pare sia accaduto al
problema che riguarda l'origine del signare communicativamente. Infatti, se si
domaada: l'uomo può esercitare quella vastità di astrazione che attualmente
esercita senza fare uso del signare communicativamente? La risposta è facile:
nol può: perchè il segno communicativo, siccome testé abbiam veduto, influisce
grandemente nell'esercizio dell’astrazione. Parimente se si domanda: l'uomo può
signare communicativamente (con “o”) senza l’esercizio dell’astrazione? è anche
facile ugualmente la risposta che nol può: perchè la convenzione implica la conoscenza
dell'utilità del signare communicativamnte, ed implica nel tempo stesso
l'attaccamento di un'idea (“presta attenzione”) ad un segno articolato (“o”),
il che è un'effetto di astrazione. Ma il problema non è ben presentato col
porre le due anzidette domande; perocchè non si vuol sapere se l'esercizio
completo del signare communicativamente, qual'è attualmente, può stare senza
l’uso dell'astrazione, nè anche si vuol sapere se lo sviluppo immenso che ha
preso l’astrazione nelle molte successive generazioni del popolo italiano possa
mai stare senza l'uso del segno articulato. Invece il problema vero è
quest'altro. Vi può essere un atto di signare communicativamente primitivo, un
primo uso di un segno articolato (“o – o – o”), colla sola influenza di
un'astrazione (o articolazione) di primo grado, la quale per compiersi non ha
bisogno dell'uso del atto di signare communicativo. Quando due cose s’influiscono
a vicenda, in modo che non può crescer l’una senza che cresca l’altra, se si
guardano *sinteticamente* dopo un lunghissimo periodo di mutuo accrescimento,
non pajono più naturalmente spiegabili, e comparisce quella specie di circolo
vizioso, di cui si parla inpanzi, perchè lo sviluppo pieno del l’una suppone lo
sviluppo pieno dell’altra, ed amendue si suppongono talmente a vicenda, che non
si sa più qual delle due debba esser prima. Per isciogliere un problema di tal
fatto bisogna incominciare dal periodo o fase o stadio primo, cioè dal momento
men complicato e meno sviluppato. Allora soltanto si può scorgere la influenza
mutua, e come mano mano vengano accrescendosi l’una coll’altra. Qui trovo
un’obbiezione ben facile. Mi si dirà: avete voi elementi storici ben certi per
poter determinare qual sia stato il periodo primo dell’atto di signare
communicamente in Romolo e Remo. Anzi taluni credono trovare nell'etnografia
una base sufficiente per poter sostenere che il segno communicativo più antico
e più elevato e più ricco di forza plastica. Onde da quelli si crede che l’atto
del signare comunicativamente e andati mano mano deteriorando. Veramente, se debbo
esaminare il mio problema sull’appoggio del solo dato storicio non mi credo autorizzato a dare una soluzione
diffinitiva. Imperciocchè io non son’ uso a sciogliere un problema a posteriori,
e viceversa, so che la *ragione* necessaria delle cose governa la storia. Non
entro ad esaminare se l’uomo e creato adulto o no; o se, dimenticato il
primitivo atto del signare communicativamente, sia stata possibile la nascita
di un atto *nuovo* di signare communicativemente. Non entro in un esame
storico, dal quale la mia semiotica non puo sempre ricavare un risultato
filosoficamente rigoroso. Invece, domando se e possibile, senza precedente
arbitrio alcuno, stabilirsi una communicazione di un segnato tra due uomini per
mezzo di un segno (“o”) anche *involontariamente* (spontaneamente,
naturalemnte) adoperati, e, se trovata l'utilità pratica o prammatica di un
arbitrio mutuo di tal fatto. Si puo fare avvertitamente e per mutuo arbitrio ciò
che prima si è fatto *spontaneamente*. Posta così la questione, non ha bisogno
più della ricerca storica. Si attacca alla natura comune – la ragione -- di due
uomini – una diada conversazionale, Romolo e Remo, Niso ed Eurialo --,
quantunque anche la storia puo venire in conferma di ciò che la cosa deve
essere per natura sua propria – uomo animale razionale. Distingo due specie del
genero segno: ma non e necessario moltiplicare i sensi di ‘segno’ sine
necessita. Primo e un segno naturale, spontaneo, imitative, mimetico, iconico,
assoziativo. Secondo, e a posteriori altro segno – un segno devenuto segno dopo
un mutuo arbitrario. Or sebbene il mittente che usa un specimen particolare di
segno “o” che imita una proprieta naturale spontanea, il segno “o”, sieno per
sè stesso assai ristretto, pure ha questo di particolare. Senza bisogno di
arbitrio mutuo alcuno, e senza anchie aver lo scopo di *conimunicare*
(transfere il segnato) all’altro un qualunque segnato (sensum, percipito), puo
essere adoperati, e producono l’effetto della communicazione (communicato,
segnato) che non e primariamente nell' *intenzione* di nessuna delle due parti.
Nessuno più di un bambino italiano è da natura inclinato ad imitare (‘bow wow’)
i romori che sente o perceve. Non è necessario supporre che questa imitazione (‘bow
wow’) ha uno scopo, fine, volizione, o intenzione (volutum). Il bambino
italiano imita spontaneamente, e signa che e in relazione con un cane, è come
la ri-petizione naturale della cadenza che si esieguono non dall'uomo solo, ma
anche dai bruti. Comincio da questo caso semplicissimo, non perchè io creda che
l’atto del signare communicativamente sia nato in questo preciso modo, ma
quando si cerca la possibilità di una cosa, bisogna ricercarla tra le
possibilità più semplici e più comuni. Imperciocchè, pria che si dice che una
cosa non può essere, è mestieri osservare in quante maniere ben semplici ella
può avvenire. Or vediamo, allorchè un’uomo imita spontaneamente un suono
qualunque naturale (“o-o-o”), che cosa accade nell’altr’uomo che lo interpreta
(l’interprete). Il segno imitato per ragione di semplice associazione o
iconicita richiama naturalmente la percezione della causa che suole ordinariamente
emettere cotal segno. Per esempio, se un bạmbino italiano, senza la menoma
intenzione communicativa, e solo per il puro piacere imitare, esiegue il belato
(‘bah bah’) della sua pecora, chiunque lo sente si rappresenta in quel momento
l'animale che fa quel belạto. Senza *voler* o avere l’intenzione di communicare,
i. e. d’informare ad altro, vi è di già tutto quello – il principio razionale
-- che costituisee la communicazione e
la conversazionale. Un segno, a cui è attaccato una percezione, adoperato la
prima volta, ‘one-off’, spontaneamente, per caso, per imitazione, per qualunque
altra causa, desta la percezione socia, e senza arbitrio mutuo alcuno divien
segno della medesima causa (‘bah bah’ = pecora). Infatti, se il bambino italiano
che imitava poc' anzi il belato della sua pecora, non conosce punto il segno
articolato ‘pecora’, e se io voglio più tardi rinnovare in lui la percezione della
pecora, che altro dovrei se non che imitare il belato medesimo? Nè ciò dipende
da che io conosco l'utilità del segno. Giacchè potrei supporre all'inverso che
il bambino italiano il quale, imitando spontaneamente il belato della pecora
(“bah bah”), si accorse o da un segno (“bah bah”), o dallo sguardo ch’io do
alla pecora, che già mi feci ricordanza della pecora, più tardi il bambino stesso
potrebbe servirsi a ragion veduta di quel belato per riprodurre in me or di proposito
la stessa percezione. Immagino un’altro caso. Se alla vista (visum) di un
pericolo (leone) l'uomo (Eurialo) gitta un grido – “o-o-o” --, un suono
qualunque, quand’anche non sapesse che vi fossero altr’ uomo (Niso), dal che
potrebbe essere soccorso, il grido spontaneo che suole uscire per lo più
involontariamente, spontaneamente, naturalmente - sotto il dominio della paura o
pena, e se a quel grido si ve dessero accorrere altr’uomo, il quale, scorgendo
la posizione pericolosa, viene in aiuto, non sarebbe tosto quel grido spontaneo
“o-o-o” un segno della “chiamata” in aiuto, segno non devenuto da mutuo
arbitrio in principio, nia che per l’effetto ottenuto o la risponsa ottentua
divene base di un mutuo arbitrio in avvenire? Immagino anche un’altro caso più
semplice. Se un'uomo spontaneamente, e senza *intenzione* communicative alcuna,
signa “o-o-o”, il segno più facile ad articolare, e se altr’uomo (Remo, Niso) e
presente e sente o perceve che Romo ha profferito un specimen di un segno, che
cosa mai dovrà avvenire? Non si voltera verso colui che signa? Non è naturale
il rivolgersi verso il punto donde parte il segno? Ebbene, un'effetto si è
ottenuto. Questo segno profferito senza intento alcuno o intenzione
comunicativa alcuna richiama l’attenzione dell’altra parte della diada
conversazionale. Ciò che si è dapprima, one-off, ottenuto senza intento
communicativo o intenzione communicativa, può la seconda volta esser voluto *di
proposito*, voluntariamente, -- def. di verbum in Aquino -- per la utilità che
se n’è ricavata: ripetendosi dunque avvedutamente lo stesso segno, quello è
divenuto un vocativo naturale. E noi osservammo che appunto questa vocale “o” è
il vocative nella Roma di Remo (o tempora o mores) e nella Roma di oggi. L’arbitrio
mutuo o duale dunque non nasce dapprima a ragion veduta, ma nasce per mezzo di
un'effetto o risponsa, che un segno, EMESSO per accidente (“o”) o per
imitazione, consigue. Volendo di nuovo ottenere avvedutamente lo stesso effetto
o la stessa risponsa, non ci vuol’altro che ripetere un altro specimen del stesso
genero di segno (“o”). L’arbitrio mutuo dual è bello e fatto. Or quando vi sono
tante possibilità d'incominciare l'uso di un segno articolato e di dar luogo
spontaneamente a un arbitrio mutuo e duale, come si può dire in tuono assoluto
che sia impossibile l'uso del segno senza aver la preventiva conoscenza della
utilità del segno medesimo? Non dico che l’atto del signare communicativamente
nacque in questo o in quell’altro modo. Dico che vi sono moltissime possibilità
tutte *naturali*, nelle quali l'uomo può avvertire l'utilità dell'uso di un
segno articolato per l’effetto o la risponsa spontanea, no intenzionata, che ne
ottiene, e senza il bisogno di un preventivo arbitrio duale. Basta questo per
distruggere a rigor di logica le basi tutte di quell'edificio che si vuol
fondare sull’impossibilità assoluta che l’uomo signa senza prima aver
conosciuto l'uso e l'utilità dell segno. Ma invero il brutto ebbero forse
insegnato da Dio l'uso del atto di signare communicativamente, con che
communica (o transferre) il suo bisogni, la sua gioia, il suo pericolo, la
domanda del soccorso? Forse non vediamo fin dal loro nascere i varii animali
communicarsi per mezzo di un segno, per lo più *istintivo* -- che causa una
risponsa istintiva, i diversi loro stati? Non puo il brutto perfezionare il suo
atto di signare communicativamente, perchè non ha facoltà di sintetizzare e di
analizzare gli elementi della percezioni, e molto meno ha facoltà astrarre,
siccome vedremo a suo luogo. Ma la co-rispondenza o co-relazione dell’effetto o
stimolo, in esito al suo primo segno istintivo fa si che il brutto lo ripeta
volontariamente; e tutti conosciamo come un animale domnanda il cibo o la
libertà del movimento per mezzo di segni speciali, nel che dalla sua parte vi
ha una specie di “tacito” arbitrio duale (Androcle e il leone), perché l’effetto
ottenuto o la risponsa ottenuta una volta, per ragion di associazione o
co-relazione iconica istintiva associativa, fa appunto le veci di un arbitrio
duale. Se dunque questo segno inferiore è possibile nel bruto, il quale non
astragge, perchè lo stesso principio di spontaneo tacito arbitrio duale non è
possibile fra due uomini! Un uomo, che ha la piena capacità di astrarre,
riconosce più facilmente l'utilità dell’effetti ottenuto o della risponsa
ottenuta dall’altra parte della diada conversazionale, e si crea l'idea
generica del arbitrio duale del segno, dalla quale discende poi come
conseguenza la necessità di *variare*, fare piu ricco, illimitato, creativo, e
di fine aperto, in ragione di questo o quello bisogne, in ragion di questa o
quella percezione, o in ragione di questo o quello concetto astratta. Concepita
una volta l’utilità dell’uso del atto di signare communicativemente, del segno
articolato (terza articolazione), non ci vuol’altro che possedere in fatto la
capacità di variare e combinare *indefinitamente* in modo aperto e illimitato,
l'articolazione e la operazione di questo o quello segno primitivo, e l'uomo
possiede già questa capacità meravigliosa. L’uomo adunque può, da un certo
numero di fatti spontanei in cui il segno è riuscito a *stabilire* un arbitrio
duale, elevarsi all'idea astratta dell’arbitrio duale del segno, poichè da un
fatto singole si forma la sintesi, l'astrazione, e l'idea generica; e
possedendo in fatto la varietà indefinita, componibile, di questo o quello
segno articulato primitivo, è già nel caso di far da sè tutto il resto.
Quantunque il segno che compone l’atto del signare communicativo e per arbitrio
muto, pure siccome debbono *signare* una percezione (S e P), gli tre elementi
delle medesime (S, e, P) ed i concetti astratti, debbono quindi ritrarre le
proprietà fondamentali dell’uomo, cioè la relazione costanti che debbono avere
fra ogni percezione, e ogni operazione o combinazione. Perciò, sebbene e
diverso il segno che si adoperano ne' varii paese dell’Italia per signare il
medesimo segnato, pure in ogni dia-letto vi sono parti fisse del discorso o
dell’orazione, vi è una sintassi necessaria, vi sono in somma una relazione che
e comuni a ogni segno. In primo luogo, siccome ogni percezione rappresenta un
risultamento esteriore ed e anch' esso del risultamento organico subbiettivo,
perciò vi ha un fondo comune in ogni percezione ed è l'azione risultante, che
equivale alla somma di ogni azione sostanziale aggregate insieme. L’azione
sostantiva e la aggregazione di questa o quella azione sostantiva, ecco ciò che
è comune a ogni reale ed a ogni percezione. Quindi in ogni atto del signare
communicativamente debbe esistere un segno addetto ad indicare l’azione risultante
in tutta la loro immensa varietà. Questo e il segno del “verbo” – Varrone,
verbum, greco rheo --, cioè il segno per eccellenza, per chè in verità, tutto
quello che si può rappresentare, ad azione sostanziale si riduce, e perciò il segno
del verbo (la copula) è il fondamento di ogni segno. Ogni proposizione si
aggira intorno al segno del verbo (il S e P), e se vuol farsene un'analisi, la
mossa si dee sempre prendere dal segno del verbo, perchè un segno che non e un
verbo non puo indicare, se non che un rapporto dell’azione risultante signata
dal segno verbo. Inoltre, per questo stesso che ogni azione *risultante* e non
basica, e composte della combinazione di questa o quella azione sostanziali
intransitive ed immutabili, è necessario che ogni verbo ha il loro fondamento
in un solo segno di verbo, e che quel segno del verbo e *intransitivo* (la
copula e intransitiva), siccome e questa o quella azione sostanziale, dalla che
nasce ogni azione risultante, la quale e ra-presentata dal resto della classe del
segno del verbo. Infatti abbiam notato già da molto tempo che in ogni atto di
signare communicavemente vi è un verbo sostantivo intransitivo, il verbo “essere”,
al quale si possono facilmente ridurre ogni altro verbo, decomponendoli in “copula
e predicato”. Io amo è lo stesso che io sono amante. Ed è notevole che ogni
segno di verbo chiamati attivo, o meglio transitivi, perchè denota un’azione
che passa dal soggetto all'oggetto, si sciolgono tutti in un segno di verbo fondamentale
che è intransitivo, o come i modisti dicono neutro – epiceno, mezza voce --,
cioè nè attivo nè passivo. Poichè ciò che è veramente transitivo é la forma del
risultato, ma ognuna delle azioni sostanziali componenti è intransitiva. La
sintesi e necessaria e l'analisi e necessaria, perchè una percezioni e
complessiva e costa di questo o quello elemento, che colla riproduzione,
sovrapponendosi gli uni agli altri, si sintetizzano nel punto simile e si
analizzano nel punto dissimile. Bisogna dunque che ogni segno indica un
composto o complesso proposizionale, e che ogni segno articulato composito e de-compo
nibili. Però, siccome gli elementi di ogni risultato e una azioni sostantiva, perciò
è necessario che ogni segno si puosciogliere in un segno solo che indica
l’azione sostantiva, non come occulta (sub-stantia), ma come realtà, cioè come
essere, onde il *nome* (nomen, onoma – nomen substantivum, nomen adjectivum) non
meno che il segno del verbo, si sciolgono tutti nell'essere, il quale è verbo e
nome allo stesso tempo, ed è appunto verbo sostantivo, perchè indica un’azione
che sta per sè stessa, e che non ha bisogno dell'altrui appoggio. Un nomine
addiettivo e ogni altro segno sin-categorematico che indica quantita, qualita,
relazione, o modalità o relazione, ra-presentano la composizione, il risultato,
la combinzione di questa o quella azione sostanziale, e perciò non e mai da sè
sole, ma ha bisogno di un segno di verbo o di un segno di nomine (S e P), su
cui debbono appoggiarsi. Conciossiachè in verità la consposizione e qualunque
suo modo di essere non può stare senza questo o quello componenti, anzi non è altro
che la somma medesima di questo o quello componento. Però, siccome la composizione
è una forma complessa, e come tale si distingue da cia scun componente, quindi
è che tutte le parole indicanti modd lità, quantità e relazi ni, conie gli
avverbii, le preposizioni, le congiunzioni, gli aggettivi, ec. non sono
riduttibili al solo verbo essere, nè al solo nume essere, a differenza del
segno del verbo e del segno del nome che ogni segno si reduce al verbo
sostantivo “essere”. Nel tempo stesso non possono sussistere per sè, ed han
continuo bisogno di questo o quello essere (il S, il P), perchè la composizione
non può stare senza di questo o quello singolo componento. Sotto tai riguardo
la differenza che passa tra ogni segno che indicano la quantita, la qualita, la
relazione, e la modalità dell’azione sostanziale e quella che indica l'azione
medesima, e quella stessa differenza che esiste tra il tutto e la collezione di
questa o quella parte che lo compone; imperocchè il segno del verbo, e
principalmente il verbo “essere”, nel quale ogni segno di verbo si sciolgono,
indica la collezione di questa o quella azione, mentrechè il segno del nome
aggettivo, il segno del avverbo (ad-verbium, come la particola “non”), la
preposzione (in latino, i casi), il signo di congiunzione (copulativa, e,
adversative, ma), ec. indica come questa o quella azione e disposte, e che
relazione ha fra loro, in ogni vario gruppo che compone. Siccome ogni gruppo di
azioni è un *risultato* che subisce questa o quella modificazione
(declinazione, congiuggazione) secondo i cangiamenti parziali del numero (singolare,
duale, plurale) e della posizione di questo o quello componento, cosi vi ha una
sintesi fondamentale in ogni parte simile che nel risultato e ferma, e vi ha una
continua analisi di ogni parte variabile ed accessoria. Per questa ragione e
necessario il segno radicale che esprimono la parte *sintetica* fondamentale, cioè,
il fondo permanente dell’azione: il radicale poi si va cangiando nella sua
desinenza (uomo, uomni, pater e familia, paterfamilias), o in suo articolo
definito (il – ille, la -- illa) o indefinito, “segna-caso”, ed ausiliare, per
indicare ogni variazione e accessorio che in torno a quel gruppo fondamentale
di questa o quella aziona si effettua. Il atto di signare monosillabica dei
cinesi supplisce a ciò coll’accozzare diverse sillabe, cioè diverse segni, di
cui ognuna esprime una idea, e tutte unite esprimono un complesso. Una idea
fissa si esprime con un signo fisso. Una segnato variabile si esprime con un
segno variantie. Sorge da ciò la necessità del segno derivativo, del segno
della desinenza e del segno del prefisso, infisso, e suffisso, come anche la
necessità di trasformare in maniera avverbiale un nome e un verbo, e di operare
ogni cangiamento di preposizione in verbo ed in nome, dell’aggettivo in
sostantivi e viceversa. Poichè, fissa la forma fondamentale, ogni mutamento di
forma debbe esprimersi con cangiarli secondo il bisogno e secondo la relazione
che vuolsi esprimere tra un gruppo di azioni ed un'altra. Finalmente vi ha
un'altra forma obbligata in ogni costruzioni del discorso, ed è quella del
giudizio, poichè ogni proposizione – in ogni modo – indicativo, imperative --
in giudizio o volizione si risolvono, e come si va da un giudizio all'altro per
mezzo di una connessione, così la proposizione prende forma concatenata e
compone un period (protasi, apodosis), e questo periodo s'incatena con quello
periodo e forman un discorso. Però è no ievole che l’operazione dell'analisi e l’operazione
della sintesi spontanea non puo altrimenti annunziarsi che sotto forma di “proposizione”,
cioè di giudizio o volizione; quantunque agli occhi perspicaci del filosofo
anche un segno solo, considerata nella sua radicale o nella sua derivazione,
indica benissimo l’operazione analitica che vi è dentro. La ragione, per cui
non si può annunziare ad altri, che sotto forma di giudizio, una completa operazione
di sintesi e di analisi, si è appunto questa, che quando si annunziano ad altri
cotali operazione di sintesi o analisi, vi è di già il concorso della
riflessione, e perciò non si annunzia altro che il risultato ultimo della
sintesi e dell'analisi riflessa, il qual risultato e il giudizio e la
volizione, ambe due con contenuto proposizionale. Onde si ha che nello singolo
signo si rappresenta le sintesi e le analisi spontaneamente fatte, e nel
complesso si rappresenta il risultato totale, che perciò appunto veste la forma
di giudizio o volizione con contenuto proposizionale. Da tutte queste osservazioni
emerge che il segno e la sua costruzione (sintassi) in ogni popolo – o paese
d’Italia -- debbe avere una forma fissa (semiotica agglutinativa) e una forme
variabile (semiotica componenziale), siccome il risultamento organico
subbiettivo ed il risultamento esteriori obbiettivo ha una forma fissa e una
forme variabile, poiché il segno debbe necessariamente prendere lo stesso
aspetto del segnato. In ogni segno possono riguardarsi due parti distinte, cioè
il segno e la costruzione del segno. Ogni segno è segno di una percezione, o di
una parte di percezione, o di un'idea o concetto (signato). La costruzione del
segno ra-presenta ogni relazione che ha questa o quella percezione, questa o
quella idea, questo o quello segnato. Onde il signo è lo specchio più sicuro
del grado delle conoscenze di un emittente del segno. Poiché la povertà o la
ricchezza del repertorio semiotico e di questa o quella forma di costruzione
indica quante percezioni, quante idee, esistano presso il medesimo emittente,
ed in quante maniere sa metterle in relazione
fra di loro. Però è notevole una cosa, che forse non è stata abbastanza
studiata sino al presente. C’e un segno (“colletivo”) che non esprime una
percezione sola o una idea sola, ma serve ad esprimerne più di una. Per sapere
se mai una di tale segno esprima una idea piuttosto che un'altra, fa d'uopo
stare attento alla *forma* del discorso, dall' insieme del medesimo, come anche
dalla forma della costruzione, si ricava ciò che precisamente si vuol signare
col segno che si adopera. Questo fatto è ben noto ai filosofi sensista; ma
forse la causa del fatto non è da loro cercata con rigore semiotico. Acciocchè un
segno sia adoperato a signare un segnato diverso d’altro segnato
(equivocazione), è necessario che il segno in origine appartenga ad un segnato
solo; poichè non è presumibile che siasi voluta fare un arbitrio dual anfi-bologico
(equivocazione – para-bologica – il rasaio di Occam), cioè un arbitrio duale di
usare un segno solo per rappresentare un segnato e altro segnato, appunto per
far nascere la dubbietà di sapere il segnato che propriamente vuolsi indicare.
Allorchè dunque si presenta un segnato nuovo, che perciò non ha ancora segno
proprio, il segnato stesso fa sperimentare il bisogno di trovare o inventare o
concevire un segno per indicarlo, ed in pari tempo il segnato (es. spirito) fa
svegliare l'idea socia di un segnato simile avente un segno proprio (spirare).
Allora l'uomo prende quel segno, e se ne serve per indicare il segnabile
novello ch' è ancora propriamente IN-segnato. Questo bisogno si sperimenta più
di tutto nell'esprimere una idee astratta (‘implicatura’), a cui mano mano un
emittente si eleva; e perciò si serve del segno che indica un segnato, quanto
più è possibile, somigliante a quella idea (im-piegare). Nasce cosi l'uso del
traslato: un segno, che propriamente è servito ad indicare una segnato (lo
spirare), è adoperata a signare un'altra (lo spirito) che solo ha con essa
qualche somiglianza. Il traslato di tal fatta e una necessità, perchè la presentazione
di un segnabile IN-signato conduce al bisogno di signarlo, e non potendo formarsi
sul momento un segno apposito per l'impossibilità di fare un pronto arbitrio
duale, si ricorre più prestamente al segno del segnato simile, lasciando pure
al resto del discorso l’incarico di mostrare la diversità e la novità del
signabile previamente IN-segnato, pel quale si adopera una segno. Ma oltre a
ciò vi ha pure una necessità di usare un segno da traslati o metaforicamente,
quantunque il signato che vuolsi esprimere ha segno suo proprio. L’esattezza
del segno appartiene sopra tutto a quel filosofo oxoniense che e avvezzo alla
precisione del segnato e del segnabile non segnato, e che valutano ciò che
propriamente esprima ciascuno dei segni, che essi adoperano per indicarle. Ma
il numero maggiore degli uomini non può mai aver fatto queste esatte
meditazioni, e molto meno può aver l'abitudine del linguaggio preciso. Inoltre
gli uomini, spinti dal momentaneo bisogno di communicare il segnato, e molto
più quando sono sotto il dominio delle passioni che maggiormente l'incalzano,
non han tempo a ricercare il segno che esattamente corrisponde al segnabile
IN-segnato. Allora succede un'effetto ch' è tutto proprio dell'associazione
delle idee. Si presenta un segnabile che non richiama prontamente alla memoria
il suo segno, ed invece richiama per ragion di similitudine un'altra percezione
segnata che ha pronto il segno. Allora l’emittente, senza metter tempo ir mezzo,
si approfitta di questo segno cognosciuto per indicare, non il segnato proprio,
ma un segnabile simile; e cosi si la un'altro genere di traslato, cioè il
traslato metaforico. L’interprete o recipiente e pur'essi obbligato da quel
segno a passare dal segnato simile non propria al segnato propri; e ciò, quando
la similitudine calza bene, riesce a proccurare una maggior persuasione, come
pure riesce a rappresentare lo stato di esaltamento dell'animo del emittente,
quando lo si vede correre rapidamente di segnato in segnato, senza aspettare la
corrispondenza esatta del segno, é con servirsi di un segno che indicano un
segnato simile. Quest'altro genere di trasláti è anch'esso una necessità,
perchè la maggioranza degli uomini non può sempre misurare il segno, e molto
meno lo può, quando è sotto l' ardore delle passioni, o nel momento di una
pubblica arringa, in cui il segno naturalmente si eleva colla metafora per l’imperioso
bisogno di esprimersi con qualunque segno si presenti più adatta. Con questi criterii
è ben facile giudicare, perchè vi sieno emittente di repertorio ricco ed
emittente di repertorio povero, perchè vi sieno emittente di repertorio riccho
e emittente di repertorio povere di forme, ed in qual rapporto stieno tra loro
l'abbondanza e la povertà degli uni e delle altre. Il emittente men civilizzato
e meno avvezz alla riflessione filosofica, avendo un minor numero di segnati, debbono
esseri poveri di segni; ed a misura che son poveri di sengi, più abbondano di
traslati, perocchè ad ogni nuovo sengabile che ai medesimi si presenta debbono
adattare per similitudine un segno. Queste emittente però diventa di un
repertorio ricchissime di forme, ed inclinano quasi sempre alle circonlocuzioni
(perifrasi) ed al figurato (metafora). Ciò è ben naturale, perché la forma
stessa del discorso deve dare a comprendere che el sengo non venga adoperata
nel uso suo ordinario, ma in un uso di somiglianza, in un uso figurato o
allegorico. Questo emittente si presta anche facilmente alla nascita di un
segno composto (bi-cicletta), perchè sentono il bisogno di accoppiare due segni
indicanti oggetti proprii, per segnare un segnabie che ha una somiglianza con ambidue
uniti insieme (portmanteau). Perciò questo emittente contiene un signo radicale
che si prestano ad inflessioni molto diverse, e per quanto son povere di radice
originaei, tanto son ricche di composti e derivati. Per ciò sogliono chiamarsi
il più anticho emittente. Non vuolsi confondere un ricco repertorio delle forma
con un ricco repertorio di segni, nè si deve credere che la ricchezza delle
forme sia indice della perfezione maggiore dell’emittente, molto più quando non
è congiunta a - ricchezza vera di signo. Al contrario, i segni di più avanzati
nella riflessione e nella civiltà hanno un più esteso numero di vocaboli
proprii, e fanno molto conto della purità e della proprietà del segno: onde
esse sono più aliene dalla sinonimia, scansano le figure, e adoperano al
bisogno strettissimo i traslati. Queste linyne si prestano meglio all’esattezza
scientifica, ma quanto sono rigorose, tanto son più fredde, poichè non si
confanno collo stato dell'uomo appassionato, il quale afferra qualunque segno
avente somiglianza col segnable che vuole signare. Un emittente i di tal sorta
non e nato con quella esattezza fin dalla loro origine; perciò porta l'
impronta di molte radicali, di molti decivativi e di traslati che appartennero
all'epoca più antica. Tutti questi però coll'andare del tempo hanno acquistato
segnati loro proprie; cosicché non si ha più l’idea di un traslato o di una
metafora in ciascun segno, ma vi si scorge un segnato tutto proprio (By
uttering ‘You’re the cream in my coffee’ I sign that you are my pride and joy).
Ciò prova che questo fenomeno e recente, e figli, anzichè padre. L’emittente e
ricchissimo nel repertorio di segni, ma molto povero nel repertorio di forme
poichè ogni segnato ha segno proprio che esattamente lo segna, e perciò le
relazioni delle proposizioni sono meno intralciate, son più semplici, e sempre
più si avvicinano alla forma fondamentale di ogni giudizio o proposizione:
soggetto copula e predicato. Un'altra osservazione debbesi pur fare intorno a
queste due specie di emittente. Quello che e più antico, più abbondante di
figure e di traslati, meno ricchi di segni che di forme, segna il segnato per
come si presenta in forza del l'associazione, e perciò nella loro
costruzione-riescono sempre più intralciati; cosicchè il soggetto dell'azione
sostanziale, l'azione sostanziale stessa, ed il suo oggetto, non van sempre in
ordine progressivo, ma per come si associano tumultuosamente un signato
coll’altro, cosi l'esprime: quindi la necessità di molti incisi e di molte
trasposizioni del signo. Al contrario, l’emittente più riflessivo, più
abbondanti di segni e men ricche di forme, abitua ad un'associazione d'idee più
ordinata, e perciò la proposizione conserva la fisonomia ordinaria del
giudizio, senza il tumulto d'idee bruscamente congiunte. Per questo un
emittente antico (Catone) non e più intelligibili a noi, se prima non mutiamo
la sua costruzione, da noi chiamata “indiretta”, in un’altra costruzione più
conforme all'ordine logico delle idee che diciamo “diretta” e che a noi è divenuta
più abituale. Se si interpreta an pezzo di Catone colla costruzione stessa che
ha nell'originale, non sarebbe mica intelligibile. Intanto si scorye da ciò che
al linguaggio appassionato ed oratorio, a quel linguaggio, che ha bisogno di
esprimere le idee per come si presentano nel tumulto delle passioni o nel
calore della perorazione, l’emittente antico e meglio adatto, e quella stessa
costruzione intralciata rileva vie maggiormente l'originalità e la spontaneità
dell'associazione delle idee. Al contrario, l’emittente nuovo si presta meglio
alle opere scientifiche, e per sostenersi nella poesia e nell'oratoria ha bisogno
di pensieri per sé stessi clevati, non potendo sperare il loro effetto dalla
varietà della forma e dallo stile figurato. Io non scendo a particolari
confronti tra stile e stile, poi che qui m'intrattengo dell'alta semiotica generale.
Lascio al non-filosofo lo applicare questo principio che nascono dalla natura
stessa del segno, dallo stato più o meno amplo delle idee e dal corso delle
loro associazioni. Solamente debbo notare che il migliore emittente debbe esser
quello, il quale accoppi i due diversi vantaggi, dello stile figurato e dei
traslati quando abbisognano, e della precisione rigorosa quando è necessaria.
L’emittente antico non puo riunire questi due vantaggi insieme, se non che in
un caso solo, quando cioè il popolo italiano è passato colla medesima lingua
dal primo periodo della spontaneità a quello della riflessione, dall'epoca
della poesia (mythos) a quello della filosofia (logos). Bisogna però in tal
caso che il popolo italiano mantenga i due registry in un solo sistema:
l'ordinario o basso ed il sublime o alto, il rigoroso ed il figurato. Questo
emittente e ricco di segni e di forme allo stesso tempo, ma pecca di molta
sinonimia, ed in generale offre un'esempio rilevante, che coloro, i quali
adoperano il rigistro esatto, non sa più riuscire nell'altro registro. Wikipedia
Ricerca Affezione Lingua Segui Modifica Il termine affezione (dal latino
affectio, sinonimo di affectus) nel linguaggio comune è usato nel significato
di "affetto", inteso come un sentimento di benevolenza verso il
prossimo, di intensità minore della passione. In filosofia il lemma
indica tutto ciò che avviene nell'animo determinandone una modificazione:
l'affezione è ogni «fenomeno passivo della coscienza», ossia la condizione in
cui si trova chiunque subisca un'azione o una modificazione[2].
AristoteleModifica In Aristotele, in senso generico, l'affezione è ciò che si
contrappone all' ἔργον (ergon), (azione)[3]: il πάϑος (pathos), il
"patire", una delle dieci categorie che si possono predicare
dell'essere. I sensi producono affezioni con i dati sensibili, che provengono
dagli oggetti esterni, sull'anima, che come una tabula rasane viene impressa,
dando luogo così all'inizio del processo conoscitivo. L'affezione
può anche riguardare un cambiamento di stato, cioè «una modificazione o
carattere sopravvenienti a una sostanza, come l'essere musico o l'essere bianco
per l'uomo»[4] In senso più ampio, sempre in Aristotele, poiché dagli
oggetti esterni provengono quegli elementi che provocano nell'anima modifiche
non solo sensibili ma anche sentimentali come il piacere, il dolore, il
desiderio...ecc., le affezioni coincidono con le "passioni" della
sfera etica[5] Quest'ultimo significato si ritrova anche in Cicerone[6], che
adotta affectionescome sinonimo di perturbatio animi o concitatio animi. Anche
Agostino d'Ippona usa i termini perturbationes, affectus, affectiones come
sinonimi di passiones[7]. La funzione delle affezioni. Nella storia del
pensiero la funzione delle affezioni viene considerata in tre diversi
modi: con Platone e il platonismo, poiché il comportamento buono si basa
sulla conoscenza del vero, le affezioni sono dannose perché influiscono
negativamente sia sulla conoscenza che sul comportamento morale. Su questa
stessa linea di giudizio sono Cartesio[8], Spinoza, Leibniz, e soprattutto
Hegel, che fanno rientrare le affezioni — sia per la conoscenza che per la
moralità — nell'ambito della false o confuse idee.[9] Nella filosofia
aristotelica e in quella epicurea le affezioni sono valide nell'ambito
conoscitivo, poiché i dati sensibili ricevuti passivamente dal soggetto sono
sempre veri, mentre falsi sono i nostri giudizi anticipatori (prolessi) delle
sensazioni vere e proprie. Le affezioni sono valutate positivamente anche dal
punto di vista morale, poiché non esiste uomo senza passioni, quindi il
problema non è quello di eliminarle ma di moderarle (μετριοπάϑεια). Con lo
stoicismo le affezioni sono ineliminabili dal punto di vista del processo
conoscitivo, mentre vanno messe da parte nei comportamenti morali, che non
devono essere compromessi dalle passioni. Il saggio è colui che raggiunge
l'apatia, l'indifferenza alle passioni. Kant Secondo Kant, per le nostre
intuizioni è indispensabile che il nostro animo sia "afflitto"
(affiziert, "affettato") dalle affezioni.[10] Quella della ragione
sarebbe una falsa conoscenza senza le affezioni sensibili. Se invece noi
intendiamo le affezioni come passioni allora il loro ruolo è puramente
negativo: esse sono, non diversamente da quanto aveva inteso Cartesio, «cancri
della ragion pura pratica, per lo più inguaribili»[12]. Il concetto di
affezione tuttavia fa nascere nella dottrina kantiana un problema relativo alla
dicotomia fra fenomeno e cosa in sé. Se l'affezione è tale nel senso per cui i
sensi del soggetto vengono modificati dall'oggetto, poiché spazio e tempo sono
parte della nostra intuizione sensibile come "a priori", indipendenti
dall'esperienza, e il noumeno è per definizione inaccessibile ai sensi, dove
mai l'affezione fisicamente modificherà la nostra sensibilità? Kant per uscire
dalla difficoltà parla allora di affezione come il risultato di un rapporto
causale, intellettivo e non intuitivo sensibile, tra l'oggetto e il soggetto
percipiente. Le categorie senza intuizione sono vuote, ma l'intuizione empirica
senza le categorie non porta ad alcuna conoscenza. NoteModifica ^
Dizionario Treccani di filosofia (2009) alla voce corrispondente; Enciclopedia
Garzanti di Filosofia alla voce corrispondente Aristotele, De Anima, Γ 2, 426a
2 ^ Aristotele, Metaphisica, Δ 7, 1049a 29,30 (in Sapere.it alla voce
"Affezione") ^ Aristotele, Rhetorica, Β 8, 1385b 34 ^ M.T. Cicerone,
Tusculanae IV, 6, 11-14 ^ Agostino, De civitate Dei, IX, 4 ^ La passioni sono
una "malattia" della razionalità. Sono utili per la vita come
l'istinto di sopravvivenza ma impediscono la serenità dell'uomo razionale. (In
Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Giunti Editore, 2003, p.318 ^
Dizionario Treccani di filosofia alla voce corrispondente ^ I. Kant, Critica
della ragion pura, Estetica trascendentale (B 33) ^ Cfr. I. Kant, id.,
Dialettica trascendentale ^ I. Kant, Antropologia pragmatica, (§ 81) ^ I. Kant,
Critica della Ragion pura, Analitica trascendentale, 24 Voci correlateModifica
Modo (filosofia) «affezione»
Portale Filosofia. Intelletto facoltà della mente di intendere e
concepire Critica della ragion pura libro del 1781 di Immanuel Kant
Pensiero di Kant Wikipedia Il contenutoSimone Corleo. Keywords:
filosofia morale, filosofia dell’identita, filosofia universale, meditazione
filosofica, logica, antropologia, sofologia, noologia, noetica-estetica -- linguaggio
ordinario, principio dell’identita, Aristotele, la sostanza, l’universale
ontologico, la categoria come universale ontologico, segno, signare
communicativamente, segnabile, sensibile – nihil est in intellectu quod prius
non fuerit in sensu -- segnato, emettente, repertorio di segni, repertorio di
forme, composizionalita, communicazione primitive, pre-arbitrio pre-convenzione,
pre-consenso mutuo, spontaneita, naturalita, associazione, iconicita, bah-bah,
peccora, conversazione adulto-bambino, il vocativo “o” emesso sense intent communicative
– signa naturalmente che e necessaria l’attenzione spontanea, scenario ii.
Romolo e Remo, Eurialo e Niso. Le parti dell’orazione, il verbo e le categorie
agruppatta in quattro funzione: quantita, qualita, relazione, modalita. Il nome
sostantivo, il nome addgietivo, il avverbo, le particelle, la congiunzione, il
vocative “o” – la forma del giudizio e la proposizione semplice “S e P” –
modelo filosofico dello svilupo del signare communicativamente – dello
spontaneo (arbitrio duale tacito) al arbitrio duale, l’idea di un gesto come
SEGNO di una affezione dell’animo – DUALISMO? Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Corleo” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cornelio: l’implicatura
conversazionale di Giove, Ganimede, e Prometeo – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Rovito).
Filosofo italiano. Grice: “I love Cornelio – he has a gift for titling his
treatises: gyymnasma!” “My favourite of his gymnasmata is the one on what he
calls the ‘generation’ of ‘man’ – in Roman, ‘homo’ is said to come from mud,
humus – and this is strange because Prometeo created man out of mud – In Rome,
the more Catholic your philosophy is, the more ‘Aquinate’, as it were, the less
Hegelian and Platonic – so trust an Italian philosopher to believe in the
Graeco-Roman myth of the ‘generation of man’ than the story of Adam’s spare
rib, etc.!” Si forma alla scuola cosentina sulle teorie anti-aristoteliche diTelesio,
molto studiato nei salotti. Studia a Roma, approfondendo e facendo proprie
molte tesi galileiane. Conobbe il naturalismo telesiano e campanelliano, di cui
fu erede il suo tutore Severino. Insegna a Napoli, portando la filosofia di Cartesio
e di Gassendi. Nel “Pro-gymnasmata physica” sono esposte la sua teoria
filosofiche. Altre opere: “Pro-gymnasmata physica”; “Epistola ad illustriss.
marchionem Marcellum Crescentium”; “De cognatione aëris et aquae”; “Epistola Ad
Marcum Aurelium Severinum”. Dizionario biografico degli italiani. Quæ in hoc volumine continentur animalium conformatio ex
inspectione er ex aque, ac terre expira ouorum percipi facile patest tionibus ætheri permiftis con animalium ex
semine conformatio de stituitur scribitur aer ob vsum respirationis recentari
de animalium pars primigenia non iecur neque cor, neque fanguis ter præter
modum diſtraktus aut com animantes exſectis teftibus quandoque preffus vite
animalium & ignis con filios generant. fernationi inutilis antiquorum varix
de.rerum initijs opi aer nisi vaporibus aqueis permiſtus re niones spiritioni
inutilis apoplecticorum & ftrangulatorum aer infra aquam demerſus à
fuperftan mitis est exitus tis aqua pondere comprimitur Aqua frigore concreta
rarefcit, & in ma. Aeris in reſpiratione quis vſus. iorem molem ampliatur. aeris
per neceſitas tum ad vitam ani aqua quomodo in vapores foluatur malium tum ad
ignem conferuan in glaciem concreſcat dum Aqua fenfu iudice neque
contrahi,neque Aeris grauitas diftrahi potest Aeris color caeruleus onde aqua
triformis Arris, Aquarum pondus fub eifdem Aquis ineſſe non poteſtnotabilis
quanti demerſi curnon ſentiamus. tas aeris Akris compreffio,ea diſtractio nifi
æthere Archimedes ingenj doctrinæque prin admiſſo nequit explicari ceps Aeris
ex aqua generatio Ariſtoteles animaduertit in generatione Aztheris ſubſtantia
omnino admitten diuiparorum fieri.conceptus ouifor da Alibilis fuccusad cor
confluit Aristoteles ab attico platonico philo animalia amphibia cur sub aquis
distid fopho notatus si le ſine spiritu viuant Aristoteles cur priuationem
inter prin Animalia pulmonibus prædita cur niſi cipia numerauerit reſpiraverint
citiffimemoriuntur Aristotelis de loco fententia improba animalia, quæ
interclufo fpiritu fiiffa cantur dexterum cordis ventriculum, Ariſtotelis
principia diffentanea. pulmones babent multo fanguine Ariftotelis quàm galena doctrina
de ge refertos. neratione animalium fanior ar mes tur arteriæin vteros
prezrintinm perti mentuan mentes frequentiores, ampliores Calor omnis animalium
eflà Janguine fiunt Aiteris non moventur à ri pulſifica eiſ- calor nonnunquam
diſſimilis nature cor dem à corde communicata, fid ab im pore congregat pulfu
fanguinis Calore corpora non femperrarefiunt, Arteriæ omnes eoderntemporis
puncto Calore cur omnia diffoluantur, atque li. ab impulſu fanguinis mouentur,
tam queſcant que cordis proximefunt, quam quæ à Caloris naturaex Platone
explicatur corde longiſſimèabfunt. Cauernæ in quibushomines fuffocantur, arteriarum
venarumqueplexus, atque ignisextinguithi' implicatio ibi eße folet vbi fit
aliqua Chyli in ſanguinem mutatio quomodo ſecretio fiat. Aſtrologia
conieéturalis vanitas Cloylus ad inteſtina de aplies duobus li
quoribuspermiſcetur attractioni vulgo tributi motus re vera chylum ounem per
lacteas venas trana. pendent à circumpulſione refulſo prodideruntiuniorcs Auftifichs
ſuccusper membranas, a Chymix cognitio ad Thyſiologiam illis neruos in partes
diffunditur ſirandam perutilis Auftificus fuccus ab Arabibus obfer- chymici
magnam cladem galenicæ fa Uatus,fedperperam iudicatus. &tioni attulere cibaria
non eo quo ingeruntur ordine Ilis à fanguine in iecinore fecerni B permanentin
ventriculo tur cibi pars e ventriculo fiatim elabitur Bilis nõ eſt
fanguinisexcrementun antequam integra maſa confefta fue Bilis nutritiumfuccum
diluit, & fluxum reddit ciborum concoétionem auctores diuerſa Bilis
vtilitas rationeexplicant Brahaus illuftris Aftronomus à predi- cibus in
ventriculo quomodo conficia Etionibus aftrologicis abstinuit Bruni de mundanorum innumerabilitate cibus non
à folo calore conficitur sententia refellitur cibus in ventriculo fermentarur
Brunus voluminibus ſuis nugas inferuit. Cibus in ventriculo coctus non femper
albicat Cibus non detinetur in ventriculo donec Alidorum halituum magna vis in
totusfuerit confectus exterendis duris corporibus Cola piſcis cur amphibiorum
more diu Calor cæleftis est eiufdem nature, atque tule fub aquis viuere
potuerit elemenearis Conceptus omnes viviparorum ouifor culor innatus
eftmedicorum inane com mes ſunt Con rit. tur. с Copernicus ab Italis mundani
systematis FFelleus, Gʻaqueus humor cuit Condensatio, et rarefaétiofine
tenuiſſima quod ob defluxum bydrargyri inane ætheris fubftantia explicari non
po videtur teft F Elle nullum animal caret. notitiam arripuit quibus Copernicus
maximus astronomus prædi. chylus diluitur,iterato fæpius circuitu &tiones
aſtrologicas improbauit ad inteftina reuoluuntur cor motum non habet à cerebro,
fed inſe Fermentatio quid ſit ex Platone, ip, o cietur, cpalpitat Fermenti vis
à calore excitatur. ibid. Cordis motus fit ab balitibusin eiuſdem Firmicus
reprehenditur lofibras influentibus flamma cur fine pastu permanere ne Cordis
motus nõ excitatur àferuorefan queat guinis, vt Ariftoteli, Carteſio pla-
Flamma cur faſtigietur in conum, ibid. Fæmina ſubminiſtrat materiam omnem
Corpora je inuicem propellere poffunt, ex qua fætuscorporatur non autem
attrahere Fæminæ genitura non carent D Feminarumgenitura an aliquid conferat
Ifferentis inter conceptus ouip.rros, adgenerationem Fætus vita non pendet à
vita matris Dɔny Volumen de natura hominis fætus cum propria tum parentis vi ab
utero excluditur E Frigore nonnunquam diſſimilis nature Lectrum
quomodofeſtucasattrahat. corpora ſegregantur experimenta ludicra quatuor primum
Alenus ab Ariſtotele maximis de orbiculorum in aqua alternatim a rebus
diſſentit frendentium, defcendentium Galenus Platonis fententiam de circum secundum
orbiculorum in tubo dque pulſione non eſt affecutus pleno fuerfum deorſumque
recurrena Galeni experimentum de fistula in arte. - tium ad nutum eius, qui
tubi oftium riam immiſa oſtendit arterias ab im digito obturat pulſie fanguinis
moueri tertium orbiculorum in tubo retorto Galeni Secta cæpit deficere
aſcendentium defcendentium pro Galenice fattioni magna clades d chy paria tubi
inclinatione micis eſt illata quartum orbiculorum ex imo furfum galenice
medicine summa aſcendentium propter diſtractionein Galilæus de atomis, inani
aliter vidé aeris in eiſdem conclufi tur decernere, ac Democritus & Epi
Experimentum quo Verulamius probat curus aquam comprimipole eſt fallax Galileus
omnium primus physiologiam experimentum Torricelli de spario, com Geometria
iugauie Ga Gevens ifotelemaximisde Galilcus aſtronomicarum rerum peritif
Hippocratimulta tribuuntur, quecom. fimus improbauit aſtrologicas prædi mentitia
funt ctiones" Hobbes fententia de ſubſtantia inter al GALILEI (si veda) Carteſi
aliorumque iuniorum rem & aquam media. doctrina phyſicapræftantior quam homo
à teneris annisita potefl educari, antiquorum vt amphibiorum more ſub aquisdiu
Genituraquid,vnde prodeato tius viuat Genitura non fit in teftibus Homo incerto
gignitur fpatio Genitura in procreatione animalium ef- Hominis genitura non est
eiufdem ratio ficientis tantum caufa vim habet. nis cum femine ſtirpium Genitura
non eſt pars, feu materia con Hornunculorum generatio à Paracelſo fituendi
conceptus: propoſita commentitia eft Genituræ craffamentum oua, & conte
Humanusfætus recens formatusmaiu ptus minimè ingreditur Sculæ formica
magnitudinem vix fum Geniturepars, quæ efficiendi vim habet, perat oculorum
fugit aciem Geniture vis per occultum agit corpora quantumuis denfa penetrat Sanguinefecernere.
Ecinorisprecipuum munusest bilen Geometrie Paradoxa nonſemper plyſInanenihil
eft. cis diſquiſitionibus aptantur so Ingenia ad philofophandum idonea que
Glandulg cur maiores & frequentiores nam fint. in tenellis, &
pinguibusanimalibus, Initia rerum naturalium abftrufa. quam in ſenioribus,
&macilentis, in omni motu fit reciproca corporum dla translatio Glandule fecernunt auctificum
ſuccum Iuniores multa fulicius inuenere quam à reliquo fanguine Priſci. 4
Glandularum vtilitas. ibid. K Græci curdoctrine ſudijs cæteris natio
nibuspræcelluerint probauit aftrologicas predi&tio Grauiora corpora etiam à
leuioribus ju. perftantibus premuntur L Grauitas quid L Ac quibus vis feratur'
ad mam H mas Hanimalium accuratiſſima. Aruei obſeruationes degeneratione lacervberibus
virorum, &virginum frequenti fuetu prolicitur Harueius in obferuando
diligētior, qaam Lace papillisrecens natorum extillans.. in iudicando Hippocratis
de calore Paradoxum. lac in ventriculo pueri coagulatur Hippocratesanimaduertitfetum
in man ' Latte columbs-nutriunt pullos ſuosprin tris vtero alimentum exfugere
mis diebus Laa nes Luuleirum venarum nonnulla cum me. Saraicis coniunguntur medicina
praua quadam conſuetudina Lamine complanatæ mutuo contactu co. hominibus
infimæfortis tractanda re hærentes cur niſi magno conatu diuelli linquitur
nequeant Medicina rationalis ſuper falſis hypothe. Lansbergius' excellens
Aftronomus à fibus hactenus fuit ſuperstructa predi& tionibus aſtrologicis
abſtinuit. Medicina Græcorum continet inanes conie turas & fallaces
præceptiones, Lien per flexuojam arteriam craffioren fanguinem excipit Medicina
inconftantia, Seftarum va Lien craffiorē & impuriorem ſuccum ex rietas. cibireliquisſecretum
ſuſcipit Medicinam pauciffimi Romanorum fa Lienis vtilitas, Arụctura Etitarunt Lumennon
eft in rebus, fed fit in ipfo Membranarum
vtilitas, dentis oculo Motus ad fugam vacui vulgo relati pen Luminis
naturaexplicatur dent à circumpulſionefuperftantis ae. ris maseratica vis
diſimilis elektrick: Mund for printeriplexdifferentia mini. Men Maßarias
iuniorum gloriæ infenſus Mundi magnitudo
incomprehenſa. ibid. Materia exqua fætus corporatur eſt al N bugineus lentor
ſinailis ouorum albus Aturæ ratio ex ipſa potiusrerum Mathematicæ diſciplinæ
fummam inge paranda stü aciem defiderant Naturalis historie cognitio ad
Phyſiolo Mathematicarum disciplinarum notabile giam malde necellaria incrementum
O Medici latina verba importunèeffutiunt, Bferuatio noua deforaminibus in vt
imperitorum plaaſum aucupen. interiorem pentriculi tunicam.: tur biantibus.
Medici periculofus, &ancipites morbo- obſeruatio noua de pensatorum ventri.
rum curationes inftituunt, culis. Medici perperam diuidunt partes in ſper.
Obferuatio noua lenti humoris in ventri maticas,atque fanguineas', culo
exiſtentis Medici rationales quam profitentur', Obſeruatio viarum, que nouum
alimentū. ſcientiam omnino ignorant ex ventricnli fundo excipient Medicis
familiare eft mutuainter fe ia. Oetimestris partus non minus pitalis Etare
conuicia quam ſeptimeſtris Medicorum improbitas Ouiformis conceptus in
viviparis habet Medicorum inſcitia reprehenditur, vcram ſeminis rationem Ouum
gr Pusega Perguedus nouisobfervationibusfretus R Frisvarijoeleis queriamlitar $
Strguis I i Ouum fæcundum b.abet rationem femi- Ptolemai Copernici, &Brahei
mundan nis in ouiparis Systematis pofitiones manca im perfecte Ancreatis ductus
vtilitas Pueri cur facilius mathematici effe pof fant,quàm phyſici,aut
politici. Paracelſus d plerifque propter obſcurita- Pulli ex quo generatio defcribitur
tem deſertus R opinion Erum natura vix alibi quàm in li Pecquetus
obferuationibus quæriſolita bematofin tribuit cordi, non iecinori. Refpiratione
cordis æſlum temperari fal sò creditum est Pestilentix confideratio philosophandi
ratio inſtituta à noftri fæ Anguis non eſt ſuceus ſimplex, nec culi auctoribus
laudatur. tamen continet quatuor decantatos Philoſophia noftris temporibus in
liber humores tatem vindicata eft Sanguis in omne corpus per arterias dif
Philosophia Cartesii quails funditur Ploilofophiæ ftudium à pleriſque peruer-
Sanguis per arterias in membra influen's titur vitalitatem magis, quam nutrimen
Philoſoplrorum in definiendis rerum ini. tum infert tijs conſenſus sanguis non
calore, motuue liquefcit, fed Phyſiologia parum hactenus adoleuit permiftione tenaifimihalitus
pbyſiologia plurimarum rerum cognitio nem, & experientiam requirit Sanguis
non fuapte natura caliduseſt, Phyſiologia onde ordienda nec calorem accipit à
corde, fed motu, Phyſiologia poteft ex falfis hypotheſibus atque agitatione
incalefcit veras naturalium rerumaffectiones Sanguis non in iecinore, nec in
corde, vel concludere alio certo viſcere conficitur Phyſiologie obſcuritas onde
proficifca. Sanguinis duapartes altera viuifica tera auctifica Phyſiologiæ
perfetta cognitio cur defpe- Sanguinis natura admirabilis Eius randa potior
pars aciem fugit Phyſiologiam noftre etatis fcriptores Sanguinis motusà corde a
præclaris inuentis illuſtrarunt Sanguinis circulationem ab Harueio de
Phyſiologiam nemo Geometriæ ignarus fcriptam indicauerant,ante Pizulus Mis
aſequitur Sarpa, &Anstress Cefalpinus. Planetarum corpora ad ætheris
liquidif- Sanguinem fal coire, &denfere noir par ſui motum
circumferripoflunt titur Plato materiam voluit eſſe locum Sapientia illa quam
in ætatibus habet ſe weêtus nostræ potius cetati, quins pria e feq. tør. ſeis
fcis temporibus debetur Vacuipropugnatores corporis naturam à Semen animalium
quidnam fit cx Aris tałtu determinant Stotele P'ene lactea non deferuntomnem
fuc Senfus non ea omnia percipit, qua in na. cum alibilem jura exiſtunt Venis
la &teis animantesquædam carere Senſu quæcumquepercipiuntur falsò ta
videntur lia iudicantur qualia videntur. ibid. Venarum lymphaticarum
progreffus, ego Soli nibilſimiliusquamflamma vſus leg. Solem igneum esſe tactus
& oculorum Vene meſaraica fuccum nutritium ex teftimonio probat Cleanthes inteſtinis
ad iecur Stelliole Encyclopedia Vens meſaraicæ non ſunt deſtinate nú Stelliola
nouitate verborum abſtruſe do. tricationi inteftinorum & alui Etrina
caliginem offudit Vene vmbilicales maiores ampliorefque Stirpium ex ſemine
propagatio compre funt coniugibusarterijs. 88 hendi facile poteſi Ventriculi,&
inteftinorum motus Stoicis materia
corpuseffe videtur Vermes in iecinorè, liene,corde,pulmoni Sympathia Antipathiæ
& Antiperiſia bus & cerebro animaliū fis inania commenta Verulamius
opes ætatemque inter expe rimenta conſumpſit Elefius putauit poße ſpatiumma Vix
quibus humores d corpore per aluum gna vi conatuque pacuum fieri. expurgantur
Vita hominis in continuata fanguinis Telefiusveteresphilofophos, é precipuè.
motione conſiſtit Ariſtotelem exercuit Vitalis halitus in ſanguine existensquo
Testes priuerfo corpori robur conferunt. modo percipiatur Vitri denſitatem
penetrat hydrargyrus Theologi Hegyptü Deos omnes ex ouo prognatos
eſetradiderunt Vniuerſum vnum indiuiduum, atque im Tyndaridæ ex ouo editi mobile
Torricelli Paradoxum geometricum Vrina per quas vias in renes, &veficam
profunditur. Acuum experimento Torricelli Vvirjungiani ductus vtilitas Vacuum
neque mouere corpora poteſt ne Enonis de natura geniture fenten que ne
moueantur inbibere Ztia. Wikipedia Ricerca Ganimede (mitologia)
personaggio della mitologia greca, figlio di Troo, coppiere degli dei Lingua
Segui Modifica Ganimede Ganymede eagle Chiaramonti Inv1376.jpg Ganimede e l’aquila,
Nome orig.Γανυμήδης Sessomaschio Luogo di nascitaDardania Professionedio
dell'amore omosessuale e principe dei Troiani Ganimede (in greco antico:
Γανυμήδης, Ganymḕdēs) è un personaggio della mitologia greca. Fu un principe
dei Troiani. Omero lo descrive come il più bello di tutti i mortali del suo
tempo. «La vicenda mitologica di Ganimede servì da emblema significante
per la natura dell'amore tra uomini, un amore filosoficamente più elevato
rispetto a quello rivolto alle donne: la vicenda dell'aquila divina si assicurò
così un posto d'onore tra i riferimenti artistici al desiderio
omoerotico[1].» In una versione del mito viene rapito da Zeus in forma di
aquila divina per poter servire come coppiere sull'Olimpo: la storia che lo
riguarda è stata un modello per il costume sociale della pederastia greca,
visto il rapporto, di natura anche erotica, istituzionalmente accettato tra un
uomo adulto e un ragazzo. La forma latina del nome era Catamitus, da cui deriva
il termine catamite, indicante un giovane che assume il ruolo di partner
sessuale passivo-ricettivo. Genealogia Figlio di Troo e di Calliroe (o di
Acallaride). Le varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio
Cicerone scrive che sia figlio di Laomedonte[7], Tzetzes che sia figlio di
Ilo[8], per Clemente Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo
padre fu Erittonio[10] oppure Assarco. Non risulta aver avuto spose o
progenie. Mitologia Bassorilievo di epoca romana raffigurante l'aquila, GANIMEDE
che indossa il suo berretto frigio e una terza figura, forse il padre in lutto
Il tema mitico fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si
invaghirono sia il re di CretaMinosse sia Tantalo ed Eos, come infine il re
degli dei Zeus, così come si racconta nelle varie versioni della stessa
leggenda. Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli
Dei, affascinato dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire
nei pressi di Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di
cavalli divini e un tralcio di vite d'oro[12]: il padre si consolò pensando che
suo figlio era ormai divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il
coppiere degli Dei, una posizione che era considerata di gran
distinzione. Zeus per sottrarre Ganimede alla vita terrena si sarebbe
camuffato da enorme aquila; sotto tale aspetto si avventò sul giovanetto mentre
questi stava pascolando il suo gregge sulle pendici del monte Ida, nelle
vicinanze della città iliaca, se lo portò quindi sull'Olimpo dove ne fece il
suo amato. Per questo motivo nelle opere d'arte antiche Ganimede è spesso
raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato a essa, o in volo su di essa, e,
in varie opere d'arte, è quindi raffigurato con la coppa in mano. Walter
Burkert ha trovato un precedente riguardante il mito di Ganimede in un sigillo
in lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana di Kish volare verso il cielo a
cavalcioni proprio di un'aquila[13]. Da alcuni viene anche associato con la
genesi della sacra bevanda inebriante dell'idromele, la cui origine
tradizionale è proprio la terra di Frigia. Tutti gli dei erano riempiti di
gioia nel vedere il bel giovane in mezzo a loro, con l'eccezione di Era; la
consorte di Zeus considerava difatti Ganimede come un rivale più che mai
pericoloso nell'affetto del marito. Il padre degli Dei ha successivamente messo
Ganimede nel cielo come costellazione dell'Acquariola quale è strettamente
associata con quella dell'Aquila e da cui deriva il segno zodiacale dell'Acquario.
Busto di Ganimede, opera romana d'epoca imperiale (sec. II d.C.) (Parigi,
Museo del Louvre) Mito iniziaticoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Pederastia § Origini iniziatiche. La coppia Zeus-Ganimede
costituisce il modello mitico del rapporto omoerotico tra maschio adulto e
giovinetto, relazione colorantesi spesso di un significato iniziatico (vedi la
pederastia cretese) in quanto finalizzata - anche attraverso il legame sessuale
- all'inserimento del giovane nella comunità dei maschi adulti. Questi amori
"paidici" di un adulto amante-erastès che rapiva simbolicamente un
giovinetto passivo-eromenos potevano venir praticati attraverso schemi rituali
imitanti i veri e propri rapporti matrimoniali e dove, in un luogo appartato,
avveniva la sua iniziazione sessuale.[15] Zeus e Ganimede, rappresentando
la perfetta coppia di amanti maschili, sono stati come tali cantati dai poeti.
Il cosiddetto "tema di Ganimede" era adottato durante il simposio a
modello dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei fu incapace di
resistere alle grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo un mortale e
poter rimanerne immune? Certamente nella mitologia greca si riscontra la grande
voglia di Zeus nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo a volte si considera
il padre degli dei strettamente d'accordo all'eterosessualità. [16]
FilosofiaModifica Platone rappresenta l'aspetto pederastico del mito
attribuendo la sua origine a Creta e ponendo, quindi, il rapimento sull'omonimo
monte Ida dell'isola: la sua è una critica dell'usanza della pederastia cretese
che aveva oramai perduto quasi completamente la sua funzione originaria,
accusando quindi i Cretesi di essersi inventati il mito di Zeus e Ganimede per
giustificare i loro comportamenti[17]. Nel dialogo platonico poi Socrate
nega che il bel giovane possa mai esser stato l'amante carnale del padre degli
Dei, proponendone, invece, un'interpretazione del tutto spirituale: Zeus
avrebbe amato l'anima e la mente o psiche del ragazzo, non certo il suo
corpo[18][19]. Il neoplatonismo ci offre una rappresentazione mistica del
rapimento di Ganimede; esso sta a significare il rapimento dell'anima a Dio, e
in questo senso è stato usato, anche in opere d'arte funerarie e anche durante
il Neoclassicismo, sia nell'arte figurativa sia in letteratura. Si veda, per un
esempio, il Ganymed di Johann Wolfgang von Goethe del 1774. Damiano
Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede, sec. XVI (National Gallery, Londra)
PoesiaModifica In poesia Ganimede divenne un simbolo dell'attrazione e del
desiderio omosessuale rivolto verso la bellezza giovanile dell'adolescenza. La
leggenda fu menzionata per la prima volta da Teognide, poeta del VI secolo
a.C., anche se la tradizione potrebbe essere più antica; di essa parla anche il
poeta latino Publio Ovidio Nasone nella sua opera Le metamorfosi[20], poi
Publio Virgilio Marone nell'Eneide all'interno del proemio, Apuleio[21] e
infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato Dionysiaca
narrante la vita e le gesta del dio Dioniso. Virgilio ritrae con pathos
la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di
trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente
contro il cielo[22]. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati
disperati anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un
motivo frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche
Stazio[23]. Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le
Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo
contro Eros per averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite
si trova così costretta a rimproverare il figlio di barare come un
principiante. Nell'opera Come vi pare di William Shakespeare il
personaggio di Rosalind si traveste da uomo quando deve andare nella foresta di
Arden, scegliendo il nome di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio
del rapporto che si era creato tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava
ben oltre la semplice amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in
questo caso omosessuale. Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di
epoca paleocristiana AstronomiaModifica Per il rapporto esistente fra Giove e
Ganimede, il maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più
grande del sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione
latina di Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon
Marius[24]. Gli è inoltre stato dedicato l'asteroide scoperto nel 1925, 1036
Ganymed. Nelle artiModifica Nella scultura una delle immagini più famose
di Ganimede è il gruppo scultoreo di Leocare del IV secolo a.C. (lo stesso a
cui viene attribuito anche l'Apollo del Belvedere) e tanto ammirato da Plinio
il Vecchio: «Leocare [ha realizzato] un'aquila che trattiene con forza
Ganimede; innalza il fanciullo piantandogli gli artigli nella sua veste.»
Questo particolare del rapimento tramite l'aquila è stato spesso elogiato anche
in seguito. Stratone di Sardi lo evoca in uno dei suoi epigrammi, così come fa
anche Marco Valerio Marziale. La leggenda di Ganimede ha ispirato anche
un gruppo in terracotta, probabilmente originario di Corinto e oggi conservato
nel Museo Archeologico di Olimpia: questo è uno dei pochi esempi di grande
scultura in terracotta, e una rappresentazione scultorea molto rara della
coppia in cui Zeus si mantiene in forma umana. Nella ceramica il tema di
Ganimede si ripete spesso, di solito raffigurato nei crateri, quei particolari
grandi vasi entro cui venivano mescolati acqua e vino durante i banchetti (o
simposi) che si svolgevano solo tra uomini, in cui gli ospiti gareggiavano in
immaginazione poetica e filosofica per celebrare i meriti dei loro rispettivi
eromenos. Tra i più famosi è incluso il craterea figure rosse che ritrae da un
lato Zeus in pieno esercizio, dall'altro Ganimede mentre sta giocando con un
grande cerchio, il simbolo della sua giovinezza: il ragazzo è completamente
nudo, così come vuole la tradizione antica sportiva di origine in parte
pederastica (vedi nudità atletica). Il ratto di Ganimede (circa
1650), di Eustache Le Sueur Il Rinascimento ha visto riapparire innumerevoli
rappresentazioni di questo mito, con artisti quali Michelangelo Buonarroti,
Benvenuto Cellini e Antonio Allegri tra tutti. In questo periodo è anche uno
dei temi con più forte significato omoerotico, divenendo una sorta di icona gay
ante litteram almeno fino al XIX secolo inoltrato. Quando il
pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante il
rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma(1509-1514
circa), i lunghi capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato
contribuiscono a farlo rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti
catturare verso l'alto senza opporre la minima resistenza. Nel Ratto di
Ganimede di Antonio Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è
più contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter
Paul Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo
Ratto di Ganimede per un mecenate calvinista olandese nel 1635, ecco che
un'aquila scura porta in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e
si fa la pipì addosso per lo spavento. Ratto di Ganimede (1700), di
Anton Domenico Gabbiani Gli esempi di Ganimede nel XVIII secolo in Francia sono
stati studiati da Michael Preston Worley[25]. L'immagine raffigurata era
invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato da un'aquila,
mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati raramente
affrontati: in realtà, la storia è stata spesso "eterosessualizzata".
Inoltre, l'interpretazione del mito data dal Neoplatonismo, così comune nel
Rinascimento italiano, in cui lo stupro di Ganimede ha rappresentato la salita
alla condizione di perfezione spirituale, sembrava non essere di alcun
interesse per i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo. Jean-Baptiste
Marie Pierre, Charles-Joseph Natoire, Guillaume II Coustou, Pierre Julien,
Jean-Baptiste Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire le immagini di
Ganimede nell'arte francese tra fine XVIII e inizio XIX secolo. La
scultura che ritrae Ganimede e l'aquila di José Álvarez Cubero, eseguita a
Parigi nel 1804, ha portato all'immediato riconoscimento dell'artista spagnolo
come uno degli scultori più importanti del suo tempo[26]. L'artista
danese Bertel Thorvaldsen, di gran lunga il più notevole degli scultori danesi,
ha scolpito nel 1817 una scultura dedicata alla scena di Ganimede e l'aquila.
Particolare di una scultura della seconda metà del II secolo d.C., da un
modello tardo ellenistico a sua volta derivato dall'ambito figurativo greco del
IV secolo a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli.
AltroModifica Nel linguaggio corrente il nome di Ganimede è passato a indicare
un bellimbusto, un damerino o anche un giovane amante omosessuale.
Pittore di Berlino, Ganimede gioca con il cerchio, tenendo in mano un
gallo, dono di corteggiamento di Zeus. Cratere attico a figure rosse, ca.
500-490 a.C. (Parigi, museo del Louvre). Ganimede e Zeus, e Apollo
e Ciparisso, illustrazione di due miti a carattere omosessuale per le
Metamorfosi di Ovidio (Venezia, 1522) Illustrazione gli Emblemata
di Andrea Alciati del 1534. Ganimede rappresenta allegoricamente l'anima che si
"rallegra" in Dio. Raffaello da Montelupo (1505-1566),
Giove bacia Ganimede (Ashmolean Museum,
Oxford) Cherubino Alberti, Copia rovesciata da originale di
Polidoro da Caravaggio, Giove bacia Ganimede (sec. XVII). La borsa di denaro in
mano al giovane allude alla prostituzione, in spregio al mito pagano.
Il Ganimede di Antonio Canova "Ganimede" (1804), di José
Álvarez Cubero Ganimede abbevera l'Aquila divina (1817), di Bertel
Thorvaldsen Albero genealogicoModifica AtlantePleioneScamandroIdea Elettra ZeusTeucro
DardanoBatea Erittonio Ilo Troo Calliroe EuridiceIloAssarcoIeromneneGanimede
Laomedonte Strimo (o "Leukyppe")TemisteCapi
PriamoEcubaAnchiseAfroditeLatino EttoreParideCreusaEneaLavinia AscanioSilvio
Silvius Enea Silvio Bruto di TroiaLatino Silvio Alba Atys Capys Capeto
Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio Aventino Proca NumitoreAmulio MarteRea
Silvia ErsiliaRomolo Remo Età regia di RomaShe-wolf suckles Romulus and
Remus.jpg NoteModifica ^ Paolo Zanotti Il gay, dove si raccnta come è stata
inventata l'identità omosessuale Fazi editore 2005, pag. 25 ^ Secondo l'AMHER
("The American Heritage Dictionary of the English Language", 2000),
catamite, p. 291. ^ a b ( EN ) Apollodoro, Biblioteca III, 12.2, su theoi.com.
URL consultato l'8 giugno 2019. ^ ( EN ) Omero, Iliade XX, 213 e seguenti, su
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Historica IV, 75.3 e 4 e 5, su theoi.com. URL consultato il 10 giugno 2019. ^ (
EN ) Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane I, 62, su penelope.uchicago.edu.
URL consultato l'8 giugno 2019. ^ Marco Tullio Cicerone, Tusculanae
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Igino, Fabulae 227 ^ Iliade, 5.265ff. ^ Burkert, p. 122; Burkert fa purtuttavia
notare che non esiste un nesso diretto con l'iconografia. ^ Veckenstedt. ^
Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi 2009, p. 835. ^ Guidorizzi, Il
mito greco Volume primo - Gli dèi 2009, p. 836. ^ Platone, Leggi, 636D. ^
Platone, Fedro, 255. ^ Platone, Simposio, 8,29-3. ^ Ovidio, Metamorfosi,
10,152. ^ Apuleio, L'asino d'oro, 6,15; 6,24. ^ Publio Virgilio Marone, Eneide,
V 256-7. ^ Stazio, Tebaide, 1.549. ^ Marius/Schlör, Mundus Iovialis, p. 78 f. ^
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Panopoli, Dionisiache. Omero, Iliade. Omerico, Piccola Iliade. Ovidio, Le
metamorfosi. Pausania, Periegesi della Grecia. Pindaro, Olimpiche, 1821.
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Ganymède ou l'échanson. Rapt, ravissement et ivresse poétique, Presses
Universitaires de Paris 10, 2008, ISBN 2-84016-010-2. Giulio Guidorizzi (a cura
di), Il mito greco, 1 (Gli dèi), 2009, ISBN 978-88-04-58347-9, SBN
IT\ICCU\URB\0846664. Particolare di Zeus accanto a Ganimede (1878), di
Christian Griepenkerl Voci correlateModifica Icona gay Mito di Etana
Omoerotismo Pederastia Re latini Re di Troia Temi LGBT nella mitologia Altri
progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Ganimede Collegamenti esterniModifica (EN) The
Androphile Project, The myth of Zeus and Ganymede. (EN) Peter R.
Griffith, Visual arts: Gaymede. "Ganymed" (testo, in tedesco e
italiano). (EN) Circa 200 immagini di Ganimede nel Warburg Institute
Iconographic Database Archiviato il 4 marzo 2016 in Internet Archive. Portale
LGBT Portale Mitologia greca Ultima modifica 5 giorni fa di
Ptolemaios Leda personaggio della mitologia greca, figlia di Testio e moglie di
Tindaro Estia dea greca del focolare, della casa e della famiglia. Figlia
di Crono e Rea Laomedonte re di Troia nella mitologia greca, figlio di
Ilo Wikipedia Il contenutoGrice: “It’s best to represent Cornelio as representing
Cartesio – yes, the Cartesio that Ryle attacked! But Italy never had a Ryle, so
that’s good!” Tommaso Cornelio. Cornelio. Keywords: Giove, Ganimede, e
Prometeo, pro-gymnasmaton, gymnasmaton, gymnasta, gymnasium, ginnasio,
ginnasiale, nudo romano, nudita romana, corpo nudo, snudare, atleta, atletismo,
lotta ginnastica, competizione ginnastica, implicatura ginnastica,
l’implicatura ginnastica di Socrate, Socrate al ginnasio, implicatura
ginnasiale, the eagle, Giove come aquila, aquila come impero romano, aquila
come impero nazi – le due aquile -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cornelio” –
The Swimming-Pool Library. Cornelio.
Grice e Cornello – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo italiano. La sua opera più importante è la
Gerusalemme liberate, in cui vengono cantati gli scontri tra cristiani e
musulmani durante la prima crociata, culminanti nella presa cristiana di
Gerusalemme. Ultimo dei tre figli di Bernardo Tasso, letterato e cortigiano
nato a Venezia, ma di antica nobiltà bergamasca, poi al servizio del principe
di Salerno Ferrante Sanseverino del regno di Napoli, compreso nella
monarchia spagnola, e di Porzia de' Rossi, nobildonna napoletana di origini
toscane, pistoiesi da parte paterna e pisane da parte materna. Di Sorrento e
della «dolce terra natìa» il poeta conserverà sempre un magnifico ricordo,
rimpiangendo «... le piagge di Campagna amene, pompa maggior de la
natura, e i colli che vagheggia il Tirren fertili e molli.» (Gerusalemme
liberata) Quando C. era ancora bambino, il principe di Salerno fu bandito dal
regno e Bernardo seguì il suo protettore. All'età di 6 anni si recò in Sicilia
e dalla fine del 1550 fu con la famiglia a Napoli, dove lo seguì il precettore
privato Giovanni d'Angeluzzo. Frequentò per due anni la scuola dei Gesuiti
appena istituita e conobbe Ettore Thesorieri con il quale poi restò in
corrispondenza epistolare. Ebbe un'educazione cattolica e da giovane
frequentò spesso il monastero benedettino di Cava de' Tirreni (dove si trovava la
tomba di Urbano II, il papa che aveva indetto la prima crociata), e ricevette
il sacramento dell'Eucaristia quando «non avea anco forse i nov'anni», come
scrisse egli stesso. Due anni dopo la sorella Cornelia, che nel frattempo si
era sposata con il nobile sorrentino Marzio Sersale, rischiò di essere rapita
durante un'incursione ottomana a Sorrento, e questo rimase impresso nella sua
memoria. Guidobaldo II Della Rovere. Rimase a Napoli fino ai dieci
anni, poi seguì il padre a Roma, abbandonando con grande dolore la madre che fu
costretta a rimanere nella città partenopea perché i suoi fratelli «rifiutavano
di sborsarle la dote». Nella città pontificia fu Bernardo a educare
privatamente il figlio, ed entrambi subirono un grave trauma quando vennero a
sapere della morte di Porzia, probabilmente avvelenata dai fratelli per
motivi d'interesse. La situazione politica a Roma subì però uno sviluppo
che preoccupò Bernardo: era scoppiato un dissidio tra Filippo II e Paolo IV e
gli spagnoli sembravano sul punto di attaccare l'Urbe. Mandò allora Torquato a
Bergamo presso Palazzo Tasso e la Villa dei Tasso da alcuni parenti e si
rifugiò presso la corte urbinate di Guidobaldo II Della Rovere, dove fu
raggiunto dal figlio pochi mesi dopo. A Urbino C. studiò assieme a Rovere,
figlio di Guidobaldo, e a Monte, poi illustre matematico. In questo periodo
ebbe maestri di assoluto livello quali il poligrafo Girolamo Muzio, il poeta
locale Galli e il matematico Federico Commandino. Torquato passava a Urbino
solo l'estate, dal momento che la corte trascorreva l'inverno a Pesaro, dove
Tasso entrò in contatto con il poeta Bernardo Cappello e con Dionigi Atanagi, e
scrisse il primo componimento a noi noto: un sonetto in lode della
corte. Bernardo si sposta intanto a Venezia, indiscussa capitale
dell'editoria, per occuparsi della pubblicazione del suo Amadigi. Poco tempo
dopo, quindi, anche il figlio cambiò una volta di più città, stabilendosi in
laguna. Sembra che proprio a Venezia, non ancora sedicenne, abbia cominciato a
mettere mano al poema sulla prima crociata e al Rinaldo. Il Libro I del
Gierusalemme (conservato dal Codice vaticano-urbinate 413) fu scritto dietro
consiglio di Giovanni Maria Verdizzotti e Danese Cataneo, due poeti mediocri
che allora frequentava e che già avevano scorto nel Tasso un talento
straordinario. Si iscrisse per volere paterno alla facoltà di legge dello
Studio patavino, raccomandato a Sperone Speroni, la cui casa frequentò più
delle aule universitarie, affascinato dalla vastissima cultura dell'autore
della Canace. Tasso non amava la giurisprudenza, tanto che attendeva più alla
produzione poetica che allo studio del diritto. Così, dopo il primo anno
ottenne dal padre il consenso per frequentare i corsi di filosofia ed eloquenza
con illustri professori tra cui spicca il nome di Carlo Sigonio. Quest'ultimo
rimarrà un modello costante per le dissertazioni teoriche tassesche futureprime
fra tutte quelle dei Discorsi dell'arte poetica, in cui si nota anche
l'influsso dello Speronie lo avvicinò allo studio della Poetica
aristotelica. È in quest'epoca che si colloca il primo innamoramento del
ragazzo, già molto sensibile e sognatore. Il padre era stato introdotto nella
corte del cardinale Luigi d'Este, e nel settembre 1561 si era recato col figlio
a fare la conoscenza dei familiari del suo protettore. Conobbe nell'occasione
Lucrezia Bendidio, dama di Eleonora d'Este, sorella di Luigi. Lucrezia,
quindicenne, era molto bella ed eccelleva nel canto, anche se era piuttosto
frivola. Avendo notato un interessamento della fanciulla, Tasso cominciò a
dedicarle rime petrarcheggianti, ma dovette presto essere ricondotto alla
realtà, poiché nel febbraio 1562 scoprì che la ragazza era promessa sposa al
conte Baldassarre Macchiavelli. Non si arrese, continuando a cantarla in
poesia, ma dopo le nozze si lasciò andare al risentimento e alla
delusione. Intanto, l'entourage cominciava ad avvedersi del talento
del Tassino (come veniva chiamato per essere distinto dal padre), e gli furono
commissionate delle rime per alcuni funerali. Confluendo in due raccolte,
furono le prime poesie pubblicate da Torquato. Ancora più notevoli erano
gli sforzi prodigati per il Rinaldo, composto in soli dieci mesi e dedicato a
Luigi d'Este. Il poema epico cavalleresco, incentrato sulle avventure del
cugino di Orlando, fu stampato a Venezia nel 1562 e contribuì a diffondere il
nome di Tasso, che aveva ancora soltanto diciotto anni. Il padre intanto
lo aveva messo nel 1561 al servizio del nobile Annibale Di Capua, e il duca
d'Urbino gli aveva procurato una borsa di studio di cinquanta scudi annui per
permettergli di continuare i corsi universitari. Dopo due anni a Padova, Tasso
proseguì gli studi all'Bologna, ma durante il secondo anno di permanenza nella
città felsinea, nel gennaio 1564, fu accusato di essere l'autore di un testo
che attaccava pesantemente, con una satira sferzante, alcuni studenti e
professori dello Studio. Espulso e privato della borsa di studio, fu costretto
a ritornare a Padova, dove poté beneficiare dell'ospitalità di Scipione
Gonzaga, che gli fornì il necessario per continuare il percorso di
formazione. Ritrovò tra i maestri Francesco Piccolomini e seguì le
lezioni di Federico Pendasio. In casa del principe Gonzaga era appena stata
istituita l'Accademia degli Eterei, ritrovo di seguaci dello Speroni che
miravano alla perfezione della forma, non senza scadere nell'artificiosità.
Tasso vi entrò assumendo il nome di Pentito e leggendovi molti componimenti,
tra cui quelli scritti per Lucrezia Bendidio e per una donna che la critica ha
per lungo tempo identificato in Laura Peperara. Secondo questa
versione Torquato conobbe Laura nell'estate del 1563, quando aveva raggiunto a
Mantova Bernardo, nel frattempo messosi al servizio del duca Guglielmo Gonzaga.
La delicatezza nei modi della giovane fece dimenticare presto al Nostro le
ancor fresche pene amorose per Lucrezia Bendidio. Lo spirito del Petrarca
rivisse allora nelle liriche del ragazzo nuovamente innamorato. L'anno dopo,
rivedendola, fu però deluso, e pur continuando a cantarla dovette ben presto
rassegnarsi al secondo scacco. Ricerche recenti hanno tuttavia collocato
la nascita della Peperara nel 1563, rendendo quindi impossibile che fosse lei
la seconda musa del Tasso. I due canzonieri amorosi andarono in parte a
finire tra le Rime degli Accademici Eterei, stampate a Padova nel 1567, assieme
ad alcune che scriverà nel primo anno ferrarese. Si legò anche
all'Accademia degli Infiammati. A Ferrara Torquato Tasso all'eta di
22 anni ritratto da Jacopo Bassano. Giunse a Ferrara in occasione del secondo
matrimonio (quello con Barbara d'Austria) del duca Alfonso II d'Este, al
servizio del cardinale Luigi d'Este, fratello del duca, spesato di vitto e
alloggio, mentre dal 1572 sarà al servizio del duca stesso. I primi dieci
anni ferraresi furono il periodo più felice della vita di Tasso, in cui il
poeta visse apprezzato dalle dame e dai gentiluomini per le sue doti poetiche e
per l'eleganza mondana. Il cardinale lasciò al Nostro la possibilità di
attendere solamente all'attività poetica, e Tasso poté così continuare il poema
maggiore. Rapporti particolarmente intensi intercorsero con le due sorelle del
duca, Lucrezia e Leonora. La prima era uno spirito libero e incarnava ideali di
vivacità e vitalità, mentre la seconda, malata e fragile, fuggiva la vita
mondana e conduceva un'esistenza ritirata. Per quanto Tasso fosse attratto da
entrambe e per quanto si sia avallata l'ipotesi di una relazione amorosa con
Leonora, la critica tassesca ha concluso che non si andò al di là di forti
simpatie. La ricchezza culturale della corte estense costituì per lui un
importante stimolo; ebbe infatti modo di conoscere Battista Guarini, Giovan
Battista Pigna e altri intellettuali dell'epoca. In questo periodo riprese il
poema sulla prima crociata, dandogli il nome di Gottifredo. Nel 1566 i canti
erano già sei, e aumenteranno negli anni appresso. Nel 1568 diede alle
stampe le Considerazioni sopra tre canzoni diPigna, dove emerge la concezione
platonica e stilnovistica che il Tasso aveva dell'amore, con alcune note però
affatto peculiari, che lo portavano a ravvisare il divino in tutto ciò che è
bello, e a definire di matrice soprannaturale anche l'amore puramente fisico. I
concetti vennero ribaditi nelle cinquanta Conclusioni amorose pubblicate due
anni più tardi. Compose anche i quattro Discorsi dell'arte poetica e in
particolare sopra il poema eroico, anche se videro la luce solo nel 1587 a
Venezia, per i tipi di Licino. Nell'ottobre 1570 partì per la Francia al
seguito del cardinale e, temendo gli potesse accadere qualche disgrazia nel
lungo e pericoloso viaggio, volle dettare le proprie volontà all'amico Ercole
Rondinelli, richiedendo la pubblicazione dei sonetti amorosi e dei madrigali,
mentre precisava che «gli altri, o amorosi o in altra materia, c'ho fatti per
servizio di alcun amico, desidero che restino sepolti con esso meco», ad
eccezione di Or che l'aura mia dolce altrove spira. Per il Gottifredo
afferma di voler far conoscere «i sei ultimi canti, e de' due primi quelle
stanze che saranno giudicate men ree», il che prova che il numero dei canti era
salito almeno a otto. Intanto, sempre nel 1570, Lucrezia d'Este sposò
Francesco Maria II Della Rovere, compagno di studi di Torquato nel periodo
urbinate. Il soggiorno transalpino fu di sei mesi, ma, siccome Luigi
aveva messo a disposizione del poeta poco denaro, questi trascorse il periodo
francese sostanzialmente nell'ombra, con il solo onore di essere ricevuto da Caterina
de' Medici, la moglie di Enrico II. Di ritorno a Ferrara, il 12 aprile 1571
decise di lasciare il seguito del cardinale. Credeva incorrere in miglior
fortuna presso Ippolito II, e scese pertanto a Roma. Anche il cardinale di
villa d'Este però lo deluse, e Tasso decise di risalire la penisola, facendosi
ospitare qualche tempo da Lucrezia e Francesco a Urbino, prima di entrare al
servizio di Alfonso II. In questo periodo continuò ad attendere al
capolavoro, ma si diede anche al teatro, e scrisse l'Aminta, celebre favola
pastorale che rientrava nei gusti delle corti cinquecentesche. Rappresentata
con ogni probabilità all'isola di Belvedere, dov'era una delle «delizie»
estensi, ebbe un grande successo e fu richiesta anche da Lucrezia d'Este a
Urbino l'anno successivo. Nell'euforia del successo, scrive una tragedia,
Galealto re di Norvegia, ma la abbandona
all'inizio del secondo atto, salvo rimettervi mano molto più tardi
trasformandola nel Re Torrismondo. Il capolavoro e la revisione L'impegno
principale rimaneva comunque il poema epico, per il quale l'autore non aveva
ancora stabilito un titolo. Nel novembre '74 l'opera era quasi completa, visto
che «io aveva comincio quest'agosto l'ultimo canto», ma si deve aspettare per
avere l'annuncio del completamento del testo, quando in una lettera al
cardinale Giovan Girolamo Albano leggiamo: «Sappia dunque Vostra Signoria
illustrissima, che dopo una fastidiosa quartana sono ora per la Dio grazia
assai sano, e dopo lunghe vigilie ho condotto finalmente al fine il poema di
Goffredo». Completato quindi il poema maggiore, si apre il periodo della
nevrosi e del terrore di aver portato a termine un lavoro non gradito
all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità estrema (il concilio di Trento
si era concluso da soli dodici anni). Da una lettera emerge l'inquietudine del
poeta: «Qui va pur intorno questo benedetto romore de la proibizione d'infiniti
poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna di vero. Scipione Gonzaga Tasso
sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli personaggi romanigaranzia
di validi consigli concernenti l'estetica e la moralenevroticamente
insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma principalmente preoccupato,
come s'è visto, dalle questioni religiose. I cinque erano il maestro ed
erudito Speroni, il principe e cardinale Gonzaga, il cardinale Antoniano, il
poeta Bargeo e il grecista Nobili. Cndivise in parte i consigli degli
illustri letterati, che gli avevano rivolto critiche di stampo moralistico, ma
talvolta li respinse bruscamente. Ne nacquero missive quasi quotidiane che
mettono in luce un autore intimamente travagliato e continuamente bisognoso di
dimostrare (forse soprattutto a sé stesso) di non trasgredire principi di
poetica né tanto meno di fede. Ossessivo nell'apportare modifiche al
testo, era continuamente combattuto e incerto sul da farsi, al punto che
nell'ottobre arrivò a scrivere al Gonzaga: «Forse a questao condotto finalmente
al fine il poema di Goffredo. Completato quindi il poema maggiore, si aprì per
Tasso il periodo della nevrosi e del terrore di aver portato a termine un
lavoro non gradito all'Inquisizione, allora in una fase di rigidità estrema (il
concilio di Trento si era concluso da soli dodici anni). Da una lettera emerge
l'inquietudine del poeta. Qui va pur intorno questo benedetto romore de la
proibizione d'infiniti poeti: vorrei sapere se ve n'è cosa alcuna di vero.
Tasso sottopose il testo al giudizio di cinque autorevoli personaggi
romanigaranzia di validi consigli concernenti l'estetica e la moralenevroticamente
insoddisfatto delle proprie scelte estetiche ma principalmente preoccupato,
come s'è visto, dalle questioni religiose. I cinque erano il maestro ed
erudito Sperone Speroni, il principe e cardinale Scipione Gonzaga, il cardinale
Silvio Antoniano, il poeta Pier Angelio Bargeo e il grecista Flaminio de'
Nobili. Torquato condivise in parte i consigli degli illustri letterati,
che gli avevano rivolto critiche di stampo moralistico, ma talvolta li respinse
bruscamente. Ne nacquero missive quasi quotidiane che mettono in luce un autore
intimamente travagliato e continuamente bisognoso di dimostrare (forse
soprattutto a sé stesso) di non trasgredire principi di poetica né tanto meno
di fede. Ossessivo nell'apportare modifiche al testo, era continuamente
combattuto e incerto sul da farsi, al punto che nell'ottobre arrivò a scrivere
al Gonzaga: «Forse a questa particolare istoria di Goffredo si conveniva
altra trattazione; e forse anco io non ho avuto tutto quel riguardo che si
doveva al rigor de' tempi presenti. E le giuro che se le condizioni del mio
stato non m'astringessero a questo, ch'io non farei stampare il mio poema né
così tosto, né per alcun anno, né forse in vita mia; tanto dubito de la sua
riuscita».[26] Nemmeno l'entusiastica ammirazione di Lucrezia d'Este cui
leggeva il poema ogni giorno «molte ore in secretis»[27], né l'essere venuto a
conoscenza del grande piacere con cui da più parti l'opera veniva letta,
poterono placare le sue angosce. Scrive “Allegoria”, con cui rivisitava tutto
il poema in chiave allegorica cercando di emanciparsi dalle possibili accuse di
immoralità. Ma non bastava: gli scrupoli di carattere religioso assunsero la
forma di vere e proprie manie di persecuzione. Per mettere alla prova la
propria ortodossia nella fede cristiana si sottopose spontaneamente al giudizio
dell'Inquisizione di Ferrara, ricevendo due sentenze di assoluzione.[29]
Barbara Sanseverino Disagi presso la corte estense e fughe Due belle
signore, giunte alla corte nel 1575 e protrattesi presso il duca fino all'anno
dopo, costituirono un intermezzo piacevoleforse l'ultimoin mezzo a tante
preoccupazioni. Per loro, la contessa di Sala Barbara Sanseverino e la contessa
di Scandiano Leonora Sanvitale, cantò gioiosamente in alcune rime amorose, che,
com'era accaduto per Lucrezia e Leonora d'Este, obbediscono alle conventions de
genre e non rivelano altro che una sincera amicizia. Ma il Tasso si era
stancato anche di Alfonso, e sognava diandare a Firenze, presso la corte
medicea. Non è chiaro perché volesse abbandonare Ferrara, ma i motivi
adducibili sono vari e variamente intriganti, e tutti hanno in loro almeno una
parte di verità. «Ch'io desideri sommamente di mutar paese, e ch'io abbia
intenzione di farlo, assai per se stesso può essere manifesto, a chi considera
le condizioni del mio stato», scrive a Gonzaga. Le «condizioni del mio
stato» possono avere una valenza materiale: Tasso riceveva dal duca solo
cinquantotto lire marchesane mensili, che sommate alle centocinquanta percepite
in qualità di lettore all'Università (carica che ricopriva per i soli giorni
festivi) danno una cifra sicuramente bassa che a un poeta ormai affermato
doveva parere stretta, anche solo per una questione di dignità, senza voler
pensare a motivazioni di pretta bramosia L'espressione tassesca può assumere
però anche una connotazione morale e psicologica: si erano in effetti
verificati alcuni episodi spiacevoli presso la corte estense. Ha una lite con
il cortigiano Ercole Fucci. Provocato, aveva rifilato uno schiaffo al Fucci,
che in risposta lo colpì più volte con un bastone. Un servo aveva inoltre
rivelato al Tasso che, durante una sua assenza, un altro cortigiano, Ascanio
Giraldini, aveva fatto forzare la porta della sua camera, nel tentativo di
appropriarsi di alcuni manoscritti. Tasso sarebbe anche riuscito a rintracciare
il magnano ottenendone una confessione, come risulta da un'altra lettera al
Gonzaga, in cui si ipotizzano altre trame ordite alle sue spalle, anche se «io
non me ne posso accertare».[33] A far precipitare il rapporto con il duca
e la corte furono però gli scrupoli religiosi del poeta. Si autoaccusò presso
l'Inquisizione ferrarese (dopo l'autoaccusa presso il tribunale bolognese
avvenuta due anni prima), attaccando inoltre influenti personaggi di corte. Si
cercò allora di far desistere il poeta dall'intenzione di confermare le sue
affermazioni negli interrogatori successivi, senza risparmiargli punizioni
corporali che non riuscirono afar cambiare idea al Tasso, che si presentò altre
due volte davanti all'inquisitore.[35] Le accuseerano rivolte in
particolare contro Montecatini, il segretario ducale. Siccome Torquato voleva
recarsi a deporre presso il Tribunale capitolino, l'inquisitore ferrarese,
conscio del fatto che una simile azione poteva mettere a repentaglio i rapporti
con la Santa Sede,vitali per casa d'Esteinformò immediatamente il duca con una
missiva del 7 giugno. Alfonso mise il poeta sotto sorveglianza, e il 17 giugno
Tasso, ritenendosi spiato da un servo, gli scagliò contro un coltello. Il
Castello Estense Tasso rimase nella prigione del Castello fino all'11 luglio,
quando Alfonso lo fece liberare e lo accolse presso la villeggiatura di
Belriguardo, dove però rimase pochi giorni, venendo rimandato a Ferrara per
essere consegnato ai frati del convento di S. Francesco.[37] Il poeta
supplicò allora i cardinali dell'Inquisizione romana affinché lo sollevassero
da una situazione ormai insopportabile trovandogli una sistemazione nell'Urbe,
e nel contempo si lamentava con Scipione Gonzaga per il trattamento ricevuto,
ma pochi giorni dopo si ritrovò nuovamente nella prigione del Castello. Tentò
quindi un'altra via e chiese invano perdono al suo signore. E indubbiamente
provato dalle fatiche della Gerusalemme, e le lettere del periodo rivelano un
animo inquieto e agitato, spesso preoccupato di smentire chi voleva vedere in
lui i germi della pazzia. Le manie di persecuzione e l'instabilità si erano
impadronite di lui, ma fino a qual punto? Fino a qual punto invece certe
manifestazioni del poeta, che mantiene nelle missive una lucidità pressoché
completa, funsero da pretesto per emarginare un personaggio divenuto
pericoloso? Su questo punto i critici non sono mai riusciti a trovare un
accordo. Intanto la prigionia el Castello si prolungava, e non restava
che la fuga: nella notte tra il 26 e il 27 luglio si travestì da contadino e
fuggì nei campi. Raggiunta Bologna, proseguì fino a Sorrento, dove, ancora
sotto mentite spoglie e fisicamente distrutto, si recò dalla sorella,
annunciandole la propria morte, così da vedere la sua reazione, e svelandole la
sua vera identità solo dopo aver osservato la reazione realmente addolorata
della donna.[39] A Sorrento rimase parecchi mesi ma, volendo riprendere
parte alla vita di corte, fece inviare da Cornelia una supplica al duca, in
data 4 dicembre 1577, chiedendo di essere riammesso alle sue dipendenze, in un
testo che fu certamente dettato, almeno in parte, dal poeta stesso: «La maggior
colpa che io credo sia in lui, è la poca sicurezza, che ha mostrata d'avere
nella parola di V.A., e il molto diffidarsi della sua benignità».[40]
Così, nell'aprile 1578 ritornò a Ferrara, ma, tempo tre mesi, era di nuovo in
fuga; Mantova, Padova, Venezia. Presa la via di Pesaro, da Cattolica mandò ad
Alfonso una missiva in cui cerca di spiegare i motivi dell'abbandono, che
restano, anche nella testimonianza diretta del Tasso, criptici: «ora me ne dono
partito. per non consentire a quello, a che non dee consentire uomo, che faccia
alcuna professione d'onore, o ch'abbia nell'animo alcuno spirito di nobiltà.
Paura, instabilità? Quello che è certo è che nello stesso mese le parole
di Maffio Venierche lo aveva incontrato a Veneziasembrano far perdere
credibilità alle ipotesi di follia: «sebbene si può dire che egli non sia di
sano intelletto, scuopre tuttavia più tosto segni di afflizione che pazzia».
Anche gli scambi epistolari intrattenuti con Francesco Maria Della Rovere
paiono rivelare una personalità afflitta e agitata più che folle. Il Leitmotiv,
adesso più che mai, è il dolore. Il dolore si fa allora poiesis, creazione. È
proprio questo il periodo in cui vengono composti i versi dell'incompiuta
canzone Al Metauro, tra i più citati e famosi dell'opera tassesca. Qui, in una
rievocazione della propria vita sub specie doloris[44], affiorano i ricordi delle
proprie sofferenze e della morte dei genitori. Il poeta è un esiliato,
concretamente e metaforicamente, sin da quando bambino dovette lasciare il
luogo natìo: «In aspro esiglio e 'n dura povertà crebbi in quei sì mesti
errori; intempestivo senso ebbi a gli affanni: ch'anzi stagion, matura
l'acerbità de' casi e de' dolori in me rendé l'acerbità degli anni»
Intanto continuava a vagare. Percorse a piedi il tratto che separa Urbino da
Torino, ma non sarebbe riuscito a entrare nella cittàera stato respinto
dai doganieri perché in stato pietosose Angelo Ingegneri, amico di Torquato da
alcuni anni, non lo avesse riconosciuto e aiutato a entrare. A Torino ricevette
l'ospitalità del marchese Filippo d'Este, genero del duca di Savoia[45], e
godette di una certa tranquillità che gli permise di comporre poesie e iniziare
tre dialoghi, la Nobiltà, la Dignità e la Precedenza. In seguito a nuovi
pentimenti e nuove nostalgie della corte ferrarese, il poeta si adoperò ancora
una volta per il rientro nella città ducale, facendo leva sulle intercessioni
del cardinale Albano e di Maurizio Cataneo, e infine riguadagnò la capitale
estense tra il 21 e il 22 febbraio, proprio mentre fervevano i preparativi per
le terze nozze di Alfonso, quelle con Margherita Gonzaga, figlia del duca di
Mantova Guglielmo. Fu ospitato da Luigi d'Este, ma nessuno badava a lui:
«Ora le fo sapere, che io qui ho trovato quelle difficoltà che m'imaginava, non
superate né dal favore di monsignor illustrissimo, né da alcuna sorte d'umanità
ch'io abbia saputo usare», scrisse a Maurizio Cataneo. In una missiva al
cardinale Albano, recante la data, Tasso chiede almeno gli si faccia riottenere
lo stipendio precedente.[47] A questo punto i fatti precipitano: «Iersera
l'altra si mandò il povero Tasso a Sant'Anna, per le insolenti pazzie ch'avea
fatte intorno alle donne del Signor Cornelio, e che era poi venuto a fare con
le Dame di Sua Altezza, quali, per quanto m'è stato rifferto, furono così
brutte e disoneste, che indussero il Signor Duca a quella risoluzione».[48] Non
è chiaro quando accadesse esattamente il fatto, si oscilla tma è certo che in
quest'ultima data il poeta fosse già stato recluso nella prigione di
Sant'Anna.[ Pare sicuro anche che le parole offensive pronunciate in preda
all'ira si siano indirizzate poi in modo esplicito allo stesso duca, ed è
probabile che si trattasse di gravi accuse (forse legate ancora una volta alla
vicenda dell'Inquisizione) che, fatte in pubblico, chiedevano una risoluzione
drastica. Il duca Alfonso II rinchiuse quindi Tasso nell'Ospedale
Sant'Anna, nella celebre cella detta poi "del Tasso", dove rimase per
sette anni. Qui, alle manie di persecuzione, si aggiunsero tendenze
autopunitive. Delacroix: Tasso all'ospedale di Sant'Anna Nell'Ospedale
veniva trattato alla stregua dei «forsennati», ricevendo poche razioni di cibo
scadente, privato di ogni comodità materiale e di ogni conforto spirituale,
visto che il cappellano, «se ben io ne l'ho pregato, non ha voluto mai o
confessarmi o comunicarmi».[50] È vero che dopo nove mesi ci fu un
miglioramento del vitto, ma dovette trattarsi di ben poca cosa, e i primi tre
anni coincisero con una sorta di isolamento. Scrisse comunque
ininterrottamente a principi, prelati, signori e intellettuali pregandoli di
liberarlo e difendere la propria persona. Le suppliche erano rivolte al solito
Gonzaga, alla mai dimenticata Lucrezia d'Este, a Francesco Panigarola (che
sarebbe divenuto vescovo di Asti), a Ercole Tasso e molti altri. I primi anni
di reclusione non impedirono a Torquato di scrivere; anzi, le tre canzoni del
periodo rivelano una poesia essenziale, magistrale nella gestione delle
armonie, simbolo di un'ormai indiscussa maturità e dimostrazione, una volta di
più, di come le facoltà mentali del poeta fossero ancora intatte. Ecco quindi A
Lucrezia e Leonora, con la celebre invocazione alle «figlie di Renata», in una
nostalgico ricordo dei tempi sereni trascorsi a corte, messo in contrasto con
la durezza del tempo presente, ecco Ad Alfonso, nuova supplica al duca che,
rimasta inascoltata, diventò un inno Alla Pietà nell'omonima canzone. Le
condizioni mutarono con gli anni: gli fu permesso di uscire qualche volta e di
ricevere visite, il vitto migliorò ulteriormente, mentre poté lasciare
Sant'Anna più volte alla settimana, «accompagnato da gentiluomini e qualche
volta fu condotto anche a corte».[52] Tuttavia il trattamento rimaneva molto
duro e, a distanza di secoli, pare spropositato se il motivo dovesse ridursi
alla pazzia o a delle offese personali. Certo, il Tasso soffriva di turbe
psichiche. A questo proposito è illuminante la lettera di aiuto che indirizzò
il 28 giugno 1583 al celebre medico forlivese Girolamo Mercuriale. Qui
troviamo un elenco e una descrizione dei mali che affliggono il poeta:
«rodimento d'intestino, con un poco di flusso di sangue; tintinni ne gli
orecchi e ne la testa, imaginazione continua di varie cose, e tutte spiacevoli:
la qual mi perturba in modo ch'io non posso applicar la mente a gli studi per
un sestodecimo d'ora», fino alla sensazione che gli oggetti inanimati si
mettano a parlare. È da notare tuttavia come tutte queste sofferenze non
l'abbiano reso «inetto al comporre. Si può poi ammettere che «il Tasso non fu
semplicemente un melanconico, ma di tratto in tratto veniva sorpreso da eccessi
di mania, da riescire pericoloso a sé ed agli altri»[54], ma, anche se questi
squilibri dovessero essersi manifestati realmente, essi non giustificano né la
tesi della pazzia né la necessità di allontanare il Tasso dalla corte per un
periodo così lungo. Con buone probabilità, quindi, la ragione principale deve
essere riallacciata ancora una volta ai tentativi tasseschi di ricorrere
all'Inquisizione romana, e l'imprigionamento era il solo modo per non
compromettere il rapporto con lo Stato Pontificio. Dopo l'edizione veneziana
"pirata" e mutila di Celio Malespini, sempre durante la prigionia,
vennero pubblicatenel tentativo di porre rimedio alla sciagurata operazionea
Parma e Casalmaggiore, ancora senza il suo consenso, due edizioni del poema
iniziato all'età di quindici anni. Il titolo di Gerusalemme liberata fu scelto
dal curatore di queste ultime versioni, Angelo Ingegneri, senza l'avallo
dell'autore. L'opera ebbe un grande successo. Siccome anche le stampe
dell'Ingegneri presentavano delle imperfezioni e la Gerusalemme era ormai di
dominio pubblico, bisognava approntare la versione migliore possibile, ma per
far questo era necessaria l'autorizzazione e la collaborazione del Tasso. Così,
seppur riluttante, il poeta diede il proprio consenso a Febo Bonnà, che diede
alla luce la Gerusalemme liberata il 24 giugno 1581 a Ferrara, restituendola in
modo ancora più preciso pochi mesi dopo. Queste traversie editoriali
addolorarono il Tasso, che avrebbe voluto mettere mano al poema in modo da
renderlo conforme alla propria volontà. All'amarezza per le pubblicazioni seguì
ben presto quella che gli fu causata dallapolemica con la neonata Accademia
della Crusca. La diatriba non fu scatenata, per la verità, né dal poeta né
dall'Accademia. La sua origine va ricercata nel dialogo Il Carrafa, o vero
della epica poesia, che il poeta capuano Camillo Pellegrino stampò presso
l'editore fiorentino Sermartelli. Nel dialogo Torquato viene esaltato assieme
alla sua opera, in quanto fautore di una poesia etica e fedele ai dettami
aristotelici, mentre l'Ariosto viene duramente condannato a causa della
leggerezza, delle fantasiose invenzioni e dell'eccessiva dispersione che si
possono riscontrare nell'Orlando Furioso. Il testo provocò la reazione
dell'Accademia, che rispose nel febbraio dell'anno seguente con la Difesa
dell'Orlando Furioso degli Accademici della Crusca, stroncando il Tasso ed
esaltando invece «il palagio perfettissimo di modello, magnificentissimo,
ricchissimo, e ornatissimo» che era il Furioso. La Difesa fu fondamentalmente
opera di Leonardo Salviati e di Bastiano de' Rossi. Tasso decise di scendere in
campo con l'Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata, edita a Ferrara dal
Licino il 20 luglio. Rivendicando la necessità di un'invenzione che si fondi
sulla storia, il poeta si opponeva alle opinioni dei paladini del volgare
fiorentino, e respingeva le accuse di un lessico intriso di barbarismi e poco
chiaro. La polemica continuò, visto che il Salviati replicò in settembre con la
Risposta all'Apologia di Torquato Tasso (testo noto anche come Infarinato
primo), cui seguirono un nuovo opuscolo di Pellegrino e un Discorso del Nostro,
dopo di chese si esclude un ulteriore scritto del Salviati, l'Infarinato
secondo per qualche tempo le acque si calmarono, ma la querelle tra ariosteschi
e tasseschi proseguì fino al secolo successivo, e fu una delle più infiammate
della storia della letteratura italiana. Durante la reclusione Tasso
scrisse principalmente discorsi e dialoghi. Fra i primi quello Della gelosia,
Dell'amor vicendevole tra 'l padre e 'l figliuolo, Della virtù eroica e della
carità, Della virtù femminile e donnesca, “Dell'arte del dialogo”; “Il
Secretario” cui si deve aggiungere il Discorso intorno alla sedizione nata nel
regno di Francia e il Trattato della Dignità, già iniziato a Torino, come si è
visto.[61] Queste opere sviluppano tematiche morali, psicologiche o
strettamente religiose. La virtù cristiana è proclamata come superiore alla pur
nobile virtù eroica, si afferma la comune origine di amore e gelosia, si valutano
i talenti specifici della donna, il tutto arricchito dal racconto di esperienze
personali che giustificano l'opinione dell'autore. Vengono affrontate anche
questioni politiche, in special modo nel Secretario, diviso in due parti, la
prima dedicata a Cesare d'Este, la seconda ad Antonio Costantini. Qui, nella
descrizione del principe ideale, si enucleano alcune caratteristiche come la
clemenza (chiaro il riferimento alla propria condizione), l'esser filosofo, e
soprattutto «un gentiluomo a la cui fede ed al cui sapere si possono confidare
gli Stati e la vita e l'onor del principe». Più copiosa ancora fu la
composizione di dialoghi, scritti sotto il nume ideale di Platone, ma
paragonabili più obiettivamente a quelli del sedicesimo secolo. Quasi ogni
tematica morale viene sviscerata in una serie davvero lunga di opere più o meno
prolisse e più o meno felici. Tasso scrisse, nell'ordine, Il Forno, o
vero de la Nobiltà, il Gonzaga, o vero del Piacer onesto, in seguito rivisto e
stampato con il titolo Il Nifo, o vero del piacere; Il Messaggero. Qui immaginò
di interagire amichevolmente con il folletto da cui si credeva perseguitato
nella realtà. Questo dialogo ispirò la celebre operetta morale leopardiana
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare), con una seconda lezione.
Il padre di famiglia (ispirato a un gentiluomo che lo ospitò a Borgo Sesia
prima dell'arrivo a Torino); Il cavalier amante e la gentildonna amata (con
dedica a Giulio Mosti, giovane ammiratore del poeta); Romeo o vero del giuoco,
rivisto e dato alle stampe con titolo Il Gonzaga secondo, o vero del
giuoco; La Molza, o vero de l'Amore (prende spunto dalla conoscenza che il
Tasso fece della celebre poetessa Tarquinia Molza a Modena, dedicato a Marfisa
d'Este); Il Malpiglio, o vero della corte (con riferimento al gentiluomo
ferrarese Lorenzo Malpiglio); Il Malpiglio secondo o vero del fuggir la
moltitudine; Il Beltramo, overo de la Cortesia; Il Rangone, o vero de la Pace
(in risposta a uno scritto di Fabio Albergati); Il Ghirlinzone, o vero l'Epitafio.
Il Forestiero napolitano, o vero de la Gelosia; Il Cataneo, o vero de gli
Idoli, e, infine, La Cavalletta, o vero de la poesia toscana. In tutto questo
non aveva dimenticato l'opera principe, dimostrando di avere al riguardo idee
piuttosto lontane da quella che sarà la realizzazione finale. A Lorenzo
Malpiglio espose intenzioni sostanzialmente opposte agli interventi che avrebbe
apportato negli anni successivi: parla di portare la Liberata da venti a
ventiquattro canti (secondo l'idea originaria) e di accrescere il numero delle
stanze, tagliando anche dei passaggi ma con il risultato che «la diminuzione
sarà molto minor de l'accrescimento. Qualche segnale, magari anche dettato da
semplice interesse, lasciava intravedere un astio meno severo nei confronti del
Nostro. Prima della reclusione a
Comacchio era stata rappresentata una commedia tassesca alla presenza della
corte. Ora Virginia de' Medici voleva che il testo fosse perfezionato e
completato per essere interpretato durante i festeggiamenti del suo matrimonio
con Cesare d'Este. Tasso si mise al lavoro ed esaudì la richiesta. L'opera
fu poi pubblicata e ricevette il titolo “Gli intrichi d'amor” edal Perini, uno
degli attori dell'Accademia di Caprarola, che aveva messo in scena la commedia.
L'opera, ricolma di intrecci amorosi e di agnizioni secondo il costume
dell'epoca, è sofisticata e inverosimile, ma non mancano pagine vivaci ed
episodi ispirati all'Aminta. Vi si possono inoltre vedere alcuni elementi che
confluiranno nella commedia dell'arte: il personaggio del Napoletano, parlando
in dialetto e «profondendosi in spiritosaggini sbardellate», richiama alla
mente la futura maschera di Pulcinella. La critica è stata piuttosto concorde
nel ritenerla infelice, tutta una goffaggine pedantesca e superficiale, nel
giudizio di Francesco D'Ovidio. F. Pourbus: Vincenzo Gonzaga Dopo la prigionia:
le delusioni, le sofferenze, le peregrinazioni. Finì la prigionia. Venne
affidato a Vincenzo Gonzaga, che lo volle alla sua corte di Mantova. Nelle
intenzioni di Alfonso, Tasso doveva restare presso il figlio di Guglielmo
Gonzaga solo per un breve periodo, ma di fatto il poeta non tornò più a
Ferrara, e restò presso Vincenzo, in un ambiente in cui conobbe Ascanio de'
Mori da Ceno, diventandone amico. A Mantova ritrova qualche barlume di
tranquillità; riprese in mano il Galealto re di Norvegia, la tragedia che aveva
lasciato interrotta alla seconda scena del secondo attoe che aveva frattanto
avuto un'edizione nel 1582 -, e la trasformò nel Re Torrismondo, conglobando
nei primi due atti quanto aveva precedentemente scritto ma cambiando i nomi, e
procedendo alla stesura dei tre atti successivi in modo da arrivare ai cinque
canonici. Quando nell'agosto si recò a Bergamo, ritrovando amici e parenti, si
mise subito in azione per dare alle stampe la tragedia, e l'opera uscì, a cura
del Licino e per i tipi del Comin Ventura, con dedica a Vincenzo Gonzaga, nuovo
duca di Mantova. Si trattava comunque di una "libertà vigilata", e i
fatti lo dimostrano chiaramente. Dopo essere tornato a Mantova, deluso e
preoccupato di una possibile venuta di Alfonso, Tasso andò a Bologna e a
Roma senza chiedere al Gonzaga l'autorizzazione e questi, sotto la pressione
del duca di Ferrara, tentò in ogni modo di farlo tornare indietro. Antonio
Costantini, sedicente amico del poeta che metteva al primo posto l'ambizione e
l'obiettivo di essere tenuto in onore presso la corte mantovana, e Scipione
Gonzaga si mobilitarono, ma Torquato capì la situazione e rifiutò di ritornare,
rendendo impossibile qualsiasi mossa, dal momento che un intervento che lo
riportasse nel ducato mantovano con la forza non sarebbe mai stato tollerato
dal Pontefice. Il fatto che nessuno impedisse il viaggio a Bergamo mentre ci
fosse una mobilitazione generale per allontanare il poeta dall'Urbe rimane
comunque un segnale che pare ulteriormente ridimensionare il peso della
presunta follia di Torquato nelle preoccupazioni dei duchi del
settentrione. Il santuario di Loreto in un'incisione di Francisco de
Hollanda (prima meta del sec. XVI) Nel corso del tragitto Tasso passò da
Loreto, raccogliendosi in preghiera nel santuario e concependo quella canzone
«a la gloriosa Vergine» che può forse richiamare il Petrarca della Canzone alla
Vergine in qualche scelta lessicale, ma, in mezzo alla lode e alla supplica, è
tanto più intessuta di travaglio e sofferenza: «Vedi, che fra' peccati
egro rimango, qual destrier, che si volve nell'alta polve, e nel tenace
fango.» Torquato fu a Roma. L'irrequietudine era di nuovo alle stelle: le
lettere registrano le sue richieste di denaro e le lamentele per la propria
condizione di salute. Il poeta è ormai disilluso, e fa meno affidamento sulla
possibilità che gli altri lo aiutino. Come scrisse alla sorella in una lettera
del 14 novembre, gli uomini «non hanno voluto sanarmi, ma ammaliarmi. Tuttavia,
il Nostro è in preda al bisogno materiale e continua ad autoumiliarsi,
scrivendo versi encomiastici per Scipione Gonzaga, divenuto cardinale, senza
ottenere alcunché. Anche la speranza di essere ricevuto dal papa Sisto V viene
delusa, nonostante le lodi che Tasso rivolge al pontefice in varie poesie,
confluite assieme ad altre del periodo in un volumetto del 1589, stampato a
Venezia. Vista l'inutilità del soggiorno romano, il peregrinante poeta pensò
trovare maggior fortuna nell'amata Napoli. Così, ritorna nella città vesuviana
fortemente intenzionato a risolvere a proprio favore le cause contro i parenti
per il recupero della dote paterna e di quella materna. Benché potesse contare
su amici e congiunti, e sulle conoscenze altolocate partenopee, tra cui i
Carafa (o Carrafa) di Nocera, i Gesualdo, i Caracciolo di Avellino, i Manso,
preferì accettare l'ospitalità di un convento di frati olivetani. Qui conobbe
l'amico più caro degli ultimi anni: Giovan Battista Manso, signore di Bisaccia
e primo entusiasta biografo dell'autore dopo la sua morte. Il clima
amichevole in cui fu accolto, la stima di amici e letterati, e il conforto di
una «bellissima città, la quale è quasi una medicina al mio dolore, riuscirono
a risollevare per un breve periodol'infelice animo tassiano. Per ringraziare i
monaci scrisse il poemetto, rimasto incompiuto, Monte Oliveto, in riferimento
al convento in cui sorgeva il complesso monastico che attualmente ospita la
caserma dei carabinieri (resta visitabile la chiesa Sant'Anna dei Lombardi).
L'operaun resoconto encomiastico delle principali tappe esistenziali e delle
principali virtù di Bernardo Tolomei, il fondatore della Congregazioneè
fortemente intessuta di spirito cristiano, in un severo richiamo ad una vita
sobria, lontana dalle vanità del mondo. Dedicata al cardinale Antonio Carafa,
si interrompe alla centoduesima ottava. Al pari del Re Torrismondo e di molta
parte dell'ultima produzione tassesca, il Monte Oliveto non ha goduto dei
favori della critica. Guido Mazzoni vi vide più una predica che un poema,
mentre Eugenio Donadoni utilizzò quasi le medesime parole che gli erano servite
per stroncare il Torrismondo (v. Re Torrismondo): questa è «l'opera non più di
un poeta, ma di un letterato, che cerca di dare forma e tono epico a una
convenzionale vita di santo».[78] Come per la tragedia nordica, la
rivalutazione è arrivata con l'analisi di Luigi Tonelli e di alcuni studiosi
più recenti. In ogni caso, anche questo periodo napoletano si rivelò problematico
per Tasso, a causa delle precarie condizioni di salute e delle ristrettezze
economiche, a cui si aggiunsero anche nuove polemiche letterarie e religiose
sulla Gerusalemme liberata. Spostatosi a Bisaccia, Tasso poté vivere un periodo
di maggiore tranquillità. Manso ricorda un episodio curioso: mentre sedeva con
l'amico davanti al fuoco, questi disse di vedere uno «Spirito, col quale entrò
in ragionamenti così grandi e meravigliosi per l'altissime cose in essi
contenute, e per un certo modo non usato di favellare, ch'io rimaso da nuovo
stupore sopra me inalzato, non ardiva interrompergli». Alla fine della visione,
Manso confessò di non aver visto nulla, ma il poeta gli si rivolse sorridendo:
«Assai più veduto hai tu, di quello che forse... E qui si tacque».[79] Viste le
rare manifestazioni allucinatorie di cui abbiamo notizia, (si ricordino quelle
che erano state descritte nel dialogo Il messaggero, in cui è descritto uno
spirito amoroso che appare a Tasso sotto la figura di un giovanetto dagli occhi
azzurri, simili a quelli che Omero alla dea d'Atene attribuisce), la risposta
del Nostro assume una valenza indubbiamente ambigua, e non può escludersi che
avesse voluto mettere alla prova il Manso per vedere se anche lui lo avrebbe
considerato un "folle". A dicembre era di nuovo a Roma, dove
giunse nella speranza di poter essere ospitato dal Papa in Vaticano, confidando
negli illusori pareri di alcuni amici.[80] Ad ospitare Tasso fu invece Scipione
Gonzaga, e il poeta si sentì di nuovo «più infelice che mai». Ricominciava la
routine: richieste d'aiuto a destra e a sinistra, con l'obiettivo di ricevere i
cento scudi che gli erano stati promessi per la stampa delle sue opere: «vorrei
in tutti i modi trovar questi cento ducati, per dar principio a la stampa, avendo
ferma opinione che di sì gran volume se ne ritrarrebbero molto più», scrisse ad
Antonio Costantini.[82] I destinatari erano ancora una volta i più disparati:
il principe di Molfetta, il Costantini, il duca di Mantova Vincenzo
Gonzaga, gli editori. Il Nostro si umiliò per l'ennesima volta anche con
Alfonso, cui chiese nuovamente perdono, mentre al Granduca di Toscana
Ferdinando I domandò l'intercessione del cardinal Del Monte, lo stesso che
prenderà sotto la propria protezione Caravaggio. Tutte le speranze, però,
furono disattese. Al tempo stesso anche le missive ai medici si rifecero
intense. Tuttavia, in mezzo a tante delusioni e a tanto affanno non venne meno
la verve creativa: oltre ad aver raccolto le Rime in tre volumi, e avervi
scritto il commento, Tasso compose anche un poema pastorale che riprende, anche
se solo nel nome, alcuni personaggi dell'Aminta. È Il rogo di Corinna, dedicato
a Fabio Orsino. La prima pubblicazione dell'opera fu postuma. Per quanto
Grazioso Graziosi, agente del duca di Urbino, dicesse al suo signore del modo
eccellente in cui il Tasso era trattato presso il cardinale Gonzaga, egli
rilevava al contempo le infermità fisiche e mentali di Torquato, che privavano
la sua età «del maggior ingegno che abbian prodotto molte delle passate.
Tuttavia, è bene diffidare della prima quanto della seconda affermazione. Se
«il povero Signor Tasso è veramente degno di molta pietà per le infelicità
della sua fortuna»[85], come si legge in una missiva del Graziosi di due
settimane dopo, perché cacciare il poeta in malo modo, mentre Scipione Gonzaga
non era presente, e costringerlo a una nuova situazione di bisogno? In aiuto
del Tasso vennero ancora i monaci della Congregazione del Tolomei, che lo
ospitarono a Santa Maria Nuova degli Olivetani.[86] Gli ultimi anni del
Tasso, però, non conobbero pace duratura: le sofferenze psichiche si acuirono
nuovamente, certo per le nuove delusioni derivanti da richieste di denaro non
esaudite, dall'obbligo di piegarsi alla composizione di poesie a pagamento, e
il poeta fu costretto a farsi ricoverare nell'Ospedale dei Pazzarelli,
adiacente alla chiesa dei Santi Bartolomeo e Alessandro dei Bergamaschi,
la cui costruzione era appena stata ultimata. Il dolore emerge in modo chiaro
in una lettera inviata il primo dicembre 1589 ad Antonio Costantini, divenuto
ormai suo confidente. Ritornò presso Scipione Gonzaga, sempre lamentandosi per
la scarsa considerazione in cui era tenuto e sempre scrivendo della propria
infelicità.[88] Tasso premeva, come già più volte in passato, per essere
accolto a Firenze dal Granduca di Toscana, e accettò quindi con gioia l'invito
di Ferdinando de' Medici. A Firenze giunse in aprile, ospite prima dei fidati
Olivetani, poi di ricchi e illustri cittadini quali Pannucci e Gherardi. Alla
tranquillità necessaria per rivedere la Gerusalemme si aggiunsero anche
relative soddisfazioni economiche (sempre comunque in cambio di versi
encomiastici): dal Granduca ricevette centocinquanta scudi[89], da Giovanni III
di Ventimiglia, marchese di Geraci, sembrerebbe, duecento scudi.[90] Il
motivo di gioia principale era tuttavia un altro, era l'avvicinarsi dell'evento
più ambito da chi si sentiva, sopra ogni cosa, poeta: «Penso a la mia
coronazione, la qual dovrebbe esser più felice per me, che quella de' principi,
perché non chiedo altra corona per acquetarmi». Non ci fu nessuna
incoronazione. C'è chi ha asserito che questa lettera contenesse solo una
bislacca speranza del Tasso, senza alcun legame con la realtà.[92] Tuttavia, la
sicurezza con cui l'evento viene ormai dato per certo lascia pensare che le
illusioni del Nostro avessero un fondamento, e non fossero una pura
chimera. Un nuovo evento lo indusse all'ennesimo spostamento: papa Urbano
VII era succeduto a Sisto V, incoraggiando il Tasso a fare nuovamente
affidamento sugli aiuti pontifici. Tasso scese così a Roma, accolto dagli
Olivetani di Santa Maria del Popolo. Giovanni Battista Castagna morì tredici
giorni dopo l'elezione, lasciando il posto a Gregorio XIV. Anche questa volta
le lettere del poeta registrano un amaro scacco: «Ho perduto tutti gli appoggi;
m'hanno abbandonato tutti gli amici, e tutte le promesse ingannato», confidò,
sempre più afflitto, a Niccolò degli Oddi. L'autore della Gerusalemme è ogni
giorno che passa più confuso, sballottato qua e là dagli eventi come una barca
in mezzo al mare. Tutto questo riflette la condizione interiore di una persona
disincantata ma al tempo stesso ancora ingenuamente pronta a fidarsi delle
fallaci promesse che giungono dal mondo intorno, riflette un'instabilità ormai
cronica. È vero che la fede andò radicandosi sempre più in Tasso, ma il fatto
che al duca di Mantova scrivesse di volersi ritirare in un monastero e pochi
giorni dopo accettasse il suo invito a tornare a corte è l'evidente
manifestazione di un'anima senza pace.[94] Ritornato quindi sul Mincio
(marzo 1591), accolto con tutti gli onori, poté dedicarsi totalmente al lavoro
letterario, e in particolare alla revisione del capolavoro. La missiva a
Maurizio Cataneo del 4 luglio ci informa del fatto che il poeta era già a buon
punto, e illustra le linee direttrici della propria opera correttrice: «sono al
fine del penultimo libro; e ne l'ultimo mi serviranno molte di quelle stanze
che si leggono nello stampeato. Desidero che la riputazione di questo mio accresciuto
ed illustrato e quasi riformato poema toglia il credito a l'altro, datogli
dalla pazzia de gli uomini più tosto che dal mio giudicio».[95] Sono parole che
possono parere sciagurate, ma riflettono gli scrupoli religiosi sempre più
pressanti. Non si era comunque concentrato solo sul poema: aveva raccolto
le Rime in quattro volumi, e con l'editore veneziano Giolito parlava della
possibilità di stampare tutte le opere (esclusa la Gerusalemme) in sei libri. A
tutto questo va aggiunto un nuovo lavoro che aveva intrapreso, lasciandolo poi
incompiuto. La genealogia di Casa Gonzaga, con dedica a Vincenzo, si interruppe
dopo centodiciannove ottave, per essere pubblicato solo nel 1666, tra le Opere
non più stampate dell'edizione romana Dragondelli.[96] Il poemetto è
sicuramente trascurabile, fatto di una versificazione fredda, appesantita da
nozioni e nomi. Tra le fonti il ruolo principale è stato svolto da un regesto
di Cesare Campana, Arbori delle famiglie... e principalmente della Gonzaga,
uscito a Mantova l'anno prima, e dall'Historia sui temporis di Paolo Giovio,
accanto a cui va ricordata la tradizione orale legata alla battaglia del
Taro.[97] La calma, tuttavia, era ormai un ricordo di gioventù, e ogni
soggiorno diventava insopportabile dopo un certo numero di mesi. Così,
ridiscese la penisola, con l'intenzione di raggiungere nuovamente Roma. Il
viaggio fu travagliato e appesantito dal fatto che Tasso si ammalò più volte
durante il tragitto, costretto a sostare in varie località, fra cui Firenze.
Giunto nell'Urbe il 5 dicembre 1591, ricevette l'ospitalità di Maurizio
Cataneo. Poche settimane dopo era ancora in viaggio, diretto a Napoli A questo punto, inaspettatamente, ci fu
spazio per qualche luce e qualche reale soddisfazione. Il soggiorno napoletano non
tradì, né per quanto riguarda l'accoglienza ricevuta (fu ospitato dal principe
di Conca Matteo di Capua e poi da Manso con grandi onori e affetto), né sulle
questioni letterarie, né su quelle relative alla salute dell'artista. In
effetti, in virtù della «purità dell'aria, comincia a sentirsi meglio, e di
conseguenza poté dedicarsi in modo più proficuo alle proprie attività. In
questi mesi completò la Conquistata, e, sempre durante il soggiorno partenopeo,
mise mano all'ultima opera significativa, Le sette giornate del Mondo creato.
Gli ultimi tre anni di vita lo videro prevalentemente a Roma. L'elezione al
soglio pontificio di Clemente VIII lo fece venire nell'Urbe, e anche qui ebbe
un trattamento decisamente migliore rispetto alle recenti esperienze. Poté
infatti alloggiare nel palazzo dei nipoti del Papa, Pietro e
CinzioAldobrandini, in procinto di diventare cardinali. Cinzio sarà di fatto il
vero mecenate dell'ultimo periodo. La produzione letteraria ebbe nuovi
sussulti, consacrandosi ormai quasi esclusivamente agli argomenti sacri:
compose i Discorsi del poema eroico e altri Dialoghi, carmi latini e rime
religiose. Addolorato per la morte di Scipione Gonzaga, gli dedicò, nel marzo
1593, Le lagrime di Maria Vergine e Le lagrime di Gesù Cristo.Tasso aveva
intanto finito di rivedere il poema, e sempre nel 1593 vide la luce a Roma, per
i tipi di Guglielmo Facciotti, la Gerusalemme conquistata. Esistono
inoltre chiare testimonianze del fatto che ci fosse l'intenzione di incoronare
Tasso in Campidoglio, nonostante alcuni studiosi si siano osti negarlo e a
considerarla un'invenzione del poeta. È veramente degno il Signor Torquato
Tasso di esser celebrato in questi medesimi tempi come raro per la sua poesia,
ed è parimente degno della grandezza dell'animo del Signor Cinzio Aldobrandini
di erigergli una statua laureata, con mill'altre cerimonie e specie, come
dicono che tosto si vedrà, e dargli luogo in Campidoglio fra le più degne ed
antiche cerimonie [...]», rivela Matteo Parisetti in una lettera ad Alfonso II,
risalente all'agosto del Lo stesso Tasso è esplicito al riguardo: «Qui in Roma
mi voglion coronar di lauro», scrive al Granduca di Toscana il 20 dicembre
1594, «o d'altra foglia». Sennonché, pur essendo ancora bisognoso di soldi e
continuando a fare richiesta per ottenerli, il poeta sentiva sempre più lontane
le preoccupazioni del mondo, e sempre meno si curava della vanità e dei
successi terreni. La salute, dopo la parentesi napoletana, andava aggravandosi
nuovamente, e Torquato cominciava a capire che la fine non era lontana. Per
questo ritornò alle falde del Vesuvio, per concludere rapidamente in proprio
favore la questione legata all'eredità materna: il risultato fu soddisfacente,
acconsentendo il principe di Avellino a versargli duecento ducati all'anno, ai
quali vanno aggiunti cento ducati annui che il Papa si risolverà a dargli a
partire dal febbraio 1595. A Napoli rimase dal giugno al novembre del
1594, alloggiato al monastero benedettino di san Severino, sempre più votato
alla vita monastica e attratto ancora dalla letteratura agiografica. Fu
probabilmente nei mesi trascorsi presso i benedettini che Tasso abbozzò
l'incompiuta Vita di San Benedetto. Alla fine dell'anno ritornò a Roma.
Cambiò città per l'ultima volta: la fine era dietro l'angolo. Riconosciuta la
definitiva infermità che gli rendeva ormai impossibile scrivere e correggere,
non sentì più che un ultimo bisogno, tralasciando tutto il resto, il bisogno
della «fuga dal mondo». Entra al monastero di S. Onofrio, sul Gianicolo, senza più
nemmeno curarsi del fatto che il Mondo creato non era stato ancora rivisto.
Tutto svaniva, di fronte all'importanza di prepararsi al trapasso: «Che dirà il
mio signor Antonio, quando udirà la morte del suo Tasso? E per mio avviso non
tarderà molto la novella, perch'io mi sento al fine de la mia vita. Non è più
tempo ch'io parli de la mia ostinata fortuna, per non dire de l'ingratitudine
del mondo». Tutto perdeva importanza, a fronte della dolcezza della
«conversazione di questi divoti padri», che cominciava «la mia conversazione in
cielo. Monumento in Sant'Onofrio Il 25 aprile, all'«undecima ora». Tasso muore.
E una morte serena, ricevuta con tutti i conforti dei sacramenti.La
morte del Tasso è stata accompagnata da una particolar grazia di Dio
benedetto, perché in questi ultimi giorni le duplicate confessioni, le lagrime
e insegnamenti spirituali pieni di pietà e di giudizio, mostrarono che fosse
affatto guarito dall'umor malinconico, e che quasi uno spirito gli avesse
accostato al naso l'ampolle del suo cervello. Venne sepolto nella Chiesa di
Sant'Onofrio al Gianicolo. Presso il monastero, accanto alla strada è
ancora visibile la rampa della quercia, dove si trova il tronco nero di una
quercia secolare sostenuto da un sopporto metallico. Secondo la tradizione
locale si tratta della cosiddetta quercia del Tasso, l'albero alla cui ombra il
poeta spesso sedeva per riposarsi. Albero genealogico Reinerius de Tassis
Sconosciuta Omedeo Tasso (1290)[110] Sconosciuta Ruggero Tasso
SconosciutaBenedetto Tasso SconosciutaPalazzo de Tassis Tonola de Magnasco,
Pasimo (o Paxio) de Tassis. SconosciutaPietro Tasso. SconosciutaGiovanni
Tasso Catalina de Tassi Gabriel Tasso
Porzia de RossiBernardo Tasso Torquato Tasso Opere Un ritratto a
Sorrento. Gerusalemme Scritto quando egli aveva solo 15 anni il Gierusalemme
rappresenta il primissimo tentativo di Tasso di maneggiare il genere epico
nonché il suo primo impegno letterario di rilievo. Se ne possiedono soltanto
centosedici stanze del canto I. Oltre a condividere con la Liberata l'argomento
(la prima Crociata), si notano pure alcune somiglianze tra il proemio di questo
esordio poetico giovanile e quello del capolavoro della maturità. Rinaldo
All'età di diciotto anni Tasso riprese la materia del romanzo cavalleresco e
pubblicò il Rinaldo, poema in ottave che narra in dodici canti (circa 8000
versi) la giovinezza del paladino della tradizione carolingia e le sue imprese
di armi e di amori. Nella prefazione al poema Tasso dichiara di voler imitare
in parte gli "antichi" (Omero e Virgilio), in parte i
"moderni" (Ariosto). Si concentra però su un unico protagonista,
secondo le esigenze di unità proposte dall'aristotelismo. Si tratta di un'opera
tipicamente giovanile, ancora priva di originalità, ma compaiono già alcuni
temi e toni fondamentali che caratterizzeranno il Tasso maturo e formato
culturalmente. Rime Torquato Tasso compose un gran numero di poesie
liriche, lungo l'arco di tutta la sua vita. Le prime furono pubblicate col titolo
di Rime degli Accademici Eterei. Uscirono Rime e prose. Tasso lavorò fino al
1593 ad un riordino complessivo dei testi, distinguendo rime amorose e rime
encomiastiche. Previde poi una terza sezione, dedicata alle rime religiose e
una quarta di rime per musica, ma non realizzò il progetto. Nelle Rime
amorose è ben riconoscibile l'influenza della poesia petrarchesca e della vasta
produzione petrarchistica del Quattrocento e Cinquecento; contemporaneamente,
però, il gusto per le preziosità linguistiche e l'intensa sensualità rivelano
l'evoluzione verso un linguaggio nuovo che maturerà nel Seicento. L'uso
frequente di forme metriche poco usate dai poeti precedenti, come il madrigale,
e la raffinata musicalità dei versi fecero sì che molti di essi fossero musicati
da grandi autori come Claudio Monteverdi e Gesualdo da Venosa. Più
solenni e classicheggianti le Rime encomiastiche, dedicate alle figure e alle
famiglie signorili che ebbero rilievo nella vita del poeta. Per la loro
creazione si ispira a Pindaro, Orazio e al celebre Monsignor della Casa. Fra
tutte, la più famosa è la Canzone al Metauro, intessuta di elementi
autobiografici. Le Rime religiose sono caratterizzate dal tono cupo e
plumbeo, forse dovuto al fatto che le scrisse negli ultimi anni di vita. Qui il
poeta manifesta il desiderio di sconfiggere l'ansia esistenziale e il
tormentoso senso del peccato attraverso la fede e l'espiazione. Discorsi
dell'arte poetica Attorno alla metà degli Anni Sessanta scrisse i quattro libri
dei Discorsi dell'arte poetica ed in particolare sopra il poema eroico, letti
all'Accademia Ferrarese e pubblicati molto più tardi, nel 1587, dal Licino. Il
testo fornisce una chiara visione della concezione tassesca del poema eroico,
piuttosto distante da quella ariostesca, che dava la prevalenza all'invenzione
e all'intrattenimento del pubblico. Perché possa essere giudicato di buon
livello, deve basarsi su un evento storico, da rielaborare in modo inedito.
Infatti, «la novità del poema non consiste principalmente in questo, cioè che
la materia sia finta, e non più udita; ma consiste nella novità del nodo e
dello scioglimento della favola. Al verosimile deve essere unito il
meraviglioso, e Tasso trova l'unione perfetta di queste due componenti nella
religione cristiana. Intiera, l'opera deve essere una, ossia prevedere l'unità
d'azione, ma senza schemi rigidi: ci può essere largo spazio per la varietà, e
per la creazione di numerosi racconti nel racconto, e in questo senso la
Gerusalemme liberata costituisce una piena realizzazione delle idee
dell'autore. Lo stile, infine, deve adeguarsi alla materia, e variare tra il
sublime e il mediocre a seconda dei casi. Aminta Magnifying glass icon
mgx2.svg Aminta (Tasso). Le sofferenze di Aminta, dipinto di Bartolomeo
Cavarozzi «L'Aminta non è un dramma pastorale e neppure un dramma. Sotto nomi
pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto lirico, narrazione
drammatizzata, anzi che vera rappresentazione, com'erano le tragedie e le
commedie e i così detti drammi pastorali in Italia … Essa è in fondo una
novella allargata a commedia, di quel carattere romanzesco che dominava
nell'immaginazione italiana, aggiuntavi la parte del buffone, che è il Ruffo,
la cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca de' due protagonisti,
Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si accavallano
con magica rapidità, appena abbozzati, e quasi semplice occasione a monologhi e
capitoli, dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla narrazione …
L'Aminta è un'azione fuori del teatro, narrata da testimoni o da partecipi con
le impressioni e le passioni in loro suscitate. L'interesse è tutto nella
narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori, il cui concetto è
l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: "s'ei piace, ei lice".
Il motivo è lirico, sviluppo di sentimenti idillici, anzi che di caratteri e di
avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci, soliloqui, comparazioni, sentenze,
movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza musicale, piena di grazia e
delicatezza, che rende voluttuosa anche la lacrima. Semplicità molta è
nell'ordito, e anche nello stile, che senza perder di eleganza guadagna di
naturalezza, con una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo.
Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata, che dà un'apparenza pastorale
a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo raffinato, e la stessa
semplicità è un raffinamento. A' contemporanei parve un miracolo di perfezione,
e certo non ci è opera d'arte così finamente lavorata.» (De Sanctis)
L'Aminta è una favola pastorale. Presenta un prologo, 5 atti, un coro. Ogni
canto si conclude a lieto fine. Ha ispirato la composizione della favola
pastorale Flori di Maddalena Campiglia lodata dallo stesso Tasso. Sulle
ali dell'entusiasmo per il successo dell'Aminta Tasso incominciò una tragedia,
Galealto re di Norvegia, che però interruppe alla seconda scena del secondo
atto. Il poeta la riprese e la completò a Mantova, subito dopo la liberazione
dall'Ospedale di Sant'Anna cambiando però il titolo, diventato Re Torrismondo,
e il nome del protagonista. L'ambientazione è nordica: in essa sono frequenti
le immagini di distese boschive. In questo, il Tasso mostra la sua forte
curiosità per le leggende nordiche, come ad esempio mostra la lettura dell'Historia
de gentibus septentrionalibus di Olao Magno. L'editio princeps è quella
bergamasca del 1587; seguirono a ruota le edizioni di Mantova, Ferrara, Venezia
e Torino, ma poi ci fu un lungo silenzio. L'opera fu rappresentata per la prima
volta soltanto al Teatro Olimpico di Vicenza. Trama Torrismondo è
intimamente segnato dal conflitto tra amore e amicizia: il sovrano (d'una
ignota regione nordica, non di Norvegia) ama Alvida, che a causa di un debito
passato (Germondo aveva salvato la vita a Torrismondo) deve sposarsi con
l'amico Germondo, re di Svezia, regno nemico a quello di Alvida poiché Germondo
stesso era stato accusato di omicidio del fratello di Alvida. Germondo dunque
non può sposarsi con la donna amata poiché il padre di quest'ultima lo odia. Germondo
decide allora che Torrismondo per sdebitarsi avrebbe dovuto chiedere la mano di
Alvida e al momento delle nozze avrebbe dovuto scambiare la sposa. Ottenuta da
Torrismondo la mano di Alvida i due consumano l'amore. La storia prenderà
un'altra china quando Torrismondo scoprirà che la donna amata non è altri che
la sorella, la situazione culminerà nel suicidio dei due. Il Re Torrismondo è
molto importante perché anticipa le tragedie barocche, nelle quali si
riprendono alcune caratteristiche fondamentali delle tragedie senecane: la
meditatio mortis (il Memento mori) e il gusto dell'orrido. Nel Tasso, però, ciò
che compare fortemente e caratterizza le sue tragedie è il conflitto intimo che
dilania l'animo dei personaggi: l'uomo si sente intrappolato dal fato, poiché
impossibilitato all'agire, a modificare il corso degli eventi ormai già
predisposti. Tuttavia, la critica non si è espressa positivamente in
merito all'opera: Angelo Solerti e Francesco D'Ovidio si sono mostrati ostili
verso il Torrismondo come lo erano stati nei confronti degli Intrichi d'amore,
e severo si è dimostrato anche Umberto Renda, che alla tragedia ha dedicato una
monografia. Ancora più duro il giudizio
di Eugenio Donadoni, che arrivò a parlare di «opera di un ex-poeta, non più di
un poeta, e nemmeno Giosuè Carducci, pur
apprezzando lo sforzo di unire elementi pagani e religiosi, classici ed
esotici, ha ritenuto il dramma degno dell'ingegno tassesco. Solo Tonelli fa
presente che superava pur sempre «la maggior parte delle tragedie cinquecentesche
e rivaleggiava con le migliori del tempo. Gerusalemme liberata Gerusalemme
liberata. Tasso con la sua Gerusalemme liberata La Gerusalemme liberata è
considerata il capolavoro di Tasso. Il poema tratta di un avvenimento realmente
accaduto, ossia la prima crociata. Tasso iniziò a scrivere l'opera con il
titolo di Gierusalemme durante il soggiorno a Venezia. L'opera fu pubblicata
integralmente con il titolo di Gerusalemme liberata. In seguito alla
pubblicazione del poema il poeta rimise mano all'opera e la riscrisse
eliminando tutte le scene amorose e accentuando il tono religioso ed epico
della trama. Cambiò anche il titolo in Gerusalemme conquistata. In realtà la
Conquistata fu immediatamente dimenticata e la redazione che continuò ad avere
grande successo e ad essere ristampata, in Italia e nei paesi stranieri, fu la
Liberata. Trama Goffredo di Buglione nel sesto anno di guerra raduna i
crociati, viene eletto comandante supremo e stringe d'assedio Gerusalemme. Uno
dei guerrieri musulmani decide di sfidare a duello il crociato Tancredi. Chi
vince il duello vince la guerra. Il duello però viene sospeso per il
sopraggiungere della notte e rinviato. I diavoli decidono di aiutare i
musulmani a vincere la guerra. Uno strumento di Satana è la maga Armida che con
uno stratagemma riesce a rinchiudere tutti i migliori eroi cristiani, tra cui
Tancredi, in un castello incantato. L'eroe Rinaldo per aver ucciso un altro
crociato che lo aveva offeso viene cacciato via dal campo. Il giorno del duello
arriva e poiché Tancredi è scomparso viene sostituito da un altro crociato
aiutato da un angelo. I diavoli aiutano il musulmano e trasformano il duello in
battaglia generale. I crociati sembrano perdere la guerra quando arrivano gli
eroi imprigionati liberati da Rinaldo che rovesciano la situazione e fanno
vincere la battaglia ai cristiani. Goffredo ordina ai suoi di costruire una
torre per dare l'assalto a Gerusalemme ma Argante e Clorinda (di cui Tancredi è
innamorato) la incendiano di notte. Clorinda non riesce a entrare nelle mura e
viene uccisa in duello proprio da colui che l'ama, Tancredi, che non l'aveva
riconosciuta. Tancredi è addolorato per aver ucciso la donna che amava e solo
l'apparizione in sogno di Clorinda gli impedisce di suicidarsi. Il mago Ismeno
lancia un incantesimo sul bosco in modo che i crociati non possano ricostruire
la torre. L'unico in grado di spezzare l'incantesimo è Rinaldo, prigioniero
della maga Armida. Due guerrieri vengono inviati da Goffredo per cercarlo e
alla fine lo trovano e lo liberano. Rinaldo vince gli incantesimi della selva e
permette ai crociati di assalire e conquistare Gerusalemme. I Dialoghi La
stesura di prose dialogiche impegnò Tasso fin dal 1578, anno della composizione
del Forno overo de la Nobiltà. La dialogistica tassiana è stata da sempre
relegata al margine dalla critica: De Sanctis accenna soltanto al Minturo overo
della Bellezza, limitandosi ad asserire che Tasso da giovane fu “infetto dalla
peste filosofica”. Un giudizio a dir poco sminuente se si considera che il
poeta compose venticinque dialoghi (e questa è solo la cifra canonica; non si
fa riferimento, infatti, agli abbozzi e ai rimaneggiamenti) e vi pose il suo
impegno fino alla morte. Una valutazione più precisa è fornita da
Donadoni: lo studioso dedica un intero capitolo della sua monografia ai
Dialoghi indagandone trame, fonti e suggestioni. La prima edizione moderna
del corpus dialogico tassiano è quella di Guasti, il quale, però, non riuscendo
a reperire tutti i manoscritti dei Dialoghi si basa sui testimoni a stampa,
dando vita ad un’edizione, che presenta corruttele da far rabbrividire i
moderni filologi. Un grande passo in avanti nella fortuna dei Dialoghi è
rappresentato dall’edizione critica di Ezio Raimondi pubblicata nel 1958, di
capitale importanza per gli studiosi tassiani i quali, ancora oggi, continuano
a considerarla punto di riferimento. Raimondi considerò i Dialoghi tassiani
come opere postume, scegliendo la versione più attendibile fra manoscritti e
stampe in base alla loro storia individuale. Questo criterio non è stato
accettato da Stefano Prandi e Carlo Ossola, i quali hanno proposto un’edizione
storica dei Dialoghi che tenesse conto dei testi effettivamente circolanti
all’epoca dello scrittore. L’edizione in realtà non ha mai visto la luce e si è
fermata al 1996 ad uno specimen che avrebbe dovuto anticipare una successiva
edizione completa. Negli ultimi anni gli studiosi della prosa tassiana
sono aumentati: si è posta attenzione al Tasso politico, con due edizioni commentate
della Risposta di Roma a Plutarco e al Tasso egittologo di cui si è occupato
Bruno Basile. Non mancano letture dei singoli dialoghi: Basile e Arnaldo Di
Benedetto si sono occupati del Padre di Famiglia (rispettivamente, Fonti
culturali e invenzione letteraria nel «Padre di famiglia» di Torquato Tasso; e
Torquato Tasso, «Il padre di famiglia»); Emilio Russo del Manso (Amore e
elezione nel "Manso" di Tasso), Massimo Rossi del Malpiglio Secondo e
del Rangone (Io come filosofo era stato dubbio. La retorica dei "Dialoghi"
di Tasso); Maiko Favaro, dopo la monografia di Prandi/Ossola, ha offerto una
puntuale lettura del Forno, premiata con il premio Tasso (Le virtù del tiranno e le passioni
dell’eroe. Il “Forno overo de la Nobiltà” e la trattatistica sulla virtù
eroica); Angelo Chiarelli si è, invece, occupato del Malpiglio overo de la
corte (Una «congregazione di uomini raccolti per onore». Tentativi di
aggiornamento della teoria cortigiana nella dialogistica e nella prosa tassiana),
preceduto dal contributo di Massimo Lucarelli sullo stesso argomento (Il nuovo
«Libro del Cortegiano»: una lettura del «Malpiglio» di Tasso) e del Costante
(«Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per una contestualizzazione
de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso). L'edizione critica di
Raimondi fornisce il testo dei venticinque dialoghi tassiani, con un'appendice
che ci permette di conoscere i manoscritti superstiti e le stampe. Questo il
titolo dei vari dialoghi: Il Forno overo de la Nobiltà; Il Beltramo overo
de la cortesia; Il Forestiero Napoletano overo de la gelosia; Il N. overo de la
pietà; Il Nifo overo del piacere; Il messaggiero; Il padre di famiglia; De la
dignità; Il Gonzaga secondo overo del giuoco; Dialogo; Il Rangone overo de la
pace; Il Malpiglio overo de la corte; Il Malpiglio secondo overo del fuggir la
moltitudine; La Cavalletta overo de la poesia toscana; Il Gianluca overo de le
maschere; Il Cataneo overo de gli idoli; Il Ghirlinzone overo l'epitaffio; La
Molza overo de l'amore; Il Costante overo de la clemenza; Il Cataneo overo de
le conclusioni amorose; Il Manso overo de l'amicizia; Il Ficino overo de
l'arte; Il Minturno overo de la bellezza; Il Porzio overo de le virtù; Il Conte
overo de le imprese. Le sette giornate del mondo creato È un poema in endecasillabi
sciolti, accanto ad altre opere di contenuto religioso di impronta chiaramente
controriformistica. Il poema venne pubblicato postumo. Si fonda sul racconto
biblico della creazione ed è suddiviso in sette parti, corrispondenti come dice
il titolo ai sette giorni nei quali Dio creò il mondo, e presenta una continua
esaltazione della grandezza divina della quale la realtà terrena è un
pallido riflesso. Le lacrime di Maria Vergine e Le lacrime di Gesù Cristo
Si tratta, come nel caso de Le sette giornate del mondo creato, di due scritti
facenti parte delle cosiddette "opere devote" del Tasso. Nello
specifico, sono due poemetti in ottave che riprendono la tradizione della
"poesia delle lacrime", in voga nella seconda metà del Cinquecento,
appena qualche anno prima della morte. Influenze culturali Statua
di Tasso a Sorrento La figura del Tasso, anche per la sua pazzia, divenne
subito popolare. La lucidità delle opere scritte durante il periodo di
prigionia nell'Ospedale di Sant'Anna fece diffondere la leggenda secondo cui il
poeta non era veramente pazzo ma fu fatto passare per tale dal duca Alfonso che
voleva punirlo per aver avuto una relazione con sua sorella, imprigionandolo
(anche se, come si è visto, è assai più probabile che la vera ragione della reclusione
consistesse nell'autoaccusa del poeta di fronte al tribunale
dell'Inquisizione). Questa leggenda si diffuse rapidamente e rese
particolarmente popolare la figura del Tasso, fino a ispirare a Goethe il
dramma Torquato Tasso (1790)[129]. In età romantica il poeta divenne il
simbolo del conflitto individuo-società, del genio incompreso e perseguitato da
tutti coloro che non sono in grado di comprendere il suo talento straordinario.
In particolare Giacomo Leopardi, che quando si recò a Roma il giorno venerdì 15
febbraio del 1823 pianse sul sepolcro del Poeta in S. Onofrio (commentando in
una lettera che quella esperienza era stata per lui "il primo e l'unico
piacere che ho provato in Roma"), considerava Torquato Tasso come un
fratello spirituale, ricordandolo in numerosi passi dei propri scritti (tra cui
quello citato) e nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (una
delle Operette morali). Molta parte della poesia recanatese è impregnata
di stile tassesco: i notturni di alcuni canti, come La sera del dì di festa o
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, richiamano quelli della
Gerusalemme, mentre nella canzone Ad Angelo Mai Leopardi crea una forte empatia
con il «misero Torquato, spirito fraterno «concepito come un alter ego. I due
nomi femminili più celebri presenti nei Canti, Silvia e Nerina, furono ripresi
dall'Aminta. In generale, l'attenzione si spostò dai personaggi della
Liberata al dramma esistenziale vissuto dal suo autore. Ferretti scrisse le
parole del Torquato Tasso, melodramma in tre atti musicato da Gaetano Donizetti
e rappresentato per la prima volta al Teatro Valle. Il "mito"
conquistò anche Franz Liszt: era quando l'apostolo del Romanticismo metteva in
musica l'opera byroniana Il lamento del Tasso, dando vita al poema sinfonico
Tasso. Lamento e Trionfo. Il poeta vicentino ottocentesco Jacopo Cabianca
ha dedicato al Tasso un poema in dodici canti intitolato appunto Il Torquato
Tasso. Nei primi anni del ventesimo secolo il compositore catanese Pietro
Moro si concentrò sugli ultimi momenti di vita del poeta con Ultime ore di
Torquato Tasso, carme in un atto sulle parole di Giovanni Prati (riviste per
l'occasione da Rojobe Fogo). Torquato Tasso nel cinema Torquato Tasso,
regia di Luigi Maggi, Torquato Tasso, regia di Roberto Danesi. Adattamenti
cinematografici de La Gerusalemme liberata Il primo regista a girare un film
sull'opera fu Enrico Guazzoni. Ne farà due remake; Gerusalemme liberata,
di Enrico Guazzoni; La Gerusalemme liberata, di E. Guazzoni); La Gerusalemme
liberata, di Carlo Ludovico Bragaglia; I due crociati, parodia di Giuseppe
Orlandini con Franco e Ciccio. Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus,
Laurea poetica nastrino per uniforme ordinariaLaurea poetica (postuma) — Roma.
Giovan Pietro D'Alessandro, Vita di Torquato Tasso, ed. da C. Gigante, in
«Giornale storico della Letteratura Italiana», Giovan Battista Manso, Vita di
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Trattati, raccolte epistolari, vite paradigmatiche, ovvero come essere un buon
segretario nel Rinascimento, Atti del XIV Convegno Internazionale di Studio
organizzato dal Gruppo di Studio sul Cinquecento francese, Verona, Rosanna
Gorris Camos, Fasano, Schena, Umberto Lorenzetti, Cristina Belli Montanari,
L'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Tradizione e rinnovamento
all'alba del Terzo Millennio, Fano Sulle Rime Arnaldo Di Benedetto, Fra
petrarchismo e Barocco: le «Rime» di Torquato Tasso, «A me versato il mio dolor
sia tutto», Lo sguardo di Armida (Un'icona della «Gerusalemme liberata»), Per
un anonimo in meno: l'autore del dialogo «Il Tasso», in Tra Rinascimento e
Barocco. Dal petrarchismo a Torquato Tasso, Firenze, Società Editrice
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seleniche nelle Rime di Torquato Tasso, in «Griseldaonline», 1Sull'«Aminta»
Mario Fubini, L'«Aminta»: intermezzo alla tragedia della «Liberata», in Studi
sulla letteratura del Rinascimento, cMaria Grazia Accorsi, «Aminta»: ritorno a
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dell'«Aminta», in «Giornale storico della letteratura italiana», Arnaldo Di
Benedetto, Tasso, Haller, Ungaretti, in «Studi tassiani», Sui Dialoghi A.
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letteraria italiana. Dal Trecento al tardo Cinquecento, Pasquale Guaragnella e
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Guido, L’arte del dialogo in Torquato Tasso, in «Studi Tassiani», Guido Armellini e Adriano Colombo, Torquato
TassoL'uomo, in Letteratura italianaGuida storica: Dal Duecento al Cinquecento,
Zanichelli Editore, Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e
l'interpretazione, Palumbo, L. Tonelli, Tasso, Torino); Lettere di Torquato
Tasso (Firenze, Le Monnier); L. Tonelli, G. Natali, Torquato Tasso, Roma, G.
Natali, cA. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino. Altri pensano invece che
queste sperimentazioni risalgano al periodo patavino o addirittura a quello
bolognese. G. Natali, cit., Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e
l'interpretazione, Palumbo, G. Natali, cG. Natali, cit.20 L. Tonelli, cit.68 G. Natali,
L. Tonelli, cit.60 E. Durante, A.
Martellotti, «Giovinetta Peregrina». La vera storia di Laura Peperara e
Torquato Tasso, Firenze, Olschki, W.
Moretti, Torquato Tasso, Roma-Bari Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Dal testo
alla storia. Dalla storia al testo, Milano: Paravia, L. Tonelli, cil rapporto amoroso è stato
ipotizzato in particolare da Angelo de Gubernatis in T. Tasso, Roma, Tipografia
popolare, L. Tonelli, c Lettere, cit., I22
L. Tonelli, cit.89 L. Tonelli,
cit., 99-100 Lettere, cit., I49 Secondo Maria Luisa Doglio la data non è casuale
e si inserirebbe nella tradizione petrarchesca. Petrarca avrebbe infatti visto
per l'unica volta Laura, cfr. M. L. Doglio, Origini e icone del mito di
Torquato Tasso, Roma Lettere, c Lettere,
Lettere, cit., I114 Si tratta di
un'epistola al Gonzaga del luglio 1575; Lettere, cit., L. Tonelli S. Guglielmino, H. Grosser, Il
sistema letterario, Milano, Principato, L. Tonelli, Lettere, Si trattava comunque di uno stipendio
oggettivamente basso, che a una persona comune avrebbe garantito a stento la
sopravvivenza; L. Tonelli, cit.172
Lettere, L. Chiappini, Gli Estensi, Milano, Dall'Oglio, A. Solerti, cA.
Solerti, cit., II, 120-121 A. Solerti, L. Tonelli, cit. G. B. Manso,
Vita del Tasso, in Opere del Tasso, Firenze, M. Vattasso, Di un gruppo
sconosciuto di preziosi codici tasseschi, Torino, M. Vattasso, cA. Solerti, L.
Tonelli, c M. L. Doglio, I. De Bernardi, F. Lanza, G. Barbero, Letteratura
Italiana, 2, SEI, Torino, 1987 Lettere, cit., I298 Lettere, cit., I299 A. Solerti, ccosì scrive al cardinale Luigi
un suo informatore L. Tonelli, Lettere, cit., II89 L. Tonelli, cit.187 A. Solerti,
Lettere, Cesare Guasti, Napoli, Rondinella, A. Corradi, Delle infermità di Torquato
Tasso, Regio Instituto Lombardo548 L.
Tonelli, M. L. Doglio, cit., 41 e
ss. Opere di Torquato Tasso, Firenze,
Tartini e Franchi, L. Tonelli, cInfarinato era il nome accademico assunto dal
Salviati Tra parentesi sono indicate le
date di pubblicazione L. Tonelli, Opere,
cit., II276 Tra parentesi si indicano
due date, quella di composizione e quella di pubblicazione Lettere, cit., II56 La prima versione di quelli che saranno Gli
intrichi d'amore non ci è pervenuta L.
Tonelli, L. Tonelli, F. D'Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, Non fu più
tenero il Solerti; L. Chiappini, c L. Tonelli, cit.188 L.Tonelli,
247-248 A. Solerti, cLettere, L.
Tonelli, cit., 266-267 Lettere, c L. Tonelli, cG. Mazzoni, Del Monte
Oliveto e del Mondo creato di Torquato Tasso, in Opere minori in versi di
Torquato Tasso, Bologna, Zanichelli, E. Donadoni,
Torquato Tasso, Firenze, Battistelli, G.
B. Manso, Vita di T. Tasso, in Opere di Torquato Tasso, Firenze; Lettere, Così
al Costantini; Lettere, Lettere, L. Tonelli, cit.275 Passo riportato in A. Solerti, A.
Solerti, L. Tonelli, Lettere, Lettere, cit.,Lettere, cit., Lettere, A niuno
sono più obligato che a Vostra Eccellenza, ed a niuno vorrei essere
maggiormente; perché è cosa da animo grato l'esser capace de le grazie e de gli
oblighi. Laonde non ho voluto più lungamente ricusare il secondo suo dono
di cento scudi, bench'io non abbia mostrato ancora alcuna gratitudine del
primo; ma la conservo ne l'animo, e ne le scritture: e ne l'uno sarà forse
eterna, e ne l'altre durerà tanto, quanto la memoria de le mie fatiche. Niuno
de' presenti o de' posteri saprà chi mi sia, che non sappia insieme quant'io
sia debitore a la cortesia di Vostra Eccellenza, ed a la sua liberalità; con la
quale supera tutti coloro che possono superar la fortuna." Così scrive il
Tasso al marchese Giovanni Ventimiglia da Firenze nella primavera del 1590.
Soltanto nello stesso 1590, il Tasso dedicherà al marchese due composizioni
encomiastiche, non portando però a compimento il promessogli poema Tancredi
normando. Lettera a Scipione Gonzaga,
Lettere. E. Rossi, Il Tasso in Campidoglio, in Cultura, Lettere, cit., V6 L. Tonelli, cit.278 Lettere, cit., V62 L. Tonelli, cit., 278-279
C. Cipolla, Le fonti storiche della «Genealogia di Casa Gonzaga», in
Opere minori in versi di Torquato Tasso, cit.,
I L. Tonelli, G. B. Manso,
L.Tonelli, L. Tonelli, E. Rossi, c A. Solerti, cit., II
Lettere, cit., V194 Lettere,
cLettera ad Antonio Costantini, in Lettere, Lettera di Maurizio Cataneo a
Ercole Tasso, 29 aprile 1595; A. Solerti, cit., II363 Lettera di monsignor Quarenghi a Giovan
Battista Strozzi, A. Solerti, cAlmanach du gotha, de J.-H. de Randeck, Les plus
anciennes familles du monde: répertoire encyclopédique des 1.400 plus anciennes
familles du monde, encore existantes, originaires d'Europe, de Karl Hopf, Historisch-genealogischer
Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit, de A. M. H. J. Stokvis, Manuel
d'histoire: Les états de Europe et leurs colonies, de Pierantonio Serassi, La
vita de Torquato Tasso8. de Niccolò
Morelli di Gregorio, Della vita di Torquato Tasso, de Pierantonio Serassi, La
vita di Torquato Tasso10. (DE) de Karl
Hopf, Historisch-genealogischer Atlas: Seit Christi Geburt bis auf unsere Zeit,
de Heinrich Léo Dochez, Histoire d'Italie pendant le Moyen-âge T. Tasso,
Discorsi dell'arte poetica, I, 12 in Le prose diverse di Torquato Tasso (C.
Guasti), Firenze, Le Monnier, 1875
Discorsi dell'arte poetica, cit., I, 15
A. Solerti, F. D'Ovidio, Saggi critici, Napoli, Morano, U. Renda, Il
Torrismondo di Torquato Tasso e la tecnica tragica nel Cinquecento, Teramo, E.
Donadoni, G. Carducci, Il Torrismondo, testo premesso all'ed. Solerti delle
Opere minori in versi di Torquato Tasso, L. Tonelli, cit.253 Torquato Tasso, Risposta di Roma a Plutarco,
Res, Risposta di Roma a Plutarco e marginalia | Edizioni di Storia e
Letteratura, su storiaeletteratura. Angelo Chiarelli, Una «congregazione di
uomini raccolti per onore». Tentativi di aggiornamento della teoria cortigiana
nella dialogistica e nella prosa tassiana, in «La Rassegna della letteratura italiana»,, 121, n°1,
34-43.. 12 agosto. «Questa concordia è sempre nelle cose vere». Note per
una contestualizzazione de «Il Costante overo de la clemenza» di Tasso, in
«Filologia e Critica», Sul muro esterno della Chiesa di S. Onofrio, a Roma, una
tavola con iscrizione tedesca ricorda il soggiorno di Goethe e l'ispirazione
che lo portò a scrivere il dramma, dopo aver veduto la tomba del poeta
custodita all'interno dell'edificio sacro
Ad Angelo Mai, v. 124 G. Baldi,
S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria, Dal testo alla storia dalla storia al
testo, Milano, Paravia, S. E. Failla, Ante Musicam Musica. Torquato Tasso
nell'Ottocento musicale italiano, Acireale-Roma, Bonanno, Emersioni seleniche
nelle Rime di Torquato Tasso | Massimo Colella | Griselda Online, su
griseldaonline. 2Torquato Tasso, commedia goldoniana Tasso, dramma di Goethe,
Torquato Tasso, opera di Gaetano Donizetti Dialogo di Torquato Tasso e del suo
Genio familiare, dalle Operette morali di Giacomo Leopardi Thurn und Taxis,
ramo austriaco della famiglia Tasso di Bergamo, fondatori delle prime poste
europee Museo tassiano, museo dedicato a Torquato Tasso Accademia dei Catenati
Cella del Tasso, attuale ubicazione a Ferrara. TreccaniEnciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
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segregazioni: il Cantico spirituale di Giovanni della Croce e Il Re Torrismondo
di Torquato Tasso, su midesa). Opere di Torquato Tasso colle controversie sulla
Gerusalemme poste in migliore ordine, ricorrette sull'edizione fiorentina, ed.
illustrate dal professore Gio. Rosini, Pisa, presso Niccolò Capurro, Le lettere
di Torquato Tasso disposte per ordine di tempo e illustrate da Cesare Giusti, 5
voll., Firenze, Felice Le Monnier, I dialoghi, Cesare Guasti, Firenze, Felice
Le Monnier, Le rime di Torquato Tasso. Edizione critica su i manoscritti e le
antiche stampe Angelo Solerti, 4 voll., Bologna, presso Romagnoli-Dall'Acqua,
Opere di C.. DELL'ARTE DEL DIALOGO. Voi mi pregate, pad* molto reverendo,
nelle vostre lettere, eh' io voglia darvi alcuno ammaestramento: e i chiedete,
se non m'inganno, dello scrivere i dialoghi, perchè son quelle medesime
nelle quali m'av- visate d' aver ricevuti quelli della poesia toscana e
della pace. E se propriamente ragionale, io non posso compiacervi, perchè
tanto a me disdioevol sarebbe la persona di maestro, quanto a voi quella
di sco- lare: né rifiutandola io temo di poterne esser biasimato, come
Giotto, perch'agli ricusò convenevole onore: io non accetto ufficio non
conveniente. Bla se volete onorarmi con questo nome, e ammaestramento
chiamate l' opinione» io la scriverò; perchè niuna cosa debbo tenervi celata,
la qual possa giovar agli altri, oppure a me stesso'; ed allora sti- merò
buone le mie ragioni» che dal vostro giudicjo saran confermate. E se
-delle regola avviene quel che delie leggi : siccome altre leggi hanno i
Genovesi diverse da quelle oV Veneziani o de/ Ragusei, oasi potrebbero avere
altri precetti nell'artificio del bene scrivere» Ma io non gli voglio dar
questo nome, nò voi gliele scrivete in fronte ; perciocché io l'ho
raccolte in un'operetta assai breve per assomigliar alcuni dottori
cortigiani, i quali' non potendo sostener persona così grave, vestono di
corto. E a' in questo abito potranno sensa fastidio esser lette dagli
amid ' e da parenti, non v' incresca di leggere.Nell'imitazione o
s'imitano l' azioni degli uomini o i ragionamenti: e quantunque poche
operazioni si facciano alla mutola, e pochi discorsi senza operazione,
almeno dell' intelletto, nondimeno assai diverse giu- dico quelle da
questi : e degli speculativi è proprio il discorrere, sicco- me degli
attivi l'operare. Due sàran dunque i primi generi dell'imi- tazione: l'un
dell'azione, nel quale son rassomigliati gli operanti: l' altro delle
parole, nel quale sono introdotti i ragionanti. E. 1 primo genere si
divide in altri, che sono la tragedia e la commedia, ciascuna delle quali
patisce alcune divisioni: e '1 secondo si può divider pari- mente. Ed
Aristide un de' più famosi Greci, i quali scrissero e non parlarono, così
parve che gli dividesse, dicendo che Platone avea comi- camente
rappresentato Ippia, Prodico, Protagora, Gorgia, Eutedemo, Bonisidoro,
Agatone, Cinesia e gli altri: e ch'egli medesimo chiama le sue leggi
tragedia, e si confessa ottimo tragico. Ma tra' moderni v*è chi gli
divide altramente, facendone tre specie: l'una delle quali può montare in
palco, e si può nominare rappresentativa, perciocché in essa vi
siano persone introdotte a ragionare cioè in alto, com' è usanza di
farsi nelle commedie e nelle tragedie: e simil maniera è tenuta da
Platone nei suoi Ragionamenti, e da Luciano ne' suoi; ma un'altra ce n'
è, che non può montare in palco, perciocché conservando1' autore la"
sua persona, come isterico narra quel che disse il tale e '1 cotale: e
questi due ragionamenti si possono domandare istorici o narrativi, e tali
sono per- lo più quelli di Cicerone. E c'è ancora la terza maniera ed è
di quelli, che son mescolati della prima e della seconda maniera,
conservando l'autore la sua prima persona, e narrando come istorio): e
poi introducendo a favellar tyafiarix&s come s'usa <fi far nelle
tra- gedie e nelle commedie: e può e non montare in palco, cioè non
può montarvi, in quanto l' autore conserva la sua persona ed è come 1*
isto- rico: e può montarvi in quanto s'introducono le persone
rappresenta- tivamente a favellare: e Cicerone fece alcuni ragionamenti
sì fatti. E quantunque questa- divisione sia tolta dagli antichi e paia
diversa dal- l' altra, nondimeno l'intenzione forse è l'istessa; perchè
la tragedia si divide in quella che si dice tragedia propriamente, e
nell'altra nella qual parla il poeta: e tragedia sì fatta compose Omero.
E questa divi- stone perchè è fatta in due membri, è più perfetta;
nondimeno i àia- Ioghi sono stati detti tragici e comici per
similitudine, perchè le trage- die e le commedie propriamente sono
l'imitazione dell'azione; però tragici si posson chiamar sopra tutti gli
altri il Critone e 1 Fedone: Dell' un de' quali Socrate condannato alla
morte, ricusa di fuggirsene con gli amici: nell'altro dopo lunga
deputazione dell' immortalità del- l'anima bee il veleno. E comico è il
convito nel quale Aristofane è impedito dal rutto nel favellare; ed
Alcibiade ubriaco si mescola fra i convitati. Ma il Menesseno par misto
di queste due specie: perciocché Socrate battuto dalla maestra Aspasia è
persona comica; ma lodando i morti ateniesi innalza il dialogo all'
altezza della tragedia. Pur questi medesimi dialoghi non son vere tragedie,
ovvero commedie; perchè nell' une e nelT altre le quistioai e i
ragionamenti son descritti per l'azione; ma ne' dialoghi l'azione è quasi
giunta de' ragionamenti : e 8' altri la rimovesse, il dialogo non
perderebbe la sua l'orma. Dunque in lui queste differenze sono
accidentali piuttosto che • altramente ; ma le proprie si terranno dal
ragionamento jslesso e da' problemi in lui contenuti, cioè dalle cose
ragionate, non sol dal modo di ragionare. Per eh' i ragionamenti sono o
di cose che appartengono alla contempla- zione, oppur di quelle che son
convenevoli all' azione e negli uni sono i problemi intenti all' elezione
e alla fuga, negli altri quelli che riguar- dano la scienza, e là verità;
laonde alcuni dialoghi debbono esser detti civili e costumati,, altri
speculativi. E '1 soggetto degli uni e degli altri; o sarà la quistione
infinita, come se la virtù si possa insegnare; o la finita che debba far
Socrate condannato alla morte. E perciocché gran parte de' platonici
dialoghi sono speculativi e quasi in tutti la quistione è infinita, non
pare che lor si convenga la scena in modo alcuno, né meno agli altri che
son de' costumi, perchè son pieni d' altissime spe- culazioni. Anzi
piuttosto non si conviene ad alcun dialogo, se non forse per rispetto
dell'elocuzione, la quale alcuna volta pare istrionica, sic- come disse
il Falereo, awengachè nella scena si rappresenti l'azione o atto dal
quale son denominate le favole e le rappresentazioni dramma-* tiche. Ma
nel dialogo principalmente s' imita il ^ragionamento il qual non ha
bisogno di palco: e quantunque vi fosse recitato qualche dia- logo di
Platone, l'usanza fu ritrovata dopo lui senza necessità. Perchè se in
alcuni luoghi l'elocuzione pare accomodata all'istrione, come nell'Eri-
demo, può leggersi dallo scrittore medesimo, ed aiutarsi colla pronuncia.
Né egli conviene ancora il verso, come hanno detto, mala prosa ;
perciocché la prosa è parlar conveniente allo speculativo e all' uomo
civile, il qual ragioni degli uffici e delle virtù. E i sillogismi, e
l'induzioni, e gli entimemi e gli esempi non potrebbono esser
convenevolmente fatti in versi. E se leggiamo alcun dialogo in versi,
come è l'amicizia bandita di Ciro predentissimo, non stimeremo lodevole
per questa cagione, ma per al* tra: e diremo, che il dialogo- sia
imitazione di ragionamento scritto in prosa senza rappresentazione per
giovamento degli uomini civili e spe- culativi : e ne porremo due specie,
1' una contemplativa, e Y altra co- stumata : e 1 soggetto nella prima
specie sarà la quistione infinita o la finita : e quale è la invola nel
poema, tale è nel dialogo la qui- stione : e dico la sua forma, e quasi Y
anima. Però se una è la favola, uno dovrebbe essere il soggetto, del
quale si propongono i problemi. E nel dialogo sono oltre di ciò T altre
parti, cioè la sentenza^ e '1 costume ,* e Y elocuzione ; ma trattiamo
prima della prima. Dico adunque, che la quistione si forma della dimanda
e della risposta; e perchè 1 dimandare s'appartiene particolarmente
al dialettico, par, che lo scrivere il dialogo sia impresa di lui : ma '1
dia- lettico non dee richieder più cose d' uno, oppur una cosa di molti
; perchè se altri rispondesse non sarebbe una V affermitene o la
ne- gazione: e non chiamo una cosa quella, ch'ha un nome solo se
non si fa una cosa di quelle: come l'uomo è animai con dne piedi e
mansueto : ma di tutte questo si fa una sola cosa ; ma dell' esser bianco e
dell'essere uomo e del camminare, come dice Ari- stotile, non se ne fa
uno; però s' alcuno affermasse qualche cosa, non sarebbe, una
affermazione ; ma una voce, e molte l' affermazio- ni. Se dunque
l'interrogazione dialettica ò una dimanda della ri- sposta, ovvero della
proposizione, ovvero dell'altra parto della con- tradizione: e la
proposizione è una parte della contradizione , a que- ste cose non sarà
una risposta, né una dimanda. Ma se al dimostrativo non s' appartiene il
dimandare, a lui non converrà di scriver dialo- go. E par, che Aristotile
assai chiaramente faccia questa differenza nel primo delle prime
risoluzioni fra la proposizkm dimostrativa e la dialettica, dicendo, che
la dimostrativa prende l'altra parte della contradizione; perciocché
'colui, il qual dimostra, non dimanda, ma piglia ; ma la dialettica è
dimanda della contradlzione. Nondimeno nel primo delle posteriori egli
dice, che s' è il medesimo l' interro- gazione sillogistica e la
proposizione : e le proposizioni si fanno in cia- scuna scienza, ancora
si posson fare le dimando. Laonde io raccolgo, che si posson fare i
dialoghi nell'aritmetica, nella geometria, nella musica e nell'
astronomia e nella morale e nella naturale e netta divina filosofia, e in
tutte F arti e in tutte le scienze si posson fu le richieste e
conseguentemente i dialoghi. E se oggi fossero in looe dell'arte del
dialogo i dialoghi scritti da Aristotile, non ce ne sarebbe perawentura
dubbio alcuno. Ma leggendo quei di Platone, i quali son pieni di proposizioni
appartenenti a tutte le scienze, potremo chiaramente conoscere lMstcsso.
Nondimeno siccome il dimandare è proprio al dialettico, così a lui si
conviene il dialogo più; che a tutti gl’altri. Laonde Aristotele nel capitolo
seguente pare, che faccia differenza fra le matematiche e ì dialoghi, dicendo,
che se fosse impossibile mostrar dal falso il vero, sarebbe facile il risolvere, perchè, si
convertirebbono di necessità. Ma si convertono più quelle, che son nelle
matematiche, perchè non ricevono alcuno accidente, e in ciò son
differenti da quelle, che son ne’ dialoghi. E dialoghi chiama i parlari
dialettici, i quali son composti della dimanda e della risposta. Al dialetttico
dunque converrà principalmente di scrivere il dialogo, o a colui, che vuol
rassomigliarsi. E'1 dialogo sarà imitazione d' una disputa dialettica. Va
perchè quattro sono i generi delle dispute, il dottrinale, il dialettico,
il tentativo e il contenzioso, l'altre dispute ancora si possono imitare
ne' dialoghi. E forse in quelli d'Aristotele sono tutte IV. Ma in quelli
di Platone si troverebbono similmente, perchè Socrate per via d' ammaestramento
e d'esortazione parla con Alcibiade, con Fedro e con Fedone, e come
dialettico disputa con Zenone, e con Parmenide;. e come tale riprova
Ippia, GORGIA, Trasimaco e gli altri sofisti e talora gli tenta. Ma i
sofisti son contenutosi, e vaghi di gloria, come appare nell' Eutiemo,
detto altramente il Litigioso. Nondimeno questi IV generi non sono così
partitamente distinti dagl’interpreti di Platone i quali pongono tre
mdftUre di dialoghi; l'una, nella quale Socrate esorta i giovanetti; nell’altra
riprova i sofisti; la terza è mescolata dell' una e dell' altra, la qual senza
dubbio è più soave per la mescolanza. Ma chi volesse scriver dialoghi
secondo la dottrina ó? Aristotele e arricchir di questo ornamento le scuole
peripatetiche, potrebbe scriverli in tutte IV le maniere. Ma
principalmente son lodevoli le due prime: la dottrinale e la dialettica,
l'artificio della quale consiste principalmente nella dimanda usata con
mollo artificio di Socrate ne’ libri di Platone, come appare nel primo
dialogo nel quale Socrate richiede ad Ipparco quel, che sia la cupidigia
del guadagno; e in tutti gli altri simiglianlt, non eccettuando quelli,
ne’ quali sotto la persona di forestiero ateniese dà le nuove leggi d’una
città: e 'n quelli di Senofonte ancora con arte molto simile Socrate
chiede a Critobulo se l'economia è nome di scienza, come la medicina
e l'architettura. E nel Tirreno Simonide a Jerone, che differenza aia fra
la vita reale e la privata: e dalla risposta, eh' è fatta, prendono
occasione d'insegnare. Ma da questo artificio si dipartì M. Tullio, Il quale
nelle partizioni oratorie pone la dimanda in bocca, non di quel, eh'
insegna, ma di colui, ch'impara. Ed. egli medesimo ci dimostra la
diversità fra i ROMANI in quelle parole di CICERONE: figlinolo,
tuo) dunque eh' io ti dimandi scambievolmente IN LINGUA LATINA di
quelle cose medesime, delle quali tu mi suoli addomandare nella Greca ordinatamente?
Laonde pare, che la dimanda, fatta dal discepolo, 6ia derivata da CICERONE,
e l' artificio sia proprio de’ROMANI, il quale s’usò dal Possevino e da
altri nella dottrina peripatetica, perchè forse è più facile. Ma è non
così lodevole, né fu, eh' io mi ricordi, usata dagl’antichi. E per questa
ragione M. Tullio nelle Quistioni Tuscalane più s' avvicina all' arte de’ Greci
; perciocch' egli comandava, che alcun de' suoi famigliari ponesse
quello, che gli pareva, ed egli contraddiceva alla conclusione in questo
modo. Auditore. La morte mi pare esser male. M. A quelli che son morti o
a quelli eh' han da morire P La quale è vecchia e Socratica ragione di
disputar contra l' altrui opinione. Tuttavolta il por la conclusione ha
dello scolastico: e però dice d'aver poste ne' V libri le scuole de' V giorni.
Tanto potè l' amor della filosofia in un vecchio senator romano, padre
della patria, il qual quistiona secondo il costume de' Greci forse per
ingannar se stesso in questo modo e consolarsi nella servitù. Ma non si
dimenticò ne’ libri dell' oratore di quel, eh' era convenevole a' romani
Senatori; laonde CRASSO e MARC’ANTONIO in altra maniera introduce a
favellare. Ma fra tutti i dialoghi Greci, lodevorrssimi sono que' di
Platone; perciocché superano gl’altri d'arte, di SOTTILITÀ, d'acume, e
d'eleganza e di varietà di concetti e d'ornamento di parole. E pel secando luogo
son quei di Senofonte; e quei di LUCIANO nel terso. Ma CICERONE è primo
fra' LATINI, il quale volle forse assomigliarsi a Platone: nondimeno nelle
quistioni, e nelle dispute alcuna volta è più simile agli oratori, che a'
dialettici. Ma nel secondo luogo non so che se gli avvicini, o chi possa
paragonare a' Greci. E NELLA NOSTRA LINGUA coloro, che hanno scritto
dialoghi, per la maggior parte hanno seguita la maniera meno artificiosa, nella
quale dimanda quegli, che vuole imparare, non quel, che riprova. E se alcuno
s'è dipartito da questo modo di scrivere, merita lode maggiore: e tanto
basti della prima parie, che è la quistione. Ma perchè il dialogo è imitazione
del ragionamento, e il dialogo dialettico imitazione della disputa, è
necessario, che i ragionanti e i disputanti abbiano qualche opinione delle
cose disputate, e qualche costume, il qual si manifesta alcuna volta nel
disputare. Da quelli derivano l'altre due parti nel dialogo, io dico la
sentenza, e il costume: e lo scrittore del dialogo deve imitarlo non
altramente, che faccia il poeta ; perchè egli è quasi mezzo fra il poeta
e ri dialettico. E niun meglio l'imita, e meglio l'espresse di Platone,
che, descrive nella persona di Socrate il costume d'un uomo dabbene, che
ammaestra la gioventù, e risveglia gli ingegni taidl e raffrena i
precipitosi, e richiama gli erranti, e riprova la falsità de' sofisti, e
confonde l'insolenza e la vanità, amator del giusto e del vero, magnanimo,
non che. mansueto nel tollerar l'ingiurie, intrepido nella guerra, costante
nella morte. Ma in quella d'Ippia, e di GORGIA DI LEONZIO, e d'Eutidemo, e degl’altri
sì fatti si descrivono gl’avari, e ambiziosi, e amatori di gloria, i quali non
hanno vera scienza d'alcuna cosa, ma parlano per opinione. In quella di
Menoue e di Grifone descrive il buon padre e il buon amico, e in quella
d'Alcibiade, di Fedro, e di Carmide i costumi de' nobili son descritti
maravigliosamente. Oltra queste parti del dialogo ci sono le digressioni, come
nel poema gli episodj : e tale è quella d' Eaco, e di Minos, e di
Radamanto nel GORGIA, e quella di Teutdemone degl’Egizi nel Fedro, d'Ero
Panfilio ne' dialoghi della Repubblica. Ma perchè abbastanza s'è ragionato del
soggetto del dialogo, e della sentenza, e de' costumi di coloro, che sono
introdotti a favellare; resta, che parliamo dell'ultima parte, la quale è
l'elocuzione: e se crediamo ad Artemone, che ricopiò l'epistole
d'Aristotele, bisogna scriver col medesimo stilo il dialogo e l'epìstola,
perchè il dialogo è quasi una sua parte. Ma Demetrio Falereo dice, che il
dialogo è imitazione del ragionare all'improvviso. Ma l'epistola si
scrive, e si manda in dono in qualche modo. Però dee esser fatta e polita
con maggiore studio. Tultavolta nò Platone, ne M. Tullio pare, che sempre
avessero questa considerazione. Perchè ne' dialoghi l'elocuzione dell'uno e dell'altro
non è meno ornata, che quella dell'epistole: e in tutti gli altr’ornamenti i
dialoghi paiono superiori. E ciò non par fatto senza molta ragione. Conciossiacosaché
i dialoghi di Platone e di M. Tullio sono imitazione de' migliori, e
nell'imitazioni sì fatte, le persone e le cose imitate debbono piuttosto
accrescere che diminuire, come ci insegna Demetrio medesimo, il qual vuole, che
la magnificenza sia nelle cose, se il parlare è del cielo o della terra.
Oltre di ciò laddov/egli parla od periodo ne fa tre generi : il primo
isterico, il secondo dialogico» il teno oratorio: e vuole, che ristorico
sia nel meno dell'uno e dell'altro, non molto ritondo, né molto rimesso:
ma la forma dell'oratorio sia contorta e circolare: e quella del
dialogico più semplice dell'istoria) in guisa che appena dimostri d'
esser periodo. I quali ammaestramenti sono stati meglio osservati da'
Greci, che, da M. Tullio, che imitò Platone solamente; perchè egli così nel
periodo, come in tiascun'-altra parte, ricercò la grandezza più dr
Senofonte e degli altri. Laonde usa le metafore pericolosamente in luogo
delle Immagini, che sono osate da Senofonte: e somiglia colui, 11 quale
cammina in luogo, dove è peri- colo di Bdrucciolare, compiacendo a se
medesimo, e avendo molto ar- dire, siccome è proprio delle nature sublimi
; talché fu detto di lai, ch'egli molto s'innalzava sovra il parlar
pedestre: e che il suo par- lare non era in tutto, simile al verso, né in
tutto simile alla prosa : e ch'egli usava l'ingegno non altramente, che i
re facciano la podestà: e insomma niun ornamento di parole, niun color
rettorico, ninn lume d'orazione par, che sia rifiutato da Platone. Ma s’in
alcuna parte del dialogo dobbiamo aver risguardo agli avvertimenti di
Demetrio, è in quella, nella qual si disputa , perchè in lei si conviene
la purità, e la simplicità dell'elocuzione, e '1 soverchio ornamento par
che impedisca gli argomenti, e che rintuzzi, per così dire, l'acume, e la
sottilità. Ma l' altre parti debbono essere ornate con maggior diligenza :
e dovendo lo scrittore del dialogo assomigliare i poeti nell'espressione,
e nel per le cose innanzi agli occhi, Platone meglio di ciascuno ce le fa
quasi vedere, il qual nel Protagora parlando d'Ippocrate, che s' era
arrossito, essendo ancora di notte, soggiunge: Già appariva la luce, onde
il color pareva esser veduto e la chiarezza, die evidenza è chiamata dai
La- tini, nasce dalla cura usata nel parlare, essersi ricordato, che
Ippo- crate era da lui veduto di notte. E nel medesimo dialogo leggiamo
con maraviglioso diletto, che l'eunuco portinaio, perchè i sofisti gli
erano venuti a noia, serra con ambe le mani la porta a Socrate e al
com- pagno : e appena l' apre, udendo, che non erano di loro. E ci piace
il passeggiar di Protagora e degli altri, che passeggiando con tanto
or- dine ascoltavano il ragionare : e ci par vedere lppia seder nel
trono, e Prodico giacere avviluppato. E con piacer incredibile leggiamo
simil- mente che due giovanetti appoggiati sovra il gomito descrivessero
ccr-3!i, e altre inclinazioni della sfera : e che Socrate pur col gomito,
di- mandasse, di chi ragionavano. Né con minor espressione ci pone
in- nanzi agli occhi Garmide e gli amici : e quasi veggiamo gli
estremi, che sedevano da questa parte e da quella, l'uno cadere e l'altro
es- ser costretto a levarsi. Ma sopra tutte le cose c'empie di
compassione e di maraviglia il venir di Garmide alla prigione innanzi al
giorno, e l'aspettar, che si destasse Socrate, condannato alla morte: e
poi, che il medesimo raccolga la gamba, la quale era stata legata, e
grattandosi discorra del dolore e del piacere, l'estremità de' quali son
con- giunte insieme : e distendendosi, e postosi a sedere sovra la
lettiera dia principio a maggiore e più alta contemplazione. E nel
medesimo dialogo tempera il dolore, quando scherza colle belle chiome di
Fedone, le quali dovevano il giorno tagliarsi : e nella descrizione
parimente è maravi- glioso. E se leggiamo i ragionamenti di Socrate sotto
il platano, e quelli del forestiero ateniese all'ombra degli alberi
frondosi, mentre col La- cedemonio e col Gandiano vanno all'antro di
Giove, ci par di vedere, e ascoltare quello, che leggiamo. Queste son le
perfezioni di Platone, veramente maravigliose: le quali, sebben saranno
considerate, non ci rimarrà dubbio alcuno, che lo scrittore del dialogo
non sia imitatore, o quasi mezzo fra il poeta e il dialettico. Àbbiam
dunque, che IL DIALOGO sia imitazione di ragionamento , fatto in prosa per
giovamento de- gli uomini civili e speculativi, per la qual cagione egli
non ha bisogno di scena o di palco : e che due sian le specie, l' una nel
soggetto della quale sono i problemi, che risguardano l'elezione e la
fuga: l'altra speculativa, la qual prende per subietto quistione, jche
appartiene alla verità e alla scienza; e nell'una e nell'altra non imita
splamente la disputa, ma il costume di coloro, che disputano, con
elocuzioni in alcune parti piene di ornamento, in altre di purità, come par,
che si convenga alla materia. Tasso. Tasso. Cornello. Keywords: l’arte del
dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Tasso”, “Grice e Cornello” – The
Swimming-Pool Library. Cornelio.
Grice e Cornificio: la vera etimologia -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Autore di un’opera etimologica in tre
libri, composta fra il tempo di Cicerone e Ottaviano. Das Werk des C. Longus de
etymis deorum. a) Prise. GLK, C. in 1 de etymis deorum. Macr. C. etymorum libro
tertio. Cornificius in etymis: vgl. noch wo Anschlufs an die stoische
Philosophie (vgl. W. A. Baehrens, Hermes; K. Reinhardt, Kosmos und Sympathie,
München); Arnob., Festus, M. bemerkt bezüglich der Etymologie von Minerva: C. vero,
quod fingatur pingaturque minitans armis, eandem dictam putat. (nare); (nuptiae);
(oscillare); (Rediculus; s. Ed. Meyer, Herm. (lalassus). Der bloße Name Cornificius ohne
Glosse erscheint. Das diese Glossen aus dem Werk „de etymis deorum"
geflossen sind, vermuten R. Merkel.
Ovids Fasten, Berlin.; Th. Bergk, Kl. phil. Schr. Willers, De Verrio
Flacco glossarum interprete disput. crit., Halle. C. hat dann auch andere als
Götteretymologien behandelt, vermutlich wenn er von Kultusgebräuchen und
Kultus-einrichtungen sprach. Wahrscheinlich dürfen wir den gleichen
Schriftsteller finden auch in dem C. Longus bei Serv. Aen., wo es sich
ebenfalls um Etymologien handelt: invenitur tamen apud C. Longum lapydem et
Icadium profectos a Creta in diversas regiones venisse, lapydem ad Italiam,
Icadium vero duce delphino ad montem Parnasum et a duce Delphos cognominasse et
in memoriam gentis, ex qua profectus erat, subiacentes campos Crisaeos vel
Cretaeos appellasse et aras constituisse.
Dieser kann dann aber nicht
identisch sein mit dem Dichter und Feldherrn C. (Bergk.), der nie den Beinamen Longus trug,
den außerdem die Zeitverhältnisse unmöglich machen. Denn der Verfasser der
etymo'ogischen Schrift zitiert nach Macr.das Werk Ciceros de natura deorum, das
im J. 44 erschien, so das sie in den folgenden drei Jahren von dem stark
beschäftigten Statthalter Afrikas hätte geschrieben sein müssen. Benutzt hat
dann Verrius die Abhandlung 'de etymis deorum'. — J. Becker, C.Longus und C.
Gallus, Ztschr. für die Altertumsw. Wissowa, Realenz.; Funaioli 473. A stoic
wrote a book on etymology. Cornificio Lungo. Cornificio.
Grice
e Cornuto: Roma antica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). A
slave in Rome, he became one of the city’s leading intellectuals. A member of
the porch. The name Anneo points to a connection of some kind with the family
of Seneca. He taught rhetoric and philosophy, his pupils including Agathino,
Petronio Aristocrate, Lucano, and Persio. In his will, Persio left C. his
books, which he accepted, and his money, which he rejected. He was sent into
exile by Nerone. He wrote an influential commentary on Aristotle’s Categories.
He argues that the categories reflect divisions within language, rather than
within reality. In a different essay, the Epidrome, he surveys the myths and by
means of linguistic analysis and allegorical interpretation he seeks to extract
what he considers to be their true meaning. Lucio Anneo Cornuto Cornuto. Cornuto.
Grice e Corrado: la dieta di Crotone
e la semiotica magica– filosofia italiana – Luigi Speranza (Oria).
Filosofo italiano. Grice: “I like Corrado; of course we have the beefsteak, the
English do; but Corrado philosophised on the near ‘cibo pitagorico’ a Crotone
and produced a philosophical cookbook for the noblemen!” -- Uomo di grande cultura, fu soprattutto grande
gastronomo e uno dei maggiori cuochi che si distinsero tra il '700 e l'800
nelle corti nobiliari di Napoli, simbolo del suo tempo nella variegata realtà
partenopea. E il primo cuoco che mette per iscritto la "cucina
mediterranea", il primo, a valorizzare la grande cucina regionale
italiana. Scrisse “Il cuoco galante”, definito all'epoca un libro di alta
cucina, testo richiesto in tutto il mondo dalle principali autorità dell'epoca,
e ristampato per ordini del principe per ben 6 volte. Preparava
elegantissimi banchetti in principio alla corte di Don Michele Imperiali
Principe di Francavilla presso il palazzo Cellamare di Napoli, dove coordinava
un piccolo esercito di maggiordomi, domestici, volanti e paggi e preparava i
pranzi o le cene con particolare assortimento di vivande accoppiandole con
tanta fantasia e particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine
di formare una coreografia sontuosa e raffinata. Figlio di Domenico e di
Maddalena Carbone. Rimasto orfano per la morte del padre, ancora adolescente, divenne
paggio alla corte di Michele Imperiali che era Principe di Modena e Francavilla
Fontana, Marchese di Oria e Gentiluomo di camera di S.M. il Re delle due
Sicilie, che lo condusse a Napoli dove risedette per diversi anni. Appena
maggiorenne, entrò a far parte della Congregazione dei Padri Celestini nel
convento di Oria. Dopo l'anno di noviziato, fu chiamato dal Superiore
Generale De Leo nella residenza napoletana di San Piero in Maiella, dove si
specializzò negli studi di filosofia. Dallo stesso padre generale fu avviato,
anche, allo studio delle scienze naturali e dell'arte culinaria, per la quale
divenne famoso. Non diventò mai sacerdote per cui, dopo la soppressione degli
ordini religiosi si stabilì a Napoli, ove risedette per oltre cinquant'anni,
insegnando la lingua francese ai figli delle famiglie aristocratiche della
città, pubblicando contemporaneamente molte sue opere che gli diedero successo
e notorietà. Per i molti impegni che ebbe a Napoli, non tornò più ad Oria,
anche se non mancarono momenti di nostalgia per la lontananza dalla sua
famiglia e dalla sua città natale. Il Principe di Francavilla gli
attribuì la mansione di Capo dei Servizi di Bocca -- antica mansione con cui
veniva chiamato colui che era preposto a sovrintendere alla cucina, alla
preparazione delle vivande e all'organizzazione dei banchett -- di Palazzo Cellamare, sito sulla collina delle
Mortelle prospiciente il golfo di Napoli e della famiglia del Principe, poiché
molti illustri personaggi di un certo livello e rango, che venivano a Napoli,
invitati a mensa poterono constatare la fama di questa opulenta ospitalità più
spagnolesca e tipicamente partenopea che era in uso al tempo. Parlando
del suo lavoro Vincenzo Corrado così si esprimeva: «L'abbondanza, la
varietà, la delicatezza delle vivande, la splendidezza e la sontuosiotà delle
tavole richiedevano una schiera di uomini d'arte, saggi e probi. Questa
mastodontica organizzazione, era guidata proprio da lui. Alle sue dipendenze
lavoravano un maestro di casa, un maestro di cucina ed un maestro di scalco che
aveva il compito di acquistare, di cucinare, di dissodare e di trinciare ogni
tipo di animale, mentre una schiera di cuochi, rispettando la gerarchia allora
in uso, lavorava secondo la propria specializzazione (oggi le grandi cucine dei
Ristoranti hanno i cuochi di rango): vi era il cuoco friggitorie, quello per le
insalate, il pasticciere, il bottigliere e il ripostiere. Tutti questi erano
aiutati da una serie di sguatteri e di serventi che avevano il compito di
girare intorno al tavolo per esibire lo spettacolo fantasioso delle portate prima
ancora di servirle. Tutta questa organizzazione era coadiuvata da un piccolo
esercito di maggiordomi, domestici, volanti e paggi che interveniva non appena
il servizio di cucina consegnava le varie portate artisticamente decorate.
Vincenzo Corrado, a seconda degli ospiti del Principe preparava i pranzi o le
cene con particolare assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e
particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una
coreografia sontuosa e raffinata. Egli stesso ci descrive queste splendide
composizioni con pregevole gusto e raffinatezza, lasciando, anche, delle
visioni grafiche. Gli elementi decorativi della tavola erano affidati al
maestro ripostiere che usava gusto artistico e genialità: grandi vasi in porcellana
ricolmi di fiori variopinti, alzate di cristallo e argento a tre o quattro
piani colmi di dessert o frutta o fiori o ortaggi, bianchi gruppi di porcellana
raffiguranti scene arcadiche o bucoliche; puttini d'argento; gabbiette dorate
con piccoli uccellini cinguettanti; coppe di cristallo di varie fogge in cui
guizzavano pesciolini tra foglie di rose ed altri fiori. Il centro veniva
racchiuso da una cornice di frutta, di fiori freschi e di ortaggi, secondo la
stagione variante, disposti, intervallati da piccole spalliere di agrumi in
porcellana con ortolani nell'atto di raccoglierli. La composizione era la
sintesi di un artista di provata esperienza, di raffinata fantasia e di vivace
estro, capace di accoppiare tanti svariati elementi fondendoli insieme a
formare uno spettacolo di gran gusto e di particolare gradevolezza. Il valore
del tavolo di gala completato dal vasellame, cristalleria e argenteria di
grande pregio era inestimabile. Questo senso artistico, anche, nell'arte
culinaria C. lo aveva ereditato da un suo antenato letterato di mestiere. Ma
per quanto dotato di una cultura autodidatta, di vivacità d'ingegno, di
originalità e di una particolare facilità nell'insegnamento, se non avesse
avuto la fortuna di conoscere Don Michele Imperiali, che ne coltivò le
particolari doti incoraggiandolo a scrivere della sua specifica arte per
tramandarla ai posteri, probabilmente sarebbe rimasto un ottimo organizzatore,
un appassionato gastronomo, ma la sua fama si sarebbe estinta con lui. Le
opere “Il cuoco galante’. Il primo libro vegetariano della nostra storia. il
credenziere: colui che si prendeva cura della credenza. L'opera fu sottoposta a
ben 7 ristampe. Prodotta in 7500 copie, Dalla dedica si ricava il leitmotiv
dello scritto nonché la filosofia in cui credeva l'autore, che è di questo
tenore: il “buon gusto nella tavola” inteso come “sano pensare”. Di questo trattato
di gastronomia, il successo fu istantaneo e inaspettato, in quanto la
precedente opera gastronomica, La lucerna dei cortigiani, stampata presso
Napoli e dedicata a Ferdinando II duca di Toscana, non era riuscita ad attirare
l'interesse del pubblico che la trascurò ignorandola. Invece grande
successo ottenne la prima edizione del "Cuoco Galante" che si esaurì
rapidamente, tanto che il Principe ne ordinò una seconda edizione che ebbe
eguale successo. Intanto Vincenzo Corrado migliorò e ampliò il testo di questa
opera e ne preparò una terza edizione. La fama del libro superò i confini
del Regno di Napoli e dell'Italia; infatti dall'estero giunsero richieste da
tutti quegli stranieri che avevano conosciuto ed apprezzato il Corrado alla
corte degli Imperiali, per cui si pervenne ad una quarta edizione, seguita dalla
quinta e infine la sesta pubblicata. Assolute novità introdotte dall'autore
erano allora la patata, il pomodoro, il caffè e la cioccolata. Altre
saggi: Incoraggiato dal successo del Cuoco Galante, il Principe spinse l'autore
a pubblicare nel un Credenziere del buon gusto, del bello, del soave e del
dilettevole per soddisfare gli uomini di sapere e di gusto. Egli scrive e
pubblica inoltre “Il cibo Pitagorico”, “Trattato sulle patate”, “Manovre del
cioccolato” e “Manovra del caffè”; “Trattato sull'agricoltura e la pastorizia
ed infine, “Poesie baccanali per commensali”. -- è il faro della cucina moderna
della nobiltà a cavallo del periodo della rivoluzione francese. Egli privilegia
i personaggi di rango in visita alla mensa del principe con opulenta
ospitalità. Orbene in questo contesto di sfarzo godereccio, di lusso e di differenze
sociali abissali, rimase fin abbagliato dalla nobiltà, la gente ricca e
potente, verso la quale nutre sempre sentimenti di grande reverenza se non
addirittura di venerazione. Proprio per riconoscenza al Principe, dando alle
stampe i suoi due libri, confessa. “Questi due libri che del buon gusto
trattano, con la guida e norma scrissi, e pur mercé la tua generosità mandai
alle stampe, e tu di propria mano ne *segnasti* il titolo “Il Cuoco Galante” --
l'uno e “Il credenziere del buon gusto” l'altro, tutti e due a te li porgo come
frutto di un albero dalla mano piantato. Mio Scopo egli è di richiamare alla memoria
dei nobili uomini dei quali tu fosti la gloria l'ornamento alla memoria e la
lode. Ah? Ma qual Tu fosti non basterebbe di dire di cento e mille lingue, per
cui io stimo meglio il tacere e con il silenzio benedire gli anni che ti fu
appresso. L'organizzazione dei magnifici
banchetti e delle cene lussuose gli diedero l'appellativo di “il cuoco
galante”. La cosa straordinaria è che dietro gli scenari di un favoloso pranzo
o cena vi era una preparazione, quasi orchestrale della quale il direttore era
il filosofo. Alle sue dipendenze vi era una vera e propria squadra di addetti
alle cucine formata da precettori cuochi e servienti. La presentazione
estetica, oltre al gusto, acquista la sua importanza in cucina, ed dedica
grande spazio alle decorazioni e al modo di imbandire le tavole dei banchetti.
Nell'opera sono anche presentati i sorbetti, in vari gusti, ed il caffè, che, a
differenza dall'attuale espresso, veniva bollito in apposite caffettiere.
Precettori un precettore di alloggio e sistemazione posti per gli invitati, un
precettore di preparazione dei cibi, un precettore abile con utensili
domestici, che aveva la mansione di far provviste e comperare il necessario al
mercato per le mense, di dissodare e di affettare ogni tipo di carne o pesce.
Chef e Cuochi “Il cuoco friggitore”, il cuoco per le insalate, il pasticciere,
il bottigliere, il ripostiere. Serventi lavapiatti,
camerieri, maggiordomi, domestici, volteggianti e giullari che
intervenivano non appena il servizio di cucina consegnava le varie portate
artisticamente decorate. Non era solo una semplice cena, era un vero e
proprio spettacolo, fuori dall'immaginato. A volte comprendeva l'utilizzo di
100 persone per altrettanti o più invitati. I banchetti o le cene con
caratteristiche e assortimenti di piatti erano accoppiate con tanta inventiva e
particolari astuzie architettoniche ed eleganti al fine di plasmare una
scenografia sfarzosa e affinata. Egli stesso nelle sue opere e nei suoi
diari ci descrive queste splendide composizioni culinarie come opere d'arte,
quasi uno spreco consumarle. Bicchieri e coppe di cristallo, posate in argento
intagliate, tovaglie di pizzo fiorentino, buche e composizioni floreali, piatti
in porcellana di Capodimonte. Termini culinari "Il Cuoco Galante",
proprio nella terza edizione, alfine di una maggiore comprensione, spiega
alcuni termini "cucinarj" usati per la preparazione delle varie
pietanze, ne riportiamo un esempio: Bianchire: Far per poco bollire in
acqua quel che si vuole; Passare: Far soffriggere cosa in qualsiasi grasso;
Barda: Fetta di lardo; Inviluppare: Involgere cosa in quel che si dirà;
Arrossare: Ungere con uova sbattute cosa; Stagionare: Far ben soffrigere le
carni o altro; Piccare: Trapassar esteriormente con fini lardelli carne; Farsa:
Pastume di carne, uova, grasso ecc.; Farcire: Riempire cosa con la sarsa;
Adobare: Condire con sughi acidi, erbette, ed aromi; Bucché: Mazzetto d'erbe
aromatiche che si fa bollire nelle vivande; Salza: Brodo alterato con aromi,
con erbe, o con sughi acidi; Colì: Denso brodo estratto dalla sostanza delle
carni; Purè: Condimento che si estrae dai legumi, o d'altro; Sapore: La polpa
della frutta condita, e ridotta in un denso liquido; Entrées: Vivande di primo
servizio; Hors-dœuvres: Vivande di tramezzo a quelle di primo servizio;
Entremets: Vivande di secondo servizio; Rilevé: Vivande di muta alle zuppe, potaggi,
o d'altro. Pitagora nell’atto, che dalla
cattedra nella nostra italica scuola dettava sistemi, che riguardavano quanto
mai fosse fuori di esso lui, e di noi per pascere l’animo e l'intelletto, non
trascure di sistemare peranche ciò che meglio, e piu opportunamente al
nutrimento ed alla conservazione del meccanico nostro vivere conducesse. E però
dettando il canone o la legge, come dir si voglia, per la cucina delli suoi
mentati, non di *carni* di animali ei ditte quadrupedi, o volatili, o di pelei
imbandite vengano le mente di quanti han voglia di più lungamente, e più
lanamente vivere, ma soltanto di vegetabili erbe, di radici, di foglie, di
fiori. Ebbe cotesso filosofante la somma disgrazia di non essere da ogni
filosofo inteso, come sovente la savia donna stobeo sua moglie e espose li g
luf'J\ l&- r menti: e com’egli la tras-migrazione dell’anime avesse
ingegnata, così dalli silenziari scolari suoi, e da parecchi altri prevenuti da
quel di lui fatto sistema si divieta del cibo animalesco, e la preferizione del
solo cibo erbaceo furon pref nel sinistro senso di una supertiziosa venerazione,
cK egli aveffe per l’animale, nella macchina del quale l’anima dell’uomo dopo
la morte fojfcro tras-migrate. Ma ’ che chefané di ciò, egli è indubitata cosa,
che il cibo erbaceo fallo più confacenti all’verno, per cui vedef la più parte
dei Naturalifi a quella opinione indicimata, che l'uomo naturalmente non è
carnivoro. E se noi ponghiamo mente al parlare dell’antica filosofia, rilevaremo
con tutta chiarezza che le frutta della terra defluiate vennero al nutrimento
dell'uomo, e che sopra del pesce, dell’animale terrestre, e del volatile n eh
he lo fie[fio uomo soltanto il domini; Jlcchè l efifierfii poi dati alcuni
uomini ad alimentarsi di animali j'offe fiata una necessità di alcuni luoghi,
oppure un lusso! Non senza ragione quindi la italiana gente, ansi avvedutamente
oggi più che in altro tempo la legge pitagorica ha ripigliata ad oficrvare con
tutto impegno nella cucina del filosofo galante, e nelle mensa: e le nazioni
anche più culte, che da Italia sono lontane, han preso il gufo di dare al corpo
nutrimento più sano, gusiosso, e facile per mezzo dell’erba. Ed ecco perciò
tutta la scuola cucinaria pofia in movimento per inventar un nuovo modo a poter
preparare e condire l’erba per mezzo di altri fingili vegetabili, onde non
solamente grato al palato si renda il semplice pitagorico cibo, ma eziandio
pofia sioddisfarsii al lusso nell' imbandire laute Menfie da filmili
siempìicità compofie. E quesio è il fine della mia filosofia, difiefio, ed a
comune uso e utilità. Vero egli è, che non tutti li vegetabili dei quali ferie
preferìve qui la preparazione filano li più perfetti, e giovevoli ai nutrimento
nostro. Ma ciò ha dovuto farsi per accomodarsì af gufo comune, ed alla moda
presiente della tavola fu,di che qualunque Aristarco non avrà che opporre.
Nella mia filosofia volendosi imitare la filmile semplicittà della materia del
soggetto, con sempiice e chiaro discorso si da la pratica come ogni erba
italiana dando il suo proporzionato condimento con fughi di carne, con latte
Animali, e di fórni, con butirro, con olio, con uova, e con altr’erbe odorifere
e gusiofe debano preparar f. E intanto per a et tare, ad ogni articolo alcuna
cosa verrà premefi, che rifguarda la natura, e le virtù del vegetabile di cui
fe ne voglidn preparare la vivanda. E già qui fiegue in prima, la maniera di
far i brodi, i coli e le buri neceJTarj
pel condimento: ed in secondo luogo h nòta del vegetabile del quale nella mia
filosofia fe ne preferivo il modo di prepararli: avendo io in ciò fare
procurato di mettere in J'alvo anche il Injjo nell' imbandire con simili generi
una mensa di formalità e gala, e nel tempo Jìeffo di soddisfare il gusto
delicato dei nobili, e di provvedere alla conservazione dell’utterato. INDICE:
Velli Brodi, Coli, e Purè p. I Velli Coli a Velie Purè i tutta la c minarla
prepa- ragione de’ vegetabili, Lattuca, Spinaci, Cavolo Cappuccio, Selleri,
Zucca, Zucca lunga ia Delle Zucche Vernine ivi Cavai fiore Finocchi Iudivia
Cardoni Cavoli Torgi Carciofi Broccoli Boraggine Senape Cipolle ivi Rape
Ravanelli CicoriaPetronciane Pafiinacbe Pomidoro Cedriuoli Peparoli Pifelli
Sparaci Raperortzpli Velli Ceci Fave Faggioli 3^ De//** I-enfe 39 Funghi
Tartufi Erba per condiment, Maggiorana, Targone, Pimpinella, Santa Maria
Crefcione Origano Timo Acetofa Salvia Menta Cerfoglio Porcellana Bafiltco Ruta
Sambuco Rosmarino Tralci Vite Zafferano Anafi Cappari Scalogne Dettagli Rafano
o Ramolaccio Bettonica Idea dell'ufo delle frutta ivi. Grice: “My favourite
chapter from ‘Il cuoco galante’ is the philosophical one, on Pythagoras! I
vitto pitagorico consiste l’erba fresca, la radice, il fiore, la frutta, il
seme, e tutto cid che dalla terra produce per nostro nutrimento. Vien detto
pittagorico poiche Pitagora, com’ è tradizione, di questi prodotti della terra
soltanto fece uso. Pitagora mangia l’erba semplice e naturale, ma gli uomini
de’ nostri di li vogliono conditi, e manovrari; ed io nel voler conversare con
distinzione dell’erba procuro eseguire l’uno, e soddisfare l’altro, con
escludere le carni, e di servirmi del condimento, anche pitagorico, com'è il
ſugo di carne, il lasase, le uova, l’olio, ed il burirro per compiacere qualche
particolar palato, servirmi pure delle parti più delicate degli animali. Molte
fonti filosofica suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la
semiotica e la filosofia: entrambe le pratiche, infatti, figurano come doni di
Apollo e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel
Simposio: "In verità, Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la
medicina e la divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista
semiotico, che le due pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui
segni, siano avvertite come originariamente collegate. E un effettivo stretto
collegamento esse lo trovano nella figura antichissima dello iatromantis, il
filosofo-cum-medico-indovino, che unisce in sé le facoltà di un veggente e la
capacità di curare le malattie. L'appellativo del filosofo come iatromantis è
riferito in prima istanza allo stesso dio Apollo; ma passa poi a una serie di
filosofi in vario modo legati al dio, che uniscono al dono della mantica e
della medicina, anche quello di effettuare delle purificazioni. Un elemento
fondamentale che caratterizza la figura dell filosofo iatromantis è la sua
capacità di usare una procedura diagnostica: trattandosi di un veggente, egli
è in grado di individuare la causa nascosta (il segnato) di una malattia (il
segnante), causa che è da attribuirsi sempre a un intervento sopra-naturale.
In epoca antichissima, la malattia è concepita infatti come miasma, come
contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità divina o demonica. Si
tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in
una religione italica pre-olimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata;
Detienne; Dodds; Lloyd; Parker. Un'ampia panoramica sul movimento magico e
catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde. Per questa ragione, c'è
bisogno di un filosofo-cum-medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli
rendono accessibile il mondo delle forze oscure e sopra-naturali alle quali è
imputato il presente stato di contaminazione; in seguito alla sua diagnosi, il
filosofo-cum-iatromantis [those spots mean measles, black cloud means
rain] può indicare gli strumenti magici atti a purificare il miasma. Questa
concezione è ben iliustrata da una notizia di un filosofo della scuola
pitagorica a Crotona, Alessandro Poliistore, che cita le "Memorie
pitagoriche"."L'aria, secondo i pitagorici, è piena di anime. Ed essi
le considerano demoni ed eroi e pensano che siano essi a inviare agli uomini
i sogni e i segni premonitori (semeia) e le malattie, e non solo agli uomini,
ma anche alle greggi e agli altri animali da pascolo. E a questi demoni ed
eroi sono dirette le cerimonie catartiche e apo-tropaiche e tutta la mantica e
i vaticini e tutto ciò che è di tal genere" (Diog. Laert., Vitae, D-K). Va
notato, di sfuggita, che il carattere italico molto arcaico della concezione
espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle
stesse vicende della comunità umana. C'è la rappresentazione di una comunità
agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile (Cfr. Deticnne
(1963: 32). Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una semiologia
SACRA e magica abbinata a una filosofia esoterica e medicina magica. I demoni
sono la fonte delle malattie che affliggono gli uomini. Ma, contemporaneamente,
sono anche la fonte dell'informazione che concerne il mondo in-visibile o
in-perceptibile, in-sensibile, inviando agli uomini i segni (compreso quel
particolare tipo di segno che sono i sogni) dai quali si rende riconoscibile
l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo si chiude
attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a produrre: i riti
catartici e apo-tropaici. In particolare, le cerimonie apo-tropaiche sono
costituite dalla recita di epoidai, cioè di formule verbali incantatorie,
ritenute idonee a scongiurare il male. Si tratta di segni linguistici che da
una parte chiudono il circuito comunicativo con il sopra-naturale, dall'altra
sono efficaci, nel senso che intendono agire sul mondo e non rispecchiarlo.Grice:
“Oddly, my mother was keen on Mrs. Beeton, I’m keen on Signore Corrado!”
La cucina e la credenza, ad esami parlando, son sorelle gemelle, poichè
le due appartengono al buon gusto del cibo, e le due nacquero, cresceron, e
s’ingrandirono nello stesso temp, e nella nostra Italia che in altri luoghi,
sotto i fastosi e dominanti romani, e divennero tutte e due arti d’ingegno, di
piacere, e di utile; ed il cuoco ed il credenziere debbono esser d'accordo nel
loro, quantunque dissimile, lavoro. Della estesa ed elevata cucina se n’è
discorso abbastanza. Dico abbastanza ma non già al fine; e compimento, poichè
ciò accade quando non vi saranno più uomini al mondo. Ora vengo a trattare di
quanto la credenza include, e di quanto un credenziere dee esser fornito. E se nel
dar l’istruzione per la cucina pensai e scrissi da cuoco, ura collo stesso
metodo filosofo da credenziere. Come tale intendo ragionare al dilettante.
Procuro di aggiugnere quanto di bello, di buono, e di dilettevole mi ha potuto
suggerire la fantasia. Gradisci dunque, o cortese mentato, questa mia fatica, e
sappi, ch’io resto soprabondevolmente pagato col piacere di avervi servito.
Vivi felice. Vincenzo Corrado. Corrado. Keywords: la dieta di Crotone, il cibo
pitagorico, il concetto di conversazione galante, gala --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corrado” – The
Swimming-Pool Library. Corrado.
Grice e Corsini: l’implicatura
conversazionale della filosofia in roma antica -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Fellicarolo). Filosofo italiano. Grice: “I like Corsini; if we at
Oxford had a sublime history as they do in Italy, we surely would be
philosophising about it! Corsini taught philosophy at Pisa and spent most of
his efforts in deciphering what the Romans felt interesting about Greek
philosophy!” Grice: “Corsini also explored the roots of Roman philosophy from
the earliest times – ab urbe condita,’ as the Italians put it!” Studia nel
Collegio dei padri scolopi fananesi, dove in seguito entra quale novizio e si trasferì nel Noviziato di Firenze. Le
sue capacità lo portarono a diventare docente di filosofia a soli vent'anni presso
la stessa scuola. Si trasferì quindi a Pisa dove insegna. Eletto Superiore
Generale e dovette trasferirsi a Roma. I principali campi di studio ai
quali si applica furono: la filosofia, la cronologia, l'epigrafia, la filologia
e la numismatica ma si interessò anche di matematica, di logica, di fisica, di
idraulica, di didattica, di storia e di lettere antiche e moderne. Altre
opere: “Illustrazione relativa alle recensioni su De Minnisari e Dubia de
Minnisari pubblicate ne gli Acta Eruditorum; “Illustrazione relativa all'Epistola
ad Paulum M. Paciaudum, pubblicata negli Acta Eruditorum”; “Ragionamento
istorico sopra la Valdichiana” (Firenze); “Index notarum Graecarum quae in
aereis ac marmoreis Graecorum tabulis observantur” (Firenze); “De Minnisari
aliorumque Armeniae regum nummis et Arsacidarum epocha dissertation” (Firenze);
A. Fabbroni, Vitae Italorum..., Pisis E. de Tipaldo, Biografie degli italiani
illustri, X, Venezia); Dizionario
biografico degli italiani. Elogio di C. (con lettere di Fananese a Rondelli). Fanani
nianae, quod in ditione est oppidum Ducum provinciae Ateftinorum Fri, III. Non.
natus eft C. optimis quidem parentibus, honestissimaque familia, quippe quae
jamdiu civitate Mutinensi donata fuerat. Is ubi primum adolevit Sodalitatem
hominum Scholarum Piarum, quos praeceptores puer in patria habuerat, ingressus
est. Multa diligentia, multoque labore in humaniorum litterarum [cf. Grice,
Lit. Hum.], philosophiae ac theologiae studiis Florentiae se exercuit apud
suos; & cum omnes condiscipulos gloria anteiret, ab omnibus tamen in
deliciis habebatur. Erat enim bonitate suavitateque morum prope singulari;
& cum plurimuin faceret non solum in excolendis studiis, sed etiam in
officiis omnibus religiosi hominis obeundis, minimum tamen ipse de se
loquebatur. Vix ferre poterat Eduardus peripateticos quofadam horridos, durosque
oratione & moribus, quibuscum versari cogebatur; intelle xeratque jam
falsos hujusmodi sapientiae magistros de veritate jugulanda potius, quam de
fendenda assidue certantes, philosophiam artem fecisse subtiliter &
laboriose infaniendi. Relictis igitur disputandi spinis, ad Academiam se convertit,
cujus ratio inquirendi verum libero folutoque judicio, & fine ulla
contentio ne & pertinacia non poterat non magnope reprobari homini natura
leniſſimo. Nec forum in philosophorum libris corum dogmata, quae disputationibus
huc & illuc trahuntur, ut ipse per se perpenderet, inveſtigavit C., sed
etiam philosophiae adminicula & an ſas, qualem Xenocrates geometriam
appellabat, in Euclide, Apollonio & Archimede quae sivit. Quo in itinere
felicem adeo habuit exitum, ut fervore quodam aetatis impulsus, břevi condere
potuerit libellum de circulo quadrando, quem ad Guidam Grandium mi fit. Novit
in eo Grandius eximium & admirabile adolescentis ingenium, eumdemque
hortatus est, ut pergeret porro in eo studio, quod ceteris & studiis &
artibus antecede ret, & in quo ipse futurus effet excellens. At C. praeſertim
trahebatur ad humaniores litteras, quibus a puero mirifice dedicus fuerat,
quaſque vel in sublimiorum disciplinarum occupationibus, ne obsoleſcerent,
legendo renovaverat. Itaque moleste tulit demandatam fibi a majoribus fuisse provinciam
tradendi publice FIRENZE philosophiam, quasi ad ea detru deretur, quae sui non
essent ingenii. Principio sequi coactus est Goudinium, cui brėvi substituit
Hamelium. Atque hos auctores sic interpretatus est, ut facile intelligeretur
non eſſe ex illorum doctorum numero, pud quos tantuin opinio praejudicata
poteſt, ut etiam fine ratione valeat auctoritas eo rum, quos ſequi ſe
profitentur. Poftremo ad ſcholae fuae utilitatem et ornamentum maxime pertinere
exiſtimavit, fi e multis, quae ſunt in philoſophia & gravia & utilia a
recentioribus praefertiin FILOSOFI tracta ta, quantum quoque modo videretur
deli geret, in quo adoleſcentes exerceret. Sa pienter etiam faciebat, quod
ipſos non ſolum quibus luminibus ab illa omnium laudanda rum artium
procreatrice Philoſophia petitis a mentem illuſtrare, fed etiam quibus virtuti
bus omnem vitam tueri deberent fedulo e rudiebat. Quare minime eſt mirandum fi
in tantam claritudinem brevi pervenerit, ut fuis & Florentinis vehementer
carus, quibuſdam vero hominibus nudari ſubfellia ſua, & cor nicum oculos
configi dolentibus eſſet invim diofifſimus. Fuerunt & nonnulli (tantum in
vidia, aut inſcitia potuit ) qui apud eos, quorum munus eſt providere, ne quid
er roris in religionem moreſque irrepat, Corſi nium accufarunt, multa illum
tradere, in exponendis praeſertim Gassendi & Cartesio ſententiis, a recta
religione abhorrentia. Stomachatus eft homo religiofiflimus, caftif fimuſque
obtrectatorum temeritatem. Hos ve ro ut falſae & iniquae inſimulationis
publi ce convinceret, utque ab omni metu diſci pulos fuos liberaret, ftatuit in
lucem profer re, quae in ſchola & domi iiſdem expoſue rat. Quod cum
praeftitiffet, id evenit, ut alteros reprehendiſſe poeniteret, alteri fe di
diciſſe gauderent. Inſcripfit opus: Inſtitutio nes philoſophicae ad ufum
Scholarum Piarum, & illud in quinque volumina diſtribuit si ma mum continet
hiſtoriam philoſophiae & lo gicam; ſecundum verfatur in indagandis prin
cipiis, & tanquam feminibus unde corpora funt orta & concreta, horumque
proprieta tibus & qualitatibus; agit tertium de cor poribus inanimatis,
quae caelo, aere, ri & terra continentur; examinat quartum animata corpora,
multipliceſque eorum fpecies, et elementa metaphyſicae tradit; quia tum denique
morum doctrinam complectitur. Nec folum in conficiendis his libris res no vas
inveſtigavit C., fed etiam eas, quae funt ab antiquis traditae, quarum cognitionem
eo utiliorem putavit, quod faepe. philoſophos nova proferre judicamus, cum
pervetera proferant. Praeter quam quod in ea erat opinione C., illi, fitum eſt
veritatem invenire, fingulas nofcen das effe diſciplinas, ut ex omnibus, quod
probabile videri poſſit, eliciat, praeſertim cum doceamur a ſapientiffimis
viris, nullam fectam fuiffe tam deviam, neque philoſopho rum quemquam tam
delirantem, qui non vi derit aliquid ex vero. Nec modo quid fibi probaretur,
fed aliorum etiam fententias, & quid cui propo quid in quamque ſententiam
dici poſſet, pera fecutus eſt, quod ea modeſtia praeſtitit, ut: non vincere
maluiſſe, quam vinci oſtenderid. Hanc opinionum varietatem ex fuis fone tibus
fincere deductam, ut potentius in die fcipuloruin animos influeret, non modo
ora, vine diſpoſuit., ſed etiam claritate & nitore, LATINO SERMONE
illuſtravit. Praeclare enjin, CICERONE: mandare quemquam litteris cogitationes
fitas, qui eas nec difponere poffit, nec illuftra-: re, nec delectationé.
aliqua lectorem allicere, hominis est. intemperanter abitentis otio & like
cris. Sunt nonnulli qui in hiſce. Insitus, rionibus dum pleniflimo ore laudant
ima menſam prope eruditionis copiam,, politio remque elegantiam, quibus
ornantur, defide; rare videntur abditiorem 'reconditioremque tractationem earum
rerum, quae primum ii) phyſica tenent locum, quales ex. gr. ſunt Trotus.,
Newtoniana' attractia, harumque lo ges, non tam.ut ceteros, quam ut ſe ipſum,
qui nunquam adduci potuit, ut Newtoni fententiae affentiretur, convinceret. Sed
ii meminiſſe debent quibus ſcripſerit:C., hribuſque temporibus ſcripferit.
Quoniam ve to plurima ſunt in phyfica, quae fine 'gea metriae ope tractari non
poffunt, hoc quo que adjumențum a fe afferri oportere diſci pulis ſuis putavit.
Itaque Philoſophicis Ma thematicas Institutiones adjecit, in quibus fi ordinem
excipias (initium enim facit a pro portionibus, quas nemo ignorat difficillimam
effe geometriae partem) cetera ſatis belle procedunt. Neque multo poft retexuit
hoe ipſum opus, in quo eo elaboravit attentius, quod fperabat aditum fibi
facturum ad mu nus tradendi mathematicas diſciplinas in LIZIO Florentino.
Acceptum illud cum plauſu fuit propter dilucidam brevitatem atque ele gantiam,
licet in eo acutiores peritioreſque geometrae pauca quaedam jure ac merito
teprehenderint. Praeſtantiam, quam conſe cutus fuerat C. in rebus geometricis,
yoluit ad hydroſtaticam transferre; cumque fedulo evolviffet quae in ea
facultate ſcris ptis mandaverant poft GALILEI (vide), BRUNI Torricellius,
Michelinius, Guglielminius, Grandius, alii. que pauci, in ſcenam prodire non
dubitavie fuftinens perſonam non modo conſiliarii & arbitri de dirigendis
avertendiſque aquis, ſed etiam ſcriptoris. Etenim ex ejus officina prow diit
liber, qui infcriptus eft: Ragionamenti intorno allo stato del Fiume Arno e
dell' acque della Valdinievole, quique editus fuit fum ptibus. Marchionis
Ferronii, cujus cauffam praeſertim defendebat. Spe dejectus Eduar dus
perveniendi in LIZIO Florentini docto rum numerum, qui praeter modum iis tem-.
poribus. creverat, animum ad Academiam Piſanam convertit, petiitque dari ſibi
va cuum eo tempore logicae interpretis locum. Celeriter quod optabat impetravit,
propte rea quod Joannes Gaſto Magnus Etruriae Dux eximiam illius ſcientiam in
omni re philo ſophica cognoverat. Vir non tam doctrina praeſtans, quam docendo
prudens (etenim quaedam etiam ars, eſt docendi ) magno erat emolumento
ſtudiofis adoleſcentibus, qui non uſitata frequentia fcholam illius celebrabant.
Cum vero de fchola in otium folitudinem que se conferret, tempus potiffimum
conſu mebat in augendis. perficiendiſque ſuis Phi lofophicis Institutionibus,
abſolvendoque, quod inſtituerat, opere de Practica Geometria. Ins ter haec
magna fuit amnis Arni inundatio,ut fi inundationes excipias, quae annis
acciderunt, nul lam unquam majorem fuiſſe conſtaret. Pere vaſerat opinio per
animos Florentinorum huic luctuofae calamitati cauſſam praefertim dediffe
Clanis aquas in Arnum deductas, & quae ad eaſdem moderandas aquas facta fue
rant opera. Hunc errorem ut eriperet Edu. ardus, utque perſuaderet eadem opera
fuiſſe utiliffima ac faluberrima, libro expoſuit qua lis fuiſſet, & quis
eſſet ſtatus Claniae val lis, quidque conſultum & actum ad fua uſque
tempora, ut peſti lentiſſima regio convaleſcere aliquando & fa nari
poſſeti, utque controverſiae inter finia timos Principes de dirigendis aquis
ejuſdem regionis tollerentur. Piſis erat C. con tubernium cum Alexandro Polito,
qui hum maniores litteras profitebatur, cujuſque vi tam ſupra explicavimus.
Hominis Graecis & Latinis litteris eruditiffimi exemplum & vo. ces,
ſelectiſſimorumque librorum copia, qua is abundabat, C. per fe jam flagran tem
vehementiffime incenderunt ad eas ar tes, quibus ab ineunte aetate deditus fuerrat,
celebrandas. Sciebat Graece, cujus ſermonis elementa juvenis Florentiae acce
perat a ſodali ſuo Franciſco Maria Baleſtrio, fed non luculenter. Itaque multo
ſudore ac labore in arte grammatica primum ſe exer euit, poftea Graeca multa
convertit in LATINVM, Graecorumque libros & eos pracſer tim, qui res geſtas
& orationes ſcripſe runt, utilitatem aliquam ad dicendum aucu- | pans,
ftudiofiffime legebat. Cum vero ei eſſet perſuaſum ingentes ac prope immenſos
cam pos illi proponi, qui eloquentiae ceterife que humanioribus litteris vacare
cupit, acom mico hac de re aliquando ſciſcitanti reſpon dit: percipiendam ei
effe omnem antiquitatem, cognoscendam hiſtoriam, omnium bonarum artium
ſcriptores & doctores & legendos & pervolu tandos, &
exercitationis cauſa laudan.los, in terpretandos, corrigendos, refellendos;
diſputan dumque de omni re in contrarias partes, & quid quid erit in quaque
re, quod probabile videre poffit, eliciendum atque dicendum. Hujuſmodi
exercitationes, quas diu incluſas habuit, Core finius in veritatis lucem tandem
proferre ſe poffe putavit, cum Faſtos Atticos illustrandos fuſcepiſſet; magnum
ſane opus & prae clarum, quod omnem fere Athenienfium hi ftoriam complecti
debebat, cum qua philofophiae, omniumque laudatarum artium hi ſtoria arctiſfime
eſt conjuncta. Diviſit illud ipſum opus in partes duas, quarum prio rem veluti
apparatum Faftorum effe voluit, quod in illa fuſe lateque ea exponerentur, quae
commode in ipfis Faftis, ad quos ta men pertinebant, 'exponi haud poffe vide
bantur. Agit itaque de Archontum inſtitu tione, numero, varietate, muneribus
& re rie, de Archontico anno, atque ordine men fium Athenienfium. Cum vero
Archontigiis annus non in menſes ſolum, ſed in Pryta nias etiam diviſus eſſet,
ac Tribuum Athe nienfium fingulae aequali temporis, annique parte Prytaniae
munere fungerentur, de ie pſarum Tribuum ac Prytaniarum numero, ordine ac ſerie,
deque Atticae populis, ex quibus illae conſtabant, eruditiſſime differit. Neque
ab his ſeparandam putavit tractatio nem de Athenienſium Senatu & Ecclefiis,
dcque Proedrorum, ac Epiſtatum numero, diſtinctione & officiis. Tranſit
inde ad contexendam Archontum ſeriem diſtinguens eponymos a pseudeponymis. Quam
diſtinctionem licet nonnulli agnoverint, nemo tamen exſtitit, qui
Pſeudeponymorum Archontum feriem illuftrandae Atticae hiſtoriae maxime
neceffariam recenſere tentaverit. Agit de mum de civilibus Graecarum gentium
annis, ipfarumque menfibus, cyclis atque periodo, cum antea declaraſſet tempus,
verumque di em, quo varia Athenienſium feſta peragi & redire confueverant.
Id facere neceſſe fuit propterea quod eadem fefta, veluti perſpi cuae certaeque
temporis notae, rerum gefta rum memoriaé ſaepiffimè a ſcriptoribus adji ciuntur.
Haec quidem in priori operis par te. In fecunda vero Fafti exponuntur a pri ma
Olympiade, qua Coroebus palman retus lit, uſque ad Olympiadein cccxvi. Causa
fuit juſta C. praetereundi antiquiora tempora, quod iſta laterent craſſis
occultata tenebris, & circumfuſa fabulis. Ne tamen primam Athenienfis
imperii formam deſpice. re videretur (nam Athenis initio Reges, inde perpetui
Archontes, mox decennales, tandemque annui imperarunt) qui Reges &
Archontes perpetui, & qua aetate fuerint in Prolegomenis perſecutus eft.
Ceterum Fa. ftos fic contexuit C., ut nullum ad nos pervenerit nomen Archontum,
Olympioni čarum & Pythionicarum, nulla lex, neque pax, neque bellum, neque
caſus neque res illuſtris & memoranda populi Athenien fis, quae in iis ſuo
tempore non fit notata. Interdum etiam attigit Spartanorum, Phoceli fium,
Thebañoruin, aliorumque Graecorum gefta, conſilia, pugnas, diſcrimina, quod ca
maxime ſint Atticae hiſtoriae conjuncta. Graecos vero philosophos, poetas,
oratores, cete roſque tum pacis, tum inilitiae artibus claros viros ita
commemoravit, ut quibus Olympicis annis, & quo loco in lucem fint editi,
vitam que ' finierin't intelligi poffit. Atque haec o Innia capitulatim ſunt
dicta. Etenim nimis lon gus effem fi praecipua, & nova vellem deſcri bere,
quae in his Faftis continentur. Nihil poſuit in iis C. fine locuplete auctori
täte & teſte, aut faltem ſine probabili conje: ctura; quodque difficillimum
fuit, fcriptorum Graecoruin loca aut vitiata aut minime intel lecta, aut
mutilata'ſic reſtituit, illuſtravit, fupplevitque, ut dubitari poffe videatur
plus ne jis reddiderit luminis, quam ab iiſdem aco ceperit. Neque minori
perſpicientia Athe nienfium nummos vidit, ex quibus non pau. ca quidem in rein
ſuam hauſit; ſed multo plura e marmoreis monumentis fumpfit, ta li modo
dirimens controverſiam, quae ex fufcitata fuerat a ſummis viris Spanhemio,
& Gudio, nummis ne, an inſcriptionibus princeps locus dandus effet in
explicandis ri tibus, feſtis, Numinibus, ludis, magiſtrati bus, rebuſque geſtis
Athenienfium. Inter nobiliores inſcriptiones, quas refert Corfi nius, &
miro prorſus acumine atque eru ditione explicat, & interdum etiam fupplet,
eft Florentina quaedam apud Riccardios ile luſtrandis Athenienfium Tribubus
maxime idonea. Sed haec mirifice corrupta erat, au gebatque corruptelam
collocatio. Etenim cum ex tribus fragmentis conſtaret, imperi tus artifex fic
illa in pariete diſpoſuerat, ut media pars primae, finiſtra mediae, dextera
vero omnium poftremae partis locum Occu paret. Vidit haec mala Corſinius, qui 2
tutiſſime indagabat omcia, iifque remedia goadhibuit. At puduit Joannem Lamium
ſe non adeo lynceum fuiffe, cum ufus effet sadem inſcriptione in ſuis ad
Meurfium Scholiis, & ex pudore orta eſt invidia. Ex quo intelligi poteſt
quare is debitas mun quam tribuerit laudes operi, quod omnium judicio longe
multumque ſuperat quidquid in hoc rerum Atticarum genere ſcripſerunt Sigonius,
Scaliger, Petavius, Petitus, Sponius, & vel ipfi Meurfius, & Dodwellus,
quorum errorés dum faepe corrigit C. , & dum minime ab iis animadverſa pro
fert, fatis declarat iiſdem detrahere voluiffe Haerentem capiti multa cum laude
coro nam. Rumor erat ea parare Lamium, quibus fpe rabat hominibus fe probaturum,
C. in emendanda illuſtrandaque Riccardiana in fcriptione ſurripuiffe fibi
fegetem & mate riem gloriae ſuae. Porro Lamius poft edi tas Corſinii
emendationes fupponere cogita verat in locum impreſſae jam paginae in I.
Meurſii operum volumine, quae prae fe fe rebat inſcriptionem corruptam, aliam
pagi nam, in qua emendatior inſcriptio legebatur; CORSINIUS: 1 bancque
mutationem, omnibus occultari pof ſe putaverat, quod Meurſii liber nondum efe
ſet in vulgus editus. Non latuit certe Core finium, in cujus manus pervenit
etiam pria mum impreffa pagina, qua omnem a fe prow pulſare poterat injuriam.
Id ut audivit Lami mius aliam rationem iniit perficiendi confi lii ſui. Dedit
ad Angelum Bandiniun litte ras plenas iracundiae ac minarum, ſpecie qui dem ut
ea, quae jamdiu ſepoſuerat ad Riccardianum marmor explanandum, aliquando
proferret; re autem ipſa ut quae a C. didicerat, perpaucis additis aut mutatis,
le ctori aut occupato aut indiligenti vendita Yet pro ſuis. Atque id utrumque
ſcriptorem conferenti luce clarius eft. Quare mirari ſa tis non poffum hominis
frontem, qui furti C. infimulet in eo loco, in quo ipfo cum re aliena, atque
etiam cum telo eſt de prehenſus. Atque haec an. v. ſunt geſta, cum Fafti Attici
anno ſuperiori lu cem vidiſſent. Sed tamen res defenſionem apud multitudinem
potuit habere uſque ad cum annum, quo Meurſii opera cum Lamii animadverſionibus
vulgata funt fimul universa. Tum enini primum jejuna illa marmoris
interpretatio, quam ante annos xxII. Lamius in l. operum volumen intulerat,
lecta eft.: ad calcem vero ejus voluminis ſecundae Aucto ris curae in eum
lapidem, & quaſi retra Statio quaedam ante dictorum edita eſt. Qua in
mantiſſa bina extant indicia Corſinii cauffam mire tuentia, alterum quod nihil
hoc in loco proponatur, quod non ille in Faſtorum libro occupaverit; alterum
quod mantiſſae characteres ab ejuſdem voluminis characteribus forma et figura
longe abſunt, teſtanturque non niſi poſt annos multos quam liber fuerat
impreſſus, diſtractis jam aut obſoletis formis illis prioribus, additam eſſe
appendicem, de qua meminimus. Sed jam fatis multa de homine meo quidem judicio
paucis comparando, niſi regnum in litteris, quod FIRENZE perdiu tenuit, malis
inter dum artibus & clarorum virorum vexatione confirmandum putaſſet.
Quamvis in Fa. Hujus rei narrationen pluribus etiam verbis exa pofitam vide in
libello cujus eſt infcriptio: Paffatem po Autuntile, quo in libcllo Si quis est
qui dictum in se ir clemencius Exis. Atis Articis elaborare C, maxime glorio
fum fuerit, non minorem tamen laudem rea portavit ex Agoniſticis
Differtationibus, de qui bus Ludovicus Muratorius, intelligens ſane. judex,
dicere folebat, poſſe eas per ſe ſo las aeternum nomen Auctori comparare. His
Diſſertationibus oftendere voluit C., quo tempore Graeci celebrare conſueverunt
ludos Olympicos, Pythicos, Nemeaeos, & Iſthmiacos, quod tempus eatenus
fuerat vel incompertum, vel faltem obſcurum. In hoc autem non mediocrem
utilitatem chronolo giae & hiſtoriae ſe allaturum putavit, quod iiſdem
ludis fcriptores uterentur ad notanda deſignandaque rerum geſtarum tempora. Ab
Olympicis exordiens, qui ceteros fplendore & frequentia ſuperabant,
breviter cos percurrit, quos ab Hercule primum inſti tutos Trojano bello
deſiiſſe, moxque ab. Iphito reftitutos iterum intermiffos fuiffe fcriptores
narrant. Etenim illud caput eſſe videbatur, ut de Olympiade illa quaereret, qua
Coroe bus palmam accepit, & quae prima dicitur, omnes Exiflimayit ele, fit
exiſtimet Reſponſum, d.ctum effe, qu'a
lacris prior quod ab illa ceterarum Olympiadum ordo & feries incipiat. Hanc
celebratam fuiſſe putat an. periodi Julianae circiter folftitium aeſtivum, plenilunii tempo
re, qui mos ſemper manſit non folum anti quioribus, quibus civiles Graecorum
anni lunares erant, fed recentioribus etiam, qui bus ſolares anni a Romanis ad
Graecos tran. fierunt. Primus is erat anni menſis, in quem incidiffent Olympici
ludi. Quinque diebus eorum certamina abſolvebantur, inter quae curſus, quo, uno
certatum eſt ad Olympia dein uſque, primas tenebat. Neque. in Aelide folum, fed
& in aliis Graeciae ur bibus fumma cum populi frequentia ac faca. crorum
caeremonia Olympici celebraba ntur, donec v. ineunte reparatae falutis faeculo,
jidem cum Pyticis. ſublati fuerunt., Pyticos primum inftituit Apollo, eofque
jamdiu in-. termiffos, confecto. Criſſenfi bello, Olympiade. Amphictyones
revocarunt. Ii dem Olympicorum inſtar pentaéterici erant; neque ſecundis annis,
aut quartis, ut Petavius & Dodwellus, exiſtimarunt, ſed tertiis, hiſque
exeuntibus circa Elaphebalionis menfis finem, tum Delphis, tum in aliis Graeciae
urbibus peragi confueverunt, Proxime poft Pythia Olympiade ſcilicet Lill.
inſtaura ta fuerunt Nemea, quorum origo reperitur a ſeptem Argivis ducibus, qui
ad lenien dum defiderium pueruli Archemori a ſerpen te occiſi funebres hoſcę
agones ante Olympiadem primam prope Ne meaeum nemus inftituerunt. At Nemeadem
illam, ex qua veluti cardine ceterae infe quentes numerari coeperunt, in annum Olympiadis
LxxII. poft Marathoniam pu gnam incidiffe fatis probabiliter Eduardus af firmat.
Nemeades aeſtivae aliae, aliae hibere nae, omnes vero trietericae fuerunt;
eaeque alternis annis ita peragebantur, ut hibernae quidem in medios ſecundos,
aeſtivae vero in quartos ineuntes Olympiadum annos in currerent. Cum Nemeis
ludis quaedam erat Iſthmicis a Theſeo, ut ferțur, conſtitutis fia militudo.
Funebres erant ambo, ambo trie terici, & qui utrolibet in certamine
viciſſent apio coronabantur, Ithmici quoque alii em rant aeſtivi, non tamen
alii hiberni, ut qui dem Dodyellus putabat, fed verni brabantur illi primis
Olympiadum annis Hea catombeone menſe, hi Thargelione, exeun te fere tertio
Olympico anno. Sic definivit C. tempora quatuor illuſtrium Graea ciae ludorum,
patefaciens obſcura & ignota vel ipſis chronologiae luminibus Scaligero
Petavio, & Dodwello, quorum auctoritate abreptus ipfe in primo Faſtorum
Atticorum libro Pythiades ſecundis Olympicis annis cona cefferat. Agoniſticis
hiſce Differtationibus, veluti faftigium operis, idem adjecit feriem
Hieronicarum alphabetico, ut dicitur, ordi ne diſpoſitam, & Dodwelliana
longe ube riorem accuratioremque. Nam feptuaginta. ſupra centum vitores
recenſuit, qui Dod weilum prorſus fugerant; fonteſque indic cavit (in quo
Dodwelli diligentia ſaepiffi, me deſiderabatur ) unde uniuſcujufque vin ctoris
nomen, aud patria, aut aetas, aut tertaminis genus, quo viciffet, hauriebatur.
Hoc opus vehementer adeo Auctori fuo pro batum erat, ut vir modeftiffimus in eo
quo daininodo gloriari videretur. Etenim, ut At rico fcripfit CICERONE, fua
cuique Sponfa,fuus quiqua Quoniam autein tumuin his Agoniſticis
Diſſertationibus, tum in Faltis ſcribendis faepe uſus eſt C. ſubſidio
marmoreorum monumentorum, in quibus multae occurrunt notae, quarum neque fa
cilis, neque prompta fuit explicatio, fepara tum opus. a ſe expectare putavit
Graecarum antiquitatum ftudiofos, quo in opere non ſolum ex marmoreis, fed
etiam ex aereis Graecorum tabulis: varias eorum notas colli geret, haſque
explicaret atque illuſtraret. Quae dum animo verſaret, fcriptionique jam manum
admoviffet, ecce in lucem prodit Scipionis Maffeii liber de Graecorum figlis
l.z pidariis, in quo trecenta fere vocum com pendia ingeniofe: feliciterque
enodantur.. Cum C. ab amico librum accepiſſet, ei epi ſtolam fcripfit (relata
haec fuit in volumen. diarii Litteratorum. Florentiae editi ) in qua ſummas
tribuit Maffejo laudes, quod primus ex omnibus materiem hanc ſeorſim tractandam
füfceperit,, magnam in illam con ferens.eruditionis copiam, & acre: prudenſ
que judicium.. Non, propterea tamen: ſpar tam, quam fibi ſumpſerat, ille
deſeruit, quia, ut ait Auſonius, is crat campus, in quo alius alio plura
invenire poteft, nemo om. nia. Et plura certe C. invenit, cum mille fere notas, aut numerorum
vocum que compendia uno volumine colligere po tuerit & explicare illo ſuo
acutiffimo inge nio, cui inquirenti & contemplanti omnia occurrere ſe ſeque
oftendere videbantur. Ut vero delectatione aliqua alliceret adoleſcen tes,
quibus inſuavis fortaſſe & aſperior via deri poterat ſiglarum inveſtigatio,
poftquam multa eruditiſſime praefatus effet de notarum origine, vi,
utilitateque, opportune ſparſit in toto libro non pauca ad hiftoriam, geos
graphiam, chronologiam, ac mythologiam ſpectantia. Ex quibus aliiſque
diſciplinis ube riora etiam hauſit, ut ornaret dissertatio nes ſex, quas,
abſoluta univerſa notarum ſerie, confecit, ut eſſent operis corollarium.
Explicant illae inſignes quaſdam Chriſtianac & profanae antiquitatis
inſcriptiones, ficque explicant, ut facile exiſtimari queat, eum qui non
comprehenderit rerum plurimarum ſci entiam, quique judicio certo & ſubtili
non fit praeditus, in his antiquitatis ftudiis ſatis callide verſari &
perite non poſſe. Inſcriptit C. hoc ſuum opus: Norse Graecorum five vocum &
numerorum compendia, quae in gereis atque marmoreis Graecorum, tabulis obſer
vantur, dedicavitque Cardinali Quirinio, a quo pecuniam ad illud ipſum
evulgandum dono accepit. Etenim his temporibus haud illi magna res erat, quae
vix fatis efle vide batur ad vitam ſuſtentandam, neceſſarioſque. libros emendos.
Praepoſitus dialecticae ſcholae, nihil aliud annui ſtipendii obtinuit nifi
octingentos denarios. Hoc eſia fatum videtur nobiliilimae. quidein diſcipli nae,
ut pote quae per omnes diſciplinas ma: nat ac funditur, ut qui illam
profitentur me: diocribus afficiantur praemiis. Vel ipſi Graeci, quamvis ellent
aequi liberalium artium aeftimatores, minam, eſſe voluerunt inerce dem
Dialecticorum. Coin.nodiori in ftatu res C. eſſe coeperunt cum traductus fuit ad
metaphyſi cam atque ethicam docendam. Tunc eniin ipfius ftipendium erat bis
millenorum & am plius denariorum, poſteaque illud ipſum ad quatuor. mille
ducentos quinquaginta uſque pervenit, cum proſperae. res multae confecutae
fuiſſent. Satis ſuperque id erat homi ni temperato ad vitam beatiſſimam; videba
turque libi ſuperare Craffum divitiis. Quan tum vero ſorte ſua contentụs,
quantiſque a moris vinculis Academiae Piſanae obftrictus effet, ex eo conjici
poteſt, quod mortuo Lu dovico Muratorio Mutinenfis Ducis bibliothe cae
praefecto in illius locum fuccedere recu favit, quamvis liberaliſſime ipfius
Ducis ver bis invitaretur. Quo cognito ab Emmanue le Comite Richecourtio, qui
Franciſci I. Cae faris nomine res Etruriae adminiſtrabat, ipſe fingularibus
verbis ei gratias agendas cenſuit, eidemque prolixe de ſua non modo, fed &
Cae aris voluntate pollicitus eſt. Id non potuit C. non fumme eſſe jucundum;
utque viro de fe & de Sodalitate ſua bene ſemper merito gratum fe
oftenderet dedica vit illi PLUTARCO opus de Placitis Philoſopho. tum a se LATINVM
factum, vitaque Scriptoris, fcholiis, & diſſertationibus ornatum. Causam
ſuſcipiendae novae interpretationis ei dem dederunt naevi quidam, quibus maçı
lantur Budaei, Xylandri, & Crụſerii honi num ceteroquin doctiſſimorum
interpretationes; ſuſceptam vero ita perfecit, ut ver bu pro verbo reddiderit,
multaque etiam attulerit de fuo, quae funt diverfo chara ctere notata, ne
attenuata nimis diligentia perſpicuitati officeret, & ne res ipfa omni LATINAE
orationis dignitate cultuque deſtitu ta ſordeſceret. In limine operis Plutarchi
vi tam ex illius aliorumque veterum ſcriptis a ſe diligentiſſime colletam,
& feriem philo ſophorum, quorum placita a Plutarcho pro feruntur,
aetatemque, in qua vixerunt, ex. poſuit. Singulis vero operis capitibus brevia
adjecit commentaria, quae aut mutilos & hiulcos Plutarchi locos ſupplent,
aut de pravatos emendant, aut obſcuros atque per plexos, opportune allatis
aliorum philoſo phorum ſententiis, illuſtrant. Siquando au tem longioris eſſe
orationis putavit Corſi nius lucem aliquam afferre rebus obſcuriſſi mis, cum
non Heraclitus ſolum, ſed & quiſ que fere antiquitatis philofophorum, quo
rum ſententias coarctavit & peranguſte re ferſit PLUTARCO, Exotélv8
cognomen me reatur, hujuſmodi illuſtrationes ad finem li bri rejecit. Quo in
loco voluit etiam recenfere illuſtriores ſententias, quae propriae di cuntur
recentiorum philoſophorum, cum ea rum tamen manifeſta appareant veſtigia in
Plutarchi libro, quod profecto ad veterum gioriam amplificandam plurimum valet.
Ta les ſunt attractionis leges, vireſque, ut di cuntur, centripeta &
centrifuga, Charteſiani vortices, lunae phaſes, maculae, quod que haec fit
terra multarum urbium & mone tium, converfio folis, planetarum, fiderum que
certa quadam celeritate ac periodo cir ca axes ſuos, natura, coſtans motus,
rever lioque cometarum, telluris motus, quodque ex eo cauſſa ' maris aelus
repetenda fit jegew’ewe explicatio, aliaque hujuſmodi mul ta tum ad corporum,
tum ad animi na turam pertinentia. Profecto nihil dulcius erat Corfinio quam
per abdita remotioris antiqui• tatis permeare, & inde nova & inexpecta
ta deferre, quae hominibus contemplanda bono in lumine exhiberet. Nam, ut Ari
ſtoteles inquit, fuo quiſque artifex ftudio atque opera impenſius delectatur.
Cum igi tur accepiffet ab Antonio Franciſco Gorio amiciſſimo ſuo graphidem eximii
cujųſdam anaglyphi, quod Romae viſitur in Aedibus Farneſianis, non magnopere
hortandus fuit, ut in illo exponendo elaboraret. Exhibet hoc ſuperiori in parte
Herculem cuin Eų. ropa, Hebe, Satyriſque quieri, voluptati que poſt exantlatos
labores indulgentem, in inferiori vero tripodem Apollini ſacrum, Ar givae
Junonis Sacerdotem, atque alatam Virginem, & Herculem demum ipſum ſe ſe
expiantem, ut purus ad Deorum conci lium afcenderet. Hinc & illinc
anaglyphum ornant binae columnae cum Graeca inſcrie ptione, quae multis verſuum
decadibus Her culis geſta commemorat: in ſupremo tan dein anaglyphi loco
octodecim hexametra car mina exculpta ſunt, quibus Herculis labores & certamina
declarantur. Praeclariſſimi hujus monumenti explicationem Eduardus libello quem
ad Scipionem Maffejum inſtituit, com plexus eſt; ex eoque judicari poteft, vehe
mens afiiduumque ftudium ipfi copiam eru ditionis dediſſe, naturam vero
tribuiſſe in genium ad conjiciendum divinandumque fa ctum. Et fane divinationis
cujuſdam vide illum potuiſſe laceras ac depravatas multorum verſuum lacinias
feliciſſime corri gere atque ſupplere. Magnae antiquitatis ar gumentum praebere
ſuſpicatus eſt Doricam dialectum, qua exarata eſt inſcriptio, ne- ! que ipfe
affirmare. dubitat opus paullo poſt Alexandri tempora', antequam Q. Flaminius
priſtinam Graecis libertatem redderet, perfe &um fuiſſe. Sed aliter alii
ſentiunt qui bus nunc plerique affentiri videntur. Hoc ipſo ferme tempore
Corſinius ejuſdem Gorii poſtulationibus Diſſertationes quatuor con ceſſit, quae
impreſſae funt ab illo in vi. vo lumine Symbolarum litterariarum. Extricat pri
ma epigraphen ſculptam in labro interiori cujuſdam crateris ahenei Mithridatis
Eupa toris, qui crater in muſeo Capitolino, Vide Winkelman, Monumenti antichi
inediti Trel. Prelim. Idem quaedam alia notat in quibus deceptum fuiſſe C.
arbitratur Sic interpretatur C. mire
involutam in. ſcriptionem: Regis Mithridatis Eupatoris Regni anno 54.
Eupatoriftts GYMNASII-- hoc eft civibus Eupatoriae, qui IN GYMNASIO certarunt --
ſenectutem conſeival, quod erat ad laudem vini, quo plenus crater vi &ori
con cedebatur. Alii aliter interpretanda extrema pracſertim inſcriptionis verba
exiſtimarunt, quorum fententiam plerique nunc fequuntur affervatur. Secunda
patefacit obſcuros igno ratoſque dies natalem & fupremum Plato nis, qua
occafione aliorum etiam virorum illuſtrium Archytae, Philolai, Iſocratis, Ly
fiae, Dionis, & Socratis aetates & tempora perſequitur. Explicat tertia
adverſam par tem numiſmatis Antonini Caeſaris, in qua Prometheus humanum corpus
ex luto fin gens, & Pallas capiti mentem, papilionis imagine expreſſam,
inſerens confpiciuntur. Curioſa ſunt quae excogitavit C., ut perſuaderet
hominibus morem repraeſentandi humanam mentem ſub papilionis imagine non ex
miris hujus volucris affectionibus & natura, non ex ipſa animi
immortalitate, circuitu, aut tranſmigratione, non ex Chal daicae, Graecaeque
fapientiae fontibus, non ex arcanis amoris myſteriis, fed ex fola ar tificum
imperitia profluxiſſe. Cum enim unum idemque nomen pſyches papilionem & ani
nium deſignet, rudis artifex, qui primus ani mum exprimendum ſuſcepit, non
putavit hu jus ideam poffe melius excitari, quam obje eta imagine illius rei,
quacum is commune nomen habet. Quarta Diſſertatio demum in eo verſatur, ut
oftendat mentitam & falfam effe LATINAM quamdam inſcriptionem, quae Piſis
vilitur in Scortianis aedibus. Summi labores, quos C. impendit in conficien dis,
quos retulimus, libris, magna compen ſati fuerunt gloria, ut unus e multis, qui
illuſtrandae Graecae praefertim antiquitati ſe ſe dederunt, excellere
judicaretur. Cujus de praeſtanti in hoc rerum genere doctrina tan ta etiam
judicia fecit Scipio Maffejus, quan ta de nullo; cujus teſtimonii auctoritas ma
xima reputari debet non folum quod ab hox mine prudentiſſimo proficifcitur, fed
etiam quia figulus invidens figulo, faber fabro, ut eſt Heſiodi dictum,
alterius laudi & gloriae | minime favere ſoleat. Ex mutua opinione
doctrinae, fimilitudineque ftudiorum orta eft inter cos jucundiffima amicitia,
cujus tanta vis fuit, ut C. aeſtate an.quamvis non bene valens, Veronam venerit
aliquot menſes commoraturus apud amicum. Quo tempore inter eos fuit
familiariſſima focietas, & communicatio ftudiorum. Dono accepit C. a
Maffejo tercentum fere Graecas inſcriptiones (has Chici1shullius collegerat,
& fecundae Afiaticarum antiquitatum parti reſervaverat ) ea conditio; ne,
ut eas Latine redderet atque illuſtraret, Satisfecit ille aliqua ex parte
promiffo ſuo, cum anno inſequenti edidiſſet eas inſcriptio. nes, quae ad
Athenas ſpectabant; eaſdem que iterum cum commentariis edidit quam driennio
poft, ut eſſent ornamento quarto Faftorum volumini. Nono menſe poftquam in
Etruriam rediit C., moritur Alexander Politus, quocum ille ita vixit, uit. quem
pauci ferre poterant propter difficilli mam naturam, hujus fine offenfione ad
fum. mam fenectutem retinuerit benevolentiam. Mortuo autem Polito neque
inquirendum neque conſultandum fuit quis illi ſucceſſor in Academia Piſana
daretur, cum omnium oculi ftatim in C.conjecti fuiſſent. Ita hic exeuntė poftquam
octodecim fere annos philoſophiam tradidif ſet, munus docendi humaniores
litteras li bentiſſimo animo ſuſcepit. Initio propoſuit fibi (nam muneris ratio,
& adolefcentium utilitas ab eo poftulabant, ut cum Graecis Latina
conjungeret ) explanare Plutarchi parallelas ROMANORVM vitas, ut inde
occaſionem ſumeret utriuſque populi leges inter ſe conferendi. Memoriter
dicebat e ſuperiori loco, quod ad praeceptoris & ſcholae dignitatem
plurimum tum conferre putabatur; & quae tradebat inſignita e rant luminibus
ingenii, & conſperſa erudi tionis ſententiarumque flore. Genus dicen di
erat quiétum & lene, purum & elegans, ut maxime teneret eos qui audiebant,
& non folum delectaret, fed etiam fine fatieta te delectaret. Nulli
diſcipulorum aditum ſermonem, congreſſumque fuum denegabat, quin immo eos bis
in hebdomada domum ſuam invitabat, ut in ftudiis exerceret ROMANORVM
ANTIQVITATVM. Domi etiam tradebat metaphyſicam, quo onere non placuit Academiae
Moderatoribus illum libe rare niſi quo
quidem tem pore Venetiis evulgavit ſuas Inſtitutiones Me taphyficas. In his
adornandis illud unum pro pofitum fibi fuit, ut in animis adoleſcentium rectas
de animae immortalitate, arbitrii li bertate, Dei exiſtentia, ceteriſque
naturalis theologiae dogmatibus notiones infereret, quibus in gravioribus aliis
diſciplinis veluti praeſidiis uti pofſent, quibuſque caverent a peſte quadam
hominum non tam religioni, quam reipublicae infeſta, quae rationem per vertendo
ubique venenatas opiniones diffe minare non veretur. Subaccuſent aliqui, fi
lubet, C., quod nimis, parcus fuerit in pertractandis quibuſdam rebus, quae in
ca, in qua nunc ſumus, luce ignorari mi nime poſſe videntur; omnes profecto uno
ore fateri debent tales effe hafce Inſtitutio nes, ut cupidi metaphyſicae
nullibi poffint refrigerari ſalubrius atque jucundius. Poftre mum hoc operum
fuit, quae C. Phi loſophiae dicavit, nifi dicere velimus, eti am cum minime
videretur tum maxime ila lum philofophari conſueviſſe, Quod declarant ejus
Latinae orationes ad Academicos Piſanos refertae Philoſophorum fententiis,
faluberri ma praecepta, quibus adoleſcentes ad omne officii munus inftruebat,
doctiflimoruin Philoſophorum familiaritates, quibus ſemper flo ruit, & ars
illa diſtinguendi vera a falſis, colligendi ſparſa, eaque inter ſe conferendi,
diligenter examinandi omnium rerum verbocum rumque pondera, nihilque afferendi
fine evi denti ratione, aut faltein probabili conjectu ra in qua arte quantum
inter omnes un Aus excelleret, praeſertim oftendebat, in vetuftatis monumenta
inquireret. Hujus inquiſitionis uber fane fructus fuit Diſſertatia illa de
Minniſari, aliorumque. Armeniae Regim nummis, Et. Arſacidarum epocha, quam idem
in lucem extulit. Difficulta tis maximae fuit oftendere Minniſari num mum, quem
praecipue illuſtrandum C. ſuſceperat, ad illum fpectare Maniſarum Armeniae
& Meſopotamiae. Regem, de quo Dio Caffius in libro ROMANAE HISTORIAE mentionem
fecit, & Arſacidarum epocham uon in Parthiae. folum, fed etiam in: Arme
niae regum nummis inſcriptam fuiffe, eam. que ab anno Urbis conditae Dxxv.
initium duxiſſe. Antea quidem doctiſſimorum viro rum Uſſerii, Petavii, Noriſii,
Spanhemii, Vaillantii, & Froelichij fententia fuerat, ſe rius. Arſacidarum
imperium incepiſſe, adver ſus quam ſententiam C. ita pugnavit, ut veritas non
minus quam modeſtia eluxe rit. Quoniam vero in antiquitatis ftudio multae res
inter fe ita nexae & jugatae funt, ut, inventa una, aliae, quae prius
latebant, ſe ſe contemplandas offerant, ean ob rem Corfinius in Minniſari regis
num mo explicando varia ſcriptorum loca corri gere & ſupplere, verum Darii
genus expo nere, Tiridatem alterum, Arfamem, aliof que Armeniae Reges
Vaillantio prorſus in cognitos proferre potuit. Res in hac Differ tatione
contentae, non fine laude oppugnatae fuerunt a Jeſuitis Froelichio &
Zacharia, reſponditque ad ea, quae objecta fuerunt, ſine iracundia C.. Eteniin
veritatis unice amans alios a fe diffentire haud ini quo ferebat animo,
ſemperque deteſtatus eſt eos, qui ſuis ſententiis quaſi addicti & con.
fecrati etiam ea, quae plane probare non poſſent, conſtantiae, non veritatis
cauſſa de. fenderent. Propugnationem quoque Corſinii libello (*) ſuſcepit ejus
convictor & fodalis Huic titulus eſt. Lettere critiche di un Pafton r
Arcade ad un Accademico Erruſco nelle quali ſi ſciola gono le difficoltà fane
contro un'opera del Reverendiſſia mo Padre Corſini nel Tom. IX. della Storia
leveraria of lialia &e, in Pisa in Carolus Antoniolius, qui quidem non me.
diocria adjumenta illi praebuit, cum pluri mum valeret in omni genere ftudiorum
quae ipſe excolebat. Magni quoque Acade miae fuit Antoniolii opera in Graecis
littea ris tradendis toto illo ſexennio, quo C., coactus capeſſere, ſummum
Sodalitatis fuae magiſtratum, bona Principis cum ve nia, & fine ulla
ſtipendiorum jactura Piſis abfuit. Hic Romam venit menſe. ardens. defiderio
indicia veteris memoriae, quibus mirabiliter urbs. illa abun dat (quacumque
enim quis ingreditur in aliquam hiſtoriam veftigium ponit ) cogno ſcendi. Sed
raro ei poteſtas dabatur huic ſuo. deſiderio, fatisfaciendi, cum podagrae
dolori bus ſaepiſſime vexaretur, & munus ſuum diligentiſſime exequi vellet.
Quanta vero pru dentia ac dexteritate fuerit in tractandis ne. gotiis, quanta
aequitate in conſtituendis, temperandiſque, ſi res pofcebat, conſtitutis jam
legibus, quanta humanitate erga omnes, quantaque vigilantia ac providentia in
con fulendo rebus. praeſentibus, praecavendoque futuras, fatis praedicari non
poteft. Cum autem nihil ſine aliorum conſilio agere ei mos eſſet, &
facilitate ſumma uteretur in füos adjutores procuratoreſque, inde norza nulli
materiem ſumpſerunt falſae criminatio nis, quod ad aliorum magis quam ad ſuun
arbitrium res Familiae adminiftraret. Omnino totum fe tradidit Sodalitati, to
tamque fic rexit, ut oblitus commodorum ſuorum omnibus proſpexerit. Non eſt
credi bile quanto animi dolore angeretur, fi ali quis ſuorum in crimen
vocabatur. Horrebar enim homo innocentiſſimus vel ipfam pecca ti ſuſpicionem.
Sed non propterea fontibus iraſcebatur, hofque clementia magis atque
manſuetudine, quam animadverſione & ca ftigatione ad frugem revocare
ſtudebat. Cum vero feveritatem, fine qua reſpublica adıni niftrari non poteſt,
adhibere cogebatur, similis, ut praeclare admonet CICERONE, legum erat, quae ad
puniendum non iracundia, fed aequitate ducuntur. In his occupationi bus muneris
ſui, ne plane ceſſäre a fcriben do videretur, extare voluit explicationem
đuarum Graecarum inſcriptionum, quae mus ſeum ornant Bernardi Nanii Veneti
Senatoris. quam feliciter id praeftiterit, perſcrutata prius litterarum
priſcarum, quibus illae con fcriptae ſunt, forma atque vi, facile judica bunt
ii, qui ſunt harum deliciarum amato Tes. Tentaverat eamdem rem Franciſcus Za
nettus, ſed longiſſime aberravit a vero ejus interpretatio. Ipſe C. cum Anconae
effet ineunte eoque prae ſente cum multis aliis detecta fuiſſent atque agnita
corpora Sanctorum Cyriaci, Marcelli ni & Liberii, quos ſingulari obfequio
ea dem civitas venerațur, incitatus fuit, ut ali quid laboris impertiret
illorum Sanctorum illuſtrandae hiſtoriae, definiendoque praeſer tim tempori,
quo tranſata eorumdem cor pora fuerunt in eum, ubi nunc jacent, lo cum, &
quo Anconae coli coeperunt. Haec C., edito commentariolo, accidiffe - ftendit
exeunte faeculo & ex ipfis an tiquitatis monumentis quibus ſententiam ſuam
confirmavit, quatuor Anconitanorum Epiſcoporum nomina in lucem protulit, quaç
uſque ad id tempus fuerant incognita, Per pauca in hoc commentariolo attigit de
S, Liberio, quod ejus hiſtoriam involutam tenebris & fabulis exiſtimabat,
Mox cum ei aliquid luminis affulfiſſet, & monumentorum ope, & mirabili
illa ſua conjiciendi arte pa tefacere potuit Liberium fuiſſe unum ex fo ciis S.
Gaudentii Abfarenſis Epiſcopi, qui circiter an. MxXxx. Anconam venit, fo
litariam vitam acturus in ſuburbano mona ſterio Portus Novi. Harum rerum
inventio multis laudibus. celebrata fuit a Scriptoribus annalium Camaldulenſium:
pergrata quo que fuit. Benedicto XIV. pro ejus. fingulari ftudio in Anconitanam
Ecclefiam. Hic cum ſaepe ad congreffum colloquiumque ſuum invitaret Eduardum,
quod ejus ſummum in genium, fuaviffimos. mores, atque eximiam probitatem &
nofſet & diligeret, ſaepe quo que ipſum hortabatur,, ut ea pergeret man
dare litteris, quae abdita Chriſtianae anti quitatis patefacerent. Sed fuerunt
juftae ca uffae quare. C. amantiffimis. Pontificis M. conſiliis minime
obtemperavit; & quid quid fubciſivorum temporum incurrebat, quae perire non
patiebatur, libentiffime concedebat ſuis priſtinis ftudiis. Ruſticabar cum eo
in Tuſculano, quando epiſtolam ſcripſit ad Paullum Mariam Paciaudium, in qua
plura de Gotarzis eximio nummo, ejuſque, Bar danis, & Artabani Parthiae
Regum hiſtoria perſecutus eſt, & pro jure noftrae amicitiae ab ipſo
poftulabam, ut in otio, quod raro da batur, & peroptato illi dabatur,
ceffaret a libris & a ftilo. Verum cuin is eſſet ut fi ne his ftudiis vitam
inſuavem duceret, di cere folebat hujuſmodi ſcriptiones non pre mere, ſed
relaxare animum. Et relaxatione certę aliqua ille indigebat, cui grave adeo
erat, quod multi appetunt, ceteros regendi munus, ut onus Aetna majus ſibi ſụſtinere
videretur. Poterat quidein illi eſſe lovaniens to recordatio multorum
benefactorum, inas ter quae maximum illud reputari debet quod eo ſexennio, quo
ad Sodalitatis gum. bernaculum ſedit, viginti domus, five cole legia conſtituta
ſunt. Interim advenit tem pus, quo magiſtratu fe abdicare, & extre mos
auctoritatis fuae fructus capere debe bat in provehendo digno viro, qui fibi
fuc cederet. Verum minime illi: contigit, ut funt ancipites variique caſus
comitiorum, quem optabat, exitus. Peractis comitiis, fine mora rediit ad
Academiam Piſanam & ad il lamºquietam in rerum contemplatione & co
gnitione maxime poſitam degendae vitae rae tionem, qua qui frueretur, negabat
ei aliquid deeffe ad beatė vivenduin. Liber de Praefe. ctis Urbis ei erat in
manibus; Graecas in fcriptiones in Aſia repertas, quas, ut ſupra retulimus, a
Scipione Maffejo dono accepe rat, quafque jampridem Latinas fecerat, co pioſis
commentariis explicabat; aderat diſci pulis ſuis; veniebat frequens in
Academiam, afferebat res multum & diu cogitatas, facie batque fibi
audientiam hominis erudita, com pta & mitis oratio. Idem efflagitatu &
coae tu amicorum inftituta. hoc tempore opera abrupit, ut explicationem
lucubraret cujuf dam nummi recens in Auſtria reperti, in quo erat nomen &
imago Sulpiciae Dryan tillae Auguſtae. Conjecit ille feminam hanc libertam
fuiſſe, libertatémque accepiffe a Sul picio quodam, ab eoque in Sulpiciam ģen
tem receptam; nupfiffe demum Carinó fcea leftiffimo Imperatori. Haec porro
incerta. Illud unuin ſine ulla dubitatione colligi pof fe videtur ex nummi
fabrica, characterum forma, feminaeque ornatu, illum ipſum num mum cuſum fuiſſe
inter Elagabali & Diocle tiani imperium, proptereaque Dryantillam ad
aliquem Imperatorum, qui illo intervallo re gnarunt, pertinere. Neque his
contentus Edu ardus voluit etiam excutere hiſtoricorum & rei nummariae
interpretum mire inter fe dif ſidentes opiniones de Aureliani ac Vaballa thi
imperio atque aetate, ac poftremo ſuam ſententiam proferre. Fuit haec, Aurelianum
exeunte Julio, vel ineunte Auguſto imperium ſuſcepiſſe, eaque multis &
gravibus confirmatur argumentis. Ad ex vero diluenda, quae contra dici poterant
ex illorum ſententia, qui praeſertim niti vide bantur lege quadam data a
Claudio VII. Kal. Novembris Antiochiano & Orfito Con ſulibus, ut ſerius
Aurelianum inchoaffe im perium perſuaderent, diſtinguit Conſules or dinarios a
ſuffectis. Hac autem conſtabilita diſtinctione, quae maxime apta erat non fo
lum ad id, quod requirebat, ſed etiam ad expediendos alios, quos vel ipſe
Scaliger in diffolubiles in Chronologia exiſtimaverat now dos, concludit eamdem
legem editam fuiffe anno quando An tiochianus & Orfitus ſuffecti Conſules
erant, minime vero anno cclxx. iiſdem Confuli bus ordinariis. Nec minor
difficultas erat o ſtendere, qui fieri potuerit, ut Aurelianus ad vil. Imperii
annum perveniffe dicatur, & explicare locum Euſebii, qui tradit in ejuſdem
tempora incidiffe in. Antiochenam Synodum: exploratnm eft enim hanc Sya nodum
anno cclxix. incoeptam & abſolu tam fuiſſe. Feliciter haec praeftitit Corſi
nius, cum probaſſet Aurelianum anno & ultra antequam a legionibus poft
mortem Claudii Imperator fieret, ab ipfo Claudio deſtinatum ſibi fuiſſe
ſucceſſoreni, adeoque ampla poteſtate donatum ut ab hoc tema pore nonnulli ejus
Imperii initium ſumere potuerint. Quae vero de Vaballatho diſream ruit C. haec
ferme ſunt. Illum Ze nobia procreavit ex Athena priori viro, ejuf demque nomine
ab uſque dum Claudius in Gothicum bellum uni ce intentus vixit, Orientis
imperium te H4 ut nuit. Ex quo factum eſt, ut quae hoc tem pore cuſa funt
Vaballathi numiſmata, Impe. satorem Caefarem Auguftum illum nominent. Poftquam
vero ille deſciviſſet a matre, Aureliano adhaereret, huic quidem conjun octus
in nummis repraefentari voluit, minime vero paludamento, radiata corona,
fplendi doque Augufti nomine decoratus, ſolo Im peratoris contentus. Praetereo
alia multa Scitu digniſſima in hac Diſſertatione conten ta, ne, cum nimis
longus in recenfendis ſcriptis operibus fuerim, videar oblitus con ſuetudinis
& inſtituti mei. Hujus libelli (cil ra liberatus C. totus in eo fuit, ut ab
Solveret ſeriem Praefectorum Urbis ab Urbe con dita ad annum afque five a Chri
fto nato DC. Etenim poſteriora tempora mi nime inquirenda putavit, quibus,
penitus fere exſtincto Urbanae Praefecturae fplendo re ac dignitate, nonniſi
tenue nomen, ac leviſſima priſtinae majeſtatis umbra ſuperfuit; ex quo fiebat,
ut nihil inde lucis facra & profana ſperare poffet hiſtoria, cum contra
uberrimam fplendidiffimamque utraque acci. peret ex veterum Praefectorum ferie,
horumque aetate rite conſtituta. Ut vero non utilitate ſolum, ſed etiam
jucunditate lecto res invitaret C., operi varia opportu ne admifcuit, quae
marmora & ſcriptores, quorum teftimoniis ubique fere utitur, cor rigunt
& illuſtrant, interpretumque falſas opiniones atque errores emendant. Non
ego ſum neſcius multos anteceſſiſſe Corſinium in hujuſmodi pertractando
argumento; ex qui bus omnibus, ac praefertim Jacobo Gotho fredo ac Tillemontio
plurima in rem ſuam tranftulit. Sed ii exiguis finibus operam fuam continuerunt,
fi unum excipias Feli cem Contelorium, qui contextam a Panvi. nio Praefectorum
ſeriem ad annum uſque traduxit. Tale tamen non fuit Contelorii opus, quin eadem
de re aliquid politius, copiofius, perfectiuſque proferri a C. potuerit. Et
protuliffe certe ipſum oportet, cum magna fuorum laborum prac conia ab
intelligentibus viris reportaverit. Mi rari hi tantummodo viſi ſunt quod aut is
in gnoraverit hac ipſa in re plurimum quoque elaboraſſe Almeloveenium, aut quod
hujus fcripta conſulere praetermiſerit. Id profecto & praeſtitiſfet
abundantius & copiofius pro poſitae fibi rei ſatisfacere potuiſſet, neque
poftea ventofiffimi homines triftem fuftinuif fent notam calumniatorum, qui
nullo in pre tio ob pauca quaedam a C. praetermif ſa hujus opus habendum
inflatis buccis clamitarunt. Ne hi verbofis fibi famam ad quirerent ſtrophis
vel apud imperitam mul titudinem, factum eſt diligentia Cajetani Mari nii, qui
librum Bononiae edidit, quo non folum eorum obftitit injuriis, verum etiam nova
a ſe inſcriptionum ope detecta Praefectorum Urbis nomina in lucem protulit. Sed
ad C. revertor, qui dum fine intermiſſione obſequebatur ftudiis ſuis &
adoleſcentium utilitati, oblitus vide batur fe jam fenem factum (quando enim
typis mandavit librum de Praefectis Urbanis ſexageſimum primum aetatis annum
agebat ) & infirma aegraque valetudine effe. Sed ac Hujus eſt inſcriptio:
Difefa per la ſerie de' Pree fetti di Roma del Ch. P. Corfini contro la cenſura
farie. le nelle offervazioni ſul Giornale Piſano, in cui le della Serie si
suppliſce anche in affai luoghi e le emenda. In Bon logna e AQUINO (si veda) in
4. Vide Pilanas Ephcm meridcs eidit miſerabilis caſus, qui repente ipſi onga
nem ſpem non folum litteris, ſed etiam na: turae vivendi praecidit. Erat haec
conſuetu. do Academiae Piſanae, ut qui humaniores lite teras profitebantur,
Kalendis Novembris, quo tempore inftaurari ftudia folebant, LATINAM om rationem haberent ad vehementius inflamman
dam cupidam doctrinarum juventutem. Di cebat eo ipſo die Eduardus (vertebat
tunc annus tertius fupra fexageſimum hujus fae tuli ) de viris, qui &
ſcriptis editis, in ventiſque rebus in Academia maxime florue runt, eaque erat
oratio, ut nunquam is di xiſſe melius judicaretur. Cum eo pervenirſet, ut
exultaret in immenſo GALILEI (si veda) laudum campo, repente apoplexis ipſum
perculit, ac ſemivivum reliquit. Dolore hujus caſus o ſtenſum eft quantum ille
Academiae eſſet ac ceptus. Aegre domum deductus, ibi quatri duo cum morte
conflictatus eſt. Quinto die, multis adhibitis remediis, levari coepit, ac
praeter ſpem paullatim convaluit. Ut arden ter deſideraret priſtinas recuperare
vires, efficiebat ille fuus ſingularis amor in Aca demiam, cui majus ſe non
poſſe munus afferre videbat, quam fi inſtitutum juſſu Prin cipis biennio fere
ante opus de ejuſdem Academiae ortu, progreſſu ac vicibus ad umbilicum
perduceret. Plurima collegerat at que vulgaverat ad hanc hiſtoriam pertinen tia
vir diligentiſſimus Stephanus Maria Fa bruccius Juris civilis in eadem Academia
do ctor, quae quidem ampla & bella materies effe poterant ad novum
aedificandum opus. Hoc igitur ſubſidio inſtructus Eduardus, ala cer ſe ſe ad
rem accinxit. Et primo quidem ILLUSTRIVM ITALICORVM GYMNASIORVM ori ginem
ſubtexuit, diſſerenfque quatuor prio ribus capitibus de prima GYMNASII PISANIi
institutione, neque ab xi. neque a xiv. Chris fti faeculo, ut multi ſcripſerunt,
fed ab ine unte XIII. vel exeunte xii. illam repeten dam effe exiſtimavit. Ex
hoc tempore ad annum uſque, quo anno Fa bruccius contendit coepiſſe Academiam
Piſa nam, hanc fi nullam dicere nolumus, mi nimain certe fuiſſe oportet.
Conſecutae des inceps yices multae, ut ipſa modo langues ſcere, modo ad
interitum properare, vires vitamque modo recuperare, ac faepe etiam veluti
extorris ſedem mutare viſa fuerit, Quae omnia octo conſeqılentibus capitibus
perſecutus eft Eduardus. Cum vero Acade miae res, imperante Coſmo I. ceteriſque.non
solum Mediceis, sed etiam Lotharingis Principibus, feliciflime proceſſiſſent, quibus
ab his beneficiis, ſplendore atque gloria aucta, quibuſque gubernata legibus
consuetudinibusque, variis interdum pro temporum varietate, exposuit in
quatuordecim capitibus, quo rum nonnulla adumbrata magis quam de fçripta
videntur. Haec omnia primam ope ris partem conficere debebant, cum refer vafſet
alteram, quam tamen minime attigit, Doctorum vitis. Dum haec scripta legebam
videbatur mihi pofſe ab Auctore defiderari major rerum copia, magiſque apta ac
preſ fa oratio. Inest quidem in omnibus C. scriptis luxuries quaedam, quae, ut
in herbis ruſtici ſolent, depaſcenda erat; quod fi eft vitium in omni oratione,
maximum tamen eſt in hiſtoria, in qua pura & illu fțris brevitas expetitur.
Eodem tempore, quo Eduardus in Academiae historiam incumbebat, ne plane superioris
aetatis Audia de servisse videretur, epistolam fcripfit ad ami cum &
collegam fuum Franciſcum Albi zium, in qua de Auſonii Burdigalensi consulatu
egit, Desperaverant vel ipsi chronologiae Patres Panvinius & Pagius,
computationem quamdam annorum ah. Auſonio factam in e pigrammate, ad Proculum,
in quo, ab Urbe condita ad consulatum suum annos enumeravit, conciliari posse,
cum Varroniana epocha, ideoque, novam excogitarunt epocham XIII. annis
Varroniana pofte riorem, qua non solum Ausonium, sed etiam Arnobium usos fuisse
scripserunt. Horum aliorumque Auſonii interpretum errorem ut corrigeret
Eduardus, probare debuit. Auſonium non Romanum, modo, fed & Bur digalenſem
geffiffe consulatum, & Romanorum & Burdigalenfium Consulum fastos
conscripsisse. Qua distinctione constabilita, facile fuit oftendere eumdem
Aufonium in ea pigrammate, quod ad Heſperium filium ini fit cum Romanis faſtis,
de Romano, a ſe ges: ſto consulatu, in epigrammate autem illo, quod est ad
Proculum, de patrio, municipali, quinquennali (etenim in municipis omnibus
majores magiſtratus quinquennales eſſe ſolebant) de Burdigalenſi nimirum con. ſulatu
locutum fuisse. Hanc epistolam secuata est altera ad Joannem Chrysostomum Trom.
bellium Canonicum Regularem, in qua do nummo quodam ab Athenienſibus Livia
Augustae dicato, illiuſque aetate differens, feminam illam non ſupremis tabulis,
ſed matrimonii jure a marito nomen Auguſtae accepiſſe pluribus monumentis
comprobat. Quae quidem aliaque ex abditiſſima antiqui. tate deprompta, quae
fparfit C. in hac epiſtola, ut jucunda lectoribus, ita iif dem plena moeroris
fore arbitror, quae in extrema pagina ejuſdem epifolae Trombel lius adnotavit.
Scribit enim ille: Dum extre mam hujus epiſtolae partem edimus, monemur, eodem
fere tempore, quo Brixiae egregius Maza zuchellius, inclytum Corfinium noftrum
Pisis apoplexi repente ereptum. Eheu litterae aflicłae ! o amicos
incomparabiles ! o annum vere calami 10fum & peffimum ! Dies, quo illum
apople xis iterum invafit, fuit v. ante poft quem caſum tribus ferme diebus
vixit fine ſenſu, Sepultanta tus eft in Aede S. Euphraſiae totius Acade miae
luctu, quae hanc calamitatem acerbif fime doluit, doletque adhuc reminiſcens ſe
orbatam homine, in quo plurimae erant lit terae eaeque interiores, divinum
ingenium, ac induſtria fumma; fruebatur vero nominis celebritate, ut hac fola
muneris fui fplendorem tueri potuiſſet. Atque haec vi tae decorabat dignitas
& integritas. Quan tả gravitas mixta comitati in yultu & moribus !
quantum pondus in verbis ! ut nihil inconſideratum exibat ex ore ! quam diligen
ter inquirebat in fè ſe, atque ipſe ſe ſe ob Servabat I Oinnino tantus erat in
ipso ordo, conſtantia, & moderatio dictorum omnium atque factorum, ut
probitatem & religio nem prae se ferret, & ad omne virtutis de cits
natus videretur. Quidquid come loquens, & omnia dulcia dicens mirabiliter
ad se diligendum omnium ani mos alliciebat; si vero in familiari sermo ne a
quopiam dissentiret, contentiones disputationesque vitabat, quod non tam na
turae quam virtutis erat. Etenim iracun diae aculeos aliquando sentiebat, sed
hos perpetuus cupiditatum domitor frangebat, pla neque occultabat. Secum ipſe
vivens animi triftitiam frequenter patiebatur, praeſertim si contemplaretur
misera, in quae incidimus, tempora, quibus corrumpere, & corrumpi saeculum
vocatur. Quod vero nonnulli per verſe adeo abuterentur philofophia, ac prae
ſertim metaphyſica, ut ea animos a religio ne avocarent, tanto illum
perfundebat horrore, ut vehementer poenitere eum non nunquam videretur
industriae suae, quam in erudienda juventute ad recentiorum philoſo phorum
dogmata inſumpſerat. Quae quidem poenitentia injurioſa mihi videtur; omnium
artium parenti philosophiae, quasi ejus culpa, quae deflebat mala C., accidif
ſent. Etenim ſunt unicuique ſcientiae: certi fines ac termini ab omnium rerum
modera tore Deo constituti, quos qui tranfilit, nae ille devius in praecipitem locum
ruat necese est. Sed ad C. revertor, de cujus laudibus non eft tacendum ſummae
illum bonitati ingenuitatique ſummam dexterita tem, ſi oportuiſſet, conjűxisse.
Liberalis minimeque cupidus pecuniae hanc facile a se extorqueri patiebatur.
Virorum litteris illus ftrium amicitias ftudiofillime coluit, amavitque in
primis Trombellium & Paciaudium, quo rum mentionem fupra fecimus, quorumque
conſuetudinis magnum cepit fructum eo prae sertim tempore, quo Romae fuit.
Dolui in pſum combufliffe, quas ab amicis accipere solebat, epistolas, quia ſciebam
in iis erudita multa contineri: eae quidem mihi non me diocri subsidio futurae
fuiſſent huic explican dae vitae. De qua fatis erit dictum, fi hoc unum addam,
eumdem ineditas reliquiffe bi nas Dissertationes de S. Petro Igneo, & B.
Joanne delle Celle; librum de civitatibus, quarum mentio sit in graecis nummis,
ſex que Latinas orationes habitas in Academia Piſana, ex quibus lenitas ejus
fine nervis cognoſci potest. Opere: “Instıutiones philosophicae, ac
Mathemaricae ad ufum Scholarum Piarum: Florentiae typis Paperini, continens
physicam generalem, continens libros de coelo Es mundo, continens tractarum de
anima, E metaphysicam continens ethicam
vel moralem continens institutiones mathematicas Editae iterum fucrunt hae
institutiones in V. mos diſtributae Bononiac ex ty pograghia Laclii a Vulpe cum
hoc titulo Cl. Reg: Scholarum Piarum, & in Pisana Academia Philosophiae
Professoris Institutiones Philosophicae ad un fum scholarum Piarum edirio
altera auctior & emendarior; Ragionamenti intorno allo fato del fiume Arno,
dell acque della Valdinievole, In Colania appresso Heng Werergroot, in 4. “Elementi
di Matiemasica, ne' quali sono con migliori ardine e nikovo metodo dimostrare
le più nobili e necesaria proposizioni di Euclide, Apollonio, e Archimede, Ch.
Reg. delle Scuole Pie: in Firenze. nella Stamperia di S. A. R. per li Tartini,
e Frasa ahi in 8. Hace elementa mathematica edita secundo fuerunt Year I 2 1
netiis apud Antonium Perlinum, in qua edie tione quaedam mutata ſunt,
emendatufque error, quo cao ptus fuerat Auctor, dum in priori editione exposuit
propoíitionem XXXV Venetae huic editioni a djc&us est ejusdem Auctoris liber
della Geometria Pranica; Ragionamento Istorico Sopra la Valdichiana, in cui si
descrive la antica e presente suo stato” (Firenze, Moucke); “Faſii Anici in
quibus Archonium Athenienfium sea ries, Philosophorum, aliorumque illustrium
Virorum deras arque praecipua Acicae historiae capita per Olympicos annos
disposita describuntur, novisque observationibus illustrantur: ACl. Reg.
Scholarum Piarum in Pisana Academia Philosophiae Professore, Florentiae, ex
typographia. Giovannelli ad insigne Palmae in Platea S. Eliſabeth. ex Imperiali
typographia Cl. Reg. Scholarum Piarum in Acadeo mia Pisana Philosophiae Profeſoris
Differtationes. Agonisticae, quibus Olympiorum, Phychiorum, Nemeurum, ale que
Isthmorum lempus inquiriiur ac demonftrarur: Aco redit Hieronicarum catalogus
eduis longe uberior Es accurarior. Florenciae ex typographia Imperiali. In
cxtrema pagina hujus libri öxhibetur integra feries menfium Macedonicorum,
Atticorum, & Romanorum ad de mondirandun veruna corum ficum ac connexionem;
quam ſeriem hoc quoque in loco nos exponemus, quia rem gratam antiquitatis
ſtudioſis facturos arbitramur. Series enim a C. contexta differt nonnullis in
nienſibus ab ca quam Scaliger, Uſterius, Petavius, Dodwellus, aliique
descripferunt, i Macedonici Atrici Romani Lous Gorpiaeus Hyperbercraeus Dlus Apellaeus
Audynaeus Peritius Dystrus Xanthicus Artemisius Daiſius Panemus Hecatombeeon
Meragirnion Boedromion Pyanepſion Maemacterion Pofideon Gamelion Anthefterion
Elaphebolion Murychion Thargelion Scirrhophorion Julius Augustus September
October November December Januarius Februarius Marrius Aprilis Majus Junius
Lettere intorno al saggio di Maffei intitolato: Graecorum Siglae lapidariae.
Extat del Giornale de’ Letterati pubblicaro in Firenze notae graecorum, five
vocum Ex numerorum compen dia, quae in aereis atque marmoreis Graecoruin
rabulis ob. fervantur. Collegii, recenſuit, explicavit, eaſdemque cabu las
opportune riluftravia C. Cl. Reg. Scholas) rum Piarum in academik Piſina
Philoſophiae Profesor. Accedunt Differtationes ſex, quibus marmora quaedam rum facra
cum profana exponuntur ac emendantur. Florentine Tographio Imperiali in fol.
Plutarchi de Placitis Philofophorum libri V. Larine reddidit, recenſuir,
adnotationibus, variantibus lectionibus, diferrationibus illuſtravit C. Cl.
Reg. Schoe laruan Piarum in Pisana Acad. Philosophia Professor Flo. seniige ex
Imp. Typographio, Disertationes quibus antiqua quaedam insignia moc sumente
illuſtrantur. Vide eas, Symbolarara litercriarum Antonii Francisci Gorii. Herculis
quies & expiatio in eximio Farnesiano mere more expresa: in fol. Inscriptiones
Articae nunc primum ex Cl. Maffeii Schea dis in lucem editae latina
interpretatione brevibusque observationibus illuſtratae Cler. Regul. Schole
sunr Puarum in Academia Pisana Philosophiae Professore. Florenciae ansio ex
typographio Jo. Pauli Giovannel li in 4. Solecta ex Graeciae Scriptoribus in
usum ſtudiosae Juvent. sutis, Florentiae ex Imperiali rypographio ir 8.
Inſtitutiones Metaphyſicae in ufus Academicos auctore Eduardo Corfi:n0
Clericorum Regularium Scholarum Piaruz in Academia Pifana. Philoſophiae
Profeſore. Vesieriis ex Typographia Balleoniana in 12 C. Cl. Reg. Scholarum
Piarum in Accodemia Pisana humaniorum litterarum Profeſſoris de Minni fari
aliorumque Armeniac Regum nummis, & Arſacidarum Epocha Differtario Liburni typis
Antonii Santini & Sociorum in 4. Spiegazione di due antichiſſime
inſcriçroni Greche indie ricare al Reverendiffimo Padre Anton Franceſco
Vezzofi, Prepoſto Generale de Cherici Regolari, Lettore nella Seo pienza Romana,
ed Eſaminatore de' Vefcovi da Edoardo Corfini Ch. Reg. delle Scuole Pie. In
Roma, nella Stamperia di Giovanni Zempel; Relazione dello scuoprimento e
ricognizione fatta in Ancona dei Sacri Corpi di S. Ciriaco, Marcellino, e Lia
berio Proiettori della Circà; e Riflefroni ſopra la translazione, ed il culto di
queſte Sanci. In Roma, nellu Stamperia di Zempel in 4. Eduardi Corfini Cler.
Regul. Scholarum Piarum, En in Academia Piſana humaniorum literarum Profeffuris
Dis Seseario, in qua dubia adverſus Minniſari Regis nummum, & novam
Arſacidarum epocham a Cl. Erasmo Froelichio s. J. proposita diluuntur. Romae ex
typographio Palla dis in 4. C. Cler. Regul. Scholarum Piarum & in Academia
Pisana humaniorum lirerarum Profeſoris ad Cles riflimam virum Paulum Mariam
Paciaudium Epiſtola, ir qua Gotarzis Parthiae Regis nummus hactenus ineditos
expli Catur, & plura Parthicae hiſtoriae capita illustrantur. Romae, in
Typographio Palladis. Excudebant Nicolaus & Marcus Palearini ir 4.Cl. Reg.
Scholarum Piarum in Pifar:& Academia humaniorum litterarum Profeſoris
Epiftolae rres, quibus Sulpiciae. Dryantillae, Aureliani ac Vaballathi Avea
guſtorum nummi explicantur & illuſtrantur. Liburni apud Jo. Paullus
Fanthechiam ad fignum Verit. in 4. Series Praefeciorum Urbis ab Urbe condira ad
annum uſque sive a Chriſto naro DC. collegit, rem cenſuit, illuſtravir Eduardus
Corſinus Cler. Reg. Scholarum Piarum in Academia Piſana humaniorum liuerarum
Professor Pisis excudebar Joh. Paulus Giovane nelius Academiae Pifunae
Typographus cum Sociis in 4. Notizie Iſtoriche intorno a S. Liberio ſepolto e
venera 10 nella Cattedrale della città di Ancona all' Eminentiffimo Signor
Cardinale Acciajuoli Veſcovo di detta città. In Are cona nella Sramperia
Bellelli in 4. Cl. Reg. Scholarum Piarum,
in Academia Piſana humaniorum litterarum Profeſoris Epiſtola de Burdigalenfi
Aufonii Confulatu. Piſis Exe cudehar Joh. Paulus Giovannellius Academiae
Pifanae inyo pographus cum Sociis in 4. Clericor. Regular. Scholarum Pia rum
Ex- generalis, & in Pifana Univerſitare Primarii Les coris ed Joannem
Chryſostomum Trombellium canonicorum Regularium Congregationis S. Salvatoris
Ex-generalem & S. Salvatoris Bononiae Abbatem Epistola, Bunoniae, ex typographia Longhi in 4; Disertazione
sopra S. Pietro Ignes, sopra il B. Giovanni delle Celle; De Civitatibus, quarum
mentio sit in Graecis nummis, Pars I. Historiae Academiae Pisenae, Latinae
Orationes VI, Ad Academicos Pisanes; Les Storcien.s et leur logique, Actes du
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Romolo e Remo, segni naturali, segni artificiale, i segni, il segno di Romolo. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Corsini” – The Swimming-Pool Library. Corsini.
Grice e Cortese: l’implicatura
conversazionale del segno naturale -- del principio del significato – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. e alpinista.
Grice: “I love Cortese; first he wrote on Frege, whose views on ‘aber’ are very
much like mine on ‘but’! – But then he also wrote on ‘irony,’ alla Socrates –
as per Kierkegaard’s example, “He’s a fine fellow! => He’s a scouncrel --,
and most ‘theoretically,’ as the Italians put it – on the ‘principle of
meaning’ – significato – which had me thinking – I very freely speak of the
principle of conversational helpfulness, but somehow, principle of
‘signification’ sounds obtuse! Signification seems too natural to require a
principle! If helpfulness and benevolence are evolutionary traits, they are
certainly NOT ‘instituted’ as principles, even if they are requirements for
trust and the ‘institution of decisions’!” “I am anything but a contractualist,
and principle has to be taken with a pinch of salt!” If I speak of a rational
constraint, the idea of a principle evaporates: it’s conversation as rational
cooperation – as I put it – as different from and stronger than ‘conversation
as mere cooperation’ – but this slogan frees us from a commitment to the
existence of a ‘principle’ to which we might want later to provide with some
sort of ‘psycho-logical’ validation!” Di una famiglia originaria di Sant’Angelo
Lodigiano. Si laurea a Trieste e Milano sotto Bontadini e Noce. Insegna a
Trieste. Studia Kierkegaard, Gioberti. Italianismi in Kierkegaard. Altre opere:
“Kirkegaardiana” (Milano); “Esistenzialismo e fenomenologia” SEI, Torino); “Protologia
e temporalità, Gregoriana, Roma); “Kierkegaard” (Milan); “Del principio di
creazione o del significato” Liviana, Padova, Kierkegaard” (La scuola,
Brescia); “Ironia” (Marietti, Genova); La Creazione: Un'apologia accidentale
della filosofia” (Marietti, Genova); “Il negozio del sapone, Liviana, Padova);
“Enten-Eller ([Victor Eremita” (Adelphi, Milano); “L'attrice” (Antilia,
Treviso); “Un discorso edificante” (Marietti, Genova); Il naturale e il
sovra-naturale (Padova); Ermeneutica” (Lint, Trieste), “Il responsabile” –
“Eden” – “Introduzione all’introduzione” del Gioberti – “Frege: signare il
concetto”; “Liberalismo”Meteorologia branca delle
scienze dell'atmosfera Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce
o sezione sull'argomento meteorologia non cita le fonti necessarie o quelle
presenti sono insufficienti. La meteorologia[1] (dal greco μετεωρολογία,
letteralmente "studio dei fenomeni celesti"[2]) è il ramo delle
scienze dell'atmosfera e della Terra che studia i fenomeni fisici che avvengono
nell'atmosfera terrestre (troposfera) e responsabili del tempo
atmosferico. Cumulonembo calvus, nube convettiva in atmosfera
StoriaModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Storia della meteorologia.
Rappresentazione di venti e meteorologia in una tavola degli Acta Eruditorum
del 1716 Il termine deriva dal greco μετεωρολογία, meteōrología, da μετέωρος
metéōros, "elevato" e λέγω légō, "parlo", quindi
"discorso razionale intorno agli oggetti alti": la parola μετέωρος ha
un'etimologiaincerta, forse derivato dal termine metá in italiano ‘’oltre’’ e
ourea ovvero il termine arcaico greco per ‘’montagne’’ quindi Oltre i Monti
[3], o forse da μετά metá "con, dopo" e αἴρω áirō "alzo".[4]
Dopo le prime intuizioni dei greci si è dovuto attendere fino alla seconda metà
del XX secolo quando, con l'arrivo dei calcolatori elettronici, l'uomo ha avuto
la possibilità di eseguire in un tempo ragionevole le tante operazioni di
calcolo che caratterizzano l'elaborazione a mezzo di un modello meteorologico.
Gli oggetti che cadono dal cielo più frequentemente sul nostro pianeta sono le
idrometeore, vale a dire particelle costituite da acquanella sua forma liquida
(pioggia) o solida (neve, cristalli di ghiaccio, grandine o neve tonda).
DescrizioneModifica Circolazione generale dell'atmosfera Ciclone
extratropicale Fronte caldo Fronte freddo Fronte occluso In
particolare lo studio dell'atmosfera è lo studio sia sperimentale dei suoi
parametri fondamentali (temperatura dell'aria, umidità atmosferica, pressione
atmosferica, radiazione solare, vento), attraverso l'uso di osservazioni e
misurazioni dirette e indirette a mezzo di stazioni meteorologiche, palloni,
sonde, razzi e satelliti meteorologici equipaggiati della necessaria
strumentazione, sia teorico, facente cioè uso dell'astrazione propria del
linguaggio della fisica matematica per la quantificazione delle leggi fisiche o
processi (appartenenti alla fisica dell'atmosfera) che intercorrono tra
essi. I due approcci confluiscono nel risultato finale ovvero
l'ideazione, l'implementazione e l'inizializzazione di modelli matematici in
grado di ottenere una previsione o prognosi a breve scadenza dei vari fenomeni
atmosferici (nubi, perturbazioni, vento, precipitazioni tramite i cosiddetti
modelli meteorologici) su un dato territorio (previsione del tempo).
Tempo meteorologico e climaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Tempo meteorologico, Clima e Variabilità meteorologica.
Obiettivo della meteorologia è quello di misurare direttamente i parametri
fisici atmosferici istantanei e cercare di fornire previsioni su determinati
eventi atmosferici futuri, studiando dunque i fenomeni di breve durata che
caratterizzano il tempo meteorologico; la raccolta di dati sul lungo periodo è
utile invece a livello climatologico studiando l'andamento medio del tempo
atmosferico di una regione in un certo lasso temporale: mentre il tempo
atmosferico è definito come l'insieme delle condizioni atmosferiche in un certo
istante temporale su un dato territorio, il clima invece è l'insieme delle
condizioni meteorologiche medie di un territorio su di un arco temporale di
almeno 30 anni, come stabilito dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale
(OMM): talune analisi che si riferiscono in primis all'ambito meteorologico non
possono dunque essere estese all'ambito climatologico essendo questo una media
statistica sul lungo periodo, oggetto di studio di quella scienza affine che è
appunto la climatologia; quindi mentre la meteorologia ha come finalità ultime
la comprensione dei fenomeni atmosferici a breve scadenza con relativa
previsione, la climatologia studia invece i processi dinamici che modificano le
condizioni atmosferiche medie a lunga scadenza, come ad es. i cambiamenti
climatici. Principali fenomeni meteorologiciModifica Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Fisica dell'atmosfera.
L'atmosfera terrestre è un gigantesco sistema termo-fluidodinamico, accoppiato
con il sistema oceanico, la biosfera e la criosfera, e mosso da una sorgente di
energia termica sotto forma di radiazioni che è il Sole. La natura dinamica e
intrinsecamente caotica o turbolenta dell'atmosfera si esplica attraverso la
circolazione generale dell'atmosfera e una serie innumerevole di fenomeni
atmosferici che quotidianamente osserviamo. Gran parte di questi fenomeni
possono essere inclusi in tre grandi categorie di processi: i processi di
redistribuzione del calore, sia in verticale attraverso il trasferimento
radiativo e convettivo, sia in orizzontale (a piccola, media e larga scala)
attraverso i venti e la circolazione generale dell'atmosfera. i processi
atmosferici coinvolti nel ciclo dell'acqua, innescati a loro volta dai processi
radiativi, quali evaporazione, condensazione, nubi, precipitazioni e i fenomeni
perturbativi ad essi associati (a piccola, media e larga scala) quali fronti
meteorologici, cicloni extratropicali, cicloni tropicali, temporali, rovesci,
tornado ecc. i processi legati all'elettricità atmosferica, come i fulmini. Le
prime due categorie di processi sono intimamente connesse giacché evaporazione,
condensazione e formazioni cicloniche contribuiscono anch'esse al trasporto
dell'energia nel sistema sia in verticale che in orizzontale e allo stesso tempo
da essi innescati. I vari fenomeni meteorologici sono classificati
all'interno della cosiddetta scala dei moti atmosferici a seconda delle
dimensioni del territorio, del tipo di analisi richiesta e dell'intervallo
temporale di interesse in cui essi insistono.
StrumentazioniModifica Strumentazione di una stazione meteorologica
Satellite meteorologico(Meteosat) Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Stazione meteorologica. L'uomo ha anche costruito nuovi
strumenti per osservare le varie interazioni; i seguenti strumenti sono stati
approvati dall'Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM), e molti di essi
vengono utilizzati in ogni stazione meteorologicamondiale:
radiometri e scatterometri localizzati su satelliti meteorologici
misurano l'energia elettromagnetica reirradiata dal pianeta verso lo spazio
esterno, fornendo quindi un'immagine dello stato dell'atmosfera e della
presenza di nuvole termometri (es. a minima e massima), per la misurazione
della temperatura; igrometri, per la misurazione dell'umidità; psicrometri, per
la misurazione dell'umidità; termoigrometri, per la registrazione della
temperatura e dell'umidità; pluviometri/pluviografi, per la misurazione delle
quantità di pioggia; nivometri, per la misurazione dell'accumulo di neve al
suolo; anemometri, per la misurazione della forza e della direzione dei venti;
trasmissometri, per la misurazione della visibilità; palloni sonda per
radiosondaggi: attraversano verticalmente l'atmosfera per ottenere profili
verticali di pressione, temperatura, umidità e vento (sono per ora la
principale fonte di dati per i modelli meteorologici); boe galleggianti e navi
meteorologiche, per l'osservazione delle condizioni meteorologiche in mare
aperto; radar meteorologici. Irradiano energia elettromagnetica e ricavano
informazioni sull'atmosfera analizzando le caratteristiche del segnale da essa
riflesso. Sono utilizzati per individuare eventi di precipitazione, stimarne
l'entità e prevederne l'evoluzione a breve termine (nowcasting), e in alcuni
casi per sondare la struttura interna delle nubi. Possono essere installati a
terra o su satellite; satelliti meteorologici, cioè satelliti che ruotano
attorno alla terra per inviare al suolo immagini del movimento delle nubi e le
mappe della temperatura. I satelliti si dividono in geostazionari e a orbita
polare. Si possono visualizzare le immagini dei satelliti su molti siti web.
Previsioni meteorologiche Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Previsione meteorologica. Manica a vento, uno dei simboli
della Meteorologia Immagine del NOAA Carta meteorologica di
previsione a 500 hp Le previsioni meteorologiche si ottengono solitamente dalla
seguente procedura: osservazione e misurazione delle variabili
atmosferiche (es. velocità e direzione del vento, temperatura dell'aria,
umidità, pressione); trascrizione, studio ed elaborazione dei dati rilevati su
carte sinottiche o assimilando i dati attraverso modelli matematici che girano
su calcolatori numerici, dove in quest'ultimo caso, viene prodotta la
situazione meteorologica di un determinato momento, chiamata analisi; prognosi
futura a partire dalle carte sinottiche oppure facendo evolvere la condizione
iniziale tramite uso dei modelli matematici meteorologici (previsione). Ambiti
di studioModifica All'interno della disciplina vi sono vari ambiti di
studio: la meteorologia sinottica che studia in maniera qualitativa e
quantitativa l'evoluzione delle condizioni atmosferiche di vaste porzioni
dell'atmosfera stessa (superiori ai 1000 km) tramite l'uso di carte meteo,
nozioni empiriche, metodo delle analogie ecc. la meteorologia dinamica che,
partendo dalle equazioni di base della fluidodinamica, cerca di spiegare
formazione e sviluppo dei fenomeni osservati (detta anche meteorologia fisica o
teorica). la meteorologia numerica, si occupa di definire e affinare i modelli
numerici di previsione meteorologica la meteorologia satellitare, che si avvale
delle analisi di telerilevamento atmosferico e quindi dei relativi dati
trasmessi a terra dai satelliti meteorologicicome ad esempio i satelliti
Meteosat. la radarmeteorologia che si avvale dei dati raccolti dai radar
meteorologici dislocati sul territorio per affrontare la previsione meteo a
brevissima scadenza (nowcasting). la meteorologia aeronautica, che si occupa
principalmente dei fenomeni rilevanti per la navigazione aerea; la meteorologia
spaziale che si occupa del cosiddetto tempo meteorologico spaziale in alta
atmosfera; la meteorologia ambientale che studia pollini e dinamica degli
inquinanti in atmosfera; l'agrometeorologia che studia le relazioni tra tempo
atmosferico e agricoltura[5]; Meteorologi famosiModifica Edmondo Bernacca
Andrea Baroni Plinio Rovesti Guido Caroselli Mario Giuliacci Guido Guidi Paolo
Sottocorona Paolo Corazzon Luca Mercalli Andrea Giuliacci Daniele Izzo
NoteModifica ^ Anche se spesso viene usata, la grafia metereologia non è
corretta, come dimostra l'etimologia greca; cfr. anche l'abbreviazione meteo. ^
meteorologìa in Vocabolario, su Treccani Con la stessa etimologia delle antiche
divinità della cosmogonia greca Ouranos (Cieli) e Ourea (Montagne) ^ Franco
Montanari, Vocabolario della lingua greca, Torino, Loescher, 1995, p. 1276. ^
Luigi Mariani Clima e agricoltura Rivista I tempi della terra su
itempidellaterra.org. URL consultato il 17 gennaio 2019 (archiviato dall' url
originale il 19 gennaio 2019). BibliografiaModifica Antonio Navarra, Le
previsioni del tempo, Il Saggiatore,
Agrometeorologia Atmosfera Anticiclone Avvezione Barometro Carta
meteorologica Circolazione atmosferica Formula ipsometrica Fisica
dell'atmosfera Igrometro Isobara (meteorologia) Isoterma (meteorologia)
Grandine Ghiaccio Geopotenziale Legge della persistenza Legge della
compensazione Meteorognostica Nube Neve Pressione atmosferica Precipitazione
(meteorologia) Promontorio di alta pressione Riscaldamento stratosferico Storia
della meteorologia Stazione meteorologica Saccatura Satellite meteorologico
Strato limite Teoria del caos Temperatura Termometro Tempo (meteorologia)
Umidità Variabilità meteorologica Vortice polare Altri progettiModifica
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europea per i satelliti meteorologici European Meteological Society Portale
Meteorologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di meteorologia Ultima
modifica 3 mesi fa di Pav03 Storia della meteorologia Meteorologo Previsione
meteorologica Wikipedia Il contenutoGrice: Can a sign have a different
meaning for utterer and recipient? – If so, why do we keep calling
communication – signare seems to be still good enough! -- Alessandro Cortese. Cortese.
Keywords: del principio del significato, Kierkegaard, soap, sapone, actress,
attrice, edifying discourse, discorso edificante,
naturale/sopra-naturale/preter-naturale, Paul Carus, hyperphysical. Those spots
means she has the devil inside her. Praeter-natural implicatura, supra-natural
implicature, non-natural implicature, natural implicature. “Del significato”,
ironia socratica, sapone, Savona, signare il concetto, sovrannaturale,
liberalismo, il responsabile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cortese” – The
Swimming-Pool Library. Cortese.
Grice e Corvaglia – il pessimismo e
l’implicatura di Tantalo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Melissano).
Filosofo italiano. Grice: “I love Corvaglia – or corvus in diluvio, as he
called himself! – a very Italian philosopher and thus interested in the history
of Italian philosophy, especially Vannini – the fact that he wrote plays on
philosophical subjects – La casa di Seneca – helps!” Opera nel campo della filosofia del rinascimento.
Tra gli studi filosofico-scientifici si distinguono per vastità e profondità i
volumi Le opere di Vanini e le loro fonti, e Vanini Edizioni e plagi, risposta
polemica condotta contro le veementi critiche ricevute Porzio. Pubblica
il romanzo Finibusterre, trasfigurazione quasi sacra della sua amata terra e
del popolo del Basso Salento, ch'egli incitava con ogni mezzo, anche se spesso
travisato e intralciato e persino calunniato a crescere, per migliorare
materialmente e moralmente. Il romanzo fu ben accolto dalla critica. Benedetto
Croce, a cui Corvaglia lo aveva dedicato, rimarcò "lo sfondo storico
rappresentato in modo assai vigoroso" e il "trattamento dei caratteri
e degli effetti". Con maggiore puntualità Annibale Pastore (già suo
professore all'Torino) gli confidava di sentire emergere nella sua mente,
attraverso figure e temi del romanzo, ricordi sepolti, "struggente
malinconia", un mondo molto simile a quello del Manzoni, "anch'esso
celato alla superficie, soffuso d'ironia-limite", e tuttavia turbato da
altri affascinanti caratteri, quali: "il sorprendente realismo, la
perfetta armonia, l'effusione poetica, l'occhio acuto e sicuro, che scruta
l'animo umano fin nelle più remote pieghe". Si dedica totalmente
alla filosofia del Rinascimento, animato dal bisogno di trarre alla luce
obliterate sorgive e percorrendo il
movimento spesso alquanto sconosciuto della filosofia, che dal Rinascimento
risale fino al Medio Evo. S'apre nella sua vita uno spiraglio di fiducia
verso gli uomini impegnati, e si prestadoverosamente secondo la sua fede
politica all'attività politica, accogliendo e votandosi alla cultura mazziniana,
cui rimane Fedele.. È di questo periodo la pubblicazione, tra l'altro, dei
Quaderni Mazziniani: “Noi Mazziniani”, “Mazzini ed il Partito di Azione”, “L'Acherontico
retaggio”, “Il Partito Repubblicano italiano”, il discorso Ai giovani, la
conferenza (edita da Laterza) su Giuseppe Mazzini. Dopo la proclamazione
della Repubblica, però, si allontana da ogni azione politica, ritenendola del
tutto estranea e lontana dall'ideale da lui vagheggiato e sperato. Si
trasferisce a Roma, nell'ambiente culturale a lui più consono, ritornando agli
studi tra i suoi libri, dove soltanto sente di vivere senza alcun compromesso,
in assoluta libertà. Cascata di S.M. di Leuca. Scaligero, un saggio di
"speleologia". Saggio su Cardano. Su iniziativa del comune di Melissano,
è stato avviato un "Biennio di Studio su Corvaglia", al fine di
approfondirne e divulgarne la conoscenza. Alla realizzazione del progetto
collaborano, come protagonisti, anche l'Amministrazione Provinciale di Lecce,
l'Università degli Studi del Salento e l'Istituto Comprensivo Statale di
Melissano, che chiuderanno il biennio dei lavori, organizzando un Convegno su Corvaglia",
al fine di dibattere argomenti di particolare interesse presenti nella sua
opera. A tale riguardo si sta già operando non solo sul piano della ricerca
specialistica e accademica, ma anche sulla promozione d'iniziative, che
coinvolgano biblioteche e settori culturali degli enti locali, creando
opportunità per sviluppare in maniera articolata e organica la ricognizione e
la valorizzazione del patrimonio culturale salentino in generale e melissanese
in particolare, lasciato in eredità da Corvaglia. La casa di
Seneca- Commedia di L. Corvaglia. Altre opere: “La casa di Seneca” (Tipografia
Fratelli Carra, Matino (Lecce); “Rondini (dedicata "Al mio povero
innocente Nova, fuggevole visione di un Infinito", che avvampa e dilegua
in vicenda amara di avventi senza natale"; Tipografia Fratelli Carra,
Matino (Lecce); “Tantalo” Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce), Santa
Teresa e Aldonzo (L. Cappelli Editore, Bologna); Rondini- Commedia; “Romanzo
Finibusterre, Editrice Dante Alighieri, Milano); “Le fonti della filosofia di
Vanini” (Anphitheatrum Aeternae Providentiae, Società Dante Alighieri, Milano);
“Introduzione semi-seria dialogata per il lettore Vanini” (Edizioni e plagi,
Tipografia Carra di Casarano); “Ricognizione delle opere di G.C. Vanini, in
"Giornale Critico della Filosofia Italiana”; La poetica di Scaligero nella
sua genesi e nel suo sviluppo, in "Giornale Critico della Filosofia
Italiana", Quaderni Mazziniani; “Noi Mazziniani” Tipografica di Matino
(Lecce), “Mazzini e il partito d' azione (critica), Tipografica di Matino
(Lecce), “ L'acherontico retaggio (con l'elogio della vita comune), Tipografica
di Matino (Lecce), Quaderni Mazziniani n° 4. Il partito repubblicano italiano,
Tipografica di Matino (Lecce). Discorso tenuto a Lecce nel Teatro Paisiello il
21 gennaio 1945. Giuseppe Mazzini, Discorso commemorativo tenuto a Lecce nel
Teatro Apollo, Laterza, Bari,"Rinascenza salentina", Un Paese del
Sud. Melissano. Storia e tradizioni popolari, Tipografia di Matino. Meridionalista
e Polemista, La Poetica di Giulio Cesare Scaligero nella sua genesi e nel suo
sviluppo, Musicaos Editore, Sulla Poetica di G.C. Scaligero. Convegno sy
Corvaglia. Il pensiero politico di Corvaglia. Popolo Sacralità Religiosità. Wikipedia
Ricerca Tantalo personaggio della mitologia greca, figlio di Zeus, legato al
famoso supplizio Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se
stai cercando altri significati, vedi Tantalo (disambigua). Tàntalo Tantalus by
J.Heintz the Elder, jpg Tantalo Nome orig.Τάνταλος SessoMaschio Luogo di
nascitaLidia ProfessioneRe di Lidia Tàntalo (in greco antico: Τάνταλος,
Tàntalos) è un personaggio della mitologia greca. Re di Lidia (o della
Frigia) che per i suoi numerosi peccati fu punito dagli dei e gettato nel
Tartaro, la sua punizione è divenuta una figura retorica con cui si indica una
persona che desidera qualcosa che non può raggiungere. EtimologiaModifica
Secondo Platone, accordandosi alla radice greca τλα-/τλη- del verbo greco τλάω
(che significa "soffrire"), il nome Tantalo deriverebbe da
talànatos(infelicissimo) Genealogia Modifica Figlio di Zeus[2][3] o di Tmolo[4]
e della ninfa Pluto[2][3]sposò la ninfa Dione[2] (figlia di Atlante) o
Eurinassa[5](figlia di Pattolo) o Euritemiste[6] (figlia di Xanto) o Clizia[6]
(figlia di Anfidamante) e fu padre di Pelope[2][5][6], Brotea[4][7],
Niobe[8][9] e Dascilo[10]. MitologiaModifica Tantalo visse presso il
monte Sipylos in Anatolia, dove fondò la città di Tantalis[11]. Il
banchetto di Tantalo I misfattiModifica Tantalo, che grazie alle sue origini
era ben voluto dagli dei[12], si rese responsabile di diverse offese nei loro
confronti e violò le regole della xenia cercando di rapire Ganimede, rubando
dell'ambrosia che in seguito distribuì ai suoi sudditi ed organizzando il furto
di un cane d'oro creato da Efesto e posto a guardia di un tempio di Zeus a
Creta (di tale furto l'artefice materiale fu Pandareo ma Tantalo giurò il falso
ad Hermes, inviato dagli dei proprio per recuperare l'animale[13][14]; secondo
un'altra versione il cane era in realtà Rea trasformata in quel modo da Efesto[15]).
Il re infine organizzò un banchetto a cui invitò gli dei stessi e, per mettere
alla prova la loro onniscienza, uccise suo figlio Pelope e lo fece servire come
pasto: Demetra, disperata per la perdita della figlia Persefone, non si accorse
di nulla e consumò parte di una spalla del ragazzo, ma gli altri dei notarono
immediatamente l'atrocità e gettarono i pezzi di Pelope in un
calderone[13]. Il supplizioModifica Il supplizio di Tantalo Gli dei
punirono Tantalo gettandolo negli inferi[12] e condannandolo ad avere per
sempre una fame e una sete impossibili da placare[13] schiacciato dal peso di
un masso, legato ad un albero da frutto e immerso fino al collo in un lago
d'acqua dolce: appena prova ad abbeverarsi il lago si prosciuga e non appena
prova a prendere un frutto i rami si allontanano o un colpo di vento li fa
volare lontano[16]. Il sepolcro di Tantalo sorgeva sul monte Sipylos[3]
ma gli onori gli furono pagati ad Argo, la cui tradizione locale sosteneva
anche di possedere le sue ossa[3]. Miti successiviModifica I mitografi
successivi cercarono in tutti i modi di discolpare gli dei da un possibile atto
di cannibalismo stravolgendo in tutto la storia di Tantalo: secondo tale
versione, infatti, egli era un sacerdote che rivelò ogni segreto ai non
iniziati, al che colpirono suo figlio con una malattia orrenda. I chirurghi di
allora, con varie operazioni, riuscirono a ricostruire il corpo originale anche
se di lì in poi esso portò innumerevoli cicatrici[17]. Filosofia Il mito
di Tantalo venne successivamente ripreso dal filosofo Arthur Schopenhauer nella
sua opera più nota, Il mondo come volontà e rappresentazione, come esempio
della eterna insoddisfazione dell'uomo per cui "contro un desiderio che
viene appagato ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; la brama dura a lungo,
le esigenze vanno all'infinito mentre l'appagamento è breve e misurato con
spilorceria". Curiosità. Il furto dell'ambrosia a vantaggio degli
esseri umani lo accomuna a Prometeo[18], ma in questa veste il suo mito si
trasforma da peccatore a benefattore. Tantalo, alla stregua di Licaone, era uno
dei re originali a cui era concesso, con il favore degli dei, di condividerne
la mensa: il suo gesto viene visto come un atto di separazione fra divinità e
umanità, che verrà poi ripreso da molti altri miti come nel caso di Achille. Il
supplizio di Tantalo viene citato anche da Primo Levi in Se questo è un uomo nella
frase: "Si sentono i dormienti respirare e russare, qualcuno geme e parla.
Molti schioccano le labbra e dimenano le mascelle. Sognano di mangiare (...). È
un sogno spietato, chi ha creato il mito di Tantalo doveva conoscerlo."
Oriana Fallaci, in Se il sole muore, cita il mito di Tantalo dal momento che
nella missione Apollo 11l'astronauta Michael Collins sarà costretto ad
avvicinarsi alla Luna senza avere la risposta a: "Com'è la Luna?
Assomiglia alla Terra? È più bella? Più brutta? Che effetto fa camminarci?".
La tortura di Tantalo viene ripresa anche da Thomas Mann in La montagna
incantata. Un personaggio dell'opera, la signora Stohr, riferendosi al
prolungarsi indefinito delle prescrizioni per le cure, afferma: «[omissis] Dio
buono si è sempre allo stesso punto, lo sa anche lei. Si fanno due passi avanti
e tre indietro... Quando uno ha fatto cinque mesi, arriva il vecchio e gliene
rifila altri sei. Ah, è la tortura di Tantalo. Si spinge, si spinge e quando si
crede d'essere in cima...». È evidente la confusione che la signora, avvezza
alle gaffes, fa tra Tantalo e Sisifo. L'interlocutore, il sarcastico e dotto
umanista Settembrini, risponde sul punto: «Oh, brava e generosa! Finalmente
concede al povero Tantalo un diversivo. Per variare gli fa spingere il famoso
pietrone! È un atto di vera bontà! [omissis]». Ne La valle dell'Eden John
Steinbeck fa dire a Kate: "Chi era quello che non riusciva a bere da un
setaccio? Tantalo?" (cap. 46). Tantalo appare come sostituto di Chirone
nel secondo libro della Saga di Percy Jackson Il mare dei mostri. Il tantalio,
elemento chimico di numero atomico 73, prende il nome da Tantalo, e si trova
sotto il niobio, il cui nome deriva proprio da sua figlia Niobe. NoteModifica ^
Platone, Cratilo, 28. ^ a b c d Igino, Fabulae 82 ^ a b c d ( EN ) Pausania il
Periegeta, Periegesi della Grecia, II, 22.2 e 3, su theoi.com. URL consultato
il 13 agosto 2019. ^ a b Scholia ad Euripide, Oreste 5 ^ a b Giovanni Tzetzes a
Licofrone, 52 ^ a b c Scholia ad Euripide, Oreste, Pausania il Periegeta,
Periegesi della Grecia, III, 22.4, su theoi.com. URL consultato il 13 agosto
2019. ^ Igino, Fabulae, 9 ^ ( EN ) Apollodoro, Biblioteca, III, 5.6, su
theoi.com. URL consultato il Scolio ad Apollonio Rodio, Le Argonautiche, II, v.
752 ^ Plinio il Vecchio Naturalis historia 2,93; 5,31 ^ a b ( EN ) Diodoro
Siculo, Biblioteca Historica, IV, 74.1 e 2, su theoi.com. URL consultato il 13
agosto 2019. ^ a b c ( EN ) Pindaro, Olimpiche, 1.60 ff, su perseus.tufts.edu.
URL consultato il 13 agosto 2019. ^ Euripide, Oreste, 10 ^ Antonio Liberale,
Metamorfosi, 11 e 36. ^ ( EN ) Apollodoro, Biblioteca, Epitome II, 1, su
theoi.com. URL consultato il 13 agosto 2019. ^ Tzetze, a Licofrone, 152 ^ Pindaro,
Olimpiche, 1, 59-63. BibliografiaModifica Fonti primarie Esiodo, Teogonia 355
Pausania, Libro II, 22,4 Pindaro, Olimpica III, 41 Igino, Fabulae 82,83 e 124
Fonti secondarie Robert Graves, I miti greci, Milano, Longanesi, 1979, ISBN
88-304-0923-5. Angela Cerinotti, Miti greci e di roma antica, Prato, Giunti,
2005, ISBN 88-09-04194-1. Anna Ferrari, Dizionario di mitologia, Litopres,
UTET, 2006, ISBN 88-02-07481-X. Anna Maria Carassiti, Dizionario di mitologia
classica, Roma, Newton, Prometeo Issione Tizio Sisifo Altri progettiModifica
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su Tantalo Collegamenti esterniModifica Tantalo, su Treccani.it – Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Carlo
Gallavotti, TANTALO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1937. Modifica su Wikidata ( EN ) Tantalo, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. La storia di Tantalo, su
haidukpress.Portale Mitologia greca: accedi alle voci di Wikipedia che trattano
di mitologia greca Ultima modifica 3 giorni fa di Nicola Gotti Enomao re di
Pisa nella mitologia greca, figlio di Ares Clitennestra personaggio della
mitologia greca, moglie di Agamennone e amante di Egisto Minia re e
fondatore di Orcomeno in Beozia nella mitologia greca Wikipedia Il
contenutoAlles Wollen entspringt aus Bedürfniß, also aus Mangel, also aus
Leiden. Diesem macht die Erfüllung ein Ende; jedoch gegen einen Wunsch, der
erfüllt wird, bleiben wenigstens zehn versagt: ferner, das Begehren dauert
lange, die Forderungen gehen ins Unendliche; die Erfüllung ist kurz und
kärglich bemessen. Sogar aber ist die endliche Befriedigung selbst nur
scheinbar : der erfüllte Wunsch macht gleich einem neuen Platz : jener ist ein
erkannter, dieser ein noch unerkannter Irrthum. Dauernde, nicht mehr weichende
Befriedigung kann kein erlangtes Objekt des Wollens geben: sondern es gleicht
immer nur dem Almosen, das dem Bettler zugeworfen, sein Leben heute fristet, um
seine Quaal auf Morgen zu verlängern. – Darum nun, solange unser Bewußtseyn von
unserm Willen erfüllt ist, solange wir dem Drange der Wünsche, mit seinem
steten Hoffen und Fürchten, hin- gegeben sind, solange wir Subjekt des Wollens
sind, wird uns nimmermehr dauerndes Glück, noch Ruhe. Ob wir jagen, oder
fliehn, Unheil fürchten, oder nach Genuß streben, ist im Wesentlichen einerlei:
die Sorge für den stets fordernden Willen, gleichviel in welcher Gestalt,
erfüllt und bewegt fortdauernd das Bewußtseyn; ohne Ruhe aber ist durchaus kein
wahres Wohlseyn möglich. So liegt das Subjekt des Wollens beständig auf dem
drehenden Rade des Ixion, schöpft immer im Siebe der Danaiden, ist der ewig
schmachtende Tantalus.Luigi Corvaglia. Corvaglia. Keywords: Tantalo,
Schopenhauer, Sisifo, assurdo, Camus, tragico. Refs.: Vanini, Bordon, poetica,
Mazzini, Pomponazzi, Cardano --. Luigi Speranza, “Grice e Corvaglia” – The
Swimming-Pool Library. Corvaglia.
Grice e Corvino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Imbevuto di discorsi socratici, insigne per le sue attività
politiche e militari, scrittore e protettore di poeti. C. studia in Atene
con Orazio e poi coltivò l’eloquenza, la grammatica, la poesia. C. e
incluso nelle liste di proserizione perchè avversario di Cesare, ma salva la
vita. C. combattò con Bruto e Cassio a Filippi, poi si unì ad
Marc'Antonio.In seguito, C. strinse rapporti con Ottaviano. C. e console,
combattè ad Azio ed ebbe comandi in Oriente. Per una vittoria
sugl'Aquitani, C. consegue il trionfo.C. rimase però sempre fedele alle antiche
convinzioni politiche, e perciò, dopo sei giorni dalla nomina, abbandona
l’ufficio di praefectus urbis. C. e curator aquarum. A nome del
Senato, C. salutò Augusto "pater patriae."Corvino fu capo di un
circolo filosofico al quale appartennero Tibullo e Ligsdamo.C. scrive carmi
bucolici e orazioni. Come oratore, C. e molto lodato da Tacito e
Quintiliano.C. compose un’opera storica, probabilmente di memorie.Alcuni hanno
rilevato influssi dell’Epicureismo, altri di Posidonio, nel lungo frammento che
ci rimane di un poema sulla caccia ("Cynegetica") composto da
Grattio, vissuto al tempo di Augusto.Ma abbiamo elementi troppo scarsi per
determinare le direttive del suo pensiero. Del poeta Linceo
(probabilmente questo era uno pseudonimo), Properzio, suo amico e rivale in
amore, dice che attingeva la sua sapienza ai libri socratici e che avrebbe
potuto trattare del corso delle cose, del sistema del mondo e di problemi,
escatologici e naturali. Marco Valerio Mesalla Corvino. Corvino.
Grice e Cosi: l’implicatura
conversazionale del cuore -- accordo – cuori -- l’accordo – filosofia italiana
– Luigi Speranza -- (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I love Cosi; my
favourite of his philosophical essays on justice is the one on ‘l’accordo,’ for
this is what my principle of conversational helpfulness or co-operation is all
about!” Giovanni Cosi. Si laurea a Firenze.
Insegna a Firenza, Sassari, Siena. Altre opere: “La liberazione artificiale:
l’uomo e il diritto di fronte a la droga” (Milano: Giuffrè); "Religiosità
e teoria critica" (Giuffre); "Secolarizzazione e ri-sacralizzazioni"
(Giuffre); "Il sacro e giusto: itinerario di archetipologia”
(FrancoAngeli). Dopo aver compiuto ricerche sull'espressione del dissenso in
forma non rivoluzionaria negli ordinamenti liberal-democratici, pubblica per la
Giuffrè Editore il volume "Saggio sulla disobbedienza civile";
"Il traviato”, “il filosofo traviato: il filosofo come gentiluomo (Giuntina);
“La obbedienza civile, la disobbedienza
civile: il consenso, il dissenso, la aristocracia, la plutocracia, la
democrazia, la repubblica (Milano: Giuffrè). Il giurista perduto: avvocati e
identità professionale” (Giuntina), “Logos e dialettica” (Giappichelli,
Torino); “Il filosofo risponsabile” (Giappichelli,Torino); “Lo spazio della
mediazione, -- il terzo escluso – chi media nella diada? (Giuffrè). “Invece di
giudicare” (Giuffrè); “Il spazio della mediazione nel conflitto della diada
conversazionale” (Giappichelli Torino); “Legge, Diritto, Giustizia”
(Giappichelli, Torino). “Giudicare, o Fare giustizia. – vendetta – il concetto
filosofico” (Giuffré Editore, Milano). La liberazione
artificiale: l'uomo e il diritto di fronte alla droga, Giuffrè, Milano; Saggio
sulla disobbedienza civile: storia e critica del dissenso in democrazia,
Giuffrè, Milano; Il giurista perduto: avvocati e identità professionale,
Giuntina, Firenze; Il sacro e il giusto: itinerari di archetipologia giuridica,
Franco Angeli, Milano; Il Logos del diritto, Giappichelli, Torino; La
responsabilità del giurista: etica e professione legale, Giappichelli, Torino;
Società, diritto, culture: introduzione all'esperienza giuridica, dispense di
Sociologia del Diritto, Firenze); La professione legale tra patologia e
prevenzione: materiali di etica professionale, dispense di Sociologia del
Diritto, Firenze; Per una politica del diritto del fenomeno droga: problemi e
prospettive", Archivio Giuridico; Il diritto e la droga" e "Per
una comprensione culturale dell'uso di droghe", Testimonianze; "Religiosità
e Teoria Critica: la teologia negativa di Max Horkheimer", Rivista di
Filosofia Neo-scolastica, "Secolarizzazione e risacralizzazioni: le
sopravalutazioni post-illuministiche dell'immanentismo", in L. Lombardi
Vallauri - G. Dilcher, Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno,
Giuffrè - Nomos Verlag, Milano - Baden-Baden); "Sulla 'naturalità'
dei diritti civili", Testimonianze; "L'Uno o i Molti? Il 'nuovo
politeismo' di Miller e Hillman", Testimonianze; "Ordine e dissenso.
La disobbedienza civile nella società liberale", Jus; "Iniziazione e
tossicomania: intorno a un libro di Luigi Zoja", Testimonianze; "Le
aporie del pacifismo: critica della pace come ideologia", Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto; "L'immagine sofferente della
legge", L'Immaginale; "Diritto e morale in tema di aborto",
Testimonianze; "Professionalità e personalità: riflessioni sul ruolo
dell'avvocato nella società", Sociologia del Diritto; "L'avvocato e
il suo cliente: appunti storici e sociologici sulla professione legale",
Materiali per una storia della cultura giuridica; "La coscienza, gli dei,
la legge", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "Il
diritto del mondo I", Anima; "Un anniversario dimenticato: Il Bill e la sua eredità", Sociologia del
Diritto; "Vecchio e nuovo nelle crisi di identità degli avvocati", in
Storia del diritto e teoria politica, Annali della Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università degli Studi di Macerata; "Verso il paese di Inanna",
Anima;"Avvocato o giurista?", comunicazione al VI Convegno nazionale
di studio dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani, Firenze, Iustitia,
"Tutela del mondo e normatività naturale", in L. Lombardi Vallauri
(ed.), Il meritevole di tutela, Giuffrè, Milano); "Tutela del mondo e
strumenti giuridici", Testimonianze; "La professione legale tra etica
e deontologia", Etica degli Affari e delle professione; "Diritto
e realizzazione: un'introduzione alla fenomenologia del logos giuridico", Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto; "La legge e le origini della
coscienza", Per la filosofia; "Naturalità del diritto e
universali giuridici", Rivista Internazionale di Filosofia del
Diritto,"Naturalità del diritto e universali giuridici", in F.
D'AGOSTINO (ed.), Pluralità delle culture e universalità dei diritti,
Giappichelli, Torino); "Etica secondo il ruolo", Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto; "Purezza e olocausto:
un'interpretazione psicologico-culturale", Per la Filosofia; "Logos
giuridico e archetipi normativi", in L. LOMBARDI VALLAURI, Logos
dell'essere, Logos della norma, Adriatica, Bari); “Giustizia senza giudizio.
Limiti del diritto e tecniche di mediazione”, in F. MOLINARI e A. AMOROSO,
Teoria e pratica della mediazione, FrancoAngeli, Milano); “Le forme
dell’informale”, comunicazione al Congresso Nazionale della Società di
Filosofia Giuridica e Politica, Trieste, Ora in Giustizia e procedure, Atti del
suddetto Convegno, Giuffrè, Milano); “L’idea di professione”, Dirigenti Scuola,
“Controllare la professione”, Dirigenti Scuola, “Professione, patologia e
prevenzione”, Dirigenti Scuola. Ricerca Cuore
organo muscolare, centro motore dell'apparato circolatorio. disambigua.svg
Disambiguazione. Se stai cercando altri significati, vedi Cuore (disambigua).
Il cuore è un organo muscolare, che costituisce il centro motore dell'apparato
circolatorio e propulsore del sangue e della linfa in diversi organismi
animali, compresi gli esseri umani, nei quali è formato da un particolare
tessuto, il miocardio ed è rivestito da una membrana, il pericardio. natomia
del cuore umano EmbriologiaModifica Può originare da un abbozzo mesodermico
ventrale, come negli anfibi, nella parte rostrale del celoma, oppure da due
abbozzi pari, come nei mammiferi, che poi si uniscono medialmente. In entrambi
i casi il primo abbozzo cardiaco è compreso nel mesentere ventrale che in
seguito si dividerà in mesocardio dorsale e ventrale; successivamente entrambi
spariranno per far spazio al tubo cardiaco che permane nella cavità
pericardica, separatasi dalla cavità addominale per lo sviluppo di un setto
trasverso. In questa fase il cuore, che si trova lungo il decorso del
vaso sanguifero mediano nella regione subfaringea, non ha ancora né valvole né
altre suddivisioni: è rappresentato da un tubo con due pareti, una muscolare
più esterna, miocardio, e una endoteliale più interna, endocardio.
Anatomia comparataModifica Nei vertebrati l'apparato circolatorio presenta una
complessità crescente dai pesci ai mammiferi, le modifiche che ha subito nel
corso dell'evoluzione sono in relazione allo sviluppo di un apparato
respiratorio[1]sempre più efficiente. Nei pesci il cuore è costituito da
un solo atrio, che raccoglie il sangue povero di ossigeno proveniente da tutto
il corpo, e un solo ventricolo, che raccoglie il sangue proveniente dall'atrio:
esistono però un seno venoso nel punto di arrivo delle vene e un bulbo
arterioso all'inizio delle arterie, quindi le camere sono in realtà quattro. Le
camere nel cuore dei pesci La circolazione in questi animali è definita
semplice perché il sangue compie un intero ciclo passando una sola volta per il
cuore, da dove raggiunge le branchieper essere ossigenato così da arrivare ai
tessutitrasportato dalle arterie. Dopo aver ceduto alle cellule l'ossigeno e
aver prelevato il diossido di carbonio e i prodotti di rifiuto, il sangue torna
verso l'atrio per mezzo delle vene. A questo punto torna nel ventricolo e da
qui alle branchie: a questo punto il ciclo ricomincia. Nei vertebrati
terrestri, mammiferi e uccelli, vi è una circolazione doppia (polmonare e
sistemica), nella quale il sangue, nel corso di un ciclo completo, passa due
volte per il cuore. Negli anfibi e nella maggior parte dei rettili il cuore ha
due atri, ma un solo ventricolo così che i due tipi di sangue finiscono
nell'unico ventricolo, qui si rimescolano parzialmente e riducono la quantità
di ossigeno destinata ai tessuti; insieme all'aorta, alle arterie e vene
polmonari esiste un’arteria pulmo-cutanea che porta il sangue alla pelle, dove
il sangue circolante si ossigena.[1] Cuore dei varani Anatomia:
RVH= atrio destro; LVH= atrio sinistro; KK= circolazione sistemica; LK=
circolazione polmonare; SAK= valvole del setto atrioventricolare; CP= cavità
polmonare. Sistole: Frecce blu= sangue venoso, Frecce rosse= sangue
arterioso Diastole: Frecce blu= sangue venoso, Frecce rosse= sangue
arterioso Solo nei coccodrilli i ventricoli sono separati, mentre l'aorta
e l'arteria polmonare sono collegate dal forame di Panizza. Per
ricapitolare i diversi tipi di circolazione, potremmo così riassumere[2]:
Nei pesci la circolazione è semplice, è unidirezionale e ha un solo ventricolo;
Negli anfibi e nei rettili è doppia e incompleta; Nei mammiferi e uccelli è
doppia e completa, vi sono due ventricoli completamente separati Anatomia
umanaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Cuore umano. La posizione del cuore all'interno del torace umano Negli
esseri umani è posto al centro della cavità toracica, precisamente nel
mediastino in posizione anteroinferiore fra le due regioni pleuropolmonari,
dietro lo sterno e le cartilagini costali, che lo proteggono come uno scudo,
davanti alla colonna vertebrale, da cui è separato dall'esofago e dall'aorta, e
appoggiato sul diaframma, che lo separa dai visceri sottostanti. Il cuore ha la
forma di un tronco di conoad asse obliquo rispetto al piano sagittale: la sua
base maggiore guarda in alto, indietro e a destra, mentre l'apice è rivolto in
basso, in avanti e a sinistra;[4] pesa nell'adulto all'incirca 250-300 g,
misurando 12-13 cm in lunghezza, 9-10 cm in larghezza e circa 6 cm di spessore
(si sottolinea che questi dati variano con età, sesso e costituzione fisica). Battito
del cuore di un uomo a 61 bpm FisiologiaModifica Il cuore si contrae e si
rilascia secondo il ciclo cardiaco. Il cuore è costituito dalle cellule
del miocardio, tipicamente striate, che si occupano della contrazione e dalle
cellule auto ritmiche non contrattili, da cui origina lo stimolo di
contrazione. Le cellule auto ritmiche possiedono la capacità di auto
depolarizzarsi, grazie all'apertura canali del sodio (detti fun), che spostano
il potenziale di membrana verso valori più positivi, consentendo l'apertura dei
canali del calcio. L'ingresso di calcio nella cellula è prolungato e porta il
potenziale a stabilizzarsi su valori positivi per qualche millisecondo,
generando un plateau. Il segnale termina grazie all'apertura dei canali del
potassio, che riportano il potenziale di membrana a valori negativi e
consentono ai canali funny di aprirsi nuovamente. La contrazione del miocardio
inizia grazie all'ingresso del calcio nella cellula, che provoca la fuoriuscita
di altro calcio dal reticolo sarcoplasmatico e quindi la contrazione. Il
cuore nelle culture umane. Nell'antichità classica (anche per il filosofo e
scienziato Aristotele) il cuore era ritenuto sede della memoria. Il verbo
ricordare deriva infatti dal verbo latino recordari e questo dal sostantivo cŏr
(genitivocŏrdis), cuore (come sede della memoria) col suffissore- di movimento
all'incontrario: quindi, propriamente, rimettere nel cuore (= nella memoria). Ancora
oggi l'espressione "a memoria" si traduce par coeur in francese, by
heart in inglese e de cor in portoghese ("coeur", "heart" e
"cor" significano "cuore"). Particolarmente cruento
era il sacrificio del cuore nel mondo azteco. Gli Aztechi prendevano un cuore,
estratto ancora palpitante dalle vittime sacrificali umane, e lo offrivano agli
dei. Apparato respiratorio nei vertebrati, su sapere La circolazione dei
vertebrati, su hischool.weebly. Fiocca, Testut e Latarjet, Dizionario
etimologico della lingua italiana, di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, ed.
Zanichelli. Léo Testut e André Latarjet, Miologia-Angiologia, in Trattato di
anatomia umana. Anatomia descrittiva e microscopica – Organogenesi, Torino,
UTET, Silvio Fiocca et al., Fondamenti di anatomia e fisiologia umana, 2ª ed.,
Napoli, Sorbona, cuore, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Cuore, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere riguardanti Cuore, su Open
Library, Internet Archive.Cuore, in Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Portale Anatomia Portale
Biologia Portale Medicina Ultima modifica 18 giorni fa di Lorenzo
Longo Arteria vasi sanguigni che trasportano il sangue dalla periferia del
cuore al corpo Cuore umano organo muscolare cavo Apparato
circolatorio insieme degli organi deputati al trasporto di fluidi diversi –
come il sangue e, in un'accezione più generale, la linfa – che hanno il compito
di apportare alle cellule gli elementi necessari al loro sostentamento Wikipedia
Il contenutoGrice: “Italians are afraid of the ‘sacro’ because since the
fall of the Roman Empire, it means the evil Pope! – unless otherwise stated by
people like Evola, etc.” – Grice: “Hart should have spent more time analysing
the implicatures of ‘disobey,’ as Cosi does -- to realise how wrong his theory
is!” Grice: “Austin, who taught morals at Oxford, should have examined, as Cosi
does, what we mean by ‘responsible philosopher’ before opening his mouth!” – Grice:
“My idea of helpfulness does not quite include that of ‘mediation’ but it
should – the space of mediation in the conflict in the conversational dyad! I
owe this to Cosi.” Grice: “I decided to use ‘judicative’ versus ‘volitive’
after Cosi. – His ‘giudicare’ is a gem!” -- Giovanni Cosi. Keywords: l’accordo,
il secolare/il sacro; profane/sacro – secolare; archetipo, il filosofo come
gentiluomo, l’obbediente, il disobbediente, il consensus, il disensus, to obey,
conflitto, mediazione, diritto (right), giure, giurato – legatum, vendetta,
giudicare, fare giustizia, vendetta conversazionale, natura, naturalita,
non-naturale, legge naturale gius naturale, giusnaturalismo, fenomenologia del
giurato; normato naturale? Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Cosmacini: l’implicatura
conversazionale del consenso e la compassione – sinestesia e simpatia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice:
“I like Cosmacini; for one he wrote on THREE areas of my concern: ‘cuore’, as
when we say that two conversationalists reach an ‘accord’! – on ‘empatia’ – a
Hellenism, and most importantly, on ‘compassione,’ which is at the root of my
principle of conversational benevolence. -- Giorgio Cosmacini (Milano), filosofo.
Studia a Milano e Pavia.la “convenzione della mutua” o INAM(Istituto nazionale
per l'assicurazione contro le malattie) e apre un ambulatorio mutualistico Fare
bene il mestiere di “medico della mutua” non significa gestire un certo numero
di “mutuanti”; voleva inoltre dire aver cura di una comunità di persone,
ciascuna delle quali con esigenze proprie. raggiungendo in quel periodo circa
trecento mutuanti. Quando i suoi mutuanti erano circa millecinquecento, decise
di realizzare un suo sogno: la libera docenza. è autore di numerose opere
d'argomento filosofico-medico. Altre opere: la mutua, medico della mutua,
mutuante, mutuanti, ambulatorio mutualistico. “Scienza medica e giacobinismo in
Italia: l'impresa politico-culturale di Rasori (Collana La società, Milano,
Franco Angeli); Röntgen. Il "fotografo dell'invisibile", lo
scienziato che scoprì i raggi x, Collana Biografie, Milano, Rizzoli); “Gemelli.
Il Machiavelli di Dio, Collana Biografie, Milano, Rizzoli); “Storia della
medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea alla guerra mondiale. Gius.
Laterza & Figli); “Medicina e Sanità in Italia nel Ventesimo secolo. Dalla
'Spagnola' alla 2ª Guerra Mondiale, Roma, Laterza); “La medicina e la sua
storia. Da Carlo V al Re Sole, Collana Osservatorio italiano, Milano, Rizzoli);
“Una dinastia di medici. La saga dei Cavacciuti-Moruzzi, Collana Saggi italiani,
Milano, Rizzoli); Storia della medicina e della Sanità nell'Italia contemporanea,
Roma-Bari, Laterza, G. C. Cristina Cenedella, I vecchi e la cura. Storia del
Pio Albergo Trivulzio, Roma-Bari, Laterza); “La qualità del tuo medico. Per una
filosofia della medicina, Roma-Bari, Laterza); “Medici nella storia d'Italia,
Roma-Bari, Laterza, L'arte lunga. Storia della medicina dall'antichità a oggi,
Roma-Bari, Laterza); “Il medico ciarlatano. Vita inimitabile di un europeo del
Seicento, Laterza); “Ciarlataneria e medicina. Cure, maschere, ciarle, Milano, Cortina,
La Ca' Granda dei milanesi. Storia dell'Ospedale Maggiore, Roma-Bari, Laterza);
“Il mestiere di medico. Storia di una professione, Collana Scienze e Idee, Milano,
Raffaello Cortina); “Introduzione alla medicina, Roma-Bari, Laterza, Biografia
della Ca' Granda. Uomini e idee dell'Ospedale Maggiore di Milano, Laterza, Medicina
e mondo ebraico. Dalla Bibbia al secolo dei ghetti, Collana Storia e Società,
Roma-Bari, Laterza, Il male del secolo. Per una storia del cancro, Roma-Bari,
Laterza); “La stagione di una fine, Terziaria); “Il medico giacobino. La vita e
i tempi di Rasori, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Salute e bioetica,
Torino, Einaudi, G. C. Satolli, Lettera a un medico sulla cura degli uomini,
Roma, Laterza, La vita nelle mani. Storia della chirurgia, Collana Storia e Società,
Roma-Bari, Laterza, Una vita qualunque, viennepierre edizioni, Il medico
materialista. Vita e pensiero di Jakob Moleschott, Collana Storia e Società,
Roma-Bari, Laterza «La mia baracca». Storia della fondazione Don Gnocchi,
Presentazione del Cardinale Dionigi Tettamanzi, Laterza); “La peste bianca.
Milano e la lotta antitubercolare, Milano, Franco Angeli); “L'arte lunga.
Storia della medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il romanzo
di un medico, viennepierre edizioni, L'Islam a La Thuile nel Medioevo. Un
«tuillèn» alla terza crociata: andata, ritorno, morte misteriosa, KC Edizioni, Le
spade di Damocle. Paure e malattie nella storia, Collana Storia e Società,
Roma-Bari, Laterza); “La religiosità della medicina. Dall'antichità a oggi,
Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “L'anello di Asclepio. L'età
dell'oro”; “La peste, passato e presente, Milano, Editrice San Raffaele); “La
medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base” (Collana
Scienze e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Il medico saltimbanco. Vita e
avventure di Buonafede Vitali, giramondo instancabile, chimico di talento,
istrione di buona creanza” (Roma-Bari, Laterza); “Prima lezione di medicina,
Collana Universale.Prime lezioni, Roma-Bari, Laterza); “Il medico e il
cardinale, Milano, Editrice San Raffaele); “Testamento biologico. Idee ed esperienze
per una morte giusta” (Bologna, Il Mulino); “Politica per amore” (Milano,
Franco Angeli); “Guerra e medicina. Dall'antichità a oggi, Collana Storia e
Società, Roma-Bari, Laterza); “Compassione” (Bologna, Il Mulino); “La scomparsa
del dottore. Storia e cronaca di un'estinzione, Milano, Raffaello Cortina); “Camillo
De Lellis. Il santo dei malati, Roma-Bari, Laterza); “Il medico delle mummie.
Vita e avventure di Bozzi Granville, Collana Percorsi, Roma-Bari, Laterza); “Como,
il lago, la montagna, NodoLibri); “Tanatologia della vita e stetoscopio.
Bichat, Laënnec e la "nascita della clinica", AlboVersorio,. Medicina
e rivoluzione. La rivoluzione francese della medicina e il nostro tempo” (Collana
Scienza e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Un triennio cruciale. Como, il
lago, la montagna, NodoLibri); “La forza dell'idea. Medici socialisti e
compagni di strada a Milano. L'Ornitorinco,
Per una scienza medica non neutrale. Tre maestri della medicina tra
Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco, Medicina Narrata, Sedizioni); “Galeno e il
galenismo. Scienza e idee della salute” (Milano, Franco Angeli); “La chimica
della vita” -- e microscopio. Pasteur e la microbiologia, AlboVersorio); “Per
una scienza medica non neutrale. Tre maestri della medicina in Italia fra
Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco); “Il tempo della cura. Malati, medici,
medicine, NodoLibri); “Elogio della Materia” -- Per una storia ideologica della
medicina, Edra edizioni); “L'Infinito di Leopardi. Un impossibile congedo” (Sedizioni,.
Memorie dal lago e ricordi dal confine. Como, il lago, la montagna,
NodoLibri, Salute e medicina a Milano.
Sette secoli all'avanguardia, L'Ornitorinco); “La medicina dei papi, Collana
Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Medici e medicina durante il fascismo”
(Pantarei); “Il viaggio di un ragazzo attraverso il fascismo, Pantarei); Historia
cordis, Ass. Beretta,. Curatele Dizionario di storia della salute, G.
Cosmacini, Giuseppe Gaudenzi, Roberto Satolli, Collana Saggi, Torino,
Einaudi. “mutua gratia” - Practicis
nostris, Muri LAPIDES, sine inscriptione, apud nus, gadinca, vel Hnoc. Non
liquet, “don mutual” – mutual gift -- Chartain Chartul. Hygenum de Limitibus
constituendis. inquit Somnerus. (Mutinæ carnes, in Con thesaur. S. Germ. Prat.
fol. 12. rº.: Dicta. mutuum, Exactio nomine mului, Charta suet. MSS. Eccl.
Colon. e Bibl. Eccl. Atre- Ysabellis exhibuit dicto thesaurario quasdam Rogerii
1. Reg. Sicil. ann. apud Mu bat, eædem quæ vervecinæ. Vide Multo, litteras
mutuæ gratiæ dudum confectas inter ralor. tom. 6. col. Nulla angaria, par I
mutio, id est, Patuus. Vocabul. dictam Ysabellam et prædictum defunctum
angaria, echioma, gabella,Muruum, extorsio utriusque Juris. dum vivebat, et
constante legitimo matrimo- jaciatur, imponatur. Chron. Parmense ad mutis,
Truncus, stirps. Pactum inter nio inter ipsos. aapud eumdem Humb. dalph. et
episc. Gratianopol. ann. “mutuare”, Mutuum, seu exactionem ec impositum fuit
per commune Parma in Reg:. Chartoph. reg. ch. 34: nomine mutui impositam
solvere. Vide unum mutuum octo millium librarum impe recte tendendo ad pedem
cujusdam margassii mutuum. rialium per episcopatum, et quinque millium seu
claperii in quo margassio seu cleppe. Mutuatim, pro mutuo, in Vita Anti- per
civitatem. Et mutuum clericis fuit im rio sunt duæ mutes arborum. dii Archiep.
Bisonticensis cap. 5: Bene- positum duo millium librarum, etc. Chron. Åwwvíz,
in Gloss. Græc. Lat. dictionis ergo dono mutuatim dato, etc. Mutin. ibid. tom.
II. col. 122: Tria Mu [Mirac. S. Bernhardi Episc. tom. 5. Julii (mutuatio, pro
mutatio, in Consuet. tua extorsit.] Historia Cortusiorum lib. 3. p.112, Eoque
quippiam petere volente, MSS. Auscior. art. 3: Fiat autem mutua cap. 14,
Teutonici cruciabant Paduanos verbis in ore reclusis, subito mulus effectus tio
consulum annuatim in festo S. Joan. *mutuis* el daciis. Infra: *mutual*
imposuit et est; qui a plerisque tentatus, an videlicet Baptistæ. datias. Lib.
7. cap. 1: V'exabantur Muluis astu Muritatem simularet, et tandem certa ex Ital.
Mutola, Muta. Oc- et daliis. Albertinus Mussalus lib. 12. de loquendi
impotentia comprobatur. Occurrit currit in Vita B. Justinæ de Aretio n. 9. Reb.
gest. Italic. pag. 86: Communes da præterea toin. 2.Sanctorum Apr. pag. 429.],
Idem quod Expeditatus, riæ, exactionesque et Mutua publica el priMuronagium.
Vide in Charta Forestæ cap. 9. forte pro múti- vata etc. Charta R. Abbatis
Monasterii Ka Mullo. latus. Locum vide in Mastinus. roffensis in Pictonib. ann.
1308. ex (Ovis, Massiliensibus Mous, Nudus, glaber. Regesto Philippi Pulcri
Regis Franc. Tabu tonfede. Charta ann. 1390: Quilibet Mu- Gloss. Lat. Græc.
MSS. Sangerman. larii Regii n. 11: Non recipiemus ibi Mu tofeda solvat xvi.
denarios. * Castigat. in utrumque Glossar. forte tuum, nisi gratis mutuare
voluerint habitan Lugdunensibus, Feye. Vide supra Menlulosus, ead'ns, ex Vulc.
tes. Ita in Liberlatib. Novæ Bastidæ in Oc Lex Ripuar. lit. 6o. S 4: Si citania
ann. in alio Regesto ejusdem xudovicv, Malum colo- autem ibidem infra
terminationem aliqua in- Regis ann. n. 16. Vide Credentia, neum. Supplem.
Antiquarii et Gloss. MSS. dicia sua arte, vel butinæ,aut Lat. Græc. Sangerm.
Aliud itidem Gloss.: extiterint, ad sacramentum non admittatur, *mutuum
coactum* exactio, quæ a Mutonium, Tepábeuo, Additio. etc. Ubi mutuli, videntur
esse aggeres ter- dominis in urgentibus negotiis suis ac ne 1., quos Motes
nostri vocant: aut forte cessitatibus fiebat super subditos, vassallos,
equilatus, quod sic describit Jovius Hist. lapides ii quosMuros vocant
Agrimensores,ac tenentes cum restitutionis conditione ac lib. 14: Mutpharachæ
admirabili virtute i. sine inscriptione, vice terminorum po- pollicitatione: a
qua quidem exactione præstantes, toto orbe conquisiti, ea condi- siti. Vide
Bonna 2. exempta pleraque oppida, quibus concessæ tione militant, ut quos
velint Deos, impune KF Errat Cangius, si fides Eccardo, libertates, leguntur.
Charla libertatum colant, præsentique tantum Imperatori ope- in Notis ad Legem
citatam, quam ad cal- Aquarum Mortuarum ann. 1246: Omnes ram navent. Hæc post
Carolum de Aquino cem Legis Salicæ edidit. Mútuli enim sunt habitatores loci
illius sint liberi et immunes in Lex. milit. machinaliones clandestinæ, vel
seditiones ab omnibus questis, talliis, et toltis, et clam excitatæ, a veteri
German.Meulen, tuo coucto, et omni ademptu coacto. Con capitis tegumentum, quod
monachi cap. | clandestine agere, unde Meutmacher, Fla- suetudines
Monspelienses MSS. cap. 56: paronem vocabant. Gall. Christ. tom. 4. bellum
seditionis, Gall. Mutin. Hæc vir Toltam nec quistam, vel Mutuum coactum, col
uti. Mutrellis 782: Statuimus in dormitorio, quod liceat fratribus eruditus;
quæ tameninmeam fidem reci. vel aliquam exactionem coactam non habet;. Vide
Mitræ. necunquam habuit dominus Montispessulani I Vide Morth. I Gall. Mouton.
in hominibus Montispessulani. Eædem ver *, ut supra Muramen. Charta ann. exArchivis Massil.: naculæ, totas inquistas,
ni prest forsat, o Terrear.villæ de Busseul ex Cod. reg. Item super co quod
petebantdicti parerii alcuna action destrecha, etc. Libertates fol. 47. vº.:
Item unum Pariziensem Mut -I quartam partem Murunorum, astorium et concessæ
oppidis Castelli Amorosi et Va CANGII CLOSS. – T. IV. 2. Feda 2. pere nolim. etc.
lentiæ, in diæcesiAginnepsi, ab Edwardo I Eodem significatu, De S. 6: L.
FURPANIO L. Lib. PuILOSTORGO Mr. I. Rege Angliæ ex Regesto Constabulariæ
Juvenate Episc. tom. 1. Maii pag. 399: ROBRECHARIO VIX ann. LIJTI. Purpuria L.
Burdegalensis fol. 55. 140: Nec recipiemus Episcopus Narniensis ex suo palatio,
ialari L. OLYMPUSA PECIT. in ibi Muruum,
nisi gratis nobis mutuare velint reste indutus, racheto et Muzzeta. Vide
Inscript. Vide Martin Lex. in habitantes. Eadem habent libertales Rio.
Mozzetta. hac voce. magi in Arvernis. vocatur letri rudoris in. Fantasia,
miratores. Pa Mutuum VIOLENTUM, in Charta liberta- quietudo terrena. Ita
Apuleius de Muudo. pias. tum Jasseropis, apud Guicheponum in A Græco nimium
púxw, Mugio, reboo. Vide Ma Histor. Bressensi pag. 106. Roga coacta, in I Piscis
genus, qui alius zer. Charta Ludovici Comitis Blesensis et Cla- videtur ab eo
quem Spelmannus piscem. in Statutis Mon romontens. ann. 1197. pro Creduliensi
viridem vocat. Computus ann. 1425. apud tis Regal. fol. 318: Debeat solvere
emptori villa: Omnes homines Credulio marentes Kennett. in Antiquit. Ambrosden.
pag. gabellæ piscium, solidos quatuor pro quoli taliam mihi debentes, el eorum
hæredes, a 575: Et in 111. copulis viridis piscis... Et bet rubo piscium, et
intelligatur detracta talia, ablatione, impruntato et Roga coacta inxv.
copulisde Myllewellminorissortisx: Myrta et cestis ac funibus. de cælero
penitus quilos et immunes esse sol. vi. d. et in xx. Myllewell majoris sortis
Eadem notione, usurpant Cat concedo. Exslat Statutum Philippi VI. Re- Xit, sol.
(* Vide Mulsellus.] lius Aurelianus, Celsus, et Apicius. Vide gis Frane. 3.
Febr. ann. 1343. quo vMoniales, ex Anglo -Sa- Murta. in posterum fieri ullum
Mutuum coactum xop. myn'e'cen'e, vel minicene, hodie Graviter, com super
subditos suos: quod scilicet paulo Anglis Minneken et minnekenlasse. Copeil.
posite ambulare. Chron. Ditm. Mersburz. anie exegisse docet Diploma anni 1342.
Ænbamiense in Anglia ann. 1009. cap. 1: l'episc. tom. 10. Collect. Histor.
Frane. pag. 28. Junii, sed et Philippum Pulerum Re- Episcopi et abbates,
monachi et Mynecenæ, 131: Henricus Dei gratia res inclytus à se. gem aliud ann.
1309. in 12. Regesto Char- canonici et nonne, natoribus duodecim vallatus,
quorum ser tophyl. Reg. Ch. 15. et in 36. Regest. apud Ausonium in rasi barba,alii
prolixa Mystace incedebant Ch. 48. lemmate Epigrammatis 30. Cantharus po- cum
buculis, etc. Laudatum Philippi VI. Statutum torius Scaligero, qui a similitudine
muris I Sacerdotum præposi frustra quæsitum in Regestis publicis testa- et
barbæ, quæ in conum desinit, Myobar- tus; titulus honorarius Archiep. Toletani,
tur D. de Lauriere tom. 2. Ordinat. Reg. bum voce ibrida dietum existimat.
Turne- ex Hierolex. Macri. Franc. prg. 234. Undeexistimat D. Cangium bus vero
Advers. lib. 3. cap. 19. putat ver- lapsum memoria art. 4. et 5. Statuti ejusd.
| bum compositum mure et barbo, quod | , Mysteriorum per. Regis ann. 1345. 15.
non3. Febr.spectasse, mensuram, liquidorum sescunciam penitus, vel princeps.
Prudent. Peristeph. 2. quo vetat Philippus Rex in posterum a dentem sonat, ut
sit tamquam muris cya- 349: Bene est, quod ipse ex omnibus My subditis suis
exigi equos, currus, ele. nisi thus. Quidam le; emendat Lil. Gyraldus Epist, *mutuum violatum* Exactio nomine
xobarbaru, quod non placet. Vide Cupe. Zachariæ PP. ann.748. tom. 1. Rer. Mo
*mutui*, quæ a subditis exigitur. Charta rum in Harpocrate pag. 78. gunt. pag.
255, Officium, sacra Li mutuum violatum, velmessionem bajuli vel turgia.
Pelagius Episcop. Ovetensis in Fer servientum. [** Leg. Violentum ut, supra.)
ctum... Si autem Myocepha aur ypopius fuerit,dinando Rege Hispan.: Tunc
Alfonsus Rez mutuum ebraldum. Charta Henrici Co- post inunctionem ligabis
oculos aut linteo in velociter Romam nuntios misi ad Papam mitis Portugalliæ
tom. 3. Monarchiæ Lusi- aqua infuso frigida, aut spongia in ipsa Aldebrandum
cognomento septimus Grego tanæ p.282, Non introducam *mutuum* aqua infusa.
rius. Ideo hoc fecit, quia Romanum Vyste Ebraldum Colimbriam. 9piratici genus
arium habere voluit in omni Regno. Infra: mutuum, stipendium datum in ante-, ut
placet Tur Confirmarit itaque Romanum Mysterium in cessum. Lit. ann. 1408. tom.
9. Ordinat. nebo lib. 3. Adversar. cap. 1. nomen omne regnum Regis Adefonsi æra
1113. (Chr. reg. Franc. pag. 363, art. 1: Ordinamus adepti. Melius Scaliger, a
forma qevūves, 1088. ) per senescallos, receptores, thesaurarios,... hoc est,
angusta et oblonga, dictum ira- Missæ sacrifi tum nobilibus quam innobilibus,
cum ex dit. cium. Acta S. Gratil. tom. 3. Aug. pag. parte nostra mandati
fuerint ut ad guerras Hist. Franc. Sfortiæ ad ann. col. 2: Indutus est (Gratilianus
) ve nostras accedant, *mutuum* fieri priusquam apud Murator. tom. 31. Script.
Ital.col.stimentis a. Wikipedia Ricerca Sinestesia (psicologia) fenomeno sensoriale/percettivo
Lingua Segui Modifica Avvertenza Le informazioni riportate non sono consigli
medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine
illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze. La
sinestesia è un fenomeno sensoriale/percettivo, che indica una
"contaminazione" dei sensi nella percezione.[1] Il fenomeno
neurologico della sinestesia si realizza quando stimolazioni provenienti da una
via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze, automatiche e
involontarie, in un secondo percorso sensoriale o cognitivo.[2]
Possibile visione dei mesi dell'anno da parte di una persona soggetta al
fenomeno della Sinestesia Descrizione generale del fenomenoModifica Con il
termine "sinestesia" si fa riferimento a quelle situazioni in cui una
stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è percepita come due eventi
sensoriali distinti ma conviventi.[1] Nella sua forma più blanda è
presente in molti individui, spesso dovuta al fatto che i nostri sensi, pur essendo
autonomi, non agiscono in maniera del tutto distaccata dagli altri. Più
indicativo di un'effettiva presenza di sinestesia è il caso in cui il percepire
uno stimolo (come ad esempio il suono) provoca una reazione netta e propria di
un altro senso (ad esempio la vista). Per "forma pura" si intende la
sinestesia che si manifesta automaticamente come fenomeno percettivo e non
cognitivo. Il fenomeno è involontario, ma una maggiore attenzione prestata dal
soggetto può evocarlo con maggiore consapevolezza, al punto che il sinestesico
puro, vedendo i suoni e sentendo i colori, può riuscire a trarre vantaggio da
queste contaminazioni sensoriali; un compositore che sfruttava questa sua
capacità fu Olivier Messiaen, così come il pittore Vasilij Vasil'evič Kandinskij,
che affermava di poter sentire la voce dei colori, che per lui erano suoni,
entità vive e lo spiega bene nel suo libro Lo spirituale nell’arte. Un altro
sinestesico fu il pittore e musicista lituano, Mikalojus Konstantinas
Čiurlionis. Il compositore russo Aleksandr Nikolaevič Skrjabin era
particolarmente interessato agli effetti psicologici sul pubblico quando
sperimentavano suoni e colori contemporaneamente. La sua teoria era che quando
si percepiva il colore giusto con il suono corretto, si creava "un potente
risonatore psicologico per l'ascoltatore". La sua opera sinestetica più
famosa, che viene eseguita ancora oggi, è Prometeo: il poema del fuoco [1]. Ma
la lista degli artisti sinestesici è molto lunga, infatti le ultime ricerche
affermano che il fenomeno sinestesico interessi il 4% della popolazione e di
questo 4% la maggior parte sono artisti. Un'altra caratteristica della
sinestesia è poi che si presenta a volte nelle persone mancine, o in
concomitanza con altre caratteristiche come l'allochiria (confusione della mano
destra con la sinistra), scarso senso dell'orientamento, dislessia, deficit
dell'attenzione e, raramente, autismo. Spesso la contaminazione
sensoriale avviene a direzione unica: ad esempio, se vedo una nota musicale
come un colore, non è detto che vedendo quel colore la mia mente evochi quella
nota. Questa è una delle caratteristiche della sinestesia percettiva,
l'unidirezionalità. Secondo lo storico Angelo Paratico il mancino Leonardo Da
Vinci era affetto da sinestesia.[3] Esperienze di tipo sinestetico
possono essere indotte in maniera artificiale, mediante l'uso di sostanze
allucinogene, sostanze stupefacenti come l'LSD, esperienze di deprivazione
sensoriale, meditazione, ed in alcuni tipi di malattie che colpiscono la corteccia
cerebrale. Questo tipo di sinestesia è detta pseudosinestesia, in quanto è
indotta o non presente dalla nascita. La sinestesia acquisita sembra riguardare
solo le forme di sinestesia percettiva, e non sono stati documentati casi di
sinestesia concettuale acquisita. Le persone che hanno esperienze
sinestesiche nella "forma pura" sono un numero relativamente ridotto.
Studi recenti hanno mostrato una certa variabilità: 1 ogni 2000[4] 1 ogni
200[5] Queste esperienze sono quotidiane ed iniziano sin dall'infanzia. Molti
sinestesici si sorprendono scoprendo che questa esperienza non è provata da
tutte le persone. L'esperienza sinestetica è composta da due
elementi: L'evento induttore (inducer). L'evento concorrente
(concurrent). Per esempio, può accadere che un sinestesico descriva il suono
(inducer) del proprio bambino che piange come un colore giallo sgradevole
(concurrent). La relazione tra un inducer e un concurrent è sistematica, nel
senso che a ogni inducer corrisponde un preciso concurrent. Grossenbacher
& Lovelace (2001), distinguono due tipi di sinestesia a seconda che
l'inducer sia percettivoo concettuale. Sinestesia percettiva: l'inducer è
uno stimolo percettivo (per es. la vista di lettere produce anche la vista di
colori "collegati"). Sinestesia concettuale: i concurrent sono
prodotti dal pensare a un particolare concetto (per es: numero, mese dell'anno,
posizione nello spazio). Si utilizza intensivamente la sinestesia anche nella
terminologia utilizzata nella degustazione o nell'analisi sensoriale.
Basi genetiche della sinestesiaModifica Purtroppo con le competenze
scientifiche attuali non è possibile identificare singoli loci genici che
determinino con certezza questo fenomeno neurocognitivo. Il fenomeno è più
probabilmente dovuto a un complesso meccanismo neurale e non a singole proteine
codificate da parti di genoma. In ogni caso interessanti esperimenti di
neuroimaging paiono confermare tale fenomeno. [6] Sinestesia:
grafema-coloreModificaRamachandran e i suoi collaboratori hanno notato che la
forma più comune di sinestesia è quella grafema(lettera, numero) - colore e
infatti i rispettivi centri cerebrali sono molto vicini tra loro.[7]
Tecniche di neuroimmagini (es. risonanza magnetica funzionale) hanno permesso
di individuare il "centro del colore" (es. Zeki & Marini, 1998,
Brain), l'area V4 nel giro fusiforme. L'area dei grafemi è stata
anch'essa individuata nel giro fusiforme, in particolare nell'emisfero sinistro
vicino all'area V4. L'area si attiva sia in seguito alla presentazione di lettere
sia in seguito alla presentazione di numeri. L'ipotesi di Ramachandran è
che ci sia una attivazione congiunta. La presentazione di un grafema fa
attivare l'area dei grafemi, che fa attivare contemporaneamente anche l'area
del colore, anche senza la presenza di uno stimolo. Questo è dovuto ad un
eccesso di connessioni tra le due aree, non presente in tutte le persone.
Le connessioni che si hanno alla nascita sono un numero superiore di quello che
si trovano in un cervello adulto. Quello che avviene nei primi mesi di vita è
un processo definito pruning (potatura, sfoltimento) delle connessioni
cerebrali. L'ipotesi di Ramachandran è che le connessioni tra area del colore e
area dei grafemi, che normalmente subiscono un processo di pruning, rimangono invece
intatte nei sinestesici. Probabilmente per una mutazione genetica che fa
fallire il processo di pruning. Esisteranno delle regole che in seguito
all'esperienza permetteranno di sviluppare connessioni particolari tra area dei
grafemi e area del colore. Questo spiegherebbe perché ad un grafema viene
sempre associato un certo colore. Ramachandran ipotizza che l'attivazione
del giro fusiforme non implichi un arrivo alla coscienza delle informazioni.
Perché sia possibile essere consapevoli dell'informazione percepita si dovranno
attivare altre aree superiori. Tuttavia, Grossenbacher sostiene che la
sinestesia non sia dovuta alla presenza di un numero maggiore di connessioni
neurali (le quali non sarebbero presenti nei non sinestesici); infatti, secondo
lo studioso tale fenomeno percettivo è imputabile al fatto che, nel cervello
dei sinestesici, alcune connessioni neurali risultano ancora attive, mentre non
vengono più "utilizzate" in chi non sperimenta tale modo di
percepire. Questo spiegherebbe il motivo per cui chi assume droghe psicoattive
sia in grado di esperire una condizione di "pseudo-sinestesia",
circoscritta esclusivamente al limite temporale in cui tali sostanze
dispieghino il loro effetto, per poi tornare a non percepire sinestesicamente
una volta terminato quest'ultimo. Secondo Grossenbacher è molto improbabile,
infatti, che si siano create nuove connessioni neurali durante l'assunzione di
tali droghe; piuttosto, risulta più probabile che vengano percorse
"strade" neurali solitamente "disattive". Influenza
dell'attenzione sulla percezioneModifica Esperimento di Ramachandran e Hubbard:
caso della figura gerarchica (un 5 composto da tanti 3), se ai soggetti veniva
chiesto di fare attenzione a livello globale (5) vedevano il colore rosso, se
invece dovevano dirigere la loro attenzione a livello locale (3) vedevano
verde. Questo esperimento porta a concludere che l'attenzione influenza
il manifestarsi del fenomeno sinestesico. Sinestesici projectorModifica
Nel caso di grafema-colore, il colore è visto come una pellicola che ricopre il
numero completamente. Un sinestesico testato da Dixon, riferiva di provare
un'esperienza irritante se il numero era di un colore incongruente con quello
del fotismo (l'effetto della sua sinestesia). Se per esempio il numero 5 gli
evocava il colore rosso, ma in realtà era scritto con il giallo.
Sinestesici associatorModifica Sempre nel caso di grafema-colore, il colore
appare nella mente, e non sopra il numero. In genere, i sinestesici associator
riferiscono che l'esperienza di vedere un numero con un colore non congruente
con quello del fotismo, non è un'esperienza per nulla disturbante. La
percezione del colore "reale" del numero è un'esperienza molto più
intensa del fotismo, per un sinestesico associator. I sinestesici projector
sembrano una minoranza rispetto ai sinestesici associator (11 su 100, tra
quelli intervistati da Dixon e collaboratori). Tra i maggiori studiosi
della sinestesia percettiva, Richard Cytowic, Ramachandran, E. Hubbard, Sean
Day, Bulat Galeyev, Irina Vaneckina. Rapporto con i canali del
calcioModifica Studiando nel moscerino della frutta un gene coinvolto
nell'elaborazione del dolore, alcuni ricercatori hanno creato il primo modello
della sinestesia. Con la tecnica dell'interferenza a RNA hanno isolato 600 geni
quali candidati a interessare possibili geni del dolore. Il primo ad essere
analizzato più in dettaglio è stato quello che codifichi parte di un canale del
calcio noto come alfa 2 delta 3 (α2δ3). Questi canali che regolano il passaggio
di Ca2+ attraverso la membrana cellulare sono fondamentali per l'eccitabilità
elettrica dei neuroni. Con questi canali interferiscono diversi
antidolorifici. Nei topi carenti di α2δ3 si è dimostrato che questo gene
controlli la sensibilità al dolore provocato dal calore sia nella Drosophila
sia nei mammiferi. Indagini condotte con la MRI hanno anche rivelato che α2δ3
partecipi all'elaborazione del dolore termico a livello cerebrale. In assenza
di α2δ3 il segnale del dolore a genesi termica arriva al talamo, ma poi non
prosegue verso i suoi centri corticali superiori. Le immagini di fMRI mostrano
piuttosto un'attivazione crociata delle aree corticali per la visione,
l'olfatto e l'udito. Questa sinestesia si osserva anche quando lo stimolo
doloroso sia di natura tattile.[8] NoteModifica ^ a b Emozioni colorate |
Le Scienze, su lescienze.espresso.repubblica.it. ^ Harrison, John E.; Simon
Baron-Cohen (1996). Synaesthesia: classic and contemporary readings. Oxford:
Blackwell Vinci. A Chinese Scholar Lost in Renaissance Italy, Lascar
Publishing, 2015. lascarpublishing.com/leonardo/Archiviato il 26 luglio 2018 in
Internet Archive. ^ Baron- Cohen, 1997 ^ Ramachandran & Hubbard, 2001 ^
"Neurocognitive mechanism of synesthesia" Edward M. Hubbard1 and V.S.
Ramachandran, Neurocognitive mechanism of synesthesia, su cell.com, November 3,
2005. URL consultato il libero. ^ percezione e idee, la sinestesia | PsycHomer,
su psychomer.it (archiviato dall' url originale il 20 novembre 2010). ^
Le Scienze: Non provo dolore, ma ne sento l'odore e ascolto le note BibliografiaModifica
Córdoba M.J. de, Hubbard E.M., Riccò D., Day S.A., III Congreso Internacional
de Sinestesia, Ciencia y Arte, 26-29 Abril, Parque de las Ciencias de Granada,
Ediciones Fundación Internacional Artecittà, Edición Digital interactiva,
Imprenta del Carmen. Granada. Córdoba M.J. de, Riccò D. (et al.), Sinestesia.
Los fundamentos teóricos, artísticos y científicos, Ediciones Fundación
Internacional Artecittà, Granada. Cytowic, R.E., Synesthesia: A Union of The
Senses, second edition, MIT Press, Cambridge, Cytowic, R.E., The Man Who Tasted
Shapes, Cambridge, MIT Press, Massachusetts, Marks L.E., The Unity of the
Senses. Interrelations among the modalities, Academic Press, New York, 1978.
Riccò D., Sinestesie per il design. Le interazioni sensoriali nell'epoca dei
multimedia, Etas, Milano, Riccò D., Sentire il design. Sinestesie nel progetto
di comunicazione, Carocci, Roma, 2Tornitore T., Storia delle sinestesie. Le
origini dell'audizione colorata, Genova, 1986. Tornitore T., Scambi di sensi.
Preistoria delle sinestesie, Centro Scientifico Torinese, Torino, 1988. Voci
correlateModifica Takete e Maluma Sinestesia tattile-speculare. «sinestesia»
Udire i colori, gustare le forme, su lescienze.espresso.repubblica.it, Le
Scienze. URL consultato il 20 maggio 2015. TED Talk: "I listen to
color" Portale Psicologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di
psicologia Ultima modifica 2 mesi fa di Mess Qualia aspetti qualitativi delle
esperienze coscienti Locus ceruleus Sinestesia tattile-speculare raro
fenomeno sensoriale/percettivo Wikipedia Il contenutoGrice: “The grammar
of ‘mutuality’ can be extraordinarily complicated. But I’m sure Schiffer’s ‘A
and B mutually know that p’ doesn’t make sense as an analysandum.” Grice: “You
can trade (L mutate both ways) or exchange *information* -- The grammar is: A
and B are in love – implicated: ‘mutual’ --
A and B are friends – implicated: mutual. Dickens, who never attended
Oxford, would never catch the subtlety of his biggest solecism, “Our mutual
friend”! – Grice: “But I’m surprised from Schiffer, who did attend the
varsity!” -- Giorgio Cosmacini. Cosmacini. Keywords: compassione, salute, mens
sana in corpore sano, storia della medicina, Foucault, l’anello di Asclepio, la
medicina nella Roma antica, giacobinismo, fascismo, giacobinismo in Italia,
medici fascisti, medicina fascista, la medicina non e una scienza, tanatologia,
bio-chemica, la chemical della vita, bio-chemistry –Grice on life, the
philosophy of life, cooperation and compassion. Imperativo conversazionale,
compassione conversazionale, imperative della mutualita conversazionale –
mutualita conversazionale – imperative of conversational mutuality, mutuality,
mutual, the depth grammar of mutuality – Grice against Schiffer – Grice scared
by ‘mutual knowledge’ – and using it in scare quotes (“Such monsters as
Schiffer’s ‘mutual knowledge’ have been proposed to replace my regress when
there’s nothing wrong with stopping it elsewise!” Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Cosmacini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cosmi: l’implicatura
conversazionale dei discorsi: corsi e ricorsi -- metodo dei principi generali
del discorso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Casteltermini).
Filosofo italiano. Grice: “I love Cosmi – for one he uses the very exact phrase
I do, ‘the general principles of discourse,’ and he also finds them to have a
rational (‘razionale’) basis – they involve those desiderata for helpful
communication, a co-operative principle – concerning most constraints I refer
to: the necessity to avoid superfluity (supperfluita) and to maximize clarity
(chiarezza) – so that’s genial!” – Grice: “Cosmi actually has two treatise, a
more theoretical one, “General principles of discourse,” and an applied tract,
“Metodo’ – of the “general principles of discourse’ – he had already elaborated
on all the figures of rhetoric, so he knew what he was talking about and where
he was leading --.” Grice: “The fact that he like me also loved Locke – and
perhaps was more of a ‘sensista’ than I am, makes him great, too!” Fu
un'imponente filosofo, no italiano, ma siciliano (Grice: “Sicily is not considered
part of the ‘peninsola italiana’). Formatosi nel Seminario dei Chierici di
Agrigento, ricopre la carica di rettore a Catania. Riceve dal re Ferdinando l'incarico
di redigere il piano regolatore della filosofia siciliana. Da un rilevante
contributo all'innovazione del illuministimo. Fu un grande filosofo, il primo e
il più geniale del regno meridionale e uno dei primi e più geniali del
Settecento italiano. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Principi generali del discorso, e della ortografia
italiana ad uso delle regie scuole normali di Sicilia by C., edition published
in Italian and held by 2 WorldCat member libraries worldwide. E primo
forne il D2 Cosmi. Questo e un aureo libretto dei "Principi generali del
discorso" – i. e. un principio comune a ogni discorso. Questo affinchè il
filosofo a una nozione direttrice, non superflue. In questo trattato invano
cercheresti quella immensa farragine di precetti disordinati, e quelle infinite
minuterie non necessarie, con cui si sostitoleva confondere e stancare la
prattica conversazionale del giovanetto. Si spone un solo principio generale e
fondamentale, sintetizzato nell'antico ma verissimo motto: precetto uno. Il
resto e uso. Questa mia preziosa filosofia è un sapientissimo essamine pel
filosofo che vuole adoperare il "metodo conversazionale." Quivi si
ricorda dapprimà quanto in occasione di filosofare sulla maniera di dare la
prima istruzione conversazionale al ragazzo, in caso la necessita. Si ricorda
come puo potè attuare la mia prammatica conversazionale, mettendo in esecuzione
un maniobra chiara, spedita, uniforme per ogni topico conversazionale adattata
alla maniera del civil conversare -- è cosa necessaria il sapere la
semantica e le implicature conversazionale del volgare linguaggio. Il
pirincipio della conversazionale e un principio di chiarezza (perspicuita) -- e
un principio di aggiustatezza (approprio_ -- e un principio di mezzana eleganza
(stilo estetico), e un principio senza oscurità, e un principio con univoci e
senza cattive equivoci (un buon aequi-voce e accettable)– sensa non sunt
multiplicanda praeter necessitatem --, e un principio senza superfluità
(economia dello sforzo conversazionale, fortitudine conversazionale, candore
conversazionale -- e un principio senza barbarismi -- imperciochè la perfezione
e efficenza del volgare linguaggio guidato dalla semantica formale e il segno
del reale. E vuole che al giovane si da un principio generale e fondamentale --
e un principio generale della conversazione, esposto con metodo ragionabile e
calculable e con chiarezza. Un solo principio o imperativo categorico, un
principio di efficenza communicative -- un principio soggetto il meno che si
può all'eccezione o la violazione involuntaria si non a la splotazione retorica
-- e un principio stesso ben capito e ben esercitato, chi forma il corpo
di ogni parte della filosofia. Ebbe un giorno a
scrivere di CICERONE, che questo ingegno eminente prende a gradi la sua
maturità e si perfezionava coll’uso, colla riflessione e col maneggio dei
grandi affair. Or quello che osservo su Cicerone, intervenne proprio me
medesimo, i cui Elementi di filologia, non prometto continuazione; ma
osservazioni su l'uso dei Principj del Discorso, e qualche riflessione su i
primi pensieri, da cui era partito nell'immaginar il mio metodo, gli
somministrarono la materia di un secondo, e anche di un terzo volume di
preziose nozioni di metodica prammatica. Il secondo volume e come il primo, è diviso in due parti.
La prima parte ha per titolo, “PRINCIPJ GENERALI DEL DISCORSO applicati alla
lingua volgare”, per la quale avverto che, sebbene nelle parti già pubblicate
dei “Principj generalie del discorso” siesi detto ciò che basta per
l'istruzione della prima età; la sperienza mi ha fatto conoscere, che,
volendosi col metodo intrapreso tirare innanzi il cammino, per la piena
intelligenza, 1 C., Elem. di filol. ecc.,
Elem. di filol, ital. e latina, tomo II, Palermo; pag. III
ed imitazione dei classici principalmente italiani, era necessario ad
entrare in qualche più esteso rischiarimento, *non per multiplicare
l’imperativo conversazionale, ma per agevolarne l'uso, senza di cui inutili
sempre la massima conversazionale universalisable si rimarranno. Dietro di che,
in cinque paragrafi, filosofo, con la solita competenza, “Del Pronome in
generale”, “Del Pro-nome ed dell’Articolo”; “Del pronomi e del verbo che ne
dipendono; Della Preposizione, detta “segnacasi”, e “Della Costruzione
irregolare”. I quali cinque paragrafi, con la giunta delle prime due parti dei
PRINCIPJ GENERALI DEL DISCORSO --
PRINCIPIO GENERALE DEL DISCORSO -- già stampati a riprese. Egli fece riunire in
separato volumetto per uso degli scolari 3 Io non mi stancherei, dirò col
Blasi, di riportare varie altre
sentenze, che oggi pajono roba fresca, e pure da presso a un secolo il nostro
l'aveva annunziato con tanta chiarezza da farla scorgere anco ai ciechi; ed è
per tanto che riferisco qualche altro criterio, che dovrebbe aver nell'animo e
nella coscienza ognuno, che si dà all'educazione specialmente elementare:
Invece di sorprendere, cosi il C., l'età fanciullesca coll' apparenza
dottrinale di parole incognite, ingegnerassi il maestro a far vedere, che ciò
che s'insegna di nuovo, è presso a poco quanto sapeva il fanciullo o quanto
avrebbe potuto agevolmente sapere con un poco di riflessione 5. Anzi che
ad un giuoco di memoria desiderava che lo studio fosse diretto allo sviluppo
dell'intendimento; inculcava lo studio dell' aritmetica fatto a norma delle
regole predette, e indi tornava a ribadire che: Per mantenere sempre
desta l'attività nella mente degli allievi, è di somma importanza il non
sgomentarli giammai coll'apparenza di gravi difficoltà nelle operazioni che
loro si propongono; anzi colla frequenza degli esempi il far loro osservare,
che avrebbero da se sciolto le domande, se avessero fatto riflessione alle cose
sa pute 6. E poi seguiva cosi: Che se alle volte occorrerà di
dovere insegnare delle cose difficili, allora il maestro procurerà di scemare
la difficoltà colla curiosità della ricerca, perchè il piacere della scoverta
l'incoraggisca al tedio dell'operazione. Ma qualora la curiosità non è
infiammata, il fanciullo non sente altro che la fatica, e la fatica sola da se
ributta 7. Poi chiedeva a se stesso: É necessario il rappresentare
al naturale lo stato presente della educazione ncstra letteraria? Lo farò con
coraggio. Si è caricata la nostra memoria; perciò è rimasto senza energia e
senza originalità l'intelletto. La nostra filosofia, in vece C.,
Metodo dei principj generali del Discorso, Palermo, Metodo cit., BLABI, Note
storiche di G. A. De C.; Palermo, Cosmi, Metodo ecc., d'essere l'arte di
pensare, è stata l'arte di parlare di ciò che non s'intende; la nostra rettɔrica,
l'arte di csaggerare con parole, e di parlare a controsen 30. Gran servigio,
gran servigio, ridico, si presta al pubblico da chi indirizza per la strada
regia del sipere la presente gioventù, da chi coltiva la loro ragione e il loro
cuore. Era tempo oramai di aprirsi a tutti la strada alla coltura delle
scienze e delle arti; di venire nella comune estimazione le cognizioni realmente
utili all'umanità, di siudiarsi la Natura nei suoi varj regni e nel suo vero
prospetto. Era già il tempo ce la pubblica e la privata utilità fossero rico
103ciute ch.n: la misar di calcolare l'importanza delle cognizioni; che la
Religione s'impari nella sua storia, nei suoi Dogmi, nella sua Morale, mi senza
il pru:ito della costroversia; che nelle lingue doite si cerchi il gusto, ma
senza pedanteria; che le matematiche, e l'analisi ci servano di guida nelle
cognizioni astratte; che nelle scienze naturali si cerchino i mezzi per
accrescere, o conservare la sanità dei nostri corpi, o per influire ne la
ricchezza nazionale, coltivando e migliorando i prodotti dell'arte e della
natura; e che finalmente la volgare e popolare lingua, vero termometro della
coltura nazionale, si perfezioni; che non pud perfezionarsi, senza che si
eserciti la ragione nello stesso tempo '. [ocr errors] IV. A questa
stupenda Direzione pei maestri, il De Cosmi unì la prima parte dei Principj
Generali del Discor30, che già aveva stampato a solo sin. dal 1790; cui fece
seguire ora dalla parte secondo, che delle proposizioni, dei verbi, dei
pronomi, delle congiunzioni s'intertiene, chiudendola con alcune regole
primarie ad illustrazione delle altre, messe in fine della prima parte; e
terminando l'aureo librettino con un capitolo sulla Scelta dei libri necessari
allo studio della lingua italiana; dove vuole che siano preferiti i libri del
Trecento; additando per libro di prima lettura il Fiore di virtù o il
Volgarizzamento dei Gradi di S. Girolamo, 'od anche gli Ammaestra. minti degli
antichi di frate Bartolomeo da San Concordio; e per la seconda classe, il
Trattato del Governo della famiglia di Agnolo Pandolfini 5. A sintesi di
tutto il libretto il De Cosmi conchiude così: Ciò che i maestri debbono
inculcar continuamente alle tenere orecchie degli scolari sarà la necessità
delle regole e dell'uso; perchè l'uso e le regole sono i veri arbitri di ogni
lingua. Nulla contro le regole, nissuna parola fuori dell'uso",
Questo pregevole volumetto incontrò l'applauso di tutti i letterati; e un di
essi, che si volle occultare sotto le iniziali 0. G. R. P., ne fece una
bellissima ed estesa rivista nelle Notizie Letterarie di Cesena-agosto 1792
“. 1 G. A. De Cosmi, Op. cit., p. 17-18. . Vedi sopra pag.
166. • C., , Metodo ecc., p. 56-57." • Lo stesso, Op. cit., p.
60-61. * Pag. 55 e seg. L'articolo dell' O. G. R. P. venne
riprodotto da Angelo nelle Memorie per servire alla Storia letteraria di
Sicilia; Ms. della Biblioteca Comunale C.. Discorso concetto filosofico
Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento
linguistica è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le
convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Un
discorso è una modalità di comunicazionelinguistica mediante cui si parla o
scrive. La definizione del termine varia a seconda dei campi di applicazione
(antropologia, etnografia, cultura, letteratura, filosofia, ecc.). In semantica e analisi del discorso è una
generalizzazione del concetto di comunicazione all'interno di tutti i contesti.
Nel campo dei codici è la totalità del linguaggio utilizzato (vocabolario) in
un determinato settore di pratica sociale o ricerca intellettuale (es: discorso
giuridico, discorso religioso, discorso medico, ecc.). Michel Foucault ha
definito il discorso come "un ensemble de séquences de signes" (un
insieme di sequenze di segni).[1] Per quanto riguarda il campo delle scienze
sociali e delle scienze umanistiche, il termine ha rilevanza riguardo a un
pensiero che si può esprimere mediante il linguaggio. Il discorso si differenzia dall'enunciato e
dalla dichiarazione. Il discorso, infatti, può rappresentare la manifestazione
di un pensiero individuale relativamente o meno a un determinato argomento; la
dichiarazione invece consiste in un atto ufficiale di solito è preparato e
coinvolto in documentazioni. Con il
termine discorso si identifica anche l'esposizione pronunciata in pubblico
relativamente a un argomento o materia (discorso inaugurale, discorso
commemorativo, ecc.). Foucault,
L'archéologie du savoir, Parigi, Gallimard, 1969, p. 141. Voci
correlateModifica Parti del discorso Parresia Discorso diretto Discorso
indiretto Frase Autore Dialettica Retorica Monologo Dialogo «discorso» Portale Antropologia Portale Filosofia Portale Linguistica Portale Sociologia Pregiudizio
Strutturalismo (filosofia) movimento filosofico
Le parole e le cose Libro di Michel Foucault. Grice: “I call it ‘principle’
not ‘principles’ – or at least I did in my first William James lecture: ‘some
general principle of discourse’ – I later found out that Aristotle is right: ‘arkhe’
is best used in the singular!.Grice: “So MY principle is ‘be cooperative’ –
principle of conversational helpfulness --. Maxims are not as important as ‘principle’ is –
as Kant would agree!” Cosmi. Giovanni Agostino De Cosmi. Giovanni Cosmi.
R Cosmi. Keywords: metodo dei principi
generali del discorso, discorso, discursus, principle versus principle –
principio, principii -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cosmi” – The Swimming-Pool Library.Cosmi.
Grice e Cosottini: l’implicatura
conversazionale di MELOPEA – filosofia italiana –Luigi Speranza (Figline
Valdarno). Filosofo italiano. Grice: “Cosotini considers ‘Home, sweet home,’ in
terms of linearity – surely Miss X can ‘improve’ on the score! Especially if
she did visit Payne’s little cottage by the sea – in Easthampton, and shed a
tear!”. Si laurea a Firenze con “Fenomenologia”. Fonda GRIM, Gruppo per la
Reserccia dell’Improvisazione Musicale. GRICE Gruppo por la research
dell’Improvisazione conversazione espressiva. Insegna Improvvisazione Musicale.
Le Fanfole, canzoni composte su testi del poemetto meta-semantico di Fosco
Maraini Gnosi delle Fanfole. Linearità e Nonlinearita in semiotica – sintagma
lineare, sintagma soprasegmentale – the volume of a sound – a ‘natural’
expression of pain – the higher the volume, the higher the pine --. Grice on
stress, intonation and implicature. I KNOW it. I KNOW it (you don’t have to
tell me). SMITH paid the bill. Due conversazionaliste si muovono pacatamente
per le loro vie, variando direzioni e anche versi, ascoltandosi sempre, ma con
dialoghi liberi e mai serrati. “La musica dei matti” creazione dialogica di
suoni del tutto libera e interamente legata all'istante, tale da produrre
mozzione conversazionale dallo sviluppo verticale. Improvvisare la verità. Il
concetto di ‘improvvisare’ improvissato – cf. English ‘improved’. Improvisation
– improvised. Musica e Filosofia. Realizza la partitura grafica Dettagliper tre
esecutori, che consiste di una mappa e ottantuno carte con segni grafici
codificati (la mappa e le carte sono i “veicoli” e il modo in cui si legge la
grafia genera molteplici possibilità di implicature. “wordless novel”. I suoi
studi si concentrano sulla filosofia della musica e sull’improvvisazione
musicale, scrivendo numerosi saggi per riviste specializzate come Musica
Domani, Perspectives of New Music, Aisthesis, Musicheria e la rivista online De
Musica. Inoltre pubblica un saggio sul
silenzio e sulle sue potenzialità performative. Metodologia
dell'Improvvisazione Musicale. Tra Linearità e Nonlinearità, un libro di
metodologia dell’improvvisazione musicale nel quale Cosottini teorizza la dicotomia
tra Linearità e Nonlineairtà come strumento per l’analisi dell’improvvisazione
musicale. Non-linearita EDT, il silenzio in contesto non lineare, Filosofia
della Musica. Non-linearità. Metodi non
lineari. EDT Non linearità. EDT Ascolto creativo e scrittura creativa di un’improvvisazione
musicale. Metodologia dell’improvvisazione musicale. Tra Linearità e
Nonlinearità Edizioni ETS, L’estetica dell’improvvisazione tra suono e silenzio
in Musica Domani, improvisation-research-center--musica-e-filosofia. Do You
Need A Sign. Wikipedia Ricerca Palazzo Bardi edificio a Firenze Lingua
Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri
significati, vedi Palazzo Bardi (disambigua). Palazzo Bardi Palazzo
busini-bardi 11.JPG Esterno del Palazzo Bardi Localizzazione StatoItalia Italia
RegioneToscana LocalitàFirenze Indirizzovia de' Benci 5 Coordinate 43°46′02.99″N
11°15′32.75″E Informazioni generali CondizioniIn uso CostruzioneXV secolo
Realizzazione Committentebanchieri Busini Il palazzo Bardi o
Busini-Bardi-Serzelli si trova in via de' Benci 5 a Firenze.
Palazzo Bardi, il cortile attribuito a Brunelleschi StoriaModifica Fu
costruito su preesistenze negli anni Trenta del XV secolo per conto della
famiglia di banchieri Busini, su disegno forse di Filippo Brunelleschi: è
quindi evidente la sua grande importanza nel testimoniare, circa quindici anni
prima della costruzione di palazzo Medicidi via Larga ad opera di Michelozzo,
il definirsi della tipologia del palazzo rinascimentale, con cortile centrale,
in un momento di significativa crescita urbana promossa dai ceti dirigenti del
tempo. Giovanni de' Bardi (della linea di Gualtiero, non di quella di
Piero, esiliata nel 1343) acquistò il palazzo nel 1482: la famiglia già nel
secolo precedente aveva significative proprietà di là dal ponte. Agnolo de'
Bardi, nipote di Giovanni, fece fare dei lavori di ammodernamenti al palazzo,
forse con il concorso di Giuliano da Maiano, ma non ne venne modificato
l'assetto generale. Furono chiuse le grandi aperture sul fronte che davano
accesso a vari locali adibiti a botteghe (una successione di fornici è ancora
apprezzabile su via Malenchini e due permangono su via de' Vagellai). Da
sottolineare come i lavori, pur giungendo ad esiti formalmente diversi, si
sviluppassero in parallelo con quelli dell'antistante palazzo Corsi, ugualmente
volti a convertire la più antica struttura medievale in un palazzo adeguato
alla nuova concezione rinascimentale. Preesistenze sul lato sud in
via Malenchini Verso la fine del XVI secolo, come ricorda una lapide sulla
facciata, si riuniva in questo palazzo una comitivadi letterati, artisti e
musicisti, conosciuta sotto il nome di Camerata fiorentina di casa Bardi, istituita
dapprima allo scopo di risuscitare l'antico teatro greco e che più tardi si
occupò del melodramma teatrale, tanto che qui si eseguì per la prima volta il
canto dantesco del conte Ugolino, messo in musica da Vincenzo Galilei e si
eseguirono le Nuove Musiche di Giulio Caccini. Più tardi la Camerata divenne
Accademia, trasferendosi nell'odierno palazzo Corsi-Tornabuoni in via
Tornabuoni. Il palazzo fu abitato dai Bardi fino all'estinzione del ramo
familiare a inizio dell'Ottocento, per poi passare ai Bardi Serzelli, che
l'hanno abitato fino al 1954, anno della morte del conte Alberto.
Successivamente affittato alla Provincia di Firenze, è stato da questa scelto
negli anni settanta per ospitare il III Liceo Scientifico statale. Nel 1983 ha
subito il rifacimento degli intonaci sul fronte di via Malenchini. A partire
dal 1990 circa, oramai liberato dalla presenza della scuola e acquistato da una
società immobiliare, è stato interessato da un complesso cantiere finalizzato
al recupero della fabbrica e alla suddivisione in appartamenti dei grandi
ambienti interni, conclusosi nel 2007. Il palazzo appare nell'elenco
redatto nel 1901 dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, quale
edificio monumentale da considerare patrimonio artistico nazionale, ed è sottoposto
a vincolo architettonico. Descrizione Esterno La semplice facciata,
sviluppata sui canonici tre piani e graffita con una finta muratura a conci
rinnovata nel 1885 (al tempo della proprietà di Ferdinando Bardi, comunque da
considerare sostanzialmente fedele alle preesistenze), quindi restaurata e
integrata nell'ambito del recente intervento, presenta ai lati due scudi con le
armi, oramai consunte ma ancora ben leggibili, della famiglia Busini
(d'azzurro, a tre fasce increspate d'oro, e alla banda attraversante di rosso,
caricata di tre rosed'argento). Da segnalare sul fronte anche la lapide che
ricorda come, in questo palazzo, Giovanni Bardi conte di Vernio avesse riunito a
Camerata fiorentina di casa Bardi, in seno alla quale nacque il
melodramma. IN QUESTA CASA DEI BARDI VISSE GIOVANNI CONTE DI VERNIO CHE
AL VALOR MILITARE MOSTRATO NEGLI ASSEDI DI SIENA E DI MALTA CONGIUNSE LO STUDIO
DELLE SCIENZE E L'AMOR DELLE LETTERE COLTIVÒ LA POESIA E LA MUSICA E ACCOLSE E
FU L'ANIMA DI QUELLA CELEBRE CAMERATA LA QUALE INTESA A RIPORTARE L'ARTE
MUSICALE IMBARBARITA DALLE STRANEZZE FIAMMINGHE ALLA SUBLIMITÀ DELLA MELOPEA DI
CUI SCRISSERO GLI STORICI DELL'ANTICA CIVILTÀ APRÌ LA VIA GIÀ CHIUSA DA SECOLI
AL RECITATIVO CANTATO E ALLA MELODIA E CON LA RIFORMA DEL MELODRAMMA FU LA CUNA
DELL'ARTE MODERNA. Palazzo busini-bardi, targa camerata dei bardi. JPG
Stemma Bardi sul cancello d'ingresso Di rilievo l'androne, chiuso sul fondo da
una elegante cancellata (presumibilmente databile al Settecento) con sulla
rosta l'arme dei Bardi (d'oro, alla banda di losanghe accollate di rosso)
accostata da due aquile. Le fasce marcapiano aggettanti sono ornate da volute
di fiori, primo esempio di "stile nuovo" fiorentino. Semplici
finestre centinate si allineano su otto assi. all'esterno si trova murato anche
un piccolo tabernacolo con un affresco scarsamente leggibile con la Madonna in
gloria adorata da una monaca. L'elemento più interessante è il bel
cortile centrale porticato sui quattro lati, progettato forse dal Brunelleschi,
probabilmente il primo cortile privato signorile a Firenze (dopo i cortili
pubblici del Palazzo del Bargello e di Palazzo Vecchio): a pianta quadrata,
presenta arcate a tutto sesto con colonne con capitelli corinzi che scandiscono
lo spazio. I volumi sono scanditi ad altezza doppia rispetto al modulo usato
spesso successivamente del cubo sormontato da semisfera: qui l'altezza delle
colonne è doppia rispetto all'intercolumnio (a differenza per esempio del
loggiato dello Spedale degli Innocenti) e, pur mantenendo dimensioni armoniche,
presenta un maggior slancio. Tipicamente brunelleschiana è anche la
disposizione delle porte che si aprono sul cortile. "Si osservi
anche il sonoro androne d'ingresso, con volte a crociera su capitelli pensili
strettamente analoghi a quelli del palazzo di Niccolò da Uzzano; o lo splendido
episodio dei capitelli delle colonne del cortile stesso, che presentano un
singolare episodio di protocorinzio appunto brunelleschiano, cui non a caso
rispondono i capitelli del cortile della casa di Apollonio Lapi, posta in via
del Corso 13, egualmente attribuita all'esordio professionale di Filippo: per
la qual cosa piacerebbe datare pure il prezioso testo architettonico
protobrunelleschiano di palazzo Bardi (Morolli). All'interno molte stanze
presentano dei soffitti in legno risalenti all'epoca di Agnolo de' Bardi, che
li fece uniformare. BibliografiaModifica Tabernacolo Emilio Burci,
Guida artistica della città di Firenze, riveduta e annotata da Pietro Fanfani,
Firenze, Tipografia Cenniniana; Ministero della Pubblica Istruzione (Direzione
Generale delle Antichità e Belle Arti), Elenco degli Edifizi Monumentali in
Italia, Roma, Tipografia ditta Ludovico Cecchini; Ross, Florentine Palace and
their stories, with many illustrations by Adelaide Marchi, London, Dent; Schiaparelli,
La casa fiorentina e i suoi arredi, Firenze, Sansoni, Limburger, Die Gebäude
von Florenz: Architekten, Strassen und Plätze in alphabetischen Verzeichnissen,
Lipsia, F.A. Brockhaus, Bertarelli, Italia Centrale, II, Firenze, Siena,
Perugia, Assisi, Milano, Touring Club Italiano; Garneri, Firenze e dintorni: in
giro con un artista. Guida ricordo pratica storica critica, Torino et alt.,
Paravia; Bertarelli, Firenze e dintorni, Milano, Touring Club Italiano; Allodoli,
Arturo Jahn Rusconi, Firenze e dintorni, Roma, Istituto Poligrafico e Libreria
dello Stato, Barfucci, Giornate fiorentine. La città, la collina, i pellegrini
stranieri, Firenze, Vallecchi; Thiem, Christel Thiem, Toskanische
Fassaden-Dekoration in Sgraffito und Fresko, München, Bruckmann, Limburger, Le
costruzioni di Firenze, traduzione, aggiornamenti bibliografici e storici a
cura di Mazzino Fossi, Firenze, Soprintendenza ai Monumenti di Firenze,
Biblioteca della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio
per le province di Firenze Pistoia e Prato); Bucci, Palazzi di Firenze, fotografie di
Raffaello Bencini, 4 voll., Firenze, Vallecchi, Quartiere di Santa Croce; Quartiere
della SS. Annunziata; Quartiere di S. Maria Novella, Quartiere di Santo
Spirirto; Lisci, I palazzi di Firenze nella storia e nell’arte, Firenze, Giunti
& Barbèra, Fanelli, Firenze architettura e città: atlante -- Firenze,
Vallecchi, Touring Club Italiano, Firenze e dintorni, Milano, Touring Editore; Salvagnini,
La guerra degli sporti, in "Granducato", Bargellini, Ennio Guarnieri,
Le strade di Firenze, Firenze, Bonechi, Il Monumento e il suo doppio: Firenze,
a cura di Marco Dezzi Bardeschi, Firenze, Fratelli Alinari; Firenze. Guida di
Architettura, a cura del Comune di Firenze e della Facoltà di Architettura
dell’Università di Firenze, coordinamento editoriale di Domenico Cardini,
progetto editoriale e fotografie di Lorenzo Cappellini, Torino, Umberto
Allemandi; MOROLLI, Vannucci, Splendidi palazzi di Firenze, con scritti di
Janet Ross e Antonio Fredianelli, Firenze, Le Lettere; Zucconi, Firenze. Guida
all’architettura, con un saggio di Pietro Ruschi, Verona, Arsenale; Cesati, Le
strade di Firenze. Storia, aneddoti, arte, segreti e curiosità della città più
affascinante del mondo attraverso vie, piazze e canti, 2 voll., Roma, Newton
& Compton editori; Touring Club Italiano, Firenze e provincia, Milano,
Touring, Pecchioli, ‘Florentia Picta’. Le facciate dipinte e graffite dal XV al
XX secolo, fotografie di Antonio Quattrone, Firenze, Centro Di; Paolini, Case e
palazzi nel quartiere di Santa Croce a Firenze, Firenze, Paideia; Paolini,
Lungo le mura del secondo cerchio. Case e palazzi di via de’ Benci, Quaderni
del Servizio Educativo della Soprintendenza BAPSAE per le province di Firenze
Pistoia e Prato n. 25, Firenze, Polistampa; Paolini, Architetture fiorentine.
Case e palazzi nel quartiere di Santa Croce, Firenze, Paideia, Palazzo Bardi; Paolini,
scheda nel Repertorio delle architetture civili di Firenze di Palazzo
Spinelli(testi concessi in GFDL). Una pagina sulla conservazione del palazzo,
su limen. Portale Architettura Portale Firenze Ultima
modifica 2 anni fa di Omega Bot Palazzo Malenchini Alberti Palazzo Bardi-Tempi
Palazzo de' Benci Edificio a Firenze, Italia. Mirio Cosottini. Cossotini.
Grice: “I am sure that a suprasegmental or non-linear segment adds to what a
conversationalist means – he means THAT Smith did not pay the bill, and that
somebody else did” – By stressing on LOVE he means that he likes her AND that
he loves her.” Keywords: melopea, prosodia, Hjelmslev, Hockett, fonema, tratto
sopra-segmentale, stress – Grice’s examples: “Smith kicked the cat” – “Smith
didn’t pay the bill. Nowell did.” “Smith didn’t pay the bill”. “I knew it” “I
love her” -- segno, nonlinearita, codice, soprasegmento. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cosottini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Costa: l’implicatura
conversazionale dell’interno e l’esterno –
l’internalizzazione-l’esternalizzazione -- uomini fuori di sé– filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torre del Greco). Filosofo
italiano. Grice: “I love Costa; if I have to chose three of my favourite essays
of his, those would be, “Le passioni,” “L’uomo fuori di se:
l’esternalissazione’ and above all, his sublime, “l’estetica della
communicazione,’ which is what my philosophy is all about!” -- Mario Costa (Torre del Greco), filosofo. È
conosciuto, in particolare, per aver studiato le conseguenze, nell’arte e nell’estetica,
delle nuove tecnologie, introducendo nel dibattito filosofico una nuova
prospettiva teorica, attraverso concetti come "estetica della
comunicazione", "sublime tecnologico", "blocco
comunicante", "estetica del flusso". Professore a Salerno
e, come professore incaricato di Metodologia e storia della critica letteraria
e di Etica ed estetica della comunicazione, ha contemporaneamente insegnato per
molti anni nelle Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" e di
Nizza (Sophia-Antipolis). A Salerno ha fondato e diretto, daArtmedia,
Laboratorio permanente dedicato al rapporto tra tecno-scienza, filosofia ed
estetica, organizzando su queste tematiche decine di iniziative di studio,
mostre e convegni internazionali. L'estetica dei media ha ottenuto il Premio
Nazionale Fabbri. Pubblicato una
trentina di libri; alcuni di essi e numerosi suoi saggi sono tradotti e
pubblicati in Europa e in America. Il suo lavoro teorico si è svolto in
due momenti successivi ed ha seguito due fondamentali direzioni di ricerca:
l'interpretazione socio-politica e filosofica delle avanguardie artistiche, e
l'elaborazione di una filosofia della tecnica costruita soprattutto attraverso
l'analisi dei cambiamenti che la nuova situazione tecno-antropologica ha
indotto nell'arte e nell'estetico. Per quanto riguarda la prima delle due
direzioni indicate, ha fornito un complesso di interpretazioni filosofiche ed
estetiche di numerosi movimenti dell'avanguardia artistica e letteraria.
Momenti di particolare rilievo in questo ambito di ricerca possono essere
considerati i suoi lavori su Duchamp e sulle funzioni della moderna critica
d'arte, nonché i suoi studi sul "lettrismo" e sullo
"schematismo", movimenti artistici di grande importanza, anche
estetologica, ma, all'epoca, pressoché ignoti in Italia. Per quanto riguarda la
seconda delle direzioni indicate, il suo pensiero si è a sua volta sviluppato
secondo due assi fondamentali: uno riguardante le conseguenze sociali ed etiche
della comunicazione tecnologica, riassunte soprattutto nel libro La televisione
e le passioni che analizza gli effetti disgreganti e distruttivi della
televisione, e poi nel più recente La disumanizzazione tecnologica, e l'altro,
dominante rispetto al primo, consistente in un ripensamento del senso che
l'"estetico" e l'"artistico" vanno assumendo nella fase
attuale delle nuove tecnologie elettro-elettroniche e digitali della scrittura,
dell'immagine, della spazialità, del suono e della comunicazione, ciò che lo ha
condotto ad una radicale ed originale reimpostazione teoretica di tutto il campo
investigato. Negli ultimi suoi lavori (Ontologia dei media, e Dopo la tecnica)
la prospettiva teoretica si è andata ulteriormente approfondendo dando luogo ad
una compiuta filosofia dei media e della tecnica in quanto tale. Alcune opere
rappresentative L'estetica dei media può considerarsi, per i contenuti trattati
e per la inedita metodologia di indagine instaurata e seguita, un libro che
apre un nuovo campo di ricerca, prima del tutto ignorato ed inesplorato dalle
discipline estetologiche, quello appunto della "estetica dei media",
da non confondere, ad esempio, con l'estetica della fotografia o con quella del
cinema, alle quali ha comunque dedicato altri suoi importanti lavori. Il libro
in questione segue ai diversi contributi teorici relativi all'estetica della
comunicazione le cui identificazione, nominazione e formulazione teorica
risalgono, e che è ora rappresentata, nella sola Italia, da numerose Cattedre e
indirizzi universitari. Il sublime tecnologico è considerato il lavoro più noto
e più innovativo di tutta la sua produzione teorica; è in esso che,
considerando le conseguenze indotte nel campo dell'arte e dell'estetico dalla
nuova situazione tecno-antropologica, si parla dell'oltrepassamento della dimensione
dell'arte e delle categorie ad essa connesse, nella direzione di una nuova
forma di sublime, quella appunto del sublime tecnologico, con tutto quello che
questo concetto implica e comporta. La nozione del sublime tecnologico è stata
diffusamente accolta e seguita sul piano internazionale della teoria estetica
ed ha sollecitato un incalcolabile numero di sperimentazioni da parte di artisti
di tutto il mondo. Arte contemporanea ed estetica del flusso traccia le linee
di una nuova estetica e della sperimentazione artistica che da essa può
scaturire. Si tratta da una parte di un violento e argomentato pamphlet contro
l'arte contemporanea, ritenuta “una congerie più o meno sgradevole di nullità
mercantili”, e dall'altra della tematizzazione ed elaborazione del concetto di
“flusso estetico tecnologico”, considerato come ultima e residua possibilità di
sperimentazione per gli artisti e come chiave per comprendere alcuni aspetti
dell'ontologia contemporanea. Dopo la tecnica ripercorre la storia delle varie
epoche della tecnica sottolineandone la discontinuità e la capacità di agire
configurando, ogni volta in maniera diversa, l'organizzazione antropologica di
chi da esse è abitato. Sulla base di questi presupposti, si mostra come la
tecnica, una volta connessa e dipendente dai bisogni umani, si va rendendo
incondizionatamente autonoma forzando l'uomo a vivere dentro di essa, ad
appartenerle e a favorire il suo sviluppo. Altre saggi: “Arte come soprastruttura”,
Napoli, CIDED, Teoria e Sociologia dell'arte, Napoli, Guida Editori, Sulle
funzioni della critica d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel
Duchamp, Napoli, M.Ricciardi Editore, Il ‘lettrismo' di Isidore Isou.
Creatività e Soggetto nell'avanguardia artistica parigina posteriore, Roma,
Carucci Editore, Le immagini, la folla e il resto. Il dominio dell'immagine
nella società contemporanea, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Il sublime
tecnologico, Salerno, Edisud, L'estetica dei media. Tecnologie e produzione
artistica, Lecce, Capone Editore, Il ‘lettrismo'. Storia e Senso di un'avanguardia,
Napoli, Morra, La televisione e le passioni, Napoli, A.Guida, 1Lo
‘schematismo'. Avanguardia e psicologia, Napoli, Morra, Lo ‘schématisme
parisien'.Tra post-informale ed estetica della comunicazione, Fondazione Ghirardi,
Piazzola sul Brenta (Padova), Sentimento del sublime e strategie del simbolico,
Salerno, Edisud, Della fotografia senza soggetto. Per una teoria dell'oggetto
tecnologico, Genova/Milano, Co.& Nolan, Il sublime tecnologico. Piccolo
trattato di estetica della tecnologia, Roma, Castelvecchi, Tecnologie e
costruzione del testo, Napoli, L'Orientale, L'estetica dei media. Avanguardie e
tecnologia, Roma, Castelvecchi, L'estetica della comunicazione. Come il medium
ha polverizzato il messaggio. Sull'uso estetico della simultaneità a distanza,
Roma, Castelvecchi, Dall'estetica dell'ornamento alla computerart, Napoli,
Tempo Lungo, Internet e globalizzazione estetica, Napoli, Tempo Lungo, New
Technologies, Artmedia-Museo del Sannio, oDimenticare l'arte. Nuovi
orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Milano, Franco
Angeli, L'oggetto estetico e la critica, Salerno, Edisud, La disumanizzazione
tecnologica. Il destino dell'arte nell'epoca delle nuove tecnologie, Milano, C.
& Nolan, Della fotografia senza soggetto. Per una teoria dell'oggetto
estetico tecnologico, Milano, C. & Nolan, Arte contemporanea ed estetica
del flusso, Vercelli, Mercurio,
Ontologia dei media, Milano, Post media books, Dopo la tecnica. Dal chopper alle similcose, Napoli,
Liguori. Il lavoro teorico di C. teso, tra l'altro, a definire la nuova epoca
dell'estetico connessa alle neo-tecnologie elettro-elettroniche e digitali, e a
fare in modo che questa si andasse ben configurando e definendo, si è, per ciò
stesso, sempre accompagnato ad un'intensa attività di promozione
estetico-culturale: agli inizi degli anni ottanta organizza a Napoli, col
supporto della RAI-TV, una grande esposizione di videoarte (Differenzavideo); per
sollecitare una riflessione sugli effetti estetico-antropologici indotti dalle
tecnologie della comunicazione, co-organizza (conPerniola) presso l'Salerno, il
Convegno Estetica e antropologia i cui Atti sono, in parte, pubblicati sulla
Rivista di estetica di Torino, necrea, con l'artista Forest, il movimento
internazionale dell'Estetica della comunicazione che presenta in vari contesti (Electra di Popper, al Centre Pompidou a La
Revue parlée di Gautier, ialla Sorbonne, al Séminaire de Philosophie de l'art
di Revault D'Allonnes); dà luogo al primo evento/rassegna di estetica della
comunicazione (L'immaginario tecnologico, Benevento, Museo del Sannio); concepisce
e dirige, presso l'Salerno, Artmedia, Convegno Internazionale di Estetica dei
Media e della Comunicazione; organizza presso l'Salerno un Convegno
Internazionale su estetica e tecnologia; organizza presso la stessa Università
il Convegno "Il suono da lontano". Eventi sonori e tecnologie della
comunicazione"; realizza, per la RAI-TV (Dipartimento Scuola e Educazione)
la trasmissione televisiva in tre puntate: Un'estetica per i media; fa
svolgere, presso la settecentesca Villa Bruno (S.GiorgioNapoli) Technettronica.
Laboratorio di Estetica dei Media e della Comunicazione; presenta per la prima
volta in Italia presso l'Salerno due videoplays di Samuel Beckett; fonda e
dirige, la Rivista Multilingue Epipháneia. Ricerca estetica e tecnologie, fonda
e dirige, presso le Edizioni Tempo Lungo di Napoli, Vertici, una «Collana di
Estetica e Poetiche» aperta alle questioni estetologiche connesse ai nuovi
media (testi di Piselli, Cauquelin, Adorno, C., Solulard, Dorfles); co-organizza a Parigi la Edizione di
Artmedia; co-organizza presso l'Salerno il Convegno Internazionale Tecnologie e
forme nell'arte e nella scienza; organizza presso il Museo del Sannio di
Benevento la Mostra New Technologies (Roy Ascott, Maurizio Bolognini, Forest, Kriesche,
Mitropoulos); norganizza presso l'Salerno la IX Edizione di Artmedia; nco-organizza
a Parigi la X Edizione di Artmedia; norganizza presso l'Salerno un seminario
conclusivo di Artmedia dal titolo "L'oggetto estetico dell'avvenire".
Sulle funzioni della critica d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel
Duchamp, Napoli, Ricciardi, C., L'oggetto estetico e la critica, Edisud,
Salerno. C., Il 'lettrismo' di Isou. Creatività e Soggetto nell'avanguardia
artistica parigina, Carucci Editore, Roma,Il 'lettrismo'. Storia e Senso di
un'avanguardia, Morra, Napoli, Si veda anche Signe, forme, schéma, ornement, in
"Schéma et schématisation", L'estetica dei media. Avanguardie e tecnologia,
Castelvecchi, Roma, C.Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica
della tecnologia, Castelvecchi, Roma, Arte contemporanea ed estetica del
flusso, Mercurio, Vercelli. Inoltre: Technology, Artistic Production and the
"Aesthetics of communication", in "Leonardo", Tecnologie e
costruzione del testo, L'Orientale, Napoli, Reti e destino della scrittura. Sulla
diffusione e la rilevanza del suo pensiero, si vedano tra gli altri: Bootz, The
thesis of Benjamin and C., in Bootz, Baldwin, Regards Croisés, West Virginia, Abruzzese,
Il compiersi della pubblicità dal manifesto metropolitano ai linguaggi
elettronici del presente: pretesti, testi e questioni, in Lattuada, Nuove
tendenze ed esperienze nella comunicazione e nell'estetico, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane. Kerckhove, L'estetica dei media e la sensibilità
spaziale. Riflessioni su un libro di C., in "Mass Media",Frank
Popper, L'art à l'âge électronique, Paris, Hazan, C., professore di estetica,
in MCmicrocomputer, Roma, Pluricom. esternalismo/internalismo.
– La nozione di esternalismo (externalism), usata in contrapposizione a quella
di internalismo (internalism), si è sviluppata principalmente in merito ai
dibattiti sulla filosofia della mente e sull’epistemologia ed è attualmente al
centro del dibattito filosofico sulla giustificazione epistemica,
sull’epistemologia sociale, sul ruolo dell’ambiente e dell’esterno negli stati
mentali, nei processi cognitivi e nei processi linguistici e comunicativi; si
parla di e./i. anche in filosofia morale. Nell’e. una conoscenza si considera
giustificata se è causata da processi affidabili derivati dall’esperienza
esterna; diversamente, nella prospettiva internalista, una credenza viene
considerata vera se fondata su esperienze interne al soggetto (per es. il
cogitocartesiano), riconducendo la conoscenza, anche sensibile, del mondo
esterno all’appercezione di stati di coscienza (Kornblith, Epistemology:
internalism and externalism; Bonjour, E. Sosa, Epistemic justification:
internalism vs. externalism, foundations vs virtues). Nella filosofia della
mente, gli stati mentali vengono ricondotti, in prospettiva esternalista, a
connessioni causali con l’ambiente esterno; in chiave internalista, a processi
e fattori interni alla mente. Nella teoria della motivazione morale si parla di
i. allorché si ritiene che vi sia una connessione necessaria fra considerazioni
morali e motivazione, costitutiva della considerazione morale stessa; si parla
invece di e. quando si ritiene che tale connessione si fondi su fattori
concomitanti contingenti. Con l’argomento della ‘Terra gemella’ (twin Earth),
il filosofo Hilary Putnam ha sostenuto che una differenza di estensione, ossia
dell’insieme degli individui cui si applica un concetto o un predicato, è anche
una differenza di significato; questo per dimostrare che i significati non sono
enti mentali, ossia che la medesima parola applicata a due enti diversi (anche
se non apparentemente tali) cambia di significato, benché averne o meno
cognizione dipenda dalla competenza semantica dei parlanti in merito
all’oggetto designato (The meaning of ‘meaning’, Gunderson, ed.,Language, mind
and knowledge). A partire dalle tesi dell’e. semantico (in filosofia del
linguaggio si privilegia la coppia di termini esternismo/internismo) il
dibattito si è esteso alle filosofie della mente e alle scienze cognitive, indagando
se il soggetto cognitivo sia circoscrivibile al cervello e al sistema nervoso,
o se la mente e il mentale includano anche fattori ambientali, sia fisici sia
sociali, ricalibrando i confini fra mente, corpo, ambiente. Nel dibattito
filosofico ha avuto rilievo anche la tesi della ‘mente estesa’ di Clark e Chalmers
(Chalmers, The extended mind, in Analysis; Clark, Supersizing the mind:
embodiment, action, and cognitive extension, ), che riconosce il ruolo dei
fattori extracorporei e ambientali nel costituirsi della mente, ma riguardo
agli aspetti cognitivi non fenomenici (non coscienti). Superando
contrapposizioni troppo rigide fra le due posizioni, nelle tesi esternaliste
più recenti si tende a riconoscere non unicamente la dipendenza causale
dall’esterno del mentale, ma a vedere l’origine del mentale nell’interazione
causale ambiente-corpo-cervello, ciascuno influente nei processi cognitivi e
mentali. In ambito sia semantico sia fenomenico si è differenziato l’e. dall’i.
in base alla possibilità di ‘individuare’ uno stato mentale ritenendo di poter
ricorrere, o meno, a fattori esterni (Wilson, Boundaries of the mind. The
individual in the fragile sciences: cognition). Più recentemente si è teso
invece a privilegiare l’aspetto della realizzazione fisica. Si parla, in tal
senso, di e. del veicolo o anche procedurali, spostando il punto di messa a
fuoco dall’identificazione del contenuto dello stato mentale (intenzionale o
fenomenico) alla natura del sistema di realizzazione fisica di tale stato
(Amoretti, La mente fuori dal corpo. Prospettive esternaliste in relazione al
mentale). Entro l’approccio incentrato sul veicolo e sulla realizzazione fisica
sono state elaborate posizioni differenziate, principalmente riguardo alla
possibilità di comprendervi o meno elementi fenomenici, ossia legati agli stati
cognitivi coscienti.Grice: “Costa uses words in ways we don’t allow at
Oxford: a sign by which nobody signs; and so on.Mario Costa. Keywords: – uomini fuori di sé, blocco comunicante, communicazione sine
contenuto, communicazione fatica, semiotica, estetica della comunicazione,
significante sine significato – segno sine segnato – autoreferenzialita –
asemanticita – sintassi – retorica – codice – intenzione communicative, medio,
messaggio, recursivita, self-reference, meta-linguaggio – linguaggio come
metalinguaggio -- - Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costa” – The Swimming-Pool
Library. Costa.
Grice e Costa:
l’implicatura conversazionale della sinestesia conversazionale -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Ravenna). Filosofo. Grice: “My
favourite keyword for Costa is ‘contrassegnare’!” – Grice: ““I love Costa; for
one, he improves on Locke; on the composition of ideas and how to
‘countersignal’ them with ‘vocaboli precisi’ – I explored that a little in my
‘Prejudices and Predilections,’ when I attack minimalism and extensionalism,
and provide a way which is meant to resemble Locke’s way of words, or rather
Locke’s way of ‘complex’ words, or ‘composite’ (Costa’s ‘comporre’) out of
‘simple’ ones – as in Quine’s worn-out ‘bachelor’ unmarried male that I play
with with Strawson in “In defense of a dogma.” In this respect, it is
interesting to see that Costa also wrote on ‘ellocution’ and ‘sintesi’ versus
‘analisi’!” Figlio di Domenico e Lucrezia Ricciarelli, studia a Ravenna e
Padova. Insegna a Treviso e Bologna, a Villa Costa, Bologna -- è costretto a
riparare a Corfù perché sospettato di essere affiliato alla Carboneria. Può
rientrare a Bologna. Altre opere: “I trattati della elocuzione e del modo di
esprimere l’idea e di segnarla con una espressione precisa a fine di ben
ragionare” – Colla profferenza, “Fa fredo,” C. segna che fa freddo. Il trattato
filosofico della sintesi e dell'analisi; i quattro sermoni dell'arte poetica,
un commento alla Divina Commedia, la Vita di Dante, il Dizionario della lingua
italiana, poesie (Laocoonte), lettere e traduzioni. Letterato neo-classico e dunque tipicamente
italiano e anti-romantico, ammira i corregionali Monti e Giordani e sostenitore
del purismo e del “sensismo” lucreziano in filosofia. Nella lettera a Ranalli
di introduzione al Della sintesi e dell'analisi così riassume le sue concezioni
filosofiche. È necessario, per togliere la infinita confusione che è nelle
scienze ideologiche, di dare all’espressione un determinato valore. Sostengo
che questo non si può ottenere, come crede Locke, colla de-finizione (horismos)
(la quale e una scomposizioni di una idea o di piu idee), se prima la idea non
sia stata ben composta. Sostengo che questa non si puo compor bene, se prima
non si conosce quale ne sieno gli elementi semplici – soggetto e predicato, il
S e P -- Sostengo che un elemento semplice e una reminiscenza relative a una
sensazione, e che la idea si compone di almenno due di sì fatti elementi – il S
e P – la proposizione, ‘segno che p’ -- e del sentimento del rapporto di una
reminiscenza e dell’altra, cioè dei proposizione – nel indicativo o imperative –
il giudizio – il giudicato – e la volizione – il volute. Da ciò conséguita che
l'esperienza (se l'esperienza vale ciò che si sente mediante l'attenzione) è il
fondamento della scienza umana. I kantisti ed altri filosofi distinguono una
idea in una idea soggettiva e in una idea oggettiva, ed attribuiscono
un'origine a posteriori e sintetico alla una ed un'origine a priori e analitico
all’ltra. Questa distinzione può esser buona, ma non è buona l'ammettere che abbiano
origini di natura diversa: a posteriori/sintetico, dal senso – e a
priori/analitico – dall’intelleto – nihil est in intellectus quod prior non
fuerit in sensu. Ogni idea ha un stesso
origine. e questo si fa palese per un solo esempio. Da una idea soggettiva puo
nascere sue proposizioni. Una
proposizione: "La reminiscenza S1 e la reminicenza S2 sono in me”. Altra
proposizione: “La reminiscenza S si associa con la reminiscenza P”. Qual è
l'origine dell’idea dalla quale deriva sì fatta proposizione? Il sentimento.
Dire che la reminiscenza del color di rosa è in me, è dire che sento che è in
me, e dico: “Vedo una macchia rosa”. Così direte dell'altra proposizione.
Dall’idea oggettiva puo nascere una proposizione e altra proposizione. Il corpo
pesa. La rosa manda odore. Da che nasce la proposizione? Dal sentimento (senso).
Perciocché dire che questo corpo pesa è lo stesso che dire che sento il peso di
questo corpo; giu-dico, ovvero, sento che la cagione (causante, causans) della
mia sensazione tattile del senso del tattoo è in questo corpo. Così dire che la
rose manda odore è lo stesso che dire che sento l'odore della rosa, giu-dico,
ovvero, sento che l'odore dela rosa ha una delle cagioni in cose fuori, cioè
che non sono in me. Fra una idea soggettiva e una idea oggettiva non vi è altra
differenza, se non che nella che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è nella nostra
persona. Nell’idea che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è in
me (o noi entrambi – nella diada --), nell’idea soggetiva nella cosa (il
reale). fuori. Ma come sentiamo noi che vi sia una cosa (il reale) fuori?
Questo è il gran problema dagl'ideologi non ancora solute. Ma l'ignoranza in
che siamo non dà facoltà legittima alla scuola trascendentali di concludere che
il giudizio dell’idea soggetiva non dipende dal sentire. Il giudicio è un
sentimento, cioè, un rapporto sentito fra una sensazione e altre sensazione,
una reminicenza (il S) e altra reminiscenza (il P); ché se tale non fosse,
nessuno potrebbe dire che l'idea che abiamo di una rosa p.e. ha la sue cagioni
fuori di noi entrambi, perciocché una sì fatta proposizione suppone che l'uomo
che proferisce questa proposizione o explicatura (spiegato) abbia o la
sensazione S e la sensazione P, o le reminiscenza S e la reminiscenza P in
relazione alla sensazione prodotte dalla rosa, e l'idea del sentente. Voi
vedete chiaramente, che nell'uno e nell'altro degli addotti esempii la
modificazione che chiamamo ‘idea,’ e il sentimento dei loro rapporti sono nella
nostre anime ambidue, e che quindi si esprimono falsamente coloro, che dicono
che sentiamo il corpo fuori di noi. Dovrebbero dire, strettamente, che sentiamo
che la cagione (causans) del nostro sentire (sentito) non è in noi entrambe.
Coi fondamenti da me posti si può stabilire una dottrina, se il buon desiderio
non mi acceca, per la quale vadano a terra le opinioni di coloro che disprezzano
il sensismo, e che con odiosa espressione la chiamano dottrina de' “sensuali”.
Con che danno a divedere, che essi mattamente opinano che il materiale organo
del senso (i cinque organi, i cinque sensi) senta e percepisca, senza
accorgersi che se gli occhi (visum) e le orecchie (auditum) e il naso (odore) sentissero
ciascuno separatamente, non potrebbe giammai nascere giudizio alcuno circa la
qualità della sensazione di natura
diversa. L’uomo non potrebbe mai dire che l’odore della rosa mi diletta più del
colore della rosa, e così via discorrendo. Il sentimento di un solo centro,
nostre anime ambidue: e nostre anima ambidue senteno in sé mesima, e non fuori
di sé. Puo parere che questa dottrina del sensismo sia la stessa che quella
dell'idealista irlandese Bercleio; ma essa è diversa, poiché ammette che oltre
la idea vi sieno fuori dell'uomo la cagione (causans) di essa idea. Di questa
cagione (causans) – il reale, il noumeno -- noi conosciamo l'esistenza, e nulla
più. Che cosa e un corpo in se stesso? A questa interrogazione non si può
rispondere se non dicendo che e ignota la cagione della nostra sensazione
condivisa. Sappiamo che esiste, sappiamo che si modifica, e tutto ciò sappiamo,
perché fa della mutazione nell'animo nostro ambedue o nell’anima nostra ambedue.
Dal che si deduce ciò che dianzi vi dissi, che ogni idea ha per loro due primitivi
elementi (il S e P) la sensazione, la reminiscenza, il sentimento che e nelle
nostre anime ambidue, e non fuori di lei. Così la pensa il filosofo chiamato
per beffa dal cattolico romano col nome di sensualista e di materialista.
Materialista a buona ragione si puo chiamare i nostri avversario, o almeno
materialista per metà, giacché ammette che il sentimento del corpo
percepiscano, e giudichino relativamente alla qualità del reale, della cosa
esterna. Leggete le lettere filosofiche di Galluppi stampate non è guari in
Firenze. In Galluppi troverete chiaramente esposte la dottrine sensista, quelle
di Hume circa la cagione, e segnatamente quelle di Kant. Se dalle mie teoriche
si possono ricavare gli argomenti validi a confutare le opinioni del filosofo
trascendentale, o di coloro, che oggi si danno il nome di eclettico – come ha
tempo Cicerone --, io vi prego di compilare alcune note, o vogliam dire
corollarii, pei quali si vegga manifesta la falsità di alcuni principii del
irlandese Bercleio, del scozzese Reid e del scozzese-tedesco Kant, la filosofia
dei quali è fonte della massima parte della moderne follia (Della Sintesi e
dell'Analisi, ed. Liber Liber / Fara Editore). Altre opere: “Alighieri”; “Della
elocuzione” Fara editore, S. Arcangelo di Romagna); “Della sintesi e
dell'analisi” (Giovanni Battista Borghi e Melchiorre Missirini); “La divina
commedia, con le note di Paolo Costa, e gli argomenti dell'Ab.G. Borghi. Adorna
de 500 vignette” (Giovanni Battista Niccolini e Giuseppe Bezzuoli, Firenze, Stabilimento
artistico Fabris,Claudio Chiancone, La scuola di Cesarotti e gli esordi del
giovane Foscolo, Pisa, Edizioni ETS (sulla formazione padovana del Costa, e sulla
sua amicizia giovanile col Foscolo) Filippo Mordani, Vite di ravegnani
illustri, Ravenna, Stampe de' Roveri. Dizionario biografico degli italiani. Una
delle facoltà, onde l'uomo è tanto superiore alle bestie, si è la favella
[fabula – da ‘fa’, speak – cf. fama], mercè della quale i primi uomini non solo
si strinsero in comunanza civile, ed ordinarono la legge ed il governo; ma a
fare più beata e gloriosa la vita crebbero le scienze e le arti, ed ispirarono
con queste l'odio al vizio ed al falso; l'amore della virtù, del vero, del
bello; e i fatti e i nomi degni di memoria ai tardi secoli tramandarono. E qual
cosa è più utile ai privati, ed alla repubblica e più degna e di maggiore
onore, che l'arte di gentilmenle parlare? Per questa ci è aperta la via alla
dignità, alla fortune ed alla fama; per questa le città si mantene ordinata e
pacifica; per questa sono animati i
guerrieri – come Niso ed Eurialo --, encomiato un principio; per questa con più
degni modi si loda e si prega il supremo autore elle cose, e pura e viva si
mantiene nel cuor degli uomini la religione. Laonde, se desiderate onore o
giovamento a voi stessi ed alla Italia, ardentemente volgete l'animo a questo
nobilissimo studio del parlare o discorsare civile. Che se vi fu dolce fatica
l'interpretare e l'imitare gli antichi filosofi romani, non meno dolce vi e il
venire meco investigando il magistero, che è nelle opere loro; imperciocchè,
essendo la favella [la lingua, il parlare] istrumento col quale si commovono e
si traggono gli animi degli uomini, uopo è di volgere sovente la considerazione
alle proprietà dell'intelletto e del cuore umano; il che, pel naturale
desiderio, che abbi mo di conoscere noi stessi, è dilettevolissimo. Mettiamoci dunque
volentieri a quest'opera; e per cominciare con ordine, poniam subitomente al
fine, che si propone chi scrive, perocche non sarà poi difficile temperare ed
ordinare secondo quello il modo del favellare. La favella – nella diada
conversazionale -- intende a *manifestare* (cfr. Vitters) ad altro un pensiero
e un affetto proprio con soddisfazione dell’altro. Ad ottenere questo FINE,
sono necessarie due codizioni. Prima: che la elocuzione sia chiarà – Grice:
“imperative of conversational clarity). Seconda condizione: che l’elocuzione
sia ornata convenevolmente. Parliamo tosto della chiarezza conversazionale, che
poco appresso diremo dell' ornament. La chiarezza da due cose procede. Prima:
dalla qualità dell’espresione, che si pone in uso. Secondo: dalla collocazione –
cum-locatio, syn-taxis -- loro. Prima diciamo della qualità dell’espressione,
L’espressione, che e un *segno* [cf. Grice: Words are not signs] di una idea,
fa perfettamente l'ufficio suo ogni qual volta sia ben determinata, cioè
appropriata a ciascuna idea singolare per nodo, che non possa a verun' altra
appartenere. Per meglio iutendere in che consista la natura loro, bisogna
considerare che ogni idea e composta – il S e P -; e che alcune, differendo da
altre in pochi elementi, abbisognano di segno particolare, per apparire
distinte. Quell’espressione che la distingue dicesi “proprio”. Vaglia un
esempio. L'idea di ‘frutto’ ha per suoi elementi le idee delle qualità comuni a
ogni frutto; l'idea di “melagrana,” oltre i detti elementi, comprende le idee
delle qualità particolari della melagrana: perciò è che, se chiameremo frutto
la melagrana, quando è mestieri distinguerla, non parleremo con proprietà. (cf.
Lawrence: What is that? E un fiore). Ho qui recato il materiale esempio di un
errore, in che è diſficile di cadere, affinché si vegga chiaramente non essere
molto dissimile da questo l'errore di coloro, che d'altre cose ragionando usano
i vocaboli generali (fiore) per ignoranza' de'particolari (tulipano). Tanto
sconvenevol cosa si repula l 'usare una espressione impropria, dice il Casa,
che si hanno per non costumali coloro, i quali, non dan dosene gran pensiero,
pare che amino di essere frantesi, e nulla curino il fastidio di chi si sforza
d'intenderli: all'incontro coloro, i quali usano l’espressione propria,
mostrano di essere civili, essendo solleciti di alleviare altrui la fatica [cf.
Grice, prinzipio di economia dello sforzo razionale], poichè pare che mercè
della espressione proprie le cose si mostrino, non coll’espressione, ma con
esso il dito. I poeti, che sono lodali per la evidenza, onde le cose ci pongono
dinanzi agli occhi ci somministrano
esempi del modo assai proprio. Giovi recarne qui alcuno a schiarimenlo di
quanto abbiamo detto: Come d'un tizzo verde, ch'arso sia dall'un de capi che
dall'altro geme, e cigola per vento, che va via. È qui da notare come
l’espressione “tizzo” e l’espressione “cigola” meglio ci rappresentano la cosa,
che arde, e l'effetto del fuoco, di quello che se Alighieri avesse detto: un
ramo verde fa romore per vento che va via, essendo questa SIGNIFICAZIONE alta a
denotare altra idea non simili in tutto a quella che si voleva esprimere. Cosi
Petrarca disse propriamente: raffigurato alle fattezze conte, piuttosto che
dire alla persona; e Alighieri: levando i moncherin per Ľaria fosca, in vece di
dire, levando le braccia tronche. Qui si vede come l’espressione “fattezza” e l’espressione
“moncherino” sieno meglio usati per essere espressione di SIGNIFICAZIONE
SINGOLARE. Se la proprietà [cf. be as informative as is required – avoid
ambiguity] è si necessaria a SIGNIFICARE la cosa che cade sotto i sensi, quanto
maggiormente nol sarà ella, quando si vogliono esprimere le idee intellettuali
e le morali, che se non fossero determinata in virtù dell’espressione, o svanirebbero
dalla mente nostra, o vi starebbero disordinate e mal ferme? A quel modo che
dalla precisione delle cifre dell'aritmetica dipende la esattezza de’ calcoli,
cosi dalla proprietà dell’espressione dipende quella delle idee e de'
ragionamenti in qualsivoglia delle scienze astratte; e quindi ottima è quella
sentenza del filosofo: consistere il sommo dell'arte di ragionare nel l'uso di
un discorso bene ordinata. Anche Piccolomini ha detto della sua parafrasi di
Aristotele, che la base e il fondamento della elocuzione si ha da stimar che
sia la purità, la netlezza e candidezza – cf. Grice, the imperative of
conversational candour -- di quel discorso, nella quale l'uom parla. Ad
acquistare l'abito di discurrire con proprietà tre cose si richieggono.
Prima, il saper bene dividere le idee
fino ai primi loro elementi. Secondo, il conoscere l'etimologia
dell’espressione (etimo: il vero), per quanto è possibile. Terzo, il rendersi
famigliari le opere degli antichi filosofi romani, ne'quali è dovizia di voci
pure e di modi assai propri. Chi non ha uso delle delle cose è spesso costretto
di adoperare le noiose circonlocuzioni in luogo di un solo vocabolo o di una
breve sentenza, e di abusare de sinonimi. Si dice “sinonimo” l’espressione di una
medesima sigoificazione, o quelli, che rappresentando le stesse idee
principali, differiscono in qualche accessoria. Della prima generazione sono i
seguenti: fine e finimenio; abbadia e badia; consenso e consentimenlo e simili.
Aliri ne trov po nella formazione de' tempi, e de'partecipii, come rendei e
rendetli; visto e veduto; parso e paruto; ma colali sinonimi non sono in gran
numero. La più parle è di quelli che differiscono per aumento, o diſelto di
qualche idea accessoria. Cavallo, corridore, destriero, palafreno, poledro,
rozza, sono espressioni istituite a significare il medesimo animale; ma ognuna
differisce dall'altra. “Cavallo” denola la qualità della specie; “corridore” la
particolarità d'esser veloce; “destriero” ricorda l'uso di menare il cavallo a
mano destra; “palafreno” quello di frenarlo colla mano; “poledro” la qualità
dell'essere giovane; “rozza” quella dell'essere vecchio e disadalto. Le voci
unico e solo sembrano per avventura la stessa cosa; ma il Petrarca disse la sua
donna essere “unica e sola” (one and only), volendo significare che nessun'altra
è nella schiera di Laura, e che nessuna può esserle dala in compagnia. Incontra
alle volte, che le parole istituile a significare un'idea stessa differiscono
per la virtù, che haono di richiainarne alla mente alcun'altra più o men nobile,
o per cagione del suono o vobile o rimesso, o per cagione dell'uso, che di
quella suol esser fatlo in umile o in illustre componimento. Tali sono, a
cagione d'esempio, i vocaboli “adesso” ed “ora”, che significano ‘il momento
presente’, ma “adesso” non sarebbe ricevuto in nobile componimento; dal che si
vede che sebbene ei denoli il punto presente del tempo, come fa l'altro, pure
trae in sua compagnia alcune idee, che il fanno parere di bassa condizione. É
dunque da por wenle che l’espressione, che si dice sinonimo, non sempre ci
rappresentano stesso complesso d'idee; e quindi può intervenire, che ingannali
dall'apparenza, alcuna votla siamo lralli ad usarli impropriamenle. È da
avvertire per ultimo, che ogni espressione antiquale, cioè quelle, che pel consenso
universale de’ filosofi sono stale abolite, non hanno più luogo tra le voci
proprie. Si uilmente sono improprie ogni espressione dei dialelli parlicolari,
e l’espressione forastiera, che dall'uso de' wigliori filosofi non hanno avuto
la cile tadinanza. Le quali tutte non sarebbero bene intese dall'intera Italia;
e perciò denuo essere, da chi desidera di discurrire chiaramente, a lullo
polere schivale. Questo basli aver dello della proprietà, che è la prima cosa,
che si richiede a render chiara le elocuzione. Direino poi a suo luogo come il
trasporlare con altra legge di proprietà l’espressione dal significato proprio
all'improprio giovi maravigliosamente alla chiarezza. In virtù dell’espressione
esprimiamo i nostri giudizii, e collegando insieme il giudizio espresso
formiamo i raziocioii, i quali verranno chiari alla menle altrui, qualvolta
sieno osservate le leggi, di che ora faremo parola; ma prima si vuole
avvertire, cha talora il discorso può es sere ordinato secondo le leggi, per le
quali ' riesce chiaro, ma non avere poi quella forza, quella virtù e quella
eſficacia, che avrebbe, se si disponessero le parole diversamente senza però
offendere le delle leggi. A suo luogo direno della disposizione (sintassi)
delle parole, che agagiunge efficacia al discorso. Ora è a dire solo tanto di
quella, che lo fa chiaro. Ogni giudizio espresso dicesi proposizione. Nel
ragionamento, il quale di nolle proposizioni si compone, alcuna vene ba, che
viene modificata dalle altre. Quella, che è modificata, dicesi principale, le
allre suballerne (o minore). Vaglia a ben distinguerle il seguente esempio del
Casa. Menire i nostri nobili cittadini gli agi e le morbidezze e i privuli loro
comodi abbracciano e stringono, l'impera lore, non dormendo nè riposandu, mu
travagliando e fabbricando, ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta.
L'imperatore ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta è la proposizione (premessa)
principale (maiore), le altre, che lei modificano, sono le subaltern (premessa
minore). La proposizio ne principale, a somiglianza della principale figura in
un dipinto, dee fra tutte le subalterne campeggiare e risplendere; per ciò è
che vuolsi evitare la frequenza di queste ultime, le quali, allorchè fossero
troppe, invece di raflorzare la principale o premessa maiore, siccome è loro
officio, verrebbero ad indebolirla. Questa si è la prima avvertenza, che circa
le proposizioni subalterne aver dee colui che discurre; indi si prenderà cura
di ben' collocarle. Prima che veniamo a dire quale sia la buona collocazione
loro, è necessario di osservare, che le delle proposizioni subalterne si distin
guono in espresse ed in implicite. Diconsi espresse quelle, nelle quali tutte
le parli loro sono manifeste, come nella seguente: ľuomo è ragionevole. Diconsi
implicite quando il giudizio che si esprime, e significati dall nome addiettivo
o dal nome sustantivo con preposizione o dall’avverbio, come nelle seguenti.
L’uomo GIUSTO è lodato. Pilade ama Oreste. CON. I romani amarono GRANDEMENTE la
patria. Quando si dice “l'uomo giusto” si viene ad affermare che ad esso si
appartiene la giustizia, che è quanto dire giudichiamo che egli è giusto. Si
dica il medesimo delle altre due proposizioni. Ama con FEDE GRANDEMENTE, La
proposizione IMPLICITA (entimema, implicatura) serve a significar del giudizio,
che per abilo la mente umana FEDE amarono suol fare rapidamente; perciò è che
non si denno usare in vece di quelle la proposizione espressa, SPLICITA
(splicatura), perciocchè impedirebbero la spedi tezza dell' intelletto di
nostro compagno conversazionale. Si dovranno ancora nello scegliere la
proposizione implicita (implicatura, impiegato) schivare le inutili, cioè
quelle, che risveglierebbero le idee, che in virtù del solo sustantivo o del
solo verbo possono essere richiamate a mente, e scegliere quelle, che meglio
qualificano il significato. Sarebbe, a cagione d ' esempio, vano (redundante) e
noioso l'aggiunto di “bianca” alla “neve” (salvo se il caso richiedesse di far
conoscere parti colarmente questa qualità), essendo che l’espressione “neve”
trae seco, senz'altro aiulo, la idea di ‘bianco’ (cf. ‘atleta’ ‘longo’).
Rispello alla collocazione della proposiziona suballerna, sia ella implicite o
espresse, la regola (massima, imperativo) si mostra di per sé: imperciocchè, essendo
intese a denotare alcuna qualità del signato o da' sustantivo o da' verbo o da'
participio, deve chiaramente apparire a quali di queste parti dell'orazione (l’otto
parti dell’orazione – partes orationis) vogliono appartenere; e perciò fa
mestieri collocarle in luogo tale, che mai non venga dubbio se sia poste a
modificare piuttosto l'uno, che l' altro o verbo o participio o sustantivo.
Quao do a ciò si manca nasce perplessità (“misleading, but true) come nel
seguente luogo di Boccaccio. E comechè Aligheri aver questo libretto fallo
nell'età più matura si vergognasse. Qui può sembrare che il libretto sia stato
falto nell' età più matura; che se avesse dello: comechè egli aver futto questo
libretto si vergognasse nell'età più matura, la proposizione sarebbe stata
chiarissima. Alcuna perplessità è ancora in quest'a tro di Passavanti: Leggesi,
ed è scritto dal venerabile dottor Beda, che negli anni domini ottocento sei un
uomo passò di questa vila in Inghilterra. Comechè non sia per cadere nel
pensiero di alcuno che colui, che si parle di questa vita, possa andare in
Inghilterra, nulladimeno, per quella collocazione di parole, la mente di chi legge
resla alcun poco sospesa. Molte TRASPOSIZIONE – Grice: William Blake: love that
told cannot be, love that never told can be --, che si biasimano nella lingua
italiana, sono spesso con venevoli NALLE LINGUA LATINA, perchè, nella lingua
romana, il nome aggettivo, che per le desinenze diverse nei generi, nei numeri
e nei casi si accordano col nome sustantivo, rade volte LASCIANO DUBBIO a cui
vogliano appartenere, e rade volte i casi obliqui si confondono col caso retto,
comunque nella proposizione sieno collocati. Bellissimo è in latino il seguente
luogo di CRASSO, riportato da CICERONE. HÆC TIBI EST EXCIDENDA LINGVA QVA VEL
EVVLSA SPIRITV IPSO LIBIDINEM TVAM LIBERTAS MEA REFVTABIT. Tenendo l'ordine di
queste parole nella lingua italiana si produce falsità nella sentenza. Sconvolgendolo
si perde tutta l'efficacia. Se dico. Questa lingua li è d'uopo recidere: recisa
questa, col fiato stesso la tua sfrenatezza la libertà mia reprimerà’ – Appare che
LA SFRENATEZZA reprima LA LIBERTÀ. Se, per
lo contrario, dico. La libertà mia reprimerà la tua sfrenatezza, toglieremo
alla sentenza molto della sua forza – devuta a una disobbedenza intenzionale
della massima conversazionale d’evitare l’ambiguità. Vedremo a suo luogo la
ragione, per cui la diversa collocazione di una espressione semplice rafforza o
snerva l'espressione complessa. Ora ci basta osservare, poichè cade in acconcio,
che le varie lingue -- parlando ora della sola facoltà, che hanno di PERMUTARE
IL LUGO ALLE PAROLE – “love that never told can be”/”love that told can never
be” -- luttochè sieno alle a qua. Junque
specie di componimento, nol sono ad esprimere uno stesso concetto nella stessa
FORMA – massima conversazinale della forma, non del contenuto --; perciò è che
quando si trasportano le scritture da una favella ad un'altra non dove
l'espositore darsi briga di ritrarre espressione per espressione. Avendo rispetto
al genio della lingua, cerca di produrre per altro convepevol modo nell’animo
di nostro compagno conversazionale gl’effetto che l’espressione in lui operano.
Per fuggire le equivocazioni [cf. Grice, avoid ambiguity] giov ancora badare
ne' verbi alla prima voce dell'imperfetto dell'indicativo – “amava” -- la quale
è simile alla terza, dicendosi “amava” +> “io amava”; “amava” +> “colui amava” – cf. latino: ‘amaba’/’amabaT’
--. Perciò a distinguerle è sovente bisogno di preineltere all’espressione ‘AMAVA’
– latino: AMABA/AMABAT -- il nome o il pronome. Giova spesso alla CHIAREZZA, e
segnatamente nell’espressione complessa o composita, il ben distinguere le
persone e le cose, delle quali si parla (il topico). E perciò sta bene talvolta
il *ripetere* il nome sostantivo per non confondere l’una coll'altra. Imperciocchè,
i pronomi e i relativi sogliono spesso essere cagione di equivoco – confusione
– cf. avoid ambiguity, be perspicuous [sic], the imperative of conversational
clarity. E questo interviene specialmente, quando nella proposizione
antecedente sono più nomi sustantivi di un medesimo genere e numero, che si
possono accordare coi relativi delle susseguenti. Perciò, conviene tal volta o
giovarsi di un sinonimo onde porre in luogo di alcun nome mascolino un
femminino. O inulare il numero del più in quello del meno. O viceversa. Può ancora
geverarsi PERPLESSITÀ nell'usare il possessivo “suo” e “suoi,” invece de
relativo lei, lui e loro; e perciò alle volle è necessario adoperar questo per
quello, come nel caso seguente. “MAI DA SÈ PARTIR NOL POTÈ, INFINO A LANTO CHE
EGLI [CIMONE] NON L’EBBE FINO ALLA CASA *DI LEI* ACCOMPAGNATA” (Boccaccio). Se Boccaccio avesse detto: “fino
alla casa SUA accompagnata”, si sarebbe potuto credere essere QUELLA DI CIMONE!
Per far maniſesta (esplicita, chiarissima) la connessione de'ragionamenti sono
assai opportune le particelle copulative (“e” – He went to bed and took off his
trousers” (Urmson); avversative (“ma” – Lei e povera, ma onesta – Frege,
FARBUNG), illative (“se” – se p, q – FILONE, DIODORO, CRISIPPO) e somiglianti –
e disgiuntiva (“o” – “Lei sta alla cucina o alla stanza di dormire”). Molli
fra' filosofi italiani, ad imitazione de’ filosofi francesi, sogliono scrivere
a piccoli membri, senza congiungerli insieme colle particelle, e in ciò sono da
biasimare, iaperciocchè costringono la mente o l’animo di nostro compagno
conversazionale a passare “di salto” da una proposizione all'altra senza dargli
occasione di scorgere subitamente le attenenze (pertinenza, relevanza – cf.
Grice, category of relation – be relevant – a ‘platitude’ -- Strawson) loro. JILL:
JACK IS AN ENGLISHMAN; HE IS, THEREFORE, BRAVE” – deduzione, induzione,
adduzione? --. Affinchè si vegga manifestamente quanto la mancanza de' legamenti
tolga di chiarezza al discorso, leverò dal seguente luogo di PASSAVANTI le
particelle che ne conneltono le parti. Qualunque persona sogna, pensi se il suo
sogno corrisponde all’affezione sua, a quella che più ta sprona. Se vede che si,
non a. spetti che al sogno suo debba altro seguitare. Quel sogno non è cagione alla
quale debba altro effetto seguitare; è l'effetto dell'affezione della persona.
Tale sogno oseservare, cioè considerare donde proceda, non è in sè male: è
l'effetto di naturale cagione. Facciamo congiunti questi membri colla
particella “e”, la particella “imperciocchè”, la particella “ma” e vedremo il
discorso apparire più chiaro (“She was poor and she was honest”). Qualunque
persona sogna, pensi se il suo sogno corrisponde all’affezione sua, a quella,
che più lu sprona. *E* se vede che si, non aspetti che al sogno suo debba altro
seguilare; *imperciocchè* quel sogno non è cagione, alla quale debba altro
effetto seguitare; *ma* è l'effetto del l'affezione della persona; e tale sogno
osservare, cioè considerare donde proceda, non è in sè male: imperciocchè è
l'effetto di natural cagione.” Questi pochi avvertimenti basteranno, se io non
erro, a render cauti i conversatori che desiderano di conversare chiaramente.
Tralascio le wolle cose che i filosofi hanno ragionato in torno la proposizione,
poichè mi pare che, qual volta siasi imparato a distinguere la proposizione principale
(premessa maiore) dalle proposizione subalterna (premessa minore), e siasi
conosciuto che la virtù di queste si è di modificare le parti dell'altra, non
faccia mestieri di *molto sottile* ragionamento a sapere in che modo elle si debbono
collocare nella orazione o espressione complessa; perciò senza più entro a
parlare dell' ornamento. La perſezione dell'arte del conversare nella LINGUA
LATINA, secondo CICERONE, consiste nell'esporre chiaramente, or nataniente e
convenevolmente le cose o il topico, che a trattare imprendiamo. Di quella
chiarezza e di quell'ornamento e decoro – CANDORE --, che dall’invenzione e
disposizione della materia procede, si ragiona nella rettorica – G. N. LEECH: “H.
P. GRICE’S CONVERSATIONAL RHETORIC”. Accade qui di parlare delle suddette tre
qualità solamente rispetto al modo di significare (modus significandi) il concetto
ritrovati. Avendo abbastanza detto della prima, diremo ora delle altre due, che
fanno il discorso – la mozione, mossa, o moto, conversazionale -- accetto a
nostro compagno conversazionale. Grice: “I’m not surprised that the Italians
start the cataloguing of the maxims of conversations by the MANNER, rather than
the CONTENT!” -- Prima di tutto si vuole osservare che la proprietà delle voci
e l'ordinata (cf. Grice, be orderly) composizione loro generano gran parte
della BELLEZZA DEL DISCORSO – Grice: “My maxims aim at rational cooperation,
they are not moral or aesthetic in purpose.”. Imperciocchè fanno sì, che esso
sia inteso senza fatica, che è quanto dire con qualche sorta di piacere. Ma
questo non basta; chè nessuno per verità loda il conversatore solamente perchè
si fa intendere dal suo compagno conversazionale; ma lo biasima e sprezza, s'ei
fa altrimenti. Chi è dunque che faccia meravigliare gl’uomini e tragga a sua
voglia le volontà loro? Chi è applaudito e chi è venerato più che more tale?
Colui che NEL CONVERSARE è distinto, COPIOSO – ma non *troppo* copioso --, splendido,
armonioso, e che queste qualità, onde si forma l'ornamento, congiunge al decoro
– CANDOR – veracita e sincerita. Que' che conversa co'rispetti, che la qualità
delle materia e del compagno conversazionale richiede, solo merita lode: che
qualsivoglia ornamento DISGIUNTO DAL DECORO diviene sconcezza e deformità. Molto
leggiadre ed efficaci sono le voci proprie, che per cagione del loro suono
hanno somiglianza col significato, o quelle che ne ricordano qualche
particolare qualità. E espressione, che ricorda il significato per somiglianza
di suono le seguenti: “belato”; “ruggito”; “soffio”; “nitrito”; “boato”;
“rimbombo”; “tonfo”, e molte al tre, che per alcuni furono sono termini figure,
a differenza di quelle, che, non avendo soosiglianza veruna col significato, sono
delle termini memorativi o cifre. Fra i termini figure voglionsi annoverare,
oltre le voci che abbiamo teste accennat, quelle che o provengono da
altr’espressione, che è segno di cosa somigliante al signficato che si vuol
esprimere o communicare (cf. Grice on the circularity of analyising ‘signare’ e
‘communicare’), o ricordano l'origine o gl’usi del significato. L’espressione
“spirito” è bella per certa tal qual somiglianza, che il significato, cioè
l’immateriale sostanza, sembra avere col fialo o con qualsivoglia altra sottil
materia, che SPIRI (onomatopoeia) e preferibile a ‘animo’. Belle similmente e
l’espressione “moneta” e l’espressione “pecunia”. la prima delle quali, venendo
da “moneo”, significa che il metallo ed il conio ammoniscono la gente circa il
valore di essa moneta. La seconda, venendo da “pecus”, ricorda l'origine del
denaro, che fu sostituito ai buoi ed alle pecore, antica inisura delle cose
mercatabili. Ho qui posti questi due esempi ancora perchè si vegga quanto giovi
alcuna volta l'investigare l’etimologia. Concorrono co' termini propri e co' termini
figure a far bella la mozione conversazionale le parole nobili, qualvolta sieno
convenevolmente adoperate. Accade delle parole, dice Pallavicini, che
comunemente accade degli uomini nel civil conversare. Questi acquistano
ripulazione o vilipendio dalla qualità delle persone colle quali usano
farnigliarmente; e le parole dalla qualità delle persone da cui sono sovente
proſerite; e ciò interviene perchè tutti hanno per fermo, che i personaggi
illustri e gl’uomini letterati sieno ESPERTI A CONVERSARE *con legge*, e che la
plebe allo incontro parli e cianci barbaramente. Avviene da ciò che alcune
voci, che significano cose vili o laide [‘the --- bishop fell from the – stairs
– profanity – Grice], sono tuttavia tenute per nobilissime. All 'opposito altre
ve a'ba, che, nobili cose significando, in grave componimento non sarebbero
lodate. Della prima spezie sono in Italia l’espressione “lordo”; “lezzo”;
“tube”; “piaga”, ed altre, che nelle più nobili conversazione sogliono essere
usate. Dall'altro canto, l’espressione “papa”, siccome osserva il lodato cardinale
Pallavicini, la quale nobilissimo personaggio rappresenta, non sarebbe ricevuta
in grave componimento poetico. In tre schiere vengono separate da Pallavicini
le parole rispetto la maggiore o minore nobiltà loro. Nella prima si collocano
quelle, che dal conversatore in nobile conversazione e usata a significare un
concetto grande ed il lustre. Vocaboli di questa specie non si potranno senza AFFETAZIONE
adoperare in tenue argomento, o in famigliare discorso. Che se alcuno
famigliarmente usa l’espressione “pugna” in vece di “battaglia”; “luci” in vece
di “occhi”; “accento” o “nota” in vece di “parola”, certo è che moverebbe a
riso il compagno conversazionale. La seconda schiera è di quella espressione,
che vanno egualmente per le bocche degl’uomini ragguardevoli e del popolo, e
che si possono senza biasimo usare in ogni occorrenza. La terza poi è di
quelle, che sono avvilite nella bocca della plebe, come e l’espressione
“pancia”; “budella”; “corala” e simili, le quali possono essere opportune in
una conversazione intesa ad avvilire alcuna cosa, come e la mossa, noto, o mozione
conversazionale ‘satirica’. Anche le espressione antiche, qualvolta elle hanno convenevole
forma e non sieno passate ad altro significato [non multiplicare sensi piu di
la necessita], vagliono à nobilitare la conversazione. Ma si richiede somma
cautela in co lui che a vila le richiama, poichè una espressione antiquata,
ollrechè spesso portano seco oscurità [cf. Grice, ‘avoid obscurity of
expression, procrastinate obfuscation, be perspicuous [sic]], ‘avoid
unnecessary proliity [sic]’], più spesso fanno l'orazione ricercata e deforme.
E chi oggi potrebbe, senza indurre a riso il compagno conversazionale,
l’espressione “beninanza”; “bellore”; “dolzore”; “piota”, “spingare” ed altre
simili d’usare. Ora diremo della metafora (“You are the cream in my coffee), la
quale, usata opportunamente, è lume e vaghezza della orazione. Prima è a sapere
che gl’uomini selvaggi per essere scarsi di cognizioni mancarono
dell’espressione, e che volendo eglino significare alcuna cosa non ancora
significata, fanno uso naturalmente di quella espressione gia usata, la quale e
inventata a contras-segnare *altra* cosa somigliante in qualche parte all'idea
novella (“You are LIKE the cream in my coffee”). Occorrendo loro, per esempio,
di significare alcun uomo crudele, il chiamarono “tigre” per la somiglianza
dell'indole di colal bestia con quella dell'uomo crudele. Cosi dissero assetate
le campagne asciulle, “volpe” 1'uomo astuto (“sly as a fox” – he is a fox),
“capo del monte” la cima – ‘top of the heap’ ‘New York, New York’ -- e “piè” del
monte la falda di quello. Per gl’addotti esempi si vede questo trasporlamento (meta-bole,
transferenza, trans-latio) di una expression da un significato propio e vero ad
un significato impropio e falso (“You are the cream”) altro non essere che una
similitudine ristretta in una espressione (“You are like the cream –
simplifcata a “You are the cream”); imperciocchè la seguente similitudine
spiegata. La comparazione vera “Costui è crudele COME una tigre” si restringe, per
brevita, in questa forma metaforica falsa. “Costui è una tigre”. È dunque la
metafora una abbreviata similitudine [an elliptical simile], che si fa recando
una espressione dal significato proprio al signficato improprio: e perciò da
Aristotele è detta imposizione del nome d'altri. Siccome la metaſora e da
principio usata per *necessità*, potrà parere ad alcuno che crescendo il numero
delle idee determinate e della espressione propria, la metafora divenga
pressochè inutile – o una figura di retorica --; ma non accade cosi: perocchè,
sebbene fra le conversatori civili e culle non sia tanto necessaria quanto fra
le selvagge e rozze, pure la metafora è e sempre luce e VAGHEZZA della
conversazione per virtù e forza di quelle sue qualità. La metafora presenta
spesso all'animo più chiaramente ogni sorta di concetti, poichè, veslendo di
forma *sensibile* una idea non-sensibile, o intelleltuale (nihil est in
intellectu quod prior non fuerit in sensu), ce le pone davanli agli cinque
sensi. Vuole Alighieri significare che non è meraviglia se per la le nuità
della nostra fantasia non possiamo per venire ad imaginare le cose, che
Alighieri desidera narrare del Cielo; e questo con una metafora dicendo. E se
le fantasie nostre son basse a tant'altezza non è maraviglia. Per tal modo il
concetto, che era tutto non-sensibile e intelettuale, divenne sensibile e per
conseguente più chiaro (cfr. Grice, ‘be perspicuous [sic] – the imperative of
conversational clarity] e più popolare. E se taluno volendo dire che gl’uomini
bugiardi saono talvolta infingersi e comporre gl’atti e le parole a modo di
parer verilieri, dice che la menzogna prende talvolta il manto della verità,
non significherebbe egli il suo concetto assai vivamente. (He said that she was
the cream in her coffee, By uttering ‘You’re the cream in my coffee” U signs –
explicitly – THAT the addressee is the cream in the utterer’s coffee. Fra tutte
le metafore poi e più efficace quella metafora che si cava da una qualità
sensibile, corporea, materiale, che si mostra a le cinque sensi, e forse la
ragione si è questa. Alla reminiscenza della qualità di un corpo, la quale ci
vengono all'animo per i cinque sensi, più tenacemente si associano le idee, che
di essi ci vengono per gli altri sentimenti; quindi è che ogni qualvolta ci
riduciamo a memoria una della qualità sensibile (in questo caso visibile) del
reale (un oggetto) quasi tutte le altre appartenenti a quello pur si
risvegliano, e vivamente ed intero lo ci pongono dinanzi agli “occhi”
dell'intelletto. Laonde se belle sono le metafore – parola dolce. che si cávano
dalla qualità, da cui sono affetto: l'odorato (secondo senso dell’odore), il tatto
(terzo senso del tatto), l'udito (quarto senso dell’audizione) e il gustato
(quinto senso del gusto), come queste: odore di santità – odore santo, durezza
di cuore – duro cuore, ruggir di venti, vento ruggente -- dolcezza di parole;
parola dolce -- più bella, per che più viva si presenta all'animo, entrando
quasi per gli cinque organi de’cinque sensi, sono le seguenti. Splende la gloria
(visum). Folgoreggiano gli scudi. Ridono i prali (udito). Si rasserena la
fronte; l’anima è oscurata per tristezza. Piacquero ad Aristotele sommamente
quella metafora, che ci rappresenta (re-praesentatum, rappresentato) la cosa in
mozzo, e principalmente quando la metafora attribuisce a una in-animato una
operazione di un animato.Tali sono queste di Omero. Le saette di volar desiose;
inorridisce il mare. Anche VIRGILIO, parlando di una satta entrata nel petto di
una vergine, dice. Harsit virgineumque alle bibit hasta cruorem. Si dalla
metafora ci pone la cosa vivamente quasi innanzi agl’organi dei cinque sensi, e
per la “novità” o vita (no morte) loro ci fanno maravigliare. La metafora,
siccome dice Aristotele, partorisce dottrina, facendo conoscere fra le idee
alcuna attenenza dianzi non osservata. Quale attenenza scorgesi tosto fra un
manto e la nobillà della prosapia? Certamente nessuna: pure veggasi come
Alighieri ce la fa scorgere. O poca nostra nobiltà di sangue, ben tu se'manto,
che tosto raccorce, sì che se non s'appondi die in die lo tempo ya d'intorno
co' la for Coine un bello e ricco manto adorna la persona di colui che sen
veste, così adorna l'animo d' alcuni uomini quell'onore che ricevono pei pregi
degli avi loro, e che chiamasi nobiltà: ma, se per virtù novella non si
rinfranca, ei viene di giorno in giorno scemando. Questi pensieri il divino
poeta ci reca alla mente colla nuova similitudine, e ci dilella e ci illumina.
Vale eziandio la metafora a muovere con maggior forza l’affeto, perciocchè,
laddove alcuna volta parole proprie astretti a recare alla mente di nostro
compagno conversazionale le idee una dopo l'altra, la metafora, rappresentandole
tutte ad un tempo, assale l’animo con veemenza. Basti un solo esempio di
PETRARCA, il quale rivolto alla morte così le dice: con saremmo me dove lasci
sconsolato e cieco, poscia che il dolce ed amoroso e piano lume degli occhi
miei non è più meco? Quali e quanli pensieri si destano nella mente
all’espessione “cieco” e la frase/espressione frasale “lume degli ochi miei”!
Ma circa l'uso della metaſora nell’aſſetto si vuole por menle che ella non
mostra il lavoro e la fatica dell’intelletto,
perocchè non è verisimile che colui, che ha l'animo perturbato, si perda a far
cerca d'ingegnosi concetti e figure retoriche. È ancora pregio della metafora
di coprire con velo di modestia e di gentilezza il segnato, che espressa con un
termino *proprio* (e non un termino figura como e la metafora) sarebbero odioso
o turpo. Ecco un bell’esempio di Passavanti. La innata concupiscenza, che nella
s vecchia carne e nell'ossa aride era addor meniata, si cominciò a svegliare:
la favilla, quasi spenta si raccese in fiamma; e le frigide membra, che come
morte si giacevano in prima, si risentirono con oltraggioso orgoglio. E VIRGILIO
dice. O luce magis dilecta sorori, Sola ne perpetua moerens curpere juventa?
Nec dulces natos, Veneris nec praemia noris? Questo e i principale vantaggio
della metaſora, onde sovente viene preferita al termino proprio. Diremo ora dei
vizii che talvolta elle possono avere. Se bella e la metafora che fa scorgere
una maniſesta somiglianza tra due segnati (‘you’ ‘the cream in my coffee’), da
che si toglie il vocabolo e l'altra, a cui si reca, chiaro è che deformi
saravno quelle, che tengono ji paragone di rose o polla e poco somiglianti, e
che sono male acconcie al proposto dne (“a woman without a man is a fish
without a bicycle”). Nessuna somiglianza si vede fra le cose paragonale nella
seguente metafora di MARINI. Folendo egli lodare un maestro, che formara
bellissimi esempi da scrivere, esalta la penna di lui, dicendo ch'ella deve
essere divina: Perchè una penna sela, Benchè s'alzi per sè pronto e sicura, Se
divina non è tanto non rola. E qual somiglianza è mai tra il relare e lo
scrivere? E tolta da peca somiglianza quella metafora che volendo segnare una
cosa piccola prende da una cosa grande l'imagine, e al contrario. Mariai
assomiglia le lacrime della sua douna a'lesori dell'Oriente, e Tertulliano il
diluvio universale al bucato. Erro similmente colui che dice a suo amante. Son
gli occhi resiri archiòugiati a ruote, Ele ciglia inarcale archi turcheschi. È
bellissina la metafora che Poliziano tolse al Boccaccio. E le biade ondeggiar
come fa il mare. Sarebbe difettosa quest’altra. E tremolare il mar come le
biade. Viziose come le sopraddeile sono la più parte delle metafore usate dagli
scrittori del secolo XVII, e soprattutto dai poeti, i quali sriscerarano i
monti per estrarne i metalli, face vano sudare i fuochi, ed avvelenavano l'obolio
colp inchiostro. Parmi inutile cosa l'estendermi in questa materia, essendochè
il nostro secolo, sebbene incorra in altri vizii, di così falle baie si mostra
nemico. Della metafora e l’analogia che e alquanto dura, ė da sapere che puo
essere mollificata per certa maniera di dire, quali sarebbero: quasi – per dir
cosi e che alcune ve nha, che sono state ammollite dall'uso, come la seguente:
Fabbro del bel parlare. Ė da biasimare ancora la metafora, che la sorvenire il
nostro compagno conversazionale di qualche bruttura, o di cosa rile, o che disconvenga
alla gravità della trattata materia o topico. Perciò meritamente Casa
rimprovera ALIGHIERI per essere talvolta caduto in questo difeilo, siccome
quando disse. L'allo fato di Dio sarebbe rotto se Lete si passasse, e lal
vivanda fosse gustala senza alcuno scollo di pentinento. E altrove. E vedervi,
se avessi avuto di tal tigna brama, colui poteri ec. Questa e una imagine
plebea e sconvenienti alla gravità del subbietto. Cosi merita biasimo
Pallavicini, comechè sia maestro sommo nel l'arte dello stile conversazionale,
quando disse, che il cardinal Bentivoglio aveca saputo illustrar la porpora
coll' inchiostro, e quando per accennare la qualità, ond'è costituita
l'eleganza della elocuzione, dice: saputi distintamente quali ingredienti
compongono quesla salsa, cioè l'eleganza; i quali modi sono da biasimare,
essendochè nel primo esempio li vedi dinanzi agli occhi la porpora brullala
d'inchiostro, e nell’altro t’infastidisce l'abbietta voce che sa di cucina.
Similmente non paiono degni di lode coloro, che sogliono usare per vezzo della
conversazione un idiotismo, e segnatamente quello, che ha origine da certa
anticha costumanze dimenticata oggidi. Non merita lode Davanzali quando volendo
dire: o nulla o lullo: disse: o asso o sette. Questo proverbio, oltre chè si è
di vilissima condizione, è tolto da un giuoco, che potrebbe essere sconosciuto
a molli. E proverbio, del quale non si sa l'origine, il seguente; e perciò
freddo od oscuro: Maria per Ravenna, invece di cercar la cosa dove ella non e.
Bastino questi pochi proverbi per moltissimi, che qui si po ebbero recare, e
de' quali vanno in traccia alcuni mal accorti conversatori, onde parere versali
nella lingua antica. Aucora è biasimevole alcune volte la metaſora, che si
deriva dalle materie filosofiche; imperciocchè, se il fine, pel quale il
conversatore usa di quella, si è di rendere più chiaro e più vivo i concetto,
questo non si potrà ottenere traendo la similitudine da cose poco nole o malagevoli
ad intendere, come a la metafisica, che spesso, ond'essere chiarita, hanno
bisogno delle similitudini tolle dalle cose materiali; ma di rado somministrano
imagini, che vagliano a cercar recar luce alle prose ed alle poesie. Pure in questi
tempi sono alcuni conversatori, i quali hanno per vezzo l'usare siffatta
metafora, avvisando d'illustrarne la sua mozzione conversazionale, e di mo
strarsi intendente e sottile; ma va grandemente errato, perciocchè non
solamente appor tano ombra ed oscurità (‘avoid obscurity of expression, be
clear) alla sentenza, ma danno segno di affettazione che è vizio sopra tutti
spiacevole. si è dello di sopra che la metafora diletta, non solamenle perchè
ci pone dinanzi agli oc ebi in forma quasi sensibile un pensiero astratto, ma
ancora perchè ci porge ammaestramento col farci apprendere fra le idee alcuna
attenenze prima non osservata; dal che si deduce che il conversatore, i quali
vogliono recar maraviglia, de guardarsi dall' usare una metafora troppo
comunale, come quelle, che, a somiglianza della monete passata per molle mani,
sono rimase senza vaghezza. Non ogni metafora poi, comechè sia ben derivata, potrà
convenire ad ogni conversazione. Poichè tra le metafore ve n'ha delle più o
meno illustri, converrà avvertire che il grado della nobiltà loro non
disconvenga alla qualità del componimenlo. Similmente nel formare la metafora
si vuole avere riguardo al pensare della gente nella cui lingua si conversa. La
diversità de'luoghi e de' climi fa che gli uomini abbiano diversi i costumi e
le usanze, e perciò diverse ancora le idee e le significazioni di esse.
Impercioc chè, traendo ciascuna gente le similitudini dalle cose, che più
spesso le sono dinanzi agli occhi, incontra che alcun popolo deriva una
metafora da una cosa campestre, lal altro da una cosa marittima, tal altro dal
combinercio o dalle arti, secondo suo silo e costume. Il rigore o la benignità
del clima poi è spesso cagione che l'umana imaginativa sia più vivace in un
luogo e meno altrove; e quindi è che una metafora naturalissime nel Trastevere
appaia ardila e strana nel Tevere. Anche l’essere le geoli più o meno civili
cambia la natura della metafora; perciocchè dove sono leggi meno buone, ivi è
più ignoranza del vero; e dove è più ignoranza del vero è più amore del
verisimil; il che torna il medesimo, ove è minor virtù intelleltiva, ivi abbonda
la forza della fantasia. Cadono perciò in gravissimo errore coloro, che,
imilando il volgarizzamento di Ossian falio da Cesarolli, sperano di venire in
fama di sommi poeli toglieodo sempre la metafora da'venti e dalle tempeste, dai
torrenti, dalle nebbie e dalle nuvole. Paiono a costoro inaravigliose
squisitezze e delizie i seguenti, e simili modi: sparger lagrime di bellà - i
figli dell'acaciaro il tempestoso figlio della guerra siede sul brando
distruzione di eroi dar. deggiano gli sguardi rotola la morle - urlano i
torrenti. Cotale metaſora, che per avventura e naturale a'popoli selvaggi, sono
in Italia ridevoli e sciocche fantasie. Alla diversa indole delle genti debbe
anche por mente chi dall' una lingua all'allra trasporla i versi e le prose, se
non vuole produrre nell'animo di nostro compagno conversazionale effetto
contrario a quello che l'autore straniero o forastiero o del Trastevere
produsse in coloro, ai quali volse le sue parole. Affiuché si vegga
manifestamente che non lutte lete. metafore convengono a tulti i popoli,
recherò qui alcuni esempi che a questo proposito Tagliazucchi toglie dalla
lingua latina. Bella metafora si è questa presso Virgilio: classique im millit
habenas; deformità sarebbe tradu re in italiano: melte le briglie alla flolla.
Così per segnare il pane corrotto dall'acqua dice lo stesso poeta. Cererem
corruptam undis; mal si tradurrebbe: Cerere corrolla dall'onde. Orazio disse.
lene caput aquae sacrae; e si tradurrebbe malissimo in italiano: il dolce capo
dell'acqua sacra. Per segnare il liero sdegno d'Achille dice: gravem sioma chum
Pelidae; e malissimo si tradurrebbe: il grave stomaco del Pelide. Moltssime
altre metaſore potrei qui recare, che sono proprie solamente della lingua
latina; ma chi ha cognizione della lingua latina conoscerà di per sè la verità
di quello che io dico, ed argomenterà quanto debbono differire nella metafora
la lingua italiana e quelle de'popoli da noi disgiunli e per costume e per
clima, se tanto differiscono l'italiana e latina con islrelto vincolo di
parentela congiunte. Una regola o massima o omperativo da osservarsi nell'uso
della metafora si è di non aminassarle nella conversazione, ma collocarvele
parcamente e di guisa, che paiano, come dice Cicerone, esserci venule
volonterosamente, e non per forza nė per invadere il luogo altrui. È da
avvertire in secondo luogo, che la metafora o non si dee congiungere con altra
metafora o con voci proprie di maniera, che fra queste e quella si scorga
opposizione maniſesta. Se per esempio avrai detto che Scipione è un fulmine di
guerra, non dirai tosto che egli trioníò in Campidoglio. Se paragonerai
eloquenza ad un torrente, non le attribuirai poco appresso la qualità del
fuoco, ma avrai cura che la metafora sia sempre collegata (e no mista) colle
idee prossime di guise, che nostro compagno conversazionale non trovi mai
contrarietà ne' tuo concetto. In questo difetto caddero anche alcuni autori
eccellenti, come Petrarca nel Sonetto XXXII, dove, cominciando dal dire
metaforicamente, ch' egli ordisce una tela, prosegue: ſ ' farò forse un mio
lavor si doppio fra lo stil de'moderni e il sermon prisco, Che (paventosamente
a dirlo ardisco) Infino a Roma ne udirai lo scoppio. Ma non così egli fece nel
Sonetto che comincia Passa la nave mia colma d'obblio, chè in esso avendo preso
ad assomigliare gli amorosi affanni suoi alla nave, da questa imagine non si
diparte sino alla fine. Non intendo io però di affermare coll’esempio di questa
allegoria, che in breve discorso non possano star bene insieme più metafore di
natura diversa; ma di avveitire che assai disconviene il trapassare da una
similitudine ad un'altra inconsideratamente e quasi per salto. Giova moltissimo
talvolta a render chiare e naturali quella metafora, che per se medesime
sarebbero ardite e spiacenti, il preparare per convenevole modo l'animo di
nostro compagno conversazionale. Se taluno volendo dire che gli uomini per mal
esempio altrui caggiono in errore, dicesse caggiono nella “fossa” della falsa
opinione, use rebbe certamente ardita e spiacevole metafora: nulladimeno ella
diviene bellissima, qualvolta per le cose antecedenti ne siamo disposti. Va.
glia l'esempio di Alighieri. Dopo aver ricordata la nota sentenza se il cieco
al cieco sarà guida cadranno ambedue nella fossa prosegue: i ciechi
soprannominati, che sono quasi infiniti, con la mano in sula spalla a questi
mentitori sono caduti nella fossa della falsa opinione. Cosi l’ardita metafora
divenla parte di una vaghissima dipintura, che viene quasi per gli occhi alla
mente, ed ivi s'imprime e lungamente rimane. Sono certi scrittori, i quali
riducono le idee astratte a termini più astratti (obscurus per obscurius) di
quello che si converrebbe cercand a tulto potere di al lontanarle da' sensi: indi
a questi loro soltilis simi concelti uniscono molte metafore repugnanti fra
loro, il che fa che la mente di nostro compagno conversazionale tra questi
estremi e tra questi contrari confusa nulla comprenda, come si può di leggeri
conoscere nel seguente esempio tolto da un libro moderno: A giudizio dei savi
scorgesi palesement, che nelle vedute su blimi della gran madre anche
l'emulazione, principio avvedutamente inserito nella costituzione dell'uom, '
concorrer deve a scuotere ed a sferzare l'industria, on de riguardo allo
sviluppamento di questa [Oh quanta confusione ed oscurità in tanta pompa di
parole! Pare che il conversatore volesse dire, che i savi conobbero che la
natura ha posto nel cuore dell' uomo il desiderio d'emulare gli altri; e che da
questo procede l'industri; ma accoppiando i vocaboli principio e costituzione,
che sono segni d'idee molto astratte, colla melaforica voce “inserire” ha
composto un enigma; perciocchè nessuno polrà imaginare chiaramente siffallo
innesto. Più strana poi diviene la metafor, quando l'astratto segnato dalla espressione
“principio” si fa a scuolere ed a sferzare l'ind stria falla inopportunamente
persona per trasformarsi losto in altra cosa, che si sviluppa a guisa di una
malassa. In questa forma la metafora, che e vaghezza e luce della favella,
diviene tenebre alla mente e vano suono (flatus vocis) agli orecchi.
Conciossiache L’INTENZIONE del conversatore non sia solamente di render chiaro
il concetto, ma di farlo talvolta dilettevole e maraviglioso, interviene che
alcuni, per recare altrui dilelto e maraviglia, si fango a derivare dalla
metafora certe loro conseguenze, come se in quella non già una simililudine si
contenessa, ma come se la cosa a cui si reca il nome novello, veramente si
trasformasse nella cosa, donde esso nome si toglie. Di questa specie di
concetti si presero diletto i prosatori ed i poeti del secolo decimo settimo,
forse per desiderio di avanzare gli scrittori delle altre elà, ed in
fastidirono tutti i sani intellelli. Basti di ques 1 [Atti dell' Costitulo
pazionale. era sti vizi un solo esempio. Ugone Grozio, per mostrare che non a
dolere la morte di Giovanna d'Arco, dopo aver lodate nel principio di un
epigramma le virtù di lei, sog giunse: Necfas est de morte queri, namque ignea
tota aut numquam, aut solo debuit igne mori. Con l’espressione “fuoco”, imposta
a cagione di similitudine, viene il conversatore a trasformare la misera vergine
in vero fuoco materiale; e quindi trae la strana conseguenza, che ella mai non
dovesse morire, o morire nel fuoco. Similmente si è frivolo modo e sciocco il
derivare la metafora dalla somiglianza ed uguaglianza de'noni imposti a cose
diverse, ALLUDENDO all' una di esse mentre si fa mostra di ſavellare
dell'allra. In questo difetto incorse anche il primo de'nostri poeti lirici
quando, piangendo la sua donna, parla del lauro, ed allude freddamente al nome
di lei, come nella canzone, che comincia, Alla dolce ombra delle belle fronde
ed in molti altri luoghi si può vedere. Essendosi fin qui parlato de' pregi e
de'vizi delle metafore, cadrebbe in acconcio il ragionare degli altri traslati
di parole e di concetto e della figura: ma, perciocchè queste cose sono state
definite e largamente dichiarate da tutti i retlorici, stimo che qui basti il
ricordare che siffatte maniera di favellare non e bella, se non in quanto
vengono dal conversatore opportunamente adoperate. Per lo stesso fine, che la
metafora si propone, cioè di rendere più vivo il concetto, melte bene talvolta
il trasportare l’espressione a un segnato improprio o nominando invece del
tutto la parte (metonimia), o invece della cosa la materia, ond'ella è
composta, o il genere per la specie o il plurale pel singolare (majestic plural
– We are not amused), e viceversa. Si può cadere in difetto usando questo
traslato, che fu chiamato “sinedoche”, ogni qualvolla l'imagine della cosa, da
cui si prende l’espressione, non sia bene associata alle idee, che si vo gliono
svegliare in altrui, non sia atta a fare impressione nell'animo più che le
altre ide, che vanno in sua compagnia. Vaglia a dichiarazione di ciò un solo
esempio. Si dirà con maggior efficacia: fuggono per ſalto mare le vele, di
quello ch: fuggono per l'alto mare le prore; poichè l’imagine delle vele gonfiate
dal vento, come quella, che maggiormente percuote la vista di colui, che mira
la nave in alto, più strettamente d'ogni altra idea si associa all'idea del
fuggire: in altro caso però tornerà meglio chiamar la nave o poppa o carena,
cioè quando l'azione, che essa fa, o la passione, che riceve, meno con venga
alla vela che alle altre parti. Veggasi come ne ua Virgilio: vela dabant laeti.
Submersas obrue puppes si nomida ancora talvolla la causa per l’effetto, o
questo per quella: il contenente pel contenuto: il possessore per la cosa
posseduta: la virtù ed il vizio invece dell'uomo virtuoso e del vizioso: il
segno per il segnato ed il contrario; e questa figura, che dicesi “metonimia”,
giova per le delle ragioni, essa pure adoperala opportunamente, a dare evidenza
alla elocuzione. Ma di questi traslati e di quelli di concetto, che consistono
in sentenze da intendersi a contra-senso (ironia), tanto se ne parla, come già
dissi, in tutte le scuole, che qui, facendo la definizione dell'”allegoria”,
dell'”ironia” e di altri simili traslali, avvertirò solamente che questi
saranno diſellosi se verranno a collocarsi nella conversazione senza essere
mossi dagli affetti. Anche rispetto a quelle forme, che sovente adoperiamo per
rendere più efficaci i pensieri, e che si chiama con ispecial nome figura,
ricorderò che alcune ve n'ha, come l’ “interrogazione” e l’ “apostrophe”, che
nascono dall'affetto, ed alcune altre dall'ingegno, come l'”antitesi”
(contrapposizione) e la distribuzione; e che perciò vuolsi avvertire di non far
uso di queste seconde ne'luoghi, ove si possa credere che colui, che favella,
abbia l'animo perturbato. Ma nessuno avvertimento, per ' vero dire, è giovevole
a chi non sente nell'animo la forza degli affetti. Il più delle figure, come
detto è di sopra, muovono dalla passione, e, se dall'ingegno vengo. no cercal,
riescono fredde e di nessuna virtù: perciò è che male s'imparano da' rettorici.
Con più figure favella la rivendugliola, secondo il detto di un illustre
scrittore, contrattando sua merce, che il retſorico in suo studiato serino ne: tanto
egli è vero che procedono più dalla natura che dall'arte. Questo vogliamo che
ci basli aver dello così alla grossa delle figure. Dappoichè abbiamo detto in
che consista la proprietà dell’espressione e della metafore, e come queste e
quelle si debbano collegare per rendere chiaro ed accelto la mozzione
conversazionale a nostro compagno conversazionale, e fatto alcun cenno de'
traslati e delle figure, vérreio a dire, seguitando le dottrine di Palavicini,
degli elementi, onde è costituita la “eleganza” (cf. Grice, ‘aesthetic
maxims’), senza della quale ogni altro ornamento quasi vano riuscirebbe. L’espressione
“eleganza”deriva dal verbo “eligere” ed è usata a segnare quella certa tersezza
e gentilezza, per la quale una mozzione conversazionale non solamente viene ad
essere scevro da ogni errore, ma in ogni sua parte ornato di qualità che da
tutto ciò che ha del plebeo si allontana. Diciamo delle parti, delle quali ella
si compone, che sono quattro. La prima e la brevità (Grice, ‘be brief – avoid
unnecessary prolixity [sic].” La seconda e l'osservanza delle regole
morfosintattiche. Terzo, la civilita o l'urbanità. Quarta, la varietà
(non-detachability). Sebbene la chiarezza (conversational clarity, be
perspicuous [sic]) spesso si ottenga col l'ampio e largo mozzione
conversazionale, pure talvolta colla brevità si rende il pensiero più lucido e
più penetranti (Brevity is the soul of wit). Le parole, dice Seneca, vogliono
essere sparse a guisa della semenza, la quale comechè sia poca, molto
fruttifica. La sovrabbondanza (over-informativeness) delle parole all'incontro
empie le orecchie di vano suono (flatus vocis) e lascia vuote le menti. Perciò
è da guardare non solo che nostro compagno conversazionale non sia distratto da
una vana proposizione subaltern (premessa minore), ma che non sieno affetti più
da un segno che dall’idea segnata. Saranno perciò utili a togliere questo
inconveniente ed acconce a rendere elegante l'elocuzione quella espressione,
che somigliante alla moneta d'oro equivale al valore di più altre, come le
seguenti: disamare, disvolere, rileggere, ed altre molte, e con queste i diminutivi,
gli accrescitivi, i vezzeggiativi, i peggiorativi, de' quali abbonda la nostra
lingua. Vi sono ancora molti modi, che abbreviano la mozzione conversazione, e
questi consistono nel tralasciare o il verbo o il pronome o la particella o l’affissi,
che racchiusi nella diretta favella puo essere SOTTINTESO. (Implicatura). Basta
qui recarne alcuni ad esempio. Se io grido ho di che dammi bere quo ha di belle
cose onde fosti & cui figliuolo andovui il cielo imbianca - vergognando
tacque a baldanza del signore il baltè иот da faccende non se da ciò vedi cui
do mangiare il mio, ed altri moltissimi somiglianti modi, coi quali si ottiene
questa importantissima parle della eleganza, onde rice. ve nerbo l'orazione,
Avend’io delto che la brevità costituisce gran parte della eleganza, non intesi
di affermare che agli scrillori non sia lecito di esporre le cose
particolarizzando; chè questa anzi è l'arte colla quale si produce l'evidenza;
ma volli avvertire chi brama dilettare altrui colle proprie scritture, di ben
ponderare quali sieno le particolarità, che hanno virtù di far luminoso il
concetto, e di tralasciar quelle, che l'offuscano e pongono l’altrui mente in
falica. Secondo, dobbiamo eziandio osservare la regola morfosintattica, cioè
quelle leggi che la volontà de’ primi favellalori e l'uso di coloro, che
vennero dopo, banno imposto alla lingua italiana. Comechè il trascurarle non
induca sempre oscurità (avoid obscurity of expression) pure importa moltissimo
che sieno osservata, poichè ogni elocuzione irregolare apparisce plebea (un
solecismo). E perciò grande si è la stoltezza di coloro, che vando cercando
negli autori antichi i costrutti contro grammatica, e quelli come pellegrine
eleganze pongono nelle scritture: dal che ottengono effetto contrario al buon
desiderio: per ciocchè o portano oscurità nella sentenza, o in fastidiscono i
lettori facendo ridere gli uomini di lettere, non ignari che quelle strane
forme sono la più parte errori, o di amanuensi o di stampatori o di autori
plebei, de'quali non fu piccol numero anche nel bel secolo dell'oro (errata). Terzo,
siccome sono molli' vocaboli, secondo che è dello, i quali usati già da ' buoni
scrittori han no acquistata certa nobiltà e fanno nobile il conversare, così
pure sono molli modi, i quali, avendo in sè certa gentilezza, il fanno elegante,
e non essendo propri degli stranieri, gli danno quel paliyo colore, e direi
quasi fisonomia, per cui ciascuna favella da ogni allra si distingue. In che
precisamente sia riposta que sta vaghezza, che si chiama civilita o “urbanità”,
si è difficile dichiarare; e perciò assal meglio che con parole, si può
mostrare cogli esempi. Porrò qui dunque alcuni modi volgari, ed al fianco di
essi i moderni urbani o civile. Ciò che loro venisse in grado. A chicsa non
usava giammai. Seppegli reo. Ciò che loro piacesse. Non era solita di andare in
chiesa. Gli parve cosa calli va. Fece rivivere. Il prese per marito. “Era il
giorno in cui” -- Egli domandò al servo certa cosa. Ben io mi ricordo. A vila
recò. Il prese a marito. “Era il giorno che” – “Egli domandò il servo di certa
cosa” -- Ben mi ricorda, o ben mi torna a mente. Vicino di quell'isola.
Non-Upper: Viveva a modo di bestia. “Vicino a quell'isola” Upper: “Viveva come
una bestia” Moltissime sono le forme somiglianti a que ste, le quali, sebbene
non vadano per la bocca de ' comunali scrittori, pure sono chiare e naturali, e
per cerla loro indicibile gentilezza recano diletto. Vogliono però essere
parcamenle adoperate, perocchè in troppa copia ſarebbero il discorso ricercato;
e questo difetto dobbia mo schivare anche a pericolo di parere negligenti. La
negligenza è mancanza di virtù (salvo quando e falsa – nulla piu difficile che
falsare la negligenza), che rende meno lodevole il discorso, ma non meno
credibile: e l'affettazione è deforme vizio, che al dicitore toglie autorità e
fede. Modo più sconcio si è quello di coloro, i quali, per vaghezza di parere
eleganti ed SUO esperti della PATRIA LINGUA – LINGUA PATRIA -- patria lingua,
compongono prose con parole e modi fuor d'uso, e costruzioni contorte alla
boccaccesca; e della stessa guisa fanno versi oscuri e senza grazia e senza per
bo, e si argomentano poi di avere imitato Aligheri o Petrarca. Ma che altro per
verità fanno costoro, se non se muovere a sdegno i buoni ingegni, e dare
occasione al volgo di ridersi di quei pochi, che studiano a’libri antichi?
Un'altra generazione di scrillori (e questa è dei più ), alzato il segno
dell'anarchia, gridando che l’USO è l'ARBITRO della lingua (Wittgenstein), si
fa beffe di ogni gentilezza e di ogni proprietà: guida per entro l'idioma
nativo parole e forme forestiere, e il guasta sì, che non gli lascia di se non
la sola terminazione delle voci. Cosi due sette di contraria opinione
vorrebbero partire la repubblica letteraria. L'una tiinida e superstiziosa restringe
la lingua a que' termini, in cui stette nel trecento: l'altra licenziosa ed
arrogante vuole che ogni ar gine si rompa sì, che le purissime fonti del civil
conversare si facciano torbide e limacciose. Affinchè appaia manifesto il torlo
di questi se diziosi, dirò che cosa sia lingua; e dalla sua definizione trarrò
alcune conseguenze. La serie de' segni e dei modi vocali instituiti a rappre
sentare ogni generazione di pensieri, o, per meglio dire, ad esprimerc tulle
quante le idee, ond’è formata la scienza di una patria, è ciò che dicesi lingua
(come l’italiano dal latino, o il pidgin e il creole che e il francese). Da
questa definizione si deduce che nè una sola città nè un'età sola può essere
autrice e signora della lingua italiana – Roma e la citta della lingua romana;
ma che è forza che alla formazione di questa abbia avuto parte la nazione
intera, cioè tutti gli uomini congiunti di luogo e di costumi, che hanno idee
proprie da manifestare; e che a scernere il fiore dalla crusca abbiano dato e
diano opera gl'illustri scrittori. E così avvenne di vero nella formazione e
nell'incremento di questo, che Alighieri chiamò, ironicamente, il volgare
d'Italia, poichè, come dice BEMPO, e un siciliano e un Pugliese e un Toscano e
e un Marchegiano e un romagnolo e un lombardo e un veneto vi posero mano. Tutte
le parole dunque per tal guisa formate, che vagliono ad esprimere con chiarezza
i pensieri, potranno essere con lode usate, sieno elle an tiche o moderne; chè
le moderne ancora deb bono essere benignamente accolle, quando sie no
necessarie a segnare una idea novella. Quella facoltà, che fu conceduta agli
antichi, non si può togliere ai presenti uomini; perciocchè, se non si possono
prescrivere limiti all'umano sapere, nè meno alla quantità dei segni delle idee
si potrà prescrivere (quark, querk). Per la qual cosa ſu e sarà sempre lecito
a' sapienti, qualvolla la necessità il richiegga, l'inventare una nuova
espressione (“Deutero-Esperanto”) e un nuovo modo. Questa risposta è alla selta
dei superstiziosi. Ora ai libertini (Bennett – meaning-liberalismo –
libertinismo semiotico – Locke – liberty) brevemente diremo che la lingua
italica non è la lingua del volgo, ma, come è delto, si è quella, che gli
illustri scrittori di ogni secolo hanno ricevuta per buona, e che perciò quando
si dice che appo l'uso è la signoria, la ragione e la regola del parlare, non
si vuol dire l'uso del volgo, ma de' buoni scrittori. I più antichi die dero
vita e forma alla lingua romana, ed i posleri loro la arricchirono e la
potranno arricchire, non senza grande biasimo potranno toglierle l’essere suo.
Siccome ad ogni mazione è spe ma ciale la fisonomia e certa foggia di vestire,
cosi e speciale al idio-letto le voci ed i modi propri e figurati, i quali
hanno attenenza co'diversi costumi delle diverse genti; e perciò coloro, i
quali vogliono introdurre licenziosamente nell'idioma nativo espressione e modi
forestieri – implicate, non impiegato -- operano “contro ragione”, e, mentre ambiscono di essere tenuti uomini liberi
e filosofi, fanno mostra d'obbrobriosa ignoranza. Non si lascino dunque
sopraffare i gio vanelli da quei beffardi filosofastri, che con trassegnano per
derisione col nome di purista chi studia scrivere italianamente; ma alla co
storo petulanza coll'autorità di CICERONE ri spondano arditamente che colui, il
quale la patria favella vilipende e deforma, non solo non è oratore, non è
poela, ma non è uomo (CICERONE, de orat.). Quarta e ultima, se le parole
fossero sempre composte ugualmente, non sarebbero graziose a chi ascolla o
legge; e perciò un altro elemento della eleganza si è la variet. Il discorso può
ricevere varietà da sei luogh, che ad uno ad uno ver remo a dichiarare
brevemente, seguitando Pallavicini. Accade tante volte di dover nominare replicatamente
la cosa medesima, e ciò produce noia agli orecchi, i quali sopra tutti i sentimenti
del corpo sono vaghi di varietà; onde per isfuggire la ripetizione delle voci
sono molto giovevole il sinonimo, quando la piccola differenza, che è in essi,
non tolga al discorso laproprietà necessaria; per non peccare contro la quale
sarà mestieri aver considerazione, co me allrove si è detto, al vero
intendimento de vocaboli. Se, a cagion d'esempio, dovendo si cambiare
l’espressione “fanciullo”, si prendesse l’espressione “infante”, si osserverà
che questa, venendo dal verbo fari, segna non parlante, e che perciò non può strettamente
essere sempre sostituita a quella di “fanciullo”. Il secondo dai sei luogo
della varietà sta nel ra presentare una cosa pe' suoi effetti congiunti, come,
a cagion d'esempio, se poeticamente dicessimo; il sole velava i pesci, per dire
era il fine dell'inverno: al germogliare delle piante, per dire al tornare
della primavera. Con somma grazia e novità Aligheri rappresentò la sera pe'
suoi effetti dicendo: Era già l'ora, che volge il desio a' naviganti, e
inlenerisce il core lo di, che han detto a' dolci amici addio; E che lo nuovo
peregrin d'amore punge, se ode squilla di lontano, Che par il giorno pianger,
che si muore. Questo fonte di varietà è abbondantissimo, e possiamo vederne un
esempio in Bernardo Tasso, che in cento modi segna il sorgere del giorno. Nel
rappresentare le cose pe' suoi effetti porrai cura che questi non destino al
cun pensiero sordido od abbietlo, e che nel le scritture famigliari la
congiunzione loro coll'oggetto sia mollo nola, sicchè non paia puplo ricercata.
Il terzo luogo dai sei modi sono le definizioni o epiteto o apposizione delle
cose, o sia le brevi descrizioni loro, le quali si possono prendere invece
delle cose stesse, o que ste indicare per alcuna loro speciale proprietà; come
chi per nominare Giove dicesse il padre degli uomini e degli Dei, o per dire la
fortuna, Colei, che a suo senno gi infimi innalza ed i sovrani deprime. Il
quarto luogo dai sei modo si è l'uso promiscuo del signato attivo, medio, o
passivo da un verbio Potrai dire: Raffaele colori questa tavola, ovvero, da
Raffaele fu colorita questa tavola; e secon do che chiederà il bisogno, userai o
questo o quello segno. Il quinto luogo dai sei luoghi è la qualita (categoria
d’Aristotelel'uso negativo (o infinito – privazione) invece dell’affirmativo o
positivo; come chi sosliluisse alla proposizione positiva o affirmative
seguente, ma con signato negativo: Il sole si oscurò, quest' altra proposizione
splicitamente negative, per mezzo dell’adverbo di negazione, “non”: Il sole non
isplendette”. Il sesto luogo dai se luoghi e la metafora (you’re the cream in
my coffee), per la quale si può maravigliosamente variare il discorso, ora volgendo
in “senso” (segnato, strettamente) metaforico – Sensi non sunt multiplicanda
praeter necessitatem – uso metaforico -- un concetto allre volle espresso con
termini propri: ora usando una metafora tolta o dal genere o dalla specie o da
cose animate o da cose inanimate: ora quelle, che si presentano ai sensi: ora
le altre, che si riferiscono agli altri sentimenti del corpo. Ornamento, dal
quale l'elocuzione riceve molta gravità, e la sentenza. La sentenza o dogma o
assioma o principio o adagio o gnomico o proverbo (“Methinks the lady doth
protest too much” what the eye no longer sees the heart no longer grieves for”)
si è verità morale ed universale, segnata con la brevità, che all'intelletto
sia lieve il comprenderla ed il ritenerla. Tali sono le seguenti. Ipsa quidem
virlus sibimet pulcherri. ma ncrces. Quidquid erit, superanda omnis for tuna
ferendo est. La mala ineple non ha mai allegrezza di pace. Proprio de'tiranni è
il temere. La buona coscienza è sempre sicura. Avvegnachè la sentenze sia più
accomodata a quella conversazione che tratta di materie gravi, nulladimeno
possono adornare molte altre specie di componimenti, e perfino le lettere
famigliari, se ivi con moderazione sieno adoperate. Dico che sieno adoperate
con moderazione, perchè il soverchio uso delle sentenze, anche nelle materie
più gravi, è indizio che lo scrittore vuol ostentare sapienza, e perciò il fa
parere affettato. In cotal vizio cadde ro molli scrittori del secol nostro, i
quali me ritamente furono tacciali di “filosofismo” di Borsa, che in una sua dissertazione ra giopò
del presente gusto degl'italiani. Scon venevolissimo è l'abuso e talvolta anche
l'uso della sentenza pe' discorsi, che trattano di cose mediocri o umili. Ma
che diremo poi росо senno di coloro, che guidano in teatro i servied altre persone
rozze ed agresli a parlamentare ed a spular tondo, come se dal pergamo
predicassero? Questo è modo tanto sconcio, che il volgo slesso ne rimane
infastidito, on d'è qui da passare con silenzio. È da lodarsi segnatamente
nelle opere morali o politiche l'elocuzione, che a quando a quando sia ornata,
ma non tessuta di sentenze, la copia soverchia delle quali, stanca i lettori
invece di sollevarli, come si può sperimentare leggendo le opere morali di
Seneca. Lo scrittore dal quale più che da ogni altro si apprende a fare buon
uso della sentenza, è Cicerone, nelle cui filosofia mai non pare che quelle
sieno condotte nel discorso a pompa, ina sempre vi nascono naturalmenle per
recar luce e diletto. Diciamo alcuna cosa anche del concetto, onde viene grazia
o piacevolezza ai componimenti. Concetto propriamente si dice una certa
proposizione, che per essere nuove ed espresso con brevi parole recano altrui
diletto e maraviglia e scuoprono il sottile ingegno di chi le dice. Ve n'ha di
due maniere. La prima è dei delti gravi, l'altra dei ridevoli, che con proprio
nome si chiama una facezia. Gli uni e gli altri nascono da’ medesimi luo ghi, e
differiscono, secondo Cicerone, solamente in questo: che i gravi si traggono da
cose oneste; i ridevoli da cose deformi o alcun poco turpi: ma pare veramente
che a far ri devole un dello, sia necessario, il più delle 1 volle, che esso
comprenda in sè alcune idee discrepanti congiunte insieme di maniera, che la
congiunzione loro ben si convenga con una terza idea. Ciò sia chiaro per un
esempio. Un buon ingegno de' nostri tempi fcce incidere in rame la figura di un
vecchio venerabile con lunga barba, vestito alla francese, ornato di frangie e
di feltucce e tutto cascante di vezzi, e sotto vi pose queste parole. Traduzione
d' Omero di M. C. Tultii ne fecero le risa grandi. Se il ridicolo di questa
figura consistesse nel solo accoppiamento dell'imagine dell'uomo antico e grave
con quella de' giovani leziosi, ci ſarebbe ridere anche l'imagine di una sirena,
che è composta di due contrarie nature; lo che per verità non accade, ed accadrebbe
solamente qualora si dicesse che la bella donna, che termina in pesce, figura
delle folli poesie ricordate da Orazio nella Poetica. Pare dunque manifesto che
il ridicolo di sì falta deformità si generi dalla convenienza che è tra esse e
la cosa, cui si vogliono assomigliare. Per ciò s'intende quanto diriltamente Castiglione
dichiari che si ride di quelle cose, che hanno in sè disconvenienza, e par che
slieno male senza però slar male. Affinchè prima di tutto si vegga che da’ luoghi,
donde si cava la grave sentenza, si possono ancora cavare i molli da ridere, re
cherò l'esempio, che ne dà Castiglione. Lodando un uom liberale, che fa comuni
cogli amici le cose proprie, si polrà dire, che ciò ch'egli ha, non è suo: il
medesimo si può dire per biasimo di chi abbia rubato, o con male arti
acquistato quello che tiene. Di un buon servo fedele si suol dire: non vi ha
cosa che a lui sia chiusa e sigillata: e que sto similmente si dirà di un servo
malvagio destro a rubare. Le maniere de concelli ingegnosi sono pres sochè
infinile, e di moltissime ha ragionalo Cicerone nel terzo libro dell'Oratore,
ma noi toccheremo qui solamenle alcune principali. Cicerone distingue
primieramente le maniere graziose, che consistono nelle parole, da quelle che
stanno nella cosa, o che si esprimono col parlare continuato. Egli dice che
consistono nella cosa quelle (sieno gravi o piacevoli ), che mulale le parole
non cessano di generare maraviglia o riso: tali sono le narrazioni verisimili,
e fatte secondo il costume e le varie condizioni degli uomini, e di queste
molte ve n'ha nel Decamerone di Boccaccio. Una seconda consiste nella
imitazione de’ costumi altrui fatta per modo di parlare continuato, come quella
che fece Crasso, il quale in una sua orazione contraffacendo un uom supplichevole
con queste parole, per la tua nobiltà, per la tua famiglia, ne imitò cosi bene
la voce e gli alti, che mosse la gente a ridere; e proseguendo, per le statue,
distese il braccio, ed accompagnò la voce con geslo e con imitazione si
naturale, che le risa scoppiarono maggiori. Queste sono le due maniere, che
consistono nella cosa, e che si esprimono col parlar continuato. Quelle che maggiormente
si attengono alla materia che qui si tratta sono le maniere di que'concetti, la
grazia de quali sta nella parola. Recbiamone esempi. Alcuni molli graziosi si generano
in virtù della metafora. Avendo Lodovico Sforza duca di Milano eletta per sua
impresa una spazzetta, con che voleva segare se essere disposto a cacciare dall'Italia
gli oltremontani, domanda alcuni ambasciatori fiorentini, che loro ne paresse.
Quelli risposero. Bene ce ne pare, salvochè molle volle avviene che chi spazza
tira la polvere sopra di sè. Più grazioso ė il motto, quando ad alcuno, che
metaforicamente abbia parlato, si risponde cosa inaspettata continuando la metafora
stessa. Tale si fu detto il Cosimo de' Medici, il quale a' Fiorentini
ſuoruscili, che gli mandarono a dire che la gallina cova, rispose. Male potrà
covare fuori del nido. Anche il paragonare cose vili e piccole a cose grandi è
spesso cagione di ridere, come in questi versi del Berni: E prima, iodanzi
tutto, è da sapere che l’orinale è a quel modo tondo, Acciocchè possa più cose
tenere, E falto proprio come è falto il mondo. Dobbiamo in questa maniera della
facezia guardarci dal fare sovvenire il compagno conversazionale di cose laide
e stomachevoli, affiochè la piacevolezza non degeneri in buffoneria: lo che
sovente accade a coloro, che non sono piacevoli per naturale disposizione. Molti
molti ridevoli si formano per via di iperbole [“Every nice girl loves a
sailor”] accrescendo o diminuendo alcuna cosa. Diminui ed accrebbe a un tempo
le cose Cicerone parlando giocosamente di suo fratello, che essendo di piccola
slatura aveva cinto il fianco di una spada' smisurata. Chi ha, disse, cosi legato
mio fratello a quella spada? Dall’equivoco procede spesso i motti freddi ed
insulsi, ma spesse volte ancora gli arguli. Argulo parmi il seguente in biasimo
di una donna, che fosse di molli. Ella è donna d'assai: il qual molio potrebbe
ancora essere usato per lodare alcuna femmina prudente e buona. Molla venustà è
in que’ delli, che invece di esprimere due cose ne esprimono una sola, per la
quale l'altra s'intende (IMPLICATURA, SOTTITESSO). Assai leggiadro è questo in cui si favella di un'amazzone dormiente,
recato ad un esempio da Demetrio Falereo: in terra aveva posto l'arco, piena
era la faretr, e sotto il capo aveva lo scud: il cinto esse non isciolgono mai.
Similmente è grazioso il nominare con buone parole le cose non buone, come fece
lo Scipione, secondo che narra M. Tullio, con quel centurione, che non si era
trovato al conflitto di Paolo Emilio contro Annibale. Il centurione scusasi di
sua negligenza col dire. Io sono rimasto agli alloggiamenti per farli sicuri; perchè,
o Scipione, vuoi dunque tormi la civiltà? Cui rispose Scipione. Perchè non amo
gl;uomini troppo diligenti. Sono assai argute quelle risposte, per le quali si
DEDUCE da una medesima cosa il contrario di quello che altri deduceva. Appio
Claudio dice a Scipione. Lo maraviglio che un uomo ďalto affare, quale tu sei,
ignori il nome di tante persone. Non maravigliare, rispose Scipione, perocchè
io non sono mai 69 blato sollecito d’imparare a conoscer molti, ma a far si,
che molti conoscano me. Per egual modo Parnone rispose a colui che chiamava
sapientissimo il tempo: Di pari dunque potrai chiamarlo “ignorantissimo”, perchè
col tempo tutte le cose si dimenticano. Il concetto della risposta
conversazionale può essere grazioso solamente perchè racchiude alcun
insegnamento non aspettato da colui che fa la domanda. Fu chiesto ad uno spartano,
perchè si facesse crescere la barba, e quegli rispose. Acciocchè mirando in
essa i peli canuli io non faccia cosa, che all età mia disconvenga. Hauno
grazia similmente alcuni detti, perchè mollo convengono al costume della
persona, alla quale si attribuiscono. Essendo un colal uomo beone caduto
inſermo, era assai mole stalo dalla sete. I medici a piè del suo letto parlavano
tra loro del modo di trargli quella molestia, quando l'infermo disse: Ponsate
di grazia, o signori, a togliermi di dosso la febbre, e del cacciar via la sete
lasciate la briga a me solo. loducono a ridere anche que’ detti, che procedono
da sciocchezza o goffezz, finta o vera che ella sia. Tali sono le due seguenti
terzine di Berni: lo ho sentito dir che Mecenale Diede un fanciullo a VIRGILIO
Marone, che per martel voleva farsi frate; E questo fece per compassione, ch'egli
ebbe di quel povero cristiano, Che non si desse alla disperazione. si può
similmente cavare il ridicolo dalle parole composte di nuov, che esprimono al
cuna deformità del corpo, o dell'animo, come furono queste usate dal Boccaccio:
picchia. pello; madonna poco.fila; lava-ceci; bacia santi. Si falte maniere,
che direi quasi deſormità della lingua, poichè dall'uso si allonta pano,
essendo convenienti alla cosa segnata stanno bene, e perciò inducono a ridere e
han lode di graziose; ma se poi in forza dell'uso divengono proprie, perdono, a
somiglianza delle vecchie metafore, alquanto della grazia primiera. Osserva Demetrio
Falereo che la grazia del detto proviene alcuna volla dall'ordine solamente, quando
una cosa posta nel fine produce un effetto, che posta nel mezzo o nel principio
nol produrrebbe, o il produrrebbe minore. Egli reca l'esempio seguente di
Senofoole, che, parlando dei doni dali da Ciro a certo Siennesi, disse. Gli
donò un cavallo, una vesle, una collana, e che i suoi campi non fossero guasti.
L'ullimo dono è quello dove sta la grazia, parendo cosa nuova, che si donasse a
siennesi ciò che egli possedeva: se quel dono fosse stalo collocato prima degli
altri non avrebbe avuto grazia alcuna. Bello pel medesimo artificio ci pare un
detto di Benedetto XIV. Accomiatandosi da lui due personaggi di religione luterana,
egli avvisa di benedirli e di ammonirli. Era di vero assai agevol cosa il fare
che egli no ricevessero con grato animo quell'atto di amore paterno: ma il
venerabile vecchio ollenne il buon effetto parlando così. Figliuoli, la
benedizio ne de vecchi è acceita a tutte le genti; il Signore v'illumini.
Ingegnosissimo si è que sto detto per l'ordine suo maraviglioso. Colla prima
affeltuosa parola, “Figliuolo,” il papa procacciasi la benevolenza del compagno
conversazionale. Nella sentenza, la benedizione de’vecchi è accetta a tulle le
genti, chiude la prova della con venevolezza di ciò ch'egli vuol fare. In quel
l'io io vi benedico, trae la conseguenza delle promesse. Nella precazione poi
ripiglia la dignità di pontefice, che accortamente aveva quasi deposta da
principio e solto cortesi pa role nasconde il documento, che a lui si ad dice
di porgere a chi è fuori della chiesa romana. Questo ci basti d'aver ragionato
pei delli graziosi e piacevol, chè il voler parlare di tulle le maniere loro o
semplici o miste sarebbe officio di chi volesse trattare solamente di questa
materia: e diciamo con maggior brevità de’ concetli sublimi. Alcuni haimo chiamato
sublime qualsivoglia concetto, coi nulla manchi di grazia e di perfezione; ina
qui si vuol prendere la parola nel segnato, in che viene usata da ' più de' moderni
reltorici e perciò così detiniamo i concetto sublime. Concetto sublime si
dicono quelli, che rappresentano con brevi parole l'idea di alcuna potenza o
forza straordinaria, per la quale chi ode resla compreso di alla maraviglia.
Tali sono i seguenti. Giove nel primo libro dell'Iliade promette a Teli di
vendicare Achill, e dopo il conforto delle sue parole i neri Sopraccigli
inchinò: sull immortale Capo del sire le divine chiome Ondeggiaro, e tremonne
il vasto Olimpo. Questo concetto, il quale ci fa maravigliare della potenza di
Giove, cesserebbe di essere sublime se con lunghezza di parole fosse segnato:
perchè quella lunghezza sarebbe contraria alla rapidità dell'alto divino e farebbe
che il pensiero del poeta non venisse improvviso alla mente di nostro compagno
conversazionale, che è quanto dire non generasse maraviglia. Sublime è ancora
quel luogo di T. LIVIO nella allocuzione di Annibale a Scipione. Ego Annibal
pelo pacem, poichè la parola Annibal reca al pensiero la virtù, le imprese, la
fero cia di quel capitano. Medesigiamente si fa maniſesta una straordinaria
fortezza di animo ne'due luoghi seguenti. Seneca, nella Medea, fa dire alla
nudrice: Abiere Colchi: conjugis nulla est fides, Nihilque superest opibus e
tantis tibi. Medea risponde: Medea superesto Corneille, ad imitazione di Senec:
Nerine: Dans un si grand revers que vous reste- t- il? Med. Moi. In luogo del
nome di Medea il poeta francese pose il pronone, ed ottenne effetto maraviglioso
e colla brevità e con quella cotal pienezza di suono, che è nella voce “moi”.
Il poeta latino col nome di Medea desta nel compagno conversazionale la memoria
della potenza, della sapienza e della magnanimità di quella maga. Divisata così
la natura de' motti graziosi e piacevoli e de' sublimi, e restando a dire al
cuna cosa dell'uso, che se ne può fare, ripe teremo ciò, che già detto abbiamo
delle sentenze, cioè che lo scrittore si guardi dal fare troppo uso de'
concetti ingegnosi e graziosi e de' sublimi, poichè non è cosa tanto contraria
alla grazia e alla grandezza, quanto l'artificio manifesto e l'affettazione. Le
grazie si dipinsero ignude appunto per insegnare che elle sono nemiche di tutto
che non è ingenuo e naturale. La grandezza similmente non va mai disgiunta
dalla semplicità, e piccole appaiono sempre quelle cose, che sono piene
d'ornamenti; imperciocchè la mente soffermandosi in ciascun d'essi riceve molle
e divise imaginet le in luogo di quella imagine sola, che ci rappresenta la
cosa continuata ed una. Male adoperano coloro che non avendo rispetto alla
materia, di che favellano, nè alle persone ne alla modestia nè alla gravità
conveniente allo scrittore, colgono tutte le occasioni, che loro porgono o le
cose o le parole, per trar materia di motleggiare; perocchè invece di mo strare
acutezza d'ingegno appaiono loquaci ed insulsi. Che dovrà dirsi poi di que, che
abusano dell'ingegno per empiere le scritture di freddi e falsi concelti, di
riboboli, di bislicci e d'indovinelli? di que', che tengono per finis sime
arguzie le allusioni delle parole, che erano la delizia del Marino e de' suoi
seguaci? Diremo che nali non sono per ricreare gli ani mi e sollevarli dalla
fatica, e per indur ſesta e riso, ma per noia, fastidio e sfinimento di chi è
costretto di udirli. Se il discorso si fa strada all’animo per gli orecchi, è
necessario che egli sia accompagnato dall' armonia, della quale niuna cosa ha
maggior forza negli uomini. L'armonia ci dispone al pianto e all'ira, e ci
rallegra e ci placa; e lulle le genti, avvegnachè barbare, sono tocche dalla
dolcezza di lei; laonde gran de mancamento sarebbe, se lo scrittore ad ac
crescere efficacia alle sue parole non se ne valesse. Dalla greca voce d.gpótely
(armosin), che segna connettere, è derivata la voce “armonia”. I maestri di
musica insegnano, che essa consiste nell'accordo di più voci sonanti nel
medesimo punto; ma coloro, che parlano del l'arte retorica e della poelica,
presero questa parola quasi nel significato, che i maestri di musica prendono
quella di melodia, come si vede aver fatto Aristotele, che usò in questa
significazione ora la voce melos, ora la voce armonia. La melodia consiste
nella altenenza, che hanno rispettivamente i gradi successivi di un suono nel
salire dal grave all'acut: e noi direino che rispetto al discorso l'armo nia
sta nell'altenenze delle lettere o delle sil labe o delle parole, che si
succedono con quel la certa legge che si affà alla natura dell'or gano
dell'udito. L'armonia, di che parliamo, è di due maniere, semplice o imitative.
L’una ba per fine soltanto la dileltazio ne degli orecchi, l'altra, oltre la
dilettazione degli orecchi, la imitazione del suono e dei movimenti delle cose
inanimate e delle animate, e quella degli umani affetti: colle quali imitazioni
inaggiormente ella si rende accetta all'intelletto e gli animi sigrioreggia. La
dilettazione degli orecchi si ottiene con parole costrutte e disposte in modo
analogo, come è dello, alla natura dell'organo del l'udito e fuggendo tutte le
voci e tutti gli accozzamenli di esse, che producono sensazio ne spiacevole.
L'imitazione poi si fa adope. rando e componendo suoni o gravi o acuti o inolli
o robusti, secondo che meglio si affanno a ciò che si vuole imitare. Diciamo
alcuna cosa più largamente e dell' una e dell'altra armonia, l’armonia semplice
e l’armonia composita o imitativa. Le parole, le quali, come tutti sanno, si
compongono di vocali e di consonanti, sono più o meno armoniche, secondo che le
lettere delle due specie suddelte si trovano disposte con certa proporzione. Le
vocali fanno dolce il vocabolo le consonanti robusto. Ma le troppe vocali, che
si succedono, producono quel suono spiacevole, che si dice iato; le troppe
consonanti fanno le parole aspre e diſficili a pronunciare: così l'incontro
delle sillabe somiglianti produce la cacofonia, Circa le parole non molto
armoniche, ma approvate dall' uso, diremo chę elle non si banno a rigettare; ma
si deve aver cura di collocarle in guisa, che il loro suono disarmonico serva
al l'armonia di tutto il discorso. Anzi sono da commendare quelle lingue che
ricche si trovano di vocaboli diversi di suono, i quali, giunti insieme con
bell'arte, sogliono rendere maravigliosa l'armonia del conversare. Sebbene,
circa l'arte del collocare le parole con armonia, non possa darsi maestro
infuori dell' orecchio avvezzo alla lettura de' classici scrittori, pure non
sarà del tutto vano il dire più particolarmente alcuna cosa delle parti, onde
l'armonia si coropone. E prima di tutto è a sapere che l’altenenza tra le
lettere, le sillabe e le parole, dalle quali risulta l'armonia, sono di due
ragioni: cioè altenenze di tempo, poichè si pronunciano o in tempi uguali o
disuguali; e attenenza di suono, poichè ogni sillaba differisce dall'altra per
aculezza e gravità e per più o meno di dolcezza o di asprezza. Diciamo prima
delle attenenze di tempo. Pie chiamamo I LATINI quella certa quantità di
sillabe, che pronunciandosi in tempi eguali, si potevano misurare colla battuta
del piede nel modo che oggi ancora fanno i suonatori. E, poichè si
pronunciavano più o meno sillabe (attesa la varia conformazione delle parole)
in ispazi uguali di tempo, avvenne che lunghe si dissero quelle che occupavano
la maggior parte del tempo misurato dalla battuta, e brevi le altre, che
occupavano la parte minore. “Coelum”, per esempio, si compone di due sillabe e
si pronuncia in ugual tempo che ful-mi-na, che è di tre: perciò coelum è un
piede di due lunghe, e ſulmina è un pie de di una lunga e di due brevi. I piedi
sono di molte specie, e ciascuna ha il suo nome. Ve n'ha de' semplici di due
sillabe, che sono o due brevi o due lunghe, una breve e una lunga, o una lunga
e una breve: ve n'ha di tre sillabe, che per la varia combinazione delle brevi
e delle lunghe risultano di otto specie: ve n'ha finalmente più di cento specie
dei composti, cioè formali dall' unione di due piedi semplici.
Dall'indelernipala quantità di piedi disposti con legge analoga alla natura
dell'organo del l'udito umano, la qual legge si sente nell'anima e definire non
si può, nasce il numero; e similmeple dall ' unione determinata di varii piedi,
i versi, che sono molle maniere, se condo la qualità de' piedi, onde sono
composti. Dalla varia qualità e quantità de’ versi nascono poi le differenti
specie del metro. A rendere armonioso il verso si congiunge al pu nero il
suono, che, siccome abbiamo accennato, si genera dalla proporzione, con che
sono di sposte le consonanti e le vocali. Da ciò nasce che, sebbene talvolta i
versi abbiano il medesimo número, non hanno il medesimo suono, ma variano nella
loro armonia maravigliosamente: per la qual cosa interviene che dalla unione di
molti versi che abbiano il medesimo numero, come a cagion d'esempio, di
esametri, si possono generare molle ed assai varie armo pie: la diversa upione
di queste armonie di cesi, “ritmo”. Come nella poesia dal ipovimento di molti versi
upili nasce il ritmo poetico, così da quello di minuti membri d' indeterminala
mi sura nasce quello della prosa, il quale pure è di varie sorla, siccome
avremo occasione di osservare in appresso. Ora veniamo a dire del l'armonia
della favella italiana. Gl’italiani non hanno determinata la quantità nelle
sillabe, come si vede aver fatto i latini, per la qual cosa nemmeno i piedi
hanno potuto determinare. Alcuni letterali del sesto decimo secolo, fra' quali
il Caro, tentarono di rinnovare fra noi i versi esametri ed i pentametri, ma
quanto poco (per la in sufficienza della lingua nostra) al buon volere rispondesse
l'effett, apparirà dai seguenti versi di Claudio Tolomei, i quali, se non sono
molto aiutati dall'arte del recitante, non possono ricevere soavità. Ecco il
chiaro rio, pien eccolo d'acque soavi, Ecco di verdi erbe carca la terra ride. Scacciano
gli alni i soli co' le frondi e co'ra (mi coprendo; Spiraci con dolce fato
auretta vaga. A noi servono invece di piedi le sillabe é gli accenti, e quindi
è che da un determinato numero di sillabe e da una determinata positura di
accenti nasce il numero, onde si generano molte specie di versi. Omettendo le
di spute de'rettorici e le loro opinioni circa questa materia, faremo qui alcun
cenno solamente rispetto agli accenti. Le parole sono di una o più sillabe: se
di una soltanto, l'accento è su quella, come in tu, me, no, si: se di più o
egli è nell'ullima, come in mori, o nella pri 79 ma, come in tempo, o nella
penullima come in andarono, o prima di essa, come in concedea glisi. L’indicati
accento si dice “acuto”, perchè alzano la pronuncia: dove questi non sono, si
trova il “grave”, che l'abbassano. Gli acuto e il grave alzando ed abbassando il discorso, por tano
seco certa proporzione di tempo, e perciò tengono fra noi il luogo de' piedi
Jalini, e formano varie specie di versi, che, secondo, la quantità delle
sillabe, si dicono o pentasillabi o senarii o seltenarii o ottonarii o
novenarii o decasillabi o endecasillabi. Dalle varie unioni di questi nascono i
diversi metri. E il ritmo nasce nel modo, che si è detto parlando della lingua
latina, e circa il verso e circa la prosa. Non si contenta l'animo upano
dell'armonia, onde è ricreato solamente l'orecchio, ma gran demente si piace di
que' suoni, che più vivamenle ci pougono innanzi il segnato; e questo
specialmente egli ricerca nella poesia, la quale o avendo, o mostrando di avere
per suo principal fine il diletto, dee apparire più d'ogni altro discorso
ordinala, e splendida: sarà quindi utile cosa l'investigare quale sia la virtù
imitativa delle parole. Questa e l’armonia imitativa. Dalla mescolanza delle
lettere liquide e delle vocali risulta infinita varietà di vocaboli dell’imitazione
delle grida, de’suoni, de’romori e de’movimenti, e chi, porrà mente alla nostra
lingua troverà, secondo che osserva BEMPO, voci sciolle, languide, dense,
aride, morbide, riserrate, tarde, mutole, rolle, impedite, scorrevoli e
strepitanti. Perciò è che variando la composizione di questi suoni si potranno
ordinare.e versi e ritmi, che ogni grido o romore o movimento vagliano ad imi.
tare. Jofinili esempi bellissimi di si ſalta imi. tazione sono nella Divina
Commedia: ma basti qui la sola descrizione dello strepito, che ALIGHIERI udi
nell'Inferno: Quivi' sospiri, pianti, ed alti guai risonavan per l'äer senza
stelle, Perch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole
di dolore, accenti d'ira, voci alte ' e fioche, e suon di man con elle facevano
un tumulto, il qual s'aggira sempre in quell'aria senza tempo tinta, Come
l'arena, quando il turbo spira. Del medesimo genere sono i seguenti versi del
Poliziano. Di stormir, d'abbaiar cresce il romore: Di fischi e bussi tutto il
bosco suon: Del rimbombar de' corni il ciel rintrona. Con tal romor, qualor
l'äer discorda, Di Giove il foco d'alta nube piomba: Con tal tumulto, onde la
gente assorda, dall'alte cataratte il nil rimbomba. Con tal orror del latin
sangue ingorda Sonò Megera la tartarea tromba.Il Parioi ci fece sentir il
guaire di una ca goolina, e il risponder dell' eco in questi bellissimi vers.
Aita, aita, Parea dicesse; e dall'arcate volte a lei l'impielosita eco rispose.
Siccome il succedersi delle parole ora va lento or celere, è manifesto che
questo, che si può chiamare movimento del discorso, ba somiglianza coi
movimenti delle cose, e che per ciò aver dee virtù d'imitare le azioni loro.
Recherò qui per maniera d'esempio alcuni luo ghi cavali da' poeti. Odesi il
furore e l'impeto del vento in questi versi di Dante: Non altrimenti fatto che
d'un vento Impetüoso per gli avversi ardori, Che fier la selva senza alcuu
rallento, E i rami schianta, abbatte, e porta i fiori; Dinanzi polveroso va
superbo, E fa fuggir le belve ed i pastori. Mirabilmente Virgilio descrisse il
tumullo dei venti all'uscire della grotta di Eolo: Qua data porta ruunt et
terras turbine per flant. Incubuere mari, totumque a sedibus imis Una Eurusque,
Notusque ruunt, creber que procellis Africus, et vaslos volvunt ad sidera flu
clus. Insequitur clamorque virum, stridorque rudentum. Fra i versi che
esprimono la caduta de corpi sono bellissimi i seguenti: E caddi come corpo
morto cade; il qual verso è cadente, come il corpo che cade. Insequitur
praeruplus aquae mons. In queste parole di Virgilio si sente il piom bare
dell'acqua precipitosa: ed eccellentemente fece sentire il medesimo suono il
Caro: E d' acque un monte intanto Venne come dal cielo a cader giù. In virtù di
quest'altro verso dello stesso Caro, una nave sparisce in un subito, e si sente
il romor dell'acqua che l'inghiotte: Calossi gorgogliando e s'aſfondò. Lo
stesso con una sola parola lunga e scor revole dipinse il procedere del carro
di Net tuno: Poscia sovra il suo carro d'ogni intorno Scorrendo lievemente,
ovunque apparve Agguagliò il mare e lo ripose in calma. Nelle seguenti parole
di Virgilio quasi sen tiamo a stramazzare il bue; Procumbit humi bos.
Dell’armonia che imita gli affetti col suono, Onde conoscere per qual modo gli
affelli vengano imitati dall'armonia, uopo è d'inve sligare quali altenenze
essi abbiano col suono e quali col namero. In quanto alle altenenze si ponga
mente che ad ogni sorta di affetli risponde un particolar molo del l'organo
vocale, per cui si formano voci di verse secondo la diversità de' medesimi
affetli; all'allegrezza risponde il riso, alla mestizia il pianto; ed il riso
ed il pianto si manifestano con suono al tutto diverso: così presso tutte le
geoli la subita maraviglia è significata dal l'esclamazione ah, ovvero oh; il
lamento dall' eh, o dall’ahi; e la paura dall'uh. Que ste voci, che da
principio sono elfelti naturali delle aſſezioni dell'animo, diventano poi,
merce dell'esperienza, segni di quelle: per la qual cosa interviene che i
vocaboli composti di ma, niera, che facciano mollo sentire il suono di quelle
leltere, che alle predette voci primitive si assomigliano, avranno virtù
d'imitare o questa o quella affezione. Le parole, che s'in, nalzano per la a o
per l'o, che sono lettere di largo suono, saranno acconce ad esprimere
l'allegrezza e gli affetti nobili ed alli: quelle, che declinano per la é e per
l'i, che sono lettere di molle suono, saranno convenienti alla malinconia ed
agli umili e miti affetti. [ Omnis enim motus animi suum quemdam a natura habet
vullum, et sonum et gesium (CICERONE, de Orat. ). quelle, che si abbassano
nell' u potranno e sprimere le cose paurose e le perturbazioni dell'animo, che
ne procedono. Questa particolare virtù delle parole viene poi rafforzata dalle
attenenze, che le passioni hanno col numero. Volgendo la considerazione alle
varie passioni, si potrà conoscere che l' uomo'nell'ira è fatto impetuoso,
frettoloso nell'allegrezza, lento nella mestizia, svarialo nell' amore,
immobile nella paura. Quindi av. viene che la musica non solamente si giova
delle note gravi o delle acute, ma delle rapi de e delle tarde modulazioni a
risvegliare ogni sorta d'affetto. A somiglianza di quest' arte maravigliosa,
anche la naturale favella, il suono ed il numero adoperando, innalza o abbassa
gli accenli, rallenta od accelera il corso delle parole, secondo la natura
degli affetti, che di esprimere intende. Con quest' arte medesima l'accorto
scrittore compone i ritmi diversi secondo la tenuità o la gravità della
materia, e secondo le qualità della persona che parla. Ma di questo avremo
altrove occasione di favellare. Ora in confer. mazione di quanto abbiamo detto
intorno gli affetti, recheremo alcuni esempi. Come la lettera a innalzi il
verso e lieto il faccia, si può conoscere da quel solo verso del PETRARCA: Voi
ch’ascoltate in rime sparse il suono; il qual verso sarebbe rimesso se dicesse:
O voi, che udite in dolci rime il suono; sostituendo 1'i alla a. Veggasi come
Dante seppe significare uno stesso concetto con due diverse armonie, che
rispondono a due diversi affelti. Il conte Ugo lino sdegnalo, e Francesca d'
Arimino dolente dicono all’ALIGHIERIdi esser presti a rispon dere alla sua
domanda. Ma lo sdegnato dice con suono aspro e terribile: Parlare e lagrimar
vedrai insieme; e quella mesta con dolcissimo e tenue suono: Farò come colui
che piange e dice. Maravigliosamente esprime Dante con voci aspre lo sdegno: E
disse, taci, maladelto lupo, Consuma dentro le con la tua rabbia. La velocità
de' pensieri, che procedono dal l'aſſello, apparisce in questo esempio dello
stesso poeta: Dunque che è, perchè perchè ristai? Perchè tanta viltà nel core
allelte? Perchè ardire e franchezza non bai? Un verso, che esprime luogo
pauroso e cupo, si è questo: 10 venni in loco d'ogni luce mulo. Dove si vede
che se Dante, in vece di muto, avesse delto privo, il verso non avrebbe messo
nell'animo quel sentimento d'orrore. La e, che è lettera di suono lento, basso
ed oscuro, rende sommamente imitativi i se gucnti versi: Buio d'inferno e di
notte privata D'ogni pianeta solto pover cielo Quant' esser può di nuvol
tenebrata. In virtù di somiglianli armonie producono gli scriltori que'
maravigliosi effetti, che la più parte degli uomini sentono nell'animo, ene
ignorano il magistero. Di queslo cercai mani. festare la natura, non già perchè
io pensi che colui che scrive debba avere di continuo alle mani la regola; chè
anzi ho sempre creduto la dolcezza e proprietà del suono, al pari d'ogni allra
vaghezza poetica ed oratoria, nascere spontaneamente; ma questo volli fare,
perchè stimai che l'investigar le occulte ragioni del. l'arte aiuti l '
intelletto a dirittamente giudi carne, e quindi a formare quell'interior senso
si necessario a comporre lodevolmente, e quel l'abito, che prendono gli orecchi
alla lettura de'ben giudicati esemplari. Nulladimeno per compiacere agli
orecchi non si vuol mai turbare quell'ordine delle parole, in virtù del quale
diventa chiara l'elocuzione. Se per esprimere qualsisia o movimento o suono od
affello coll'armonia, o per formare un pe riodo numeroso e grave ci faremo
oscuri, nes suna lode al certo ce ne verrà. Nè solamente dobbiam sempre conciliare
l'ordine domandato dagli orecchi con l'ordine sopraddello, ma spesso ancora con
quello, che rende più evi. denti o più efficaci i concetti, del quale ora ci
rimane a parlare, siccome di sopra abbiamo promesso. Parliemo della
collocazione dell’espressione, per la quale si rende ‘efficace’ la mozzione
conversazionale. È manifesto che in ciascun periodo le pa role o le
proposizioni si possono, senza to gliere la chiarezza, alcuna volta posporre o
anteporre l'una all'altra in più maniere; ma è da por mente che, fra le molte
possibili permutazioni, poche sono quelle che meritino di essere lodate, e che
spesso una solamente si è l'ottima. Ho udito dire da molti che il più delle
volte l'ordine migliore delle parole nella proposizione si è l'ordine diretto,
e que sto in verità nell'italiana favella è spesso da preferirsi all'inverso,
segnatamente nei die scorsi didascalici o in quelli ove non si ma nifesta alcun
affetto; ma certo egli è che l'or. dine diretto (prescindendo dai mancamenti
che aver può rispello all'armonia) è alcuna volla degno di biasimo, siccome
freddo ed inefficace. A quale legge dunque dovremo ubbidire, ol. tre a quella
già stabilita circa la chiarezza e l'armonia, nel collocare le parole e le
propo. sizioni a fine di rendere più vive le descri zioni e più efficace
l'espressione degli affetti? La filosofia ci mostra che le idee tornano alla
mente associate in quell' ordine, che vennero all' anima per l'impressione
delle cose ester 88ne, o in quello, che si genera in virtù della forza
particolare di ciascuna idea, essendo che le più vivaci, o quelle che
maggiormente si attengono a' nostri bisogni, si risvegliano pri ma dell'altre;
e questo mostrandoci, ella ne insegna che, se vogliamo fedelmente ritrarre
nelle menli altrui cio che abbiamo veduto o imaginiamo di vedere, v ciò, che
sentiamo, ci è duopo di formare la catena delle parole se. condo quella delle
nostre idee, per quanto il comporta il genio della lingua. Questa verità
verremo ora con alcuni esempi mostrando, Si osservi primieramente nel seguente
esem pio, tolto dall'Ariosto, come nella descrizione delle cose, che non sono
in moto, sieno poste innanzi all'animo dell'ascoltalore quelle idee, che prima
farebbero impressione ne' sensi del riguardante, e poscia succedano a mano a
mano le altre secondo loro qualità e silo: La stanza quadra e spazïosa pare Una
devola e venerabil chiesa, Che su colonne alabastrine e rare Con bella
architellura era sospesa. Sorgea nel mezzo un ben locato altare, Che avea
d'innanzi una lampada accesa, E quella di splendente e chiaro ſoco Rendea gran
lume all'uno e all'altro loco. La prima impressione, che riceverebbero gli
occhi di chi mirasse un somigliante luogo, sa rebbe certamente la forma e
l'ampiezza di esso, e tosto occorrerebbe alla ' mente la cosa alla quale
somiglia, cioè la devota e venerabil chiesa: indi l'allenzione del riguardante
si indirizzerebbe alle parti del luogo più appari scenti, le colonne
alabastrine e rare: queste chiamano il pensiere a fermarsi alcun poco sulle
qualità dell'architellura, indi alle parli. più minute, cioè all'altare, alla
lampada, alla luce, che si spande d'intorno. Quanto giovi disporre le parole
nell'ordine, in che le idee sono naturalmente impresse nei sensi dalle
successive modificazioni delle ester ne cose, si può conoscere da questo
esempio di Virgilio, il quale, volendo rappresentare all'imaginazione nostra il
greco Sinone trallo al cospetto di Priamo, si esprime cosi: Namque ut conspectu
in medio turbatus, inermis Constitit, atque oculis Phrygia agmina circumspexit.
La collocazione di queste parole è secondo l' ordine, nel quale avrebbero
proceduto le sensazioni di colui, che avesse veduto cogli occhi propri sinone,
e che l'imagine di quella vista si riducesse a memoria. La prima cosa, che gli
verrebbe all'animo, sarebbe il luogo ov'era condotto Sipone, conspectu in
medio; indi la persona di lui colle sue più distinte qualità, turbatus, inermis;
poi l'azione, constitit; poi la parte del' vollo, che subito chiama a sè
l'altenzione del riguardante, co Die quella, che è indizio dello stato dell'ani
ma, oculis; poi le cose, sopra le quali gli occhi si volsero, Phrygia agmina;
infine l'ultima e lenla azione degli occhi dipinta colla tarda parola
circumspesil. go Un altro esempio dello stesso VIRGILIO dimo. slrerà come sieno
poste nel proprio luogo pro posizioni e parole. Ecce autem gemini a Tenedo
tranquilla per alla (Horresco referens ) immensis orbibus (angues Incumbunt
pelago, pariterque ad litora tendunt: Pectora quorum inter fluctus arrecta,
jubacque Sanguineae exsuperant undas: pars cae lera pontum Pone legit,
sinualque immensa volumine lerga. Fit Sonitus, spumante salo, jamque arva
tenebant; Ardentesque oculos suffecti sanguine et igni, Sibila lambebant
linguis vibrantibus ora. و Colui che fosse presente al descritto caso,
osserverebbe primamente di lontano due cose indistinte venir del luogo che gli
fosse al co spetto, gemini a Tenedo; indi le acque per le quali nuotassero,
tranquilla per alta; al l'avvicinarsi di quelle due indistinte cose, egli
comiocerebbe a distinguere il loro divincolare; poi ecco che le due cose, che
da prima indi stinte si mostravano, si vedrebbe essere due serpenti, angues, i
quali più s'accostano e più li vedi, e più discerni l'azione loro; prima del
gittarsi sul mare, poi del girarsi al lido, incumbunt pelago, pariterque ad
litora lendunt; ed a mano a mano più visibili la. cendosi le qualità de'
serpenti, si vedrebbero i pelti erti sui flutti ed alte le creste sangui. gne,
e il rimanente de'corpi con grandi volute nuolare, pectora quorum ec.
Finalmente udi rebbe il suono dell' acque, e ne vedrebbe le spume. Pervenuti al
lido i serpenli, discerne rebbe i loro occhi ardenli e sanguigni, ne
ascollerebbe i fischi, e vedrebbe a vibrare le lingue, fit sonitus ec. Per
l'addotto esempio maniſestamente si vede che nel collocare le parole secondo la
catena di quelle sole idee, che verrebbero al. l'animo di chi il descritto caso
avesse veduto, sta l'arte di rendere evidenti le descrizioni: di qualità che
all'uditore sia avviso non di udir raccontare ma di vedere cogli occhi pro pri.
Nel rappresentare colle parole le sole idee che vengono naturalmente all'animo
di chi mira le cose, e di chi è mosso dagli affetti, consiste l'arte del
particolareggiare: chi tra passasse Test limite cadrebbe nella prolissi tà, e
nella minutezza, la quale rende stucche voli que' poeti che eccessivamente
particola reggiando si pensano di produrre l'evidenza. Siccome poi le cose
hanno più o meno di forza sull'animo nostro a misura che più o meno vagliano a
concitare l'amore o l'odio, o a mettere timore; così interviene talvolta, che
esse al tornar che fanno alla mente tengono quell'ordine, che è secondo i gradi
della ri. spettiva loro forza. Perciò è che qualvolta le idee in virtù delle
parole sieno ordinate con formemente a siffatta legge, il discorso è caldo e
passionato; e freddo e di nessun efletto se l'ordine delle parole discorda da
quello delle idee. Nel libro IX dell'ENEIDE veggendo Niso l'amico EURIALO già presso
ad esser morto dai Rutuli, cosi esclama: Me me (adsum qui feci), in me conver:
tite ferrum, O Rutuli, mea fraus onnis: nihil iste nec, ausus, Nec potuit:
coelum hoc, et conscia si dera testor. Volendo il poeta esprimere le veemenza
della passione di NISO, soppresse il verbo interficile, e pose innanzi alle
altre la voce me quarto caso, poichè la prima idea, che viene all'animo del
giovanetlo, si è quella della propria persona, che egli vuole sacrificare per
l'amico suo; poi vengono le altre parole ordinata Diente seguitando la della
legge. Similipente PETRARCA: E i cor, che indura e serra Marle superbo e fero,
Apri tu, padre, inlenerisci e spoda. Se invece egli avesse dello: Apri tu,
padre, intenerisci e snoda I cor, che indura e serra Marte superbo e ſero,
l'elocuzione sarebbe riuscita fredda, perciocchè la prima imagine che si
presenta al commosso animo del poeta, sono i cuori, i quali egli con quelle
prime parole quasi pone innanzi a Dio, affinchè si piaccia d'intenerirli.
Accade alcuna volta che lo scrittore vuole accrescere vigore alla propria
sentenza, e in questo caso non dee disporre le sue parole a modo, che
all'uditore paia di aver inteso tutto al prinio detto, ma far sì, che le idee
vengano all' animo di lui crescendo gradatamente, come nel seguente esempio: Tu
se' buono, santo, divino. E in quest'altro del Boccaccio: Ri. prenderannomi,
morderannomi, lacereran nomi costoro. Similmente metterà bene il collocare l'ay
verbio dopo il verbo e l'addiettivo dopo il sustantivo, qualvolla sieno posti
nel discorso alfine di accrescergli vigore. Perciò è che me. glio si dirà: io
ti amerò sempre, che io sempre ti amerò: è facile il sentire come questa
seconda collocazione riesca fredda. Molli preclari ingegni, e Ira questi il
Caro, hanno biasimato il Boccaccio, perchè troppo frequentemente pone il verbo
alla fine del pe riodo; e per verità l'hanno biasimato a ragio ne; perchè non
solo con ciò si toglie al di. scorso la varietà, ma anche perchè il più delle
volle si viene a turbare la naturale associa zione delle idee. Alla quale
associazione se porrà mente lo scrittore troverà sempre molivo onde approvare o
disapprovare l'ordine che egli avrà posto nelle sue parole. Lunga opera sarebbe
il trattare qui minutamente questa materia e il prescrivere le regole
applicabili a tutti i casi particolari; queste si possono age volmente dedurre
dalla regola generale, che abbiamo assegnata, e perciò stimiamo che qui 94
basti fare qualche altra osservazione intorno ad alcuni luoghi, ne'quali il
verbo è posto in ultimo. Avendo il principe Tancredi, presso il Boccaccio,
rimproverato Ghismonda di avere eletto per suo amatore Guiscardo di nazione
vile, e non uomo dicevole alla nobiltà di lei, così ella, rinfacciandogli il
fatto rimprovero, gli dice: in che non taccorgi che non il mio pec cato, ma
quello della fortuna riprendi. Qui chiaro si vede che se Ghismonda avesse dello:
non taccorgi che non riprendi il mio pec cato, ma quello della fortuna, avrebbe
par. lalo freddamente. Il figliuolo di Perolla, in LIVIO, sdegnato che il padre suo gli abbia inpedito
di uccidere Annibale, si volge alla patria dicendo: O PATRIA FERRVM QVO PRO TE
ARMATVS HANC ARCEM DEFENDERE COLEBAM HODIE MINIME PARCENS QUANDO PATER EXTORQVE
ACCIPE. Ne'due citati luoghi son poste innanzi le idee, che prima si presentano
all'animo passionato di colui che favella, e in ullimo è il verbo, che apporta
luce alla MENTE SOSPESA dell'ascoltatore. Se T. LIVIO avesse detto: O Patrin,
accipe ferrum ec., oltrechè avrebbe parlalo fuori del modo naturale di colui
che ha l'animo commosso, avrebbe ancora mancato di quell'arte, che l'attenzione
altrui si procaccia: imperciocchè qualvolta egli ci porge innanzi il ferro, col
quale il giovane vuole difendere ostinatamente la rocca, subito la mente sta
attendendo impazientemente che cosa esser debba di quel ferro; e, poiché ode la
risoluzione di esso giovane, resla preso da subita maraviglia e ne riceve diletto.
Nel collocare le parole secondo la catena delle idee, si vuol porre grande cura
di conciliare quest'ordine con quello che è richiesto dall'orecchio e dal genio
della lingua, al quale non si può contrariare. Qualvolta lo scrittore ciò
pervenga ad ottenere, sembra che le sue parole siensi di persé poste al luogo
loro, e che chiunque avesse voluto dire la stessa cosa l'avrebbe detta a quel
modo. Questa si è quella facilità, che molti avvisano di poter conseguire, ma
spesso invano a ciò si affaticano e sudano. Parliamo del carattere del
discorso. Avendovi posti innanzitulli gl’elemenli, onde si compongono accade
ora di ragionare più parlicolarmente delle leggi della CONVENEVOLEZZA, o sia
del DECORO. Come dalla mescolanza de'sette colori fatta con legge si genera la
varietà e la vaghezza nella imagine delle cose dal pittore imitate, cosi dalla
mescolanza degl’elementi predetti, similmente fatta con legge, nasce la varietà
e la venustà della conversazione. Colui che si facesse ad accozzare e ad
ammassare alla rinfusa parole nobili, modi urbani, mela fore, traslali, igure,
sentenze, ec., verrebbe certamente a comporre di buona materia as sai deforme
Perſella riuscirà posizione, allorchè le parole e i modi e l'armonia e le
figure verranno e ben divisale le une con le altre e lulle insieme, SECONDO I
FINI che lo scrillore si propone, secondo la materia della quale savella,
secondo la condizione sua e di coloro che l'odono, secondo i luoghi in cui
parla; chè in queste tutte cose consiste IL DECORO. Dal decoro nasce la leggiadria,
che risplende nelle più belle opere dell'arle, e senza di esso nessuna cosa al
mondo è pregevole. Conciossiachè poi varii sono I FINI speciali, che lo
scrittore si propone, varii i subbielli, di che può ragionare, varie le umane
condizioni e le circostanze, conseguita che varii pur sieno i generi e le
specie de' conponimenti per loro proprio carattere distinti. Il qual carattere,
per le cose delle di sopra, definiremo nel modo seguente: Il carattere del
discorso si è la contemperanza degli ele nepli, da ' quali risultano la CHIAREZZA
e l'ornamento, fatta secondo la legge del decoro. E perciocchè la principal
legge del decoro si è quella, che riguarda IL FINE CHE CI PROPONIAMO QUANDO
ALTRUI MANFESTIAMO I NOSTRI CONCETTIi, a questo volgeremo tosto la nostra
considerazione. Chi scrive intende o a convincere o ä PERSSUADERE o dilettare altrui. Secondo questi tre fini
nasceno tre generi di scrivere o tre caratteri si diversi, che vogliono essere
di stigli e particolarmente considerati; cioè il filosofico, il PERSUASIVO, il
poetico. Di questi diremo prima alcuna cosa in generale, indine accenneremo le
specie. In quanto al carattere del discorso filosofico, Ufficio de'flosofi si è
il mostrare altrui la verità, e perciò le loro scritture intendono a fare che
il lettore od ascoltatore non sola. menle venga di buona voglia nella sentenza
a lui esposta, ma che sia costretto anche suo malgrado a vevirvi, che è quanto
dire ch'egli rimanga convinto. Se pertanto ci verrà fallo di scuoprire quella
virtù del linguaggio, per la quale si genera il convincimento, ci saranno
subito manifeste le qualità, onde il carallere filosofico si distingue dagli
altri. Il convincimento si genera nell'animo o qual volta per via de' sensi
percepiamo l’ATTENENZA ſra alcune qualità, e in questo caso diciamo esser
convinti dal fatto, o qualvolta ci vien posta innanzi una serie di proposizioni
insieme collegate e procedenti da una o da più altre conformi a'falli, le quali
si chiamano principii; ed in questo secondo caso diciamo di essere CONVINTI CON
EVIDENZA DI RAGIONE. A costringere l’animo con questa evidenza intendono i
filosofi, ed a tal fine son loro necessarii i vocaboli di singolare
significazione ed i modi precisi; imperciocchè se nella catena delle
proposizioni che formano il ragionamento, una sola vi fosse di perplesso
significato, o che accrescesse o menomasse di un solo elemento iniportante
alcuna idea, si mulerebbero le attenenze delle dette proposizioni, dal che
procederebbe l'errore, come accade nelle operazioni aritmeliche, qualvolta, no
solo numero si ponga iu luogo di un altro, Se agli uomini venisse dalo (che Dio
volesse) di ordinare la lingua italiana a modo che dalle percezioni delle
qualità semplici delle cose fino alle più complesse idee d'ogni maniera non
fosse vocabolo di mal fer ma significazione, non sarebbe malagevole il
ragionare dirittamente in qualsivoglia altra Ina teria, come si ragiona nella
matemalica; inn perciocchè in virtù de'segni ben determinali si verrebbe al
conoscimento delle attenenze delle idee complesse grado per grado fino ai loro
principii; e per tal forma ciascuno potrebbe sempre rendersi certo della
enunciata verità. Da tutto ciò si raccoglie che nella precisione delle parole e
dei modi sta la virtù di convincere; e che perciò essa precisione esser dee la
prerogativa dello scrivere filosofico. L'uso della metafora pertantoe delle
figure può divenire larghissima fonte d'errori, per ciocchè è facile che
l'animo umano ingannato dalle similitudini, di che si formano le metafore, e
commosso dagli artificii travegga, e quindi si faccia a comporre le nozioni,
non secondo la natura delle cose, ma secondo le apparenze e la capricciosa
indole della fantasia. Il sistema del Malebranche, ch'ebbe tanti se.guaci e
disputatori (per lacere di molli altri ) procede da una similitudine. E si
dovrà dunque nello scrivere insegnali vo schivare ogni metafora ed ogni figura,
e renderlo secco e ruvido, come quello de'ma temalici? V'hanno certamente
alcune malerie (e tale è per avventura la ideologia ), le quali richieggono un
linguaggio pressochè simile a quello della geometria o dell'algebra; ma non è
perciò che le altre parti della filosofia, ed anche talvolta la stessa austera
scienza delle idee, non dimandino ornamento sobrio e ve recondo. Niuna materia
filosofica vuol essere molto mollo fregiala, acciocchè il verisimile, in forza
degli artifizii oratorii, non venga ad invadere. il luogo del vero, nė paia che
il filosofo voglia invescare e prendere altrui: nulladimeno è necessario che a
quando a quando l'intelletto del leggitore, affaticato dal lungo ragionare,
trovi riposo, e venga alleltato, senza che la esposta verità rimanga oscurala.
Perciò il filosofo collo schivare le parole barbare, rance, oscure e
disarmoniche toglie ogni ruvidezza al suo discorso, e gli da grazia e
leggiadria convenevole co' modi urbani e gentili, colle vereconde metafore
scelte a maggiore schiarimento di quanto per le parole ben determinate e
espresso; colla BREVOTÀ e colla varietà de'modi, con alcune naturali figure,
quale sarebbe l'interrogazione, e specialmente coll’armonia facile e piana, e
con tutti gli allri modi naturali alla temperata favella. Questo carattere
filosofico e si ben divisato da CICERONE, che io stimo convenevole cosa di
recare le sue parole temperata e famigliare è l'orazione de’ filosofi: non è
composta di modi popolari; non è legata a cerle regole d'armonia, ma discorre
liberamente. Niente sa d'iralo, niente d'invidioso, niente di inirabile, niente
di astuto. Casla, vereconda, quasi pudica vergine, onde piuttosto ragionamento
che orazione può nominarsi. Parliamo del discorso di carattere PERSUASIVO o PROTETTICO [Grice –
‘protreptic’]. Poichè abbiamo dato contrassegno del carattere filosofico,
veniamo a fare il medesimo della mozzione conversazionale persuasiva. “Persuadere”
(“to influence and being influenced”) segna propriamente far credere altrui
alcuna cosa; dal che manifesto apparisce essere grande la differenza tra il “convincimento”
e la “persuasion”. Perchè siamo CONVINTI è forza che conosciamo ogni
proposizione che compone un ragionamento fino alla prima percezione, dalle
quali dipende il principio fondamentale di quello. Perchè siamo “PERSUASI” basta
che il ragionare abbia per fondamento o l'opinione o l'apparenza o l'autorità
(non come l’intende Courmayeur). Molti dicono, a cagion d' esempio, di essere “PERSUASI”
che il sole si giri intorno la terra, ed altri che la terra si volga intorno al
proprio asse. Gl’uni prestano fede all'apparenza, gli allri al detto degl’uomini
sapienti. Ma di quello che credono non sanno porgere altrui vera dimostrazione.
Da questo esempio, e da infiniti altri, si può vedere che la PERSUASINE non è
sempre generata dal conoscimento – o sceinza, ma credenza -- di ogni
proposizioe che si richieggono nella
dimostrazione, e che per conseguente a trarre le volontà, ed a tenere le menti
del più degl’uomini, non importa semipre il dimostrare sollilmente alla maniera
del filosofo, ma giova di far uso di qualsi voglia verisimile principio: di
comporre imaginazioni che abbiano faccia di verità: di adoperare figure che,
perlurbando l'aninmo di nostro compagno conversazionale, conformino i pensieri
di lui secondo la nostra volontà di guisa, che, se egli sia per venire nella
nostra sentenza, precipitosamente vi corra. Ma tutte queste cose si vogliono
adoperare a modo, che il discorso abbia sempre apparenza di vera dimostrazione;
perciocchè l’uditore di qualsivoglia condizione sempre domanda al conversatore
che sia loro mostra la verità. Converrà quindi dedurre il discorso, per natural
guisa e chiaramente, e da esso rimovere ogni proposizione ed ogni artificio,
nel quale apparisca alcuna ombra di falsità. Primo ufficio del conversatore si
è il provare la sua proposizione nella divisata maniera. Secondo, il dilettare.
Terzo, il commovere; accorgimento si richiede nelle prove; sobrieta dell’ornamento
che intendono al diletto; veemenza nel concitare l’affeto. Con queste arti si perviene a trionfare ed a
governare la volontà di nostro compagno conversazionale. Per le cose dette si
conosce che il conversatore, comechè dice di voler dare esatta dimostrazione di
quanto afferma, questo non fa sempr: del che si può aver prova nella disputa,
che fa in contraddilorin, per le quali talvolta appaiono vere due sentenze, una
delle quali, essendo opposta all'altra, deve di necessità esser ſalsa
(reduction ad absurdum, introduduzione della negazione). Non è dunque l'arte
della conversazione veramente l'arte di dimostrare (prendendo questa parola
nello stretto segnato del filosofo) ma, come la define Dionigi d'Alicarnasso, “l'arte
di farsi credere”. Ma qui potrà per avventura sembrare che, avendo io nel sopra
indicato modo divisata la natura di una mozzione conversazionale persuasiva, de
abbia fat 10 un'arte d'inganno. Chi però cosi pensasse а porterebbe opinione falsissima;
perciocchè non si ſa inganno agl’uomini adoperando a bene quell'arte, che sola
si conſà all'indole della più parte di essi. Pochi sono coloro, che possono
essere falli capaci della verità per via di sollile ed esatto ragionamento;
anzi avviene il più delle volte che, sembrando molti falsissimo il vero e piacesse
a Dio che così non fosse), è forz, per guadagnare l'opinione foro, venire ad
alcuna utile verità per le strade del verisimile; e questo non è certo
ingannare, ma giovare la umana famiglia. Vero ufficio dei conversatori si è l '
usare l'eloquenza non ad inganno, ma per indurre gl’uomini a fuggire il vizio,
a seguitare la virtù e la verità; per metter fine alle conlese, per sedare i
tumulti, per sollevare l'autorità della legge contro il volere di coloro, che
il privato bene antepongono a quello della repubblica: che se alcuni malvagi
intellelli abusano di tutte le arti civili, dovremo per questo sbandirle da
Roma e ricondurre gli uomini a viver di ghiaude? Finalmente e la mozzion
conversazionale di carattere poetico, come in Heidegger. La poesia fou dai
ROMANI inventata per proprio diletto, e poscia dagli autori della vila civile
ad ammaestramento di esso popolo adoperala. Piacque ad aleuni a solo ricreamen
to dell'animo usarla, ma i più nobili poeti sotto il velame delle favole, delle
imitazioni e dei mirabili concetti pascosero la dottrina, e con locuzione
accesa nella fantasia e con soavi armonie si aprirono la strada alle menli
volgari, le quali all'insegnamento dei filosofi sarebbero stale ritrose. Per lo
che niuno può dubitare che chiunque si dispone a fare una mozzione
conversazionale poetica non debba cercare di piacere alla più parte degli
uomini. Questo fece ad imagine degli antichi il nostro Alighieri, la cui divina
Commedia leggevano anche le persone d'umile condizione, e ne traevano documenti
a ben vivere. Questo ſecero l'Ariosto e il Tasso, e cosi dee fare chiunque ha
vaghezza di essere salutato un autore di una mozzione conversazionale poetica. Se
dunque investigheremo quali sieno quei modi che dilettano il più degli uomini,
e quali sieno que' che li noiano, giungeremo a conoscere quali convengano e
quali disconvengano al carattere della mozzione conversazionale poetica. E
primieramente e palese che le espressione apportano diletto e colla materiale
struttura loro e colla qualità delle idea, che recano alla mente; perciò è che
l'essere del carattere poetico dall'una e dall'altra di queste cose dovrà
generarsi. Una delle qualità necessarie alla mozzione conversazionale poetica
sarà dunque la più squisita armonia, onde siano dilettati i sensi ed appagato
l'intelletto in virtù della imitazione. Dell'armonia abbiamo dello abbastanza,
perchè passeremo tosto a dire della natura delle idee dilettevoli. Il diletto
si genera negli animi da ciò che, dolcemente i sensi movendo, fa operare la
mente senza tenerla in fatica: e perciò è che le imagini dei corpi diversi e
tulte quelle cose e que’ concetti, che hanno virtù di risvegliare gli affetti,
ci recano maraviglioso piacere e le idee astratte all'incontro non lo ci
recano, perciocchè, se non sono mollo complesse, fanno lieve impressione
nell’animo; se molto complesse, abbisognano di molta attenzione, e perciò
affaticano la mente. Proprii, saranno dunque del carattere poetico i vocaboli e
i modi acconci a svegliare ad un tempo la rimembranza di molte sensazioni
dilettevoli ed a concitare le varie passioni ed a rendere sensibili coll'aiuto
delle similitudini tolte dalle cose corporee i più sottili concetti della mente.
Cogli aggiunti opportunamente scelti vengono segnata la passione o l’azione, e
gli usi delle cose e le qualità loro proprie, le quali in virtù dei soli nomi
sustantivi non verrebbero all'animo di nostro compagno conversazionale, o ci
verrebbero debolmente; perciò al poeta conviene l'adoperare essi aggiunti più
frequentemente che all'oralore, quale dipinge meno parli colarmente le cose,
siccoine colui che non ha per fine principale il diletto. Colla metafora si dà
corpo a una nozione astratta, coi tropi si pone dinanzi agli occhi della mente
quella sola parte o qualità dell'obbietlo, che prima si presenterebbe al senso
di colui che cogli occhi del corpo il mirasse. Adoperando i predetti modi, si
perviene a dare a’ concetti intellettuali forma sensibile guisa, che nostro
compagno conversazionale, direi quasi, non più per segni percepisce le cose, ma
le vede, e con mano le tocca. Affincho palesemente si vegga questa prerogativa,
che sopra tutt e rende il carattere poetico distinto dagli altri, recherò ad
esempio alcuni concetti intellettuali, convertendoli in forma sensibile. Tutti
i viventi muoiono. La sede del romano impero fu da Costantino trasferitu a Bisanzio
Il popolo facilmente mula consiglio. Quello ch' ei fece dai tempi di Romolo,
sino a quello dei Tarquinii. Quello concetto si dice intellettuale, siccome
quelli che si denno giudicare secondo il segnato proprio di ciascuna parola;
sensibili saranno, qualvolla sieno espressi di maniera che giudicare si debbano
secondo l'apparenza o la similitudine, siccome divengono i predelti Trasformandoli
nel modo seguente. La morte batte egualmente alle capanne de poveri ed a’
palagi de’ re. Posciachè Costantin lo quila volse contro il corso del ciel, che
la seguiu Dietro quel grande, che Lavinia Wolse. Infida è ľaura popolare. E
guel cliei fe' dal mal delle Sabine Al do Tor di Lucrezia. Queste finzioni che
assai di lettano, e perchè contengono manifeste similitudini e perchè racchiudono
veri intellettuali concetti, sono talmente proprie della mozzione
conversazionale poetica, ch'elle sarebbero sconvenevoli nei discorsi, che non hanno
per fine primario il diletto. Come queste poi si addicano più a cerle specie,
che a certe altre, vedrenio a suo Juogo. Ora bastea di avere in genere contra-segnata
la natura del carattere poetico, onde apparisca che tengono mala strada coloro,
i quali cercando "fama tra i poeti fanno pompa ne’loro versi di dottrina e
di soltile ingegno, ed espongono i loro pensieri con ordine troppo minuto e
distinto. I concetti che si cavano dall’intrinseco della filosofia, recanó seco
molta oscurità e difficoltà, specialmente quando vengono segnato co' vocaboli e
commodi loro proprii, e perciò sono contrarii al diletto, che è il fine del
poet, o, come altri vuole, il mezzo necessario ad indurre il giovamento. E
quando si dice che il poeta dev'essere filosofo, non si vuol dire che a modo
dei filosofi debba scegliere, ordinare e segnare il concetto, ma che egli usi
molto di filosofia nello scegliere le materie più utili agli uomini, e nel dare
a quelle e forma e veste conveniente alla natura di ciascuna. Che se talvolta egli
vorrà togliere alcun concetto dalla filosofia, lo toglierà dalla superficie e
non dal profondo seno di lei, in quel modo, che ha fatto il Petrarca, qualvolta
si è giovato della filosofia di Platone, come si vede nel seguente esempio. Per
le cose mortali, che son scala al fattor chi ben le stima, D'una in altra
sembianza potea levarsi all'alta cagion prima. E in altri luoghi moltissimi si
vede con qual arle e cautela dalla flosofia nella poesia egli abbia trasportati
i concetti, gli abbia temperati ed ornati, sicchè non hanno nè ruvidezza alcuna
nè oscurità, ma naturalezza, novità, e magnificenza, che sono qualità popolari,
che è quanto a dire poetiche. C’e una e altra specia del discourse di carattere
filosofico. Le materie, intorno le quali cade l'insegnamento, sono: la
matematica, la fisica, la metafisica, la morale, la politica, l'arte oratoria e
la poetica, le arti liberali e le meccaniche, e tutte le conoscenze che da
queste principali procedono, ciascuna delle quali essendo più o meno astratta,
richiede o maggiore o minore soltigliezza d'ingegno e forza di attenzione in
chi le consider: per la qual cosa interviene che dovendo i conversatori usar
parole e modi con venevoli alla natura di ciascuna delle dette materie, ne risultano
diverse specie di caratteri insegnativi più o meno austeri. Rispelto poi alle
persone, cui vuolsi mostrare la verità, giova osservare che elle sono di due
maniere. Alcune letterale ed alcune mezzanamente istruite. Alle prime, che sono
avvezze al ragionamento, si converrà stretto sermone: più diffuso alle altre,
le quali hanno bisogno che le cose sieno esposte loro per minuto, ed anche
talvolta per via di similitudini e di esempi chiarile. Per tal cagione il
discorso filosofico prende spesso alcuna delle forme del persuasivo, senza mai
perdere però la precisione, che forma l'essenziale sua proprietà. Di tal sorta
sono molte mozzione conversazionale indirizzati all'insegnamento de' giovani, e
i dialoghi e le epistole filosofiche, le quali vengono usate affinchè certe
materie depongano alquanto della nativa loro austerità, ed allin cbè i
conversatori affaticati trovino riposo nelle digressioni e in altre parti
accessorie. C’e una e altra specia di discourse di carattere pesuasivo o
protrettico. Se al mondo fossero uomini dirittamente sapienti e perfettamente
savi, sicchè astuzia e lusinga di oratore non potessero negli animi loro, vana
riuscirebbe l'arte del persuadere, perciocchè tutti richiederebbero di essere
convinti con precisa e poco adorna favella: ma Blo non sono quaggiù nel mondo
cose perfette, e perciò è che, sebbene tutti gli uomini avvisando di poter
essere condotti alla verità per via di vera dimostrazione, sdegnino i manifesti
artificii; pure non v'ha alcuno, che vaglia a resistere alla seduzione di
astuta eloquenza; dal che si ricava che l'arte del persuadere si può adoperare
con ogni sorta di persone; po pendo menle però che quanto maggiore negli ascoltanti
è l'aculezza dell'intelletto e la sapienza, altrellanto esser deve la cura
nell'ora tore di occultare l’artificio. Dovranno dunqne i modi del discorso
persuasivo tanto più avvicinarsi a quelli del filosofico, quanto piu le
persone, cui si favella, sono sapienti ed arcorte; ed all'incontro tanto più
dovranno lingersi, direi quasi, del COLORE (Farbung) poetico, quanto nel
conversatore è minore l'altitudine ad argo nentare sottilmente: e la ragione di
questo si è che, a misura che negli uomini manca l'acı fezza dello intelletto,
cresce la forza della fan. tasia, dell'opinione e delle passioni. Ma no è
perciò che, anche favellando a sì falte persone, debba l'oratore ornare il
discorso d'imagini fantastiche a modo che esso perda le apparenze della buona
dimostrazione; essendo che' il popolo stesso, il qual pure, come è detto,
presume di sapere ragionare sottilmente, sde gna quella orazione che gli par
vuota di ragioni. Dovrà dunque il discorso persuasivo aver sempre l'aspetto di
vera dimostrazione; ma colale aspetto poi sarà diverso, secondo la maggiore o
minor perspicacia delle persone, che si vogliono persuadere, le quali si
possono dividere in tre schiere. La prima è degli uomini letterati: la seconda
degli uomini che banno convenevole discrezione di mente: la terza del popolo
basso. Per le quali tre schiere tre specie di carattere PERSUASIVO procedono.
La prima partecipa alquanto delle qualità del genere filosofico: la terza di
quelle del poelico: la seconda è stile medio e media fra le due. Della prima
specie e l’allegazione, che l’avvocato pronuncia al cospetto de' giudici; della
seconda i discorsi morali, la storia, l’elogio, ed altre opere intese a
persuadere circa il giusto e l'onesto le persone discrete; della terza la
predica e la allocuzione e il parlamento, che si fanno al popolo ed a; soldati.
Siccome poi varia si è la condizione delle persone che favellano, e varie le
cose di cui si può favellare, interviene che secondo queste e quelle verrà il
carattere PERSUASIVO a dividersi in altre specie: e perciocchè le per le cose
si possono considerare di tre ragioni, cioè di nobili, di mezzane e di umili,
piacque a' retorici di restringere sotto tre soli nomi i molli membri del
carallere persuasivo, e questi sono: il sublime, il temperato ed il tenue. Che
a ciascuna di queste specie si addicano e voci e modi particolari, è facile
comprendere e chi non vede che al discorso rivolto a celebrare le lodi di un
eroe o di un sapiente si convengono maniere diverse da quelle, che sarebbero
accomodate a descrivere o a lodare l’amenità della villa? Che la lettera
famigliare intenla a persuadere qualsivoglia verità ad alcuno, dev'e di natura
diversa dall' orazione che tralla della cosa medesima? Paren sone e I 2 domi
che qui non sia bisogno di allargarsi troppo in parole, una sola cosa ricorderò,
cioè, che von solamente si addicano a cfascuna spe. cie particolari maniere, ma
ancora particolare collocazione di parole e particolare armonia. Imperciocchè
l'animo di chi favella, essendo secondo i varii casi o tranquillo o perturbato,
o elevato o umiliato, non è dubbio che, nel seguitare questi diversi affetti,
variamente si devono ordinare le idee, e colle idee le paro le, e che
similmente dee variare l'armonia, se vero è ch'ella soglia naturalmente,
qualvolta favelliamo, accompagnare i moti dell'animo, Oltre di che vuolsi
considerare che que' che parlano alla moltitudine, o scrivono cose da
proferirsi ad alla voce, sogliono muoverla e modularla con diverso andamento da
quello che userebbe colui, il quale famigliarmente ragionasse e tranquillamente
in angusto loco alcun fatto narrasse; e perciò il ritmo di que ste due specie
di favellare è fatto diverso dalla necessità di pronunciare a modo, che le
nostre parole sieno ascoltate volentieri, e quan do in luogo pubblico di gravi
negozii a molti parliamo, e quando in camera a pochi di qual sivoglia materia.
Quale sia poi quella deter minala armonia, che in ciascun caso convenga,
insegnare uon si può. Qui basti l'avvertimento, chè l’esempio de classici
scrittori assai meglio ne può ammaestrare. Penso che sia convenevole cosa il
collocare fra le specie del carattere persuasivo anche quello che si addice
alla istoria; e ciò per le seguenti ni. Uſlicio dell'istorico si è di produrre
coll'insegnamenlo la prudenza civile e militare, il che si ottiene col porre
innanzi all ' animo del lettore i fatti importanti e le cagioni e gli effelli
di quelli. Al qual line, è mestieri di descrivere avvenimenti d'ogni ma piera e
particolari e generali, assalti, uccisioni, incendii, battaglie, saccheggi,
trattazioni, páci congiure, delilli e
virtù; di palesare nelle concioni poste in bocca ai re, ai magistrati, ai
capilani, i gravi consigli e i documenti della politica; di esprimere i
caratteri delle passioni, e di usare le più luminose sentenze. Le quali tulle
cose vogliono essere significate con modi che varino secondo il variare della
maleria. Comechè uguale a sè medesimo sia sempre il carattere della storia,
cioè grave, siccome si addice a chi le gravi cose racconta, certo egli è che
secondo la differenza degli avvenimenti dovrà variare nel sostenersi e nello
innalzarsi, ed apparire nelle concioni più alto ed eſti cace, nelle descrizioni
più ameno ed ordinato, e spesso più veemenle nella persona degli uo mini ivi
introdolli a parlare, ma sempre temperato in quella dello scrittore, che da
ogni parteggiare dee mostrarsi lontano. Non può dunque convenire al caraltere
storico nè l'autorità filosofica, la quale sarebbe contraria alle malerie, nè
la poetica pompa, che torrebbe fede alla narrazione; perciò é forza che gli
sieno proprie le prerogative generali del ca. rattere persuasivo, dal quale
differisce sola mente per le qualità speciali di sopra accennale. C’e una e
altra specia del discourse di carattere poetico. Se ſu bisogno dividere in
alcune specie il carattere persuasivo a cagione della maggiore o minore
altitudine delle menti umane a di scerncre la verità, ciò non occorrerà circa
il carallere poetico; imperciocchè tanto gli uo. mini di sottile ingegno,
quanto quelli, in cui la fantasia prevale all'intelletto, hanno tulli dinanzi
al poela una medesima disposizione. Se il popolo porge orecchio alle finzioni
noe. tiche, quasi come a cose vere, i sapienti le riguardano come simboli della
verità e quasi come leggiadri sogni della filosofia, e in questo loro dolce
ricreamento sdegnano ogni austerilà e fino l'apparenza delle faticose forme
filoso. fiche. Perciò è palese che il poeta rivolge sem. pre le parole ad
vomini, i quali, sieno di qual sivoglia condizione, amano che la mente loro şia
condotta ad operare senza fatica. Da que. sto si ricava che ogni specie di
carattere poe tico dovrà avere sempre la prerogativa di schivare, come dicemmo
di sopra, le idee che tengono in falica l'intelletto, e rappresentare quelle,
che vestile di forme sensibili, eserci. citano la imaginativa. Non sarà dunque
diviso in ispecie questo genere per rispelto della diversità degl'intel letti,
ma della condizione del poeta o delle persone che introduce a parlare, e delle
varie cose, che ei ſa subbietto del canto. Ma, prima di entrare in questo
proposito, parni che sia da togliere una falsa opinione circa la natura della
poesia. Sono alcuni i quali avvisano che 115 ma il l'essenza di lei consista
nel metro, e fra que sti è il Melaslasio, il quale nella sua esposi zione della
Poetica d'Aristotele sostiene che la lavella metrica, per essere l'istrumenlo
con che l'imitazione si fa, ne forma l'essenza. Ma io domanderei voleplieri a
coloro che cosi la pensano, qual nome vorrebbono dare all’ENEIDE tradolla in
favella sciolta dal metro? Le daranno per avventura nome di prosa?
L’espressione “prosa” altro non segna che discorso senza metro, e per ciò
verranno a dire solamente che quell'illustre racconto è fatto sce. mo di quella
sola qualità, di che grandemente si diletta l'orecchio, ma non già di tutte le
altre, che stabiliscono la natura dei discorsi composti a fine di diletto. Dal
che appare manifesto che un altro general nome è bisogno per distinguere i
discorsi composti per dilettare. E quale è a ciò più accomodalo vocabolo che
quello di poesia? L’espressione “poeta”, secondo sua origine, significa facilore
o vogliam dire fabbricatore; e perciò poesia sonerà lo stesso che fabbricazione
o finzione, e tali sono di necessità quasi tutti i discorsi, che si compongono
a fine di dilellare, essendo che il nudo vero non è dilettevole sempre e in
ogni sua parle: perciò Varchi dice nell'Erco laro, che il verso non è quello
che faccia principalmente il poeta; e che Boccaccio talvolla più poeta si
mostra in una delle sue Novelle, che in tutta la Teseide. Ed Orazio afferma che
a distinguere la poesia da ciò che essa non è, basta disgiungerne le membra,
cioè loglierle il metro, e allora si vede manifestamente che il carattere non
le si toglie. Conchiudiamo pertanto, che il metro induce diſſerenza di specie
ma non determina la natura del genere; e stabiliamo che a tutti i discorsi che hanno per fine il dilettare con metro o
senza, si conviene il nome di “poesia”. Ora veniamo alle specie. Talvolta il poeta
rappresenta la persona d'uomo, che cantando, dice laudi degli Dei e degli Eroi;
talvolta quella, ch'esprime i moti dell'allegrezza, dell'affanno o dell’amore,
o solamente gli scherzevoli con cetli. Le poesie di questa maniera solevano
dagli antichi essere cantate sulla “lira,” e perciò presero il pome di “lirica”,
e tuttora il conservano. Varie essendo le passioni e le cose che esprimere si
possono dal conversatore lirico, interviene che ancora il canto si divide in
varie specie, che tutte poi si riducono a tre, come nel carattere persuasivo:
cioè al sublime, al mediocre ed al tenue. Ciascuno di questi canti ha qualità
sue proprie. Magnificenza e gravità di mod, di sentenze e di arinonia, e splendore
d'illustri parole e di concetti fantastici convengono a chi celebra le laudi
degli Dei e degli Eroi, ed esprime alte e generose passioni: più tenui maniere
e parole e più soave armonia a chi esprime gli affelli meno gravi e canta di
subbielli meno nobili: quegli poi, che dice i mili affetti o gli scherzi o le
umili cose, avrà nelle sue parole piacevolezza e semplicità da ogni fasto
lontana, ed armonia soave e varia, ma sempre tenue. Alla detta varietà
d'armonie, mirabilmente poi servono i metri, alcuni de' quali portano
secofl'umiltà, altri la mediocrità, altri l'allezza dell'armonia. Sono molti
esempi di questa varietà in Petrarca, Si ponga mente ai modi, al metro, al
ritmo delle due canzoni d'amore, una delle quali comincia, Chiure, fresche e
dolci ucque; e l'altra, Di pensiero in pensier, di monte in monte; e si vedrà
la prima essere in tutte le sue parti piena di soavità, di gentilezza e di grazia,
e l'allra di robustezza e di gravità. Talvolta il poeta narra gl ' illustri
ſalli; tal volla i mediocri; e talvolta i piacevoli: indi si generano i poemi
epici, i romanzi, i poemi burleschi e le novelle. Talvolta poi introduce a
parlare o le persone illustri o le mediocri o le umili, e quindi provengono le
tragedie, le commedie, le egloghe pastorali e le pisca torie. Ognuna di queste
specie, siccome è pa lese, ha modi ed armonia convenevole alla maleria ed alla
condizione delle persone. Perciò è che il poeta, specialmente nella tragedia,
nella commedia e nell' egloga, ove se medesimo nasconde introducendo altri a
par lare, dee rendere alquanto umili i modi, l'ar monia di guisa, che lo
spettatore, ascollando le tragiche persone o le coniche, abbia a dire: così
parlerebbero gli uomini di questa o di quella condizione, se loro naturale
favella fos sero i versi. Giovi questo generale avverli mento, perciocchè non
si possono mostrare i certi limili, fra i quali dee slarsi ciascuna spe 118 rie.
Tutte hanno nell'intero loro corpo faltezze particolari, alle quali colui che
ben vede di stintamente le raffigura: pure a quando a quando or questa or
quella viene a parteci. pare dell ' altrui colore di guisa, che l'epico nelle
forti passioni innalza le parole e i modi al pari del cantore degl'inni; e il
più sublime lirico parra alcuna volla, siccome fa l'epico. Lo stesso interviene
delle allre specie, fra le quali per fino la commedia talora si leva a
gareggiare colla Tragedia, e la tragedia al dire l'Orazio, spesso, si duole con
sermone pe destre. Nelle opere dell'arle, siccome in quelle dels la nalura, si
scorge infinita diversilà, ma per questa spesso non è tolto che moltissimi indi
vidui della medesima specie, sebbene molto dissimili, non sieno egualmente
belli e prege voli. Questo vedesi manifestamente per le la vole colorite da'
celebri dipinlori, de'quali uno essendo il fine, cioè quello dell'imitare la
bella natura, non in tutti una apparisce la sembianza del loro dipingere.
Raffaello, Correggio, Domenichino, Caraccio, Tiziano e Paolo, i quali cerlo non
mancano nelle regole invaria bili dell'arte, sono fra loro assai differenti.
Tutti mostrano invenzione lodevole e lodevole composizione, belle forme, ben disposto
colo. rito e conveniente a ciascuna cosa: tutti esprimono i costumi e gli
affelli, ma ciascuno d'essi ſa delle predette e di altre virtù una cotale
mislura, che siamo condolti a dire che nessu. 1 Til no di loro ha la maniera
dell'altro, comechè Tulli sieno eccellenti. Questa, che i pillori chia mano
maniera, è similmente comune a' filosofi, agli oratori, agli storici ed
a'poeli. Quanti scriltori sono tenuli meritevoli di pari commendazione, sebbene
tale fra loro sia la diſſerenza, che spesso ciascuno solamente a sè me, desinio
ed a nessun altro assomiglia? La rinsposizione dell'ingegno e delle affezioni
dela l'animo, che in ciascun uomo è diversa, è cagione che le dette maniere sieno
di numero pressochè infinito. Alcuno de' famosi scriitori ha il pregio della
perspicuità, alcuno della eleganza, allri della grazia, altri dell'aculezza.
Questi è grave e maestoso: quegli delicato e molle: chi è breve e robusto: chi
copioso, chi úrbano e chi veemente: ma tali poi sono tutti, che, se alcuno di
noi desiderasse di ottener gloria di ottimo scrillore, sarebbe incerto a quale
di loro volesse essere somigliante. L'accennata maniera particolare, per la
quale ciascuno scrittore è distinto dagli altri, si è quella che gli antichi
chiamarono “stile” (cf. Tannen, Conversational style), prendendo questa voce
dall'istrumento che per iscrivere adoperavano. La stessa parola “stile”, presa
più largamente che non fanno i filosofi, segna comunemente il carattere in
genere o in ispecie: ma è palese che, filosoficamente parlando, si è bene d'usarla
nel senso leste dichiarato. Ond'è che assai propriamente diremo in generale,
carattere filosofico, caruilere persuasivo o poetico; ed in ispecie carattere
oralorio, lirico, epico, tragico, sublime, medi cre e tenue: e stile di
Demostene, di CICERONE, di Ortensio, di Omero, di VIRGILIO: percioc chè nei
primi fu il solo carattere persuasivo, negli altri il poelico; ma in ciascuno
ebbe una particolare maniera, che modificando il carattere, l’essere suo non
gli tolse. E chi volesse invesligare le cagioni da che proceda colale maniera,
che stile si appella, vedrebbe ch'elle sono le qualità dell'intellello, della
fantasia di ciascuno scrillore, e le qualità degli affetti, a cui egli ha l'
animo disposto: laonde volendo dare alcuna definizione dello stile, paroi che far
si potesse nel modo seguente. Lo stile si è il carattere modificato secondo le
qualità dell'intellelto, della fantasia e degli affelli dello scrittore. Parliamo
sommeramente del modo di acquistare la qualita necessaria a conversare
civilmente. Ora che abbiamo poluto conoscere che cosa sia lo stile, non sarà
indarno l'investigare co me si possa acquistare forza, grazia e vaghezza nello
scrivere; e che è quanto dire come si possa formare lo stile convenevole e
pulito. Se lo stile si genera per la qualilà dell ' in tellelto, della fantasia
e degli affetti dello scrit tore, vera cosa è che, a formarlo convenevole e
pulito, bisognerà rendere perfette le mento vate tre cagioni il più che si può.
L'uomo nasce fornilo dell'intelletto, cioè della facollâ di sentire, di
percepire, di alten. dere, di paragonare, di giudicare, di astrarre, di
ricordarsi, di imaginare, ma d'uopo è che queste lacollà vengano poscia diriltamente
usate ed esercitale, onde sia generala quella virtù pressochè divina, che si
appella la ragione, la quale consiste nell'abito di. paragonare in sieme i
sentimenti distinti dell'anima e le idee, di derivar dai falli pariicolari le
nozioni gene. rali; di anteporre o posporre le une alle altre, di congiungerie
o di separarle, secondo la con venienza o disconvenienza loro, e secondo i loro
gradi di più o di meno. A formare que sl’abito, sarà bisogno di studiare le
opere de' filosoti, che trattano soltilmente delle cose na lurali, delle
proprietà dell'intelletto e del cuore umano; di apprendere l ' istoria, senza
la co gnizion della quale, al dire di Cicerone, l'uo mo si rimane sempre
fanciullo; di osservare la nalura, di pralicare fra le diverse condi. zioni
degli uomini, e di operare ne privati negozii e ne' pubblici. Ad arriccbire
l'imagi. nativa, la quale è l'abito di recare all'animo la reminiscenza delle
qualità sensibili che più ci muovono e dilellano; di congiugnere insie me con
verisimiglianza quelle, che sono di. sgiunte in nalura, e di significare per
siinili tudine delle cose corporee i concelli astralli, non solo metterà bene di
leggere gl'inventori di nuove e vaghe fantasie, ina di por menle a tutto ciò
che ai sensi porge diletlo, sia nelle azioni degli uomini e degli anigali sia
nel l’esteriore aspelto e movimento delle cose inanimate; e soprattullo gioverà
di ben con siderare le somiglianze che fanno fra loro le cose di qualsivoglia
genere e specie; chè que sto si è il fonte, dal quale si derivano le vuo ve e
maravigliose metafore. Di molla ulilità sarà poi all'intellelto ed
all'immaginativa lo sludio de' precelli dell'arte oratoria e della poetica, i
quali, essendo il compendio di quanto ove i filosofi hanno osservato intorno le
cagioni, onde piacciono e dispiacciono le opere degli scrillori, apportano
quella luce, che un uomo solo nel breve spazio della vila studierebbe indarno
di procacciarsi colla sola virtù del proprio ingegno. Vuolsi però sull'osservanza
de'precelli avvertire ciò che nell'arle poetica osserva Zanotti; cioè che le
cagioni del piacere e del dispiacere trovate da’ filosofi, essendo cagioni universali
ed indeterminale, mostrano bensi i luoghi, non vogliono che si ecceda o si
manchi, ma non prescrivono poi a qual segno si debba giugnere o rimanere, per
non ecce dere o non mancare; ond' è che, a fare buon uso del precello, è
bisogno di quella discre. zione, che si acquista con lungo sludio e fatica.
Rispetto agli affelli, io mi penso che, sel) bene sieno da natura, pure a
conciliarli in al trui grande aiuto si possa trarre dall'arte. Se l'amore,
l'odio, l'ira, la mansuetudine, la misericordia ed allre affezioni dell'animo
na. scono da cagioni determinale, come per eseni. pio l'amore da bellezza e da
virtù, l’odio da male qualità del corpo o dell'animo altrui, non v'ha dubbio
che gli aſſelti medesimi si deb bono in chi legge risvegliare per virtù della
viva' rappresentazione di quelle cagioni: dal che si raccoglie che lo
scrittore, considerando le varie disposizioni degli uomini passionali, e le
cagioni, per le quali la passione si genera, avrà materia onde gli animi
perlurbare. Cosi per aiuto dell'arte verrà ad operare in altrui quell'eſello, che
imperſellamente avrebbe operalo mercè della sola naturale sua disposi. zione.
Da quanto è dello apparisce che la scienza avvalora l'intellelto e
l'immaginativa, ed aiuta a muovere gli affetti, e che perciò ella si è il fonte
dello scrivere rettamente. La scienza poi è generala negli umani intellelli da
due cagioni: queste sono: la naturale disposizione delle organo corporale e
l'azione delle cose esterne sopra di esso; sì falte ca. gioni sono di necessità
diverse in ciascuno; perocchè non è da credere che si possano tro vare due
corpi nella stessa maniera conforma li; ed è poi certamente impossibile che uno
riceva dalle cose esterne nell'animo le mede sime impressioni che un altro. Per
la qual cosa avviene che diversa in ciascuno si generi la scienza, e quindi
diversa la forza dell'in gegno e dell'imaginaliya, diversa la qualilà degli
affetti, e per conseguente anche lo stile, che da queste procede, deve riuscire
diverso. Dal che si vede che imprendono opera dispe rala coloro, che si affaticano
ad imitare lo stile d'altri. E alcuni pur sono che andando passo passo sull'
orme di ALIGHIERI, del Petrarca o del Boccaccio, avvisano alla costoro gloria
di per venire; ma le opere loro per verità, in fuori di un poco di pulita
buccia, niun sugo hanno. Che cosa dovremo dunque apprendere dagli scrittori?
Rispondo che si vuole apprendere la lingua e i modi acconci ad esprimere chia
ramente, ornatamente e convenevolmente i no stri concelli. Da questo scrillore
ci sludieremo di procacciare una cosa, da quello un'altra, a seguileremo sempre
la nostra natura, secondo l'esempio di Dante, il quale lasciò scritto di sè: lo
mi son un che, quando amore spira, nolo, ed a quel modo che delta dentro, vo
significando. Che se allrove disse a VIRGILIO: Tu se' lo mio maestro e lo mio
autore, Tu se' solo colui, da cui io loisi Lo bello stile, che mi ha fallo
onore, non intese già d'avere tolto al maestro la ma niera propria di quel
poeta, ma sibbene la qualità, onde il carattere poetico é differente dal
filosofico e dal persuasivo. E chi è che pon senta la differenza che è dallo
stile di Dante a quello di Virgilio? Rimane per ultimo a dire degli autori, che
coloro che amano di scrivere nell'italiana favella, devono scegliere a maestri.
Nulla dirò dello studio della lingua greca e della latina, perciocchè essendo
notissimo che nell'una e nell'altra scrissero coloro, che insegnarono a tutto
il mondo, e che questa nostra da quelle procede, ciascuno conosce di per sé
quanta ulilità trarre se ne possa. Mi ristringerò dunque a fare alcuna parola
de' solo il conversatore italiano, che agli altri si devono preporre. E prima è
a sapere che nel secolo XIV alcuni prosatori ed alcuni poeti diedero al volgar
nostro tanta proprietà e grazia, che nessuno ha poi polulo eguagliarli: che nel
secolo XV questo volgare ſu quasi abbandonalo per soverchio amore della lingua
latina e per pusillanimità degli uomini d’Italia: che nel secolo XVI ſu dal
Fortunio e dal Bembo ridollo a regole deter. minate; e da molti ſu nobilmente
adoperato in varii generi di scritture: che nel secolo XVII fu da talupo
acconciamente impiegato ed ar ricchito di voci perlinenti alle scienze, fu da
alcun altro scrillo con eleganza, ma venne da moltissimi in parte corrotto e
rivolto in vanilà di falsi concelli: che nel XVIII finalmente ſu da pochi bene
usato, e da moltissimi con pa role e modi forestieri vituperato. Tale essendo
stata la fortuna di questa bellissima lingua, chi potrà dubitare che oggi non
sia a noi sa lutevole il consiglio, che ci porgono gli uomini sapienli, cioè
quello di studiare agli antichi esemplari? Se nel buon secolo della lingua la
lina si stimava essere opera di gran probllo ai giovani il molto leggere gli
antichi scrittori del Lazio, quanto maggiormente non si dee credere che lo
studiare i nostri sia per giovare a noi, che viviamo in un secolo, ove gl'ita
liani, pressoché tutti, più delle cose forestiere che delle proprie
dilettandosi, scrivono sì, che punto non pare alle loro scritture che sieno
stali allevati in Italia? Verissimo si ė (anche parlando delle arti) quello che
dicono i politi ci, cioè che qualvolta le cose sieno pervenule a corruzione,
bisogna richiamarle ai loro principii. Questa sentenza dovrebbe essere dinanzi
all'animo di tutti coloro, che amano il profitto de' giovani nelle lettere
umane; pure sono al cuni cbe, deridendo coloro che studiano i lesti della
lingua, dicono essere sciocchezza il darsi tanto pensiero delle parole ogni
qualvolta si 1centisti, abbia cura dei concelli; come se il recare alla mente
altrui i nostri concelli non dipenda dalla virtù di ben accoviodate parole.
Colali persone, avendo posla loro usanza o ne' soli domestici negozii o in
alcuna scienza o arte, nè mai data opera allo studio della lingua, vilipendono
ciò che non conoscono, e perciò, non avendo au. torità, non meritano alcuna
risposta. Tutti gli uomini di mente discreta non si maraviglie ranno, se qui
vengono consigliati i giovanetti a studiare prima nelle opere de’ trecentisti,
ne’ quali è dovizia di vocaboli proprii e di forme gentili, e chiarezza e
semplicità e urba nità e maravigliosa dolcezza, ed a riserbare agli anni loro
più maturi lo studio dei cinque che scrissero eloquentemenle di cose gravi e
magnifiche. Ma per avventura alcuno dirà: non dobbia. ino noi essere intesi
dagli uomini del nostro secolo e cercare di piacer loro seguendo l'usanza?
Perchè dunque vorremo che la gioventù studii ancora quelle opere, ove si
trovano, ol tre le voci ed i modi, che sono fuor d'uso, e barbarismi e pleonasmi
e solecismi ed equivocazioni, e talvolta negligenza e stranezza nel costrutti?
Perchè non vorremo consigliarla piullosto a leggere i soli scrillori del
cinquecento, i quali seguitando le regole grammati. cali dettate dal Fortunio e
da Bembo, non solo scrissero correttamente, ma trattarono eloquen temente di
varie ed importanti materie? A queste obbiezioni risponderemo che si dee se
guire l'usanza, del buon conversatore, l'usanza del volgo; che non si vuole
negare che in molle opere del trecento non si trovino ma non fra la copia delle
maniere proprie, nobili e graziose, varii difelli; ma che per questo non ci
rimarremo da consigliare la gioventù di avere sempre caro sopra tutti quel
secolo beato, e di leggere per tempo i suoi eccellenti scrittori, poichè ci
teniamo certi che quanto è difficile il rendersi famigliari e domestiche le
maniere native e gentili, altrettanto è facile di perdere l’abito di peccare
contro la grammatica e contro l’uso. La predetta virtù non si può acquistare se
non con lungo esercizio: il diſello si può togliere assai agevolmente dopo lo
studio della grammatica, e dopoche per la filosofia e per la erudizione ci
verrà dato di ben conoscere il valore delle parole e di ben distinguere la
lingua nobile dalla plebea, e le maniere, che per vecchiezza ban no perduta la
grazia e la forza pativa, da quel le che sono ancora belle ed efficaci. Quanto
allo studio de'cinquecentisti, non du bitiamo che ei sia per essere ulilissimo,
essen do che molli eccellenti scrittori di quel tempo adoperarono la lingua,
che appresero da Alighieri, da Boccacio, da Petrarca e dagli altri tre centisti,
emulando mirabilmente i romani in molli generi di scrilture: ma teniamo per
ſermo che convenga alla gioventù di avvezzarsi al candore ed alla semplicità
del trecento prima di cercare lo splendore, la ma gnificenza, la copia e
l'altezza de' pensieri nei cinquecentisti. Perciocché lulti coloro, che sfor
zano di parere magnifici e splendidi primaché dalla filosofia sieno ſalli
ricchi di cognizioni, fanno l'orazione loro bella nella buccia, una
nell'intrinseco vana e puerile. Non potendo i giovanelli esprimere con verila
se non quei pensieri e quegli allelli, che sono proprii del la tenera età,
troveranno assai comodale al bisogno le parole ed i modi usati da'trecentisti,
la più parte de'quali, come que' che vissero nell'infanzia dell'italico sapere,
scrissero di tenui materie. Verrà poi quel tempo maturo, in che a'giovani farà
mestiero di alzare a'gravi concelli lo stile, ed allora apprenderanno da
Guicciardini gravità e nerbo; dal Segretario fiorentino sobrietà ed evidenza;
dal Carocopia, efficacia e gentilezza; da Casa splendore e magnificenza; da GALILEI
ordine e precisione; d’Ariosto e da Tasso i pregi lulli, ond' ė divina la
poesia. Ma allo studio di quesli e degli altri molli, che fecero glorioso il
secolo di papa Leone, non avranno l'animo ben di. sposto se non coloro, cui
prima sarà piaciuto di allingere ai puri fonti del trecento, da'quali
derivarono i sopraddetli abbondantissimi fiumi. Questo, o Giovani, è quanto ho
stimato op portuno di porvi dinanzi per indirizzarvi nel cammino delle lettere,
alle quali inolti vanno per vie distorte e per lo contrario. Vi ho mo strato
quali sieno gli elementi dell’ELOCUZIONE; come nel contemperarli secondo le
leggi del decoro si loronino i varii caratteri; e final. mente come lo stile
proceda da naturale di sposizione e come col sapere si perfezioni. Darò fine
coll'avvertirvi, se vero è che la scienza e l'esempio fanno l'arte, è vero
altresì che arte senza uso poco giova: onde, se dallo stile cercate onore, vi
sarà bisogno di neditare mollo, di leggere molto e di scrivere mollissimo. Ricerca
Sinestesia (figura retorica) Questa voce sull'argomento retorica è solo un
abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. La
sinestesia (dal greco syn, 'insieme', e aisthánomai, 'percepisco') è una figura
retorica, in particolare un tipo di metafora ("metafora
sinestetica"), che prevede l'accostamento di 2 parole appartenenti a due
sfere sensoriali diverse.[1] Ha largo uso in poesia ed in genere nella
versificazione: «L'odorino amaro» (Giovanni Pascoli, Novembre.)
«Voci di tenebra azzurra.» (Giovanni Pascoli, La mia sera.) «Venivano
soffi di lampi.» (Pascoli, L'assiuolo.) «Urlo nero» (Salvatore
Quasimodo, Alle fronde dei salici.) Tra le canzoni, si può citare Il sogno di
Maria di Fabrizio De André: «Quando mi chiese: "Conosci l'estate?"
io per un giorno per un momento, corsi a vedere il colore del vento.» È
usata anche nella lingua di tutti i giorni ("colori caldi",
"giallo squillante" ecc.) e quindi anche in prosa. NoteModifica
^ Angelo Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, Milano, Arnoldo Mondadori
Editore, 1984 [1978] , p. 299, ISBN 88-04-14664-8. Altri
progettiModifica Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di
dizionario «sinestesia» Portale Linguistica: accedi alle voci di
Wikipedia che trattano di Linguistica Ultima modifica 2 mesi fa di Nima
Tayebian, Enfasi Sinestesia pagina di disambiguazione di un progetto
Wikimedia Analogia (retorica) Figura retorica Wikipedia Il
contenutoWikipedia Ricerca Sinestesia (psicologia) fenomeno
sensoriale/percettivo Lingua Segui Modifica Avvertenza Le informazioni
riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I
contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico:
leggi le avvertenze. La sinestesia è un fenomeno sensoriale/percettivo, che
indica una "contaminazione" dei sensi nella percezione.[1] Il
fenomeno neurologico della sinestesia si realizza quando stimolazioni
provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze,
automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o
cognitivo.[2] Possibile visione dei mesi dell'anno da parte di una
persona soggetta al fenomeno della Sinestesia Descrizione generale del
fenomenoModifica Con il termine "sinestesia" si fa riferimento a
quelle situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva
è percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi.[1] Nella
sua forma più blanda è presente in molti individui, spesso dovuta al fatto che
i nostri sensi, pur essendo autonomi, non agiscono in maniera del tutto
distaccata dagli altri. Più indicativo di un'effettiva presenza di
sinestesia è il caso in cui il percepire uno stimolo (come ad esempio il suono)
provoca una reazione netta e propria di un altro senso (ad esempio la vista).
Per "forma pura" si intende la sinestesia che si manifesta
automaticamente come fenomeno percettivo e non cognitivo. Il fenomeno è
involontario, ma una maggiore attenzione prestata dal soggetto può evocarlo con
maggiore consapevolezza, al punto che il sinestesico puro, vedendo i suoni e
sentendo i colori, può riuscire a trarre vantaggio da queste contaminazioni
sensoriali; un compositore che sfruttava questa sua capacità fu Olivier
Messiaen, così come il pittore Vasilij Vasil'evič Kandinskij, che affermava di
poter sentire la voce dei colori, che per lui erano suoni, entità vive e lo
spiega bene nel suo libro Lo spirituale nell’arte. Un altro sinestesico fu il
pittore e musicista lituano, Mikalojus Konstantinas Čiurlionis. Il compositore
russo Aleksandr Nikolaevič Skrjabin era particolarmente interessato agli
effetti psicologici sul pubblico quando sperimentavano suoni e colori
contemporaneamente. La sua teoria era che quando si percepiva il colore giusto
con il suono corretto, si creava "un potente risonatore psicologico per
l'ascoltatore". La sua opera sinestetica più famosa, che viene eseguita
ancora oggi, è Prometeo: il poema del fuoco. Ma la lista degli artisti
sinestesici è molto lunga, infatti le ultime ricerche affermano che il fenomeno
sinestesico interessi il 4% della popolazione e di questo 4% la maggior parte
sono artisti. Un'altra caratteristica della sinestesia è poi che si presenta a
volte nelle persone mancine, o in concomitanza con altre caratteristiche come
l'allochiria (confusione della mano destra con la sinistra), scarso senso
dell'orientamento, dislessia, deficit dell'attenzione e, raramente,
autismo. Spesso la contaminazione sensoriale avviene a direzione unica:
ad esempio, se vedo una nota musicale come un colore, non è detto che vedendo
quel colore la mia mente evochi quella nota. Questa è una delle caratteristiche
della sinestesia percettiva, l'unidirezionalità. Secondo lo storico Angelo
Paratico il mancino Leonardo Da Vinci era affetto da sinestesia.[3]
Esperienze di tipo sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale,
mediante l'uso di sostanze allucinogene, sostanze stupefacenti come l'LSD,
esperienze di deprivazione sensoriale, meditazione, ed in alcuni tipi di
malattie che colpiscono la corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è detta
pseudosinestesia, in quanto è indotta o non presente dalla nascita. La
sinestesia acquisita sembra riguardare solo le forme di sinestesia percettiva,
e non sono stati documentati casi di sinestesia concettuale acquisita. Le
persone che hanno esperienze sinestesiche nella "forma pura" sono un
numero relativamente ridotto. Studi recenti hanno mostrato una certa
variabilità: 1 ogni 2000[4] 1 ogni 200[5] Queste esperienze sono
quotidiane ed iniziano sin dall'infanzia. Molti sinestesici si sorprendono
scoprendo che questa esperienza non è provata da tutte le persone.
L'esperienza sinestetica è composta da due elementi: L'evento induttore
(inducer). L'evento concorrente (concurrent). Per esempio, può accadere che un
sinestesico descriva il suono (inducer) del proprio bambino che piange come un
colore giallo sgradevole (concurrent). La relazione tra un inducer e un
concurrent è sistematica, nel senso che a ogni inducer corrisponde un preciso
concurrent. Grossenbacher & Lovelace (2001), distinguono due tipi di
sinestesia a seconda che l'inducer sia percettivoo concettuale.
Sinestesia percettiva: l'inducer è uno stimolo percettivo (per es. la vista di
lettere produce anche la vista di colori "collegati"). Sinestesia
concettuale: i concurrent sono prodotti dal pensare a un particolare concetto
(per es: numero, mese dell'anno, posizione nello spazio). Si utilizza
intensivamente la sinestesia anche nella terminologia utilizzata nella
degustazione o nell'analisi sensoriale. Basi genetiche della
sinestesiaModifica Purtroppo con le competenze scientifiche attuali non è
possibile identificare singoli loci genici che determinino con certezza questo
fenomeno neurocognitivo. Il fenomeno è più probabilmente dovuto a un complesso
meccanismo neurale e non a singole proteine codificate da parti di genoma. In
ogni caso interessanti esperimenti di neuroimaging paiono confermare tale
fenomeno. [6] Sinestesia: grafema-coloreModifica Ramachandran e i suoi
collaboratori hanno notato che la forma più comune di sinestesia è quella
grafema(lettera, numero) - colore e infatti i rispettivi centri cerebrali sono
molto vicini tra loro.[7] Tecniche di neuroimmagini (es. risonanza
magnetica funzionale) hanno permesso di individuare il "centro del
colore" (es. Zeki & Marini, 1998, Brain), l'area V4 nel giro
fusiforme. L'area dei grafemi è stata anch'essa individuata nel giro
fusiforme, in particolare nell'emisfero sinistro vicino all'area V4. L'area si
attiva sia in seguito alla presentazione di lettere sia in seguito alla
presentazione di numeri. L'ipotesi di Ramachandran è che ci sia una
attivazione congiunta. La presentazione di un grafema fa attivare l'area dei
grafemi, che fa attivare contemporaneamente anche l'area del colore, anche
senza la presenza di uno stimolo. Questo è dovuto ad un eccesso di connessioni
tra le due aree, non presente in tutte le persone. Le connessioni che si
hanno alla nascita sono un numero superiore di quello che si trovano in un
cervello adulto. Quello che avviene nei primi mesi di vita è un processo definito
pruning (potatura, sfoltimento) delle connessioni cerebrali. L'ipotesi di
Ramachandran è che le connessioni tra area del colore e area dei grafemi, che
normalmente subiscono un processo di pruning, rimangono invece intatte nei
sinestesici. Probabilmente per una mutazione genetica che fa fallire il
processo di pruning. Esisteranno delle regole che in seguito all'esperienza
permetteranno di sviluppare connessioni particolari tra area dei grafemi e area
del colore. Questo spiegherebbe perché ad un grafema viene sempre associato un
certo colore. Ramachandran ipotizza che l'attivazione del giro fusiforme
non implichi un arrivo alla coscienza delle informazioni. Perché sia possibile
essere consapevoli dell'informazione percepita si dovranno attivare altre aree
superiori. Tuttavia, Grossenbacher sostiene che la sinestesia non sia dovuta
alla presenza di un numero maggiore di connessioni neurali (le quali non
sarebbero presenti nei non sinestesici); infatti, secondo lo studioso tale
fenomeno percettivo è imputabile al fatto che, nel cervello dei sinestesici,
alcune connessioni neurali risultano ancora attive, mentre non vengono più
"utilizzate" in chi non sperimenta tale modo di percepire. Questo
spiegherebbe il motivo per cui chi assume droghe psicoattive sia in grado di
esperire una condizione di "pseudo-sinestesia", circoscritta
esclusivamente al limite temporale in cui tali sostanze dispieghino il loro
effetto, per poi tornare a non percepire sinestesicamente una volta terminato
quest'ultimo. Secondo Grossenbacher è molto improbabile, infatti, che si siano
create nuove connessioni neurali durante l'assunzione di tali droghe;
piuttosto, risulta più probabile che vengano percorse "strade"
neurali solitamente "disattive". Influenza dell'attenzione
sulla percezioneModifica Esperimento di Ramachandran e Hubbard: caso della
figura gerarchica (un 5 composto da tanti 3), se ai soggetti veniva chiesto di
fare attenzione a livello globale (5) vedevano il colore rosso, se invece
dovevano dirigere la loro attenzione a livello locale (3) vedevano verde.
Questo esperimento porta a concludere che l'attenzione influenza il
manifestarsi del fenomeno sinestesico. Sinestesici projectorModifica Nel
caso di grafema-colore, il colore è visto come una pellicola che ricopre il
numero completamente. Un sinestesico testato da Dixon, riferiva di provare
un'esperienza irritante se il numero era di un colore incongruente con quello
del fotismo (l'effetto della sua sinestesia). Se per esempio il numero 5 gli
evocava il colore rosso, ma in realtà era scritto con il giallo.
Sinestesici associatorModifica Sempre nel caso di grafema-colore, il colore
appare nella mente, e non sopra il numero. In genere, i sinestesici associator
riferiscono che l'esperienza di vedere un numero con un colore non congruente
con quello del fotismo, non è un'esperienza per nulla disturbante. La
percezione del colore "reale" del numero è un'esperienza molto più
intensa del fotismo, per un sinestesico associator. I sinestesici
projector sembrano una minoranza rispetto ai sinestesici associator (11 su 100,
tra quelli intervistati da Dixon e collaboratori). Tra i maggiori
studiosi della sinestesia percettiva, Richard Cytowic, Ramachandran, E.
Hubbard, Sean Day, Bulat Galeyev, Irina Vaneckina. Rapporto con i canali
del calcioModifica Studiando nel moscerino della frutta un gene coinvolto
nell'elaborazione del dolore, alcuni ricercatori hanno creato il primo modello
della sinestesia. Con la tecnica dell'interferenza a RNA hanno isolato 600 geni
quali candidati a interessare possibili geni del dolore. Il primo ad essere
analizzato più in dettaglio è stato quello che codifichi parte di un canale del
calcio noto come alfa 2 delta 3 (α2δ3). Questi canali che regolano il passaggio
di Ca2+ attraverso la membrana cellulare sono fondamentali per l'eccitabilità
elettrica dei neuroni. Con questi canali interferiscono diversi
antidolorifici. Nei topi carenti di α2δ3 si è dimostrato che questo gene
controlli la sensibilità al dolore provocato dal calore sia nella Drosophila sia
nei mammiferi. Indagini condotte con la MRI hanno anche rivelato che α2δ3
partecipi all'elaborazione del dolore termico a livello cerebrale. In assenza
di α2δ3 il segnale del dolore a genesi termica arriva al talamo, ma poi non
prosegue verso i suoi centri corticali superiori. Le immagini di fMRI mostrano
piuttosto un'attivazione crociata delle aree corticali per la visione,
l'olfatto e l'udito. Questa sinestesia si osserva anche quando lo stimolo
doloroso sia di natura tattile.[8] NoteModifica ^ a b Emozioni colorate |
Le Scienze, su lescienze.espresso.repubblica.it. ^ Harrison, John E.; Simon
Baron-Cohen (1996). Synaesthesia: classic and contemporary readings. Oxford:
Blackwell Vinci. A Chinese Scholar Lost in Renaissance Italy, Lascar
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2005. URL consultato il libero. ^ percezione e idee, la sinestesia | PsycHomer,
su psychomer.it Le Scienze: Non provo
dolore, ma ne sento l'odore e ascolto le note BibliografiaModifica Córdoba M.J.
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Fundación Internacional Artecittà, Edición Digital interactiva, Imprenta del
Carmen. Granada 2009. ISBN 978-84-613-0289-5 Córdoba M.J. de, Riccò D. (et
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Fundación Internacional Artecittà, Granada Cytowic, R.E., Synesthesia: A Union
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Cytowic, R.E., The Man Who Tasted Shapes, Cambridge, MIT Press, Massachusetts,
Marks L.E., The Unity of the Senses. Interrelations among the modalities,
Academic Press, New York, 1978. Riccò D., Sinestesie per il design. Le
interazioni sensoriali nell'epoca dei multimedia, Etas, Milano, Riccò D.,
Sentire il design. Sinestesie nel progetto di comunicazione, Carocci, Roma,
2008. ISBN 978-88-430-4698-0 Tornitore T., Storia delle sinestesie. Le origini
dell'audizione colorata, Genova, 1986. Tornitore T., Scambi di sensi.
Preistoria delle sinestesie, Centro Scientifico Torinese, Torino, 1988. Voci
correlateModifica Takete e Maluma Sinestesia tattile-speculare Altri
progettiModifica Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di
dizionario «sinestesia» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons
contiene immagini o altri file su sinestesia Collegamenti esterniModifica Udire
i colori, gustare le forme, su lescienze.espresso.repubblica.it, Le Scienze.
URL consultato il 20 maggio 2015. TED Talk: "I listen to color"
Portale Psicologia. Qualia aspetti qualitativi delle esperienze coscienti
Locus ceruleus Sinestesia tattile-speculare raro fenomeno
sensoriale/percettivo Wikipedia IlWikipedia Ricerca Sinestesia (film)
film del 2010 diretto da Erik Bernasconi Lingua Segui Modifica Ulteriori
informazioni Questa voce sull'argomento film drammatici è solo un abbozzo.
Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Sinestesia
Lingua originaleitaliano Paese di produzione Svizzera Anno2010 Durata91 min
Rapporto1:1.85 Generedrammatico RegiaErik Bernasconi SceneggiaturaErik
Bernasconi ProduttoreVilli Hermann, Imagofilm Lugano e RSI FotografiaPietro
Zuercher MontaggioClaudio Cormio Effetti specialiFlavio Scarponi, Oltremondo
studio Lugano MusicheZeno Gabaglio, Christian Gilardi ScenografiaFabrizio
Nicora CostumiLaura Pennisi Interpreti e personaggi Alessio Boni: Alan Giorgia
Würth: Francoise Melanie Winiger: Michela Leonardo Nigro: Igor Teco Celio:
Padre di Francoise Bindu De Stoppani: Maide Roberta Fossile: Cathrine Igor
Horvat: Martin Federico Caprara: Uomo strano Eva Allenbach: Segretaria
Massimiliano Zampetti: Infermiere Daniele Bernardi: Fisioterapista Alessandro
Otupacca: Proprietario ristorante Sinestesia è un film del 2010 scritto e diretto
da Erik Bernasconi, prodotto da Villi Hermann e coprodotto da Giulia Fretta per
la RSI. I protagonisti sono Alessio Boni, Melanie Winiger, Giorgia Würth e
Leonardo Nigro. È stato nominato ai Quartz 2010 per la miglior sceneggiatura,
per la miglior attrice (Melanie Winiger) e per la miglior attrice esordiente
(Giorgia Wurth). La pellicola è uscita nelle sale ticinesi il 26 marzo
2010. TramaModifica Il film racconta due momenti della vita di quattro
giovani adulti confrontati con le prove del destino. Alan, sua moglie
Françoise, la sua amante Michela, il suo migliore amico Igor, vivono le
sfaccettature del quotidiano dopo un incidente che costringe Alan su una sedia
a rotelle. Per questo la narrazione si compone, con una struttura circolare, in
quattro capitoli: uno per personaggio, ognuno ispirato a un genere
cinematografico. Sono quattro momenti di una stessa storia, che esplorano le
emozioni dei personaggi da quattro angolature diverse. La trama si basa in
larga parte sull'osservazione di fatti realmente accaduti e affronta con
accenti diversi (thriller psicologico, commedia, dramma…) i temi dell'amicizia,
dell'amore, dell'infedeltà e della disabilità. ProduzioneModifica L'idea
del film è partita nel dicembre 2006, con la lettura di un trafiletto in un quotidiano.
Poi nell'estate del 2007 il regista e sceneggiatore Erik Bernasconi ha vinto un
concorso indetto dal Dipartimento della Cultura del Cantone Ticino e dalla RSI
per progetti di scrittura di film. Così Erik Bernasconi inizia a collaborare
con il produttore Villi Hermann, della Imagofilm, e parte la stesura della
sceneggiatura. AmbientazioneModifica Il film è stato girato quasi
interamente nella Svizzera italiana, a parte alcune scene girate a Lucerna e
Ginevra. Le riprese hanno avuto luogo nella primavera e nell'estate del
2009. RiconoscimentiModifica 2010 - Premio del cinema svizzero
Candidatura al premio Quartz per la miglior sceneggiatura Collegamenti
esterniModifica ( EN ) Sinestesia, su Internet Movie Database, IMDb.com.
Modifica su Wikidata ( EN ) Sinestesia, su Rotten Tomatoes, Flixster Inc.
Sinestesia, su FilmAffinity. Modifica su Wikidata Portale
Televisione: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di televisione Ultima
modifica 2 mesi fa di Botcrux Melanie Winiger modella e attrice svizzera
Erik Bernasconi regista e sceneggiatore svizzero Zeno Gabaglio Wikipedia
Il contenuto èGrice: “It may be said that my transcendental Kantian approach to
cooperative rational conversation is a response to Costa’s totally empiricist
(or ‘sensista’ as he prefers) invocations of ‘chiarezza’ (my imperative of
conversational clarity), and brevita, eleganza, and all the categories that
inform the maxims. Paolo Costa. Keywords: la teoria sensista della
communicazione – senso – consenso – aesthesis – synaesthesia --– idea dei chi
proferisce la proposizione “Me diletta l’odore di questa rosa piu del colore”,
cooperiamo, e la risponsa di nostre anime e “Contrariamente, a me mi diletta il
colore di questa rosa piu dell’odore” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costa”
– The Swimming-Pool Library.
Grice e Costantino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma).
Filosofo italiano. Costantino I. Costantino I Cesare e poi Augusto dell'Impero
romano Testa dell'acrolito monumentale di Costantino (Musei Capitolini) Nome
originale: Flavius Valerius Constantinus Regno Cognomina ex virtute: Pius Felix
Invictus Maximus Victor Triumphator Germanicus maximus IV Sarmaticus maximus
III Gothicus maximus II Dacicus maximus Adiabenicus Arabicus maximus Armeniacus
maximus Britannicus maximus Medicus maximus Persicus maximus Nascita Naissus Morte Nicomedia
Sepoltura Chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli Predecessore Costanzo
Cloro (per parte dei territori di competenza amministrati) e Flavio Severo (per
la carica di Cesare d'Occidente) Successore Costantino II (cesare) Costanzo II Costante
I (cesare dal 333) Dalmazio (cesare dal 335) Coniuge Minervina Fausta Figli Crispo
Costantina Costantino II Costanzo II Costante I Elena Dinastia Costantiniana
Padre Costanzo Cloro Madre Elena Flavio Valerio Constantino (Constantino I)
Moneta di Costantino con la rappresentazione del monogramma di Cristo sopra il
labaro imperiale Nascita Naissus, 27 febbraio 274 Morte Nicomedia, 22 maggio
337 Cause della morte naturali Luogo di sepoltura Chiesa dei Santi Apostoli a
Costantinopoli Religione cristianesimo convertito dal paganesimo Dati militari
Paese servitor Impero romano Forza armata Esercito romano Grado Augusto
Comandanti Costanzo Cloro e Massimiano Guerre Guerra civile romana Campagne
germanico-sarmatiche di Costantino Invasioni barbariche del IV secolo Campagne
siriano-mesopotamiche di Sapore II Battaglie Battaglia di Verona
Battaglia di Torino Battaglia di Ponte Milvio Battaglia di Cibalae Battaglia di
Mardia Battaglia dell'Ellesponto Assedio di Bisanzio (324) Battaglia di
Adrianopoli Battaglia di Crisopoli Nemici storici Massenzio e Licinio
Comandante di Esercito romano voci di militari presenti su Wikipedia Manuale
San Costantino I Raffigurazione di san Costantino nella basilica di Santa Sofia
a Istanbul. L'imperatore, che la Chiesa ortodossa ha definito «Simile agli
Apostoli», proclamandolo santo, è raffigurato nell'atto di dedicare la
basilica. Imperatore Nascita Naissus, 27 febbraio 274 Morte Nicomedia, 22
maggio 337 Venerato da Chiesa cristiana ortodossa Santuario principale Chiesa
dei Santi Apostoli Ricorrenza 21 maggio Manuale Battaglie di Costantino I nella
guerra civile. Flavio Valerio Aurelio Costantino, conosciuto anche come
Costantino il Vincitore, Costantino il Grande e Costantino I (in latino:
Flavius Valerius Aurelius Constantinus; in greco antico: Κωνσταντῖνος ὁ Μέγας?,
Konstantînos o Mégas; Naissus, Nicomedia), è un filosofo italiano. Costantino è
una delle figure più importanti dell'impero romano, che riformò largamente e
nel quale permise e favorì la diffusione del cristianesimo. Tra i suoi
interventi più significativi, la riorganizzazione dell'amministrazione e
dell'esercito, la creazione di una nuova capitale a oriente, Costantinopoli, e
la promulgazione dell'Editto di Milano sulla libertà religiosa. La Chiesa
ortodossa e le Chiese di rito orientale lo venerano come santo, presente nel
loro calendario liturgico, col titolo di Eguale agli apostoli; mentre il suo
nome non è presente nel Martirologio Romano, il catalogo ufficiale dei santi
riconosciuti dalla Chiesa cattolica. Le fonti primarie sulla vita di Costantino
e sulle relative vicende da imperatore devono essere prese con la dovuta
cautela. La principale fonte contemporanea è costituita da Eusebio di Cesarea,
autore di una Storia Ecclesiastica che non manca di esaltare la gloria e la
nobiltà di Costantino in quanto imperatore, a cui fece seguito una Vita di
Costantino che ne costituisce una vera e propria agiografia. Anche Lattanzio,
nel suo De mortibus persecutorum, delinea in modo netto la distinzione fra il
pio Costantino e il perverso Diocleziano (Salona). Distinzione forse non del
tutto disinteressata, visto che Lattanzio, nato in Nordafrica da famiglia
pagana e convertitosi al cristianesimo, dovette fuggire precipitosamente da
Nicomedia, sede imperiale di Diocleziano, all'alba dell'ultima persecuzione
contro i Cristiani. La stessa cautela deve valere per la Storia Nuova di Zosimo.
Infine, l'appendice alla storia di Ottato di Milevi sullo scisma donatista
racchiude alcune lettere che Costantino avrebbe inviato ai cristiani del
Nordafrica e che, se autentiche, potrebbero rivelare alcuni tratti del pensiero
dell'imperatore riguardo alla questione. Albero genealogico della
dinastia costantiniana che ha in Costanzo Cloro il vero capostipite. Costantino
nacque a Naissus (odierna Niš, in Serbia), un modesto centro situato nella
provincia romana della Mesia Superiore, figlio di Costanzo Cloro, militare e
politico romano di origini illiriche e nativo della Dardania. Costantino e di
madrelingua latina e, ha sempre difficoltà nel padroneggiare il greco, tanto da
doversi avvalere d'interpreti con locutori ellenofoni. Si conosce pochissimo
della sua gioventù. Perfino la sua data di nascita è incerta. Forse è proprio
durante l'adolescenza che gli fu affibbiato il soprannome dispregiativo “Trachala,”
da interpretare nel senso di "viscido come una lumaca". Nominato
Prefetto del pretorio delle Gallie (cioè comandante militare) e in base al
sistema della Tetrarchia voluta da Diocleziano, nominato Cesare dall'Augusto di
Occidente, Massimiano, di cui sposa la figliastra Teodora. Costantino e
affidato all'Augusto d'Oriente, Diocleziano, ed educato a Nicomedia presso la
corte dell'imperatore, sotto il quale comincia la carriera militare: fu
tribunus ordinis primi e con questo grado fu al seguito dello stesso
Diocleziano nel suo viaggio in Egitto. Successivamente partecipò attivamente
alla campagna contro i Sasanidi condotta da Galerio per poi tornare a servizio
di Diocleziano con il quale lascia definitivamente l'Egitto attraversando la
Palestina. Combatté ancora tra le file dell'esercito di Galerio sul confine
danubiano, ove si distinse nelle guerre contro i Sarmati. Diocleziano abdicò a
favore del proprio Cesare Galerio e lo stesso fa Massimiano in Occidente, a
favore di Costanzo Cloro. Galerio nomina proprio Cesare il nipote Massimino
Daia e impone a Costanzo, con il sostegno di Diocleziano, come nuovo Cesare
Flavio Severo, un ufficiale di alto rango che aveva militato tra le file dello
stesso Galerio.E in questo frangente che Costantino raggiunse il padre in
Britannia (alcune fonti vogliono che quella di Costantino sia stata una vera e
propria fuga da Nicomedia, dove Galerio avrebbe voluto trattenerlo per garantirsi
la fedeltà di Costanzo Cloro) e condusse con lui alcune campagne militari
nell'isola.Circa un anno dopo, Costanzo Cloro morì nei pressi di Eburacum,
l'odierna York. Qui l'esercito, guidato dal generale germanico Croco (di
origine alamanna), proclama Costantino nuovo Augusto d'Occidente, mettendo a
repentaglio il meccanismo della tetrarchia, ideato da Diocleziano proprio per
porre termine all'uso ormai consolidato degli eserciti di proclamare di propria
iniziativa gli imperatori. Per tale ragione Galerio, che al tempo era l'unico
Augusto legittimo rimasto in carica, e inizialmente scettico nel riconoscere
l'investitura di Costantino, tuttavia alla fine si convinse a cooptarlo nel
collegio imperiale ma con il rango di Cesare, promuovendo invece come nuovo
Augusto d'Occidente Flavio Severo. Costantino da parte sua accettò la decisione
di Galerio e, per dimostrare come riconoscesse l'autorità di Severo quale nuovo
superiore in grado, cede a quest'ultimo il controllo della diocesi Iberica,
mentre a lui sarebbe rimasto il governo delle Gallie e della Britannia. La
sofferta nomina di Costantino a Cesare, per quanto gestita e riassorbita nei
quadri della tetrarchia, aveva mostrato la debolezza del sistema di successione
per cooptazione creato da Diocleziano. Infatti Massenzio, figlio dell'Augusto
emerito Massimiano, scontento di essere stato tagliato fuori da qualsiasi
posizione di potere, si fece acclamare imperatore a Roma con l'appoggio dei
pretoriani, dell'aristocrazia senatoria e della plebe urbana.[38] Galerio per
l'occasione decise di agire senza indugi e con durezza, ordinando a Severo, che
risiedeva a Milano, di marciare verso Roma per sedare la rivolta ma, giunto in
prossimità della città, le truppe al suo comando disertarono poiché venute a
conoscenza che Massimiano, per il quale avevano militato prima della sua
abdicazione, si era schierato a sostegno del figlio. Severo, fatto prigioniero,
fu poi ucciso.Galerio allora tenta di organizzare in prima persona una
spedizione in Italia, ma non ottenne alcun risultato e fu costretto a ritirarsi
nell'Illirico. Durante questi eventi, Costantino e impegnato sul confine renano
a combattere con successo i Franchi e si era mantenuto neutrale nella disputa
tra Galerio e Massenzio. Massimiano cerca dunque di farselo alleato e, per
attirarlo alla sua causa, lo raggiunse a Treviri, offrendogli in sposa la
figlia Fausta e il titolo di Augusto. Costantino accettò l'offerta di alleanza
e, dopo essere convolato a nozze, si fa proclamare Augusto sul finire
dell'anno. Tornato a Roma, Massimiano entra in urto con Massenzio, al potere
del quale non voleva più essere subordinato e, costretto a fuggire dalla città
poiché le truppe erano rimaste leali al figlio, fu riaccolto alla corte di
Costantino in Gallia. Galerio, nel tentativo di porre rimedio alla crisi
istituzionale creatasi, convoca a Carnuntum un convegno al quale presero parte,
oltre a lui, anche Massimiano e, soprattutto, Diocleziano. In questa
circostanza e creato Augusto Liciniano Licinio, un commilitone di Galerio,
mentre Costantino fu degradato nuovamente a Cesare e Massimiano dovette
deporre, questa volta definitivamente, le vesti imperiali per una seconda
volta. Contestualmente Massenzio fu dichiarato hostis publicus («nemico
pubblico»).[47] Tornato deprivato di ogni potere, Massimiano inizia a
tramare contro Costantino. Approfittando dell'assenza del genero, impegnato a
sedare una sollevazione dei Franchi, il vecchio Erculio si proclamò per la
terza volta imperatore e, assunto il comando della truppe stanziate a
Marsiglia, si arroccò nella città.[49] Costantino, tornato in fretta dal
confine renano, la pose d'assedio ma, ancor prima che iniziassero le ostilità,
i soldati all'interno della città si arresero e consegnarono Massimiano, a cui
fu però risparmiata la vita.[50] Agli inizi del 310, dopo un ennesimo complotto
ordito da Massimiano e sventato questa volta dalla figlia Fausta, Costantino
ordinò la messa a morte del suocero[51] e successivamente, attorno alla metà
dell'anno, decise di riappropriarsi del titolo di Augusto che gli era stato
tolto a Carnuntum, ottenendo stavolta il consenso di Galerio. Alla morte di
Galerio nel 311, Costantino si alleò con Licinio, mentre Massenzio con
Massimino Daia. Costantino, ormai sospettoso nei confronti di Massenzio,
riunito un grande esercito formato anche da barbari catturati in guerra, oltre
a Germani, popolazioni celtiche e provenienti dalla Britannia, mosse alla volta
dell'Italia attraverso le Alpi, forte di 90 000 fanti e 8 000 cavalieri.[53]
Lungo la strada, Costantino lasciò intatte tutte le città che gli aprirono le
porte, mentre assediò e distrusse quante si opposero alla sua avanzata. Egli,
dopo aver battuto due volte Massenzio prima presso Torino e poi presso Verona,
lo sconfisse definitivamente nella battaglia di Ponte Milvio,[54] presso i Saxa
Rubra sulla via Flaminia, alle porte di Roma, il 28 ottobre del 312. Con la
morte di Massenzio, tutta l'Italia passò sotto il controllo di
Costantino.[55] Durante questa campagna sarebbe avvenuta la celebre e leggendaria
apparizione della croce sovrastata dalla scritta In hoc signo vinces che
avrebbe avvicinato Costantino al cristianesimo. Secondo Eusebio di Cesarea
questa apparizione avrebbe avuto luogo proprio nei pressi di Torino.[56]
Nel 318 circa ebbe dalla moglie Fausta Costantina. Augusto d'Occidente
(313-324) Schema della battaglia avvenuta presso Adrianopoli nel 324,
dove Costantino, seppure in inferiorità numerica, prevalse su Licinio, il quale
lasciò sul campo secondo Zosimo ben 34.000 armati. Massimino Daia veniva
sconfitto da Licinio e si dava la morte. Entrando in Nicomedia Licinio emanò un
rescritto (impropriamente detto editto di Milano dal luogo dove era stato
concordato con Costantino), con cui a nome di entrambi gli augusti rimasti
veniva riconosciuta anche in Oriente la libertà di culto per tutte le
religioni, ponendo fine ufficialmente alle persecuzioni contro i cristiani,
l'ultima delle quali, cominciata da Diocleziano tra il 303 e il 304, si era
conclusa nel 311 su ordine di Galerio, prossimo a morire. Il testo del
decreto recita: (LA) «Cum feliciter tam ego [quam] Constantinus Augustus
quam etiam ego Licinius Augustus apud Mediolanum convenissemus atque universa
quae ad commoda et securitatem publicam pertinerent, in tractatu haberemus,
haec inter cetera quae videbamus pluribus hominibus profutura, vel in primis
ordinanda esse credidimus, quibus divinitatis reverentia continebatur, ut
daremus et Christianis et omnibus liberam potestatem sequendi religionem quam
quisque voluisset, quod quicquid <est> divinitatis in sede caelesti,
nobis atque omnibus qui sub potestate nostra sunt constituti, placatum ac
propitium possit existere» (IT) «Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio
Augusto, essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti
gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni
che vedevamo utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo
posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai galilei
e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede,
affinché il divino, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia
pace e prosperità. -- Lattanzio, De mortibus persecutorum, capitolo
XLVIII) Nella prosecuzione il rescritto ordina l'immediata restituzione
ai galilei di tutti i luoghi di culto e di ogni altra proprietà delle
chiese. Costantino e Licinio, che ne aveva sposato la sorella Costanza,
entrarono una prima volta in conflitto
(in seguito alla riappacificazione l'Illirico passò a Costantino). In
seguito alla sconfitta di Licinio, che si arrese dopo le battaglie di
Adrianopoli e di Crisopoli e venne successivamente ucciso, Costantino rimase
l'unico augusto al potere. Questo periodo cominciò con una serie di uccisioni,
a partire da quella del suo antico rivale Licinio. L'anno seguente Costantino fa
uccidere a Pola il figlio primogenito Crispo, figlio di Minervina, per una
presunta relazione con Fausta e inoltre Liciniano, figlio della sorella
Costanza e di Licinio. Quindi anche la moglie Fausta venne uccisa soffocata o
annegata nel bagno termale, riscaldato oltre la temperatura normale. La
leggenda vuole che Crispo sia stato eliminato in seguito all'accusa di Fausta
di averla insidiata, e quindi anche lei venne giustiziata quando Costantino
riconosce l'innocenza del figlio. Forse erano entrambi vittime di falsi
delatori o lei volle assicurarsi l'eliminazione dei rivali dei propri figli
come successori di Costantino. Il rimorso di Costantino e grande, secondo
quanto riporta ne “I Cesari” il suo polemico successore, il principe Giuliano. Si
erano iniziati i lavori per la costruzione della nuova capitale Nuova Roma sul
sito dell'antica Bisanzio, fornendola di un senato e di uffici pubblici simili
a quelli di Roma. Il luogo venne scelto come capitale nper le sue
eccezionali qualità difensive e per la vicinanza ai minacciati confini
orientali e ai danubiani. Inoltre, particolare non secondario, consentiva a
Costantino di sottrarsi all'influenza invadente, arrogante e irritante degl’aristocratici
presenti nel Senato romano, che tra l'altro erano della religione dell’antica
Roma. Nova Roma e inaugurata e prese presto il nome di “Costantinopoli”. Rispetto
alla vecchia città, la nuova era quattro volte più vasta: dove c'era un'antica
porta Costantino pose un foro circolare, inoltre spostò le sue mura più a
occidente di 15 stadi. La città (oggi Istanbul) resterà poi fino al 1453
capitale dell'Impero romano d’oriente. Diocesi (impero romano) e
Prefettura del pretorio. Riprendendo la divisione della riforma tetrarchica
dioclezianea che prevedeva due Augusti e due Cesari, l'Impero venne ridisegnato
e suddiviso in quattro prefetture, tutte facenti capo a un unico Imperatore: delle
Gallie, comprendente la Gallia transalpina, la Spagna e la Britannia; d'Italia, comprendente l'Italia, la Sicilia,
Sardegna e Corsica, e l'Africa dalle Sirti alla Mauretania Caesariensis; d'Oriente,
comprendente tutte le province orientali con l'eccezione delle isole di Lemno,
Imbro e Samotracia, l'Egitto e la pentapoli di Libia, oltre alla Tracia e la
Mesia inferiore; d'Illirico, comprendente le province balcaniche, vale a dire
dalla Macedonia, alla Tessaglia, a Creta all'Ellade, ai due Epiri, all'Illiria,
a Dacia, Triballia e Mesia superiore, oltre alle Pannonie sino alla Valeria. All'interno
di queste prefetture mantenne rigidamente separati il potere civile e politico,
da quello militare: la giurisdizione civile e giudiziaria era affidata a un
prefetto del pretorio, cui erano subordinati i vicari delle diocesi e i governatori
delle province. I prefetti furono, quindi, privati in parte del potere
militare,[65] lasciando loro ancora compiti di logistica militare,[66] e
diventarono amministratori delle grandi prefetture in cui era diviso l'impero.
Essi svolgevano le seguenti funzioni:[67] la suprema amministrazione
della giustizia e delle finanze (sostenendo anche le spese militari[68]).
l'applicazione e, in alcuni casi, la modifica degli editti generali. controllo
dei governatori delle province, i quali in caso di negligenza o corruzione
venivano destituiti e/o puniti. Inoltre il tribunale del prefetto poteva
giudicare ogni questione importante, civile o penale, e la sua sentenza era
considerata definitiva, al punto che neanche gli imperatori osavano lamentarsi
della sentenza del prefetto. Costantino poi controbilanciava l'importanza e la
potenza dei prefetti del pretorio con la breve durata della carica. Ogni
prefettura, divisa in tredici diocesi, di cui una (Oriente) era governata da un
Conte d'Oriente, un'altra (Egitto) da un Prefetto Augusteo, e le altre undici
da altrettanti Vicari o sottoprefetti, i quali sottostavano all'autorità del
prefetto del pretorio.[69] Ogni diocesi era ulteriormente suddivisa in
province. L'apparato burocratico venne snellito e suddiviso tra gli
affari della corte, affidati a quattro alti dignitari, e gli affari dello
Stato, affidati a tre alti funzionari: costoro, insieme con i prefetti urbani
componevano il Concistorium principis o Sacrum concistorium ("Consiglio
del principe" o "Sacro collegio"). I quattro dignitari che
regolavano le attività della corte erano: il comes rerum privatarum
("ministro degli affari privati"), che si occupava di gestire il
patrimonio privato dell'imperatore[70], il praepositus sacri cubiculi
("preposito del sacro cubicolo"), una sorta di gran ciambellano che
si occupava della vita della corte imperiale e da cui dipendevano cortigiani e
schiavi, due comites domesticorum ("ministro dei domestici"),
responsabili l'uno del personale che svolgeva il proprio servizio a piedi e
l'altro del personale a cavallo e della guardia imperiale. I tre alti
funzionari a cui competeva l'amministrazione dello Stato erano: il
magister officiorum ("maestro degli uffici"), un cancellerie che si
occupava dell'amministrazione interna e delle relazioni esterne, il quaestor
sacri palatii ("questore del sacro palazzo"), con competenza in
materia di leggi e di giustizia, che dirigeva inoltre il "Consiglio del
principe", il comes sacrarum largitionum ("ministro delle sacre
elargizioni"), che si occupava delle materie finanziarie statali. La
politica amministrativa di Costantino è controversa e in particolare è stata
aspramente criticata dallo storico illuminista Edward Gibbon, autore di Storia
del declino e della caduta dell'Impero romano (opera composta tra il 1776 e il
1788), che dà di Costantino un giudizio estremamente negativo. Per Gibbon al
tempo di Costantino: si istituì un poderoso sistema burocratico, coniando
cariche sconosciute in antecedenza (magnifico, illustre, conte, duca, ecc.),
tali da creare un controllo vessatorio e di spionaggio su tutte le province; i
pretoriani erano in numero spropositato ed erano di origine armena, con corazze
di argento e d'oro; la capitale trasferita da Roma a Costantinopoli (depredando
importanti opere di Fidia e altri scultori della Grecia classica) accentuò
l'emarginazione del Senato romano; la tassazione esorbitante finì per spopolare
anche una delle regioni (Campania) più produttive dell'Italia; si accentuò,
inoltre, la disgregazione dell'esercito romano, sia con la nomina di barbari al
massimo comando militare, sia con la penalizzazione economica dei soldati che
salvaguardavano il confine (limes) dalle invasioni. Complessivamente, per
Gibbon, neppure Caligola o Nerone fecero più danni all'impero di
Costantino. Politica estera e frontiere Lo stesso argomento in
dettaglio: Campagne germanico-sarmatiche di Costantino, Limes romano, Diga del
Diavolo e Brazda lui Novac (limes). Le frontiere romane settentrionali e
orientali al tempo di Costantino, con i territori acquisiti nel corso del
trentennio di campagne militari (dal 306 al 337). La mappa qui sopra
rappresenta anche il mondo romano poco dopo la morte di Costantino (337), con i
territori "spartiti" tra i suoi tre figli (Costante I, Costantino II
e Costanzo II) e i due nipoti (Dalmazio e Annibaliano) Già ai tempi in cui era
stato Cesare in Occidente, attorno agli anni 306-310,[71] Costantino ottenne
grandi successi militari su Alemanni e Franchi, di cui si dice riuscì a
catturare i loro re, dati in pasto alle belve durante i giochi
gladiatorii.[72] Divenuto unico augusto in Occidente nel 313 respinse una
nuova invasione di Franchi in Gallia. Dopo una prima crisi con Licinio, al
termine della quale i due augusti trovarono un nuovo equilibrio strategico nel
317, ottenne nuovi successi contro le genti barbare lungo il Danubio. Egli,
infatti, batté sia i Sarmati Iazigi nel 322[5][73] sia i Goti nel
323.[73] Dopo il 316/317, avendo ottenuto da Licinio anche l'Illirico,
Costantino non solo respinse numerose incursioni di Sarmati Iazigi e Goti (tra
gli anni 322[73] e 332), ma potrebbe aver dato inizio alla costruzione di due
nuovi tratti di limes: il primo nella pianura ungherese chiamato diga del
Diavolo, formato da una serie di terrapieni che da Aquincum collegavano il
fiume Tibisco, per poi piegare verso sud e collegare il fiume Mureș, percorrere
il Banato fino al Danubio all'altezza di Viminacium;[74] il secondo nella
Romania meridionale chiamato Brazda lui Novac, che correva parallelo a nord del
basso corso del Danubio, da Drobeta alla pianura della Valacchia orientale fin
quasi al fiume Siret.[74] Divenuto unico augusto nel 324, affidò ai figli
la difesa dell'Occidente contro Franchi e Alamanni (contro i quali ottenne
nuovi successi nel 328[75] e il titolo di Alamannicus maximus, insieme con
Costantino II[6]) mentre lui stesso combatteva sul confine danubiano i Goti
(332[7]) e i Sarmati (335[7][8]). Divise l'impero tra i figli assegnando a
Costantino II Gallia, Spagna e Britannia, a Costanzo II le province asiatiche,
l'Oriente e l'Egitto e a Costante I l'Italia, l'Illirico e le province
africane. Alla sua morte nel 337 si preparava ad affrontare in Oriente i
Persiani. Costantino nei suoi oltre trent'anni di regno aveva aspirato a
riconquistare, non solo tutti i territori appartenuti all'Impero di
Traiano,[76] ma soprattutto a diventare il protettore di tutti i Cristiani
anche oltre le frontiere imperiali. Egli, infatti, costrinse molte delle
popolazioni barbariche sottomesse a nord del Danubio, a sottoscrivere clausole
religiose dopo averle battute più e più volte, come nel caso dei Sarmati e dei
Goti. Identica sorte sarebbe toccata al regno d'Armenia e ai Persiani se non
fosse morto nel 337.[77] Esercito Lo stesso argomento in dettaglio:
Riforma costantiniana dell'esercito romano. Mappa della ex-Dacia romana
con il suo complesso sistema di fortificazioni e difesa. In grigio la
cosiddetta diga del Diavolo e a destra (in verde) il Brazda lui Novac, di epoca
costantiniana. Le prime vere modifiche apportate da Costantino nella nuova
organizzazione dell'esercito romano, furono effettuate subito dopo la
vittoriosa battaglia di Ponte Milvio contro il rivale Massenzio nel 312. Egli
infatti sciolse definitivamente la guardia pretoriana e il reparto di cavalleria
degli equites singulares e fece smantellare l'accampamento del Viminale.[78] Il
posto dei pretoriani fu sostituito dalla nuova formazione delle schole
palatine, le quali ebbero lunga vita poi a Bisanzio ormai legate alla persona
dell'imperatore e destinate a seguirlo nei suoi spostamenti, e non più alla
Capitale.[79] Una nuova serie di riforme furono poi portate a termine una
volta divenuto unico Augusto, subito dopo la sconfitta definitiva di Licinio
nel 324.[79] La guida dell'esercito fu sottratta ai prefetti del pretorio, e
ora affidata a: il magister peditum (per la fanteria) e il magister equitum
(per la cavalleria).[65] I due titoli potevano tuttavia essere riuniti in una
sola persona, tanto che in questo caso la denominazione della carica si trasformava
magister peditum et equitum o magister utriusque militiae[80] (carica istituita
verso la fine del regno, con due funzionari praesentalis[81]). I gradi più
bassi della nuova gerarchia militare prevedevano, oltre ai soliti centurioni e
tribuni, anche i cosiddetti duces,[65] i quali avevano il comando territoriale
di specifici tratti di frontiera provinciale, a cui erano affidate truppe di
limitanei. Costantino, inoltre, sempre secondo Zosimo, rimosse dalle frontiere
la maggior parte dei soldati e li insediò nelle città (si tratta della
creazione dei cosiddetti comitatensi):[82] «[...] città che non avevano
bisogno di protezione, privò del soccorso quelle minacciate dai barbari [lungo
le frontiere] e procurò alle città tranquille il danno generato dalla
soldataglia, per questi motivi molte città risultano deserte. Lasciò anche che
i soldati rammollissero, frequentando i teatri, e abbandonandosi alla vita
dissoluta.» (Zosimo, Storia nuova, II, 34.2.) Nell'evoluzione
successiva il generale in campo svolse sempre più le funzioni di una sorta di
ministro della guerra, mentre vennero create le cariche del magister equitum
praesentalis e del magister peditum praesentalis ai quali veniva affidato il
comando effettivo sul campo. Costantino introdusse una riforma monetaria,
necessaria anche per fare fronte alla scarsità di monete d'oro. Venne, quindi,
introdotto il solidus d'oro, con un peso di 4,54 g pari a 1/72 di libbra, cioè
più leggero (anche se più largo e sottile) dell'aureo, che in quel momento valeva
1/60 di libbra. Si ritornò inoltre al sistema bimetallico di Augusto coniando
la siliqua d'argento, di 2,27 g pari a 1/144 di libbra: il miliarense, con un
valore doppio della siliqua, aveva quindi lo stesso peso del solidus. Per
quanto riguarda i bronzi, il follis, ormai fortemente svalutato, venne
sostituito da una moneta di 3 g, detto nummus centonionalis, cioè 1/100 di
siliqua. Fu una riforma duratura, tanto che il peso aureo del solido
introdotto con la riforma di Costantino rimase invariato per secoli anche
durante l'impero bizantino. Ma a livello sociale le conseguenze furono
catastrofiche: tutti coloro che non avevano accesso alla nuova moneta d'oro,
infatti, dovettero subire le conseguenze dell'inflazione, a causa di una
svalutazione rispetto al solidus delle altre monete d'argento e di rame, che
non erano più protette dallo Stato. Il risultato fu una insuperabile spaccatura
tra una minoranza privilegiata di ricchi e la massa dei poveri[83]. Morte
e successione Albero genealogico della dinastia costantiniana: i
discendenti di Costantino. Costantino morì il 22 maggio 337 non molto lontano
da Nicomedia (in località Achyrona),[14] mentre preparava una campagna militare
contro i Sasanidi. La sua salma fu portata a Costantinopoli e sepolta in un
sarcofago nella Chiesa dei Santi Apostoli[84]. Costantino preferì non
nominare un unico erede, ma dividere il potere tra i suoi tre figli cesari
Costante I, Costantino II e Costanzo II e due nipoti Dalmazio e
Annibaliano.[85] Costanzo, che era impegnato in Mesopotamia settentrionale a
supervisionare la costruzione delle fortificazioni frontaliere,[86] si affrettò
a tornare a Costantinopoli, dove organizzò e presenziò alle cerimonie funebri
del padre: con questo gesto rafforzò i suoi diritti come successore e ottenne
il sostegno dell'esercito, componente fondamentale della politica di
Costantino.[87] Durante l'estate del 337 si ebbe un eccidio, per mano
dell'esercito, dei membri maschili della dinastia costantiniana e di altri
esponenti di grande rilievo dello stato: solo i tre figli di Costantino e due
suoi nipoti bambini (Gallo e Giuliano, figli del fratellastro Giulio Costanzo)
furono risparmiati.[88] Le motivazioni dietro questa strage non sono chiare:
secondo Eutropio Costanzo non fu tra i suoi promotori ma non tentò certo di
opporvisi e condonò gli assassini;[89] Zosimo invece afferma che Costanzo fu
l'organizzatore dell'eccidio.[90] Nel settembre dello stesso anno i tre cesari
rimasti (Dalmazio e Annibaliano furono vittime della purga) si riunirono a
Sirmio in Pannonia, dove il 9 settembre furono acclamati imperatori
dall'esercito e si spartirono l'Impero: Costanzo si vide riconosciuta la
sovranità sull'Oriente, Costante sull'Illirico e Costantino II sulla parte più
occidentale (Gallie, Hispania e Britannia). La divisione del potere tra i tre
fratelli durò poco: Costantino II morì nel 340, mentre cercava di rovesciare
Costante, e Costanzo guadagnò i Balcani; nel 350 Costante fu rovesciato
dall'usurpatore Magnenzio, e Costanzo divenne unico imperatore. Icona
ortodossa bulgara con l'imperatore e la madre Elena e la "vera
croce". Il comportamento costantiniano in tema di culto uffiziale ha dato
spazio a molte controversie fra i filosofi -- controversie particolarmente
aspre quando essi hanno preteso di valutare non solo il comportamento pubblico,
ma le sue convinzioni interiori. In alternativa all'opinione tradizionale,
secondo cui Costantino si sarebbe convertito al cristianesimo poco prima della
battaglia di Ponte Milvio, è stata, invece, asserita la sua costante adesione
al CULTO SOLARE, mettendo in dubbio perfino il battesimo in punto di
morte. Secondo altri filosofi, poi, il culto uffiziale e per Costantino un
puro e semplice instrumentum regni. Burckhardt afferma: «Nel caso di un uomo
geniale, al quale l'ambizione e la sete di dominio non concedono un'ora di
tregua, non si può parlare del sacro consapevole -- un uomo simile è
essenzialmente a-religioso, e lo sarebbe anche se egli immaginasse di far parte
integrante di una comunità religiosa. Secondo altri filosofi ancora, poi,
occorre distinguere fra convinzioni private e comportamento pubblico, vincolato
dalla necessità di conservare il consenso delle proprie truppe e dei propri
sudditi, qualunque ne fosse l'orientamento religioso. Da questo punto di vista
è utile distinguere fra il comportamento di Costantino antecedente e quello
successivo alla battaglia di Crisopoli, grazie alla quale consegue il dominio
assoluto sull'impero. Dopo questo, si trova comunque d'accordo molti
studiosi di quell'epoca. Tra costoro, Veyne sostiene con sicurezza
l'autenticità della conversione di Costantino, ricordando, con Bury, che la sua
rivoluzione e forse l'atto più audace mai compiuto da un autocrate in spregio
alla grande maggioranza dei suoi sudditi. E ciò in considerazione del fatto che
la popolazione che segue il culto dei galilei e circa il 8% del totale nel
principato di Costantino.Veyne ha inoltre proposto un'interessante teoria per
tentare di spiegare in modo razionale il fenomeno leggendario della visione che
potrebbe aver spinto Costantino a una conversione solo apparentemente
improvvisa. Veyne ipotizza che un sogno abbia potuto avere azione catalitica su
un terreno psicologico predisposto da esperienze e suggestioni vissute
precedentemente. È comunque fuori di dubbio la sincerità costantiniana nella
ricerca dell'unità e concordia del culto, la cui necessità deriva da un preciso
disegno politico che considera l'unità del mondo condizione indispensabile alla
stabilità della potenza imperiale. Costantino infatti interpreta in questo
senso l'antico tema, caro alla Roma sul principato della “pax deorum”, nel
senso che la forza del principato non deriva semplicemente dalle azioni di un
principe illuminato, da una saggia amministrazione e dall'efficienza di un ben
strutturato e disciplinato esercito, ma direttamente dalla benevolenza del
divino. Mentre però, nella religione della Roma antica, vi era un rapporto DIRETTO
tra il potere del principe e il divino, il principe non puo ignorare istituzioni
che, tramite i suoi vescovi, adita la fonte divina del potere. Costantino non puo
fare a meno di essere co-involto nelle lotte teologiche. Su una tale base
ideologica, questa ricerca dell'unità e della concordia comporta quindi anche
interventi molto duri nei confronti di coloro che il principe considera
eretici, che sono trattati duramente, dei pagani. I conflitti teologici si
trovarono dunque ad avere una ricaduta politica, mentre d'altra parte le sorti
interne del principato sono sempre più dipendenti dai risultati delle lotte
teologiche. Gli stessi vescovi, infatti, sollecitavano continuamente
l'intervento del principe per la corretta applicazione delle decisioni dei
concili, per la convocazione dei sinodi e anche per la definizione di
controversie teologiche. Ogni successo di una fazione comportava la deposizione
e l'esilio dei capi della fazione opposta, con i metodi tipici della lotta
politica. La religione della Roma Antica si era fortemente trasformata: sulla
spinta della insicurezza dei tempi e dell'influsso dei culti di origine
orientale, le sue caratteristiche pubbliche e ritualistiche hanno sempre più
perso di significato di fronte a una più intensa e personale spiritualità. Si
era andato diffondendo un sincretismo venato di mono-teismo (il colto solare di
un divino unico, il re sole identificato con Giove -- e si tendeva a vedere
nelle immagini degli dei tradizionali – altri che Giove -- l'espressione di un
unico essere divino: Giove. Una forma politica a questa aspirazione
sincretistica e data dall'imperatore Aureliano con l'istituzione del culto
ufficiale del Sole Invitto con elementi del mitraismo e di altri culti solari
di origine orientale. Il culto e diffuso nell'esercito, soprattutto
nell'occidente, e a esso non furono estranei né Costanzo Cloro, il padre di
Costantino, né Costantino stesso. Costantino e certamente il primo a
comprendere l'importanza della religione per rafforzare la coesione culturale e
politica dell'impero romano. Fa vietare il concubinato dei mariti, mentre
fu reso più difficile il ripudio, antenato del divorzio. La domenica e elevata
a giorno festivo pubblico. Lo Stato inizia a finanziare il clero pubblico e la
costruzione di nuove edificii o fu l'imperatore a farle erigere personalmente,
ad esempio a Roma (Antica basilica di Pietro nel monte Vaticano), ma
especialmente fuora di Roma: a Betlemme
(Basilica della Natività), Gerusalemme (Basilica del Santo Sepolcro) e
Costantinopoli (Chiesa dei Santi Apostoli). In un decreto concesse che su
richiesta di una sola delle parti contendenti, le cause civili potessero essere
giudicate innanzi ai vescovi. Fu concesso agli ecclesiastici l'esonero dagli
oneri municipali. Moneta di Costantino, con una rappresentazione del Sol
Invictus e l'iscrizione SOLI INVICTO COMITI, "al Sole Invitto
compagno" Moneta di Costantino con la rappresentazione del
monogramma di Cristo sopra il labaro imperiale Le monete coniate da Costantino
forniscono indirettamente notizie sull'atteggiamento pubblico di Costantino
verso i culti religiosi. Quando ancora ricopriva il ruolo di principe, alcune
emissioni si inserirono nel classico filone della Tetrarchia, con dediche «al
Genio del Popolo Romano» ("Gen Pop Romani"), provenienti specialmente
dalla zecca di Londinium (Londra). Ancora per alcuni anni dopo la battaglia di
Ponte Milvio le zecche orientali (Alessandria, Antiochia, Cyzicus, Nicomedia,
ecc.) continuarono a produrre monete dedicate «a Giove salvatore» (Iovi
conservatori). Nello stesso periodo le monete delle zecche occidentali (Arles,
Londra, Lione, Augusta Treverorum, Pavia, ecc) continuarono a coniare monete
dedicate «al Sole invitto compagno» e, nel caso della zecca di Pavia, anche «a
Marte salvatore» (Marti Conservatori) e «a Marte Protettore della Patria»
(Marti Patri Conservatori). L'attributo «compagno» riferito al Sole, che
manca in monete analoghe di precedenti imperatori, è singolare e occorre
chiedersene il significato. Normalmente viene interpretato come «al compagno
(di Costantino), il Sole Invitto»; indicherebbe quindi una indiretta
deificazione dell'imperatore stesso. Il vero significato, però, potrebbe anche
essere completamente diverso. Nell'età imperiale, infatti, la parola latina
comes, oltre che «compagno» indicava un funzionario imperiale e perciò da essa
è derivato il titolo nobiliare «conte». Alle orecchie dei galilei, quindi,
questa strana legenda poteva ricordare che il sole non era un dio, ma una
potenza subordinata alla divinità suprema. A sua volta l'imperatore si presenta
come l'autorità suprema in terra allo stesso modo come il sole lo era in cielo;
autorità, però, entrambe subordinate. Questa interpretazione è confermata
dall'emissione (durante la prima guerra
civile contro Licinio), la cui legenda recita: SOLI INVIC COM DN (soli invicto
comiti domini), che potrebbe essere tradotto come «al sole invitto compagno del
signore», ma che sembra più logico tradurre «al sole invitto, ministro del
Signore». La maggior parte delle zecche sia in oriente sia in occidente
passarono a emissioni laiche benaugurali, fra cui per prima quella con la
legenda «Liete vittorie al principe perpetuo» (Victoriae laetae prin. perp.).Da
quell'anno dalle monete bronzee di Costantino iniziano a sparire gli dei
tradizionali, come Elio, Marte, Giove, sostituiti dall'immagine solitaria
dell'imperatore, che volge gli occhi verso l'alto, ad un divino generico, che
può essere interpretata come Giove. La monetazione aurea invece mantiene ancora
a lungo gli dei tradizionali, forse perché rivolta ai patrizi e a persone di
rango elevato, ancora legate alla religione tradizionale Le monete con
simboli dei galilei o supposti tali sono rare e costituiscono solo circa l'1%
delle tipologie conosciute. La zecca di Pavia (Ticinum) conia nel 315 un
medaglione d'argento in cui il monogramma di Cristo era riprodotto sopra l'elmo
piumato dell'imperatore. Solo dopo la vittoria su Licinio compare la tipologia
con il labaro imperiale e il monogramma di Cristo, che trafiggono un serpente,
simbolo appunto di Licinio,[99] e simultaneamente scompaiono del tutto dalle
monete sia le immagini del sole invitto sia la corona radiata, altro simbolo
apollineo e solare. Nel 326 appare il diadema, simbolo monarchico di
derivazione ellenistica, e poco dopo il sovrano viene raffigurato con lo
sguardo rivolto in alto, come nei ritratti ellenistici, a simboleggiare il
contatto privilegiato tra l'imperatore e la divinità. L'ambiguitas
constantiniana Quanto sopra osservato a proposito delle monete di Costantino,
cioè la volontà imperiale di presentarsi come un prediletto dal cielo, senza,
però, mettere in chiaro quale fosse la divinità, può essere rilevato in molti
altri aspetti dell'impero di Costantino. Il ruolo determinante giocato da
Costantino nell'ambito della chiesa cristiana (ad esempio tramite la
convocazione di concili e il presiederne i lavori) non deve oscurare il fatto
che Costantino svolse funzioni analoghe nell'ambito di altri culti. Egli
infatti mantenne la carica di pontefice massimo della religione pagana; carica
che era stata di tutti gli imperatori romani a partire da Augusto. Lo stesso
fecero i suoi successori cristiani fino al 375. Anche la battaglia di
Ponte Milvio, con cui nel 312 Costantino sconfisse Massenzio, diede origine a
leggende discordanti, che, però, potrebbero risalire tutte a Costantino, sempre
attento a presentarsi come prescelto dal divino, qualunque essa fosse. Per
queste leggende si veda la voce in hoc signo vinces. In questo senso si
spiegano sia l'editto imperiale di tolleranza o l'editto di Milano del 313
(conferma rafforzata di un editto di Galerio del 30 aprile 311), sia l'iscrizione
sull'arco di Costantino: entrambi citano una generica "divinità", che
poteva dunque essere identificata sia con il Dio cristiano, sia con il dio
solare. L'ambiguità dell'Editto di Milano, però, è ovvia, dato che esso fu
proclamato da Licinio. Costantino persegue probabilmente il proposito di
riavvicinare i culti presenti nell'impero, nel quadro di un non troppo definito
monoteismo imperiale. Vi fu una grande confusione da parte degli osservatori
esterni del cristianesimo che portò molti ad identificare i cristiani come
adoratori del sole. Molto prima che Eliogabalo e i suoi successori
diffondessero a Roma il culto siriaco del Sol invictus, molti romani ritenevano
che i cristiani adorassero il sole: «Gli adoratori di Serapide sono
cristiani e quelli che sono devoti al dio Serapide chiamano se stessi Vicari di
Cristo» (Adriano) «…molti ritengono che il Dio cristiano sia il
Sole perché è un fatto noto che noi preghiamo rivolti verso il Sole sorgente e
che nel Giorno del Sole ci diamo alla gioia» (Tertulliano, Ad nationes,
apologeticum, de testimonio animae) Questa confusione era senz'altro
favorita dal fatto che Gesù era risorto nel primo giorno della settimana,
quello dedicato al sole, e perciò i cristiani avevano l'abitudine di
festeggiare proprio in quel giorno (oggi chiamato domenica): «Nel giorno
detto del Sole si radunano in uno stesso luogo tutti coloro che abitano nelle
città o in campagna, si leggono le memorie degli apostoli o le scritture dei
profeti, per quanto il tempo lo consenta; poi, quando il lettore ha terminato,
il presidente istruisce a parole ed esorta all'imitazione di quei buoni esempi.
Poi ci alziamo tutti e preghiamo e, come detto poco prima, quando le preghiere
hanno termine, viene portato pane, vino e acqua, e il presidente offre
preghiere e ringraziamenti, secondo la sua capacità, e il popolo dà il suo
assenso, dicendo Amen. Poi viene la distribuzione e la partecipazione a ciò che
è stato dato con azioni di grazie, e a coloro che sono assenti viene portata
una parte dai diaconi. Coloro che possono, e vogliono, danno quanto ritengono
possa servire: la colletta è depositata al presidente, che la usa per gli
orfani e le vedove e per quelli che, per malattia o altre cause, sono in
necessità, e per quelli che sono in catene e per gli stranieri che abitano
presso di noi, in breve per tutti quelli che ne hanno bisogno.»
(Giustino, II secolo) Questa scelta liturgica era inevitabile. Il giorno
del sole, infatti, non solo era proprio il primo della settimana, quello in cui
Gesù era risorto, ma anche aveva una valenza metaforica teologicamente e
scritturalmente corretta. L'abitudine di chiamare tale giorno "giorno del
Signore" (dies dominica, da cui, appunto il nome domenica) compare per la
prima volta alla fine del primo secolo (Apocalisse 1, 10[100]) e poco dopo
nella didaché, prima cioè che il culto del Sol Invictus prendesse piede.
Anche la decisione di celebrare la nascita di Cristo in coincidenza col
solstizio d'inverno ha dato origine a molte controversie, dato che le date di
nascita di Gesù fornite dai Vangeli sono imprecise e di difficile
interpretazione. Le prime notizie di feste cristiane per celebrare la nascita
di Cristo risalgono circa all'anno 200. Clemente Alessandrino riporta diverse
date festeggiate in Egitto, che sembrano coincidere con l'Epifania o col
periodo pasquale (cfr. Data di nascita di Gesù). Nel 204 circa, invece,
Ippolito di Roma propone il 25 dicembre (e la correttezza storica di tale
scelta sembrerebbe essere stata approssimativamente confermata da recenti
scoperte). La decisione delle autorità romane, tuttavia, di uniformare la data
delle celebrazioni proprio il 25 dicembre potrebbe essere stata stabilita in
buona parte per motivi "politici" in modo da congiungersi e
sovrapporsi alle feste pagane dei Saturnali e del Sol invictus. La
confusione delle date liturgiche fra i culti continuò per un certo periodo,
anche perché ovviamente l'editto di Tessalonica, che proibiva i culti diversi
dal cristianesimo, non determinò la conversione immediata dei pagani. Ancora
ottanta anni dopo, nel 460, il papa Leone I sconsolato scriveva: «È così
tanto stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare
nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver salito la scalinata, si
volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro
fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene
ripetuto per mentalità pagana. I cristiani devono astenersi da ogni apparenza
di ossequio a questo culto degli dei.» (Papa Leone I, 7° sermone tenuto
nel Natale del 460 - XXVII-4) La sovrapposizione fra culto solare e culto
cristiano ha dato origine a molte controversie, tanto che alcuni hanno
sostenuto che il cristianesimo sia stato pesantemente influenzato dal mitraismo
e dal culto del Sol invictus o addirittura trovi in essi la sua radice vera.
Questa ipotesi si forma durante il Rinascimento, ma si è diffusa negli ultimi
decenni del XX secolo, tanto da essere considerata (se non accettata) perfino
negli ambienti più progressisti delle chiese cristiane. Un esempio di questa
ipotesi ce lo fornisce il vescovo siriano Jacob Bar-Salibi che, alla fine del
XII secolo, scrive:[102] «Era costume dei pagani celebrare al 25 dicembre
la nascita del Sole, in onore del quale accendevano fuochi come segno di festività.
Anche i Cristiani prendevano parte a queste solennità. Quando i dotti della
Chiesa notarono che i Cristiani erano fin troppo legati a questa festività,
decisero in concilio che la "vera" Natività doveva essere proclamata
in quel giorno.» (Jacob Bar-Salibi) Anche l'allora cardinale Joseph
Ratzinger (poi papa Benedetto XVI) parla della cristianizzazione della festa
antico romana dedicata al sole e agli dei che lo rappresentavano.[103]
Nel 321 fu introdotta la settimana di sette giorni e fu decretato come giorno
di riposo il dies Solis (il "giorno del Sole", che corrisponde alla
nostra domenica). (LA) «Imperator Constantinus.Omnes iudices urbanaeque
plebes et artium officia cunctarum venerabili die solis quiescant. ruri tamen positi
agrorum culturae libere licenterque inserviant, quoniam frequenter evenit, ut
non alio aptius die frumenta sulcis aut vineae scrobibus commendentur, ne
occasione momenti pereat commoditas caelesti provisione concessa. * Const. A.
Helpidio. * <a 321 PP. V NON. MART. CRISPO II ET CONSTANTINO II
CONSS.>» (IT) «Nel venerabile giorno del Sole, si riposino i
magistrati e gli abitanti delle città, e si lascino chiusi tutti i negozi.
Nelle campagne, però, la gente sia libera legalmente di continuare il proprio
lavoro, perché spesso capita che non si possa rimandare la mietitura del grano
o la cura delle vigne; sia così, per timore che negando il momento giusto per
tali lavori, vada perduto il momento opportuno, stabilito dal cielo.»
(Codice giustinianeo 3.12.2) Benché dopo la sconfitta di Licinio il
cristianesimo di Costantino trovi sempre più conferme pubbliche, occorre non
dimenticare che: «Mentre egli e sua madre abbelliscono la Palestina e le grandi
città dell'impero di sfarzosissime chiese, nella nuova Costantinopoli egli fa
costruire anche dei templi pagani. Due di questi, quello della Madre degli dèi
e quello dei Dioscuri, possono essere stati semplici edifici decorativi
destinati a contenere le statue collocatevi come opere d'arte, ma il tempio e
la statua di Tyche, personificazione divinizzata della città, dovevano essere
oggetto di un vero e proprio culto».[104] Probabilmente il progetto
politico di Costantino di tollerare il Cristianesimo, se non frutto di una
conversione personale autentica, nacque dalla presa d'atto del fallimento della
persecuzione contro i cristiani scatenata da Diocleziano. La sconfitta così
clamorosa di Diocleziano aveva dovuto persuadere Costantino che l'Impero aveva
bisogno di una nuova base morale che la religione tradizionale era incapace di
offrirgli. Bisognava, quindi, trasformare la forza potenzialmente disgregante
delle comunità cristiane, dotate di grandi capacità organizzative oltre che di
grande entusiasmo, in una forza di coesione per l'Impero. Questo è il senso
profondo della svolta costantiniana, che finì per chiudere la fase movimentista
del cristianesimo trascendente e aprire quella del cristianesimo politicamente
trionfante. Dal 313 in poi i cristiani furono inseriti sempre di più nei gangli
vitali del potere imperiale. Inoltre, alla Chiesa cristiana, già alimentata
cospicuamente dal flusso delle contribuzioni spontanee dei fedeli, furono
concesse numerose esenzioni e privilegi fiscali, moltiplicandone la ricchezza.
Dopo l'esercito, la Chiesa cristiana grazie a Costantino stava diventando il
secondo pilastro dell'Impero.[105] La leggenda della donazione
costantiniana Secondo una tarda leggenda medievale, Costantino, dopo la
battaglia di Ponte Milvio, fece dono a papa Silvestro I (convinto di essere
stato da lui guarito dalla lebbra), dello splendido Palazzo Laterano (di
proprietà della moglie Fausta), consegnando così al papa romano la città di
Roma e dando avvio, con quell'atto di devoluzione, al potere temporale dei
papi,[106] ma la cosiddetta Donazione di Costantino (nota in latino come
"Constitutum Constantini", ossia "decisione",
"delibera", "editto") è un documento apocrifo conservato in
copia nelle Decretali dello Pseudo-Isidoro (IX secolo) e, come interpolazione,
in alcuni manoscritti del Decretum di Graziano (XII secolo). Nel 1440 il
filologo italiano Lorenzo Valla[107] dimostrò in modo inequivocabile come il
documento fosse un falso. Colonna di Costantino I a Costantinopoli.
Sotto di essa l'imperatore avrebbe posto amuleti pagani e reliquie cristiane a
protezione della città La leggenda della donazione quindi probabilmente voleva
dare un fondatore illustre, il primo imperatore cristiano, al successivo
disegno politico di imporre il Cristianesimo come unica religione ufficiale
dell'impero romano. Tale sviluppo però ebbe luogo solo a partire dall'epoca
tarda, con Graziano e Teodosio quindi verso la fine del IV secolo (391). Dopo
la caduta dell'Impero d'occidente, nel 476, la "donazione" divenne la
base giuridica del Papato per legittimare il proprio potere temporale sulla città
di Roma e la sua indipendenza dall'imperatore. La conversione Costantino
mantenne il titolo di Pontifex Maximus che gli spettava come imperatore e
condusse una politica di mediazione tra i vari culti dell'Impero e anche tra le
diverse correnti del nascente Cristianesimo. Ricevette il battesimo
cristiano solo in punto di morte,[14][108] per mano di un suo consigliere, il
vescovo ariano Eusebio di Nicomedia.[109] Alcuni storici, però, ritengono che
questo racconto possa essere stato tramandato per motivi politico-religiosi e
propagandistici.[110]. Va detto che il battesimo ricevuto sul letto di morte da
catecumeno era un'usanza del tempo, quando non essendo stato ancora
riconosciuto il sacramento della confessione si preferiva annullare tutti i
propri peccati prima della morte, che avveniva così in albis. Senza
escludere l'utilità politica attesa da Costantino dall'alleanza con la Chiesa
cattolica, alcuni documenti risalenti al periodo dell'Editto di Milano
rivelerebbero un avvicinamento dell'imperatore al cristianesimo ben più marcato
di quanto descritto da parte della storiografia, in una lettera del 314-315 di
Costantino a Elafio, suo vicario imperiale in Africa, si rivolgeva infatti
circa lo scisma donatista con queste parole[111]: «… non sarò mai soddisfatto né
mi aspetterò prosperità e felicità dal potere misericordioso dell'Onnipotente
fino a quando non sentirò che tutti gli uomini offrono al Santissimo la retta
adorazione della religione cattolica in una comune fratellanza…» solo
dieci anni più tardi scriveva a Sapore II re di Persia con medesimi
accenti[112]: «…Io sarò soddisfatto solo quando vedrò che tutti pregheranno,
con fraterna concordia d'intenti, nell'autentico culto della Chiesa
universale…» ciò farebbe pensare che il battesimo venne amministrato in
punto di morte a Nicomedia solo come termine di un lungo processo di
conversione che non fu estraneo a contaminazioni con ambienti dell'arianesimo,
nella cui fede fu battezzato. Tali contaminazioni gli costarono la mancata
canonizzazione cattolica (per la Chiesa cattolica, coerentemente, la
santificazione spetta solo a coloro che sono stati battezzati secondo le norme
cattoliche) e gli concessero l'inserimento ufficiale solo tra i santi
ortodossi; accadde diversamente per la madre Elena, che si commemora il 18 di
agosto, il cui battesimo fu invece celebrato in osservanza di tale liturgia. Fu
dunque l'adesione all'arianesimo negli ultimi anni della sua vita, quelli
successivi alla partenza per la nuova Costantinopoli, a indurre la Chiesa di
Roma a prenderne le distanze; ciò avvenne attraverso la riscrittura agiografica
della vita, da parte di papa Silvestro I (314–335) così come descritta negli
Actus Silvestri.[113]. Non è altresì da escludere che sulla conversione
di Costantino abbiano influito in modo determinante gli eventi succedutisi
dagli inizi del IV secolo con la constatazione del fallimento delle
persecuzioni del 303 e l'editto di Galerio del 311 che tentava di far rientrare
la religione cristiana nell'alveo di tutte le altre religioni ammesse nell'impero,
che tradiva il timore dell'universalismo del cristianesimo che metteva a
rischio le istituzioni romane basate sulle differenze etniche[114]. Dal
papiro di Londra numero 878, che contiene una parte di un editto del 324, e da
un'attenta riconsiderazione storica pare che Costantino fosse animato da
"un effettivo accostamento al sentimento cristiano"[115]. Che
sia stato per convinzione personale o per calcolo politico, Costantino appoggiò
comunque la religione cristiana soprattutto dopo l'eliminazione di Licinio nel
324, costruendo basiliche a Roma, Gerusalemme e nella stessa Costantinopoli;
conferì alle chiese il diritto di ricevere beni in eredità e quelle maggiori
furono dotate di vaste proprietà; diede ai vescovi vari privilegi e poteri
giudiziari, quali quello di essere giudicati da loro pari ponendo le basi al
principio relativo al vescovo di Roma del prima sedes a nemine iudicatur;
concesse gli episcopalis audientia. Fu in epoca costantiniana inoltre, una
volta identificata la Chiesa secondo la definizione paolina di Corpus Mysticum
e ritenuta capace di ricevere donazioni ed eredità, che ebbe luogo il concetto,
prima sconosciuto nella legislazione romana, di persona giuridica nella
successiva legislazione[116]. Il riformatore cristiano Lo stesso
argomento in dettaglio: Concilio di Nicea I. L'icona di San Costantino
nel Castello di Lari (Toscana), opera realizzata per i 1700 anni dell'editto di
Milano del 313 La politica di Costantino mirava a creare una base salda per il
potere imperiale sull'assioma che c'era un unico vero dio, una sola fede e
quindi un unico legittimo imperatore. Nella stessa religione cristiana per
questo motivo era dunque importantissima l'unità: Costantino fu promotore, pur
non essendo battezzato, di diversi concili, per risolvere le questioni
teologiche che dividevano la Chiesa. In tali concili presenziò come pontifex
maximus dei romani o "vescovo di quanti sono fuori della
chiesa". Il primo fu quello convocato ad Arelate (primo concilio di
Arles), in Francia nel 314, che confermò una sentenza emessa da una commissione
di vescovi a Roma, che aveva condannato l'eresia donatista, intransigente nei
confronti di tutti i cristiani che si erano piegati alla persecuzione
dioclezianea: in particolare si trattava del rifiuto di riconoscere come
vescovo di Cartagine Cipriano, il quale era stato consacrato da un vescovo che
aveva consegnato i libri sacri. Ancora nel 325, convocò a Nicea il primo
concilio ecumenico, che lui stesso inaugurò, per risolvere la questione
dell'eresia ariana: Ario, un prete alessandrino sosteneva che il Figlio non era
della stessa "sostanza" del padre, ma il concilio ne condannò le
tesi, proclamando l'omousia, ossia la medesima natura del Padre e del Figlio.
Il concilio di Tiro del 335 condannerà tuttavia Atanasio, vescovo di
Alessandria, il più accanito oppositore di Ario, soprattutto a causa delle
accuse politiche che gli vennero rivolte. L'imperatore fece costruire
numerose chiese cristiane, tra cui le basiliche del Santo Sepolcro a Gerusalemme,
la basilica di Mamre e la basilica della Natività a Betlemme. A Roma eleva la
basilica del Laterano e la prima basilica di San Pietro. Per la sua sepoltura
decise di non farsi seppellire nel mausoleo dove era già la madre a Roma, ma si
fece costruire un mausoleo a Costantinopoli vicino o all'interno della chiesa
dei Santi Apostoli, tra le reliquie di questi ultimi, che cercò di radunare.
Eusebio di Cesarea narra che Costantino fu munifico e ornò gli edifici di oro,
marmi, colonne, e splendidi arredi. Purtroppo nessuna delle basiliche originali
di Costantino si è conservata fino ai giorni nostri, salvo pochi resti di
fondazioni. In tutto l'impero, i templi pagani, salvo poche eccezioni, non
vennero riconvertiti in chiese, ma abbandonati, perché inadatti al nuovo culto che
richiedeva la presenza di numerosi fedeli all'interno. I culti pagani invece si
svolgevano all'aperto, con la cella del tempio riservata al dio. Vi fu quindi
la riconversione ad uso religioso di un particolare tipo di edificio romano, la
basilica civile. Culto Anche se divenuto cristiano, alla morte Costantino
venne divinizzato (divus), per decreto del senato, con la cerimonia pagana
dell'apoteosi, come era consuetudine per gli imperatori romani. Costantino,
nonostante avesse iniziato a costruire un grandioso mausoleo di famiglia a
Roma, lo lasciò a sua madre (il cd. Mausoleo di Elena) e volle essere sepolto a
Costantinopoli, nella Chiesa dei Santi Apostoli, divenendo così il primo
imperatore a essere sepolto in una chiesa cristiana. Costantino è considerato
santo dalla Chiesa ortodossa, che secondo il Sinassario Costantinopolitano lo
celebra il 21 maggio assieme alla madre Elena. La santità di Costantino
non è riconosciuta dalla Chiesa cattolica (infatti non è riportato nel
Martirologio Romano), che tuttavia celebra sua madre[117] il 18 agosto. A
livello locale il culto di san Costantino è comunque autorizzato anche nelle
chiese di rito romano-latino. In Sardegna, per esempio, la festa del santo
(nella tradizione religiosa sarda) ricorre il 7 luglio. Il 23 aprile invece,
viene festeggiato a Siamaggiore, in provincia di Oristano, l'unico paese
dell'isola in cui Costantino Magno Imperatore ne è anche il patrono. Nell'isola
esistono due santuari principali dedicati all'imperatore: uno si trova a
Sedilo, nel centro geografico dell'isola, in provincia di Oristano, dove il 6 e
7 luglio di ogni anno si corre l'Ardia, una sfrenata e spettacolare corsa a
cavallo di origine bizantina che rievoca la vittoria del 312 a Ponte Milvio;
l'altro è a Pozzomaggiore, in provincia di Sassari. Altre attestazioni minori
si hanno in vari luoghi della Sicilia; l'ultimo sabato di luglio, a Capri
Leone, paese in provincia di Messina, si festeggia la festività in suo onore,
dove per devozione paesana egli è divenuto Santo Patrono. Suggestiva la
processione serale, con il simulacro di Costantino Imperatore portato a spalla
dai fedeli. Titolatura imperiale Lo stesso argomento in dettaglio:
Monetazione tetrarchica e Monetazione di Costantino e dei Costantinidi.
Titolatura imperiale Numero di
volteDatazione evento Tribunicia potestas33 volte: la prima volta il 25 luglio
del 306, la seconda il 10 dicembre del 306, la terza nel settembre del 307, la
quarta il 10 dicembre del 307 e poi annualmente ogni 10 dicembre fino al 337
(anno in cui non assunse l'iterazione perché premorì il 22 maggio). Consolato 8
volte. ), 326 (VII), 329 (VIII). Salutatio imperatoria32 volte:[118]la prima
nel 306 quando fu proclamato Caesar, poi nel 307 (2° e 3°), 308 (4°), poi
rinnovata ogni anno dal luglio del 309 fino al luglio del 336.[118] Titoli
vittoriosiGermanicus maximus IV ; Sarmaticus maximus III[6] (317/319,[10]
323[5] e 334[5]); Gothicus maximus II (328 o 329 e 332[5][6][7][9]); Dacicus
maximus; Adiabenicus (ante 315[9]); Arabicus maximus; Armeniacus maximus (tra
il 315 e il 319[10]); Britannicus maximus (ante 315[9][10]); Medicus maximus
(ante 315[9][10]); Persicus maximus (nel 312/313,[12] ante 315[9]). Altri
titoliCaesar (dal 306 al 308), Filius Augustorum (dal 308 al 310)[120] e
Augustus (dal 310 al 337); Pius, Felix, Pontifex Maximus (dal 306);[118]
Invictus, Pater Patriae, Proconsul dal 310;[121] Maximus dal 312;[2][118]
Victor (in sostituzione di Invictus) dal 324;[118][122] Triumphator (titolo
aggiunto tra il 328 ed il 332).[4] Località italiane in cui è attestato il
culto a San Costantino imperatore Calabria Calabria, Provincia di Vibo
Valentia, San Costantino Calabro Calabria, Provincia di Vibo Valentia,
Briatico, San Costantino di Briatico (frazione) Lucania Basilicata,
Provincia di Potenza, San Costantino Albanese Basilicata, Provincia di Potenza,
Rivello, San Costantino (frazione) Sardegna Sardegna, Provincia di
Oristano, Siamaggiore, Parrocchiale di San Costantino Magno Imperatore
Sardegna, Provincia di Oristano, Sedilo, Santuario di Santu Antinu Sardegna,
Provincia di Sassari, Pozzomaggiore, Chiesa di San Costantino (Pozzomaggiore)
Toscana Toscana, Provincia di Pisa, Casciana Terme Lari, Castello dei
Vicari a Lari Toscana, Provincia di Pisa, Casciana Terme Lari, Santuario di San
Martino in Petraja a Casciana Terme Trentino-Alto Adige Trentino-Alto
Adige, comune di Fiè allo Sciliar, frazione di San Costantino/St. Konstantin,
Chiesa di San Costantino Trentino-Alto Adige, comune di Naz-Sciaves, frazione
di Raas, Chiesa dei Santi Egidio e Costantino Note ^ Costantino si attribuì il
titolo Invictus dopo la propria autoproclamazione ad Augusto, nella seconda
metà del 310. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus
Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung,
Stoccarda 1990, pp. 46-61. Il senato di Roma gli accordò questo titolo
dopo la vittoria su Massenzio. Si veda Lattanzio, De mortibus persecutorum XLIV
11-12. ^ Costantino adottò il titolo Victor in sostituzione di Invictus nel
324, dopo la vittoria definitiva su Licinio. Si veda nel merito Thomas
Grünewald, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der
zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda 1990, pp. 134-144. Costantino
adottò il titolo Triumphator al tempo delle campagne gotiche sul confine
danubiano. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus Augustus.
Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda 1990,
pp. 147-150. Timothy Barnes, The victories of Constantine, in Zeitschrift
fur Papyrologie und Epigraphik 20, 1976, pp.149-155. CIL VI, 40776.
CIL VIII, 8477 (p 1920). CIL VIII, 10064. CIL VIII, 23116.
Iscrizione databile al 319 sulla quale troviamo diversi titoli vittoriosi:
«Imperatori Caesari Flavio Constantino Maximo Pio Felici Invicto Augusto
pontifici maximo, Germanico maximo III, Sarmatico maximo Britannico maximo,
Arabico maximo, Medico maximo, Armenico maximo, Gothico maximo, tribunicia
potestate XIIII, imperatori XIII, consuli IIII patri patriae, proconsuli,
Flavius Terentianus vir perfectissimus praeses provinciae Mauretaniae
Sitifensis numini maiestatique eius semper dicatissimus.» (CIL VIII, 8412
(p 1916)) ^ Y.Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano
alla caduta dell'impero, Roma, 2008, p.53; C.Scarre, Chronicle of the roman
emperors, New York, 1999, p.214. Eusebio di Cesarea, Historia
ecclesiastica, IX, 8, 2-4; Giovanni Malalas, Cronografia, XII, p.311, 2-14; IL
Alg-1, 3956 (Africa proconsularis, Tenoukla): Dddominis nnnostris Flavio
Valerio Constantino Germanico Sarmatico Persico et Galerio Maximino Sarmatico
Germanico Persico et Galerio Valerio Invicto (?) Pio Felici Augusto XI. ^ Il
giorno e il mese sono largamente accettati, mentre l'anno è talvolta anticipato
al 271 o ritardato al 275 o anche molto più tardi (ad esempio "ca.
280" secondo l'Enciclopedia Europea della Garzanti del 1977. Fonti WEB
citano addirittura il 289.). Il suo biografo ufficiale, Eusebio di Cesarea,
dice soltanto che la sua vita fu approssimativamente lunga il doppio del suo
regno, cioè circa 62-63 anni. Purtroppo Eusebio dichiara che il suo regno durò
32 anni (e non 31), in quanto contava come interi anche gli spezzoni incompleti
dell'anno di nascita e di morte; ciò ha indotto in errore alcuni storici, che
anticipano di due anni la sua nascita. Nel merito si veda inoltre Barnes, The
New Empire of Diocletian and Constantine, pp. 39-42. Sesto Aurelio
Vittore, De Caesaribus, 41.16; Sofronio Eusebio Girolamo, Cronaca, 337, p. 234,
8-10; Eutropio, Breviarium historiae romanae, X, 8.2; Annales Valesiani, VI,
35; Orosio, Historiae adversos paganos, VII, 28, 31; Chronicon paschale, p.532,
7-21; Teofane Confessore, Chronographia A.M. 5828 (testo latino); Michele
siriaco, Cronaca, VII, 3. ^ Il titolo imperiale ufficiale era IMPERATOR CAESAR
FLAVIVS CONSTANTINVS PIVS FELIX INVICTVS AVGVSTVS; dopo il 312 aggiunse MAXIMVS
("il grande") e dopo il 325 sostituì INVICTVS con VICTOR, in quanto
INVICTVS ricordava il culto del Sol Invictus. ^ Costantino I, in Santi, beati e
testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati.it. ^ Origo Constantini
Imperatoris 2, 2. ^ Barnes, Constantine and Eusebius, 3, 39–42; Elliott,
Christianity of Constantine, 17; Odahl, 15; Pohlsander, "Constantine
I"; Southern, 169, 341. ^ Charles M. Odahl, Constantine and the Christian
empire, London, Routledge, Gabucci, Ancient Rome : art, architecture and
history, Los Angeles, CA, J. Paul Getty Museum, Barnes, Constantine and
Eusebius, 3; Lenski, "Reign of Constantine" (CC), 59–60; Odahl,
16–17. ^ Drijvers, J.W. Helena Augusta: The Mother of Constantine the Great and
the Legend of Her finding the True Cross (Leiden, 1991) 9, 15–17. ^ Barnes,
Constantine and Eusebius, 3; Barnes, New Empire, 39–40; Elliott, Christianity
of Constantine, 17; Lenski, "Reign of Constantine" (CC), 59, 83;
Odahl, 16; Pohlsander, Emperor Constantine, 14. ^ Eleanor H. Tejirian e Reeva
Spector Simon, Conflict, conquest, and conversion two thousand years of
Christian missions in the Middle East, New York, Columbia; Barnes, The New
Empire of Diocletian and Constantine, pp. 39-42. ^ Epitome de Caesaribus, 41.16
^ Come convincentemente dimostrato in A. Alflödi, Constantinus... proverbio
vulgari Trachala... nominatus, in BHAC, 1970, (Bonn 1972) pp. 1-5. Nel merito
si veda anche V. Neri, Le fonti della vita di Costantino nell'Epitome de
Caesaribus, in Rivista storica dell'antichità XVII-XVIII/1987-88, Bologna; Lattanzio,
De mortibus persecutorum, 18, 10. ^ Costantino I, Oratio ad sanctorum coetum
16. ^ Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino I, 19. ^ Origo Constantini
Imperatoris 2, 3. Tra il 299 ed il 307 i Tetrarchi iterano il titolo Sarmatico
massimo per quattro volte e ciò ben testimonia l'intenso sforzo bellico profuso
contro tale popolazione barbara. Si veda Barnes, Constantine. Dynasty, Religion
and Power in the Later Roman Empire, pp. 179-180. ^ Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum, 18, 8-14; Eutropio X, 2, 1. ^ Lattanzio, De mortibus persecutorum
24, 3-8; Zosimo II, 8, 3. ^ Origo Constantini Imperatoris 2,4; Zonara XII. ^
Epitome de Caesaribus, 41, 3. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 25, 1-5 ^
Moreau, Lactance. De la mort des persécuteurs, Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum, 26, 1-3; Zosimo II, 9, 2-3. ^ Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum, 26, 6-9. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 26, 10. ^
Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 27, 2-3. ^ Barnes, Constantine. Dynasty,
Religion and Power in the Later Roman Empire, p. 71. ^ Pasqualini, Massimiano
Herculius. Per un'interpretazione della figura e dell'opera, p. 87. ^
Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 28, 1-2. ^ Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum, 28, 3-4; Zosimo II, 11, 1. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum,
29, 1. ^ Sulle deliberazioni di Carnuntum si veda Roberto, Diocleziano, pp.
247-249. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 29, 3. ^ Lattanzio, De Mortibus
Persecutorum, 29, 4-7. ^ Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 29, 8. ^
Lattanzio, De Mortibus Persecutorum; Lattanzio, De Mortibus Persecutorum, 32,
5. Zosimo, Storia nuova, II, 15, 1. ^ Eutropio, Breviarium historiae
romanae, X, 4. ^ Barnes, Constantine and Eusebius, pp. 42–44. ^ Nella pianura
tra Rivoli e Pianezza: Vittorio Messori e Giovanni Cazzullo, Il Mistero di
Torino, Milano, Mondadori, Zosimo, Storia nuova, II, 26. ^ Zosimo, Storia
nuova, II, 28. Zosimo, Storia nuova, II, 29. ^ Battesimo di Costantino,
su treccani.it. URL consultato il 21 febbraio 2021. ^ Giorgio Ruffolo, Quando
l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004. ^ Zosimo, Storia nuova, II,
30. Zosimo, Storia nuova, II, 33.1. Zosimo, Storia nuova, II,
33.2. Zosimo, Storia nuova, II, 33.3. ^ Ammiano Marcellino, Storie; Gibbon
(a cura di Saunders), pag. 254-255. ^ Zosimo, Storia nuova, II, 33.4. ^ Gibbon
(a cura di Saunders), Per la traduzione di "comes" con
"ministro" si interpreti: Ita etiam qui sacri Palatii ministeriis ac
officiis praeficiebantur, eorumdem ministeriorum ac officiorum Comites dicti,
ut ex infra observandis constat., cfr. Du Cange, II, 423 Anselmo Baroni,
Cronologia della storia romana dal 235 al 476, p. 1026-1027. ^ Eutropio,
Breviarium historiae romanae, X, 3. Zosimo, Storia nuova, II, 21,
1-3. V.A. Maxfield, L'Europa continentale, pp. 210-213. ^ Anselmo Baroni,
Cronologia della storia romana; Flavio Claudio Giuliano, De Caesaribus, 329c. ^
C.R.Whittaker, Frontiers of the Roman empire. A social ad economic study, Baltimora
& London, 1997, p.202. ^ Zosimo, Storia nuova, II, 17, 2. Yann Le
Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano alla caduta dell'impero,
Roma, 2008, p.53. ^ Giovanni Lido, De magistratibus, II, 10; Zosimo, Storia
nuova, II, 33.3. ^ Y.Le Bohec, Armi e guerrieri di Roma antica. Da Diocleziano
alla caduta dell'impero, Roma, Zosimo, Storia nuova, II, 34.2. ^ Giorgio
Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, Più tardi, nel 358, il
vescovo Macedonio fece traslare il sarcofago imperiale nell'attiguo mausoleo
del martyrium di S. Acacio. ^ Chronicon paschale, p.532, 1-21. ^ Bury, p. 12. ^
Chronicon paschale, p.533, 5-17; Passio Artemii, 8 (8.12-19); Zonara, L'epitome
delle storie, XIII, 4, 25-28. ^ In particolare furono uccisi i fratellastri di
Costantino I, Giulio Costanzo, Nepoziano e Dalmazio, alcuni loro figli, come
Dalmazio Cesare e Annibaliano, e alcuni funzionari, come Optato e Ablabio. ^
Eutropio, Breviarium historiae romanae, X, 9. ^ Zosimo, Storia nuova, ii.40. ^
Burckhardt, Costantino il Grande e i suoi tempi, tr.it. Longanesi 1957, p.521 ^
Ad esempio, Guido Clemente, titolare della cattedra di storia romana
all'università di Firenze, autore di una Guida alla storia romana; Augusto
Fraschetti, docente di storia economica e sociale del mondo antico presso la
Sapienza di Roma, autore de La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana;
Arnaldo Marcone docente di Storia romana all'università di Udine, autore di
Pagano e cristiano. Vita e morte di Costantino; Robin Lane Fox, docente di
Storia antica presso il College di Oxford, autore di Pagani e cristiani; e
molti altri titolati studiosi del mondo antico, come Andrea Alfoldi, Franchi
de' Cavalieri, Norman Baynes, Marta Sordi, Klaus Bringmann. ^ Paul Veyne,
Quando l'Europa è diventata cristiana (312-394), Collezione Storica Garzanti,
Milano, 2008 pp. 64-65 ^ G. Filoramo, La croce e il potere, Mondadori, Milano; Horst,
Costantino il grande, Milano 1987, p. 31. ^ Il ripudio nel tardo Impero: una
costituzione di Teodosio II, su jus.vitaepensiero.it. ^ Dal Gesù storico al
Cristo della fede: la svolta costantiniana, su homolaicus.com. ^ Costantino e
la legislazione antiereticale. La costruzione della figura dell'eretico ^
Notizie in inglese sulle monete di Costantino in bronzo con simboli cristiani ^
Apocalisse 1, 10, su La Parola - La Sacra Bibbia in italiano in Internet. ^ La
nascita di Gesù è avvenuta secondo i vangeli circa quindici mesi dopo
l'annuncio a Zaccaria della nascita del Battista. La collocazione di questo
evento nell'ultima settimana di settembre, in accordo con la tradizione
cristiana, è compatibile con le notizie oggi disponibili sul turno di servizio
sacerdotale al tempio della classe sacerdotale di Abia, alla quale apparteneva
Zaccaria. Cfr. Data di nascita di Gesù ^ da Christianity and Paganism in the
Fourth to Eighth Centuries, Yale, Ramsay MacMullen, 1997, p. 155 ^ La scelta
del 25 dicembre per celebrare il Natale cristiano: dal dies natalis del Sol
invictus, espressione del culto solare di Emesa (e del dio Mitra), alla
celebrazione del Cristo, “sole che sorge”, su gliscritti.it. URL consultato il
3 gennaio 2014. ^ Burckhardt, cit. (p. 539) ^ Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia
era una superpotenza, Einaudi; Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza,
Einaudi, 2004, p. 156. ^ nella sua opera De falso credita et ementita
Constantini donatione ^ Sozomeno, Historia Ecclesiastica, II,34; Eusebio di
Cesarea, Vita Constantini, IV,61–63; Socrate Scolastico, Historia
Ecclesiastica, I,39; Teodoreto di Cirro, Historia Ecclesiastica, I,30. ^
Girolamo, Chronicon. ^ Alessandro Barbero, Costantino il Vincitore, Salerno, In
Epistula Constantini ad Aelafium, CSEL; Carile in L'imperatore e la Chiesa.
Dalla tolleranza (312) alla supremazia della religione cristiana (380), alle
contese per la cattolicità delle chiese; Enciclopedia Costantiniana (2013),
Treccani ^ Gli Actus Silvestri sono menzionati la prima volta nel Decretum
Gelasianum, documento attribuito a papa Gelasio I, come affermato in: Marilena
Amerise, Il battesimo di Costantino il Grande. Storia di una scomoda eredità
(Hermes Einzelschriften, 95), Franz Steiner Verlag, München 2005, p.93 e ss.;
Wilhelm Pohlkamp n Internet Archive. aveva identificato nei manoscritti una
versione più antica (A), datata alla fine del IV- inizi del V secolo, e una
versione più recente (B), del tardo V - inizi del VI secolo. ^ v. A. Carile in
L'imperatore e la Chiesa cit. ^ Ranuccio Bianchi Bandinelli e Mario Torelli,
L'arte dell'antichità classica, Etruria-Roma, Utet, Torino 1976, pag 112. ^
Alberto Perlasca, Il concetto di bene ecclesiastico, pp.50-51. ^ Anche se si
pensa che la madre di Costantino propendesse più per la religione ebraica,
tanto da restare delusa alla notizia della conversione al cristianesimo del
figlio (Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004,
p. 156). Scarre, Grünewald, Constantinus Maximus Augustus.
Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stoccarda; Galerio
attribuì questo titolo a Costantino e Massimino Daia subito dopo il convegno di
Carnuntum, sostituendolo a quello di Cesare. Si veda nel merito Alexandra
Stefan, Un rang impérial nouveau à l’époque de la quatrième Tétrarchie: Filius
Augustorum. Première partie. Inscriptions révisées: problèmes de titulature
impériale et de chronologie, in Antiquité Tardive; Costantino si attribuì il
titolo Invictus, e con ogni probabilità anche quello di Pater Patriae insieme
alla carica di Proconsul, dopo la propria autoproclamazione ad Augusto, nella
seconda metà del 310. Si veda nel merito Thomas Grünewald, Constantinus Maximus
Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung,
Stoccarda; Costantino adottò il titolo Victor in sostituzione di Invictus dopo
la vittoria definitiva su Licinio. Si veda nel merito Thomas Grünewald,
Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen
Überlieferung, Stoccarda; Ammiano Marcellino, Historiae X. (testo a
fronte in inglese disponibile qui). Aurelio Vittore, De Caesaribus (versione
latina) Consolaria costantinopolitana, s.a. 325. Chronicon paschale. Costantino
I, Oratio ad sanctorum coetum. Epitome de Caesaribus (versione latina). Eusebio
di Cesarea, Vita di Costantino, I-IV, (testo in latino e traduzione in
inglese); Storia ecclesiastica (traduzione in inglese). Eutropio, Breviarium
historiae romanae (testo latino), IX-X . Giordane, De origine actibusque
Getarum; Vedi qui testo latino. Girolamo, Cronaca, versione francese QUI.
Lattanzio, De mortibus persecutorum, XXIV; Vedi qui testo latino. Origo
Constantini Imperatoris; Vedi qui testo latino e traduzione in inglese. Orosio,
Historiarum adversus paganos libri septem, libro 7 Vedi qui testo latino.
Notitia dignitatum, Notitia dignitatum (testo latino) . Panegyrici latini, IV,
VII, IX e XII, QUI il testo latino. Socrate Scolastico, Storia ecclesiastica,
I. Sozomeno, Historia Ecclesiastica, I. Teodoreto di Cirro, Historia
Ecclesiastica, I. Teofane Confessore, Chronographia (testo latino) . Zonara,
L'epitome delle storie, XIII Vedi qui testo latino. Zosimo, Storia nuova, I-II
traduzione inglese del libro I, QUI. Studi Andreas Alföldi, Costantino tra
paganesimo e cristianesimo, Laterza, Roma-Bari; Barbero, Costantino il
Vincitore, Salerno Editrice, Roma, Barnes, The victories of Constantine, in
Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik Timothy Barnes, Constantine and
Eusebius, Cambridge, MA Harvard; Barnes, The New Empire of Diocletian and
Constantine, Cambridge, MA Harvard University Press, Barnes, Constantine.
Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, Wiley Blackwell, Malden
- Oxford, 2011. Ranuccio Bianchi Bandinelli e Mario Torelli, L'arte
dell'antichità classica. Etruria-Roma, UTET, Torino, 1976 e successive rist.
Jacob Burckhardt, Costantino il Grande e i suoi tempi, tr.it. Longanesi,
Milano, Carpiceci e Marco Carpiceci, Come Costantin chiese Silvestro d'entro
Siratti - Costantino il grande, San Silvestro e la nascita delle prime grandi
basiliche cristiane, Edizioni Kappa, Roma 2006. André Chastagnol, L'accentrarsi
del sistema: la tetrarchia e Costantino, in: AA.VV., Storia di Roma, Einaudi,
Torino, 1993, vol. III, tomo 1; ripubblicata anche come Storia Einaudi dei
Greci e dei Romani, Ediz. de Il Sole 24 ORE, Milano; Ombretta Cuneo, La
legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante; Giuffrè, Diehl, La
civiltà bizantina, Garzanti, Milano, 1962. (a cura di) Angela Donati e Giovanni
Gentili, Costantino il Grande: la civiltà antica al bivio tra Occidente e
Oriente, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Fraschetti, La conversione: da
Roma pagana a Roma cristiana, Laterza, Roma-Bari; Grünewald, Constantinus
Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung,
Stoccarda Eberhard Horst, Costantino il Grande, Milano, Bompiani, Bohec, Armi e
guerrieri di Roma antica: da Diocleziano alla caduta dell'impero, Carocci,
Roma, 2008. Arnaldo Marcone, Pagano e cristiano: vita e mito di Costantino,
Laterza, Roma-Bari, Maxfield, L'Europa continentale, in Il mondo di Roma
imperiale. La formazione, Laterza, Roma-Bari, Mazzarino, L'Impero romano, tre
vol., Laterza, Roma-Bari (v. vol. III); riediz. e successive rist.; Moreau,
Lactance. De la mort des persécuteurs, Parigi 1954. Elena Percivaldi, Fu vero
Editto? Costantino e il Cristianesimo tra storia e leggenda, Ancora Editrice,
Milano, Pasqualini, Massimiano Herculius. Per un'interpretazione della figura e
dell'opera. Roma, Rentetzi, Costantino, Elena e la vera croce. Modelli
iconografici nell'arte bizantina, Studi Ecumenici. - Istituto di Studi
Ecumenici S. Bernardino - Pontificia Università Antonianum, web.archive.///www.
isevenezia.it/it/ pubblicazioni/ pubblicazioni_dell_ise /rivista_
di_studi_ ecumenici/ Roberto, Diocleziano, Roma 2014. Giorgio Ruffolo, Quando
l'Italia era una superpotenza, Einaudi, Torino, The paradigmatic value of the depiction of Constantine in the homonymous
arch in the formation of the Christ in Throne's iconography ://web.archive.org
/web3051538/.ni.rs/ byzantium/ english.php (Paper presented to the
2008 Nis and Byzantium-VII International Scientific Meeting Symposium”, Nis,
3-5 June 2008), Nis, Scarre, Chronicle of the roman emperors, Pat Southern, The
Roman Empire: from Severus to Constantine, Londra, Stefan,
Un rang impérial nouveau à l’époque de la quatrième Tétrarchie: Filius
Augustorum. Première partie. Inscriptions révisées: problèmes de titulature
impériale et de chronologie, in Antiquité Tardive Costantino e le sfide del
cristianesimo. Tracce per una difficile ricerca, a cura di Sergio Tanzarella -
Stanisław Adamiak, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2013. C.R. Whittaker,
Frontiers of the Roman empire. A social ad economic study, Baltimora &
London, 1997. L'editto di Milano e il tempo della tolleranza. Costantino 313
d.C., Mostra di Palazzo Reale a Milano, mostra a cura di Paolo Biscottini e
Gemma Sena Chiesa, catalogo a cura di Gemma Sena Chiesa, Ed. Mondadori Electa,
Milano. Filmografia Costantino il Grande, regia di Lionello De Felice, con
Cornel Wilde, Belinda Lee e Massimo Serato. Voci correlate Aeroporto Costantino
il Grande Niš (Serbia) Antica basilica di San Pietro in Vaticano Ardia Arco di
Costantino Arco di Malborghetto Arte costantiniana Basilica della Natività
Basilica del Santo Sepolcro Basilica Palatina di Costantino (ad Augusta
Treverorum, oggi Treviri) Basilica di Massenzio (a Roma) Basilica di San
Giovanni in Laterano Basilica di San Paolo fuori le mura Cesaropapismo Colonna
di Costantino Monumento a Costantino Imperatore Donazione di Costantino Flavia
Giulia Elena In hoc signo vinces Monogramma di Cristo Statua colossale di
Costantino I Terme di Costantino Ponte di Costantino (Danubio) Costantino I
imperatore, detto il Grande, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana.Alberto Olivetti, COSTANTINO I imperatore, detto il
Grande, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Costantino
I detto il Grande, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, MacGillivray Nicol e J.F. Matthews, Constantine I, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Costantino I, su BeWeb, Conferenza
Episcopale Italiana. Costantino I, in Diccionario biográfico español, Real
Academia de la Historia. Opere di Costantino I, su digilibLT, Università degli
Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Modifica su Wikidata Opere di
Costantino I, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Costantino I, su
Open Library, Internet Archive. Costantino I, su Goodreads. Costantino I, in
Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Costantino
I, su Santi, beati e testimoni, santiebeati.it. The Roman Law Library by
Professor Yves Lassard and Alexandr Koptev, su web.upmf-grenoble. Monete emesse
da Costantino I, su wildwinds.com. Sito dedicato alle monete di Costantino in
bronzo, su constantinethegreatcoins.com. PredecessoreImperatore
romanoSuccessore Costanzo Cloro (con Galerio)306 – 337 Costantino IIVDM
Imperatori romani e relative linee di successione VDM Diocleziano Portale
Antica Roma Portale Biografie Portale Bisanzio
Portale Cristianesimo Categorie: Imperatori romani Santi romani Nati a
Naissus Morti a Nicomedia Costantino I Dinastia costantiniana Santi per
nomeStoria antica del cristianesimo Personalità del cristianesimo ortodosso Personaggi
citati nella Divina Commedia (Inferno) Personaggi citati nella Divina Commedia
(Paradiso) Santi della Chiesa ortodossa[altre] Costantino.
Grice e
Costanzi: l’implicatura conversazionale dell’amore e la morte – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Pozzuolo Umbro). Filosofo
italiano. Grice: “I like Costanzi; possibly my favourite of his essays is the
one on ‘amore’ and ‘morte’ – eros and Thanatos for the Oxonian!” Si laurea a Bologna.
Ensegna a Bologna. Altre opere: “Pensiero ed essere” (Perrella, Roma);
“Varisco: l’uno e i molti” (Perrella, Roma); “Noluntas” (Perrella, Roma); “Schopenhauer”
(Roma); “L'asceta moderno” – L’asceta -- Arte e storia, Roma; Spinoza,
Universitas, Roma); “Il sentito in Platone” -- Arte e storia, Roma); “L'ascetica
di Heidegger” Arte e storia, Roma); “L'ascesi di coscienza e l'argomento
d’Aosta”, Arte e storia, Roma); “Meditazioni inattuali sull'essere e il senso
della vita” Arte e storia, Roma); “La terrenità edenica del Cristianesimo e la
contaminazione spiritualistica” (Patron, Bologna); “La donna angelicata e il
senso della femminilità nel Cristianesimo” (Patron, Bologna); “La filosofia
pura, Alfa, Bologna); “Il senso della storia, Alfa, Bologna); “Sul prologo di
Zarathustra (Nietzsche e Schopenhauer) con trad. dello stesso Prologo, in
Ethica; “L'etica nelle sue condizioni necessarie, Ed.ni di Ethica, Bologna); “L'estetica
pia, Patron, Bologna); “L'ora della filosofia, R. Patron, Bologna); “L'uomo
come disgrazia e Dio come fortuna” (Alfa, Bologna; “La critica disvelatrice” (Ed.ne dell'Istituto
di Filosofia dell'Bologna, Bologna); “Amore e morte” (L. Parma, Bologna); “La singolarità
della diada: compimento di un itinerario senza vie” (Cooperativa libraria universitaria
editrice, Bologna); “L'equivoco della filosofia cristiana e il cristianesimo-filosofia”
(Clueb, Bologna; e ragioni della miscredenza e quelle cristiane della fede,
Clueb, Bologna); “La fede sapiente e il Cristo storico” (Sala francescana di
cultura Antonio Giorgi, Assisi); “La rivelazione filosofica” (Sala francescana
di culturaAntonio Giorgi, Assisii); Il Cristianesimo: filosofia come tradizione
di realtà” (Sala francescana di cultura, Assisi); “Breviloquio della sera” (Sala
francescana di culturaAntonio Giorgi, Assisi); “L’immagine sacra” (Sala francescana
di cultura, Assisi); “L'identità del Lumen publicum nelle privatezze di Anselmo
e Tommaso” (Il Cristianesimo-filosofia, Le Lettere, Roma); Opere, E. Mirri e M.
Moschini, Bompiani, Milano). Sgarbi torna a Tuoro per presentare l'opera omnia
del filosofo Teodorico Moretti-Costanzi, "Umbria Left. Il filosofo imagliato dal Sessantotto,
"il Giornale"Dizionario Biografico degli Italiani. Wikipedia
Ricerca Al di là del principio di piacere saggio di Sigmund Freud Lingua
Segui Al di là del principio di piacere
Titolo originale Jenseitsdes
Lustprinzips Freud Jenseits des Lustprinzips. djvu Autore Freud 1ª ed.
originale Genere Saggio Sottogenere Psicoanalisi Lingua originale tedesco Al di
là del principio di piacere (tedesco: Jenseits des Lustprinzips) è un saggio di
Sigmund Freud incentrato sui temi dell'Eros e del Thanatos, ovvero
rispettivamente la "pulsione di vita" e la "pulsione di
morte" (Todestrieb[e]). Giuditta II di Klimt,, Venezia,
Galleria internazionale d'arte moderna. Achille sorregge Pentesilea dopo averla
colpita a morte, una delle leggende fiorite sull'episodio vuole che l'eroe se
ne innamori proprio in questo momento. Bassorilievo dal tempio di Afrodite a
Afrodisia Il dualismo di EmpedocleModifica Freud formula il conflitto
psicologico in termini dualistici fin dai suoi primi scritti, ma è solo in
questo testo che egli presenta un simile conflitto mediante concetti desunti
dal pensiero di Empedocle, il quale parla d'un dissidio cosmico fra i princìpi
o forze di Amore (o Amicizia) e Odio (o Discordia). Empedocle di Agrigento
si presenta come una figura fra le più eminenti e singolari della storia della
civiltà greca. Il nostro interesse si accentra su quella dottrina di Empedocle
che si avvicina talmente alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da
indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche
se non fosse per un'unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia
cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica. I due
principi fondamentali di Empedocle – philìa (amore, amicizia) e
neikos(discordia, odio) – sia per il nome che per la funzione che assolvono,
sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione.»
Il nome di Eros deriva da quello della divinità greca dell'amore, e «tende a
creare organizzazioni della realtà sempre più complesse o armonizzate, [mentre]
Thanatos tende a far tornare il vivente a una forma d'esistenza inorganica.
Queste sono pulsioni. Eros rappresenta per Freud la pulsione alla vita, mentre
Thanatos quella della distruzione. Qualora l'autodistruzione diventasse oggetto
di malattia però Thanatos diviene il nome del conflitto che si crea tra energia
negativa (autodistruzione) e positiva (la rabbia del Thanatos viene utilizzata
per distruggere la malattia stessa).» Freud riscontra anche in un altro
filosofo, questa volta contemporaneo, un'anticipazione della sua scoperta:
"E ora le pulsioni nelle quali crediamo si dividono in due gruppi: quelle
erotiche, che vogliono convogliare la sostanza vivente in unità sempre più
grandi, e le pulsioni di morte, che si oppongono a questa tendenza e
riconducono ciò che è vivente allo stato inorganico. Dall'azione congiunta e
opposta di entrambe scaturiscono i fenomeni della vita, ai quali mette fine la
morte. Forse scrollerete le spalle: 'Questa non è scienza della natura, è
filosofia, la filosofia di Schopenhauer'. E perché mai, Signore e Signori, un
audace pensatore non dovrebbe aver intuito ciò che una spassionata, faticosa e
dettagliata ricerca è in grado di convalidare?" «Thanatos non
compare negli scritti di Freud, ma egli, a quanto riferisce Jones, l'avrebbe
talvolta usato nella conversazione. L'uso nel linguaggio psicoanalitico è
probabilmente dovuto a Federn.» Sabina Spielrein e Barbara LowModifica Su
esplicita influenza di Sabina Nikolaevna Špil'rejn, citata in nota nel libro, per
Freud Thanatos segnala il desiderio di concludere la sofferenza della vita e
tornare al riposo, alla tomba. Concetto che non deve essere confuso con quello
di destrudo, vale a dire con l'energia della distruzione (che si oppone alla
libido). Thanatos è il principio di costanza,accennato fin dal capitolo
sette de L'interpretazione dei sogni e che adesso, sotto l'influsso del
pensiero di Schopenhauer, diventa identico al principio del Nirvana proposto da
Low: le eccitazioni della mente, del cervello, dell'"apparato
psichico" non vengono più solo sgomberate, tenute costanti al più basso
livello possibile, bensì estinte, eliminate sino al grado zero della realtà
inanimata. La coazione a ripetereModifica Nel testo del '20 Freud sostiene che
«nella vita psichica esiste davvero una coazione a ripetere la quale si afferma
anche a prescindere dal principio di piacere.» Sulla falsariga del motto errare
humanum est, perseverare autem diabolicum, essa viene definita per quattro
volte «demoniaca»: Vi sono individui che nella loro vita ripetono sempre, senza
correggersi, le medesime reazioni a loro danno, o che sembrano addirittura
perseguitati da un destino inesorabile, mentre un più attento esame rivela che
essi stessi si creano inconsapevolmente con le loro mani questo destino. In tal
caso attribuiamo alla coazione a ripetere un carattere "demoniaco". La
coazione a ripetere è riscontrabile anche nella nevrosi traumatica dei reduci
della prima guerra mondialeoppure di chi tende a rivivere o reinterpretare gli
eventi più violenti. Freud collocò la coazione a ripetere fra i sintomi
della nevrosi: si ripete il sintomo nevrotico invece di ricordare, si ripete
per non ricordare, con quello che Freud chiama «l'eterno ritorno dell'uguale. Per
la relazione tra pulsione e coazione a ripetere, Freud notò che le coazioni
tendono come la pulsione a una ripetizione assoluta e atemporale, mai
definitivamente appagata, e che tendono a sparire quando un fatto viene
riportato a conoscenza del paziente. Dalla rimozione di una pulsione (a
muoversi ovvero a ricordare un fatto doloroso o traumatico), la coazione a
ripetere trae l'energia per imporsi sulla volontà cosciente dell'Io. La
coazione a ripetere diventa il punto di partenza della terapia psicoanalitica.
Occorre ricordare per non ripetere gli errori del passato, gli stessi dubbi e
conflitti per tutta la vita, in amore, in amicizia, nel lavoro. Freud
rileva questa coazione anche nelle circostanze più ordinarie e naturali,
persino nel gioco dei bambini come quello con il rocchetto usato dal suo
piccolo nipote di diciotto mesi. Il bimbo, lanciando il rocchetto lontano da
sé, simboleggia la perdita della madre e, ritraendo il rocchetto a sé,
rappresenta il ritorno della madre. Imparerebbe così a padroneggiare l'assenza
materna attraverso un duplice movimento, che è sempre seguito dalla
vocalizzazione di un "oooo..." (ted. fort, «via!»), quando il
rocchetto è lontano, e da un "da" (ted. da, «Eccolo!»), quando il
rocchetto è di nuovo vicino. Dopo l'esposizione d'una serie di ipotesi (in particolare
l'idea che ogni individuo ripete le esperienze traumatiche per riprendere il
controllo e limitarne l'effetto dopo il fatto), Freud considera l'esistenza di
un essenziale desiderio o pulsione di morte, riferendosi al bisogno intrinseco
di morire che ha ogni essere vivente. Gli organismi, secondo quest'idea,
tendono a tornare a uno stato preorganico, inanimato – ma vogliono farlo in un
modo personale, intimo. In definitiva, «sembrerebbe proprio che il principio di
piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte. A questo punto sorgono
innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di dare una
risposta. Dobbiamo aver pazienza e attendere che si presentino nuovi strumenti
e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser disposti altresì ad abbandonare
una strada che abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a quanto pare, non
porta a nulla di buono. Solo quei credenti che pretendono che la scienza
sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato se la prenderanno con il ricercatore
che sviluppa o addirittura muta le proprie opinioni. Implicazioni Modifica Uno
psicoanalista con competenze pure di antropologia filosofica come Sciacchitano
sostiene che «la vera psic[o]analisi fu il frutto tardivo dell'attività
teoretica di Freud. Bisogna aspettare la svolta degli anni Venti, con
l'invenzione della pulsione di morte, per parlare di vera e propria
psicoanalisi. Essa comincia con la rinuncia alle pretese e alle finalità
mediche della psicoterapia. Il nuovo modello freudiano individuava nello
psichico un nucleo patogeno fisso, qualcosa che non si scarica mai, ma continua
a ripetersi identicamente a se stesso e insensatamente, cioè fuori da ogni
intenzionalità soggettivistica e contro ogni teleologia vitalistica. Ce n'era
abbastanza per far crollare ogni illusione terapeutica. Parecchi allievi a
questo punto abbandonarono il maestro che toglieva avvenire, come si dice
terreno sotto i piedi, alle loro illusioni umanitarie». Freud non cambierà più
idea. Ciò significa che il fondatore della psicoanalisi asserirà la sostanziale
"inguaribilità'" del disagio psichico per lo stesso arco di tempo, un
ventennio, in cui egli precedentemente aveva affermato l'esatto
contrario. Wilhelm Reich, in La funzione dell'orgasmo e Analisi del carattere,
propose una propria ipotesi di confutazione alla teoria della pulsione di
morte. La madre morta, Egon Schiele, Vienna, Leopold Museum.
Nell'arte: SchieleModifica «Egon Schiele sa che tutto ciò che vive è anche
morto, porta in sé il suo esistenziale compimento, fin dall'istante del
concepimento, come attesta il funesto dipinto: La madre morta, in cui il grembo
appare come un lugubre mantello, un involucro mortuario che racchiude il Sein
zum Tode [Essere-per-la-morte] del nascituro, ne circoscrive la parabola esistenziale.»
(Vozza) Agonia, Egon Schiele, Monaco di Baviera, Neue Pinakothek.
Madre con i due bambini, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere. «Schiele
introduce un evento di grande rilievo nell'iconografia della malinconia e della
vanitas, operandone una trasfigurazione tragica: l'uomo non [...] medita più
sulla morte raffigurata in un teschio posto nel suo studiolo come altro da sé,
ma assume sul proprio volto l'icona funebre, diventa morte incarnata, esibita
nel gesto d'esistere, nel godimento del sesso e nella prostrazione della
sofferenza. Nessuna iconoclastìa sopravvive nel gesto pittorico di Schiele: si
pensi all'Agonia, sacra rappresentazione di stupefacente intensità cromatica,
allegoria del dolore immedicabile, emblema di una eterna e impietosa Passione,
sublime omaggio a quell'incomparabile maestro di sofferenza che è stato
Grünewald.» (Marco Vozza) «La Madre con i due bambini esibisce un volto
già visibilmente cadaverico, mentre un infante osserva sgomento il deliquio
orizzontale del fratellino. [...] Nessuno meglio di Schiele ha saputo render
visibile quella che l'analitica esistenziale ha chiamato Geworfenheit,
l'indifeso essere gettati in un mondo ostile. Insieme a lui soltanto Kokoschka,
in seguito Dubuffet e Bacon.» (Marco Vozza[25]) NoteModifica ^ Quadro che
Sabina Nikolaevna Špil'rejn sceglie come modello rappresentativo del connubio
Eros-Thanatos nel film biografico Prendimi l'anima (Roberto Faenza, 2002):
Perché Giuditta uccide Oloferne, estratto dal film su YouTube(vedi screenshot).
^ Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere(1920), in Opere di Sigmund
Freud (OSF) vol. 9. L'Io e l'Es e altri scritti; Torino, Bollati Boringhieri, .
Ed. paperback Freud, Analisi terminabile e interminabile, in OSF vol. 11.
L'uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti 1930-1938, Torino,
Bollati Boringhieri; Ed. paperbackGalimberti, Enciclopedia di psicologia,
Garzanti, Torino; Freud Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri; Jones,
Vita e opere di Freud, vol. 3: L'ultima fase (1919-1939), Milano, Garzanti,
1977. ISBN non esistente. ^ Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, a cura di
Luciano Mecacci e Cyhthia Puca, Enciclopedia della psicoanalisi, vol. 2,
Bari-Roma, Laterza, voce Thanatos, The language of psycho-analysis, Karnac,
Paperbacks, books.google.it. ^ Sigmund Freud, Al di là del principio del
piacere; Freud, Freud, op. cit., p. 235. ^ Sigmund Freud; Mugnani, Analisi del
testo di S. Freud: "Il problema economico del masochismo". Pasqua, Al
di là del principio di piacere: sul principio di Piacere e la Coscienza; Laplanche,
Jean Bertrand Pontalis, op. cit., voce Principio di piacere. Op. cit., su
books.google.it. ^ Sigmund Freud; Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, op. cit.,
voce Coazione a ripetere. Op. cit., Anteprima disponibile; Google Libri. ^
Sigmund Freud; Cf. anche Il perturbante, OSF; Freud Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni
Boringhieri 1978, p.508. ^ Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere,
Torino, Bollati Boringhieri, Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere; Freud,
op. cit. Sciacchitano, Il demone del godimento, in AA.VV., Godimento e
desiderio, aut aut, Vozza, Il senso della fine nell'arte contemporanea, in
L'Apocalisse nella storia, Humanitas, Vozza, op. cit., Vozza, ibidem. Voci
correlateModifica Psicoanalisi Empedocle Eros (filosofia) Eros Il disagio della
civiltà Libido Destrudo Morte Sabina Nikolaevna Špil'rejn Tanato; Edizioni e
traduzioni di Al di là del principio di piacere, su Open Library, Internet
Archive. Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di piacere, su
Progetto Gutenberg. Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, The language of
psycho-analysis, Karnac, Thanatos, Nirvana Principle, e Compulsion to Repeat,
Portale Letteratura Portale Psicologia Nikolaevna Špil'rejn
psicoanalista russa Differimento Resistenza (psicologia) ciò che negli
atti e nel discorso, si oppone all'accesso dei contenuti inconsci alla
coscienza Wikipedia Il contenutoTeodorico Moretti Costanzi. Keywords: amore
e morte, l’essere, il sentito, ascesi (verbo?), Zarathustra, il singolo della
diada, l’uno e i molti, nolere, nolitum, volitum, amore/morte, eros/tanatos,
immagine sacra, imaginatum, essere, un essere, due esseri, le due esseri
entrambi – rivelazione – la rivelazione filosofica – a new discourse on
metaphysics: from genesis to revelations – un nuovo discorso di metafisica: del
genesi alle rivelazione. – Zarathustra e cristita -- nollere in Schopenhauer --. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Costanzi” – The Swimming-Pool Library. Costanzi
Grice e Courmayeur: l’implicatura
conversazionale di Hegel in Italia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice:
“The most interesting thing about Courmayeur’s philosophy is that he is a
count; unlike Locke, or the common-or-garden English Oxonian philosopher who
doesn’t have a dime, this one has, as the Italians say, ‘all the money in the
world’! That helps with philosophy! His forte is moral philosophy AND HEGEL,
which proves that Hegel becomes the taste of aristocrats and not just dons like
Bosanquet!” - Dall'antica famiglia valdostana dei Passerin d'Entrèves et
Courmayeur. Ottenuta la maturità classica al Massimo d'Azeglio di Torino, si
laurea con Solari con “Hegel” (Torino, Gobetti). Studia sotto Ruffini e Einaudi
la filosofia politica del medio evo e il concetto di costituzione. Insegna a
Torino. Fu capitano di complemento degli Alpini e membro del CLN, dal quale
venne nominato, primo prefetto di Aosta. Fu all'origine dello statuto della regione
autonoma Valle d'Aosta. Fra le sue opere
più note, Il concetto dello stato, è considerata da molti la sintesi del suo
pensiero storico-filosofico. Oltre che
filosofo del diritto e storico del pensiero politico, viene considerato il
fondatore della filosofia politica italiana come disciplina a sé stante,
finalmente distinta dalla filosofia dello stato. Paradossalmente ciò avviene proprio
col saggio, “Il concetto dello stato”. Ben diversamente dall'ordinamento
tematico della “Staatslehre” come pure dall'ordinamento cronologico per
filosofi in uso nella filosofia politica, ordina la filosofia politica secondo
uno schema concettuale schiettamente filosofico: "il concetto di forza –
forzare ", "il concetto di potere" (il verbo ‘potere’); "il
concetto di autorità – auctoritas --". Il concetto di faccia dello stato,
secondo una scala di qualificazione crescente. Il concetto di "forza"
(il forzare) e qualificato di un imperativo, un mando o commando efficace. Il concetto
di "potere" (potere del giurato) contiene il concetto di forza (il
forzare – come un mando o imperativo efficace), ma organizzato in una
istituzione e qualificato dal ‘giurato’. Finalmente la terza faccia, il
concetto di "autorità" come contenendo la second faccia del potere del
giurato, qualificato da una concetto di legge variable: la promozione del
giurato, la promozione del bene comune (la res publica), o la promozione della
piccolo patria. Altre opere: Il concetto dello stato (Torino: Giappichelli);
“La Valle d'Aosta, Bologna: Boni); “La filosofia della politica, Torino: POMBA);
“Filosofia politica nel medio evo italiano” (Torino: G. Giappichelli); “La
filosofia politica d’Alighieri” (Einaudi, Torino); “Morale, diritto ed
economia, Pavia: Libreria Internazionale F.lli Treves); “Morale, Roma:
Athenaeum); “Appunti di storia delle dottrine politiche: la filosofia politica
medioevale, Torino: Giappichelli); “Il
concetto dello stato in Zwingli", in Filosofia del diritto, Roma); La
teoria del diritto e della politica in Inghilterra all'inizio dell'età moderna,
Torino: Istituto giuridico della R. Università); “Obbedienza e resistenza” (Roma/Ivrea,
Edizioni di Comunità). La piccola patria, Milano: Franco Angeli); Obbligazione
Politica, Pensa Multimedia. Dizionario
biografico degli italiani. Biblioteca civica Passerin d'Entrèves. Ricerca
Patria Lingua Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati,
vedi Patria (disambigua). La Patria (dal latino = la terra dei padri) è il
concetto di nazione e paese, natio interiorizzato e idealizzato.
L'Altare della Patria a Roma. Descrizione La patria è un topos
prettamente letterario (concetto ricorrente) che è possibile ritrovare in
tantissimi temi trattati e argomentati nelle scienze umane, con particolare
frequenza nell'area umanistica. BibliografiaModifica Vincenzo
Cappelletti, Patria e Stato nel Risorgimento, in «Il Veltro», Finotti, Italia.
L’invenzione della patria, Milano, Bompiani, Ceccarelli, Patria. Da patria a
nazione, in Guido Pescosolido e Giuseppe Bedeschi (a cura di), Dizionario di
storia, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana “Giovanni Treccani”,
«patria» Collegamenti esterniModifica patria, su Treccani.it – Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. patria, in Dizionario di storia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Thesaurus Portale Antropologia
Portale Politica Portale Storia Popolo insieme delle persone
fisiche che sono in rapporto di cittadinanza con uno Stato Statista
personaggio politico deputato a governare e regolare gli affari di Stato
Sciovinismo forma fanatica ed esasperata di nazionalismo o patriottismo. Grice: “It’s only natural that Courmayeur had such an
intricate concept of ‘state’ – he was born in a minority, like Russell, who was
born in a place which some called England, some called Wales. The situation is
so borderline that it reminded me of my ancestors, the Ingvaeonic – and see all
the problem the Frisians are having in Germany! Now they do recognise the
‘anglo-frisiche’ – but hardly allow them to vote!” “It is not clear how the
collectivity has any bearing on the third state of ‘state’ – the ‘auctoritas’ –
but then perhaps ‘auctoritas’ is the wrong concept, since it just means
‘author’ – Courmayeur is making the point that all authority is legitimate
authority. “You have no authority” means ‘you have no legitimate power’ – and you have no power,
means you have no legal force, and you have no force means you cannot command!”
As Courmayeur would say: it’s all different in valaestan, the vernacular of
Aosta, which hardly has the same status as Italian (since giuridically Aosta
belongs to Italy) or French (since French is the official language, along with
Italian). But don’t ask that imperialist Crystal for an answer!” Alexandre
Passerin d'Entrèves et Courmayeur. Alessandro Passerin d’Entrèves et
Courmayeur. Courmayeur. Keywords: Hegel in Italia, piccola patria, il concetto
dello stato, filosofia politica versus staatslehre, prima faccia: il forzare
come imperativo efficace; seconda faccia: il potere come il forzare organizzato
in una istituzione e qualificato dal giurato; la terza e ultima faccia:
l’autorita, come il potere qualificator da una legge centrata in un concetto
ideale variabile: il giurato, il bene comune (res publica), la piccola patria. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Courmayeur” – The Swimming-Pool Library. Courtmayeur.
Grice e Cotroneo: l’implicatura conversazionale della
VIRTÙ – [andreia] filosofia italiana – Luigi Speranza (Campo Calabro). Filosofo italiano. Si laurea Messina
sotto Volpe con “L’implicatura di Kierkegaard”. Ensegna a Messina. “Scritti”.
“Lo storicismo di Cotroneo”. Altre opere: “Bodin teorico della storia” (Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane); “Croce e l'Illuminismo” (Napoli, Giannini); “I
trattatisti dell'arte storica” (Napoli, Giannini); “Storicismo antico e
moderno” (Roma, Bulzoni); “Rareta e storia” (Napoli, Guida); “Societa chiusa,
società aperta” (Messina, Armando Siciliano Editore); “La ragione della
libertà” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Trittico siciliano: Scinà,
Castiglia, Menza” (Roma, Cadmo); “Momenti della filosofia italiana” (Napoli,
Morano); “Questione post-crociane” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane);
“Tra filosofia e politica” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Le idee del tempo.
L'etica. La bioetica. I diritti. La pace, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Un
viandante della complessità. Morin filosofo a Messina, Annamaria Anselmo,
Messina, Armando Siciliano Editore); “Croce e altri ancora, Soveria Mannelli,
Rubbettino); “Etica ed economica” (Messina, Armando Siciliano Editore); “La
virtù” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo italiano, Firenze, Le
Lettere); “Illuminismo, Napoli, La scuola di Pitagora); “Libertà” (Napoli, La
scuola di Pitagora); “Storia della filosofia, Napoli, La scuola di Pitagora); “Positivismo,
Napoli, La scuola di Pitagora); “Filosofia della storia, Napoli, La scuola di Pitagora);
“Rinascimento, Napoli, La scuola di Pitagora); “Aristotele e Perelman, Retorica
vecchia e nuova” introduzione (Napoli, Il Tripode); La retorica di Aristotele,
retorica antica, Perelman, Itinerari dell'idealismo italiano, Napoli, Giannini,
Raffaello Franchini, Teoria della pre-visione” (Messina, Armando Siciliano
Editore, Croce, La religione della libertà. Antologia degli scritti politici, Soveria
Mannelli, Rubbettino, Il diritto alla filosofia, Atti del Seminario di studi su
Franchini” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo, Atti del Convegno
di studi, Napoli-Messina” (Soveria Mannelli, Rubbettino); La Fenomenologia
dello spirito” (Napoli, Bibliopolis); Cavour, Discorsi su Stato e Chiesa” (Soveria
Mannelli, Rubbettino, Letteratura critica Giovanni Reale, Girolamo Cotroneo, in
Dario Antiseri e Silvano Tagliagambe, Storia della filosofia, Milano, Bompiani,
Lo storicismo di Cotroneo, Soveria Mannelli, Rubbettino, Giuseppe Giordano, Tra
Storia della Filosofia e Liberalismo, in Bollettino della Società Filosofica
Italiana, Roma, Carocci, Giordano, Rivista di storia della filosofia, Milano,
Franco Angeli, C., in Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ricerca
Virtù disposizione d'animo volta al bene Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Virtù
(disambigua). La virtù (dal latino virtus; in greco ἀρετή aretè) è una
disposizione d'animo volta al bene, che consiste nella capacità di una persona
di eccellere in qualcosa, di compiere un certo atto in maniera ottimale, o di
essere o agire in un modo ritenuto perfetto secondo un punto di vista morale,
religioso, o anche sociale in base a alla cultura di riferimento. Il
significato di virtù ha risentito di quello di bene, un concetto che assume
significati diversi a seconda delle modifiche intervenute nel corso delle varie
situazioni storiche e sociali. Concezione questa non condivisa dalle dottrine
che ne negano il relativismoconnesso e che intendono la virtù come l'assunzione
di valori, intesi come assoluti, immutabili nel tempo. La parola latina virtus,
che significa letteralmente "virilità", dal latino vir
"uomo" (nel senso specifico di "maschio" e contrapposto
alla donna) si riferisce ad esempio alla forza fisica e a valori guerreschi
maschili, come ad esempio il coraggio. Nella lingua italiana la virtù è
invece la qualità di eccellenza morale sia per l'uomo sia per la donna e il
termine è riferito comunemente anche a un qualche tratto caratteriale
considerato da alcuni positivo. Personificazione della virtù nella
Biblioteca di Celso. La virtù nella filosofia occidentale anticaModifica Il
concetto grecoModifica Niccolò Machiavelli Nella visione della vita
secondo la filosofia anticagreca, la concezione dell'aretè non era connessa
all'azione per il conseguimento del bene, bensì indicava semplicemente una
forza d'animo, un vigore morale e anche fisico. Essa coincide con la
realizzazione dell'essenza innata della persona, sia sul piano dell'aspetto
fisico, il lavoro, il comportamento e gli interessi intellettuali. Questa
concezione di virtù contiene l'eccellenza degli eroi omerici, quella degli statisti
Ateniesi, o quella descritta nel Menone di Platone ovvero la capacità di ben
governare. In questo senso il coraggio, la moderazione e la giustizia erano
virtù morali. Tale sarà, ad esempio, il senso nella concezione
rinascimentale sulla politica in Niccolò Machiavelli che vorrà distinguere
l'aretè del principe moderno, come la capacità di opporsi alla
"fortuna" e di modificare le circostanze ai propri fini di potere e
con lo scopo principale del mantenimento dello stato (senza tener conto del
giudizio morale sui mezzi impiegati), dalla virtus cristiana del sovrano
medioevale che governa per grazia di Dio a cui deve rispondere per la
giustificazione della sua azione politica, diretta anche a difendere i buoni e
proteggere i deboli dalla malvagità. Nel Principe nessuna considerazione morale
né religiosa dovrà ostacolare la sua azione spregiudicata e forte, frutto della
sua "aretè", tesa a mettere ordine là dov'è il caos della politica
italiana. Non diversamente, nella visione di Nietzsche la virtù consisterà
nella "volontà di potenza" in opposizione alla "morale degli
schiavi" nata dallo spirito di risentimento del Cristianesimo nei
confronti degli uomini superiori. Le virtùModifica Platone
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Etica Socrate e Platone. La concezione della virtù
nel pensiero greco antico costituisce il fulcro centrale dell'etica e delle sue
trasformazioni nel corso del tempo. Così in Platone le virtù
corrispondono al controllo della parte razionale dell'anima sulle passioni. Ne
La Repubblica verranno indicate per la prima volta le quattro virtù, che da
Sant'Ambrogio in poi verranno chiamate "cardinali", vale a dire
principali: la temperanza, intesa come moderazione dei desideri che, se
eccessivi, sfociano nella sregolatezza; il coraggio o forza d'animo necessaria
per mettere in atto i comportamenti virtuosi; la saggezza o
"prudenza", variamente intesa dalla speculazione antica seguente, che
costituisce, come controllo delle passioni, la base di tutte le altre virtù; la
giustizia è quella che realizza l'accordo armonico e l'equilibrio di tutte le
altre virtù presenti nell'uomo virtuoso e nello stato perfetto. Le virtù
secondo Aristotele Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Aristotele L'Etica. Aristotele Mentre Platone parlava
genericamente di saggezza per l'esercizio della virtù, Aristotele la distingue
invece dalla "sapienza". La saggezza, o "prudenza", è una
"virtù dianoetica", propria cioè della razionalità comune a tutti che
ispira la condotta umana permettendo il giusto esercizio delle "virtù
etiche", quelle cioè che riguardano l'azione concreta. Tra le virtù
dianoetiche che presiedono alla conoscenza (intelletto, scienza, sapienza) o
alla attività tecniche (arte), la saggezza è propria di colui che, pur non
essendo filosofo, è in grado di operare virtuosamente. Se si dovesse acquisire
la sapienza filosofica per praticare le virtù etiche questo comporterebbe che
solo chi ha raggiunto l'età matura, divenendo filosofo, potrebbe essere virtuoso
mentre con la saggezza, grado inferiore della sapienza, anche i giovani possono
praticare quelle virtù etiche che permetteranno l'acquisto delle virtù
dianoetiche. La saggezza insomma permette una vita virtuosa, premessa e
condizione della sapienza filosofica, intesa come "stile di vita"
slegato da ogni finalità pratica, e che pur rappresentando l'inclinazione
naturale di tutti gli uomini solo i filosofi realizzano a pieno poiché
«Se in verità l'intelletto è qualcosa di divino in confronto all'uomo, anche la
vita secondo esso è divina in confronto alla vita umana.» Virtù
eticheVirtù dianoetiche Giustizia Coraggio Temperanza Liberalità Magnificenza
Magnanimità Mansuetudine Virtù calcolative Arte Prudenza Virtù scientifiche
Sapienza Scienza Intelligenza La saggezza può esser fatta conseguire ai giovani
tramite l'educazione che i saggi, o quelli ritenuti tali dalla collettività,
impartiranno anche con l'esempio concreto della loro condotta. Da questi
modelli il giovane apprenderà che le virtù etiche consistono nella capacità di
comportarsi secondo il "giusto mezzo" tra i vizi ai quali si
contrappongono (ad esempio il coraggio è l'atteggiamento mediano da preferire
tra la viltà e la temerarietà), sino a conseguire con l'abitudine un abito spontaneamente
virtuoso: infatti «La virtù è una disposizione abitudinaria riguardante
la scelta, e consiste in una medietà in relazione a noi, determinata secondo un
criterio, e precisamente il criterio in base al quale la determinerebbe l'uomo
saggio. Medietà tra due vizi, quello per eccesso e quello per difetto» In
medio stat virtus è il detto della filosofia scolastica che traduce il concetto
greco di mesotes. La virtù secondo gli stoiciModifica Magnifying glass
icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Stoicismo Etica. La saggezza,
ossia la capacità di operare con prudenza, è al centro della morale epicurea e
stoicama, mentre per gli epicurei la virtù si consegue attraverso un calcolo
razionale dei piaceri stabilendo quali di essi siano veramente necessari e naturali,
per gli stoici invece il comportamento virtuoso, risultato del conseguimento
dell'"apatia", cioè della liberazione ascetica dalle passioni, è di
per sé portatore di felicità. Per coloro che non riescono a condurre la loro
vita secondo saggezza lo stoicismo indicherà delle regole di condotta che
insegneranno a operare secondo ciò che è più "conveniente" od
opportuno tenendosi sempre lontano dagli eccessi delle passioni. La
morale stoica ispirerà quella dei filosofi come Cartesio, che rivaluterà tra le
passioni quella della "magnanimità", considerata virtù somma, e
Spinoza che afferma che «il primo e unico fondamento della virtù, ossia della
retta maniera di vivere, è di cercare il proprio utile» intendendo per
"utile" solo ciò che «conduce l'uomo a maggior perfezione» infatti
«gli uomini che ricercano il proprio utile sotto la guida della ragione non
appetiscono per sé niente che non desiderino gli altri uomini, e perciò essi
sono giusti, fedeli, onesti» e per ciò stesso la virtù è premio a sé stessa
come portatrice di una vita serena condotta secondo la razionalità. Le
virtù secondo il cristianesimoModifica «Il fine di una vita virtuosa consiste
nel divenire simili a Dio» Nel pensiero cristiano oltre le virtù umane è
possibile l'esercizio di quelle soprannaturali: le virtù teologali di fede,
speranza e carità che in qualche modo dovranno conciliarsi con quelle
dell'etica antica. San Tommaso conserverà la validità delle virtù
"cardinali" aristoteliche ma considerandole inferiori a quelle
teologali mentre Agostino riteneva false le virtù umane dei pagani che
mascherano sotto il nome di virtù quello che in realtà è l'esercizio di vizi "splendidi",
ma pur sempre negativi in quanto causati dall'orgoglio e dalla ricerca
dell'effimera gloria umana. L'unica grande virtù è la carità, l'amore di Dio il
cui esercizio, per quanto essi facciano, non dipende dagli uomini ma dalla
volontà divina che lo infonde negli spiriti eletti, cioè dalla infusione
nell'uomo della indispensabile grazia divina. Concezione questa che riaffiorerà
nel XVI secolo con la Riforma protestante e nel Giansenismo. Inoltre uno
dei nove cori delle gerarchie angeliche, viene denominato Virtù ed indica
secondo lo Pseudo-Dionigi il coro angelico preposto a dispensare la grazia
divina. La virtù nel pensiero modernoModifica Nella filosofia dell'età
moderna la concezione della virtù oscilla tra quella che la considera come
l'esercizio di un controllo delle passioni a cui rinunciare e quella che invece
la ritiene rientrare nell'ambito di un comportamento istintivo e naturale
dell'uomo. Alla prima interpretazione si associano le dottrine della corrente
libertina da Pierre Bayle a Mandeville che ironizzano sulla effettiva
possibilità per gl’uomini dell'esercizio delle virtù che se anzi fossero
attuate provocherebbero la disgregazione della società. «Il vizio è
tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per
obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione
celebre e gloriosa.]» Si è sempre parlato ipocritamente di virtù,
osservano i libertini, le quali in realtà sono la mascheratura dei propri vizi
come ben appare nella contrapposizione tra le ostentate "pubbliche
virtù" e i nascosti "vizi privati". La virtù come sacrificio del
singolo cittadino a vantaggio della patria di tutti, è anche nella concezione
politica di Montesquieu che riporta questo comportamento civile ai regimi
repubblicani mentre in quelli monarchici prevale l'orgoglio e in quelli dispotici
la paura. Anthony Ashley Cooper, III conte di Shaftesbury Nell'etica
inglese la virtù è intesa, in opposizione alle dottrine
sull'"egoismo" di Thomas Hobbes, come atteggiamento impulsivo
naturale determinato dal sentimento morale della benevolenza (Shaftesbury e
Francis Hutcheson) che spinge l'uomo a operare senza badare alla riprovazione
morale dell'opinione pubblica, al terrore di una punizione futura o
all'intervento delle autorità, istituite come incentivi alla bontà. L'azione
virtuosa dell'uomo è invece ispirata dalla voce della coscienza e dall'amore di
Dio. Solo questi due fattori spingono l'uomo verso la perfetta armonia, per il
suo stesso bene e per quello dell'universo. Lo stesso istinto alla virtù
secondo David Hume e Adam Smith è quello della simpatia. Le nostre sensazioni
nelle relazioni con gli altri (e le azioni sono valutabili moralmente in
rapporto ad altri uomini), non possono essere ridotte a una dimensione
esclusivamente egoistica: ciò che noi proviamo è condizionato sempre da ciò che
provano gli altri in conseguenza delle nostre azioni.» (David Hume,
Trattato sulla natura umana, Libro terzo, Parte terza, sez. prima-terza) «Per
scoprire la vera origine della morale, e quella dell'amore e dell'odio che
deriva dalle qualità morali, dobbiamo considerare nuovamente la natura e la
forza della simpatia. Gli animi degli uomini sono simili nei loro sentimenti o
nelle loro operazioni, né esiste un sentimento che si produca in una persona di
cui non partecipino, in qualche grado, tutte le altre. Questa disposizione
naturale e spontanea dell'uomo all'esercizio della virtù troverà espressione
nel deismo e in seguito costituirà il nucleo della teoria romantica
dell'"anima bella" di Schiller. La virtù come sforzo. Kant Una
ripresa della concezione della virtù come repressione delle passioni umane è
nella filosofia morale di Kant che distingue una "dottrina della
virtù" dalla "dottrina del diritto". Nel diritto l'uomo si
sottomette alla legge per rispettarne la formalità esteriore senza considerare
il motivo della sua azione ma solo perché così prescrive la norma, mentre nella
morale ci si vuole comportare secondo il dettato morale indipendentemente da
qualsiasi motivo e conseguenza della propria azione: si realizza così la virtù
come soggezione della volontà all'"imperativo categorico". La
vetta, opera simbolista di Cesare Saccaggi, che esprime i concetti romantici di
Streben («sforzo») e Sehnuct («struggimento»), ossia l'anelito dell'uomo verso
un ideale che si rivela sempre più arduo ed elevato. L'imperativo categorico,
ossia la virtù, implica che l'uomo debba compiere uno sforzo (Streben),
combattendo le inclinazioni sensibili e le passioni, nel conformare la sua
volontà a ciò che l'imperativo comanda, mentre pensare che questo possa
avvenire spontaneamente significa confondere la debolezza umana con ciò che è
proprio della santità che appartiene solo a Dio che non ha nessun dovere nei confronti
della legge morale. Ciò che prescrive la morale è identico sia per gli uomini
sia per la divinità, ma questa, poiché non ha niente che possa ostacolarla
nell'osservanza della legge morale, non ha neppure virtù. Questa visione della
virtù assimilerebbe il pensiero kantiano allo stoicismo che Kant invece rifiuta
laddove questo connette all'esercizio della virtù la felicità. Certo l'uomo
nella sua costituzione sensibile ha bisogno della felicità ma nulla garantisce
che egli possa raggiungerla. Un'esigenza di giustizia vuole poi che l'uomo
abbia una felicità bilanciata al suo comportamento virtuoso ma poiché questo
non accadrà mai nel nostro mondo terreno, egli allora postulerà l'esistenza di
un'anima immortale a cui un Dio giusto assicuri la giusta felicità.
L'etica kantiana, tradotta da Fichte e Schelling nella tensione verso un ideale
infinito a cui l'Io cerca progressivamente di conformare il non-io, pur non
raggiungendolo mai definitivamente, sarà invece messa in discussione da Hegel,
il quale vi vedrà l'espressione di un tipico soggettivismo delle "virtù
private" contrapposto a quella "eticità" antica, ancora valida
nel suo tempo, da apprezzare perché rivolta alla collettività dove si realizza
il bene tramite la famiglia, la società civile e lo Stato.[Le virtù secondo il
BuddhismoModifica Il Buddhismo sostiene la conciliabilità tra saggezza e virtù
come un desiderabile obiettivo per l'uomo buono che ci ricorda l'antica
concezione socraticaispirata a quell'intellettualismo etico secondo cui il
l'uomo fa il male perché ignora cosa sia il bene. Le virtù nel Buddhismo
sono il continuo applicare, come regole di autodisciplina nella vita quotidiana,
dei Tre rifugi o dei Cinque precetti che consistono nello 1. Astenersi
dall'uccidere o danneggiare qualunque creatura vivente 2. Astenersi dal
prendere ciò che non ci è stato dato 3. Astenersi da una condotta sessuale
irresponsabile 4. Astenersi da un linguaggio falso o offensivo 5. Astenersi
dall'assumere bevande alcoliche e droghe Vivendo in questo modo si incoraggiano
la disciplina e la sensibilità necessarie per chi voglia coltivare la
meditazione, che è il secondo aspetto del sentiero. La virtù nella
filosofia cinese La virtù (traduzione di "de" 德) è un concetto importante anche nelle filosofie cinesi come il
confucianesimo e il taoismo. Le virtù cinesi comprendono l'umanità, lo xiao
(solitamente tradotta come pietà filiale) e zhong (lealtà). Un valore
importante, contenuto nella gran parte del pensiero cinese, è che lo stato
sociale di ciascuno debba essere determinato dall'insieme delle sue virtù
manifeste, e non da un qualunque privilegio di nascita. Nei suoi Analecta,
Confucio parla della pratica che conduce alla perfetta virtù. Le virtù
confuciane si sviluppano in due rami: il ren e il li; il ren può essere
tradotto come benevolenza, amore disinteressato, e l'uomo la può raggiungere
praticando cinque virtù: magnanimità, rispetto, scrupolosità, gentilezza e
sincerità. Confucio afferma che queste virtù devono essere praticate verso il
li, che è la parte pratica della virtù confuciana. Il li consiste in cinque
canali relazionali: marito/moglie, genitore/figlio, amico/amico,
giovane/anziano, suddito/sovrano. Romanus Cessario, Le virtù, Editoriale
Jaca, Ancient Ethical Theory (Stanford Encyclopedia of Philosophy) Ferroni,
Machiavelli, o Dell'incertezza: la politica come arte del rimedio, Donzelli
Editore, Platone, Repubblica o sulla giustizia. Testo greco a fronte, a cura di
Vitali, Feltrinelli Editore, Aristotele, Etica Nicomachea, Aristotele, Etica
Nicomachea, Kambouchner, L'Hommes des passions. Commentaires sur Descartes,
Paris, Albin Michel 1995 ^ Remo Bodei, Geometria delle passioni. Paura,
speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli Editore, Eth. V,
prop. 41 Eth. IV, prop. 18 ^ San Gregorio di Nissa, De beatitudinibus, oratio
1: Gregorii Nysseni opera, ed. W. Jaeger (Leiden L'elenco è dedotto dalla prima
lettera di Paolo ai Tessalonicesi: «Rivestiti della corazza della fede e della
carità avendo come elmo la speranza» (1Ts 5,8) Kostko, Beatitudine e vita
cristiana nella Summa theologiae di S. Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio
Domenicano, I vizi capitali considerati come gli opposti delle virtù nella
concezione cristiana sono superbia, avarizia, lussuria, gola, ira, invidia e
accidia (in Domenico Galvano, Catechismo della diocesi di Nizza1) Mondin, Etica
e politica, Edizioni Studio Domenicano, Mandeville, La favola delle api ^
L'espressione si ritrova nell'operetta di Bernard de Mandeville pubblicata
anonima con il titolo The Grumbling Hive, or Knaves Turn'd Honest (Ronzio di
arnie, o Furfanti divenuti onesti), ristampata con l'aggiunta del sottotitolo
Vizi privati e pubbliche virtù e infine con il titolo Fable of the Bees: or,
Private Vices, Publick Benefits (La favola delle api: ovvero vizi privati,
pubbliche virtù) Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, Kant,
Metafisica dei costumi Galli e Aa.Vv., Saccaggi: un poliedrico pittore
internazionale su gabbantichita.com, Studio d'Arte e Restauro Gabbantichità.
Nell'opera, intitolata anche La regina dei ghiacci, l'atteggiamento passionale
e implorante dell'uomo si contrappone alla gelida irraggiungibilità della
donna, allegoria della Montagna-Natura. Fausto Fraisopi, Adamo sulla sponda del
Rubicone: analogia e dimensione speculativa in Kant, Armando Editore, Pasquale
Fernando Giuliani Mazzei, Kant e Hegel: un confronto critico, Guida; Hua,
Buddhismo: Une breve introduzione, Dharma Realm Buddhist Association, Pavolini,
Buddismo, Hoepli, Chiesa Cattolica,
Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, New Catholic
Encyclopedia, Catholic University of America, Natoli, Dizionario dei vizi e
delle virtù, Feltrinelli UE Scheler, Per la riabilitazione della virtù. Aquino,
Le virtù. Quaestiones de virtutibus, I e V, Testo latino a fronte, Milano,
Bompiani, Paideia Bushidō Moralità Etica
Bontà Teoria dei valori Giustizia sociale Pietà (teologia) Sette peccati
capitali Virtù cardinali Virtù teologali Timè. «virtù» virtù, in Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Virtù / Virtù
(altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
Virtù, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata
The Four Virtues, su thefourvirtues.com. The Virtues Project, su metamind. Virtue
Science.com. Portale Filosofia Portale Religione. Etica ramo della filosofia Etica
Nicomachea opera di Aristotele Virtù dianoetiche ed etiche Wikipedia Il
contenutoGirolamo Cotroneo. Cotroneo. Keywords: VIRTÙ, retorica, retorica di Aristotele, retorica nuova, retorica
moderna, Perelman, rareta e storia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cotroneo” –
The Swimming-Pool Library. Cottroneo.
Cotta:
l’accademia a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He appears as a character
in De natura deorum by Cicerone. There he presents the points of view of the
Accademia. However, he spends some time in exile and almost certainly studies
the doctrine of the Porch and that of the Garden as well. Gaio Aurelio Cotta.
Cotta.
Grice e Cotta: l’implicatura
conversazionale nella storia del diritto romano -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Firenze).
Filosofo italiano. Grice: “My favourite explorations by Cotta are three: ‘per
che violenza?” – “dalla guerra alla pace: un itinerario filosofico” and a
secondary-literature study on ‘i concordati’ --- which is MY philosophy. You
see, Plato thought that the soul resided in the brain – cool as he was – but
Aristotle corrected him: it resides in the HEART – Cicero loved that and coined
‘cum-cor’ – i.e. something like my cum-operare: your hearts convene!” -- Grice:
“I would say Cotta is Italy’s H. L. A. Hart, with a bonus – he wrote on
essentialism, deontic logic, and from war to peace!” Figlio di Alberto, studioso di scienze
forestali, e Maria Nicolis di Robilant. Da parte di madre è discendente diretto
di Eulero. Studia a Firenze presso l'istituto dei barnabiti La Querce. Si
laurea a Firenze. Chiamato alle armi con il grado di sottotenente, il giorno
dell'annuncio dell'armistizio, è in Friuli. Scioltosi l'esercito, scende in
barca lungo l'Adriatico per raggiungere l'Italia non ancora occupata dai
tedeschi. Ammalatosi di malaria, dopo svariate traversie decide di raggiungere
il Piemonte, dove partecipa alla guerra di resistenza come comandante di una
brigata partigiana nella VII Divisione Autonoma "Monferrato". È tra i
primi ad entrare a Torino nei giorni della liberazione. Per la sua
partecipazione alla guerra partigiana gli vengono attribuite la Medaglia di
bronzo al valor militare e la Croce di guerra. Dopo gli studi sul pensiero
politico dell'Illuminismo i suoi interessi si sono incentrati sulla filosofia
giusnaturalistica, che è stato in grado di fondere con elementi della
fenomenologia. Autore di saggi sulla visione politica di Montesquieu,
Filangieri, Aquino ed Agostino, dedicandosi in seguito a riflessioni teoriche
sul diritto e sulla politica. Insegna a Torino, Perugia, Trieste, Trento,
Firenze, Roma, e Teramo. Fu tra i componenti del comitato promotore del
referendum abrogativo della legge sul divorzio. Altre opere: “La società; “Il
concetto di ‘legge’ in Filangieri” (Torino, Giappichelli); “Il concetto di ‘legge’
in Aquino” (Torino, Giappichelli). “Il concetto di Roma come città in
Agostino”; “Filosofia e politica nell'opera di Rousseau”; “La sfida
tecnologica”; “L'uomo tolemaico” – la ferita narcissista di Galileo – “Quale
Resistenza?, Perché la violenza; “Il normato: tra il giurato e l’obbligato”; “Il
diritto nell'esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica”; “Dalla guerra
alla pace”; “l’uomo, la persona, il diritto umano”; “Il pensiero politico di Montesquieu,
Bari, Laterza); “L’inter-soggetivo giurato”; “I limiti della politica, “Il
sistema di valori e il diritto”; Perché il diritto Quid ius?” (Brescia, La
Scuola). Stante la concessione chirografata dall'ex re Umberto II, C. puo
fregiarsi del titulo nobiliare di “conte”, sia pure del tutto informalmente
stante l'instaurazione dell'ordinamento repubblicano e la XIV disposizione
finale e transitoria della Costituzione. Diritto
romano ordinamento giuridico della civiltà romana Lingua Segui Modifica Con
diritto romano si indica l'insieme delle norme che hanno costituito
l'ordinamento giuridico romano per circa tredici secoli, dalla data convenzionale
della Fondazione di Roma fino alla fine dell'Impero di Giustiniano (565 d.C.).
Infatti, tre anni dopo la morte di Giustiniano l'Italia fu invasa dai
Longobardi: l'impero d'Occidente si dissolse definitivamente e Bisanzio,
formalmente imperiale e romana, si allontanò sempre più dall'eredità
dell'antica Roma e della sua civiltà (anche giuridica). Il Corpus Iuris
Civilis in una stampa, che raggruppava l'insieme di tutte le leggi romane
contemporanee e precedenti alla sua compilazione, avvenuta sotto Giustiniano I
«Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique
tribuere. Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non
danneggiare nessuno, dare a ciascuno il suo.» (Eneo Domizio Ulpiano Libro
secondo delle Regole dal Digesto 1.1.10 principio [1]) L'importanza storica del
diritto romano si riflette ancora oggi in una lista di termini legali latini.
Infatti, dopo la dissoluzione dell'Impero romano d'Occidente, il Codice
giustinianeo rimase in effetti nell'Impero romano d'Oriente, conosciuto come
Impero bizantino. Il linguaggio legale in Oriente fu il greco. Il diritto
romano definisce un sistema legale applicato nella maggior parte dell'Europa
occidentale fino alla fine del XVIII secolo. In Germania, il diritto romano
venne utilizzato più a lungo sotto il Sacro Romano Impero. Il diritto romano
servì inoltre come base per la pratica legale attraverso l'Europa occidentale
continentale, così come nella maggior parte delle colonie delle nazioni
europee, inclusa l'America latina e pure l'Etiopia. Il sistema inglese e nord
americano della common law venne influenzato anche dal diritto romano, in
particolare nel loro glossario giuridico latineggiante. Anche la parte
orientale dell'Europa venne influenzata dalla giurisprudenza del Corpus Iuris
Civilis, specialmente nei paesi come la Romania medievale che creò un nuovo
sistema, un mix del diritto romano e locale. L'Europa orientale fu inoltre
influenzata dal diritto medievale bizantino. Il diritto romano viene
diviso approssimativamente in tre o cinque differenti stadi evolutivi. Dalla
fondazione di Roma alle leggi delle XII Tavole. Magnifying glass icon mgx2.svg Storia del
diritto romano, Ius Quiritium e Mos maiorum. La prima fase, detta del diritto
arcaico o quiritario, comprende il periodo che ha inizio con la fondazione di
Roma e giunge alle Leggi delle XII tavole. In questo periodo, il diritto
privato, compreso il diritto civile romano era applicato solo ai cittadini
romani, ed era legato alla religione. Si trattava di una forma giuridica non
sviluppata, quindi non contenente gli attributi di formalismo rigoroso,
simbolismo e conservatorismo. Il giurista Sesto Pomponio disse:
"All'inizio della nostra città, le persone iniziarono le loro prime
attività senza alcun diritto scritto, e senza alcuna regola fissa: tutte le
cose erano governate dispoticamente dai re". Si ritiene che il diritto
romano sia radicato nella mitologia etrusca, con un'enfatizzazione dei rituali.
Diritto repubblicano fino alla seconda guerra punica. Magnifying glass icon
mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Leggi delle XII tavole, Leges
Liciniae Sextiae, Lex Canuleia, Lex Hortensia e Lex Aquilia. L'inizio del
secondo periodo coincide con il primo testo di diritto: le leggi delle XII
tavole. Il tribuno della plebe, Gaio Terentillo Arsa, propose che le leggi
fossero scritte, per evitare che i magistrati potessero applicarle in modo
arbitrario.Dopo otto anni di scontri politici, i plebei riuscirono a convincere
i patrizia inviare un'ambasceria ad Atene, per copiare le leggi di Solone; essi
inviarono poi altre delegazioni ad altre città greche per ottenerne il
consenso. Secondo quanto ci racconta Livio, furono scelti dieci cittadini
romani per mettere per iscritto le leggi. Mentre stavano eseguendo questo
lavoro, gli vennero attribuiti poteri politici supremi, detti imperium, mentre
il potere dei normali magistrativenne ridotto. I decemviri produssero le leggi
su dieci tavole, dette tabulae, ma lasciarono insoddisfatti i plebei. Un nuovo
decemvirato, si racconta, aggiunse due ulteriori tavole. La nuova legge delle XII
tavole venne ora approvata dall'assemblea popolare. Gli studiosi moderni
tendono a non dar credito alla precisione degli storici romani. Non credono in
genere che un secondo decemvirato abbia mai avuto luogo. Il decemvirato si
ritiene abbia incluso i punti più controversi del diritto consuetudinario, e di
aver assunto le funzioni principali a Roma. Inoltre, la questione sulla
influenza greca trovata nel diritto romano arcaico è ancora molto discussa.
Molti studiosi ritengono improbabile che i patrizi abbiano inviato una
delegazione ufficiale in Grecia, come gli storici romani credevano. Invece, gli
studiosi suggeriscono che i Romani abbiano acquisito leggi dalle città greche
della Magna Grecia, serbatoio principale dal mondo romano a quello greco. Il
testo originale delle XII tavole non si è conservato, anche perché furono
distrutte durante il sacco di Roma da parte dei Galli. I frammenti
sopravvissuti mostrano che non si trattava di un codice del diritto in senso
moderno. Non forniva infatti un sistema completo e coerente di tutte le norme
applicabili o nel dare soluzioni giuridiche per tutti i casi possibili.
Piuttosto, le tabelle contenevano disposizioni specifiche volte a modificare
l'allora esistente diritto consuetudinario, anche se le disposizioni erano
valide per tutti i settori del diritto, dove la parte più ampia era dedicata al
diritto privato e alla procedura civile. In seguito le leggi delle dodici
tavole vennero integrate da una serie di nuove leggi come: la Lex
Canuleia, che ammetteva il matrimonio (ius connubii) tra patrizi e plebei; le
Leges Licinae Sextiae che prevedevano restrizioni sui terreni pubblici (ager
publicus), dove almeno uno dei due consoli doveva essere plebeo; la Lex Ogulnia
dove i plebei ottennero l'accesso alle cariche sacerdotali; la Lex Hortensia
dove i verdetti delle assemblee plebee (plebiscita) ora riguardavano tutte le
persone; la Lex Aquilia, che poteva essere considerata come la fonte del
moderno diritto civile. Tuttavia, il contributo più importante di Roma alla cultura
giuridica europea non fu la promulgazione di leggi ben elaborate, ma l'emergere
di una classe di professionisti giuristi e della giurisprudenza. Questo venne
realizzato applicando in modo graduale e con metodo scientifico la filosofia al
soggetto del diritto, tema che i greci stessi mai trattarono come una
scienza. Tradizionalmente, le origini della giurisprudenza romana sono
collegate a Gneo Flavio, il quale sembra abbia pubblicato una serie di
"modi di dire" contenenti il linguaggio giuridico da utilizzare in
tribunale per intraprendere un'azione legale. Prima di Flavio, queste formule
sembra fossero segrete e note solo ai sacerdoti. La loro pubblicazione rese
così possibile, anche per chi non ricopriva cariche sacerdotali, di esplorare
il significato di questi testi di legge. Il periodo che successe dopo la
fine della seconda guerra punica fino all'avvento del principato, corrisponde
storicamente al periodo del diritto chiamato pre-classico. Questo periodo
coincise con una produzione da parte dei giuristi di un grande numero di
trattati, soprattutto a partire dal II secolo a.C. Tra i più famosi giuristi
del periodo repubblicano si ricordano, Quinto Mucio Scevolaautore di un
voluminoso trattato su tutti gli aspetti del diritto romano, che ebbe grande influenza
nelle epoche successive, e Servio Sulpicio Rufo, amico di Marco Tullio
Cicerone. E benché Roma avesse sviluppato un sistema del diritto molto evoluto,
oltre a una raffinata cultura legale, la Repubblica romanavenne rimpiazzata dal
principato. In questo periodo possiamo notare lo sviluppo di leggi più
flessibili per soddisfare le esigenze del momento. In aggiunta al vecchio e
formale ius civile venne creata una nuova classe giuridica: lo ius honorarium,
che può essere definita come "la legge introdotta dai magistrati che
avevano il diritto di promulgare editti al fine di sostenere, integrare o
correggere la giurisprudenza esistente. Con questa nuova legge il vecchio
formalismo venne abbandonato per i più flessibili principi dello ius
gentium. L'adattamento del diritto alle nuove esigenze fu dedicata alla
pratica giuridica dei magistrati, e soprattutto riguardante i pretori. Un
pretore non era un legislatore e non poteva tecnicamente creare una nuova legge
quando emetteva i suoi editti. I risultati delle sue sentenze godevano di
tutela giuridica[19] ed erano in effetti spesso fonte di nuove norme
giuridiche. Il successore del precedente pretore non era vincolato dalle
disposizioni del suo predecessore; comunque doveva rifarsi alle norme contenute
negli editti del suo predecessore che si dimostrassero utili. In questo modo si
generò un modo costante di operare da un punto di vista giuridico, editto per
editto. Così, nel corso del tempo, parallelamente al diritto civile, che andava
integrandosi e correggendosi, emerse un nuovo corpo di leggi pretorie. In
realtà, la legge pretoria venne così definita dal celebre giurista romano
Papiniano. Ius praetorium est quod praetores introduxerunt adiuvandi vel
supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam. Il
diritto pretorio è una legge introdotta da pretori per integrare o correggere
il diritto civile per il bene pubblico.» Alla fine, il diritto civile e
il diritto pretorio si fusero nel Corpus Iuris Civilis. I primi
duecentocinquant'anni da Augusto, fino alla morte dell'imperatore Alessandro
Severo corrispondono al cosiddetto "periodo classico". Questo momento
storico rappresentò per il diritto e la giurisprudenza romana il momento più
elevato dell'intera storia romana. I successi letterari e le pratiche dei
giuristi di questo periodo hanno dato una forma unica al diritto romano.
I giuristi lavorarono in diverse direzioni, dando pareri legali: su richiesta
delle parti private; ai magistrati a cui era affidata l'amministrazione della
giustizia, soprattutto i pretori; nella redazione degli editti dei pretori,
quando veniva annunciato pubblicamente l'inizio del loro mandato, su come
avrebbero gestito le loro funzioni, oltre alle formule, in base alle quali
vennero condotti procedimenti specifici. Alcuni giuristi vennero incaricati di
occuparsi di prestigiosi uffici giudiziari e amministrativi. I giuristi
produssero, inoltre, tutta una serie di commentari legali e trattati. Attorno
al 130 il giurista Salvio Giuliano redasse un modello standard di come doveva
essere redatto un editto di un pretore, che poi venne utilizzato da tutti i
pretori da quel momento in poi. Questo editto conteneva dettagliate descrizioni
di tutti i casi, nei quali il pretore avrebbe potuto compiere un'azione legale
e una difesa. L'editto standard funzionava come un codice di legge completa,
anche se formalmente non aveva forza di legge. Esso indicava i requisiti
giuridici per un'azione legale di successo. L'editto divenne pertanto la base
per numerosi commentari giuridici da parte dei giuristi classici di epoca tarda
come, Giulio Paolo e Eneo Domizio Ulpiano. I nuovi concetti e istituti
giuridici elaborati dai giuristi di epoca pre-classica e classica sono troppo
numerosi da menzionare qui. Seguono quindi alcuni esempi: i giuristi
romani separarono chiaramente l'utilizzo di una cosa (proprietà) nel diritto
legale, dalla possibilità di utilizzare e manipolare la cosa (possesso).
Elaborarono anche la distinzione tra contratto e colpa come fonti delle
obbligazioni legali. I contratti standard (di vendita, di lavoro, locazione,
appalto di servizi) furono regolati nei più importanti codici continentali e le
caratteristiche di ciascuno di questi contratti furono sviluppate nella
giurisprudenza romana. Il giurista classico Gaio creò un sistema di diritto
privato basato sulla divisione materiale di personae (persone), res (cose) e
actiones (azioni legali). Questo sistema fu usato per molti secoli successivi:
basterebbe ricordare i Commentaries on the Laws of England di William
Blackstone, gli atti francesi del Codice Napoleonicooppure il codice civile
tedesco (Bürgerliches Gesetzbuch). L'ultimo periodo è quello denominato
post-classico, iniziato con la morte di Alessandro Severo e segnò la fine del principato, dilaniato
dalle guerre civiliper la porpora imperiale e dalle continue invasioni dei barbari
del nord e delle armate persiane. Terminò, quindi, con il regno di Giustiniano.
In questo periodo le condizioni per il fiorire di una cultura giuridica
raffinata divennero meno favorevoli. La situazione politica ed economica
generale si era andata deteriorando, da quando gli imperatori romaniavevano
assunto un controllo più diretto di tutti gli aspetti della vita politica. Il
sistema politico del principato, che aveva mantenuto alcune caratteristiche
della costituzione repubblicana, cominciarono a trasformarsi nella monarchia
assolutadel dominato. L'esistenza di una giurisprudenza e di giuristi che
considerassero il diritto come una scienza, non come mero strumento per
raggiungere gli obiettivi politici stabiliti dal monarca assoluto, non si
adattarono al nuovo ordine di cose. La produzione letteraria cessò quasi di
esistere. Pochi furono i giuristi conosciuti dopo la metà del III secolo.
Tuttavia, mentre la maggior parte della giurisprudenza del diritto classico
finì per essere ignorata e, infine, dimenticata in Occidente, in Oriente prese
piede una fondamentale attività di codificazione delle leggi classiche e della
giurisprudenza e di armonizzazione con le leggi successive, soprattutto grazie
all'opera di Giustiniano I, che avrebbe costituito la base del diritto
medievale. Eredità del diritto romanoModifica In OrienteModifica
Edizione del Digesta, parte del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano I. Quando
la centralità dell'Impero romano venne spostata a est della Grecia nel IV
secolo, apparvero nella legislazione ufficiale romana molti concetti legali di
origine greca. Questa influenza risulta visibile perfino nel diritto privato
inerente ai rapporti tra persone e alla famiglia, che tradizionalmente faceva
parte del diritto che subiva minori cambiamenti. Per esempio Costantino I
cominciò a porre delle restrizioni all'antico concetto romano di patria
potestas, il potere detenuto dal padre nei confronti della famiglia e dei suoi
discendenti, riconoscendo che le persone in potestate, i discendenti, potevano
avere diritti di proprietà. Egli apparentemente fece delle concessioni al
concetto molto più severo di autorità paterna del diritto greco-ellenistico. Il
Codex Theodosianus era una codificazione delle leggi di Costantino. Gli
imperatori successivi andarono perfino oltre, fino a quando Giustiniano I
decretò che un fanciullo in potestate potesse diventare proprietario di tutto
ciò che avesse acquistato, con esclusione di quanto veniva acquistato da suo
padre. L'opera giuridica di Giustiniano, particolarmente il Corpus Iuris
Civilis, continuò a costituire la base della pratica legale dell'Impero
bizantino. Leone III Isaurico emise un nuovo codice, denominato Ecloga. Gli
imperatori Basilio I il Macedone e Leone VI il Saggiocommissionarono la
traduzione in greco del Codice e del Digesto, parti del codice di Giustiniano,
conosciuta con il nome di Basilica. Il diritto romano preservato nel corpus
legislativo di Giustiniano e nella Basilicarimasero la base della
giurisprudenza greca e nelle corti della Chiesa ortodossa perfino dopo la fine
dell'Impero bizantino e la conquista dei Turchi, formando così la base per gran
parte del Fetha Negest, che rimase in essere in Etiopia. Reintroduzione in
OccidenteModifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in
dettaglio: Regni romano-barbarici, Diritto barbarico e Diritto medievale. In
seguito alle invasioni barbariche, come fonte principale del diritto, il
diritto romano scomparve in gran parte dell'Europa occidentale. L’imperatore
d'Oriente Giustiniano I promulgò il Corpus iuris civilis che in futuro sarebbe
diventato la base per la reintroduzione del Diritto romano nell'Occidente. Nel
Corpus, Giustiniano fece confluire tutte le antiche leggi di Roma cercando di
armonizzarle con le nuove che nel frattempo erano state promulgate. Il Codice
di Giustiniano fu applicato nei territori italiani sottoposti all'autorità di
Bisanzio, ma le seguenti invasioni barbariche le cancellarono dall'Occidente,
riducendo il diritto romano a mero diritto comune. In seguito, l'insistenza
degli imperatori romano-germanici di proclamarsi diretti successori dell'Impero
romano, in particolare della Dinastia ottoniana di Sassonia favorì, anche
grazie alle università, la reintroduzione del Diritto romano in Occidente,
andando a rimpiazzare le tradizioni giuridiche degli invasori germanici. Nel
Regno di Sicilia il diritto romano fu reintrodotto per volontà dell'imperatore
Federico II con le due assise di Capua e Messina. Il diritto romano venne
riscoperto e dominò la pratica legale di molti paesi europei. Un sistema
giuridico, in cui il diritto romano venne mescolato con elementi di Diritto
canonico e di costume germanico, soprattutto con il diritto feudale, divenne
comune in tutta l'Europa continentale e conosciuto come lo ius commune, termine
che viene indicato nei sistemi giuridici anglosassoni come civil law.
Diritto romano e tutela dei monumentiModifica La protezione delle opere
pubbliche e delle principali opere d'arte come anche, più in generale,
dell'intera consistenza cittadina era disciplinata da un insieme organico di
statuti, leggi, costituzioni e provvedimenti risalenti già alla prima età
repubblicana. Nell'epoca classica si creò una nuova serie di cariche pubbliche
che sovrintesero alla tutela di settori sempre più specifici, regolando e
inserendo in un sistema altamente efficiente una realtà in precedenza già
presente, seppur in forma embrionale, anche nel mondo greco. Le tracce di
come un tanto imponente sistema si sia trasmesso sino ai giorni nostri,
influenzando la nascita delle prime moderne forme di protezione dei monumenti
pubblici, sono fin troppo evidenti. Si pensi, per esempio, all'istituzione dei
magistri aedificiorum et stratarum voluti, nella Roma del Quattrocento, da papa
Martino V. Diritto romano oggiModifica Oggi, il diritto romano non è più
applicato nella giurisprudenza moderna, anche se negli ordinamenti giuridici di
alcuni Stati come il Sudafrica e San Marinoalcune parti si basano ancora sullo
ius commune. Tuttavia, anche se la giurisprudenza si basa su un codice, si
applicano molte regole derivanti dal diritto romano: nessun codice ha
completamente rotto i collegamenti con la tradizione romana. Piuttosto, le
disposizioni del diritto romano sono state create su misura in un sistema più
coerente, espresso nella lingua nazionale di molti Stati. Per questa ragione,
la conoscenza del diritto romano è indispensabile per capire i sistemi
giuridici contemporanei. Il diritto romano risulta spesso un argomento
obbligatorio per gli studenti di legge nelle varie giurisdizioni di diritto
civile. Come passo fondamentale verso l'unificazione del diritto privato
negli Stati membri dell'Unione europea, viene così adottato il vecchio Ius
Commune, che era la base comune della pratica legale in tutto il mondo,
permettendo poi molte varianti locali, ed è sentito da molti come un modello
basilare. Divisioni interne al diritto romanoModifica Il diritto romano
si suddivide in: ius Quiritium (deriva da "Quirites", sinonimo
di "Romani"), costituito da un insieme di consuetudini ancestrali,
non scritte, talmente remote che i Romani stessi non ne conoscevano l'origine.
Riguardava gli ambiti di diritto di famiglia, matrimonio, patria potestas e
proprietà privata, e non comprendeva le obbligazioni, che in età arcaica non
esistevano. Costituisce il nucleo più arcaico del ius civile. ius civile, era
l'insieme delle norme che regolano i rapporti tra i cives romani, considerato
nell'ottica romana come orgogliosa prerogativa dei cittadini di Roma. Di esso
il giurista romano Papiniano dà la seguente definizione tramandataci dal
Digesto giustinianeo: Ius autem civile est quod ex legibus, plebis scitis,
senatus consultis, decretis principum, auctoritate prudentium venit. Il ius
civile è il diritto che promana dalle leggi, dai plebisciti, dai
senatoconsulti, dai decreti degli imperatori e dai responsi dei
giurisperiti.» (Digesto) ius gentium, l'insieme di tutti gli istituti che
trovano tutela, oltre che nell'ordinamento statuale romano, anche presso altri
popoli. ius naturale, la lezione stoica proficuamente accolta da Cicerone, si
trasfuse nella coscienza giuridica romana. I giureconsulti, però, non essendo
filosofi, ne trassero scarsi e rozzi ammaestramenti, interpretando la natura come
atavico istinto comune anche agli esseri irrazionali. Ciò accadde
specificamente nella definizione che ne diede Ulpiano, allorché stabilisce che
"Il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli
esseri animati. [Da esso] derivano l'unione del maschio e della femmina, che
noi chiamiamo matrimonio, la procreazione e l'allevamento dei figli. Vediamo
infatti che anche gli altri animali, perfino quelli selvaggi, conoscono e
praticano questo diritto. Questo passo di Ulpiano sarà inserito nel Digesto
giustinianeo (D.) e insieme con l'intero Corpus iuris civilis costituirà
oggetto di studio per le scuole giuridiche medievali. Gaio propende per una
bipartizione del diritto, cioè che il diritto si divida in ius civile,
creazione artificiale della civitas, e in ius gentium o ius naturale, diritto
comune ai popoli e che trova la sua ragion d'essere nella naturalis ratio, cioè
in una ragione naturale, dunque ritenuto anche eticamente migliore poiché
ispirato dalla natura: in questa visione la schiavitù è considerata come una
situazione naturale già predisposta dalla stessa natura; Ulpiano propende per
una tripartizione del diritto; come Gaio, pensa che lo ius civile sia creazione
artificiale, ma va oltre affermando che il ius gentium riguarda un regolamento
per i soli uomini, mentre lo ius naturale sarebbe quello di tutte le creature
viventi: in questo caso la condizione di schiavo viene vista come una
condizione predisposta dal diritto e non riconducibile alla condizione naturale
dell'uomo. ius honorarium (o ius praetorium), che riguarda le situazioni di
diritto o di fatto che, pur non trovando tutela nelle norme dello ius civile,
sono state regolamentate dall'attività giurisdizionale dei magistrati dotati di
iurisdictio. Lo stesso Papiniano, nel medesimo brano in cui definisce il ius
civile, racchiude il concetto di ius honorarium, che egli chiama ius praetorium,
nelle seguenti parole. Ius praetorium est quod praetores introduxerunt
adiuvandi vel supplendi vel corrigendi gratia propter utilitatem publicam; quod
et honorarium dicitur ab honore praetorum. Il ius pretorium è il diritto
introdotto dai praetores al fine di aiutare, aggiungere, emendare lo ius
civileper la pubblica utilità; ciò che viene anche chiamato
honorariumdall'onore dei pretori.» Ius legitimum, il cui nome deriva da
lex è il diritto prodotto in sede assembleare attraverso la votazione e approvazione
di una legge comiziale; lo ius legitimum ha particolare vita in età
repubblicana e fiorisce particolarmente con Augusto per poi scomparire dopo la
sua morte e la trasformazione dello Stato in impero; con il venir meno delle
assemblee a favore del duopolio Senato-imperatore e del successivo monopolio
imperiale del potere la lex perde il suo carattere di comizialità e viene a
identificarsi con la definizione di norme da parte dell'imperatore stesso,
nella forma della "costituzione imperiale". Da questo momento lo ius
legitimum si estingue, confluendo nello ius civile. Durante la repubblica le
principali assemblee produttrici di ius legitimum erano i comitia centuriata e
i concilia plebis, in minore parte le altre assemblee. Eneo Domizio Ulpiano,
Digesto1.1.10 principio. Ad esempio stare decisis, culpa in contrahendoo in
pacta sunt servanda. In Germania, Art.
311 BGB. Valacchia, Moldova e alcune
altre province medievali. Secondo Francisci (Sintesi storica del diritto
romano) la prima fase, denominata del diritto "primitivo", iniziava
con la fondazione di Roma e terminava con la fine della seconda guerra punica.
Biondi, Istituzioni di diritto romano, Ius civile Quiritium. ^ Come ad esempio
la pratica rituale della mancipatio, una forma di vendita. "Roman
Law", in Catholic Encyclopedia, Appleton Company, New York. Jenő Szmodis,
The Reality of the Law — From the Etruscan Religion to the Postmodern Theories
of Law, Ed. Kairosz, Budapest, Olga Tellegen-Couperus, A Short History of Roman
Law, Livio, Ab Urbe condita libri. Decemviri legibus scribundis. ^ Pudentes,
sing. prudens, o jurisprudentes. Pietro De Francisci, Sintesi storica del
diritto romano. Invece Biondi lo accorpa in un unico periodo con il precedente
e lo chiama "repubblicano". Berger, Encyclopedic Dictionary of Roman
Law, in The American Philosophical Society. Magistratuum edicta. Actionem dare. Edictum traslatitium. Francisci, Sintesi
storica del diritto romano, Tellegen-Couperus & Tellegen-Couper, A Short
History of Roman Law. Ecloga | Byzantine law Britannica, su britannica. Cardini e
Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier Università/Storia. "È
questo il famoso Corpus iuris civilis, nel quale
Giustiniano dettò le sue nuove leggi preoccupandosi però di armonizzarle
coerentemente con quelle antiche. Tale monumento alla sapienza giuridica di
Roma sarebbe stato alla base della rinascita degli studi giuridici e delle
istituzioni politiche della stessa Europa; e costituisce ancora oggi il
fondamento sul quale si appoggiano i sistemi giuridici di gran parte dei paesi
del mondo. Cardini e Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier
Università/Storia, "La pretesa di questi re di atteggiarsi a imperatori
romani non fu priva di risultati anche importanti: essa fu ad esempio uno dei
motivi per cui, a partire dalla metà del XII secolo, il diritto romano rientrò
nell'Europa occidentale e -anche grazie al lavoro che fu allora espletato nelle
università- s'impose come nuovo diritto sostituendosi in tutto o in massima
parte alle precedenti tradizioni giuridiche ereditate dai germani delle
invasioni." Cardini e Marina Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le
Monnier Università/Storia, "Introdusse il diritto romano, fondò
l'Università di Napoli per disporre di un ceto di funzionari fedeli istruiti
all'interno dei confini (altrimenti i suoi sudditi avrebbero dovuto andare fino
a Bologna per studiare) e favorì lo "Studio" medico di Salerno."
^ Incluse tutte le proprietà private. ^ V. Campanelli, L'antefatto: leggi e
norme di tutela nel diritto romano, "‘ANAΓKH", I curatores viarum,
operum publicorum, rei publicae, statuarum, ecc. ^ Platone, nel VI capitolo
delle Leggi, cita un tipo particolare di magistrati chiamati astynomi,
storicamente documentati (cfr. Die Astynomenischrift, Atene) dediti alla cura e
alla riparazione dei luoghi pubblici. Con la bolla Etsi in cunctarum. Che per
gli Stoici era permeata dalla ragione divina. Fassò Fassò, p. 25, nota 5:
«Digesto, Fassò, p. 25. BibliografiaModifica Fonti primarie giuridiche La
ricostruzione dell'intero sistema di diritto romano è basata sul ritrovamento
di fonti giuridiche e storiche più o meno complete. Di seguito, un elenco
(certamente non esaustivo) delle principali fonti di produzione del diritto
romano che ci sono pervenute: Augusto, Res gestae divi Augusti (opera
divisa in sei tabulae). Marco Tullio Cicerone, De legibus, libri I-III
Wikisource-logo.svg. Codice Ermogeniano. Codice Teodosiano Imperatoris
Theodosiani Codex Wikisource-logo.svg; il contraltare alla codificazione
Giustinianea, in sedici libri densi di diritto e innovazioni strutturali, tra
cui il Liber Legum Novellarum Imperatoris Theodosi. Constitvtiones
Sirmondianae: raccolta di 16 costituzioni imperiali, che disciplinano materie
ecclesiastiche; presero il nome dal primo loro editore, il gesuita Sirmond.
Emanate non furono tutte accolte nel Codice teodosiano, in appendice al quale
vennero pubblicate da Mommsen. Corpus Inscriptionum Latinarum. Decretum
Gelasianum, fonte di diritto canonico, più che di diritto romano (da The Latin
Library); Editto di Costantino e Licinio logo.svg. Edictum Theodorici Regis:
l'Editto di Teodorico pubblicato nel 500, diviso in 154 articoli, era un codice
"territoriale", cioè conteneva disposizioni valide sia per i Romani
che per gli Ostrogoti. Ciascuno degli articoli era ricavato da un testo delle
leges o degli iura, soprattutto dai codices, dalle Sententiae di Paolo ecc. Vi
sono anche alcune norme nuove, di incerta origine (non si sa se di origine
ostrogota oppure derivate dalla pratica). Fontes Iuris Romani Anteiustiniani in
usum scholarum, divise in 7 libri (due sulle Leges, due sugli Auctores, e 3 sui
Negotia). Fragmenta Vaticana Fragmenta Vaticana, frammenti di un'ampia
compilazione privata di costituzioni imperiali e di passi desunti dalle opere
di Papiniano, Ulpiano e Paolo. Il palinsesto fu scoperto da Mai nella
Biblioteca Vaticana. Le costituzioni imperiali ivi riportate sono varie..
Giustiniano I, Corpus iuris civilis, composto da: Imperatoris Iustiniani
Institutiones, (versione latina) -logo.svg; opera didattica in 4 libri
destinata a coloro che studiavano il diritto; Domini Nostri Sacratissimi
Principis Iustiniani Iuris Enucleati Ex Omni Vetere Iure Collecti Digestorum
seu Pandectarum (o Pandectae), antologia in 50 libri di frammenti estrapolati
(non senza modifiche) dalle opere giuridiche dei più eminenti giuristi della
storia di Roma (testo latino); Domini Nostri Sacratissimi Principis Iustiniani
Codex, testo latino (raccolta di costituzioni imperiali da Adriano allo stesso
Giustiniano); Novellae Constitutiones - costituzioni emanate da Giustiniano
dopo la pubblicazione del Codex, fino alla sua morte. Istituzioni di Gaio (Gai
Institutionum). Leggi delle XII tavole (Duodecim Tabularum Leges). Lex Romana
Burgundionum, scritta all'inizio del VI secolo, è articolata in 47 titoli e la
si attribuisce a Gundobado, re dei Burgundi (Gallia Orientale). È destinata ai
soli sudditi romani del regno dei Burgundi. Sententiae Pauli: i cinque titoli
delle Sententiae receptae Pavlo tributae e i cinque libri delle Pavli
sententiarvm interpretatio. Senatus consultum de Bacchanalibus; Ulpiano, Titvli
ex corpore Ulpiani (opera piuttosto elementare, destinata soprattutto
all'insegnamento del diritto, contenuta in un manoscritto della Biblioteca
Vaticana. Secondo la dottrina prevalente, si tratta di una compilazione
post-classica, con molta probabilità dell'epoca di Diocleziano o Costantino di
passi rimaneggiati e rielaborati tratti da opere di Ulpiano). Storiografia
moderna Dario Annunziata, Temi e problemi della giurisprudenza severiana.
Annotazioni su Tertulliano e Menandro, Editoriale Scientifica, Napoli, Ruiz,
Storia del diritto romano, Jovene, Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Jovene,
Biondi, Istituzioni di diritto romano, Ed. Giuffré, Milano Burdese, Manuale di
Diritto Privato Romano, Utet giuridica, Burdese, Manuale di Diritto Pubblico
Romano, Utet giuridica, Costabile, Storia del diritto pubblico romano, Iriti,
Francisci, Sintesi storica del diritto romano, Roma Marzo, Istituzioni di
diritto romano, Giuffrè, Milano, Marzo, Manuale elementare di diritto romano,
Utet, Torino Marrone, Istituzioni di
diritto romano, Palumbo, Cesare Sanfilippo. Istituzioni di diritto romano,
Rubbettino, Schiavone, Ius: l'invenzione del diritto in Occidente, Torino,
Einaudi, 2 International roman law moot court Diritto latino romano, diritto,
su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana.Diritto romano, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera.
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Modifica su Wikidata Digitalizzazione completa del Corpus Iuris Civilis: Lion,
Hugues de la Porte, Corpus iuris civilis, su thelatinlibrary.com. The Roman Law
Library (Yves Lassard, Alexandr Koptev) Dizionario Storico del Diritto Romano
SimoneDiritto e Storia del Diritto Romano Otto Vervaart, Rechtshistorieː A
gateway to legal history - Roman Law, su rechtshistorie.nl. Fonti di diritto
romano, su ancientrome.ru. (in russo). Portale Antica Roma
Portale Diritto Portale Roma Portale Storia
Corpus iuris civilis raccolta di materiale giurisprudenziale, voluta
dall'imperatore d'Oriente Giustiniano I Digesto Compilazione di frammenti
derivanti da opere di giuristi romani voluta da Giustiniano I. Basilika. Il
conte Sergio Cotta. Keywords: l’inter-soggetivo, il giurato, il normato. La prima
ferita narcissista, Filangieri, giurato, l’uomo galileano, l’obbligato, il
normato, Latin ‘normare’ – not recognized in Dizionario etimologico – il
giurato d’entrambi – il concordato d’entrambi – fenomenologia – Roma citta –
polis, politea, res publica – pubblico e privato -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cotta” – The Swimming-Pool Library. Cotta.
Grice
e Crassicio: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Taranto). Filosofo italiano. He moves to Rome where he works as a teacher
before joining the school of Quinto Sestio. Crassicio Pasicle. Crassicio.
Grice
e Crasso – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. An orator and a politican. He takes a keen interest in philosophy and
at different times studies with Metodoro, Carmada, Clitomaco and Mnesarco. Lucio
Lucinio Crasso. Crasso.
Grice
e Cratippo: il lizio a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Lizio. Friend of Cicerone. Tutor of Orazio and Bruto. Marco
Tullio Cratippo. Crattipo.
Grice e Credaro: l’implicatura
conversazionale del discorso al senato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sondrio).
Filosofo italiano. Grice: “I like Credaro; it is as if he invented the
universities! I especially love the way he connects it all, in that uniquely
Italian way, with the ‘assoluto’!” Si
laurea a Pavia, dove fu convittore del Collegio Ghislieri, divenne insegnante
di liceo. Wi recò a Lipsia per perfezionarsi nella psicologia filosofica sotto
Wundt. Insegna a Pavia. Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d'Italia
nei governi Luzzatti e Giolitti IV --
istituì il Liceo moderno. Relatore nella presentazione della Legge che
istitutiva dei Corsi di perfezionamento, o più comunemente Scuole pedagogiche,
di durata biennale, di preparazione per l'esercizio all'ispettorato o per la
direzione didattica delle scuole. Fu l'ispiratore della legge Daneo-C., che
stabiliva che lo stipendio dei maestri delle scuole elementari fosse a carico
del bilancio dello Stato, e non più dei Comuni, contribuendo così in maniera
determinante all'eliminazione dell'analfabetismo in Italia. Prima di questa
legge, infatti, i comuni di campagna e quelli più poveri, specie nel Sud, non
erano in grado di istituire e mantenere scuole elementari e pertanto rendevano
di fatto inapplicata la legge Coppino sull'obbligo scolastico. Si interessa attivamente dei problemi agricoli
e forestali di Sondrio. Autore di numerosi saggi, in particolare sui Kant e Herbart. Commissario Generale Civile della Venezia
Tridentina, ossia la suprema autorità del Trentino-Alto Adige che sta per essere
fannesso all'Italia. In tale veste tentò una politica particolarmente
conciliante verso la minoranza di lingua tedesca e rispettosa dell'ordinamento
amministrativo de-centrato della regione. In seguito, anche a causa delle
pressioni dei nazionalisti, la sua politica nei confronti della minoranza di
lingua tedesca si fece più intransigente. Testimonianza ne è la cosiddetta Lex Corbino,elaborata
da Credaro, sull'istituzione di scuole elementari nelle nuove province che è
considerata da una parte della storiografia strumento per potenziare la
presenza italiana soprattutto nel territorio misti-lingue della regione a danno
della minoranza tedesca. Ciononostante, sube l'assalto di una squadra d'azione
fascista che lo costrinse alle dimissioni per far luogo all'insediamento di un
prefetto di Trento. Termina quindi la sua carriera politica in disparte
rispetto al regime che si andava consolidando. Altre opere: “Lo scetticismo
degli platonisti (Roma, Terme Diocleziane); La libertà di volere (Milano,
Bernardoni); Herbart, Torino, Paravia), “Razionalismo trascendente in Italia”
Catania, Battiato); Wundt (Milano, Società Anonima Editrice Dante Alighieri). Andrea
Di Michele, L’italianizzazione imperfetta. L’amministrazione pubblica dell’Alto
Adige tra Italia liberale e fascismo, Alessandria, Orso, Analfabetismo, Dizionario
biografico degli italiani, Cr. un italiano d'altri tempi articolo di Romano,
Corriere della Sera, Sondrio. Se il nome di Carneade non è completamente ignorato dalle
persone colte, che non si occupano di storia della filosofia, si deve alla parte
giuridica del suo pensiero, la cui conoscenza è tratta quasi interamente da
pochi frammenti della famosa orazione (quasi-Trasimaco) *contro* il concetto
dello giusto tenuta a Roma frammenti conservati da Lattanzio, il quale li ha
presi dal trattato della repubblica di CICERONE. Questa orazione alla Trasimaco
*contro* la coerenza del concetto dello giusto – gius – giustiziato, juratum,
giurato cf. Cicerone jusjuratum --, che fa epoca nella storia della cultura del
popolo romano, non deve essere considerata solamente un episodio della vita di
Carneade, una semplice millanteria del facondo oratore, che volesse fare impressione
sugli animi dei Romani; ma il suo contenuto deve venire integrato colle altre
vedute di Carneade per cercarne il legame ed esaminarne il valore. A tale fine
bisogna anche qui muovere dallo stoicismo. L'orazione *contro* lo giurato
(Cicerone – iusiuratum) giustiziato ha qualche rapporto con esso? Si sa che
tutti e tre i filosofi ambasciatori -- Carneade accademico, Diogene stoico e
Critolao peripatetico -- durante il lungo soggiorno a Roma, sia per invito
avuto dalla cittadinanza, che in quel tempo godeva la pice decorsa tra la
battaglia di Pidna e la terza guerra punica, sia di propria iniziativa, per
desiderio di far mostra di tutta la potenza della loro parola e della loro
scienza filosofica, a beneficio eziandio della causa che patrocinavano, aprirono
un corso di conferenze (GELLIO, Noct. Att.; MACROBIO, Saturn.). É probabile che
tutti e tre filosofi – Carneade accademico, Critolao peripatetico del liceo – e
Diogene stoico -- abbiano scelto l'argomento delle loro orazioni dalla
filosofia pratica, come quella che interessa vivamente i loro ospiti, tutti
dati alle armi, agli affari, alla politica, all'amministrazione; anzi e le cito
supporre che ciascuno abbia esposte le idee della sua scuola – l’accademia, il
lizio, e il portico -- intorno al “giurato” – Cicerone iusiuratum, il principio
o imperativo più importante della vita pubblica e privata. Il soggetto del
giurato – Cicerone, iusiuratum – dove soddisfare pienamente le esigenze e i desideri
dell'uditorio, poichè i romani, a ragione o a torto, si credeno gli uomini più
giusti (giuratura, iusiuraturus) e alla virtù del giurato (Cicerone iusiuratum)
attribuivano la grandezza, alla quale era pervenuta la propria patria. In
questa ipotesi lo stoico Diogene, con parola modesta e sobria, come attesta POLIBIO,
che ebbe opportunità di ascoltarlo, spiega ai Romani l'idealismo morale e il
cosmo-politismo della sua setta. L'anima di tutti gli uomini è uguale; e come
tutte le cose uguali si attraggono, cosi anche gli esseri razionali; per ciò
l'istinto della società è insito nella stessa ragione, la quale insegna a
ciascuno di noi che esiste una sola città, un solo stato, la grande società
umana; ciascuno si sente parte integrante di questo immenso organismo governato
da una sola legge (ius) e da un solo diritto, la retta ragione (ius). Questa
legge (ius) conforme alla natura si fa sentire in tutti, immutabile,
sempiterna, divina; invita col comando al dovere, col divieto allontana dalla
frode. È suprema, assoluta; non è lecito crearne altre contrarie, nè abrogarla
totalmente o parzialmente; non voto di popolo, non decreto di senato possono
dispensare dall'ubbidirla; nessuno ha bisogno d'interprete per comprenderla; è
la medesima in Atene e in Roma, oggi e domani e sempre; l'inventore e il
promulgatore di essa è uno solo, il maestro e il comandante di tutti, Dio. Chi
non vi obbedisce, va contro la natura e per questo fatto solo soffrirà tutte le
pene. L'uomo pensa e opera moralmente (mos: costume) solo in quanto conformasi
a questa unica legge; e poichè questa è la medesima in tutti gli uomini, tutti
debbono tendere allo stesso scopo, al bene universale. Il uomo non deve vivere
per sè, ma per l'umanità; l'interesse personale deve essere asso lutarnente
subordinato a quello umano Cic., de fin.; de rep.; Plut., de comm. notit.; Zeller).
In questo stato politico ed etico regna perfetta concordia ed armonia. Tutti i
cittadini hanno vivo il sentimento dell'ordine, coltivano la virtù e reprimono
gli appetiti irrazionali, che sono la causa dell’inimicizia e della guerra
(bellum, polemos). Sono sottomessi alla volontà divina, al fato, alla serie
universale e interminabile delle cause e degli effetti. I doveri fondamentali sono
il giurato (iusiuratum), in qua virtutis splendor est maximus, e la benevolenza
e la beneficenza.Questedue virtù sono le basi della società civile (CICERONE,
de fin.). Intorno ad esse Diogene puo parlare a lungo ai Romani, perchè nel Portico
e stato soggetto di molte dispute e di scritti. Il suo tutore Crisippo gli
aveva insegnato in proposito una dottrina propria. Tutti gli altri esseri sono
nati per il bene degli uomini e degli dei, due uomini per formare una
popolazione, una società, una comunanza, una communita, un comune; è inerente
alla natura che tra l'uomo e il genere umano, come tra parte e tutto, interceda
un diritto naturale. Colui che lo osserva è giusto (promuove il giurato –
iusiurato); ingiusto chi lo trasgredisce. Tra il diritto pubblico e quello
privato non avvi opposizione (CICERONE, de fin.). Un uomo non si trova in rapporti
giuridici con una bestia, ma solo con suo simile. Affinchè si realizzi il regno
del giurato (iusiuratum) e della moralità occorre che la perfetta ragione sia
presente in tutti. La ragione invece si trova solamente nel sapiente; si
formarono quindi gli stati singoli, che tengono divisa l'umanità. Come gli
stati, così le istituzioni che li governano sono effetto di errore e stoltezza:
quali l’istituzione del matrimonio, l’istituzione della famiglia, l’istituzione
della proprietà, l’istituzione dela moneta, l’istituzione del ribunale, l’istituzione
del ginnasio (Diog. L.). Stato conforme alla natura umana, con istituzioni
veramente buone, non esiste. Edotto di questo idealismo politico, puo sul
Campidoglio il pretore romano A. ALBINO, uomo erudito e versato nella lingua
greca, dire per ischerzo volgendosi a Carneade. “A te, Carneade, non sembra io
sia un pretore, nè questa una città, nè in essa abitino cittadini). A cui
Carneade, che subito capisce di essere stato preso per il collega del Portico.
“A questo del Portico non sembra cosi.” I filosofi ateniesi non lasciano di
contendere neppure in paese straniero; o certo Carneade e stato assai lieto di
osservare che al senso pratico dei romani la dottrina de' suoi avversari si
presenta come assolutamente *ridicola*; e tornato in patria, crede il fatto
degno di essere raccontato a' suoi discepoli (L'aneddoto è ricordato da
Clitomaco. CICERONE, Ac.). Sogliono gli storici narrarci che Carneade tenne a
Roma *due* discorsi ispirati a scopo opposto. Il primo giorno dimostra l'esistenza
del diritto naturale e loda la giustizia (il giurato – il iusiuratum – dike –
cf. lex). Il secondo giorno sostenne tutto il contrario; onde gridano
all'immoralità, all’audacia e alla sfacciataggine del filosofo, che non si
vergognò di difendere contraddizione si anorme. Anche non tenendo conto che, se
si applicasse questo criterio, tutta la filosofia dei accademici sarebbe un'
immoralità, perchè il loro metodo e di difendere in ogni quistione le soluziori
opposte. Idue discorsi (tesi ed antitesi, positio e contra-positio, posizione e
contra-posizione), tenuti in giorni successivi, abbiano un'unità perfetta (la
sintesi, o com-posizione) e si propongano il medesimo fine: mostrare la falsità
della dottrina della tesi di Diogene intorno al giurato; e siccome costoro in
questa parte della filosofia, molto più che in altre, sono dipendenti da Platone
e da Aristotele, bisogna prendere le mosse da questi. Leggiamo in LATTANZIO.
Carneades autem, ut Aristotelem refelleret ac Platonem, IVSTITIAE patronos,
prima illa disputatione collegit ea omnia, quae pro IVSTITIA dicebantur, ut
posset illa, sicut fecit, evertere. Carneades, quoniam erant infirma, quæ a
philosophis adserebantur, sumsit audaciam refellendi, quia refelli posse
intellexit (Lattanzio, Instit. div.). E al trove. Nec immerito extitit
Carneades, homo summo ingenio et acumine, qui refelleret istorum (Platone e Aristotele
) orationem et iustitiam, quæ fundamentum stabile non habebat, everteret, non
quia vituperandam esse iustitiam sentiebat, sed ut illos defensores eius
ostenderet nihil certi, nihil firmi de iustitia disputare (Epit.). Di qui è
evidente che la prima orazione non era che un esordio, un'introduzione, uno
sguardo storico alla questione, un'esposizione delle idee accettate da Diogene,
che Carneade s'appresta a confutare nel vegnente giorno (CICERONE., de rep.);
confutazione, la quale non ha per iscopo di vituperare la giustizia in sé, ma
di colpire i filosofi avversari, o almeno la loro teoria dommatica – il domma. Non
è la virtù del Portico, che Carneade demole, ma il sapere. E caso a noi
pervennero frammenti solamente della seconda orazione. Questa sola offre una
filosofia nuova, da una scossa inaspettata e forte all'intelligenza dei romani.
Perciò eam disputationem, qua IVSTITIA evertitur, apud CICERONE L. FURIO recordatur (Lattanzio, Instit. dio.).
E noi ora possiamo tentare di ricostruire questo singolare discorso nelle sue
linee generali. Per Carneade, non esiste una giustizia (giurato – iusiurato) naturale
nè verso due uomini. Se esso esiste, le medesimecose sarebbero giurate
(iusiurata) giuste o ingiuste, buone o cattive, morali o immorali, per ogni
uomo, come le cose calde e le fredde, le dolci e le amare. Invece, chi conosce
il mondo e la storia, sa che regna una grandissima diversità di apprezzamenti
morali e giuridici, di consuetudini tra il popolo romano e il popolo sabino, da
Roma a Sabinia, dal Tevere al Trastevere, da tempo a tempo. I cretesi e gl’etoli
reputano cosa onesta il brigantaggio. I lacedemoni dichiarano loro proprietà
tutti i campi che potevano toccare col giavellotto. Gl’ateniesi soleno
annunciare pubblicamente che loro appartene ogni terra che producesse olive e
biade. I barbari galli stimano disonorevole cosa procurarsi il frumento col lavoro,
invece che colle armi. I romani vietano ai transalpini la coltivazione
dell'ulivo e della vite, per impedire la concorrenza ai loro prodotti e dar a
questi un valore più elevato. Gli semitici egiziani, che hanno una storia di
moltissimi secoli, adorano come divinità il bue e belve di ogni genere. I
semitici persiani, disprezzano gli dei dell'Ellade, ne incendiarono i tempii,
persuasi essere cosa illecita che gli dei, i quali hanno per abitazione tutto
il mondo, fossero rinchiusi tra pareti. Filippo il Macedone idea e Alessandro
manda ad esecuzione la guerra contro i greci per punire quei numi. I Tauri, gli
Egiziani, i barbari galli (“Norma”) e i Fenici credeno che tornassero assai
accetti alle loro deità il sacrifizio umano. Si dice: E dovere dell'uomo che fa
il giurato (iusiuratum) ubbidire alla legge. Quale legge? A la legge di ieri, o
alla legge di oggi? A quelle fatte in questo lato del Tevere, o nel Trastevere?
Se una un imperativo o una legge suprema, universale, trascendente, kantiana,
costante s'impone alla coscienza dell’uomo, come pretende Diogene, coteste
variazioni non sarebbero possibili. Perciò non esiste un diritto naturale, nè un
uomo che per natura arriva al giurato (iusiuratum). Il diritto (IVS) è una
invenzione dell’uomo a scopo di utilità e didifesa; come prova anche il fatto
che non raramente la legge, le quale e fatta dal sesso maschile, assicura a
questo sesso un particolare vantaggio a danno di quello femminile. Nessuna ‘legislazione’,
attentamente esaminata, appare l'espressione di un imperative o principio
fisso, naturale, vero, immutabile, divino. Invece al profondo osservatore non
isfugge che ogni disposizione legale move da ragione di utile e viene cambiata
appena non risponde più ai bisogni e agl'interessi di coloro che hanno nelle
mani il potere. Ogni nazione cerca di provvedere al proprio bene e considera,
per istinto di natura, gl’animali e le altre nazione come istrumenti della
propria conservazione e felicità (CICERONE., de rep.). La storia insegna che
ogni popolo che diventa grande, potente, ricco, non pensa ai vantaggi altrui,
ma unicamente ai proprii. Voi stessi o ROMANI, dice Carneade parlando a un SCIPIONE
Emiliano, il futuro distruttore di Cartagine e di Numanzia, a LELIO il saggio,
al letterato FURIO Filone, a SCEVOLA il futuro giureconsulto, all'erudito
SUPICIO Gallo, al grande oratore GALBA, al vecchio CATONE, l'implacabile nemico
di Cartagine, al fiore di tutta la cittadinanza e alla presenza dei colti
ostaggi achei trasportati in Italia, tra i quali il grande storico e generale
Polibio. Voi stessi, o Romani, non vi siete impadroniti del mondo colla GIUSTIZIA.
Se volete essere giusti, restituite le cose tolte agl’altri, ritornate alle
vostre capanne a vivere nella povertà e nella miseria. Il criterio direttivo
della vostra vita non e il giurato
(iusiuratum), bensi l'utilità, che invano cercate di mascherara. Poichè voi, coll'intimare
la guerra per mezzo di araldi, col recare *in-giurie* sotto un pretesto di
legalità, col desiderare l'altrui, col rubire, siete per venuti al possesso di
tutto il mondo. Ma per temperare il cattivo effetto, che avesse potuto produrre
negli animi dei Romani questa audace analisi dei fattori della loro grandezza
politica, l'avveduto ambasciatore ateniese ricorda altri esempi, che sono celebri
e lodati in tutto il mondo. Rammenta la ben nota risposta data dal pirata
catturato ad Alessandro il grande. Io infesto breve tratto di mare con una sola
fusta, con quel medesiino diritto, col quale tu, o Alessandro, infesti tutto il
mondo con grande esercito e flotta. Il patriottismo, questa virtù somma e
perfetta, che suole essere portata fino al cielo colle lodi, è la negazione del
giurato (iusiuratum), perchè si alimenta della discordia seminata tra gli
uomini e consiste nell'aumentare la prosperità del proprio paese, naturalmente
a danno di un altro, coll’nvadere violentemente il territorio altrui, estendere
il dominio, aumentare le gabelle. Patriotta è colui che acquista dei beni alla
patria colla distruzione di altre città e nazioni, colma l'erario di denaro,
rese più ricchi i concittadini. E, quel che è peggio, non solo il popolo e la
classe incolta, ma eziandio i filosofi esortano e incoraggiano a commettere
cotali atti ingiusti. Cosicchè alla malvagità non manca neppure l'autorità
della scienza. Ovunque regnano inganno e ingiustizia, che invano si tentano di
nascondere e legittimare. Tutti quelli che hanno diritto di vita e di
morte sul popolo sono tiranni. Ma essi preferiscono chiamarsire per volontà
divina. Quando alcuni, o per ricchezze, o per ischiatta, o per potenza, hanno
nelle mani l'amministrazione di una città, costituiscono una setta. Ma i membri
prendono il nome di “ottimato”. Se il popolo ha il sopravvento nel maneggio dei
pubblici affari, la forma di governo si chiama libertà; ma è licenza. Ma poichè
gli uomini si temono l'un l'altro, e una classe ha paura dell'altra, interviene
una specie di *patto* o contratto fra popolo e potenti e si costituisce una
forma mista di governo, dove la giustizia è un effetto non di natura o di
volontà, ma di debolezza. Ed è naturale che cosi avvenga. Se l'uomo deve
scegliere tra le seguenti condizioni: recare *in-giuria* e non riceverne; e
farne e riceverne; nè farne, nè riceverne, egli repute ottima la prima, perchè
soddisfa meglio i suoi istinti. Poscia la terza, che dona quiete e sicurezza;
ultima e più infelice la condizione di chi sia costretto ad essere continuamente
in armi, sia perchè faccia, sia perché riceva *in-giurie”. Adunque alla Hobbes lo
stato naturale dei rapporti tra uomo e uomo è la lotta (uomo uominis lupo), la
guerra, la discordia, la rapina, la violenza, l'inganno, in una parola, la
negazione del giurato (giusgiurato). La giustizia è una virtù che si esercita
per effetto di debolezza e per proprio tornaconio. Ma Diogene, come vedemmo,
considera il giurato (iusiuratum) verso gli uomini. Carneade dove notare che
l’istituzione del tempio esiste solamente nel l'immaginazione de' suoi
avversari e dei filosofi, dai quali essi attinsero i loro principii. Non si
acquista, non si allarga potere, non si fonda regno senza le armi, le guerre,
le vittorie; le quali alla loro volta in generale presuppongono la presa e la
distruzione di città. E dalle distruzioni non vanno immuni le oggetti addorati
nei tempi, ne dalle stragi si sottragge il sacerdote del tempio; né dalle
rapine i tesori e gli arredi sacri. Quanti trofei di divinità
nemiche, quante sacre immagini, quante spoglie di tempii resero splendidi i
trionfi dei generali romani! E non sono cotesti sacrilegi? Non sono atti di somma
ingiustizia? No, innanzi al giudizio del popolo, all'opinione della gente
colta, degli storici, dei letterati, questa è gloria, è patriottismo, è
prudenza, sapienza, giustizia. Dunque la giustizia non solamente non viene
osservata in pratica, ma non esiste nep pure in fondo alla coscienza generale
dell’uomo. Anch'essa viene subordinata all'utile. Ma non s'arresta qui la
critica di Carneade. Con un esame sottile e profondo dell'antinomia esistente
tra i due concetti del ‘scitum’ e del ‘giurato’ e della natura morale dell'uomo
quale in realtà è, e quale egli si crede e vorrebbe essere, Carneade ha
chiarito un contrasto del cuore (ragione pratica) e della mente (ragione
teorica) umana, che tuttavia rimane e che ha servito di fondamento alle teorie
utilitaristiche inglesi di tempi a noi vicini. Lo ‘scitum’ – la sapienza
politica comanda al Cittadino di accrescere la potenza e la ricchezza della
patria, estenderne i confini e il dominio, renderne più intensa la vita con
nuove sorgenti di guadagni e di piaceri; e tutto questo non si può compiere senza
danno di altre genti. Il giurato (iusiuratum) invece comanda di risparmiare
tutti, di beneficare i propri simili indistintamente, restituire a ciascuno il
suo, non toccare i beni, non turbare i possedimenti altrui, non sminuire la
felicità d'alcuno. Ma se un uomo di stato vuole essere giusto, non ha mai
l'approvazione de' suoi amministrati, non gloria, non onori, i quali il popolo
attribuisce non al giusto (che promueve il giurato) e onesto e inetto; bensì al
sapiente, al prudente, all'accorto. Non per il giurato, ma per il ‘scitum’ i generali
di Roma hanno il soprannome di grandi. La violenza, la forza, la negazione
del giurato, hanno dato potere e consistenza agli stati. Ma per nascondere la
propria origine e fuggire la taccia de negare il giurato (iusiuratum), il
popolo, fatto grande e divenuto dominatore, va immaginando delle favole da
sostituire alla storia vera, come il mercante arricchito agogna un titolo di
nobiltà. Le stesse qualità, e solamente le stesse, mantengono gli stati liberi
o forti. Non ha nazione tanto stolta, la quale non preferisce il comandare con
la negazione del giurato, all'ubbidire con la promozione del giurato
(iusiuratum). La ragione di stato e la salvezza pubblica vincono e soffocano il
sentiment *dis-interessato*. Uno stato vuole vivere a prezzo di qualsiasi
negazione del giurato (iusiuratum), perchè sa che alla vittoria, con qualunque
mezzo acquistata, tien dietro la gloria. Nel concetto degli antichi, la fine
della propria nazione non sembra avvenimento naturale, come la morte di un
individuo, pel quale questa non solo è necessaria, ma talvolta anche
desiderabile. L'estinzione della patria era per essi in certo qual modo
l'estinzione di tutto il mondo. Dato questo concetto e un sentimento della
gloria diverso e molto più intenso che non sia in noi moderni, doveno in certa
guisa parere *giustificati* (giusti-ficati – fatto giurato – iusiuratum --
anche gli atti di violenza e di frode, che avevano per I scopo la conservazione
e la potenza del proprio stato; o, per meglio dire, il popolo e gl'individui
non hanno coscienza di un principio o imperativo che governa la propria vita.
Credeno, I ROMANI pei primi, di promovere il giurato (iusiuratum) e invece sommamente
negano il giurato (iusiuratum). Carneade fu il primo a chiarire questa opposizione
tra fatto e idea, tra sapienza machiavelica politica e il giurato (iusiuratum)
(Cic., de fin.). Il medesimo conflitto tra il giurato e il ‘scitum’ dimostra
egli esistere nella vita privata, intendendo per sapiente l'uomo che sa
difendere il proprio interesse; e giusto colui che non lede quello degli altri.
Sono suoi i seguenti esempi, tolti dalla vita giornaliera e assai chiari e appropriati
alla vita romana affogata negli affari. Un tale vuole vendere uno schiavo, che
ha l'abitudine di fuggire, o una casa insalubre. Egli solo conosce questi
difetti. Ne rende avvisato il compratore? Se si, s'acquista fama di uomo onesto, perchè non inganna,
maeziandio di stolto, per che vende a piccolo prezzo, o non vende affatto; se
no, sarà reputato sapiente, perchè fa il proprio interesse, ma malvagio, perchè
inganna. Parimenti, se egli s'incontra in uno che vende oro per oricalco, o
argento per piombo, tace per comperare a buon prezzo, o indica al venditore lo
sbaglio e sborsa di più per l'acquisto? Solamente lo stolto vorrà pagare a
maggior prezzo la merce. Se un tale, la cui morte a te recherebbe vantaggio,
sta per porsi a sedere in luogo, dove si nasconde serpe velenoso, e tu il sai,
dovrai avvertirlo del pericolo, o tacere? Se taci, sarai improbo, ma accorto; se
parli, sarai probo, ma stolto (Cic., de rep.). Dunque qui pure si presenta la
contraddizione: chi è giusto, è stolto; chi è sapiente, è ingiusto. Ma in
questi casi si tratta di una quantità maggiore o minore di denaro e di vantaggi
più o meno rilevanti, e v'ha chi potrebbe essere contento e felice della
povertà. Ma quando andasse di mezzo la vita, il conflitto diventerebbe più spiccato.
Un tale in un naufragio, mentre è poco lontano dall'affogare, vede un altro più
debole di lui mettersi in salvo appoggiandosi a una tavola, che vale a
sostenere uno solo. Nessuno testimonio è presente. Si fa sua la tavola e si
pone in salvo, lasciundo che l'altro perisca. Oppure, se, dopo che i suoi
furono sconfitti, incontra nella fuga un ferito a cavallo, che va sottraendosi
al ferro dei nemici inseguenti, lo getterà a terra per porre se stesso in
sella, o si lasce raggiungere e uccidere. Se egli è uomo sapiente, si salva a
qualunque costo. Ma se poi antepone il morire al far morire, sarà giusto, ma
stolto. Tale è il giudizio che intorno al suo operato porteranno il uomo. Cosicchè il giure naturale, la giustizia
naturale è stoltezza. Il giure civile è sapienza politica. Tutto è lotta
d'interessi. Si ha ragione di credere che Carneade nel suo discorso *contro* il
giurato civile tocca anche la questione della schiavitù, dicendo essere un
fatto che nega il giurato (iusiudicatum) naturale, che uomo servisse a uomo --
principio che, riconosciuto vero, puo essere assai valido per far conoscere
quanto esteso fosse il dominio della negazione del giurato e dare alla sua tesi
una grande forza. E ciò si induce a credere dal vedere che in più frammenti il
difensore del giurato, ossia il suo contraddittore, viene svolgendo la tesi
opposta, perchè la schiavitù, rettamente conservata, torna a utilità del stesso
schiavo, il quale sotto un governo buono e forte vive in maggiore sicurezza e
viene meglio educato che allo stato di libertà; e come Dio comanda all'uomo,
l'anima al corpo, la ragione alle parti appetitive dell'anima, cosi il
conquistatore tiene a freno il conquistato, il quale diventa tali appunto
perchè e peggiore di quello. Un tenue indizio ci sarebbe anche per farci
credere che egli risolve il rimorso nella paura della pena, negando che fosse
un sentimento più profondo e disinteressato. Diogene obbietta che in questa ipotesi
il malvagio sarebbe semplicemente un incauto e il buono uno scaltro (Cic. de
leg.). In conclusione: per Diogene, fondamento della morale e del diritto è
l'inclinazione ad amare gli uomini e a rispettare la divinità, inclinazione che
ha radice nella natura, la quale sola offre la norma per distinguere il giurato
dalla sua assenza, il bene dal male. Per Carneade, generatrice del diritto è
l'utilità, e l'utilità sola, e ogni giudizio morale e altrettanta opinione, la
quale non deriva da un imperativo kantiano, o un principio naturale fisso, come
provano la loro varietà e il dissenso degli uomini (Cic., de leg.). Alla teoria giuridica di Carneade non si deve attribuire
un significato di domma o dommatico, che sarebbe in cotraddizione colle premesse
teoretiche della sua filosofia. L'egoismo e l'utilitarismo proclamato da
Carneade in opposizione all'idealismo morale di Diogene, non è una dottrina *precettiva*,
alla Kant (il sollen) ma l'investigazione e l'esposizione di un fatto
psicologico e sociale – come il principio cooperativo di Grice. Carneade non
pare credere all'effetto pratico della morale normativa e si limita ad
analizzare il cuore dell’uomo, la ragione pratica, saggezza, prudential, il
quale, per la sua tendenza nativa, è assai lontano dal realizzare il precetto
dommatico stoico. Ma da filosofo prudente s'astiene dal proporne del proprio
precetto (idiosincrazia). Nota il fatto che si presenta all'osservazione
quotidiana con tutti i caratteri della verosimiglianza più alta e sforzano a
credere o ad operare; ma nè costruisce una teoria assoluta, ne formula un domma.
iusiuro: swear to a binding formula. NA Wundt/1/IV/D/XIII/1 Estate Wundt
Zeitungsausschnitte 100. Geburtstag Wundt
NA Wundt. Estate Wundt Brief von Luigi Credaro an Wilhelm Wundt Ricerca
Sofistica Lingua Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Illuminismo
greco" rimanda qui. Se stai cercando il movimento culturale greco del
XVIII secolo, vedi Nuovo illuminismo greco. La sofistica (in greco σοφιστική
τέχνη, sofistiké téchne) è stata una corrente filosofica[1] sviluppatasi
nell'antica Grecia, ad Atene in particolare, a partire dalla seconda metà del V
secolo a.C., la quale, in polemica con la scuola eleatica e avvalendosi del
metodo dialettico di Zenone di Elea, pose al centro della propria riflessione
l'uomo e le problematiche relative alla morale e alla vita sociale e politica.
Non si trattò di una vera e propria scuola né di un movimento omogeneo, ma fu
estremamente variegata al suo interno: i suoi esponenti (detti appunto
sofisti), seppur accomunati dalla professione di «maestro di virtù», si
interessarono di vari ambiti del sapere, giungendo ognuno a conclusioni
differenti e a volte tra loro contrastanti. L'Acropoli e l'agorà di Atene:
qui fiorì la sofistica I sofisti rinunciarono alla vastità delle congetture
cosmologiche dei filosofi naturalisti, concentrandosi sulla soggettività
dell'uomo, sulla legittimità delle opinioni e il valore dei fenomeni.
L'approccio dei sofisti era quindi orientato all'individualismo e al
relativismo, alla critica dei valori tradizionali, al razionalismo. I
contemporanei avvertirono in queste posizioni il rischio di derive ateistiche e
di corruzione dei costumi. Certa storiografia moderna ha invece evocato l'idea
di un illuminismo greco. Etimologia. Anticamente il termine σοφιστής
(sophistés, sapiente) era sinonimo di σοφός (sophòs, saggio) e si riferiva ad
un uomo esperto conoscitore di tecniche particolari e dotato di un'ampia
cultura. A partire dal V secolo, invece, si chiamarono «sofisti» quegli
intellettuali che facevano professione di sapienza e la insegnavano dietro
compenso:[6] quest'ultimo fatto, che alla mentalità del tempo appariva
scandaloso, portò a giudicare negativamente questa corrente. Nell'antichità, il
termine era spesso posto in antitesi con la parola «filosofia», intesa come
ricerca del sapere, che presuppone socraticamente il fatto di non possedere
alcun sapere. I sofisti vennero ritenuti falsi sapienti, interessati al
successo e ai soldi, più che alla verità. Il termine mantiene anche nel
linguaggio corrente un carattere negativo: con «sofismi» si intendono discorsi
ingannevoli basati sulla semplice forza retorica delle argomentazioni. La
sofistica è stata rivalutata, e oggi è riconosciuta come un momento
fondamentale della filosofia antica. Contesto storico-culturale
Magnifying glass icon mgx2. Svg Lo stesso argomento in dettaglio:
Pentecontaetiae Guerra del Peloponneso. Veduta dell’Acropoli di Atene Lo
sviluppo della sofistica ad Atene è legato a un insieme di fattori culturali,
economici e politico-sociali. Con la sconfitta dei Persiani a Salamina le
poleis greche affermarono la propria autonomia, e la loro potenza si ampliò
progressivamente nel corso dei successivi cinquant'anni di pace (la cosiddetta
Pentecontaetia). In particolare, a primeggiare su tutte furono le città rivali,
ovvero Sparta e Atene: la prima espanse la propria influenza su quasi tutto il
Peloponneso attraverso un'ampia rete di alleanze, mentre Atene, membro di primo
piano della Lega delio-attica, con l'avvento di Pericle finì con l'assumerne il
comando. Con il potere politico ed economico crebbe però anche l'ostilità tra
le due città, e il desiderio di supremazia sull'intera Grecia portò al disastro
della Guerra del Peloponneso. Pericle Pericle, leader carismatico
della fazione democratica, governò Atene per circa un trentennio, portando la
città al suo massimo splendore. Egli fece trasferire il tesoro della Lega delio-attica
da Deload Atene, e trasformò il volto della città con un imponente piano di
riforma architettonica (simbolo del potere dell'epoca sono gli edifici
dell'Acropoli: il Partenone, l'Eretteo, i Propilei); inoltre, si
intensificarono i rapporti con le altre città, attraverso alleanze e scambi
commerciali. Fu proprio questo nuovo clima di pace a favorire l'affermarsi
della sofistica, poiché permise ai sofisti, «maestri di virtù» itineranti, di
spostarsi di città in città, seguendo le rotte commerciali. Visitando luoghi
con tradizioni e ordinamenti politici differenti, talvolta varcando addirittura
i confini dell'Ellade, essi iniziarono ad interrogarsi sul valore intrinseco
delle leggi e della morale, giungendo ad un sostanziale relativismo eticoche
riconosceva il valore delle norme morali solo in relazione alle usanze della
città in cui ci si trova ad operare: la stessa areté (virtù) da loro insegnata
si riduceva all'insieme delle norme e delle convenzioni riconosciute valide dai
cittadini, alle quali il retore si deve adeguare per avere successo e buona
fama. Tuttavia, bisogna considerare che non erano considerati “cittadini” le
donne, gli stranieri (meteci) e gli schiavi. L'età di Pericle fu dunque al
tempo stesso l'età dello splendore e della crisi della polis, poiché coincise
con la crisi dei valori tradizionali, di cui i sofisti furono protagonisti;
come scrive Mario Untersteiner, la sofistica è «l'espressione naturale di una
coscienza nuova pronta ad avvertire quanto contraddittoria, e perciò tragica,
sia la realtà». Il primo interesse dei sofisti è la rottura con la tradizione
giuridica, sociale, culturale, religiosa, fatta di regole basate sulla forza
dell'autorità e del mito (e per questo motivo sono talvolta guardati come
"precursori dell'Illuminismo"), a cui veniva contrapposta una morale
flessibile, basata sulla retorica. D'altra parte, la stessa retorica che essi
insegnavano aveva un'enorme importanza per la vita civile nel regime
democratico dell'epoca, il quale riconosceva a tutti i cittadini l'uguaglianza
giuridica (isonomia) e la libertà di parola durante l'assemblea pubblica
(parresia). Il tramonto dell'aristocrazia segnò il tramonto di una
mentalità, di un'epoca con le sue aspirazioni eroiche. Le eroiche lotte
sostenute contro i Persiani, le nuove leggi e le nuove costituzioni crearono un
grande senso di fiducia in se stessi. Nel pensiero dei sofisti si rispecchiano
le esigenze delle àlacri classi borghesi, l'arrivismo degli uomini nuovi,
l'irriverenza verso le tradizioni sacre ed il beffardo disprezzo del passato,
le violente lotte fra città e città, la corsa sfrenata alle cariche politiche.
I sofisti Rosa, Protagora e Democrito I sofisti erano considerati maestri di
virtù che si facevano pagare per i propri insegnamenti. Per questo motivo essi
furono aspramente criticati dai loro contemporanei, soprattutto da Platone e
Aristotele, ed erano offensivamente chiamati «prostituti della cultura».
Ironicamente, i sofisti furono i primi ad elaborare il concetto occidentale di
cultura (paideia), intesa non come un insieme di conoscenze specialistiche, ma
come "metodo di formazione" di un individuo nell'ambito di un popolo
o di un contesto sociale. Essi riscossero successo soprattutto presso i ceti
altolocati. La figura del sofista, come persona che si guadagna da vivere
vendendo il proprio sapere, si pone come precursore dell'educatore e
dell'insegnante professionista. Argomento centrale del loro insegnamento è la
retorica: mediante il potere persuasivo della parola essi insegnavano la
morale, le leggi, le costituzioni politiche; il loro intento era di educare i
giovani a diventare cittadini attivi, cioè avvocati o militanti politici e, per
essere tali, oltre ad una buona preparazione, bisognava anche essere
convincenti e saper padroneggiare le tecniche retoriche. I sofisti, a
differenza dei filosofi greci precedenti, non si interessano alla cosmologia e
alla ricerca dell'archèoriginario, ma si concentrano sulla vita umana,
diventando così i primi filosofi morali. Vengono distinte due generazioni di
sofisti: Sofisti della prima generazione: Protagora, Gorgia, Prodico e
Ippia Sofisti della seconda generazione: solitamente allievi dei primi, sono a
loro volta distinguibili in: Sofisti politici: Antifonte, Crizia, Trasimaco,
Licofrone, Callicle, Alcidamante, Polo, l'Anonimo di Giamblico Sofisti della
physis, si interessano del rapporto natura-uomo, spesso conducendo studi naturalistici:
Antifonte, (Ippia) Eristi, portano all'esasperazione il metodo dialettico:
Eutidemo e Dionisodoro, Eubulide di Mileto Altri: Seniade di Corinto, forse
l'anonimo autore dei Dissoi logoi Stando alle fonti, pare che anche il filosofo
Aristipposia stato un sofista prima di incontrare Socrate e unirsi a lui; in
particolare pare fosse allievo di Protagora e sappiamo per certo che diede
lezioni di eloquenza a pagamento. A questo proposito si racconta un aneddoto:
protagonisti sono Aristippo e il padre di un suo alunno, il quale, contestando
il prezzo troppo alto della retta annuale, gli avrebbe detto: «Mille dracme? Ma
io con mille dracme ci compro uno schiavo!», e Aristippo avrebbe risposto: «E
tu compralo questo schiavo, così ne avrai due in casa, questo e tuo figlio!». A
quanto pare Aristippo praticava tariffe differenziate in base alle capacità
degli allievi, così che se uno di questi aveva la sfortuna di essere poco
dotato la sua tariffa aumentava vertiginosamente, mentre se al contrario era
particolarmente brillante e intuitivo la tariffa ammontava a poco più di 1
dracma, praticamente gratis. Caratteri generali della sofistica
Magnifying glass icon mgx 2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Relativismo
etico sofistico. La sofistica, come detto, fu un movimento disomogeneo, e ogni
sofista differiva dagli altri per interessi e posizioni personali. Tuttavia, è
possibile riconoscere in questi autori alcuni caratteri comuni.
Centralità dell'uomo. I sofisti si interessarono prevalentemente di problematiche
umane ed antropologiche, tanto che gli studiosi parlano di antropocentrismo
sofistico. Essi approfondirono i temi legati alla vita dell'uomo, che venne
analizzata soprattutto dal punto di vista gnoseologico (ciò che l'uomo può
conoscere e ciò che non può conoscere), etico (ciò che è bene e ciò che è male)
e politico (il problema dello Stato e della giustizia). L'essere umano veniva
considerato a partire dalla sua condizione di individuo posto all'interno di
una comunità, caratterizzata da determinati valori culturali, morali, religiosi
e via dicendo. Essi insegnavano pertanto a osservare formalmente le leggi e le
tradizioni della polis, così da diventare cittadini rispettati e di successo –
quindi virtuosi. Rottura con la “fisiologia” presocratica. Come conseguenza del
punto precedente, i sofisti in genere trascurarono le discipline naturalistiche
e scientifiche, che invece erano state tenute in grande considerazione dai
filosofi precedenti. Per questa ragione alcuni studiosi hanno definito
"cosmologica" la filosofia precedente ed "umanistico" o
"antropologico" il pensiero sofistico. In realtà, va precisato che
tale generalizzazione è per certi versi limitativa, poiché ad essa fanno
eccezione i casi di Ippia di Elide (che, mirando ad un sapere enciclopedico,
coltivò studi inerenti a vari campi scientifici, tra cui matematica, geometria
e astronomia) e Antifonte (il quale, studioso dei testi ippocratici, fu esperto
di anatomia umana ed embriologia). Relativismo ed empirismo. I sofisti
concepivano la verità come una forma di conoscenza sempre e comunque relativa
al soggetto che la produce e al suo rapporto con l'esperienza. Non esiste
un'unica verità, poiché essa si frantuma in una miriade di opinioni soggettive,
le quali, proprio in quanto relative, finiscono per essere considerate comunque
valide ed equivalenti: si parla pertanto di relativismo gnoseologico. Questo
relativismo investe tutti gli ambiti della conoscenza, dall'etica alla
politica, dalla religione alle scienze della natura.Dialettica e retorica. Le
tecniche dialettiche dell'argomentare (cioè dimostrare, attraverso passaggi
logici rigorosi, la verità di una tesi) e del confutare (cioè dimostrare
logicamente la falsità dell'antitesi, l'affermazione contraria alla tesi) erano
già state utilizzate da Zenone all'interno della scuola eleatica, ma fu
soprattutto con i sofisti che esse si affermarono e si affinarono. La
dialettica divenne una disciplina filosofica essenziale e influenzò
profondamente la retorica, ponendo l'accento sull'aspetto persuasivo dei
discorsi, fino a scadere nell'eristica.Alla luce di tutto ciò, alcuni studiosi
hanno voluto vedere nel movimento sofistico una sorta di “illuminismo greco”
ante litteram, in quanto i miti e le credenze tradizionali vennero criticati e
sostituiti con nozioni razionali: in altre parole la sofistica avrebbe in un
certo senso anticipato alcuni motivi tipici di quel movimento culturale
sviluppatosi in Europa nel XVIII secolo, l'Illuminismo appunto.
L'insegnamento Greuter, "Socrate e i suoi studenti", XVII secolo.
Nell'Atene era costume che i maestri tenessero lezione all'aperto, in piazza o
sotto i portici Con la comparsa dei sofisti nascono nuovi luoghi deputati
all'insegnamento: le case dei cittadini più ricchi, le palestre pubbliche e le
piazze, le quali includevano dei portici in cui i maestri potevano passeggiare
con i loro discepoli o sedere in banchi dove potevano discutere. In genere, la
scelta del luogo in cui tenere lezione era legata al tipo di "sapienza"
professata: Socrate, ad esempio, scelse la piazza pubblica per mostrare la sua
disponibilità verso tutti i cittadini e il disinteresse per il denaro – e lo
stesso faranno i cinici in epoca successiva – mentre gli accademici, i
peripatetici e gli stoici preferiranno luoghi attrezzati con strumenti
scientifici e biblioteche. D'altra parte, va ricordato ancora una volta che la
sofistica non fu una scuola filosofica, bensì un movimento caratterizzato da un
ampio e variegato dibattito interno. Capisaldi dell'insegnamento
sofistico sono: L'insegnabilità della virtù: essendo i sofisti
"maestri di virtù", il loro insegnamento si basava sulle strategie
per conseguirla, con fini eminentemente utilitaristici; non essendo infatti
possibile conoscere il Bene in sé, l'educazione era volta a diffondere i valori
più convenienti alla vita civile dell'individuo. Per questo motivo, essi si
rivolsero non solo agli aristocratici, ma anche ai ceti emergenti che
aspiravano al successo.La retorica: i sofisti non furono degli scienziati,
poiché non limitavano il campo del loro sapere ad una disciplina specifica;
piuttosto, per loro era importante il metodo di comunicazione, e per
apprenderlo erano previsti due momenti, la dialettica e l'eristica: la prima
consiste nell'arte di saper argomentare, la seconda nel saper vincere in una
discussione. Il loro insegnamento abbracciava molte tematiche, e oltre alla
morale si occuparono di problemi di diritto, ponendo la questione
dell'esistenza o meno del diritto naturale (physis) e del suo rapporto col
diritto positivo (nomos).Per quanto riguarda le leggi e le norme i sofisti,
spostandosi di città in città, si accorsero che ogni cultura ha diverse regole
e leggi[23]. Ciò fece sorgere in loro domande quali: Ci sono regole
uguali per tutti? In genere i sofisti propendono per il no, cioè per il
relativismo etico. Vi è una cultura superiore alle altre? Porre la domanda già
equivale ad una critica delle tradizioni e ad una propensione per il
relativismo culturale. La Seconda sofisticaModifica Magnifying glass icon
mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Seconda sofistica.
L'imperatore ADRIANO, in veste greca, offre un sacrificio ad Apollo (Londra,
British Museum) Dopo il successo del V secolo a.C., nel secolo successivo la
sofistica vide un progressivo ridimensionamento della propria importanza,
soprattutto a causa delle già menzionate critiche rivolte ai sofisti dai
filosofi Platone e Aristotele, e dalle loro scuole. Tuttavia, a partire
dall'inizio del II secolo d.C. (quindi a distanza di circa 400 anni) si
assiste, in piena età imperiale, ad una rinascita della sofistica, grazie a un
movimento filosofico-letterario definito da Filostrato Seconda sofistica[24]
(detta anche Nuova sofistica o Neosofistica, per differenziarla da quella
antica). Diversamente dalla sofistica del V secolo, però, la Seconda sofistica
abbandona i temi di interesse filosofico ed etico (come la divinità, la virtù e
via dicendo), per occuparsi esclusivamente di oratoriae retorica. La Nuova
sofistica si presenta così subito come un movimento di impronta essenzialmente
letteraria, orientato allo studio e all'esercizio dell'oratoria e ben distante
dall'impegno politico e culturale dei sofisti dell'età di Pericle. I nuovi
sofisti mirano all'affermazione personale e al successo pubblico, cercando
(eccetto che in rari casi) di ingraziarsi la simpatia e i favori dei potenti;
la loro produzione letteraria, improntata alla ricercatezza stilistica secondo
lo stile del cosiddetto asianesimo, spazia attraverso vari generi: dialoghi, trattati,
opere satiriche, novelle, fino a ben più leggere opere di intrattenimento,
brani in cui veniva ostentata la propria bravura retorica. Tra i vari
autori di lingua greca che rientrano in questo fenomeno letterario, i più
importanti sono: Dione Crisostomo («dalla bocca d'oro») ricoprì varie
cariche politiche e svolse la propria attività di retore e insegnante in
Bitinia e a ROMA, dove però è condannato all'esilio. Erode Attico, tra i più
importanti e rinomati, insegnante di retorica e amico dell'imperatore stoico Marco
Aurelio ANTONINO, ricoprì vari incarichi nell'amministrazione pubblica romana,
tra cui il consolato. Elio Aristide, allievo di Erode Attico, famoso
soprattutto per le opere di onirocritica e per la sua devozione al dio
Asclepio; Luciano di Samosata, uomo vicino alla famiglia imperiale romana -- dinastia
degli Antonini --, è autore di vari saggi sui più disparati argomenti, nonché
modello di purismo linguistico. Flavio Filostrato, membro di una famiglia di
celebri retori e sofisti, è tra i più potenti letterati alla corte dei Severi. La
Seconda sofistica perdura. Tratti tipici di questo movimento sono
rintracciabili in filosofi come Imerio, Libanio, Temistio e Sinesio, per
giungere infine alla Scuola di Gaza. La storiografia moderna considera
comunemente i sofisti come filosofi. Si veda a proposito: M. Untersteiner, Le
origini sociali della sofistica, appendice a: I sofisti, Milano Guthrie, The
Sophists, Cambridge Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Reale, Il pensiero
antico, Milano Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna. Più precisamente, Mario
Untersteiner, riprendendo a sua volta H.I. Marrou e A. Levi, scrive: «Fu più
volte riconosciuto che nella sofistica non devesi scorgere una scuola
filosofica abbastanza uniforme e coerente, ma piuttosto sia meglio accogliere
l'opinione molto diffusa nell'antichità, “che considerava sofisti coloro che
andavano da una città all'altra della Grecia per insegnarvi pubblicamente la
loro σοφία dietro retribuzione. Il contenuto di questa sapienza variava secondo
gli insegnanti di essa; però (nemmeno Gorgia rappresenta un'eccezione) tutti i
sofisti professavano di essere maestri di ἀρετή (virtù), ossia dichiaravano
d'impartire ai loro discepoli un insegnamento rivolto a finalità insieme
individuali e sociali”» (I sofisti, Milano sofistica, in Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Il sostantivo σοφιστής deriva dal
verbo σοφίζειν (sophízein), che significa «rendere sapiente». Cfr. Guthrie, The
Sophists, Cambridge Per le varie accezioni del sostantivo si veda anche: L.
Rocci, Dizionario Greco Italiano, Firenze Kerferd, I sofisti, trad. it.,
Bologna Sofista» in origine indicava generalmente una personalità ritenuta
sapiente, e fu utilizzata per riferirsi anche a poeti come Omero ed Esiodo. ^
DK 79 2a, 3. La rivalutazione della sofistica come corrente filosofica iniziò a
opera di Hegel e Nietzsche. Oggi ai sofisti è riconosciuto lo statusnon solo di
filosofi morali ma anche di teoreti. Cfr. G.B. Kerferd, I sofisti, trad. it.,
Bologna Untersteiner, I sofisti, Milano Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna
Untersteiner, I sofisti, Milano Faggin, Storia della filosofia, volume primo,
Principato editore, Milano, Così li definisce Socrate in: Senofonte, Memorabili
Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze
Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Diogene Laerzio II, 65. ^ Plutarco, De
liberis educandis Untersteiner, I sofisti, Milano Questo è l'argomento su cui
verte il Teetetoplatonico, nel quale si analizza la dottrina protagorea
dell’homo mensura (Cfr. DK 80A1). Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna Tra i
cittadini ateniesi abbienti che patrocinarono l'attività dei sofisti, il più
famoso è senz'altro Callia, che compare come personaggio nel Protagora di
Platone (è in casa sua che avviene il dialogo e sono ospitati Protagora,
Prodico e Ippia). ^ M. Untersteiner, I sofisti, Milano Kerferd, I sofisti,
trad. it., Bologna Jaeger, Paideia, trad. it., Firenze Illuminanti al riguardo
sono le affermazioni di Antifonte (DK) e quelle contenute nei cosiddetti Dissoi
logoi (DK Filostrato, Vite dei sofisti I Corno, Letteratura greca, Milano
Corno, Letteratura greca, Milano
Edizioni dei frammentiModifica I frammenti e le testimonianze sui
sofisti sono raccolti in Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di Hermann
Diels e Walther Kranz. In traduzione italiana sono consultabili: I
presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari:
Laterza 1979. I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a
fronte delle testimonianze e dei frammenti di Hermann Diels e Walther Kranz, a
cura di Giovanni Reale, Milano: Bompiani, 2006. I sofisti. Testimonianze e
frammenti, a cura di M. Untersteiner e A.M. Battegazore, Firenze: La Nuova
Italia, 1949-1962 (nuova edizione: Milano: Bompianim con introduzione di G.
Reale). I sofisti, a cura di M. Bonazzi, pref. di F. Trabattoni, Milano: BUR,
Abbagnano, Giovanni Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Volume A,
Tomo 1, Paravia Bruno Mondadori, Torino Mauro Bonazzi, I sofisti, Roma:
Carocci, Guthrie, The Sophists, Cambridge: Cambridge University Press, Kerferd,
I sofisti, trad. it., Bologna: Il Mulino, 1988 M. Isnardi Parente, Sofistica e
democrazia antica, Firenze: Sansoni, Jaeger, Paideia. La formazione dell'uomo
greco, Firenze, La nuova Italia (nuova edizione con un'introduzione di Giovanni
Reale, Bompiani: Milano 2003). H.-I. Marrou, Storia dell'educazione
nell'antichità, Roma: Studium, Levi, Storia delle Sofistica, Napoli, Morano,
1966. E. Paci, Storia del pensiero presocratico, Roma: Edizioni Radio Italiana,
Plebe, Breve storia della retorica antica, Bari: Laterza, Reale, Il pensiero
antico, Milano: Vita e Pensiero, Schreiber, Aristotle on false reasoning:
language and the world in the Sophistical refutations, State University of New
York Press, Untersteiner, I sofisti, Milano: Bruno Mondadori Antropocentrismo
Demagogia Dissoi logoi (Sofistica) Eristica Presocratici Relativismo culturale
Relativismo etico sofistico Retorica Seconda sofistica Sofisma. «sofista»
Sofistica, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Taylor e
Mi-Kyoung Lee, The Sophists, su Stanford Encyclopedia of Philosophy. George
Duke, The Sophists (Ancient Greek), su Internet Encyclopedia of Philosophy.
Portale Antica Grecia Portale Filosofia. Protagora retore e
filosofo greco antico Eristica arte della contesa verbale Dissoi
logoi opera filosofica. Luigi Credaro. Keywords: i sofisti, il giurato,
iusiuratum, Carneade, il secondo discorso, contro Democrito, ragione pratica
(saggezza), ragione teorica, a philosopher in political linguistics: German
minority, Italian majority in Trento. Il prefetto di Trento. Lingua tedesca,
lingua italiana, ordinamento amministrativode-centrato, Wundt, Kant,
razionalismo trascendente, Herbart, scetticismo, accademia, prima accademia,
seconda accademia, terza accademia, liberta
di volere, freewill, volere libero, ambiascata ateniense a roma, influenza
dell’academia nell’elite romana – l’accademia come perfezionamento per la dirigenza
romana, Wundt, positivismo, suggestione, i primordii del kantismo in Italia,
Hegel vacuo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Credaro” – The Swimming-Pool
Librrary. Credaro.
Grice
e Crescente: il cinargo a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. A member of the Cinargo in Rome. Taziano regards him as a
greedy immoral hypocrite.
Grice e Crespi: l’implicatura
conversazionale d’Antonino e compagnia – filosofia romana -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “Crespi is an
interesting figure; Strawson calls him an Englishman since he became a Brit! My
favourite is his edition of Marcauurelio’s remembrances – which is a n irony:
he was a roman, but left his remembrances in Hellenic; and the Italians needed
a translation! It would be as if Pocahontas’s remembrances were in Anglo-Saxon!”
Collaboratore della Critica sociale, si avvicina alle posizione modernista.
Collaboraa Il Rinnovamento, L'Unità, La Rivoluzione liberale, Coenobium.
Emigrato durante il fascismo, ospita numerosi esuli antifascisti. Altre opere:
“Le vie della fede” (Roma, Libreria editrice romana); “Sintesi religiosa” (Firenze,
Tip. Bonducciana di A. Meozzi); “L’impero romano” (Milano, Treves); “Dall'io al
tu” (Modena, Guanda). Nunzio Dell'Erba, Rosselli e Sturzo, "Annali della
Fondazione Ugo La Malfa", Luigi Sturzo, Mario Sturzo, Carteggio, Roma,
Edizioni di storia e letteratura-Istituto Luigi Sturzo, Giovanni Bonomi, Angelo
Crespi, Cremona, Padus). Wikipedia Ricerca Filosofia
ellenistica periodo della filosofia greca antica Lingua Segui Modifica La
filosofia ellenistica è il periodo della filosofiaoccidentale e della filosofia
greca antica durante il periodo ellenistico. StoriaModifica Il
mondo ellenistico nel 300 a.C. Il periodo ellenistico seguì le conquiste di
Alessandro Magno, che aveva diffuso la cultura greca antica in tutto il Medio
Oriente e nell'Asia occidentale, dopo il precedente periodo culturale della
Grecia classica. Il periodo classico della filosofia greca antica era iniziato
con Socrate, il cui allievo Platone aveva insegnato ad Aristotele, che a sua
volta aveva istruito Alessandro. Mentre i pensatori classici avevano per lo più
sede ad Atene, il periodo ellenistico vide i filosofi attivi in tutto l'impero.
Il periodo iniziò con la morte di Alessandro nel 323 a.C. (poi quella di
Aristotele), e fu seguito dal predominio della filosofia dell'antica Roma
durante il periodo imperiale romano. Sviluppi e dibattiti sul
pensieroModifica I fondatori dell'Accademia, i peripatetici, i seguaci del
cinismo e del cirenaismo erano stati tutti allievi di Socrate, mentre lo
stoicismo era soltanto indirettamente influenzato da lui.Il pensiero di Socrate
fu quindi influente per molte di queste scuole dell'epoca, portandole a
concentrarsi sull'etica e su come raggiungere l'eudaimonia (la bella vita), e
alcune di loro seguirono il suo esempio di usare l'autodisciplina e l'autarchia
a tal fine.[2] Secondo AC Grayling, la maggiore insicurezza e perdita di
autonomia dell'epoca spinse alcuni a usare la filosofia come mezzo per cercare
sicurezza interiore dal mondo esterno.[3] Questo interesse nell'usare la
filosofia per migliorare la vita è stato colto nell'affermazione di Epicuro:
"vuote sono le parole di quel filosofo che offre una terapia per nessuna
sofferenza umana".[4] EpistemologiaModifica L'epistemologia degli
epicurei era empirica, con la conoscenza che alla fine proveniva dai
sensi.[4]Epicuro sosteneva che le informazioni sensoriali non sono mai false,
anche se a volte possono essere fuorvianti, e che "Se combatti contro
tutte le sensazioni, non avrai uno standard contro il quale giudicare anche
quelle di coloro che dici si sbagliano".[5] Rispose a un'obiezione
all'empirismo fatta da Platone in Menone, secondo la quale non si può cercare
informazioni senza avere un'idea preesistente di cosa cercare, quindi significa
che la conoscenza deve precedere l'esperienza.[6] La risposta epicurea è che la
prolepsi (preconcetti) sono concetti generali che consentono di riconoscere
cose particolari e che queste emergono da ripetute esperienze di cose
simili. PlatonismoModifica Il Platonismo rappresenta la filosofia
dell'allievo di Socrate, Platone, e i sistemi filosofici da esso strettamente
derivati. Antica AccademiaModifica Il platonismo primitivo, noto come
"l'Antica Accademia", inizia con Platone, seguito da Speusippo(nipote
di Platone), che gli succedette come capo della scuola (fino al 339 a.C.), e da
Senocrate (fino al 313 a.C.). Entrambi cercarono di fondere le speculazioni
pitagoriche sul numero con la teoria delle forme di Platone. Scetticismo
accademicoModifica Carneade, copia romana dalla statua esposta nell'Agorà
di Atene, c. 150 a.C., Museo Glyptothek Lo scetticismo accademico è il periodo
dell'antico platonismo risalente intorno al 266 a.C., quando Arcesilao divenne
capo dell'Accademia platonica, fino a circa il 90 a.C., quando Antioco di
Ascalona respinse lo scetticismo, sebbene i singoli filosofi, come Favorino e
il suo maestro Plutarco, continuassero a difendere lo scetticismo accademico
dopo questa data. Gli scettici accademici sostenevano che la conoscenza delle
cose è impossibile. Le idee o le nozioni non sono mai vere; tuttavia, ci sono
gradi di somiglianza con la verità, e quindi gradi di credenza, che consentono
di agire. La scuola era caratterizzata dai suoi attacchi agli stoici e al dogma
stoico che impressioni convincenti portavano alla vera conoscenza.
Arcesilao Carneade Cicerone Medioplatonismo Antioco di Ascalona respinse lo
scetticismo, lasciando il posto al periodo noto come Medioplatonismo, in cui il
platonismo era fuso con alcuni dogmi peripatetici e molti stoici. Nel
medioplatonismo, le forme platoniche non erano trascendenti ma immanenti alle
menti razionali, e il mondo fisico era un essere vivente e animato, l'anima del
mondo. La natura eclettica del platonismo in questo periodo è dimostrata dalla
sua incorporazione nel pitagorismo (Numenio di Apamea) e nella filosofia
ebraica (Filone di Alessandria). Plutarco Neoplatonismo Il Neoplatonismo,
o plotinismo, era una scuola di filosofia religiosa e mistica fondata da
Plotino nel III secolo e basata sugli insegnamenti di Platone e degli altri
platonici. Il vertice dell'esistenza era l'Assoluto o il Bene, la fonte di
tutte le cose. Nella virtù e nella meditazione l'anima aveva il potere di
elevarsi per raggiungere l'unione con l'Assoluto, la vera funzione degli esseri
umani. I neoplatonici non cristiani erano soliti attaccare il cristianesimo
fino a quando cristiani come Agostino, Boezio ed Eriugena non adottarono il
neoplatonismo. Plotino Porfirio Giamblico Proclo CirenaismoModifica Il
Cirenaismo fu fondato nel IV secolo a.C. da Aristippo, allievo di Socrate.
Aristippo il Giovane, nipote del fondatore, sosteneva che il motivo per cui il
piacere era buono era che era evidente nel comportamento umano fin dalla più
giovane età, perché questo lo rendeva naturale e quindi buono (il cosiddetto
argomento della culla).I Cirenaici credevano anche che il piacere presente
liberasse dall'ansia del futuro e dai rimpianti del passato, lasciandoci in
pace.Queste idee furono prese ulteriormente da Anniceride di Cirene, che
espanse il piacere per includere cose come l'amicizia e l'onore. Teodoro l'Ateo
non era d'accordo e sosteneva che i legami sociali dovrebbero essere tagliati e
dovrebbe essere sposata l'autosufficienza. Egesia di Cirene, d'altra parte,
affermava che la vita alla fine non poteva essere complessivamente
piacevole. Cinismo Il pensiero dei Cinici si basava sul vivere con
il minimo necessario e nel rispetto della natura. Il primo cinico fu Antistene,
che era un allievo di Socrate. Introdusse le idee di ascetismo e opposizione
alle norme sociali Il suo seguace fu Diogene, che seguì questa direzione. Invece
del piacere, i cinici promuovevano il vivere intenzionalmente in difficoltà
(ponos). Tutto questo perché era visto come naturale e quindi buono, mentre la
società era innaturale e quindi cattiva, così come i benefici materiali. I
piaceri forniti dalla natura (che sarebbero stati immediatamente accessibili)
erano tuttavia accettabili. Cratete di Tebe affermava quindi che "la
filosofia è un chilo di fagioli e non si cura di nulla". Altri cinici
includevano Menippo e Demetrio (10–80). Scuola peripatetica. Un busto in
marmo di Aristotele La scuola peripatetica era composta dai filosofi che
avevano mantenuto e sviluppato la filosofia di Aristotele. Sostenevano l'esame
del mondo per comprendere il fondamento ultimo delle cose. Lo scopo della vita
era l'eudaimonia che nasceva da azioni virtuose, che consistevano nel mantenere
la media tra i due estremi del troppo e del troppo poco. Teofrasto Stratone di Lampsaco Alessandro di Afrodisia
Aristocle di Messene Pirronismo Pirro d'Elide, testa in marmo, copia
romana, Museo Archeologico di Corfù Il Pirronismo era una scuola di scetticismo
filosoficoche ebbe origine con Pirrone e fu ulteriormente avanzata da Enesidemo
nel I secolo a.C. Il suo obiettivo era l'atarassia (essere mentalmente
imperturbabile), che si ottiene attraverso l'epoché(cioè la sospensione del
giudizio) su questioni non evidenti (cioè, questioni di credenza).
Pirrone Timone di Fliunte Enesidemo Sesto Empirico Epicureismo Busto
romano di Epicuro L'epicureismo fu fondato da Epicuro. La sua epistemologia era
basata sull'empirismo, ritenendo che le esperienze sensoriali non possano
essere false, anche se possono essere fuorvianti, poiché sono il prodotto del
mondo che interagisce con il proprio corpo. Ripetute esperienze sensoriali possono
quindi essere utilizzate per formare concetti (prolepsi) sul mondo, e tali
concetti ampiamente condivisi ("concezioni comuni") possono fornire
ulteriormente le basi per la filosofia. Applicando il suo empirismo, Epicuro
sostenne l'atomismo notando che la materia non poteva essere distrutta poiché
alla fine si sarebbe ridotta a nulla e che doveva esserci vuotoaffinché la
materia potesse muoversi. Anche se questo di per sé non provava l'esistenza
degli atomi, si oppose all'alternativa osservando che gli oggetti infinitamente
divisibili sarebbero infinitamente grandi, simili ai paradossi di
Zenone.[19] Considerava l'universo governato dal caso, senza alcuna
interferenza da parte degli dei. Considerava l'assenza di dolore come il più
grande piacere e sosteneva una vita semplice. Epicuro Metrodoro Ermarco
di Mitilene Zenone di Sidone (I secolo a.C.) Filodemo di Gadara Lucrezio StoicismoModifica Zenone di Cizio, il
fondatore dello stoicismo Lo stoicismo fu fondato da Zenone di Cizio nel III
secolo a.C. Basato sulle idee etiche dei cinici, insegnava che l'obiettivo
della vita era vivere in accordo con la natura. Sostenne lo sviluppo
dell'autocontrollo e della forza d'animo come mezzi per superare le emozioni
distruttive. Zenone di Cizio Cleante Crisippo Panezio Posidonio Seneca
Epitteto Marco Aurelio Giudaismo ellenisticoModifica Il giudaismo ellenistico
era un tentativo di stabilire la tradizione religiosa ebraica all'interno della
cultura e della lingua dell'ellenismo. Il suo principale rappresentante fu Filone
di Alessandria. Filone di Alessandria Flavio Giuseppe
NeopitagorismoModifica Il neopitagorismo era una scuola di filosofia che faceva
rivivere le dottrine pitagoriche, prominente nel I e II secolo. Era un
tentativo di introdurre un elemento religioso nella filosofia greca, adorare
Dio vivendo una vita ascetica, ignorando i piaceri del corpo e tutti gli
impulsi sensoriali, per purificare l'anima. Publio Nigidio Figulo. Apollonio
di Tiana. Numenio di Apamea. Cristianesimo ellenisticoModifica Il cristianesimo
ellenistico fu il tentativo di riconciliare il cristianesimo con la filosofia
greca, a partire dalla fine del II secolo. Attingendo in particolare al
platonismo e al neoplatonismo emergente, figure come Clemente Alessandrino
cercarono di fornire al cristianesimo un quadro filosofico. Clemente
Alessandrino. Origene. Agostino d'Ippona. Elia Eudocia. Voci correlate
Filosofia greca Filosofia antica Ellenismo Religione ellenistica Cento scuole
di pensiero Grayling, The History of Philosophy, Penguin, Peter Adamson,
Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Grayling, The History
of Philosophy, Penguin, John Sellars, Hellenistic Philosophy, Oxford University
Press, Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford
University Press, Sellars, Hellenistic Philosophy, Oxford University Press,
Platonismo su Enciclopedia Britannica. Adamson, Philosophy in the Hellenistic
and Roman Worlds, Oxford University Press, Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the Hellenistic
and Roman Worlds, Oxford University Press, Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the Hellenistic
and Roman Worlds, Oxford University Press, Peter Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the Hellenistic
and Roman Worlds, Oxford University Press, Peter Adamson, Philosophy in the
Hellenistic and Roman Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the Hellenistic
and Roman Worlds, Oxford, Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman
Worlds, Oxford. Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman Worlds, Oxford
University Press, Peter Adamson, Philosophy in the Hellenistic and Roman
Worlds, Oxford Long, Sedley, The Hellenistic Philosophers, Cambridge, Reale,
The Systems of the Hellenistic Age: History of Ancient Philosophy (Suny Series
in Philosophy), edito e tradotto dall'italiano da Catan, Albany, State of New
York Universit "Platonismo." Cross, FL, ed. nel dizionario di Oxford
della chiesa cristiana . New York: Oxford. Portale Antica Grecia
Portale Antica Roma Portale Filosofia Atarassia termine
filosofico Scuola cirenaica Autarchia (filosofia) Wikipedia IlAngelo
Crespi. Grice: “His essay on Antonino is brilliant – his philosophy of history
is controversial. Keywords: la filosofia dell’impero romano, impero, impero
romano, impero britannico, funzione dell’impero, funzione storica dell’impero,
filosofia imperial, imperialismo, imperialismo romano, imperialism britannico,
post-imperialismo, Antonino. Filosofia
della storia – aporie, lingua latina, impero romano, lingua nazionale, nazione
romana, nazione italiana, lingua italiana, lingua fiorentina, lingua toscana,
toscano, -- Refs.: Luigi Speranza, “Crespi e Grice” – The Swimming-Pool
Library. Crespi.
Grice e Crespo – filosofo italiano.
Grice e Critolao – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Sent as a deputation to Rome. He emphasizes the relative
unimportance of material comforts for the good life.
Grice e Croce: l’implicatura conversazionale dell’idealismo
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescasseroli). Filosofo italiano. Grice: “I would
think the fashionable Englishwoman may think Croce is the most important
philosopher that ever lived!” -- vide under “Grice as Croceian” -- Grice as
Croceian: expression and intention -- Croce, B., philosopher. I genitori
appartenevano a due abbienti famiglie abruzzesi: la famiglia Sipari, quella
materna, originaria della stessa Pescasseroli, ma radicatasi anche in
Capitanata e Terra di Lavoro, particolarmente legata agli ideali liberali, e
l'altra, quella paterna, originaria di Montenerodomo (in provincia di Chieti),
ma trapiantata a Napoli, legata invece ad una mentalità di stampo borbonico. C.
crebbe in un ambiente profondamente cattolico, dal quale però, ancora
adolescente, si distaccò, non riaccostandosi più per tutta la vita alla
religiosità tradizionale. Il terremoto di Casamicciola A diciassette anni
perse i genitori, Pasquale C. e Luisa Sipari, e la sorella Maria, periti durante il terremoto di Casamicciola,
nell'isola d'Ischia, dove C. si trovava in vacanza con la famiglia. Un
terremoto durato non più di 90 secondi ma dalla potenza devastatrice enorme - e
per questo rimasto come esempio terribile di distruzione nel modo di dire delle
popolazioni coinvolte - dove lo stesso Benedetto rimase «sepolto per parecchie
ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo. Il "problema del
male", in sottofondo alla sua filosofia ottimistica sul progresso, rimarrà
insoluto, se non addirittura negato, e dietro le quinte del suo pensiero,
influenzato da questi eventi giovanili come evidenziato dalle meditazioni
private dei Taccuini personali. Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi:
i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia
fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri
di suicidio.Fra i primi ad accorrere in suo aiuto fu il cugino Petroni, la
famiglia del quale lo assisté affettuosamente nei mesi seguenti nella loro
residenza di campagna a San Cipriano Picentino, paese non troppo distante da
Salerno. In seguito a questo tragico episodio fu affidato, assieme al fratello superstite
Alfonso, alla tutela del cugino Silvio Spaventa, figlio della prozia Maria Anna
C. e fratello del filosofo Spaventa, che, mettendo da parte dei dissapori
storici che aveva con la famiglia Croce, lo accolse nella propria casa a Roma,
dove il giovane Benedetto trascorse gli anni dell'adolescenza ed ebbe modo di
formarsi culturalmente[14] fino all'età di vent'anni. Nel circolo culturale
nella casa dello zio Silvio, C. ebbe modo di frequentare importanti uomini
politici ed intellettuali tra cui Labriola che lo inizierà al marxismo. Pur
essendo iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Napoli,
Croce frequentò le lezioni di filosofia morale a Roma tenute dal Labriola. Non
terminò mai i suoi studi universitari, ma si appassionò a studi eruditi e
filosofici, trascurando il pensiero hegeliano, di cui criticava la forma
incomprensibile. Il ritorno a Napoli Lasciata la Roma troppo accesa di
passioni politiche, Tornò a Napoli, dove acquistò, per abitarvi, la casa dove
aveva trascorso la sua vita VICO, il filosofo napoletano amato da C. per la
concezione filosofica anticipatrice, per certi aspetti, della sua. Fu tra i
fondatori della Società dei Nove Musi, un cenacolo di intellettuali. Compì
numerosi viaggi in Spagna, Germania, Francia e Regno Unito mentre nella sua
formazione culturale cresceva l'interesse per gli studi storici e letterari, in
particolare per la poesia di Carducci, e per le opere di Sanctis. Attraverso
Antonio Labriola con cui era rimasto in contatto, si interessò al marxismo, di
cui però criticava come astorica la visione che dava del capitalismo. Da Marx
risalì alla filosofia hegeliana che cominciò ad apprezzare e ad
approfondire. La fondazione de La critica e la vita politica Uscì il
primo numero della rivista La critica, con la collaborazione di Gentile, e
stampata a sue spese, allorché subentrò l'editore Laterza. Venne nominato per
censo senator e fu Ministro della Pubblica Istruzione nel quinto e ultimo
governo Giolitti. Con regio decreto dgli
fu concesso il titolo di "Nobile". Elaborò una riforma della pubblica
istruzione che fu poi ripresa e attuata da Gentile. Posizione nella prima
guerra mondiale «Ardenti e vivacissime furono in quei dieci mesi le polemiche
tra «interventisti» e «neutralisti», come erano chiamati non si può dire che
[gli interventisti] avessero torto, come non si può dire che l'avessero i loro
oppositori, perché dissidî di questa sorta non sono materia, nonché di
tribunali, neppure di critica scientifica, e hanno questo carattere entrambe le
tesi, appassionatamente difese, sono necessarie per l'effetto politico e, come
suona il motto, che, se una delle due opposizioni non ci fosse, converrebbe
inventarla. Più di un cosiddetto «neutralista» si sentiva talvolta scosso dalla
tesi avversaria e inclinava ad accoglierla, e il medesimo accadeva a più di un
«interventista. Storia d'Italia Bari, Laterza) Il filosofo, nella scelta tra le
due posizioni, neutralismo o interventismo alla prima guerra mondiale, si
rivolse alla prima; ma il suo era un neutralismo che contemperava le posizioni
liberali con la possibilità dell'intervento (rimase comunque poco favorevole
alla guerra, e, non obbligato ad arruolarsi, per limiti di età - 49 anni -, non
andò mai al fronte a differenza di altri intellettuali come D'Annunzio,
volontario. Scriveva a Bigot che era pronto ad accettare quella guerra che
saremo costretti a fare, quale che sia, anche contro la Germania, ad accettarla
come una dolorosa necessità, risoluto a non provocarla per ragioni
antinazionali e settarie» (C., Epistolario, Napoli) Il rapporto con il
fascismo L'iniziale fiducia al governo fascista C. nella sua biblioteca
Inizialmente C. fu vicino al fascismo. Ascoltò e applaudì il discorso di MUSSOLINI
al teatro San Carlo di Napoli, durante l'adunata preparatoria per la marcia su
Roma. In occasione delle votazioni al Senato, successive all'uccisione del deputato
socialista Matteotti, fu tra i 225 senatori che votarono la fiducia al governo MUSSOLINI,
insieme a Gentile e Morello. In seguito C. spiegò in un'intervista che il suo
non era stato un voto fascista, ha votato a favore del regime perché pensava
che MUSSOLINI, se sostenuto, puo esser sottratto all'estremismo fascista a cui
C. fa risalire la responsabilità del delitto Matteotti. Abbiamo deciso di
dare il voto di fiducia. Ma, intendiamoci, fiducia condizionata. Nell'ordine
del giorno che abbiamo redatto è detto esplicitamente che il senato si aspetta
che il Governo restauri la legalità e la giustizia, come del resto Mussolini ha
promesso nel suo discorso. A questo modo noi lo teniamo prigioniero, pronti a
negargli la fiducia se non tiene fede alla parola data. Vedete: il fascismo è stato
un bene; adesso è divenuto un male, e bisogna che se ne vada. Ma deve andarsene
senza scosse, nel momento opportuno, e questo momento potremo sceglierlo noi,
giacché la permanenza di Mussolini al potere è condizionata al nostro
beneplacito. C. scrive su Il Giornale d'Italiache il regime mussoliniano «non
poteva e non doveva essere altro che un ponte di passaggio per la restaurazione
di un più severo regime liberale». La rottura e il Manifesto degli
intellettuali antifascisti Il filosofo abruzzese si allontanò definitivamente
dal regime allorché, su sollecitazione di Amendola, scrisse il Manifesto degli
intellettuali antifascisti in replica al Manifesto degli intellettuali fascisti
di Gentile. Lo scritto, pubblicato sul quotidiano Il Mondo, tra l'altro
sosteneva. Contaminare politica e letteratura, politica e scienza è un errore,
che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli
violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi
nemmeno un errore generoso. E non è nemmeno, quello degli intellettuali
fascisti, un atto che risplende di molto delicato sentire verso la patria, i
cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti
(come, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari
interessi politici delle proprie nazioni. In che mai consisterebbe il nuovo
evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle
parole del verboso manifesto; e, d'altra parte, il fatto pratico, nella sua
muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro
miscuglio di appelli all'autorità e di demagogismo, di proclamata riverenza
alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi
muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di
miscredenza e di corteggiamenti alla Chiesa cattolica, di aborrimenti della
cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di
sdilinquimenti mistici e di cinismo. Per questa caotica e inafferrabile
"religione" noi non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra
vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l'anima dell'Italia che
risorgeva, dell'Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla
verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di
zelo per l'educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà,
forza e garanzia di ogni avanzamento.» Secondo Norberto Bobbio, il
Manifesto degli intellettuali antifascisti sancì l'assunzione da parte di C.
del ruolo di coscienza morale dell'antifascismo italiano» e di «filosofo della
libertà. Lo scritto segnò inoltre la rottura dell'amicizia con Gentile, a causa
delle ormai inconciliabili divergenze filosofiche e politiche. In seguito Croce
fu l'unica voce fuori dal coro tollerata dal regime. Il ruolo di Croce come
coscienza dell'antifascismo è testimoniato, tra gli altri, da Primo Levi, che
ricordò che negli anni del fascismo e della guerra, segnati per gli
antifascisti da smarrimento morale, isolamento e incertezze, solo «La Bibbia, C.,
la geometria, la fisica, ci apparivano fonti di certezza. Il mio liberalismo è
cosa che porto nel sangue, come figlio morale degli uomini che fecero il
Risorgimento italiano, figlio di Sanctis e degli altri che ho salutato sempre
miei maestri di vita. La storia mi metterà tra i vincitori o mi getterà tra i
vinti. Ciò non mi riguarda. Io sento che ho quel posto da difendere, che pel
bene dell'Italia quel posto dev'essere difeso da qualcuno, e che tra i qualcuni
sono chiamato anch'io a quell'ufficio. Ecco tutto.» (Lettera a Alfieri)
Rifiutò di entrare nell'Accademia d'Italia, e dopo un breve appoggio al
movimento antifascista Alleanza Nazionale per la Libertà, fondato dal poeta
Lauro De Bosis, si allontanò dalla vita politica, continuando peraltro ad
esprimere liberamente le sue idee politiche, senza che il regime fascista lo
censurasse, almeno esplicitamente. L'unico atto di ostilità violenta ed
esplicita compiuto dal fascismo verso C. fu la devastazione della sua casa
napoletana. Negl’anni successivi, quelli della sua affermazione e del
cosiddetto consenso, il fascismo ritenne C. un avversario poco temibile,
sostenitore com'era della tesi di un fascismo inteso come malattia morale
inevitabilmente superata dal progresso della storia. Inoltre la fama di C.
presso l'opinione pubblica europea lo proteggeva da interventi oppressivi da
parte del regime. Ha altresì blandi rapporti culturali con intellettuali in
qualche modo vicini al regime, anche se marginali, come un carteggio epistolare
con il tradizionalista Julius Evola, a cui espresse l'apprezzamento formale per
due opere, da pubblicare presso Laterza con il benestare dello stesso C., Saggi
sull'idealismo magico, Teoria dell'individuo assoluto e, successivamente, La
tradizione ermetica. Il governo fascista richiese ai docenti delle università
italiane un atto di formale adesione al regime in base all'articolo del regio
decreto (il cosiddetto giuramento di fedeltà al fascismo). A seguito di tale
provvedimento, i docenti avrebbero dovuto giurare di essere fedeli non solo
alla patria, secondo quanto già imposto dal regolamento generale universitario,
ma anche al regime fascista. In quell'occasione, C. incoraggiò professori come
Calogero e Einaudi a rimanere all'università, «per continuare il filo
dell'insegnamento secondo l'idea di libertà. Se la sua figura fu importante per
l'area politica del liberalismo, la sua scuola ha durante tutto il ventennio
fascista una platea assai più ampia di allievi: del resto, già prima dalle sue
idee avevano tratto esempio anche Gramsci e il gruppo comunista de L'Ordine
Nuovo.Polemica sulla Giornata della fede La non adesione di C. al fascismo
parve messa in discussione dal gesto compiuto durante la Guerra d'Etiopia,
quando il filosofo, in occasione della Giornata della fede dona la propria
medaglietta da senatore accompagnandola con questa secca lettera al presidente
del Senato. Eccellenza, quantunque io non approvi la politica del Governo, ho accolto
in omaggio al nome della Patria, l'invito dell'E.V., e ho rimesso alla questura
del Senato la mia medaglia, Il gesto suscita negl’ambienti dell'antifascismo
italiano, in patria e all'estero, sorpresa, dolore e polemiche che colpirono
dolorosamente C.. Al termine di un drammatico colloquio con Ceva, inviata a
sostenere il punto di vista degl’antifascisti, dopo un iniziale tentativo di
giustificazione, C. affermò. Dica che io sono sempre lo stesso, che sono sempre
con loro. Il regime varò la legislazione anti-semita. C. non era presente
nell'aula del Senato, quale forma di protesta. Egli fu uno dei pochi a
esprimersi contro di esse a livello pubblico. Il governo invia a tutti i
professori universitari e i membri delle accademie un questionario da compilare
ai fini della classificazione "razziale". Tutti gl’interpellati
risposero. L'unico intellettuale non ebreo che rifiuta di compilare il
questionario è Croce. L'unico effetto della richiesta dichiarazione
sarebbe di farmi arrossire, costringendo me, che ho per cognome CROCE, all'atto
odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando
questa gente è perseguitata. Il filosofo, invece di restituire compilata la
scheda, invia una lettera al presidente dell'Istituto veneto di scienze,
lettere ed arti, in cui scrive sarcasticamente. Gentilissimo collega, ricevo
oggi qui il questionario che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso,
io non l'avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. Ha
senso domandare a un uomo che ha circa sessant'anni di attività letteraria e ha
partecipato alla vita politica del suo paese, dove e quando esso sia nato e
altre simili cose? (C. a Messedaglia, Presidente dell’Istituto Veneto di
Scienze, Lettere e Arti di Venezia, in A. CAPRISTO, L’espulsione degl’ebrei
dalle accademie italiane, Torino, Zamorani. C. è quindi espulso da quasi tutte
le accademie di cui è membro, comprese l'Accademia Nazionale dei Lincei e la
Società Napoletana di Storia Patria. All'Istituto Veneto di Scienze,
Lettere ed Arti, unica accademia che lo mantenne socio, alla fine della guerra
C. riconosce il merito di non averlo espulso durante il regime fascista. Dopo
aver denunciato la persecuzione degl’ebrei, C. però critica anche gli
atteggiamenti degl’ebrei stessi, sia quelli che hanno aderito al fascismo, sia
quelli che vivevano separati, ritenendo la specificità ebraica come pericolosa
per gl’ebrei stessi. Quando s'iniziò l'infame persecuzione contro gl’ebrei, io
ebbi, con un brivido di orrore, la piena rivelazione della sostanziale
delinquenza che è nel fascismo, come chi fosse costretto ad assistere allo
sgozzamento a freddo di un innocente e mi misi di lancio dalla loro parte con
tutto l'esser mio per fare quello che per loro si poteva a lenire o diminuire
il loro strazio. Molti danni e molte iniquità compiute dal fascismo non si
possono ora riparare per essi come per altr’italiani che le soffersero, né essi
vorranno chiedere privilegi o preferenze, e anzi il loro studio dovrebbe essere
di fondersi sempre meglio con gl’altri italiani; procurando di cancellare
quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli e che,
come ha dato occasione e pretesto in passato alle persecuzioni, è da temere ne
dia ancora in avvenire l'idea di popolo eletto, che è tanto poco saggia che la
fece sua Hitler, il quale, purtroppo, aveva a suo uso i mezzi che lo resero
ardito a tentarne la folle attuazione. Essi disconoscono le premesse storiche --
Grecia, ROMA, Cristianità -- della civiltà di cui dovrebbero venire a fare
parte. Lettera a Merzagora) Espresse quindi una posizione di perplessità per il
sionismo. Il rientro nella vita politica Dopo la caduta del regime C. rientra
in politica, accettando la nomina a presidente del Partito Liberale Italiano.
Durante la Resistenza cercò di mediare tra i vari partiti antifascisti e fu
Ministro senza portafoglio nel secondo governo Badoglio, benché non stimasse né
il Maresciallo né il re Vittorio Emanuele III, a causa della loro compromissione
col fascismo. Subito dopo la liberazione di Roma entrò a far parte del secondo
governo Bonomi, sempre come ministro senza portafoglio, ma diede le dimissioni
qualche mese dopo. Egli avrebbe
preferito l'abdicazione diretta del sovrano in favore del piccolo Vittorio
Emanuele (con rinuncia di Umberto al trono), la reggenza a Badoglio e
l'incarico di capo del governo a Carlo Sforza, ma i rappresentanti del Regno
Unito si opposero. Al referendum sulla forma dello Stato votò per la monarchia,
inducendo tuttavia il Partito Liberale (di cui rimane presidente) a non
schierarsi, per far sì che prevalesse sulla questione piena ed effettiva
libertà di scelta, e dichiarando in seguito: «il buon senso fece considerare a
quei milioni di votanti favorevoli alla monarchia, che, se anche essi avessero
riportato la maggioranza legale, una monarchia con debole maggioranza non
avrebbe avuto il prestigio e l'autorità necessaria, e perciò meglio valeva
accettare la forma nuova della Repubblica e procurar di farla vivere nel
miglior modo, apportandovi lealmente il contributo delle proprie forze. C. con
Altavilla e il Capo provvisorio dello Stato, Concetti che C. aveva, nella loro
sostanza, già espresso; ben prima che Umberto II, nel messaggio ribadisse tale
indicazione. Eletto all'Assemblea Costituente, non accettò la proposta di
essere candidato a Capo provvisorio dello Stato, così come in seguito rifiutò
la proposta, avanzata da Luigi Einaudi, di nomina a senatore a vita. Si oppose
strenuamente alla firma del Trattato di pace, con un accorato e famoso
intervento all'Assemblea costituente, ritenendolo indecoroso per la nuova
Repubblica. Fonda a Napoli l'Istituto italiano per gli studi storici
destinando per la sede un appartamento di sua proprietà, accanto alla propria
abitazione e biblioteca nel Palazzo Filomarino dove oggi ha sede la Fondazione
Biblioteca C. Presidente dell'associazione PEN International e, negli stessi
anni, entrò a far parte del Consiglio di Amministrazione dell'Istituto Suor Orsola
Benincasa di Napoli. Per un ictus cerebrale rimase semiparalizzato e si ritirò
in casa continuando a studiare: morì seduto in poltrona nella sua biblioteca. I
funerali solenni si tennero nella sua Napoli e le sue spoglie tumulate nella
tomba di famiglia al Cimitero di Poggioreale. Il rapporto con la cultura
cattolica «Pure filosofo quale sono io stimo che il più profondo rivolgimento
spirituale compiuto dall'umanità sia stato il cristianesimo, e il cristianesimo
ho ricevuto e serbo, lievito perpetuo, nella mia anima. Il rapporto di C. con
la cultura cattolica varia nel corso del tempo. I filosofi idealisti, come C. e
Gentile, avevano esercitato assieme alla cultura cattolica una comune critica
al positivismo ottocentesco. Alla fine degli anni venti vi era stato un
progressivo allontanamento della cultura laica e idealistica dalla cultura
cattolica. Croce, pur non essendo un anticlericale militante, riteneva
importante la separazione liberale tra culto e stato, propugnata da CAVOUR. Il
culto con i Patti Lateranensi ha ormai raggiunto un rapporto equilibrato con le
istituzioni statali italiane distaccandosi quindi dalle posizioni politiche
antifasciste dell'idealismo crociano. C. fu contrario al Concordato e dichiara
apertamente in Senato che accanto o di fronte ad uomini che stimano Parigi
valer bene una messa, sono altri per i quali l'ascoltare o no una messa è cosa
che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza. Mussolini
gli rispose dichiarandolo «un imboscato della storia», e accusando il filosofo
di passatismo e di viltà di fronte al progresso storico. Quando C. scrive la
Storia d'Europa, il Vaticano critica aspramente l'autore che difendeva le
filosofie esaltanti una religione della libertà senza Dio. Il Sant'Uffizio pose
all'Indice questo saggio ma, non ottenendo negli anni successivi da C. un qualsiasi
ripensamento, ninserì nell'elenco dei libri proibiti tutti i suoi scritti. La
polemica anti-concordataria crociana vide l'adesione del giovane filosofo
nonviolento e liberalsocialista Aldo Capitini che a Firenze, a casa di Luigi
Russo, aveva avuto modo di conoscere C., a cui aveva consegnato un pacco di
dattiloscritti che il filosofo napoletano aveva apprezzato e fatto pubblicare
nel gennaio dell'anno seguente presso l'editore Laterza di Bari con il titolo
Elementi di un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi diventarono uno
tra i principali riferimenti letterari della gioventù antifascista. La
posizione personale di C. nei confronti della religione cattolica è ben
espressa nel suo saggio Perché non possiamo non dirci "cristiani". Il
termine "cristiani" inserito nel titolo tra virgolette non voleva
indicare l'adesione a un credo confessionale, bensì la consapevolezza di
un'inevitabile appartenenza culturale rappresentata nella sua particolare
prospettiva dal fenomeno del cristianesimo: non si trattava di una professione
di fede cristiana dovuta a un rinnegamento dell'agnosticismo come volle fare
intendere la propaganda fascista, ma di riconoscere il valore storico e di
«rivolgimento spirituale»: «Il cristianesimo è stato la più grande
rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e
profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo
attuarsi, che non maraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un
miracolo, una rivelazione dall'alto, un intervento di Dio nelle cose umane, che
da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo. Tutte le altre
rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana,
non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate.
Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell'arte, della
filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto: per la capacità dei
princìpi cristiani di contrastare il neopaganesimo e l'ateismo propagandati dal
nazismo e dal comunismo sovietico. Sono profondamente convinto e persuaso che
il pensiero e la civiltà moderna sono cristiani, prosecuzione dell'impulso dato
da Gesù e da Paolo. Su di ciò ho scritto una breve nota, di carattere storico,
che pubblicherò appena ne avrò lo spazio disponibile. Del resto non sente Ella
che in questa terribile guerra mondiale ciò che è in contrasto è una concezione
ancora cristiana della vita con un'altra che potrebbe risalire all'età
precristiana, e anzi pre-ellenica e pre-orientale, e riattaccare quella
anteriore alla civiltà, la barbarica violenza dell'orda? C., in sintesi, vede
nel cristianesimo il fondamento storico della civiltà occidentale ma non
ripudia l'immanentismo radicale del suo pensiero che vede nella religione un
momento della realizzazione storica dello spirito che si avvia, superandolo, ad
una più alta sintesi. All'Assemblea Costituente lotterà contro l'inserimento,
voluto dalla DC, e dal comunista Togliatti, dei Patti Lateranensi nel secondo
comma dell'articolo della Costituzione della Repubblica Italiana, giudicandolo
come "sfacciata prepotenza pretesca". In vista delle elezioni
politiche, tuttavia, si accordò con il segretario della Democrazia Cristiana,
Alcide De Gasperi, per dare vita a un manifesto comune, Europa, cultura e
libertà, contro i totalitarismi passati e presenti. A seguito della vittoria
della DC, replicò severamente ai laici benpensanti schierati col Fronte
Popolare che sbeffeggiavano il ceto umile e contadino di cui era composto in
prevalenza l'elettorato cattolico: «Beneditele quelle beghine di cui
ridete, perché senza il loro voto e il loro impegno oggi non saremmo liberi. Lasciando
disposizioni per la sua morte (che avverrà tre anni dopo) scriverà invece che
la sensibilità religiosa della moglie cattolica le consentirà di evitare che un
sacerdote tenti di "redimerlo" all'ultimo minuto, perché è "cosa
orrenda profittare delle infermità per strappare a un uomo una parola che sano
egli non avrebbe mai detta". C. fu
legato sentimentalmente e convisse con Angelina Zampanelli, fino alla morte di
lei. La coppia prese alloggio a Palazzo Filomarino, a Napoli. Angelina,
sofferente di cuore, morì poco più che quarantenne a Raiano, dove insieme a
Croce ella soggiornava spesso d'estate, presso il Palazzo Rossi-Sagaria, ospiti
della cugina del filosofo, Petroni, moglie di Rossi. C. sposa a Torino, con
rito religioso e poi civile, Adele Rossi, da cui ha V figli: Giulio, Elena,
Alda, Lidia (moglie dello scrittore e dissidente anticomunista polacco Grudziński)
e Silvia. Il filosofo, oggi, deve non già fare il puro filosofo, ma esercitare
un qualche mestiere, e in primo luogo, il mestiere dell'uomo.» (C.,
Lettere a Vittorio Enzo Alfieri, Sicilia Nuova Editrice, Milazzo. L'opera di
Croce può essere suddivisa in tre periodi: quello degli studi storici,
letterari e il dialogo con il marxismo, quello della maturità e delle opere
filosofiche sistematiche e quello dell'approfondimento teorico e revisione
della filosofia dello spirito in chiave storicista. Come idealista, ritiene che
la realtà sia quella che viene concepita dal soggetto, in quanto riflesso della
sua idea e interiorità, ed è convinto che la razionalità e la libertà emergano
nella storia, pur tra immani difficoltà. La filosofia idealista riconduce
totalmente l'essere al pensiero, negando esistenza autonoma alla realtà
fenomenica, ritenuta il riflesso di un'attività interna al soggetto;
l'idealismo, come in Hegel, implica una concezione etica fortemente rigorosa,
come ad esempio nel pensiero di Fichte che è incentrato sul dovere morale
dell'uomo di ricondurre il mondo al principio ideale da cui esso ha origine; in
C. questo ideale è la libertà umana. Definito da Gramsci "papa laico della
cultura italiana", a sua filosofia ha goduto di enorme credito nella
cultura italiana del XX secolo, perlomeno fino agli anni settanta e ottanta, in
cui si sono levate molte critiche verso il suo approccio, ritenuto superato. Croce
fu un intellettuale rispettato anche al di fuori dell'Italia: la rivista Time
gli dedicò la copertina e contestualmente alla rivalutazione del pensiero
crociano, si è registrato l'interesse della collana editoriale di Stanford,
mentre la rivista statunitense di politica internazionale Foreign Affairs lo
inserì tra i pensatori più attuali, accanto a intellettuali come Berlin,
Fukuyama e Trotsky. Parallelamente allo studio del marxismo, C. approfondisce
anche il pensiero di Hegel; secondo entrambi la realtà si dà come spirito che
continuamente si determina e, in un certo senso, si produce. Lo spirito è
quindi la forza animatrice della realtà, che si auto-organizza dinamicamente
divenendo storia secondo un processo razionale. Da Hegel egli recupera soprattutto
il carattere razionalistico e dialettico in sede gnoseologica: la conoscenza si
produrrebbe allora attraverso processi di mediazione dal particolare
all'universale, dal concreto all'astratto, per cui C. afferma che la conoscenza
è data dal giudizio storico, nel quale universale e particolare si fondono
recuperando la sintesi a priori di Kant e lo storicismo di VICO, suo altro
filosofo di riferimento. Da destra, Giovanni Laterza, Jacini, C. e Secly. Il
divenire e la logica della dialettica, in Hegel e in Marx, è esso stesso verità
in movimento; anche per C. la verità è dialettica, ma occorre esprimere un
giudizio storico ed esistono delle regole che arginano la pretesa
giustificativa di ogni fenomeno: in Croce lo Spirito - in quanto intelletto
umano - si realizza nella storia ma nel rispetto della libertà. Per questo ogni
fatto è quindi calato nella realtà storica, ma questo non può giustificare, con
la scusa del divenire e del progresso, aspetti deplorevoli come, ad esempio, il
totalitarismo fascista o comunista, il primo come necessario (concezione di
Gentile e della sua idea di realtà come atto puro di pensare e agire) e il
secondo come fase storica obbligata (seguendo il concetto marxiano della
dittatura del proletariato, di cui il filosofo tedesco parla nella sua teoria
"razionalista" del materialismo storico). Quindi il materialismo
dialettico di Engels e quello storico di Marx sono da ritenersi errati. In
questo, il suo storicismo si differenzia dal pensiero di un altro filosofo
liberale, Popper, secondo cui dialettica e storicismo finiscono invece per
generare quasi sempre totalitarismo (concezione assai diffusa nel pensiero del
liberalismo novecentesco). Al contrario di Popper e Arendt, per C. la radice
totalitaria è proprio nell'antistoricismo, cioè nel rifiuto dello storicismo
stesso. Il neoidealismo entrò in crisi, sostituito da nuove filosofie come
l'esistenzialismo e la fenomenologia; sempre in nome del libertà e
dell'umanesimo, C. critica l'esistenzialista Heidegger, divenuto poi
anti-umanistico e colpevole di accondiscendenza verso il nazismo, definendolo
anche "un Gentile più dotto e più acuto, ma sostanzialmente della stessa
pasta morale. Esprime così un tagliente
giudizio sul filosofo di Essere e tempo. Scrittore di generiche sottigliezze,
arieggiante a un Proust cattedratico, egli che, nei suoi libri non ha dato mai
segno di prendere alcun interesse o di avere alcuna conoscenza della storia,
dell'etica, della politica, della poesia, dell'arte, della concreta vita
spirituale nelle sue varie forme - quale decadenza a fronte dei filosofi, veri
filosofi tedeschi di un tempo, dei Kant, degli Schelling, degli Hegel! -, oggi
si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la
storia nega, per il quale il moto della storia viene rozzamente e
materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come
celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l'unico e
vero attore, l'umanità. E così si appresta o si offre a rendere servigi
filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la
filosofia.» (Conversazioni Critiche, Serie Quinta, Bari, Laterza. L'asserzione
di Hegel che "la storia sia storia di libertà" viene da Croce
inquadrata nella sua concezione dialettica della libertà vista nel suo iniziale
nascere, nel successivo crescere e infine nel raggiungimento di uno stadio
finale e definitivo di maturità. C. fa proprio questo detto hegeliano chiarendo
però che non si vuole «assegnare alla storia il tema del formarsi di una
libertà che prima non era e che un giorno sarà, ma per affermare la libertà
come l'eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia. Come
tale essa è per un verso, il principio esplicativo del corso storico e, per
l'altro, l'ideale morale dell'umanità». I popoli e gli individui anelano sempre
alla libertà, e come dice Hegel «ciò che è razionale è reale» (cioè la ragione
concepisce quello che può diventare reale) e «ciò che è reale è razionale»
(cioè esiste un'intrinseca razionalità, anche minima, in ogni fenomeno storico,
anche se non tutto il reale è ovviamente razionale). Alcuni storici, senza ben
rendersi conto di quello che scrivono, sostengono che ormai la libertà ha
abbandonato la scena della storia. Ma affermare che la libertà è morta vorrebbe
dire che è morta la vita. Non esiste nella storia un ideale che possa
sostituire quello della libertà «che è l'unica che faccia battere il cuore
dell'uomo, nella sua qualità di uomo». Ciò significa che la libertà non è una
fase di presa di coscienza che conduce allo Stato etico o al socialismo,
venendo superata, ma è essa stessa la verità nel divenire, non una fase. Egli
critica Hegel, poiché secondo lui il filosofo ha concepito la dialettica in
modo riduttivo, ovvero semplicemente come dialettica degli opposti, mentre
secondo C. sussiste anche una logica dei distinti: non ogni negazione è infatti
opposizione, ma può essere semplice distinzione. Ciò significa che certi atti
ed eventi devono essere sempre considerati appunto distinti rispetto ad altri
ordini di atti ed eventi, e non ad essi opposti. Elabora, quindi, un vero e
proprio sistema, da lui denominato la filosofia dello spirito. Inoltre, la
prima importante differenza con Hegel è che nel sistema crociano non vi rientra
né la religione, né la natura. La religione sarebbe infatti un complesso
miscuglio di elementi poetici, morali e filosofici che le impediscono di
presentarsi come forma autonoma dello Spirito. La natura poi non è altro che
l'oggetto "mascherato" dell'attività economica, è il frutto della
considerazione economica diretta al mondo. Qui la realtà in quanto attività
(ovvero produzione dello spirito o della storia) è articolata in quattro forme
fondamentali, suddivise per modo (teoretico o pratico) e grado (particolare o
universale): estetica (teoretica - particolare), logica (teoretica-universale),
economia (pratica - particolare), etica (pratica - universale). La relazione
tra queste quattro forme opera la suddetta logica dei distinti, mentre
all'interno di ognuna di esse si ha la dialettica degli opposti. All'interno
dell'estetica infatti si ha opposizione dialettica tra bello e brutto,
all'interno della logica, l'opposizione è tra vero e falso; nella economia tra
utile e inutile e infine nell'etica tra bene e male. Estetica C. scrisse
anche importanti opere di critica letteraria (saggi su Goethe, Ariosto,
Shakespeare e Corneille, "La letteratura della nuova Italia" e
"La poesia di Dante"). Egli si mosse nell'ambito della sua teoria
estetica che mirava alla scoperta delle motivazioni profonde dell'ispirazione
artistica. Quest'ultima era ritenuta tanto più valida quanto più coerente con
le categorie di bello-brutto. La prima parte della teoria estetica la
ritroviamo in opere come Estetica come scienza dell'espressione e linguistica
generale, Breviario di estetica e Aesthetica in nuce. In seguito modificò
questa iniziale teoria stabilendo per la storia un nesso con la filosofia.
L'estetica, dal significato originario del termine aisthesis (sensazione), si
configura in primo luogo come attività teoretica relativa al sensibile, si
riferisce alle rappresentazioni e alle intuizioni che noi abbiamo della
realtà. Come conoscenza del particolare l'intuizione estetica è la prima
forma della vita dello Spirito. Prima logicamente e non cronologicamente poiché
tutte le forme sono presenti insieme nello spirito. L'arte, come aspetto
dell'Estetica, è una forma della vita spirituale che consiste nella conoscenza,
intuizione del particolare che: come forma dello spirito, come creatività
non è sensazione, conoscenza sensibile che è un aspetto passivo dello spirito
rispetto ad una materia oscura e ad esso estranea; come conoscenza (prima forma
dell'attività teoretica) non ha a che fare con la vita pratica. Bisogna quindi
respingere tutte le estetiche che abbiano fini edonistici, sentimentali e
moralistici; quale espressione di un valore autonomo dello spirito, l'arte non
può né deve essere giudicata secondo criteri di verità, moralità o godimento;
come intuizione pura va distinta dal concetto che è conoscenza dell'universale:
compito proprio della filosofia. L'arte può essere definita quindi come
intuizione-espressione, due termini inscindibili per cui non è possibile
intuire senza esprimere né è possibile espressione senza intuizione. Ciò che
l'artista intuisce è la stessa immagine (pittorica, letteraria, musicale ecc.)
che egli per ispirazione crea da una considerazione del reale, nel senso che
l'opera artistica è l'unità indifferenziata della percezione del reale e della
semplice immagine del possibile. La distinzione tra arte e non arte risiede nel
grado di intensità dell'intuizione-espressione. Tutti noi intuiamo ed
esprimiamo: ma l'artista è tale perché ha un'intuizione più forte, ricca e
profonda a cui sa far corrispondere un'espressione adeguata. Coloro che
sostengono di essere artisti potenziali poiché hanno delle intense intuizioni
ma che non sono capaci di tradurre in espressioni, non si rendono conto che in
realtà non hanno alcuna intuizione poiché se la possedessero veramente essa si
tradurrebbe in espressione. L'arte non è aggiunta di una forma ad un contenuto
ma espressione, che non vuol dire comunicare, estrinsecare, ma è un fatto
spirituale, interiore come l'atto inscindibile da questa che è l'intuizione.
Nell'estetica dobbiamo far rientrare anche quella forma dell'espressione che è
il linguaggio che nella sua natura spirituale fa tutt'uno con la poesia.
L'estetica quindi come una «linguistica in generale». Dall'estetica deriva la
critica letteraria crociana, espressa in molti saggi. Della logica, Croce
tratta essenzialmente nella Logica come scienza del concetto puro); essa
corrisponde al momento in cui l'attività teoretica non è più affidata alla sola
intuizione (all'ambito estetico), ma partecipa dell'elemento razionale, che
attinge dalla sfera dell'universale. Il punto di arrivo di questa attività è
l'elaborazione del concetto puro, universale e concreto che esprime la verità
universale di una determinazione. La logica crociana è anche storica, nella
misura in cui essa deve analizzare la genesi e lo sviluppo (storico) degli
oggetti di cui si occupa. Il termine logica in C. assume quindi un significato
più vicino al termine dialettica ovvero ricerca storiografica. In genere, la
Logica di C. è lontana da criteri scientifico-razionali, e si ispira ai metodi
dell'immaginazione artistica e dell'eleganza estetico-letteraria, nei quali il
filosofo raggiunge risultati eccellenti. Di carattere decisamente diverso è
invece la filosofia delle scienze fisiche, matematiche e naturali delle quali C.
non si occupa affatto nei suoi studi. Del resto, come segnala Geymonat nel suo
Corso di filosofia - immagini dell'uomo, la vera indubbia grandezza di C. va
cercata assai più nella sua opera di storiografo, di critico letterario, ecc.,
che non nella sua opera di filosofo. Gentile ai tempi del direttorato alla
Scuola normale di Pisa. In ogni caso la logica e la filosofia della scienza è
stata sviluppata in Italia da altre correnti di pensiero contemporaneo a quello
crociano, con studiosi fra quali Peano e lo stesso Geymonat. Un orientamento
parzialmente diverso ebbe invece Giovanni Gentile che, pur criticando gli
eccessi del positivismo, intrattenne anche rapporti con matematici e fisici
italiani e cercò di instaurare un rapporto costruttivo con la cultura
scientifica. Invece C. ha con la logica e la scienza un rapporto difficile. La
sua posizione portò in Italia nella prima metà del Novecento ad uno scontro
dialettico fra due culture contrapposte: quella artistico-letteraria e quella
tecnico-scientifica. Il rapporto conflittuale con le scienze matematiche e
sperimentali Un caso emblematico del giudizio di C. nei confronti della
matematica e delle scienze sperimentali è la sua nota diatriba con il
matematico e filosofo della scienza Enriques, avvenuta in seno al congresso
della Società Filosofica Italiana, fondata e presieduta dallo stesso Enriques.
Questi sostene che una filosofia degna di una nazione progredita non potesse
ignorare gli apporti delle più recenti scoperte scientifiche. La visione di
Enriques mal si confaceva a quella idealistica di C. e Gentile, come pure a
gran parte degli esponenti della filosofia italiana di allora, per lo più
formata da idealisti crociani. C., in particolare, rispose ad
Enriques[84], liquidando in modo deciso - "antifilosofico" secondo
Enriques - la proposta di considerare la scienza come un valido apporto alle
problematiche filosofiche e sostenendo, anzi, che matematica e scienza non sono
vere forme di conoscenza, adatte solo agli «ingegni minuti» degli scienziati e
dei tecnici, contrapponendovi le «menti universali», vale a dire quelle dei
filosofi idealisti, come C. medesimo. I concetti scientifici non sono veri e
propri concetti puri ma degli pseudoconcetti, falsi concetti, degli strumenti
pratici di costituzione fittizia. La realtà è storia e solo storicamente
la si conosce, e le scienze la misurano bensì e la classificano come è pur
necessario, ma non propriamente la conoscono né loro ufficio è di conoscerla
nell'intrinseco. Sul tema C. sostenne, tra l'altro, che: «Gli uomini di
scienza [...] sono l'incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla
sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all'organismo
filosofico-storico.» (C. da Il risveglio filosofico e la cultura
italiana, A proposito dello sviluppo della logica matematica e
dell'introduzione dei formalismi simbolici, ad opera di matematici e filosofi
quali Frege, Peano, Russell, C. dichiara. I nuovi congegni della logica
matematica sono stati offerti sul mercato. E tutti, sempre, li hanno stimati
troppo costosi e complicati, cosicché non sono finora entrati né punto né poco
nell'uso. Vi entreranno nell'avvenire? La cosa non sembra probabile e, ad ogni
modo, è fuori della competenza della filosofia e appartiene a quella della
pratica riuscita: da raccomandarsi, se mai, ai commessi viaggiatori che
persuadano dell'utilità della nuova merce e le acquistino clienti e mercati. Se
molti o alcuni adotteranno i nuovi congegni logici, questi avranno provato la
loro grande o piccola utilità. Ma la loro nullità filosofica rimane, sin da
ora, pienamente provata. (C. da Logica come scienza del concetto puro. Anni
dopo, ancora scrive. Le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona
grazia, hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità, ed esse
rassegnatamente, o addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono
concetti di comodo e di pratica utilità, che non hanno niente da vedere con la
meditazione del vero. C. da Indagini su Hegel e e schiarimenti filosofici e
ribadiva come: «Le finzioni delle scienze naturali e matematiche
postulano di necessità l'idea di un'idea che non sia finta. La logica, come
scienza del conoscere, non può essere, nel suo oggetto proprio, scienza di
finzioni e di nomi, ma scienza della scienza vera e perciò del concetto
filosofico e quindi filosofia della filosofia. C. da Indagini su Hegel e schiarimenti
filosofici. Tuttavia ebbe altresì un cordiale e rispettoso scambio epistolare
con Albert Einstein. Secondo diversi storici e filosofi (es. Giorello, Bellone,
Massarenti), l'influenza antiscientifica di C. e di Gentile sarebbe stata
fortemente deleteria sia sul piano dell'istituzione scolastica per gli
orientamenti pedagogici della scuola italiana, che si sarebbe indirizzata
prevalentemente agli studi umanistici considerando quelli scientifici di
secondo piano, sia per la formazione di una classe politica e dirigente che
attribuisse importanza alla scienza e alla tecnica e portando, per conseguenza,
ad un ritardo dello sviluppo tecnologico e scientifico nazionale. La
scuola sarà caratterizzata dal primato dell'umanesimo letterario e in
particolare dell'umanesimo classico. Tutte le istituzioni culturali saranno
improntate al primato delle lettere, della filosofia e della storia. Giorello
nel quarantennale della morte di C. ha scritto che "predicò la religione
della libertà e per questo gli siamo riconoscenti. Ma la sua condanna della
scienza e la sua estetica hanno causato danni gravissimi alla nostra cultura.
Che ora esige riparazione. Lo stesso
Giorello però ha in parte ritrattato l'affermazione, negando che sia da
attribuire a C. il mancato sviluppo scientifico italiano, adducendo che quelle
che lui considerava una "colpa" sarebbero da accreditare maggiormente
alla Chiesa, agli scienziati stessi e alla classe politica, più che
all'idealismo, che trascura le scienze ma nemmeno le ostacola, definendo la
filosofia di Croce «interessante sotto altri profili, ma poco interessante, quando
si parla di scienza. C. riteneva le scienze umane e sociali prive di qualunque
validità e del tutto inutili per lo studio dei fenomeni umani. Lui stesso
dichiarò più volte di non riuscire a capire perché si dovesse sprecare del
tempo a studiare «i cretini, i bambini e i selvaggi, quando esistono pensatori
come Kant. ilosofia della pratica «La legge morale è la suprema forza della
vita e la realtà della Realtà.» (Filosofia della pratica. Etica ed
economica, Laterza, Bari) Economia ed etica vengono trattate in Filosofia della
pratica. Economica ed etica. C. dà molto rilievo alla volizione individuale che
è poi l'economia, avendo egli un forte senso della realtà e delle pulsioni che
regolano la vita umana. L'utile, che è razionale, non sempre è identico a
quello degli altri: nascono allora degli utili sociali che organizzano la vita
degli individui. Il diritto, nascendo in questo modo, è in un certo qual senso
amorale, poiché i suoi obiettivi non coincidono con quelli della morale vera e
propria. Egualmente autonoma è la sfera politica, che è intesa come luogo di
incontro-scontro tra interessi differenti, ovvero essenzialmente conflitto,
quello stesso conflitto che caratterizza il vivere in generale. C. critica
anche l'idea di Stato etico elaborata da Hegel ed estremizzata da Gentile. Lo stato
non ha nessun valore filosofico e morale, è semplicemente l'aggregazione di
individui in cui si organizzano relazioni giuridiche e politiche. L'etica è poi
concepita come l'espressione della volizione universale, propria dello spirito;
non vi è un'etica naturale o un'etica formale, e dunque non vi sono contenuti
eterni propri dell'etica, ma semplicemente essa è l'attuazione dello spirito,
che manifesta in modo razionale atti e comportamenti particolari. Questo
avviene sempre in quell'orizzonte di continuo miglioramento umano. Teoria e
storia della storiografia «La storia non è giustiziera, ma
giustificatrice» C., Teoria e storia della storiografia) La storia e lo
spirito: lo storicismo assoluto VICO Come si evince anche da Teoria e
storia della storiografia la filosofia di C., ispirata soprattutto a VICO, è
fortemente storicista. Per ciò, se volessimo riassumere con una formula la
filosofia di C., questa sarebbe storicismo assoluto, ossia la convinzione che
tutto è storia, affermando che tutta la realtà è spirito e che questo si
dispiega nella sua interezza all'interno della storia. La storia non è dunque
una sequela capricciosa di eventi, ma l'attuazione della Ragione. La conoscenza
storica ci illumina a proposito delle genesi dei fatti, è una comprensione dei
fatti che li giustifica con il suo dispiegarsi. Si delinea in quest'ottica il
compito dello storico: egli, partendo dalle fonti storiche, deve superare ogni
forma di emotività nei confronti dell'oggetto studiato e presentarlo in forma
di conoscenza. In questo modo la storia perde la sua passionalità e diviene
visione logica della realtà. Quanto appena affermato si può evincere dalla
celebre frase «la storia non è giustiziera, ma giustificatrice». Con questo
afferma che lo storico non giudica e non fa riferimento al bene o al male.
Quest'ultimo delinea, inoltre, come la storia abbia anche un preciso orizzonte
gnoseologico, poiché in primo luogo è conoscenza, e conoscenza contemporanea,
ovvero la storia non è passata, ma viva in quanto il suo studio è motivato da
interessi del presente. Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio
storico, conferisce a ogni storia il carattere di "storia
contemporanea", perché, per remoti e remotissimi che sembrino
cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre
riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano
le loro vibrazioni.La storiografia è in seconda istanza utile per comprendere
l'intima razionalità del processo dello spirito, e in terzo luogo essa è
conoscenza non astratta, ma basata su fatti ed esperienze ben precise. Anche se
subisce l'influsso dello storicismo di Voltaire, C. critica gli illuministi e
in generale tutti coloro che pretendono di individuare degli assoluti che
regolino la storia o la trascendano: invece la realtà è storia nella sua
totalità, e la storia è la vita stessa che si svolge autonomamente, secondo i
propri ritmi e le proprie ragioni. La storia è un cammino progressivo per
cui «Nulla c'è al di fuori dello spirito che diviene e progredisce
incessantemente: nulla c'è al di fuori della storia che è per l'appunto questo
progresso e questo divenire. Ma il positivo destinato a superare storicamente
la negatività dei periodi bui della storia non è una certezza su cui adagiarsi:
questa consapevolezza del progresso storico deve essere confermata da un
impegno costante degli uomini in azioni i cui risultati non sono mai scontati
né prevedibili. La storia diviene, allora, anche storia di libertà, dei modi in
cui l'uomo promuove e realizza al meglio la propria esistenza. La libertà si
traduce, sul piano politico, in liberalismo: una sorta di religione della
libertà o di metodo interpretativo della storia e di orientamento dell'azione,
che è imprescindibile nel processo del progresso storico-politico, come si
evince dal volume. La storia come pensiero e come azione Per Croce la libertà
può essere apprezzata solo difendendola costantemente in maniera dialettica,
poiché la storia è necessariamente contrasto. Chi desideri in breve persuadersi
che la libertà non può vivere diversamente da come è vissuta e vivrà sempre
nella storia, di vita pericolosa e combattente, pensi per un istante a un mondo
di libertà senza contrasti, senza minacce e senza oppressioni di nessuna sorta;
e subito se ne ritrarrà inorridito come dall'immagine, peggio che della morte,
della noia infinita.» (La storia come pensiero e come azione). Ciò però
non vuol dire che Croce giustifichi la violenza come necessaria; nello stesso
saggio ammonisce infatti che «la violenza non è forza ma debolezza, né mai può
essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla». La concezione
storica crociana ebbe grande seguito in Italia per molto tempo ed ebbe notevole
influenza anche all'estero, ad esempio per quanto riguarda la formazione del
maggior storico americano del nazismo, George Mosse. C. interviene al congresso
liberale. C. critico letterario, specie quello di Poesia e non poesia, esercitò
molta influenza successiva, quasi una "dittatura intellettuale sulla
cultura italiana, ma ricevette anche critiche: ad esempio furono ritenute
scorrette, "pseudoconcetti" (riprendendo una parola usata da Croce),
poiché non presentate come opinione personale ma come veri canoni estetici,
varie tesi, come la sua opposizione alle novità letterarie europee,
esemplificate dalle stroncature verso gran parte dell'opera di Annunzio,
Pascoli (di cui apprezzò solo alcune parti di Myricae e dei Canti di
Castelvecchio criticando i saggi e le poesie civili), del crepuscolarismo e di Leopardi:
di quest'ultimo salvò, nei Canti, gli idilli e i canti pisano-recanatesi, ma
criticò le poesie "dottrinali" e polemiche (in particolare i
Paralipomeni della Batracomiomachia e la Palinodia al marchese Gino Capponi) e
le opere filosofiche (apprezzò solo una minima parte delle Operette morali),
affermando che quella leopardiana non era vera filosofia, ma solo uno sfogo
poetico in prosa, inferiore comunque alle liriche, dovuto esclusivamente alle
condizioni fisiche e psicologiche del poeta recanatese. C. non considera
Leopardi un vero filosofo, come Schopenhauer, a cui invece riconosce dignità
filosofica ma che non apprezza come individuo poiché ritenuto cinico e
indifferente, ma solo un pensatore, il cui pensiero è essenzialmente al
servizio della sua poesia. Sulla scorta di Sanctis, esprime simpatia umana al
poeta recanatese per lo spirito civile, l'impegno e la lotta eroica contro le
sofferenze fisiche, come espresso nella poesia La Ginestra. Egli fu grande
ammiratore soprattutto del Carducci, in quanto classicista, razionale e
sentimentale al tempo stesso, ma senza scadere nel sentimentalismo irrazionale,
e, a proposito del decadentismo e degli autori di questo movimento, scrisse, in
Del carattere della più recente letteratura italiana: «Nel passare da Carducci
a questi tre, sembra, a volte, come di passare da un uomo sano a tre malati di
nervi». La polemica contro il decadentismo è figlia di quella contro il
positivismo: Croce sostiene che il misticismo decadente, che egli disapprova
come sintomo di vuoto spirituale e filosofico (Croce è razionalista e idealista
al tempo stesso), è figlio dello scientismo positivistico e delle pseudoscienze
da esso generate (come lo spiritismo): «Di qua il positivismo, di fronte il
misticismo; perché questo è figlio di quello: un positivista dopo la gelatina
dei gabinetti, non credo abbia altro di più caro che l'inconoscibile, cioè la
gelatina dove si coltiva il microbio del misticismo». Le opere di Croce
spaziano dalla filosofia, alla storiografia, all'aneddotica, alla critica
letteraria e all'erudizione storica. Qui si indicano le più importanti. Per un
elenco completo si veda L'opera di Benedetto Croce, bibliografia a cura di S.
Borsari, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, I principi
dell'estetica crociana, oltre ad essere formulati in opere organiche, trovarono
anche applicazione critica in prefazioni e curatele di opere altrui. Tale è, ad
esempio, la prefazione all'opera di Parodi, Poesia e letteratura: conquista di
anime e studi di critica, pubblicata postuma da Laterza, a cura di C.. Il
filosofo napoletano collaborò inoltre con numerosi articoli su vari argomenti
pubblicati su molti giornali e riviste stranieri e italiani (Cfr. Panetta,
Settant'anni di militanza: C., tra riviste e quotidiani) Ad esempio la sua
collaborazione con il quotidiano Il Resto del Carlino dura per più di 40 anni. Filosofia
dello spirito Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale
Logica come scienza del concetto puro Filosofia della pratica. Economica ed
Etica Teoria e storia della storiografia; Problemi di estetica e contributi
alla storia dell'estetica italiana La filosofia di VICO Saggio sullo Hegel
seguito da altri scritti di storia della filosofia Materialismo storico ed
economia marxistica Nuovi saggi di estetica Etica e politica. La poesia.
Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura La storia
come pensiero e come azione Il carattere della filosofia moderna Discorsi di
varia filosofia; Filosofia e storiografia; Indagini su Hegel e schiarimenti
filosofici; Perché non possiamo non dirci "cristiani"; Primi saggi
Cultura e vita morale L'Italia. Pagine sulla guerra Pagine sparse; Nuove pagine
sparse; Terze pagine sparse; Scritti e discorsi politici; Carteggio C.-Vossler;
C. - Papini, Carteggio; Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria
italiana; Saggi sulla letteratura italiana del Seicento La rivoluzione
napoletana La letteratura della nuova Italia; I teatri di Napoli dal
Rinascimento alla fine del secolo decimottavo La Spagna nella vita italiana
durante la Rinascenza Conversazioni critiche Storie e leggende napoletane
Manifesto degli intellettuali antifascisti Goethe Una famiglia di patrioti ed
altri saggi storici e critici Ariosto, Shakespeare e Corneille Storia della
storiografia italiana nel secolo decimonono; La poesia di Dante Poesia e non
poesia Storia del Regno di Napoli Uomini e cose della vecchia Italia Storia
d'Italia; Storia dell'età barocca in Italia Nuovi saggi sulla letteratura
italiana del Seicento Storia d'Europa nel secolo decimonono Poesia popolare e
poesia d'arte Varietà di storia letteraria e civile Vite di avventure, di fede
e di passione Poesia antica e moderna Poeti e scrittori del pieno e del tardo
Rinascimento La letteratura italiana del Settecento Letture di poeti e
riflessioni sulla teoria e la critica della poesia Aneddoti di varia
letteratura Morra e Castro Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha
in corso di pubblicazione l'edizione nazionale delle opere di C., promossa con
Decreto del Presidente della Repubblica. Eugenio Montale, Tutte le poesie,
Milano, Mondadori, Enciclopedia italiana Treccani alla voce
"neoidealismo" Emanuele
Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, Milano,
Rizzoli, Giorello, Dimenticare Croce? C.
- Senato Partito Liberale Italiano «nato
nel 1924, sciolto durante il fascismo e ricostituito». In Enciclopedia Treccani
alla voce "Partito Liberale Italiano" Pagina jpg del Corriere
del Mezzogiorno: Luigi Mosca, L'America innamorata di C. La prestigiosa rivista
USA "Foreign Affairs" lo incorona tra i pensatori più attuali, Einaudi
infatti sosteneva che «il liberismo non è né punto né poco "un principio
economico", non è qualcosa che si contrapponga al liberalismo etico; è una
"soluzione concreta" che talvolta e, diciamo pure, abbastanza
sovente, gli economisti danno al problema, ad essi affidato, di cercare con
l’osservazione e il ragionamento quale sia la via più adatta, lo strumento più
perfetto per raggiungere quel fine o quei fini, materiali o spirituali che il
politico o il filosofo, od il politico guidato da una certa filosofia della
vita ha graduato per ordine di importanza subordinandoli tutti al
raggiungimento della massima elevazione umana.» (in Einaudi, Il buongoverno.
Saggi di economia politica, a cura di Rossi, Il filosofo dedica ai paesi degli
avi, sia paterni che materni, due monografie, intitolate Montenerodomo: storia
di un comune e due famiglie e Pescasseroli, uscite per Laterza e in seguito
collocate in appendice alla Storia del Regno di Napoli (Laterza, Bari). È noto, a tal proposito, l'aneddoto narrato
in un testo coevo, secondo il quale il padre del filosofo, prima di morire tra
le macerie, avrebbe detto al figlio «offri centomila lire a chi ti salva». Cfr.
Balzo, Cronaca del tremuoto di Casamicciola, Tip. De Blasio e C., Napoli, Un'analisi
di quella traumatica esperienza anche in relazione all'opera di Croce è in S.
Cingari, Il giovane Croce. Una biografia etico-politica, Rubbettino, Soveria
Mannelli, Il problema del male nell’indagine di Cucci. Testimonianza di Croce
sul terremoto C., Memorie della mia
vita, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli. "Il superstite è accolto allora nella
casa romana del politico Silvio Spaventa, cugino del padre e fratello del
filosofo Bertrando. Il lutto, lo spaesamento, l’adolescenza: non stupisce che
questa miscela abbia precipitato il giovane in una crisi d’ipocondria; e
l’ostentato contegno olimpico dell’adulto deriva forse da questo periodo
oscuro. «Quegli anni», confessa l’autore del Contributo, furono «i soli nei
quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente
bramato di non svegliarmi al mattino». Nella Roma del trasformismo, Benedetto
si chiude in biblioteca. Ma a scuoterlo è Labriola, che con le lezioni
sull’etica di Herbart gli offre un appiglio cui aggrapparsi nel naufragio della
fede. C. ricorda di averne recitato più volte i capisaldi sotto le coperte,
come una preghiera": v. A cento anni dal “Contributo” di C., di Matteo Marchesini,
Sole 24 ore, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Ministri
della Pubblica Istruzione, su storia.camera.
Ultimo Governo Giolitti, su storia.camera. Jannazzo, C. e la corsa verso
la guerra, in Idem, C. e il prepartito degli intellettuali, Edizioni La Zisa,
Palermo, Levi della Vida, Fantômes retrouvés, Diogène, Antonio Gnoli, C. e il
suo fantasma, in la Repubblica, Camera dei deputati - Portale storico; citato
in G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Venezia, Salvatore
Guglielmino/Hermann Grosser, Il sistema letterario. Guida alla storia
letteraria e all'analisi testuale: Novecento; Casa Editrice G. Principato
S.p.A.,. Guglielmino/Grosser, Sambugar, Salà, Letteratura italiana, C. e il
manifesto antifascista. Levi, Potassio,
in Il sistema periodico, poi in Opere, Torino, Einaudi, «La più efficace difesa
della civiltà e della cultura si è avuta in Italia, per opera di C.. Se da noi
solo una frazione della classe colta ha capitolato di fronte al nemico a
differenza di quel che è avvenuto in Germania, moltissimo è dovuto al C.. (Ruggiero)
Osserva Nicola Abbagnano nella sua Storia della filosofia: «Il regime fascista,
certo per costituirsi un alibi di fronte agli ambienti internazionali della
cultura, consentì tacitamente a C. una certa libertà di critica politica; e
Croce si avvalse di questa possibilità [...] per una difesa degli ideali di
libertà... Negli anni del fascismo e della seconda guerra mondiale la figura di
C. ha assunto perciò, agli occhi degli italiani, il valore di un simbolo della
loro aspirazione alla libertà, e ad un mondo in cui lo spirito prevalga sulla
violenza. E tale si mantiene a distanza di anni. Il terzo volume del carteggio
tra C. e Laterza (l'editore delle opere crociane) offre una grande quantità di
esempi delle difficoltà di mantenersi in equilibrio “tra l'opposizione concreta
e organizzata al fascismo, e l'adesione o la cinica indifferenza”. Esempi
“quasi tutti orientati però verso una precisa direzione: quella dell'autocensura,
a volte praticata, altre volte orgogliosamente respinta... Tra i molti casi che
potrebbero essere citati a illustrazione di questo atteggiamento, è notevole
quello sorto attorno alla dedica apposta da Paolo Treves, nel libro sulla
filosofia di Campanella, al padre Claudio, scrittore e parlamentare socialista,
famigerato tra i fascisti soprattutto per il celebre duello ingaggiato con
Mussolini. La dedica recitava: “A mio padre, che mi additò con l'esempio la
dignità della vita”. Laterza scrive a C. accostando, con diplomatica
sottigliezza, la lettura di un volgare trafiletto anticrociano e antilaterziano
sul “Lavoro fascista” alla questione della dedica, che egli propone al Treves
di limitare “alle prime tre parole essenziali, non essendo opportuno motivarla
allo stato attuale delle cose”. Alla lettera C. risponde il giorno dopo,
tranquillizzando Laterza sulla “purezza” del lavoro storico del Treves e
sull'assenza in esso di riferimenti al presente, e aggiungendo, con maliziosa e
retorica ingenuità: “ma veramente non capisco perché vi abbia fatto senso
quella dedica affettuosa di un figlio al padre. O che la dignità della vita (il
corsivo è ovviamente di Croce) è un fatto politico del giorno?”. Comunque sia,
la dedica uscì poi nella versione “purgata”. Maurizio Tarantino, recensione a C.-Giovanni
Laterza, Carteggio, a c. di Antonella Pompilio, Napoli, Roma-Bari, Istituto
italiano per gli studi storici, Laterza, “L'indice”. L'episodio è narrato con dovizia
di particolari in una lettera di Nicolini a Gentile riportata da Sasso in Per
invigilare me stesso, Bologna, Il mulino, Alessandro Barbera (a cura di), La
biblioteca esoterica. Carteggi editoriali Evola-C.-Laterza, Roma, Fondazione
Julius Evola, Cesare Medail, Evola: mi manda Don Benedetto, in Corriere della
Sera, Cfr. la prefazione del testo Lettere di Julius Evola a C.. Regio Decreto
Legge, Disposizioni sull'istruzione superiore (pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale del Regno d'Italia, Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti, La
Repubblica, Giarrizzo rivendicò con una punta di orgoglio l'essere annoverato
tra i “nipotini” di C. (se, nel corso di uno sgradevole scontro, sono stato per
Martino un «basco verde di Palazzo Filomarino. Giarrizzo, Giuseppe, Di C. e del
filosofare sine titulo, Archivio di storia della cultura: Napoli: Liguori, si veda: Gramsci, Il materialismo storico e
la filosofia di C. C., Epistolario, I,
Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, La vicenda è descritta e
analizzata da Sasso, La guerra d'Etiopia e la “patria”, in Per invigilare me
stesso, Bologna, Il mulino, Battista, Corriere della Sera, B. Croce, Taccuini
di lavoro, Napoli, La tentazione antisemita di tre antifascisti liberali Dante Lattes, Ferruccio Pardo, C. e l'inutile
martirio d'Israele. L'ebraismo secondo C. e secondo la filosofia crociana Sarfatti, Il ritorno alla vita: vicende e
diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Tompkins,
L'altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di liberazione nel racconto
di un protagonista, Il Saggiatore, Croce rimase fermo sulle sue posizioni:
l'unica condizione alla quale i partiti antifascisti dell'opposizione avrebbero
accettato di entrare nel governo di Badoglio era l'abdicazione di Vittorio
Emanuele III. Era stato il re, disse Croce, ad aprire le porte al fascismo,
favorendolo, appoggiandolo e servendolo per vent'anni». Tompkins, Piero Operti, Lettera aperta a C.,
Torino, Lattes, Mazzini, poi in Scritti e discorsi politici, II, Bari, Laterza;
sulle caratteristiche "affettive" del pronunciamento di C. al
referendum, vedi Fulvio Tessitore, Il percorso psicologico dalla monarchia alla
repubblica attraverso i Taccuini di lavoro di C., in C. e la nascita della
Repubblica. Atti del convegno tenutosi presso il Senato della Repubblica,
Soveria Mannelli, Rubbettino, "non
sono veri liberali...coloro che si fregiano, come ora taluni hanno preso a
fare, del nome di monarchici, perché il liberalismo non ha altro fine che
quello di garantire la libertà" e se "la forma Repubblicana gli offre
questa...garanzia quando non gliene offre sicura la monarchia, sarà anche
eventualmente repubblicano" (Taccuini di lavoro; "se il tentativo la
duplice abdicazione di Vittorio Emanuele III e di Umberto II] fallisse, noi
sosterremo il partito della Repubblica, adoperandoci a farla sorgere temperata
e non sfrenata, sennata e non dissennata" (Taccuini di lavoro. C., mai
nominato, formalmente rifiutò prima ancora che la sua ventilata nomina potesse
concretizzarsi.» (In Galliani, Il Capo dello Stato e le leggi, Giuffrè, Ente
Morale, su Uni SOB.na.Senato della Repubblica-Cinecittà Luce, Il filosofo della
libertà: Napoli - il funerale di C. C., Maria Curtopassi, Dialogo su Dio:
carteggio, Archinto, Il carteggio fra C. e Curtopassi è stato pubblicato presso
la casa editrice Archinto da Giovanni Russo, autore anche della nota
introduttiva, Maurizio Griffo, Il pensiero di C. tra religione e laicità. La
citazione è tratta da: C, Taccuini di lavoro, vol. 6, Napoli. C., Perché non
possiamo non dirci anticoncordatari. Discorso contro i patti lateranensi,
tratto da: C., Discorsi parlamentari, Bardi editore, Roma, Atti parlamentari
della Camera: Guido Verucci, Idealisti all'Indice. C., Gentile e la condanna del
Sant'Uffizio, Laterza, Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il
Saggiatore, Milano, La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta
da C., Il ministro dell'Educazione Nazionale, Bottai alluse ironicamente
all'operetta crociana con un articolo intitolato Benedetto Croce rincristianito
per dispetto (In Ruggiero Romano, Paese Italia: venti secoli di identità,
Donzelli Editore,Perché non possiamo non dirci "cristiani, in La Critica;
poi in Discorsi di varia filosofia, Laterza, Bari, Croce, M. Curtopassi, Dialogo
su Dio. Carteggio op.cit. ibidem. Focher, Rc. a Capanna, La religione in C.. Il
momento della fede nella vita dello spirito e la filosofia come religione,
Bari, in Rivista di studi crociati, Sandro Magister, Colloquio con Foa (Da
l'Espresso, Documenti) In Vittorio
Messori, Pensare la storia: una lettura cattolica dell'avventura umana,
Paoline, Nello Ajello, Solo per amore, "La Repubblica, Sasso, Per
invigliare me stesso, Bologna, Il mulino, Nel registro mortuario di Raiano, vicino
a L'Aquila, viene indicata erroneamente come "moglie del senatore C."
Benedetto Croce e l'amore Ottaviano
Giannangeli, C. a Raiano, in "L'Osservatore politico letterario",
Milano-Roma, Morta Alda C., figlia di C.
È morta Silvia C. l'ultima nata del filosofo Morta Lidia, l'ultima figlia ancora vivente
di C. Si è spenta a Napoli. Il pensiero filosofico di C. - senato C., La
storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari Saggio sullo Hegel C., da "papa laico" a grande
dimenticato Grassano, La filosofia
politica di Popper: 1 - La critica della dialettica hegeliana e dello
storicismo; commento a La società aperta e i suoi nemici e Miseria dello
storicismo di Popper Croce e il
totalitarismo Carteggio C.-Omodeo Hegel,
Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano In opposizione al
positivismo che voleva riportare la storia ad una forma della scienza, Croce si
era interessato dell'estetica nella quale avrebbe dovuto essere compresa la
storia; cfr. La storia sotto il concetto generale dell'arte, Bari. Per questo motivo C. della Divina Commedia di
Dante apprezza la prima cantica dell'Inferno in quanto risultato di una forte e
sentita intuizione-espressione, mentre apprezza meno la cantica del Paradiso
dove Dante mescolerebbe poesia e filosofia
Nella premessa C. scrive di aver trattato l'argomento nello scritto
intitolato Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro pubblicato
negli Atti dell’Accademia pontaniana. In effetti però avverte C. che il volume «È
una seconda edizione del mio pensiero, piuttosto che del mio libro» (C.,
Logica, Cent'anni di ricerca in Italia. Un passato da salvare, conferenza del
prof. Bernardini, dal sito Centro Studi Enriques, C., La storia come pensiero e
come azione, Laterza, Bari. Quel che si scrivevano Einstein e C. Dimenticare C.? (Corriere della Sera) La scienza negata. Il caso italiano, Codice,
l'Italia della scienza negata (dal blog de Il Sole 24 Ore) Ministro dell'Istruzione del governo MUSSOLINI,
promotore della riforma scolastica varata in Italia. Radice in O. Pompeo
Faracovi (a cura di), Federico Enriques, Approssimazione e verità, Belforte,
Livorno, Giorello, Dimenticare Croce?, in Il Corriere della Sera, L'arretratezza
dell'Italia in campo scientifico è il risultato di cattive scelte dei politici
da una parte e di resistenze culturali e di incapacità degli scienziati stessi
a comunicare dall'altra e che quindi risultano indipendenti dall'idealismo
crociano. A livello culturale, casomai, esistono altre forze che potrebbero
essere imputate del ritardo scientifico, si veda per esempio la nefasta
influenza della Chiesa in merito ad alcuni aspetti delle ricerche bioetiche. La
mia perplessità nei confronti di Croce non riguarda le pretese conseguenze
della sua filosofia sullo sviluppo tecnico-scientifico del nostro Paese. Mi
sembra che sia una polemica datata e ormai superata. Non credo che dalle
posizioni antiscientifiche di Croce derivi un ritardo della società italiana
nei confronti della scienza. Quella di C. è una filosofia interessante sotto
altri profili, ma poco interessante, quando si parla di scienza e quindi è
deficitaria sotto il profilo di una seria trattazione del problema della
conoscenza.» (Giorello), in È vero che C. odiava la scienza? - Dialogo tra
Giorello e Ocone, Matera, Biscaldi, Giusti, Pezzotti, Rosci, Scienze umane -
Corso integrato, Marietti Scuola, 9.
Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari, Abbagnano,
Storia della filosofia, Benadusi, Caravale, M.s Italy: Interpretation,
Reception, and Intellectual Heritage, Palgrave Macmillan, Sambugar, Salà,
Letteratura italiana Paolo Ruffilli,
Introduzione alle Operette morali di Leopardi, ed. Garzanti Sebastiano Timpanaro, Classicismo e
illuminismo nell'Ottocento italiano C.,
Schopenhauer e il nome del male Si
riferisce a d'Annunzio, Fogazzaro e Pascoli
Riportato in Pazzaglia, Letteratura italiana III C., Del carattere della più recente
letteratura italiana, in Letteratura della nuova Italia, Bari, Dino Biondi, Il
Resto del Carlino, Edizioni Nazionali istituite anteriormente alla legge su
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, concernente l'«Edizione Nazionale
delle opere di C. Integrazione della composizione della Commissione» su
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, VISTO il D.P.R istitutivo
dell'Edizione Nazionale delle opere di C.».Bibliografia Fassò, C., in Novissimo
Digesto Italiano, diretto da A. Azara e E. Eula, Torino, Pomba, Antoni,
Commento a C., Venezia, Neri Pozza, Alfredo Parente, Il pensiero politico di C.
e il nuovo liberalismo, Solmi, Il C. e noi, in "La Rassegna
d'Italia", La letteratura italiana contemporanea, a cura di Giovanni Pacchiano,
Milano, Adelphi). Nicolini, C., Pomba, Torino, Ottaviano Giannangeli, C. a
Raiano, in "L'Osservatore politico letterario", Milano-Roma, (ora in
Id., Operatori letterari abruzzesi, Lanciano, Itinerari). Damiano Venanzio
Fucinese, Dieci lettere inedite di C., in "Dimensioni", Lanciano, Ulisse
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della dialettica, Napoli, Morano, Badaloni, Muscetta, Labriola, Croce, Gentile,
Roma-Bari, Laterza (in part. di Muscetta: La versatile precocità giovanile di
Benedetto Croce. Profilo della sua lunga operosità, Critica e metodologia
letteraria di C., Croce scrittore: multiforme unità della sua prosa).
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meridionale. Atti del convegno di studi, Sulmona-Pescasseroli-Raiano, a cura di
Papponetti, Pescara, Ediars, Toni Iermano, Lo scrittoio di C. con scritti
inediti e rari, Napoli, Fiorentino, Antonio Cordeschi, C. e la bella Angelina.
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dibattito C.-Einaudi”, in Marchionatti, Soddu, Einaudi nella cultura, nella
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forma giuridica all'irrealtà delle leggi, in Diacronìa. Rivista di storia della
filosofia del diritto, Voci correlate Istituto italiano per gli studi storici
Fondazione Biblioteca C. Liberalismo Manifesto degli intellettuali antifascisti
Premio nazionale di cultura C.. Treccani Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.C., su BeWeb, Conferenza Episcopale
Italiana.C., su Dictionary of Art Historians, Lee Sorensen.Opere di C. / C. (altra
versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di C., su Open Library,
Internet Archive.Opere di Benedetto C., su Progetto Gutenberg.Audiolibri d su
Libri Vox. Pubblicazioni di C., su Persée, Ministère de l'Enseignement
supérieur, de la Recherche et de l'Innovation. Bibliografia di C., su Internet
Speculative Fiction Database, Al von Ruff. C., su storia.camera, Camera dei
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contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
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gli studi storici fondato da C., su iiss. La Fondazione Biblioteca C., su
fondazione benedettocroce. Una bibliografia di C., su rivista.ssef. Una
bibliografia di C. con corredo di riassunti delle opere e piccoli s aggi, su
nuovorealismo. Biografia di C. con elenco opere, su giornale difilosofia. net.
Il problema dell'impressione nella ricerca filosofica del giovane C., su
giornaledi filosofia.net. L'elenco dei volumi dell'Edizione Nazionale, su
bibliopolis. C., su Camera - Assemblea Costituente, Parlamento italiano. Le
riviste di C. on line. Accesso full text a «La Critica. Rivista di letteratura,
storia e filosofia» ai «Quaderni della “Critica”» su biblioteca filosofia.uniroma1.
C., il filosofo liberale, sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Alessandra
Tarquini, C., il filosofo liberale, Radio3. Aus dieser Schule sind die beiden
großen zeitgenössischen Philosophen Italiens hervorgegangen, C. und
Gentile. Beide Denker knüpfen an die J Gentile, Che cosa e il fascismo. Gentile
hat einen Neudruck seiner Werke veranlaßt. In seiner ,,Introduzione alla
filosotia' sagt er: Damit aus einem Volke eine Nation werde, muß es sich
seiner Nationalität, seiner Kraft und seiner Kultur bewußt
sein. Philosophie Hegels an, die gerade in Italien, namentlich an der
Universität Neapel, von jeher gepflegt wurde. C. übernimmt von dem großen
deutschen Denker den Leitgedanken, nämlich die Idee des Geistes als einer
dialektischen Tätigkeit, die sich im Rhytmus von Gegensätzen bewegt. Diese
Gegensätze formuliert er allerdings etwas anders als Siegel, indem er
zwischen kontradiktorischen und nur konträren Momenten unterscheidet. Ferner
lehnt C. die empirischen Gedanken völlig ab; für ihn erzeugt nur der Geist die
Realität. Es gibt in der Welt nichts, was nicht Manifestation des Geistes
wäre. Er gliedert sich in zwei Hauptformen: theoretische Aktivität
(Erkennen) und praktische (Wollen und Handeln). Unterformen sind: intuitives
Anschauen (Kunst), intellektuelles Denken (Wissenschaft), ulititalisches
Handeln (Ökonomie), moralisches Wollen (Ethik). So schrieb denn C. ein
Buch über Lebendiges und Totes in Hegels Philosophie und betonte seine
innere Verwandtschaft mit Vico, dessen Lehre er gleichfalls eine
besondere Schrift gewidmet hat. Diese Verwandtschaft tritt besonders in C.
Werken über Historik und Ästhetik hervor. Diese und andere Bücher des
italienischen Philosophen haben internationales Ansehen erlangt. Gentile
schließt sich zwar im allgemeinen an den Geist der Hegelschen Dialektik an. Er
faßt sie aber nicht als abstrakte Reflexion auf, sondern als konkretes
Denken, das zugleich ein landein ist. Daher bezeichnet er seine
Philosophie als Aktualismus. Die wahre Realität liegt in dem
schöpferischen Akt des Geistes. Dieser ist nicht etwa nur Bewußtsein und
Kontemplation der Welt, sondern schöpferisches Hervorbringen der Welt;
Ethik und Politik sind daher ein Ausfluß des Geistes. Selbst die
historische Schau bedeutet nicht nur einen Bericht über Geschehnisse der
Vergangenheit, sondern auch eine geistige Schöpfung 1). In dieser Lehre
erblickt Gentile eine Fortführung der italienischen Tradition, die von
Bruno bis auf Vico, Gioberti und Spaventa reicht. Er hat sich vollkommen
dem Faschismus angeschlossen, war eine Zeitlang Unterrichtsminister und
Urheber einer tiefgreifenden Schulreform. Gentile hat auch wichtige
Beiträge zur Staatstheorie des Faschismus geliefert 2 ), welche weiter
unten erwähnt werden sollen. Es sei noch hinzugefügt, daß auf dem Gebiete
der Rechtsphilosophie sich G. Del Vecchio auch außerhalb Italiens einen Namen
gemacht hat durch seinen Kampf gegen den reinen Rechtspositivismus und
seine philosophische Begründung des Imperialismus; dadurch hat seine
Lehre eine nahe Beziehung zum Faschismus. Von den zahlreichen
Schriften Gentiles ist ,,Der aktuale Idealismus“ auch in deutscher
Übersetzung erschienen. -I Vgl. besonders „Che cosa e il
fascismo", „La filosolia de] fascismo“. Charakteristisch ist der Satz: ,,Lo
stato del fascismo e una creazionc tutta spirituale". Benedetto
Croce. Croce. Keywords: idealism, la
filosofia di Croce come antecedente del fascismo, Mussolini giornalista, la
ruttura Croce-Gentile – l’idealismo di Croce pre-fascismo come fascista: hegel,
idea dello spirito, idealism assoluto, la relazione tra Vico e Hegel. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Croce:
implicatura: intenzione, espressione, e communicazione” Croce.
Grice e Cuoco: l’implicatura conversazionale di
Platone in Italia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Civitacampomarano).
Filosofo italiano. Vincenzo Cuoco. Litografia di Vincenzo Cuoco del 1840
Direttore del Tesoro del Regno di Napoli Durata mandato28 febbraio 1812 – 1815
MonarcaGioacchino Murat Dati generali Partito politicoMurattiani
ProfessioneGiurista, economista. Targa posta sulla casa natìa di Vincenzo Cuoco
a Civitacampomarano Cuoco nacque a Civitacampomarano, un piccolo borgo del
Contado di Molise, nel Regno di Napoli (attualmente in provincia di
Campobasso), figlio di Michelangelo Cuoco, un avvocato e studioso di economia,
appartenente ad una famiglia della locale borghesia di provincia, e di Colomba
de Marinis. Ricevuta una prima istruzione nel vivace ambiente illuministico
del paese natìo, animato dalla famiglia Pepe, a cui era imparentato (tra i
parenti ebbe come cugino Gabriele Pepe), nel 1787 si recò a Napoli per
studiarvi diritto e fu allievo privato di Ignazio Falconieri. Non terminò gli
studi di legge, ma a partire da questo periodo si interessò di questioni
economiche, sociali, culturali, filosofiche e politiche, materie che resteranno
sempre al centro della sua attività e dei suoi interessi. Nell'ambiente
culturale napoletano conobbe ed entrò in contatto con intellettuali illuminati
del Sud, tra i quali anche il conterraneo Galanti, che in una lettera del 4
settembre del 1790 al padre Michelangelo, descrive Vincenzo: «capace, di molta
abilità e di molto talento», ma «trascurato» e «indolente», forse non soddisfatto
appieno della collaborazione di Vincenzo alla stesura della sua Descrizione
geografica e politica delle Sicilie. Partecipò attivamente alla
costituzione della Repubblica Napoletana nel 1799 ed alle sue vicissitudini,
ricoprendovi le cariche di segretario del suo ex docente Ignazio Falconieri
(che ricopriva la carica di comandante militare del Dipartimento del Volturno)
e di organizzatore del Dipartimento del Volturno. In seguito alla
capitolazione della Repubblica per mano delle truppe sanfediste del cardinale
Fabrizio Ruffo ed al susseguente ritorno al potere dei Borboni, conobbe il
carcere per alcuni mesi, venendo inoltre condannato alla confisca dei beni e
quindi costretto all'esilio, dapprima a Parigi e poi a Milano, dove già nel
1801 pubblicò il suo capolavoro, il Saggio storico sulla rivoluzione
napoletana, poi ampliato nella successiva edizione del 1806. Sempre a
Milano, tra il 1802 ed il 1804 diresse il Giornale Italiano, dando un'impronta
economica di rilievo al periodico e svolgendo una vivace attività
pubblicistica, che proseguirà anche a Napoli con la sua collaborazione al
Monitore delle Sicilie. Nel 1806 pubblicò il suo Platone in Italia,
originale romanzo utopistico proposto in forma epistolare, e quindi rientrò nel
Regno di Napoli governato da Giuseppe Bonaparte, ricoprendovi importanti
incarichi pubblici, prima come Consigliere di Cassazione e poi Direttore del
Tesoro, dove si distinse inoltre come uno dei più importanti consiglieri del
governo di Gioacchino Murat. In questo ambito preparò nel 1809 un
Progetto per l'ordinamento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, nel
quale l'istruzione pubblica è vista come indispensabile strumento per la
formazione di una coscienza nazional popolare. Seguace del Pestalozzi, Cuoco
prospetta «un'istruzione generale, pubblica ed uniforme». [1] Dal 1810
ebbe l'incarico di Capo del Consiglio Provinciale del Molise e, durante la
durata di tale impiego, scrisse nel 1812 Viaggio in Molise, opera
storico-descrittiva sulla sua regione natale a cui restò legato grazie anche
alla stretta parentela con la famiglia Pepe (Gabriele Pepe), presso la quale si
conservano ancora suoi scritti e ritratti. Gli ultimi suoi anni furono
funestati dalla follia, che lo colpì a partire dal 1816 (forse anche a causa del
travaglio interiore scatenato dalla Restaurazione), spingendolo alla
distruzione di molti suoi manoscritti, rimasti dunque inediti, e costringendolo
a ridurre progressivamente le sue attività sino alla morte, avvenuta a Napoli
nel 1823, per le conseguenze di una frattura del femore, riportata in seguito a
una caduta. Opere Studioso di letteratura, giurisprudenza e filosofia,
Vincenzo Cuoco si segnala, oltre che per la sua attività pubblicistica, per il
Platone in Italia, originale romanzo utopistico in forma epistolare e,
soprattutto, per il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, opera
di fondamentale importanza nella nostra storiografia, forse non studiata e
conosciuta quanto meriterebbe. Lavorò ad altri saggi e opere letterarie, rimaste
in gran parte incompiute (salvo il saggio Viaggio nel Molise, scritto nel 1812)
e da lui stesso distrutte nel corso delle crisi nervose causate dalla malattia
che lo accompagnò nei suoi ultimi anni. Saggio storico sulla rivoluzione
napoletana del 1799 «Tutte le volte che in quest'opera si parla di
"nome", di "opinione", di "grado", s'intende
sempre di quel grado, di quella opinione, di quel nome che influiscono sul
popolo, che è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle
controrivoluzioni.» (V. Cuoco - Saggio storico sulla rivoluzione
napoletana del 1799, Prefazione alla seconda edizione) Il Saggio storico
sulla rivoluzione napoletana del 1799 fu scritto durante l'esilio a Parigi e
pubblicato a Milano in forma anonima nel 1801. L'opera narra gli eventi
occorsi a Napoli tra il dicembre del 1798 (fuga di re Ferdinando IV di Borbone
in Sicilia) e la caduta della Repubblica Napoletana, comprese le rappresaglie
che ne seguirono la fine. Il saggio conobbe un vasto successo (fu presto
tradotto anche in tedesco) e andò abbastanza rapidamente esaurito, tanto da
spingere l'autore - anche per scoraggiare i tentativi di ristampa abusiva - a
porre mano ad una nuova edizione ampliata, che vide la luce nel 1806. Nel 1807
il saggio fu tradotto anche in francese (quasi contemporaneamente ad analoga
traduzione del Platone in Italia). Accanto alla dimensione puramente
storiografica, attraverso la quale vengono ripercorsi gli eventi che condussero
alla nascita e alla rapida fine dell'effimero esperimento repubblicano (inquadrati
dall'autore nel burrascoso contesto delle invasioni napoleoniche in Italia),
l'opera si propone come un commento storico e mira a delineare una lettura
critica della vicenda rivoluzionaria. Il racconto degli accadimenti viene
proposto sotto forma di indagine rigorosa dei fatti e investe l'esposizione dei
principi teorici che mossero gli artefici della rivoluzione napoletana.
Senza indulgere in enfasi e retorica, viene in tal modo offerto al lettore uno
spaccato della vivace e avanzata cultura filosofica e politica d'inizio secolo
nella capitale del Sud d'Italia (all'epoca in Europa seconda solo a Parigi per
estensione), ove gli insegnamenti di Mario Pagano (1748-1799), di Antonio
Genovesi, di Gaetano Filangieri (1752-1788), e di Giambattista Vico
confluiscono a filtrare e aggiornare la lettura sempre valida de Il Principe di
Niccolò Machiavelli. «I Francesi furono costretti a dedurre i princìpi
loro dalla più astrusa metafisica, e caddero nell'errore nel qual cadono per
l'ordinario gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte, che è quello
di confonder le proprie idee con le leggi della natura.» (V. Cuoco -
Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, cap. VII) Poste a
confronto la Rivoluzione francese e quella partenopea, Vincenzo Cuoco indaga le
ragioni del fallimento di quest'ultima e ne individua con lucidità e senza
pregiudizi le cause: ispirata e poi di fatto imposta dagli stranieri, la
rivoluzione coinvolge a Napoli solo un’élite molto limitata numericamente (e largamente
impreparata alla difficile arte del governo), senza penetrare nella coscienza
popolare e senza tenere in alcun conto le peculiarità, tradizioni, necessità
reali e aspirazioni più autentiche che caratterizzavano le genti
napoletane: «Se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la
costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui
bisogni e sugli usi del popolo; se un'autorità, che il popolo credeva legittima
e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva,
gli avesse procurato de' beni reali, e liberato lo avesse da que' mali che
soffriva; forse… noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria
desolata e degna di una sorte migliore.» (V. Cuoco - Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799, cap.XV) Se da un lato, secondo Cuoco, il
governo rivoluzionario cadde vittima - prima di tutto - della sua stessa
imperizia tecnico-politica, dall'altro l'esperimento era votato in partenza al
fallimento in quanto mirava ad applicare ciecamente il modello della
Rivoluzione francese, tal quale, senza minimamente preoccuparsi di adattarlo
alla realtà napoletana e alle sue peculiarità. D'altra parte, osserva
Cuoco con spirito squisitamente moderno e rara acutezza, si pretendeva che il
popolo aderisse ciecamente a una rivoluzione della quale non poteva capire né i
valori, né le ragioni: "«Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema»…
Era obbligato il popolo a saper la storia romana per conoscere la sua
felicità?" (Saggio..., cap. XIX) La Rivoluzione fu dunque imposta al
popolo, piuttosto che proposta o sorta dalle sue istanze più autentiche e
profonde, determinando pertanto una profonda e insanabile frattura tra gli
intellettuali che la guidarono e la popolazione che se ne sentì sostanzialmente
estranea e che spontaneamente seppe riconoscerla per quel che certo essa era a
livello geopolitico: un regime imposto dall'interesse di una potenza
straniera. L'acuta e onesta critica di Cuoco - sempre sostenuto nella sua
opera da un raro attaccamento al realismo e da una logica incalzante - nel
condannare la cieca fiducia delle élite in teorie generali che non tengono nel
giusto conto la storia e la cultura più profonde e vere dei popoli, individua
dunque già all'alba del XIX secolo nella frattura tra classi dirigenti e
istanze popolari quello che sarà forse il più grave dramma dell'intera
avventura risorgimentale italiana e che tanto dovrà pesare sulla storia
dell'Italia unita, sino ai giorni nostri. Critiche al saggio storico
L'opera di Vincenzo Cuoco ricevette aspre critiche per la sua documentazione
storiografica. Al di là delle convinzioni politiche, gli è stata rimproverata
una certa parzialità nella ricerca storiografica. L'abate Domenico Sacchinelli,
segretario del cardinale Fabrizio Ruffo, fondatore e comandante dell'Esercito
della Santa Fede in Nostro Signore Gesù Cristo, principale responsabile della
sanguinaria caduta della Repubblica e della restaurazione dei Borboni al trono,
criticò aspramente la sua opera. Al fine di far conoscere la sua versione
dei fatti, Domenico Sacchinelli pubblicò un'opera intitolata Memorie storiche
sulla vita del cardinale Fabrizio Ruffo (1836), scritta nove anni dopo la morte
di Fabrizio Ruffo nella quale, essendo stato segretario del cardinale e
possedendo dei documenti del periodo, contestava molte delle notizie su Ruffo e
sui sanfedisti. Sacchinelli, nella prefazione, asserisce che Cuoco, a sua
differenza, non poteva sapere quello che l'esercito della Santa Fede aveva
fatto per filo e per segno, in quali paesi era stato e quali paesi aveva
saccheggiato o incendiato.[2] Per contro, Benedetto Croce la segnalò
quale "[...] prima vigorosa manifestazione del pensiero vichiano,
antiastrattista e storico, e l'inizio della nuova storiografìa, fondata sul concetto
dello svolgimento organico dei popoli, e della nuova politica, la politica del
liberalismo nazionale, rivoluzionario e moderato insieme." (B. Croce,
Storia della storiografia italiana, Volume primo, Laterza, 1921) Platone
in Italia Platone in Italia, 1916 «Se l'arte dell'eloquenza è l'arte di
persuadere, non vi è altra eloquenza che quella di dire sempre il vero, il solo
vero, il nudo vero. Le parole, onde è necessità di nostra inferma natura di
rivestire il pensiero, saranno tanto più potenti, quanto più atte al fine, cioè
quanto più nudo lasceranno il vero, che è nel pensiero.» (V. Cuoco -
Platone in Italia) Il Platone in Italia, diviso in due volumi, è un
originale esempio di romanzo storico scritto in forma epistolare che l'autore
finge di aver tradotto dal greco. L'opera, scritta prima del suo rientro
a Napoli nel 1806 (e pubblicata nello stesso anno), è dedicata alla
celebrazione del mito di un'immaginata "Italia pitagorica", intesa
come antico e mitico luogo della saggezza. Nel racconto immaginario di
Cuoco si descrive il viaggio intrapreso dal giovane Cleobolo, discepolo di
Platone, in visita nella Magna Grecia in compagnia del suo maestro: il viaggio
fornisce lo spunto per esaltare l'originalità e la natura primigenia della civiltà
italiana, vista da Cuoco come più antica di quella ellenica: è nell'Italia
meridionale che quelle popolazioni raggiungono per prime l'apice sia nel campo
delle istituzioni civili, sia nelle scienze e nelle arti. Anche in
quest'opera è chiaramente rintracciabile l'influsso di Vico e del suo De
antiquissima Italorum sapientia, laddove Cuoco ne coglie non solo la dimensione
storica, ma anche quella filosofica. Importante dal punto di vista
ideologico, l'opera intende affermare la supremazia culturale italiana rispetto
alla Francia e al resto d'Europa e può essere considerata un preannuncio della
corrente d'orgoglio nazionale che si svilupperà in tutto il primo Ottocento e
che culminerà nel celebre Del primato morale e civile degli Italiani di
Vincenzo Gioberti. A tratti disorganica e monotona, l'opera non rende
giustizia al suo autore da un punto di vista squisitamente letterario, specie
se confrontata con lo stile straordinariamente persuasivo, agile ed efficace
del Saggio sulla rivoluzione napoletana. Opere Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799, in Scrittori d'Italia 43, Bari, Laterza, 1913.
Platone in Italia, in Scrittori d'Italia 74, vol. 1, 2ª ed., Bari, Laterza,
1928. Platone in Italia, in Scrittori d'Italia 92, vol. 2, Bari, Laterza, 1924.
Scritti vari, in Scrittori d'Italia 93, vol. 1, Bari, Laterza, 1924. Scritti
vari, in Scrittori d'Italia 94, vol. 2, Bari, Laterza, 1924. Note ^ Rapporto al
re Gioacchino Marat e Progetto di decreto per l'ordinamento della Pubblica
Istruzione nel Regno di Napoli, vedi Carlo Salinari Carlo Ricci, Storia della
letteratura italiana, Volume terzo, Parte prima, Edizioni Laterza, Bari 1981. p
11 ^ sacchinelli-memorie, prefazione. Bibliografia Fulvio Tessitore, Lo
storicismo di Vincenzo Cuoco, Morano editore, Napoli, 1965 Fulvio Tessitore,
Vincenzo Cuoco tra illuminismo e storicismo, Libreria Scientifica Editore,
Napoli, 1971. Fulvio Tessitore, Vincenzo Cuoco, in Il Contributo italiano alla
storia del Pensiero – Filosofia , Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani,
2012. Dario De Salvo, la Pedagogia del Reale di Vincenzo Cuoco,
PensaMultimedia, Lecce-rovato, 2016. A. Boroli e AA.VV., Universo - la grande
enciclopedia per tutti, Istituto Geografico De Agostini S.p.A., Novara, 1970;
AA.VV., l'Enciclopedia, UTET Torino - Istituto Geografico De Agostini S.p.A.,
Novara - Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A., Roma, 2003; Mario Themelly,
«CUOCO, Vincenzo», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 31, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, 1985. Felice Battaglia, «CUOCO,
Vincenzo», la voce nella Enciclopedia Italiana, Volume 12, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Fausto Moriani, Esoterismi e storie: Platone
nell'interpretazione di Vincenzo Cuoco, in Le vie della ricerca. Studi in onore
di Francesco Adorno, Olschki, Firenze, 1996, pp. 677–688. Domenico Sacchinelli,
Sulla vita del cardinale Fabrizio Ruffo (PDF), Tipografia di Carlo Calanco,
1836. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina
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Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Modifica su Wikidata
Cuoco, Vincenzo, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
2010. Modifica su Wikidata Cuòco, Vincènzo, su sapere.it, De Agostini. Modifica
su Wikidata (EN) Vincenzo Cuoco, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Mario Themelly, CUOCO, Vincenzo, in
Dizionario biografico degli italiani, vol. 31, Istituto dell'Enciclopedia
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Napoletana (1799)[altre] L'opera filosofica di Cuoco nella Repubblica e nel
Regno italico non si esaurisce nei molte plici articoli del “Giornale
italiano”. La filosofia italica di Cuoco si continua nel “Platone in Italia”,
nuova ed alta testimonianza di quello spirito che vediamo in opera
ininterrottamente dai frammenti agli scritti del foglio milanese. Questo
sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello spirito e non fuori
di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e compenetra il suo
Platone. Quello stesso uomo, nota giustamente Hazard, che scrive che “ama di
morir per la sua patria,” con la sua Napoli, “poichè essa più non esiste”, mentre Cuoco vive ancora, ed aggiungeva che
ad essa ha consacrati tutti i suoi pensieri. Ora consapevole sempre di più di
quanto nel saggio storico ha pur detto, cioè che l'amore di patria nasce dalla
pubblica educazione. Ora scrive un saggio il cui solo fine è sempre lo stesso:
creare lo spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso si possa
le memorie dei tempi gloriosi. Che questo e lo scopo del suo “Platone in
Italia” nessun dubbio. E Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone dice Cuoco, in
una lettera al vicerè Eugenio è “diretto a formar la morale pubblica
degl'italiani, ed ispirar loro quello spirito d’unione, quell’amor di patria,
quell’amor della milizia che finora non hanno avuto.” Il “Platone in Italia” di
Cuoco perciò è un romanzo a tesi, o, se volete, un romanzo didattico, se con ciò
noi vogliamo riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata assolutamente
l'ulteriore valutazione filosofica. E chi lo legge con cura non può non
accorgersi di questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non allo scrittore, di
questo scopo che Cuoco persegue, e per il quale solo sembra vivere. La trama
del “Platone in Italia” in sè è tenuissima, tanto tenue che Cuoco quasi non se
ne accorge, onde appena l'abbozza per tosto sorvolarla. Un greco, Cleobolo, fa
un viaggio culturale nella Magna Grecia con il suo tutore, Platone. Platone e
il suo scolaro visitano le più importanti città d'Italia: Crotone, Taranto,
Metaponto, Eraclea, Turio, Sibari, Locri, Reggio, ecc., e conosce direttamente
o indirettamente i più fieri popoli della pe [ROBERTI, Lettere inedite di G.
Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in Giornale storico della letteratura italiana.
La lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari. Cuoco, Saggio storico.
BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al
Leopardi, per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli. La lettera è ora ripro.
dotta in Scritti vari] pennisola, i sanniti e i romani, ammira le opere d'arte,
disputa di filosofia, si innamora di Mnesilla. Cleobolo stringe con Mnesilla un
bel nodo d'amore. La trama è questa. Ma vien meno dinanzi all'urgere d'un
contenuto didascalico svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce
la fa dimenticare. Nè il “Platone in Italia” è sotto questo riguardo un romanzo
originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante
quel “Voyage du jeune Anacharsis en Grèce,” che ha una grande diffusione in
Francia e fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior
parte de' casi, come nota il Sanctis, il viaggio di Platone e Cleobolo è “un
semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro contenuto,” che non sia quello
vero e proprio di descrivere paesaggi e monumenti. Lo scopo non è più il
viaggio. Lo scopo e l'espressione di certe idee e sentimenti, fatta più
agevole, con questo mezzo. I secoli XVIII e XIX amarono il romanzo viaggio,
come del resto anche il romanzo-epistolario, perchè col suo meccanismo si piega
ad ogni finalità. Il “Platone in Italia” di Cuoco anzi è nello stesso tempo
viaggio ed epistolario, è un insieme di lettere spedite visitando l'una dopo
l'altra le varie città d' Italia. Il viaggio, come forma letteraria, può
servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto. E cera, che può
ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi secondo il
capriccio dello scultore. È difficile trovare una forma più libera, più
pieghevole al vostro volere. Passate da una città in un'altra: nessun limite
trovate al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi piace;
immaginare ogni specie d'accidenti; saltare dalla natura ai costumi, da'
costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio; rin chiudervi,
tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere,
a vostro grado, sogni, ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui, visioni
e rac conti. Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v ' impone il
tal contenuto, il tale ordine, la tal proporzione: insomma v’impone un limite,
che non procede dal mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal fine che avete
in mente. Ma se voi leggete l'opera del Barthélemy e la raffron tate con
l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà su bito agl’occhi, nell'alto fine
che il nostro scrittore s'è proposto e che nel francese, naturalmente, manca
del tutto. È il fine, quello che interessa il Cuoco, e che da lungo tempo egli
persegue ne' più vari modi. Il Giornale italiano, a questo proposito, ci mostra
come l'idea d'un viaggio educativo nei vari reami della storia si sia al
molisano altre volte presentata. Tra tante opere che ci si dànno ogni giorno,
buone, mediocri, cattive quella descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo
di Leone X, non sa rebbe certamente la meno utile per la nostra istruzione e
per la nostra gloria ». Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui
immagina che un suo amico conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà
un saggio in quel colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto
(2 ). Il fine dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina
tutto, soffoca, purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia [Il
romanziere cerca di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una
deficienza fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione
scrive che la sua storia e rinvenuta in un antico manoscritto, autentico,
perchè ritrovato da suo nonno proprio fra le fondamenta d'una sua casa,
ergentesi sovra quel suolo ove un dì superba e Eraclea, manoscritto che è
lacerato in varî punti e perciò lacunoso, onde varje situazioni, prima
accennate, non sono poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una
scusa che non scusa nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non
nell'immaginazione del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma [DÉ SANCTIS,
Saggi critici, v. III, pag. 290 e seg. (2 ) Giorn. ital., 1804; 21, 23, 25
gennaio; n. 9, 10, 11, pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (vedi p. 163
del nostro lavoro ). (3) L. SETTEMBRINI] -noscritto dei Promessi Sposi è
nell'immaginazione di Don Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve
unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte, pedagogici e
didascalici. E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega, sono e non
sono. Noi li vediamo e non li vediamo. Soprattutto, noi non li vediamo mai in
azione, in atto, con i loro caratteri e con le loro passioni. A rigore possiamo
dire che non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci – Platone e il suo
scolaro italiano -- appaiono, se mai, nella stessa funzione del prologo in
certi antichi componimenti teatrali, che si limita ad annunciare ciò che fu o
sarà e fa alcune sue considerazioni. Essi hanno perciò un nome, come ne
potrebbero avere un altro. Non sono essi quelli che contano, conta quel che
dicono, o che per essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente,
scaturisce un dissidio insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè
può avere un fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato
dall'autore: il rammentare agl’italiani che essi furono una volta virtuosi,
potenti, felici, he furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni
che adornano lo spirito umano. Come il Vico nel “De antiquissima italorum
sapiential” si pone dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba
trarre dalle origini della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè
certo essere professata dai sapienti italiani. Così il Cuoco si propone di
dimostrare che, nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra
penisola, ve ne furono di civilissimi, popoli, la cui civiltà fu persino
anteriore alla civiltà ellenica, che dalla prima riceve luce, e non viceversa.
E come chi voglia intendere il ”De antiquissima” non deve tenere nessun conto
del suo titolo e del proemio, e di tutte le vane investigazioni che qua e là,
vi ricorrono dei riposti con cetti, che, secondo Vico supporrebbero talune voci
latine, per considerare unicamente in sè stessa questa dottrina che Cuoco
pretende rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente e dell’anima
italica, e che non è altro che una dottrina modernissima, quale puo essere
costruita da esso Vico. Così chi voglia comprendere il vero spirito del
“Platone in Italia” di Cuoco deve prescindere dall'esil nucleo romantico, come
dalla faticosa ricostruzione archeologica, e considerarlo nella sua attualità.
Esso non esprime i pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del
Cuoco, scrittore del Regno italico, meditante sulle proprie personali
esperienze, e non sulle esperienze di venticinque secoli avanti. All'anno di
grazia vanno, per esempio, riferite tutte le abbondanti considerazioni sulle
leggi, sulla religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera di
Vico è un'opera dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento
temporale è facile. L’opera del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi
derato dal punto di vista dell'arte. Da ciò un insormontabile dualismo, onde
noi veniamo risospinti dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo
XIX di Cristo, da Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di
Taranto ai giacobini di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti. E in questo
urto di due visioni opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non
sappiamo ove finisca la finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo
evidente, perchè noi possiamo ingannarci. V'è troppa erudizione, troppi richiami
di testi classici, e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni,
perchè la fantasia possa godere d’una pura contemplazione. E chi è quella
Mnesilla, che disputa così bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna,
che conosce Vico? E chi è quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del
Pagano, e parafrasa persino versi del Petrarca? [GENTILE, Studi vichiani, p.
95. (2 ) L. SETTEMBRINI, In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto.
Così, passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso sopraggiunge
la sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia,
innalzandosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che [ E chi è
quel Platone, che non ignora i princípi della nazionalità e con Archita disputa
di filosofia moderna! La contaminazione è troppo evidente, e la filosofia
pitagorica e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella vichiana. Da
ciò, notiamo, scaturisce non solo, come abbiam detto una deficienza grande
nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del Platone in Italia. È
questo un'opera d'arte? Un lavoro filosofico? Uno scritto politico? Nulla di
tutto ciò, e pure tutto ciò misto in una unità singolare. Non scritto storico,
perchè, a parte il valore molto discutibile del suo metodo, che egli si propone
di ragionare e giustificare più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano
appunto l'incertezza del pensiero e l'oscurità da vincere, Cuoco è troppo
preoccupato da fini estrinseci alla storia, artistici ed educativi] non
filosofia, perchè Cuoco non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal
l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è patrimonio dell'antichità
con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della spiritualità del reale.
Non opera d'arte per ragioni sovradette, poichè Cuoco non riesce mai a trovare
in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che sola può generare creature
vive. L'arte «non c'è principalmente nota » il Gentile « perchè Cuoco non si
dimentica abbastanza in questa visione confortante, che a un tratto gli sorge
nell'animo, di un'Italia grande per virtù private e pubbliche, perchè retta da
una saggia filosofia. E corre a ogni po' col pensiero all'Italia per cui
scrive, all'Italia presente, piccola, inferma, senza spirito pubblico, senza
amor di grandezza, senza orgoglio di nazione, senza forze vive: e ondeggia tra
la statua brillano sul mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno ad uno, il mio
occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che tutto circondi
l'universo. Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed ivi ritorneranno
e rimarranno unite per sempre! [G. GENTILE, Studi vichiani, p. 375. 235 che
avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto; e gli trema
la mano ». Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del tutto morta e
caduca. Ci sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si placa in una
commossa visione d'amore, o in un paesaggio italico, ricco di tinte forti calde
sfumanti (1 ); poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un fine, che, se è
estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre in lui, e
l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma una
matura attività dello spirito, che, sia che [Per dare un esempio dell'arte del
“Platone in Italia” di Cuoco, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI apparve
degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. Ieri sera sedevamo in quel
poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più delizioso
della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo propriamente sulla
sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la quale, ren dendo più
ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più forti i sensi del
cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco venticello della
sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del colle. Eravamo
soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue in quella
languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera, forse più
grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo in tempo
io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava; ella li
abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li rial zava,
quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello di cotogno?
— mi disse (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi come il vento,
che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che sfoghi tutta
la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello? Quanta verità è in
quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno fiorito, che il vento
della primavera afferra per la chioma e ne con torce tutti i teneri rami!... Tu
non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io tu non li hai detti
tutti.... Esso è stato nudrito colla fresca onda del ruscello che gli scorre
vicino; ma nel mio cuore un vento secco, simile al soffio del vento di Tra cia,
divora.... Io voleva continuare; ma ella mi guardò e le vossi.... Qual potere
era mai in quel guardo, in quell'atto?... Io non lo so; so che tacqui, mi levai
e ritornai in casa, se guendola sempre un passo indietro, senza poter mai più
alzar gli occhi dal suolo.”] eccesso e analizzi le antiche istituzioni del
Sannio; sia che valuti i germi della futura grandezza di Roma, sia che da
questi discenda ai fatti moderni, e indirettamente dica della rivoluzione
francese e de' popoli, che tra un l'altro amano posarsi nelle opinioni medie o
magari tro vare la pace in un Napoleone, tiranno restauratore del l'ordine,
rivela pur sempre un uomo d'alta coscienza, con sapevole di sè e del suo posto
nel suo popolo. Noi dimentichiamo l'artista mal riuscito, il metafisico
contaminato, lo storico poco sicuro, ma ammiriamo il pedagogo, che dai dati
concreti della storia umana trae un non perituro insegnamento. Cuoco parla non
a sè stesso, poi che non si pone dal rigido punto di vista subiettivo proprio
dell'arti sta, ma a noi, a noi italiani; e per noi vibra, per noi di sputa, per
noi parla. Platone non parla al suo discepolo Cleobolo. Archita non parla ai
suoi tarantini. Ponzio non parla ai suoi sanniti. Ma tutti e tre, attraverso il
Cuoco, si rivolgono a noi, e il loro insegnamento mira a formare una più sicura
anima italica. Certo questa posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad
insistere su punti già precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel
Giornale italiano, ma, se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà
d'attingerlo, le ripetizioni non appariranno mai soverchie. Da noi non si
tratta, dice il Cuoco, di conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la
creazione è opera lunga, spesso do lorosa. La tesi principale del ”Platone in
Italia”, che del resto non è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è
che nella nostra penisola vi sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore
alla greca, quella etrusca, che per il mondo ha diffuso luce di sapere
filosofico e splendore d'arte, della quale civiltà quella ellenica e pitagorea
è un posteriore riverbero. L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono
alcuni, per cui le origini greche del pitagorismo sono indubbie, sia essa vera,
come sostengono altri, per cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle
susseguenti civiltà italiche è parimenti comprovata, è profondamente radicata
nel Cuoco, la di cui serietà scientifica non può essere posta in dubbio. Il
Cuoco è fortemente compenetrato di essa, e, laddove crede di vederla comprovata
dai fatti, l'animo suo trema d'intima com mozione e di passionata esaltazione.
Al tempo del viaggio di Platone, la Magna Grecia è in decadenza. Molte città,
che già furono grandi, vennero nelle civili dissensioni rase al suolo. Altre,
che un dì dominarono molte terre, sono ridotte a piccoli borghi. Stirpi, che
hanno un passato glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora
languono nell'ozio e nella effemina tezza. Ma, ovunque, a chi mira intimamente
le cose s'appalesano i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi
ne' monumenti architettonici, vivi negli ordini civili, parlanti nelle
costruzioni filosofiche del pensiero e dell'arte. “Io credo, dunque,” dice
Ponzio a Cleobolo, “ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che
ne' tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricoltura, per
armi e per commercio. Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo. Troverai
però facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso
dirti io: che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro
imperio chiamavasi etrusco. Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia è assai
antica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicendano: l'una è scomparsa,
l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle
innegabili im migrazioni dei greci. Nel suo spirito è italica, erede della
prim. Pitagora, che la impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico,
una sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella
natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è
alterata, i monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi
fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così
nella storia antiche catastrofi hanno distrutto una fiorttura senza pari e
modificato organismi civili possenti. Sappi dunque, dice Cleobolo a Platone,
riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto, che un
tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi etrusco.
Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze; e, de' due mari che, a modo
d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo, Etrusco;
l'altro, dal nome di una di lui colonia, Adriatico. Antichissima è l'origine di
questi etruschi.. Le memorie della sua gloria si confondono con quella de'
vostri iddii e de ' vostri eroi. Ma chi potrebbe dirti tutto ciò che gli
etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii? Oscurità e
favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però che gl’etrusci
estendevano il loro commercio fino all'Asia. Gl’etruschi signoreggiavano tutte
le isole che sono nel Mediterraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla
Grecia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità. Quest'impero però era
troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città che stato unitario,
onde esso avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si era pensato
a render forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun popolo ha
ritenuto il proprio nome: era il nome della regione che abitava, era quello
della città principale. Che importa saper qual mai fosse? Non era il nome
“etrusco”. Ciascun popolo ha governo, leggi e magistrati diversi. Non vi e nè
consiglio, nè magistrato comune se non per far la guerra. Da ciò trassero
origine grandi mali che distrussero ogni organizzazione: La corruzione de'
costumi produce la corruzione delle arti, le quali sono de' costumi ed
istrumenti ed effetti, e poi generò la corruzione della religione, la quale,
corrotta, accelera la morte delle città. Perciò l'Etruria, o Italia, si sfasciò
per legge naturale di cose. Così cade, o Cleobolo, commenta il pellegrino
Platone, qualunque altro impero ove non è unità. Così cade la Grecia,, se non
cessa la disunione tra le varie città che la compongono, tra gl’uomini che
abitano ciascuna città. Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al
l'unità. All'unità si tende ovunque è virtù, il fine della quale è di render i
cittadini concordi e simili. Nè possono. esserlo se non son buoni. La vita
istessa di tutti gl’esseri non è se non lo sforzo degl’elementi, che li
compongono, verso l'unità. Ovunque non vi è unità, ivi non è più nè sapienza,
nè virtù, nè vita, e si corre a gran giornate alla morte. Ma la morte non è mai
interamente morte, bensì tra sformazione, cioè riduzione in nuove forme di
vita, forme nuove, che della prima vita mantengono alcuni elementi originari ed
altri novelli acquistano. Così l'Italia, divenuta deserto nella ruina, tosto si
ripopola di genti, di città, si organizza, si riabbellisce, e si ri presenta
composta all'ammirazione universa. Ma la civiltà italica, che possiamo dire
pitagorea, nella sua essenza è pur essa autoctona, se pure apparentemente
ellenistica. Quando le colonie si sono stabilite in Italia, le stirpi indigene
dalle montagne eran discese al piano, e due civiltà s'erano espresse. Noi
disputiamo, osserva un italico a Cleobolo, per sapere se i ellenici abbian
popolata l'Italia o gl'italiani abbian popolata la Grecia. Ed intanto è l'una e
l'altra regione sono state forse popolate da un popolo – l’ario --, il padre
comune degl’elleni e degl'italiani. Comune è perciò l'origine dei due popoli,
ma, stanziatisi in diverse sedi, gl’italiani hanno avuta una fioritura più
precoce che non gl’ellenici, che pure ai tempi di cui trattiamo, sembrano i più
civili, i maestri degl’italiani in ogni campo dell'umana attività. L'antico
primato italico però ancor si conserva, trasformato sì, ma sempre attivo, e si
manifesta. Su questo primato italico il Cuoco insiste, insiste, insiste
calorosamente. E la sua tesi nucleare. La pittura e in Italia già vecchia ed
evoluta, allorquando Panco, fratello di Fidia, «ipinse ne' portici di Atene la
battaglia di Maratona, riempiendo di stupore i suoi concittadini per la
rassomiglianza che seppe mettere nelle immagini dei duci greci e dei capitani
nemici [Furono gl'italiani che primi danno opera alle matematiche, e ne fecero
un istrumento principale della loro filosofia. Prima che Teodoro reca
agl’elleni la scienza degli italiani, in Grecia, le idee geometriche sono
puerili, frivole, con traddittorie. Invece, gl'italiani, potenti per un
istrumento di filosofia tanto efficace, fanno delle scoperte ammirabili in
tutte quelle parti delle nostre cognizioni che versano sulla quantità: nella
geometria, nella astronomia, nella meccanica, nella musica; ed hanno spinte al
punto più sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre che versan sulla
qualità. La stessa arte della guerra e delle milizie in Italia si perde nella
remotezza de' secoli, onde ancora ai tempi di Platone gl’italici mantengono
indiscussa la loro superiorità. La guerra presso gl’elleni ancora è duello,
scienza rudimentale. Presso gl’italiani l’arte della guerra è savio urto di
masse e organica distribuzione di manipoli. La stessa legge, che regola la
convivenza nella penisola, e originaria e nazionale, frutto di una intima
esperienza sociale, e perciò nel loro complesso immuni da contaminazioni
eterogenee. Le romane XII tavole quindi non sono mai derivate, come alcune
storie vogliono, da Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un popolo, come il
romano, discendente da popoli dell’ateniese più antichi. Vedete dunque, dice
Cleobolo ad alcuni legati di Roma, che una parte delle vostre leggi è più
antica della città vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che
voi dite aver imitate le leggi d’Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’
dieci e quelle dei re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio
sotto il regno del buon Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le
ripetete anche tra queste. Tali sono tutte quelle che regolano gl’auspici,
l’assemblee del popolo, il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e
che so io! Queste dunque già esistevano in Roma; ed e superfluo correr tanti
stadi e valicare un mare tempestosissimo per prenderle da un popolo che non le
ha. Tre quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi
rimane una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può aver luogo
l’imitazione, perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un altro.
Tali sono le leggi sulla patria potestà, sulle nozze, sulle eredità, sulle
tutele. Ma queste cose sono dalle vostre leggi ordinate in un modo tanto
diverso dal nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori abbiano inviati
de' legati in Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per imparare, non
ciò che volevano, ma ciò che non volevano fare. Passando nel campo delle arti
belle, tra gl’elleni la poesia drammatica è meno antica che tra gl'italiani.
Ben poche olimpiadi, dice un comico italiano, Alesside, a Platone e Cleobolo,
contate dalla morte di Tespi e di Frinico, padri della vostra tragedia. Quando
il siciliano Epicarmo si ha già meritato quel titolo di principe della
commedia, che, più di un secolo dopo, gli ha dato il principe de’ vostri filosofi,
Magnete d'Icaria appena balbutiva tra voi un dialogo goffo e villano, che tutta
ancor oliva la rusticità del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi
nasceva, tra noi era già adulta. I poemi omerici stessi nel loro nucleo
fondamentale sono stati elaborati in Italia, poichè di favole omeriche
gl’italiani ne hanno più degl’elleni, e quelle elleniche cominciano ove le
italiche finiscono. In tutto ciò noi non possiamo non notare il partito preso,
la volontà di dimostrare ad ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma,
l'originario primato italico. Ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a
fare perdonarelo varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo
iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione. I vari
popoli hanno fra loro relazioni saltuarie ed estrinseche. Non si sentono
fratelli animati da un'unica missione. Guerre, dissensioni, lotte sono
frequenti, donde scaturisce una condizione di perpetua incertezza. Vedi, da una
parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle
acque, dall'impeto del terremoto. Là un immenso pilastro ancora torreggia
intero, qua un portico si conserva ancora per metà. In tutto il rimanente
dell'area, mucchi di calcinacci, di colonne, di pietre, avanzi preziosi,
antichi, ma che oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce che tali
materiali han formato un tempo un nobile edificio, e che lo potrebbero formare
un'altra volta. Ma l'antico non è più, ed il nuovo dev'essere ancora. È l'unità
che si è infranta, per cui alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata
la debolezza della molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di
alcune stirpi, come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma
questa molteplicità tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e
dall'indistinto pullulare delle genti dove pur sorgere chi di esse fa una sola
gente, un nome unico: ‘Italia.’ Pure, se tu osservi attentamente e con
costanza, ti avvedrai che le pietre, le quali formano quei mucchi di rovine,
cangiano ogni giorno di sito; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri. E
mi par di riconoscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un
architetto ignoto che lavora ad innalzare un edificio no vello. È la gran fede del Cuoco. Da questa unità o
da questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola. Tutta l'Italia,
dice Cleobolo, riunisce tanta varietà di siti e di cielo e di caratteri, e nel
tempo istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti, che per essi mi par
che non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella storia, come han dato
finora, gl’esempi di tutti gl’estremi, di vizi e di virtù, di forza e di
debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino alla distruzione. Tu
conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in Grecia in molti
secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo. Cuoco però ha fede che
questo suo ideale non resterà mero ideale. Questo ideale si concreta in una
entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte vite darà
organizzazione e potenza. Cuoco dice che questo ideale non è nuovo, ma quasi
conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di continuo
risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora concepì l'ardito disegno di
ristabilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può durare. Pitagora
volea far dell'Italia una sola città; onde l’energia di ciascun cittadino ha un
campo più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a cozzare continuamente
con coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume facean nascer suoi fratelli
e la divisione degl’ordini politici ne costringeva ad odiar come nemici. E
l'energia di tutti non logorata da domestiche gare, potesse più vigorosamente
difender la patria comune dalle offese de’ barbari. Egli dava il nome di
barbari a tutti coloro che s’intromettono armati in un paese che non è loro
patria, e chiama poi barbari e pazzi quegl’altri, i quali, parlando una stessa
lingua, non sanno vivere in pace tra loro ed invocano nelle loro contese
l'aiuto degli stranieri. Egli sole dire agl'italiani quello stesso che Socrate
ripete agl’elleni. Tra voi non vi può nè vi deve essere guerra: ciò, che voi
chiamate guerra, è sedizione, di cui, se amassivo veracemente la patria,
dovreste arrossire. Sia stato Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia
egli invece un'idea, un mito elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene,
nel quale esse han fatto confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari
esperienze, ciò dimostra l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza
collettiva del problema unitario. Ma come attingere l'unità? Ritorniamo a
posizioni che noi già sappiamo. Il problema è un problema etico e pedagogico
insieme. A questa meta non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini
civili. Onde non vi sia chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e
chi possa venderla. Ma l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie
della viltà e del vizio, sia quasi co stretta a prender quella della virtù. È
necessario istruir il popolo. Un popolo ignorante è simile all'atabulo, che
diserta le campagne: spirando con minor forza il vento delle montagne lucane,
porta sulle ali i vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario
istruir coloro che devono reggerlo. Un popolo con centomila piedi ha sempre
bisogno di una mente per camminare, e, con centomila braccia, non ha una mente
per agire. Ma quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve
essere per sua natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia,
secondante le infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere
educazione vera, cioè deve parlare agl’spiriti, e perciò deve essere in essi, e
non fuori di essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella
delle classi povere, diversa però non nell'intima qualità. L'una e l'altra si
volgono alla stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. Un
popolo, dicono alcuni, il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe
il più saggio ed il più virtuoso de'popoli. Non è invero così. Riunite i saggi
di tutta la terra, e formatene tante famiglie. Riunite queste famiglie, e
formatene una città: qual città potrà dirsi eguale a questa! Nessuna, risponde
il Cuoco o Archita per lui. Essa non meriterebbe neanche il nome di città,
perchè le mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo mini in unione di
cittadini. La vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata
e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri. È necessario
perciò ai fini dello stato che gl'indotti coesistano accanto ai dotti, come i
poveri accanto ai ricchi, perché si realizzi quell’armonica convergenza di
forze distinte che è la vita. Ciò, che veramente è neces sario in una città, è
che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad
ottener l'uno e l'altro, sono necessarie egualmente la scienza e la
subordinazione. Diversa sarà l'educazione dei poveri da quella dei dirigenti.
Ma una educazione per i primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere
la loro stima. Non perdete la stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo
non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica
severissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sembrano spesso
frivole, ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il
popolo è ingiusto? Quando si tratta d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi.
Tutt’i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe. Al popolo occorre insegnare
tutto ciò che è necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile
o più utile il lavoro, più costante e più dolce la virtù. Al savio, invece, è
necessaria la conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della
medesima può render più chiara, più ampia e più sicura la conoscenza delle
stesse cose. Al volgo conoscer le vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe
farne quell'uso che ne fanno i savi. È necessario però che ne conosca una, in
cui la sua mente si acqueti. E questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi
non gli direte una cagione, se la farneticherà egli stesso. Errano perciò i
filosofi che credono opportuno divulgare la filosofia è mettere il popolo a
contatto con i sublimi princípi della vita. Del resto ben diversa è la natura
del dotto filosofo e del popolano. Laddove il savio è ragione, il popolano è
tutto senso e fantasia. Il popolo è un eterno fanciullo che ha sempre più cuore
che mente, più sensi che ragione. E quindi ad esso bisogna parlare con quello
stesso linguaggio che s'usa con il fanciullo, dan dogli in un certo qual modo
cose e massime già fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e
parlarne con il linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi.
Se è vero che gl’esempi muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono
altro che esempi, debbon muovere più degli argomenti. I proverbi, che a noi
possono sembrare inintelligibili, perchè ignoriamo i veri costumi dei popoli
per i quali furono immaginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo
scopo prefissoci. La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con
mezzi diversi di quelli che ci si offrono nella filosofia. La virtù è saviezza:
la saviezza ha bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I
pregiudizi, gl’errori, i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono
come le onde del nostro Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel
bacino, che tu vuoi scavare a poco a poco per formarne un porto. È necessità
piantare con mano potente una diga, che freni la violenza delle onde sempre
mobili. Prima di avvezzare il popolo a ragionare, convien comandargli di
credere. E, per convincerlo che il vero sia quello che tu gli dici, convien per
suadergli, prima, che non possa essere vero quello che tu non dici. Non
cerchiamo l'uomo che abbia detto più verità, ma quello che ha persuase verità
più utili. E, se talora la necessità ha mossi i grandi uomini ad illudere il
popolo, cerchiamo solo se l'hanno utilmente illuso. Sono queste conclusioni che
già sono implicite nel saggio storico, ma riescono sempre interessanti, sia per
il loro intrinseco valore, sia per la forma con la quale l'autore ce le
prospetta. Questa educazione che mira a far sentire l'interesse comune alla
virtù, e quindi a radicarla in eterno, deve precedere la stessa attività
legislativa, se non si vuole che essa cada nel vuoto. Quando tu avrai incise le
leggi della tua città sulle tavole di bronzo, nulla potrai dir di aver fatto,
se non avrai anche scolpita la virtù ne' cuori de' suoi cittadini. La legge e
la costume sono i principali oggetti di tutta la scienza politica. La prima
risponde all'ordine eterno che è nelle cose, sempre perciò buono e vero; i se
condi invece presentano estreme varietà, e, nella maggior parte dei casi, ci si
presentano anzi che come correttivo delle prime, come deviazione da esse; onde
coloro, che traggono da una corrotta natura de' popoli le norme obiettive del
vivere, invece di evitare il male, spesso lo sancisce, e la sua opera
pedagogica manca. La legge è sempre una, perchè la natura dell'intelligenza è
immutabile. Mutabile è la natura della materia, di cui gli uomini sono in gran
parte composti; e quindi è che il costume inclina sempre ad allontanarsi dalla
legge. È necessità, dunque, conoscere del pari la natura sempre mobile di
questo fango di cui siamo formati, onde sapere per quali cagioni i nostri
costumi si allontanano dalle leggi, per quali modi, per quali arti possano
riavvicinarsi alle medesime; il che forma l'oggetto di tutta la scienza
dell’educazione. Nn di quella educazione che le balie soglion dare ai nostri
fanciulli, ma di quell'altra che Licurgo e Minosse seppero dare una volta agli
spartani ed ai cretesi. La ignoranza di una di queste due scienze ha
moltiplicati sulla terra i funesti esempi di quei legisla tori, i quali,
volendo tentare riforme di popoli, hanno o cagionata o accellerata la loro
ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle sole idee intellettuali delle leggi
ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li hanno spinti ad una meta a cui non
potevan pervenire, perdendo in tal modo il buono che poteano ottenere, per
avere un ottimo che era follia sperare; o, conoscendo solo i costumi ed igno
rando il vero bene ed il vero male, hanno sancito i me desimi, ed han fatto
come quel nocchiero, il quale, non conoscendo il porto in cui dovea entrare, e
servendo ai venti ed all'onde, ha rotto miseramente il suo legno tra gli
scogli. La legge però resterà sempre un
astratto, se gl’uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più
conta, la sua utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da
pene, onde possa con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da
premi, onde possa allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin
guaggio utilitario ed edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa
scienza, che si occupa dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili
sono senza premî e pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so
pra tutto delle pene con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve
studiare non tanto i rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di
essi rapporti, entità concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto
in veste d’educatore, anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza
delle pene e de' premî » dice il Cuoco con perfetta sicurezza « appartiene alla
pubblica educazione. La legge, date alla città, hanno necessità di uomini atti
ad eseguirle, che veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono
nell'ordine eterno delle cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute
provenienti dalla divi nità. Perciò il primo dovere degli esecutori è di
comandare ne' limiti di esse, sovra la loro base, poichè solo così si adempie
l'universa volontà di Dio, o meglio, s'attua l'ar monia immanente nelle cose. «
Ora, ordinate le leggi di una città, per qual modo ritroveremo noi gli uomini
degni di eseguirle? Questa èla parte più difficile della scienza della
legislazione: perchè, da una parte, le buone leggi senza il buon governo sono
inutili; e, dall'altra, sulla natura del migliore de’governi gli uomini son più
discordi che su quella delle buone leggi. Anche questo secondo problema è di
natura spirituale e pedagogica: la preparazione della classe dirigente, la sua
natura, ecc. non possono non rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto
i caratteri e le forme. In quanto al problema subordinato se sia da accogliere
il governo di un solo, di pochi, o di molti; il governo ereditario o
l'elettivo; e tra quest'ultimo quello regolato dalla nascita, dagli averi,
dalla sorte, questo è un pro blema essenzialmente relativo e che del resto
abbiamo già storicamente esaminato in altra parte di questo la voro. La
risoluzione è offerta dal Cuoco in poche parole che giova riportare. « Noi
diremo il miglior de' governi esser quello che non è affidato ad uno solo,
perchè un solo può aver delle debolezze; non a tutti, perchè tra tutti il
maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi sempre sono gli ottimi. E
questi pochi avranno obbligo di render ragione delle opere loro, onde la spe
ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare per negligenza le leggi o a
conculcarle per ambizione; e perciò divideremo il pubblico potere in modo che
le diverse parti del medesimo si temperino e bilancino a vicenda, e, dando a
ciascuna classe di cittadini quella parte a cui pare per natura più atta,
riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e di tutti. Ma piuttosto
altre considerazioni occorre fare, che ci riportano ad un punto troppo caro al
Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo: le considerazioni intorno alla
religione. Abbiamo già visto i rapporti tra autorità reli giosa ed autorità
statale, il posto che la religione deve occupare nello Stato, e lo abbiamo
visto da un punto essenzialmente storico, cioè in rapporto ai tempi del mo
lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso problema da un diverso punto,
osservando quale posto può occupare la religione nella formazione spirituale
dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal quale non si può
prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali credon poter
tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter colla
religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite dei
cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante lo
stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi, religione
e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina. Il bisogno della
religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni ideali quanto su ragioni
pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli occhi
de'singoli e acquista maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò menomi la
religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso assorbe quel che può
assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della religione, lasciando
intatto il dommatico. I paesi, in cui i patrizi conservano autorità, sono
quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in questi paesi la religione può
moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose [ religione e costumi, Stato
e Chiesa) sono naturalmente inseparabili tra loro; perchè nè mai religione emen
derà utilmente i costumi se non sarà dipendente dal go verno; nè mai religione,
che non emendi i costumi e non ispiri l'amor della patria, potrà esser utile
allo Stato » (1 ). Ora concepite in questa maniera le due classi dei ricchi e
dei poveri, dei savi e degli stolti, il Cuoco riguarda la vita pubblica come
una loro armonizzazione continua, in una evoluzione ininterrotta. Ricco non
vuol dire a priori savio, ma è certo che il ricco, coeteris paribus, può pro curarsi
un'educazione superiore, che il povero non può procacciarsi che in casi
eccezionali, onde quasi sempre, nella sua indigenza, resterà ignorante e spesso
stolto. L'opposizione tra savi e stolti si può in linea generalis sima
presentare come opposizione tra patrizi e plebei, op posizione delucidata anche
dal fatto che i patrizi, cioè coloro che nelle epoche primitive s'affermano
negli Stati e perpetuano la loro posizione dirigente per eredità di sangue e di
censo, sono, per lunga consuetudine e pratica pubblica, i più atti al
reggimento civile, mentre i plebei, gente nova, spesso portata su da súbiti
guadagni, sono di solito inesperti e fiacchi, perchè ignari del nuovo go verno
della cosa statale. Il segreto della varia vita delle città è nella saggia ar
monia di queste due forze, l'esperienza matura dei patres e la giovinezza
audace delle classi nuove. Quelle nelle quali i primi furono troppo fieri
difensori dei loro diritti lan guirono: i patres non vollero essere giusti,
preferirono es sere i più forti, onde fu mestieri che divenissero tirannici ed
oppressori: conservarono i loro privilegi, ma il prezzo di questi privilegi fu
la debolezza dello Stato, che al primo urto divenne preda dell' inimico. Quelle
altre, in cui la plebe per atto rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi
diritti, ebbero sempre costituzioni ispirate più dalla vendetta che dalla
sapienza, e poterono durare, per lo più, breve tempo, per turbolenze e
dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli Stati, ove si giunge ad una
reciproca graduale integrazione de' due opposti in una vitale sintesi. È
nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano mai retrocedere », ed
hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e la plebe ed i grandi
vengono tra loro ad eque transazioni. Ma pur tuttavia il Cuoco. concepisce la
lotta di classe non solo come un utile spediente, purché mantenuta ne' limiti
della legge per giungere ad un buono e durevole reggimento politico, ma come
necessità di vita: e qui è un punto fermo della sua dottrina politica, che nel
suo saggio storico non appare, e che nel ‘romanzo’, “Platone in Italia,” si
rivela nella sua luminosa chiarezza. Or vedi tu questa lotta eterna tra gli
ottimati e la plebe, tra i ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non solo di
Roma, di Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi non è
vita: ivi un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le passioni
dell'uomo e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte le più
grandi imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro: e che
invidierebbe, se son tutti nulla? Quanto dura la vera vita di una città? Tanto
quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e quasi
diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè dall'estrema
ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di ordini, di co
stumi, di idee. Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto, fanno tutto,
posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città sarebbe
sempre barbara, cioè sempre fanciulla. È necessario che si ceda alla plebe,
poco a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che le
bisogna: l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o languore
più funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo prosperi sempre
e che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più certo della sua
prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla ! Ma due volte ma
guai a quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È segno che la
miseria gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà dell'anima, ma anche
l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e che consiste nel la
gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con modestia, e riceva con
gratitudine, e non cessi mai di sperare » (1 ). Da queste considerazioni il
molisano trae una impor tante conclusione. Se la vita è molteplicità, ma molte
plicità non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la molteplicità è pur
necessaria per attingere quella diffe renziazione di funzioni, il cui
convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo perciò è varietà, e
non può essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u topia, anzi
un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi saranno
sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi industriosi e
molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I partigiani de' primi
si diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei. Allorquando la plebe
avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più avranno a cedere, allora,
« dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si vorranno eguagliare anche
gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà l'eguaglianza anco dei
beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose. Eterne, perchè la
ragione delle dispute sussisterà sempre: vi saranno sempre poveri, vi saranno
sempre uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno di meritar molto.
Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più numerosa del
popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali, nulla avendo
che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare.... Le assemblee
diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I cittadini dalle sedizioni
civili passeranno alla guerra. Fra tanti partiti nascerà la necessità che
ciascuno abbia un capo; tra tanti capi uno rimarrà vincitore di tutti. Ed avrà
fine così la lite e la vita della città. Da ciò scaturisce un'altra
conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre osservazioni circa la
politica cuochiana: i più adatti al pubblico reggimento non sono nè i ricchi,
pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in senso inverso dei ricchi,
ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e diversi aspetti, secondo i
vari tempi e la mutevole realtà storica, è nello stato. I migliori ordini
pubblici sono inutili se non vengono affidati ai migliori cittadini. Quelli
sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini, i quali fan sì che la somma
delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi. Ma dove sono gli uomini
ottimi? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i massimi, corrotti sempre
dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città, avviliti sempre dalla miseria.
Ecco qui ritornare il concetto da noi già esaminato di un governo temperato,
equilibrio di forze opposte, e perciò armonia e giustizia, la quale giustizia
null'altro è se non obiettiva elisione d'ogni antagonismo e d'ogni dissension.
Ove avvien che siavi un ordine scelto, ma nel tempo istesso la facoltà a tutti
d'entrarvi, tostochè per le loro azioni ne sien divenuti degni, ivi tu eviti
gli scogli del l'oligarchia e della democrazia. Il popolo non permetterà che i
grandi, per gelosia di ordine, trascurino il merito; i grandi non soffriranno
che altri si elevi per via di viltà e di corruzione: per opra de’secondi
eviterai quella dissi pazione che ne' tempi di pace dissolve le città popolari;
per opra de' primi eviterai quella viltà per cui le città oligarchiche temono i
pericoli, e quel livore col quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed
ardito, e che vien dal timore dei grandi di dover ricorrere al merito di un
uomo il quale non appartenga al loro numero. Queste città così temperate sono
quelle che fanno più grandi cose delle altre, perchè non vi manca mai nè chi le
pro ponga nè chi le esegua. Soltanto attraverso questa coscienza politica dei
diri genti, attraverso quest'educazione dei poveri, attraverso questa
organizzazione di classi, sarà possibile realizzare quell’unione che è nel
pensiero del Cuoco: fare delle varie stirpi italiche un popolo unico. Come
nelle singole città è possibile un contemperamento di interessi e di volontà
singole, così nella più vasta Italia è possibile un armo nizzamento di stirpi,
di genti, d' ideali diversi. Ma, mentre nelle città il processo d’unità procede
dal l'interno all'esterno, poichè una tirannia imposta estrin secamente è
sempre nociva e deleteria; nell'Italia il processo unitario può essere
affrettato dalla conquista e poi cementato dall'opera pubblica e pedagogica,
dalla religione unica e dalla legge unica. Il primo effetto della filosofia,
dice il Cuoco, è quello di avvezzar gli uomini a considerar la conquista non
come un mezzo di distrug gersi, ma di difendersi. E e, aggiungiamo noi, si di
fende spesso più validamente colui, che, essendo forte impone la sua ragion
civile, la sua legge agli altri, e non si assopisce in una pace senza parentesi
d'attività belli gera, assopimento che può diventare anche sonno e poi ancora
morte. La conquista perciò non deve rimanere mera conquista, cioè estrinseca
forza, ma deve conver tirsi in attività pubblica, imporsi alle volontà,
plasmarle di sè, unificarle nel nome d'un superiore verbo, il diritto. Questa,
ammonisce il Cuoco, è la missione d’un popolo tra i tanti popoli della
penisola, che Platone e Cleobolo nel loro viaggio incontrano, missione divina,
missione il cui spiegamento d'altra parte è nell'attualità della storia. Certo
Platone e Cleobolo, nel frammentarismo italico del V secolo, non avrebbero mai
potuto dire quel che Vincenzo pone in bocca loro; ma le loro osservazioni, per
quanto il nostro spirito critico le riferisca all'autore del romanzo, non
possono non commoverci, e la commozione è in noi com'è nel molisano. In una
prima età, scrive Platone all'amico Archita, le città vivono pacificamente, e
perciò s ' ignorano; ma in un secondo tempo si conoscono, e quindi si fanno
guerra, o con le armi o con le sottigliezze del commercio; ma questa conoscenza
e questa guerra non sono mai distruzione, ma reciproca integrazione: « da
questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia d'industria, io veggo
un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi; e, siccome ciascuna
di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche..., così veggo che, ad impedire
la servitù del genere umano ed a conservar più lungamente la pace sulla terra,
il miglior consiglio è sempre quello di accrescer coll' unione di molte città
il numero de' cittadini, prima e principal parte di quella forza, contro la
quale la virtù può bene insegnare a morire, ma la sola cieca e non calcolabile
fortuna può dar talora la vittoria ». « Non pare a te » continua il filosofo
antico caldo ne' suoi accenti e attraverso lui il magnanimo Cuoco « che la
natura, colle diramazioni de' monti e de' fiumi, col circolo de' mari, colla
varietà delle produzioni del suolo e della temperatura de'cieli, da cui dipende
la diversità de' nostri bisogni e de' costumi nostri, e colla varia mo
dificazione degli accenti di quel linguaggio primitivo ed unico che gli uomini
hanno appreso dalla veemenza de gli affetti interni e dall'imitazione de’vari
suoni esterni; non ti pare, amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli
abitanti di ciascuna regione: — Voi siete tutti fratelli: voi dovete formare
una nazione sola? Da ciò scaturisce la
necessità della conquista come mezzo per affrettare dall'esterno un processo
naturale: chi si assume questa missione, diviene arbitro e stru mento della
Provvidenza, Provvidenza che per il Cuoco, come del resto per Giambattista
Vico, è nell'immanenza della storia, piuttosto che nella celeste trascendenza
del divino posto fuori di noi: questo l'intimo concetto, se pur qualche volta
tradito dall'esteriorità delle parole e dei simboli, nonchè da una certa
oscillanza di pensiero. In Italia, intuisce Platone, un solo popolo sarà di ciò
capace, il romano, che sovra la fiera rudezza dei san niti, sovra la
imbecillità effeminata dei greci del mez zodì, sovra la volubilità dei galli
del Nord imporrà la sua legge, il suo diritto, strumento d’universale civiltà,
e che, in un lontano avvenire, venuto a contatto con i cartaginesi e poi con i
greci, non solo li debellerà come entità politiche, ma solo s'assiderà
dominatore del Me diterraneo e del mondo. Rimarrà un solo popolo dominatore di
tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto il genere umano tacerà; ed i
superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio, rivolge ranno nelle proprie
viscere il pugnale ancor fumante del sangue del genere umano; e quando tutte le
idee liberali degli uomini saranno schiacciate ed estinte sotto l'im menso
potere che è necessario a dominar l'universo, e le virtù di tutte le nazioni
prive di vicendevole emula zione rimarranno arrugginite, ed i vizi di un sol
popolo e talora di un sol uomo saran divenuti, per la comune schiavitù, vizi
comuni, sarà consumata allora la vendetta degli dèi, i quali si servono delle
grandi crisi della natura per distruggere, e dell'ignoranza istessa degli
uomini per emendare la loro indocile razza. Grande sogno questo, in cui vibra
tutto l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma che noi critici non dob
biamo lasciare nel passato inerte e perciò morto, come quello che non ritornerà
più, ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel presente del 1806, che noi
vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa e menomata da straniere
superfetazioni, sia pur benigne come quelle napoleoniche, l'unità era davvero
un sogno; nel nostro presente, nella nostra vita, che non è stasi, ma divenire,
e perciò slancio, espansione, conquista prima di noi stessi, della nostra
maggiore unità, e poi del vario mondo dei commerci e delle genti, che noi non
vogliamo lasciare fuori di noi, inerte grandezza da contemplare taciti am
miranti, ma rendere nostre, per la nostra civiltà, che è civiltà latina. Considerato
da questo punto di vista altamente poli tico, prescindendo da ogni
considerazione artistica o filo sofica, il Platone in Italia riacquista una
grandissima importanza, « riacquista » come ben dice il Gentile « tutto il suo
valore, ed è la più grande battaglia, combattuta dal Cuoco, per il suo ideale
della formazione dello spirito pubblico italiano. È l'animato ricordo d'un
tempo che fu e d'una grandezza, che sta a noi rinnovel lare, in cui tutta
l'Italia si pose maestra di civiltà tra i popoli, che da essa appresero le cose
belle della vita, la poesia, il teatro, la musica, la scultura, la pittura, che
da essa intesero i primi precetti del vivere e le norme de ' savi reggimenti;
in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi scussa, che nella storia non si ripresenterà
più se non forse nel Rinascimento: ma, oltre che ricordo, è nello stesso tempo
vivo presente, perchè molte considerazioni che si fanno riferendosi all'Impero
etrusco, alla Magna Grecia, a Roma calzano nella loro semplicità, s'adattano
alla nostra travagliata vita moderna: ciò fa del Platone un libro, la cui
importanza trascende la sua deficienza artistica, il suo ibridismo filosofico.
Perciò un solo raffronto legittimo, quello tra il Platone e un altro grande
libro, il Primato morale e civile degli italiani, come quelli il cui obietto è
uno solo, e la materia alfine è pur essa comune: un'alta nazionale pedagogia
politica. Questo parallelismo fu prima accennato dal Gentile (2 ), ma poi
sbozzato da un francese, acuto studioso del Cuoco, al quale nel nostro studio
abbiamo frequentemente cennato, Paul Hazard (3 ). ac (1 ) G. GENTILE, Studi
vichiani, p. 386, (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 387. (3 ) P. HAZARD, op.
cit., p. 246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5 raffronta il Cuoco e il Gioberti
e dice che il “Platone in Italia” è la preparazione del Primato morale e civile
degli Italiani. Il principio genetico dei due libri è lo stesso: una na zione
non può esplicare le forze vere, che sono in essa in potenza, nè può di esse
usare, se non ha la coscienza d'avere queste forze, o almeno la coscienza di
poterle sviluppare, e quindi dispiegare nella storia: perciò bi sogna nutrire
un orgoglio nazionale, che, basato sulla concreta realtà, è legittimo, non
arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il Primato giobertiano, pur riannodan
dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti italo pelasgiche, trova il
suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di purità religiosa e
d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a sufficienza legato
al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; il Cuoco, pur mantenendo
ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca e poi ancora romana,
pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel Medio Evo,
questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li bere forze, espresse
da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed italiana, nel loro
sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza; nello Stato laico,
insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi, ma affermi pure
una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha nulla a che fare.
E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle quali bisogna
parlare, perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la volontà di
Stato realmente Stato, Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini,
tanto diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del
futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel
pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. Cuoco.
Grice e Curcio: l’implicatura conversazionale dei
corpi esistenti – lucrezio epicureo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Noto). Filosofo. Grice: “Curcio is what we could
call at Oxford a poet; he wrote a little book ‘Esistentee,’ an obvious parody
on Sartre, ‘L’essistentialismo e un umanesimo.’ – His background is philososophical
though, and it shows!” Ensegna a Noto e Messina. Direttore Generale per
l'Ordine Ginnasiale. Altre opere:
“Armonia e dissonanza” – consonanza e dissonanza (Noto) – etimologia di armonia
– cognata con ‘armento’ e ‘aritmetica’ – “La sfinge” – “La piramide”. “Il
prezzo della salute” (Noto). Commenti, libri I-XXIV – Roma” – “Il giro del
templo” (Bonacci, Roma); “Mottetto” (Bonacci, Roma); “Fugato” (Bonacci, Roma);
“II grano di follia” (Bonacci, Roma); “Senza più peso” (Bonacci, Roma); “Assolo,
(Bonacci, Roma); “A due voci” (Bonacci, Roma); “L'avita vocazione” (Bonacci,
Roma); “Esistente” (Bonacci, Roma); “Altri occhi” (Bonacci, Roma); “Le due
cene” (Bonacci, Roma); “Sitio” (Bonacci, Roma); “Consummatum” (Bonacci, Roma);
“Derelictus” (Bonacci, Roma); “In horto” (Bonacci, Roma); “Paradossale”
(Bonacci, Roma); “Felix” (Bonacci, Roma); “Deliramentum” (Bonacci, Roma). MARIUS
THE EPICUREAN. THE RENAISSANCE : Studies
in Art and Poetry. Globe. IMAGINARY PORTRAITS : A Prince of Court
Painters— Denys I'Auxerrois — Sebastian van Storck — Diike Carl of
Rosen- mold. Globe, APPRECIATIONS, with an Essay on Style. Globe. PLATO
AND PLATONISM : A Series of Lectures. Globe. MARIUS THE EPICUREAN. HIS
SENSATIONS AND IDEAS. WALTER PATER. FELLOW OF BRASENOSE. a
Xfiiiepivis Svapos, Sre fi^Kiarai ai viKTCs m^
LIBRARY MACMILLAN AND CO., Ltd. The Religion of Numa. White-nights.
Change of Air. The Tree of Knowledge 5. The Golden Book
6. Euphuism. A Pagan End. Animula Vagula. New Cyrenaicism. On the Way. The
Most Religious City in the World. The Divinity that doth hedge a King. The
"Mistress and Mother" of Palaces .Manly Amusement. Stoicism at Court.
Second Thoughts. Beata Urbs. The Ceremony of the Dart. The Will as
Vision Two Curious Houses. Guests. Two Curious Houses. The Church in
Cecilia's House. The Minor Peace of the Church. Divine Service. A
Conversation not Imaginary . . Sunt Lacrim^e Rerum. The Martyrs. The Triumph of
Marcus Aurelius. Anima naturaliter Christiana. MARIUS THE EPICUREAN
BY WALTER PATER. ESSAYS FROM THE GUARDIAN. Extra Crown
8vo. 6s. G ASTON DE LATOUR : An Unfinished Romance. Prepared
for the Press by CHARLES L. SHADWELL, Fellow of Oriel College. Extra
Crown 8vo. 7s. 6d. MISCELLANEOUS STUDIES : A Series of Essays.
Pre- pared for the Press by CHARLES L. SHADWELL, Fellow of Oriel
College. Extra Crown GREEK STUDIES : A Series of Essays. Prepared for
the Press by SHADWELL, Fellow of Oriel. MARIUS THE EPICUREAN. His
Sensations and Ideas. IMAGINARY PORTRAITS : A Prince of Court Painters
; Denys 1'Auxerrois : Sebastian van Storck ; Duke Carl of
Rosenmold. THE RENAISSANCE : Studies in Art and Poetry. Extra. PLATO AND
PLATONISM : A Series of Lectures. Extra Crown 8vo. 8s.
APPRECIATIONS, with an Essay on Style. Extra Crown. LIFE OF WALTER PATER. By
ARTHUR C. BENSON. English Men of Letters Series. MACMILLAN
AND CO., LTD., LONDON. MARIUS THE EPICUREAN HIS
SENSATIONS AND IDEAS WALTER PATER. FELLOW OF BRASENOSE, OXFORD. Xet/u/nvos
oVetpos, ore pjjcurrat at MACMILLAN AND CO., LIMITED
ST. MARTIN'S STREET, LONDON. STOICISM AT COURT. SECOND THOUGHTS. BEATA
URBS. THE CEREMONY OF THE DART. THE WILL AS VISION. TWO CURIOUS HOUSES i.
GUESTS .TWO CURIOUS HOUSES 2. THE CHURCH IN CECILIA'S HOUSE. THE MINOR PEACE OF THE CHURCH. DIVINE SERVICE.
A CONVERSATION NOT IMAGINARY. SUNT LACRIM^E RERUM. THE MARTYRS. THE TRIUMPH OF
MARCUS AURELIUS . . 197 28. ANIMA NATURALITER CHRISTIANA. Marius
the Epicurean HIS SENSATIONS AND IDEAS. PATER. London. (The Library
Edition.). The Religion of Numa. White-Nights 3. Change of Air 4.
The Tree of Knowledge 5. The Golden Book 6. Euphuism. A Pagan End. Animula
Vagula. New Cyrenaicism On the Way. The Most Religious City in the World.
The Divinity that Doth Hedge a King. The “Mistress and Mother” of Palaces
14. Manly Amusement. I have placed an asterisk immediately after each of
Pater’s footnotes and a + sign after my own notes, and have listed each of my
notes at that chapter’s end. Greek typeface: For this full-text edition,
I have transliterated Pater’s Greek quotations. If there is a need for the
original Greek, it can be viewed at my site, http://www.ajdrake.com/etexts, a
Victorianist archive that contains the complete works of Walter Pater and many
other nineteenth-century texts, mostly in first editions. MARIUS THE
EPICUREAN, VOLUME ONE WALTER PATER Χειμερινὸς ὄνειρος, ὅτε μήκισται
αἱ νύκτες+ +“A winter’s dream, when nights are longest.” Lucian,
The Dream/ MARIUS THE EPICUREAN. “THE RELIGION OF NUMA” -- As, in
the triumph of Christianity, the old religion lingered latest in the country,
and died out at last as but paganism—the religion of the villagers, before the
advance of the Christian Church; so, in an earlier century, it was in places
remote from town-life that the older and purer forms of paganism itself had
survived the longest. While, in Rome, new religions had arisen with bewildering
complexity around the dying old one, the earlier and simpler patriarchal
religion, “the religion of Numa,” as people loved to fancy, lingered on with
little change amid the pastoral life, out of the habits and sentiment of which
so much of it had grown. Glimpses of such a survival we may catch below the
merely artificial attitudes of Latin pastoral poetry; in Tibullus especially,
who has preserved for us many poetic details of old Roman religious
usage. At mihi contingat patrios celebrare Penates, Reddereque antiquo
menstrua thura Lari: —he prays, with unaffected seriousness.
Something liturgical, with repetitions of a consecrated form of words, is
traceable in one of his elegies, as part of the order of a birthday sacrifice.
The hearth, from a spark of which, as one form of old legend related, the child
Romulus had been miraculously born, was still indeed an altar; and the
worthiest sacrifice to the gods the perfect physical sanity of the young men
and women, which the scrupulous ways of that religion of the hearth had tended
to maintain. A religion of usages and sentiment rather than of facts and
belief, and attached to very definite things and places—the oak of immemorial
age, the rock on the heath fashioned by weather as if by some dim human art,
the shadowy grove of ilex, passing into which one exclaimed involuntarily, in
consecrated phrase, Deity is in this Place! Numen Inest!—it was in natural
harmony with the temper of a quiet people amid the spectacle of rural life,
like that simpler faith between man and man, which Tibullus expressly connects
with the period when, with an inexpensive worship, the old wooden gods had been
still pressed for room in their homely little shrines. And about the time
when the dying Antoninus Pius ordered his golden image of Fortune to be carried
into the chamber of his successor (now about to test the truth of the old
Platonic contention, that the world would at last find itself happy, could it
detach some reluctant philosophic student from the more desirable life of
celestial contemplation, and compel him to rule it), there was a boy living in
an old country-house, half farm, half villa, who, for himself, recruited that
body of antique traditions by a spontaneous force of religious veneration such
as had originally called them into being. More than a century and a half had
past since Tibullus had written; but the restoration of religious usages, and
their retention where they still survived, was meantime come to be the fashion
through the influence of imperial example; and what had been in the main a matter
of family pride with his father, was sustained by a native instinct of devotion
in the young Marius. A sense of conscious powers external to ourselves, pleased
or displeased by the right or wrong conduct of every circumstance of daily
life—that conscience, of which the old Roman religion was a formal, habitual
recognition, was become in him a powerful current of feeling and observance.
The old-fashioned, partly puritanic awe, the power of which Wordsworth noted
and valued so highly in a northern peasantry, had its counterpart in the
feeling of the Roman lad, as he passed the spot, “touched of heaven,” where the
lightning had struck dead an aged labourer in the field: an upright stone,
still with mouldering garlands about it, marked the place. He brought to that
system of symbolic usages, and they in turn developed in him further, a great
seriousness—an impressibility to the sacredness of time, of lifeand its events,
and the circumstances of family fellowship; of such gifts to men as fire,
water, the earth, from labour on which they live, really understood by him as
gifts—a sense of eligious responsibility in the reception of them. It was
a religion for the most part of fear, of multitudinous scruples, of a year-long
burden of forms; yet rarely (on clear summer mornings, for instanrce) the
thought of those heavenly powers afforded a welcome channel for the almost
stifling sense of health and delight in him, and relieved it as gratitude to
the gods. The day of the “little” or private Ambarvalia was come, to be
celebrated by a single family for the welfare of all belonging to it, as the
great college of the Arval Brothers offici ated at Rome in the interest of
the whole state. At the appointed time all work ceases; the instruments of
labour lie untouched, hung with wreaths of flowers, while masters and servants
together go in solemn procession along the dry paths of vineyard and cornfield,
conducting the victims whose blood is presently to be shed for the purification
from all natural or supernatural taint o f the lands they have “gone
about.” The old Latin words of the liturgy, to be said as the procession moved
on its way, though their precise meaning was long since become unintelligible,
were recited from an ancient illuminated roll, kept in the painted chest in the
hall, together with the family records. Early on that day the girls of the farm
had been busy in the great portico, filling large baskets with flowers plucked
short from branches of apple and cherry, then in spacious bloom, to strew
before the quaint images of the gods—Ceres and Bacchus and the yet more
mysterious Dea Dia—as they passed through the fields, carried in their little
houses on the shoulders of white-clad youths, who were understood to proceed to
this office in perfect temperance, as pure in soul and body as the air they
breathed in the firm weather of that early summer-time. The clean lustral water
and the full incense-box were carried after them. The altars were gay with
garlands of wool and the more sumptuous sort of blossom and green herbs to be
thrown into the sacrificial fire, fresh-gathered this morning from a particular
plot in the old garden, set apart for the purpose. Just then the young leaves
were almost as fragrant as flowers, and the scent of the bean-fields mingled
pleasantly with the cloud of incense. But for the monotonous intonation of the
liturgy by the priests, clad in their strange, stiff, antique vestments, and
bearing ears of green corn upon their heads, secured by flowing bands of white,
the procession moved in absolute stillness, all persons, even the children,
abstaining from speech after the utterance of the pontifical formula, Favete
linguis!—Silence! Propitious Silence!—lest any words save those proper to the
occasion should hinder the religious efficacy of the rite. With the lad
Marius, who, as the head of his house, took a leading part in the ceremonies of
the day, there was a devout effort to complete this impressive outward silence
by that inward tacitness of mind, esteemed so important by religious Romans in
the performance of these sacred functions. To him the sustained stillness
without seemed really but to be waiting upon that interior, mental condition of
preparation or expectancy, for which he was just then intently striving. The
persons about him, certainly, had never been challenged by those prayers and
ceremonies to any ponderings on the divine nature: they conceived them rather
to be the appointed means of setting such troublesome movements at rest. By
them, “the religion of Numa,” so staid, ideal and comely, the object of so much
jealous conservatism, though of direct service as lending sanction to a sort of
high scrupulosity, especially in the chief points of domestic conduct, was
mainly prized as being, through its hereditary character, something like a
personal distinction—as contributing, among the other accessories of an ancient
house, to the production of that aristocratic atmosphere which separated them
from newly-made people. But in the young Marius, the very absence from those
venerable usages of all definite history and dogmatic interpretation, had
already awakened much speculative activity; and to-day, starting from the
actual details of the divine service, some very lively surmises, though
scarcely distinct enough to be thoughts, were moving backwards and forwards in
his mind, as the stirring wind had done all day among the trees, and were like
the passing of some mysterious influence over all the elements of his nature
and experience. One thing only distracted him—a certain pity at the bottom of
his heart, and almost on his lips, for the sacrificial victims and their looks
of terror, rising almost to disgust at the central act of the sacrifice itself,
a piece of everyday butcher’s work, such as we decorously hide out of sight;
though some then present certainly displayed a frank curiosity in the spectacle
thus permitted them on a religious pretext. The old sculptors of the great
procession on the frieze of the Parthenon at Athens, have delineated the placid
heads of the victims led in it to sacrifice, with a perfect feeling for animals
in forcible contrast with any indifference as to their sufferings. It was this
contrast that distracted Marius now in the blessing of his fields, and
qualified his devout absorption upon the scrupulous fulfilment of all the
details of the ceremonial, as the procession approached the altars. The
names of that great populace of “little gods,” dear to the Roman home, which
the pontiffs had placed on the sacred list of the Indigitamenta, to be invoked,
because they can help, on special occasions, were not forgotten in the long
litany—Vatican who causes the infant to utter his first cry, Fabulinus who
prompts his first word, Cuba who keeps him quiet in his cot, Domiduca
especially, for whom Marius had through life a particular memory and devotion,
the goddess who watches over one’s safe coming home. The urns of the dead in
the family chapel received their due service. They also were now become
something divine, a goodly company of friendly and protecting spirits, encamped
about the place of their former abode—above all others, the father, dead ten
years before, of whom, remembering but a tall, grave figure above him in early
childhood, Marius habitually thought as a genius a little cold and
severe. Candidus insuetum miratur limen Olympi, Sub pedibusque videt
nubes et sidera.— Perhaps!—but certainly needs his altar here
below, and garlands to-day upon his urn. But the dead genii were satisfied with
little—a few violets, a cake dipped in wine, or a morsel of honeycomb. Daily,
from the time when his childish footsteps were still uncertain, had Marius
taken them their portion of the family meal, at the second course, amidst the
silence of the company. They loved those who brought them their sustenance;
but, deprived of these services, would be heard wandering through the house,
crying sorrowfully in the stillness of the night. And those simple gifts,
like other objects as trivial—bread, oil, wine, milk—had regained for him, by
their use in such religious service, that poetic and as it were moral
significance, which surely belongs to all the means of daily life, could we but
break through the veil of our familiarity with things by no means vulgar in
themselves. A hymn followed, while the whole assembly stood with veiled faces.
The fire rose up readily from the altars, in clean, bright flame—a favourable
omen, making it a duty to render the mirth of the evening complete. Old wine
was poured out freely for the servants at supper in the great kitchen, where
they had worked in the imperfect light through the long evenings of winter. The
young Marius himself took but a very sober part in the noisy feasting. A
devout, regretful after-taste of what had been really beautiful in the ritual
he had accomplished took him early away, that he might the better recall in
reverie all the circumstances of the celebration of the day. As he sank into a
sleep, pleasant with all the influences of long hours in the open air, he
seemed still to be moving in procession through the fields, with a kind of
pleasurable awe. That feeling was still upon him as he awoke amid the beating
of violent rain on the shutters, in the first storm of the season. The thunder
which startled him from sleep seemed to make the solitude of his chamber almost
painfully complete, as if the nearness of those angry clouds shut him up in a
close place alone in the world. Then he thought of the sort of protection which
that day’s ceremonies assured. To procure an agreement with the gods—Pacem
deorum exposcere: that was the meaning of what they had all day been busy upon.
In a faith, sincere but half-suspicious, he would fain have those Powers at
least not against him. His own nearer household gods were all around his bed.
The spell of his religion as a part of the very essence of home, its intimacy,
its dignity and security, was forcible at that moment; only, it seemed to
involve certain heavy demands upon him. To an instinctive seriousness, the
material abode in which the childhood of Marius was passed had largely added.
Nothing, you felt, as you first caught sight of that coy, retired place,—surely
nothing could happen there, without its full accompaniment of thought or
reverie. White-nights! so you might interpret its old Latin name.* “The red
rose came first,” says a quaint German mystic, speaking of “the mystery of
so-called white things,” as being “ever an after-thought—the doubles, or
seconds, of real things, and themselves but half-real, half-material—the white
queen, the white witch, the white mass, which, as the black mass is a travesty
of the true mass turned to evil by horrible old witches, is celebrated by young
candidates for the priesthood with an unconsecrated host, by way of rehearsal.”
So, white-nights, I suppose, after something like the same analogy, should be
nights not of quite blank forgetfulness, but passed in continuous dreaming,
only half veiled by sleep. Certainly the place was, in such case, true to its
fanciful name in this, that you might very well conceive, in face of it, that
dreaming even in the daytime might come to much there. * _Ad Vigilias
Albas_. The young Marius represented an ancient family whose estate
had come down to him much curtailed through the extravagance of a certain
Marcellus two generations before, a favourite in his day of the fashionable
world at Rome, where he had at least spent his substance with a correctness of
taste Marius might seem to have inherited from him; as he was believed also to
resemble him in a singularly pleasant smile, consistent however, in the younger
face, with some degree of sombre expression when the mind within was but
slightly moved. As the means of life decreased, the farm had crept nearer
and nearer to the dwelling-house, about which there was therefore a trace of
workday negligence or homeliness, not without its picturesque charm for some,
for the young master himself among them. The more observant passer-by would
note, curious as to the inmates, a certain amount of dainty care amid that
neglect, as if it came in part, perhaps, from a reluctance to disturb old
associations. It was significant of the national character, that a sort of
elegant gentleman farming, as we say, had been much affected by some of the
most cultivated Romans. But it became something more than an elegant diversion,
something of a serious business, with the household of Marius; and his actual
interest in the cultivation of theearth and the care of flocks had brought him,
at least, intimately near to those elementary conditions of life, a reverence
for which, the great Roman poet, as he has shown by his own half-mystic
pre-occupation with them, held to be the ground of primitive Roman religion, as
of primitive morals. But then, farm-life in Italy, including the culture of the
olive and the vine, has a grace of its own, and might well contribute to
the production of an ideal dignity of character, like that of nature itself in
this gifted region. Vulgarity seemed impossible. The place, though
impoverished, was still deservedly dear, full of venerable memories, and with a
living sweetness of its own for to-day. To hold by such ceremonial
traditions had been a part of the struggling family pride of the lad’s father,
to which the example of the head of the state, old Antoninus Pius—an example to
be still further enforced by his successor—had given a fresh though perhaps
somewhat artificial popularity. It had been consistent with many another homely
and old-fashioned trait in him, not to undervalue the charm of exclusiveness
and immemorial authority, which membership in a local priestly college, hereditary
in his house, conferred upon him. To set a real value on these things was but
one element in that pious concern for his home and all that belonged to it,
which, as Marius afterwards discovered, had been a strong motive with his
father. The ancient hymn—Fana Novella!—was still sung by his people, as the new
moon grew bright in the west, and even their wild custom of leaping through
heaps of blazing straw on a certain night in summer was not discouraged. The
privilege of augury itself, according to tradition, had at one time belonged to
his race; and if you can imagine how, once in a way, an impressible boy might
have an inkling, an inward mystic intimation, of the meaning and consequences
of all that, what was implied in it becoming explicit for him, you conceive
aright the mind of Marius, in whose house the auspices were still carefully
consulted before every undertaking of moment. The devotion of the father
then had handed on loyally—and that is all many not unimportant persons ever
find to do—a certain tradition of life, which came to mean much for the young
Marius. The feeling with which he thought of his dead father was almost
exclusively that of awe; though crossed at times by a not unpleasant sense of
liberty, as he could but confess to himself, pondering, in the actual absence
of so weighty and continual a restraint, upon the arbitrary power which Roman
religion and Roman law gave to the parent over the son. On the part of his
mother, on the other hand, entertaining the husband’s memory, there was a
sustained freshness of regret, together with the recognition, as Marius
fancied, of some costly self-sacrifice to be credited to the dead. The life of
the widow, languid and shadowy enough but for the poignancy of that regret, was
like one long service to the departed soul; its many annual observances
centering about the funeral urn—a tiny, delicately carved marble house, still
white and fair, in the family-chapel, wreathed always with the richest flowers
from the garden. To the dead, in fact, was conceded in such places a somewhat
closer neighbourhood to the old homes they were thought still to protect, than
is usual with us, or was usual in Rome itself—a closeness which the living
welcomed, so diverse are the ways of our human sentiment, and in which the more
wealthy, at least in the country, might indulge themselves. All this Marius
followed with a devout interest, sincerely touched and awed by his mother’s
sorrow. After the deification of the emperors, we are told, it was considered
impious so much as to use any coarse expression in the presence of their
images. To Marius the whole of life seemed full of sacred presences, demanding
of him a similar collectedness. The severe and archaic religion of the villa,
as he conceived it, begot in him a sort of devout circumspection lest he should
fall short at any point of the demand upon him of anything in which deity was
concerned. He must satisfy with a kind of sacred equity, he must be very
cautious lest he be found wanting to, the claims of others, in their joys and
calamities—the happiness which deity sanctioned, or the blows in which it made
itself felt. And from habit, this feeling of a responsibility towards the world
of men and things, towards a claim for due sentiment concerning them on his
side, came to be a part of his nature not to be put off. It kept him serious
and dignified amid the Epicurean speculations which in after years much
engrossed him, and when he had learned to think of all religions as
indifferent, serious amid many fopperies and through many languid days, and
made him anticipate all his life long as a thing towards which he must
carefully train himself, some great occasion of self-devotion, such as really
came, that should consecrate his life, and, it might be, its memory with
others, as the early Christian looked forward to martyrdom at the end of his
course, as a seal of worth upon it. The traveller, descending from the
slopes of Luna, even as he got his first view of the Port-of-Venus, would pause
by the way, to read the face, as it were, of so beautiful a dwelling-place,
lying away from the white road, at the point where it began to decline somewhat
steeply to the marsh-land below. The building of pale red and yellow marble,
mellowed by age, which he saw beyond the gates, was indeed but the exquisite
fragment of a once large and sumptuous villa. Two centuries of the play of the
sea-wind were in the velvet of the mosses which lay along its inaccessible
ledges and angles. Here and there the marble plates had slipped from their
places, where the delicate weeds had forced their way. The graceful wildness
which prevailed in garden and farm gave place to a singular nicety about the
actual habitation, and a still more scrupulous sweetness and order reigned
within. The old Roman architects seem to have well understood the decorative
value of the floor—the real economy there was, in the production of rich
interior effect, of a somewhat lavish expenditure upon the surface they trod
on. The pavement of the hall had lost something of its evenness; but, though a
little rough to the foot, polished and cared for like a piece of silver,
looked, as mosaic-work is apt to do, its best in old age. Most noticeable among
the ancestral masks, each in its little cedarn chest below the cornice, was
that of the wasteful but elegant Marcellus, with the quaint resemblance in its
yellow waxen features to Marius, just then so full of animation and country
colour. A chamber, curved ingeniously into oval form, which he had added to the
mansion, still contained his collection of works of art; above all, that head
of Medusa, for which the villa was famous. The spoilers of one of the old Greek
towns on the coast had flung away or lost the thing, as it seemed, in some
rapid flight across the river below, from the sands of which it was drawn up in
a fisherman’s net, with the fine golden laminae still clinging here and there
to the bronze. It was Marcellus also who had contrived the prospect-tower of
two storeys with the white pigeon-house above, so characteristic of the place.
The little glazed windows in the uppermost chamber framed each its dainty
landscape—the pallid crags of Carrara, like wildly twisted snow-drifts above
the purple heath; the distant harbour with its freight of white marble going to
sea; the lighthouse temple of Venus Speciosa on its dark headland, amid the
long-drawn curves of white breakers. Even on summer nights the air there had
always a motion in it, and drove the scent of the new-mown hay along all the
passages of the house. Something pensive, spell-bound, and but half real,
something cloistral or monastic, as we should say, united to this exquisite
order, made the whole place seem to Marius, as it were, sacellum, the peculiar
sanctuary, of his mother, who, still in real widowhood, provided the deceased Marius
the elder with that secondary sort of life which we can give to the dead, in
our intensely realised memory of them—the “subjective immortality,” to use a
modern phrase, for which many a Roman epitaph cries out plaintively to widow or
sister or daughter, still in the land of the living. Certainly, if any such
considerations regarding them do reach the shadowy people, he enjoyed that
secondary existence, that warm place still left, in thought at least, beside
the living, the desire for which is actually, in various forms, so great a
motive with most of us. And Marius the younger, even thus early, came to think
of women’s tears, of women’s hands to lay one to rest, in death as in the sleep
of childhood, as a sort of natural want. The soft lines of the white hands and
face, set among the many folds of the veil and stole of the Roman widow, busy
upon her needlework, or with music sometimes, defined themselves for him as the
typical expression of maternity. Helping her with her white and purple wools,
and caring for her musical instruments, he won, as if from the handling of such
things, an urbane and feminine refinement, qualifying duly his country-grown
habits—the sense of a certain delicate blandness, which he relished, above all,
on returning to the “chapel” of his mother, after long days of open-air
exercise, in winter or stormy summer. For poetic souls in old Italy felt,
hardly less strongly than the English, the pleasures of winter, of the hearth,
with the very dead warm in its generous heat, keeping the young myrtles in
flower, though the hail is beating hard without. One important principle, of
fruit afterwards in his Roman life, that relish for the country fixed deeply in
him; in the winters especially, when the sufferings of the animal world became
so palpable even to the least observant. It fixed in him a sympathy for all
creatures, for the almost human troubles and sicknesses of the flocks, for
instance. It was a feeling which had in it something of religious veneration
for life as such—for that mysterious essence which man is powerless to create
in even the feeblest degree. One by one, at the desire of his mother, the lad
broke down his cherished traps and springes for the hungry wild birds on the
salt marsh. A white bird, she told him once, looking at him gravely, a bird
which he must carry in his bosom across a crowded public place—his own soul was
like that! Would it reach the hands of his good genius on the opposite side,
unruffled and unsoiled? And as his mother became to him the very type of maternity
in things, its unfailing pity and protectiveness, and maternity itself the
central type of all love;—so, that beautiful dwelling-place lent the reality of
concrete outline to a peculiar ideal of home, which throughout the rest of his
life he seemed, amid many distractions of spirit, to be ever seeking to
regain. And a certain vague fear of evil, constitutional in him, enhanced
still further this sentiment of home as a place of tried security. His
religion, that old Italian religion, in contrast with the really light-hearted
religion of Greece, had its deep undercurrent of gloom, its sad, haunting
imageries, not exclusively confined to the walls of Etruscan tombs. The
function of the conscience, not always as the prompter of gratitude for
benefits received, but oftenest as his accuser before those angry heavenly
masters, had a large part in it; and the sense of some unexplored evil, ever
dogging his footsteps, made him oddly suspicious of particular places and
persons. Though his liking for animals was so strong, yet one fierce day in
early summer, as he walked along a narrow road, he had seen the snakes
breeding, and ever afterwards avoided that place and its ugly associations, for
there was something in the incident which made food distasteful and his sleep
uneasy for many days afterwards. The memory of it however had almost passed
away, when at the corner of a street in Pisa, he came upon an African showman
exhibiting a great serpent: once more, as the reptile writhed, the former
painful impression revived: it was like a peep into the lower side of the real
world, and again for many days took all sweetness from food and sleep. He
wondered at himself indeed, trying to puzzle out the secret of that repugnance,
having no particular dread of a snake’s bite, like one of his companions, who
had put his hand into the mouth of an old garden-god and roused there a
sluggish viper. A kind of pity even mingled with his aversion, and he could
hardly have killed or injured the animals, which seemed already to suffer by
the very circumstance of their life, being what they were. It was something
like a fear of the supernatural, or perhaps rather a moral feeling, for the
face of a great serpent, with no grace of fur or feathers, so different from
quadruped or bird, has a sort of humanity of aspect in its spotted and clouded
nakedness. There was a humanity, dusty and sordid and as if far gone in
corruption, in the sluggish coil, as it awoke suddenly into one metallic spring
of pure enmity against him. Long afterwards, when it happened that at Rome he
saw, a second time, a showman with his serpents, he remembered the night which
had then followed, thinking, in Saint Augustine’s vein, on the real greatness
of those little troubles of children, of which older people make light; but
with a sudden gratitude also, as he reflected how richly possessed his life had
actually been by beautiful aspects and imageries, seeing how greatly what was
repugnant to the eye disturbed his peace. Thus the boyhood of Marius
passed; on the whole, more given to contemplation than to action. Less
prosperous in fortune than at an earlier day there had been reason to expect,
and animating his solitude, as he read eagerly and intelligently, with the
traditions of the past, already he lived much in the realm of the imagination,
and became betimes, as he was to continue all through life, something of an
idealist, constructing the world for himself in great measure from within, by
the exercise of meditative power. A vein of subjective philosophy, with the individual
for its standard of all things, there would be always in his intellectual
scheme of the world and of conduct, with a certain incapacity wholly to accept
other men’s valuations. And the generation of this peculiar element in his
temper he could trace up to the days when his life had been so like the reading
of a romance to him. Had the Romans a word for unworldly? The beautiful word
umbratilis perhaps comes nearest to it; and, with that precise sense, might
describe the spirit in which he prepared himself for the sacerdotal function
hereditary in his family—the sort of mystic enjoyment he had in the abstinence,
the strenuous self-control and ascêsis, which such preparation involved. Like
the young Ion in the beautiful opening of the play of Euripides, who every
morning sweeps the temple floor with such a fund of cheerfulness in his
service, he was apt to be happy in sacred places, with a susceptibility to
their peculiar influences which he never outgrew; so that often in after-times,
quite unexpectedly, this feeling would revive in him with undiminished
freshness. That first, early, boyish ideal of priesthood, the sense of
dedication, survived through all the distractions of the world, and when all
thought of such vocation had finally passed from him, as a ministry, in spirit
at least, towards a sort of hieratic beauty and order in the conduct of
life. And now what relieved in part this over-tension of soul was the
lad’s pleasure in the country and the open air; above all, the ramble to the coast,
over the marsh with its dwarf roses and wild lavender, and delightful signs,
one after another—the abandoned boat, the ruined flood-gates, the flock of wild
birds—that one was approaching the sea; the long summer-day of idleness among
its vague scents and sounds. And it was characteristic of him that he relished
especially the grave, subdued, northern notes in all that—the charm of the
French or English notes, as we might term them—in the luxuriant Italian
landscape. Dilexi decorem domus tuae. That almost morbid religious
idealism, and his healthful love of the country, were both alike developed by
the circumstances of a journey, which happened about this time, when Marius was
taken to a certain temple of Aesculapius, among the hills of Etruria, as was
then usual in such cases, for the cure of some boyish sickness. The religion of
Aesculapius, though borrowed from Greece, had been naturalised in Rome in the
old republican times; but had reached under the Antonines the height of its
popularity throughout the Roman world. That was an age of valetudinarians, in
many instances of imaginary ones; but below its various crazes concerning
health and disease, largely multiplied a few years after the time of which I am
speaking by the miseries of a great pestilence, lay a valuable, because partly
practicable, belief that all the maladies of the soul might be reached through
the subtle gateways of the body. Salus, salvation, for the Romans, had
come to mean bodily sanity. The religion of the god of bodily health, Salvator,
as they called him absolutely, had a chance just then of becoming the one
religion; that mild and philanthropic son of Apollo surviving, or absorbing,
all other pagan godhead. The apparatus of the medical art, the salutary mineral
or herb, diet or abstinence, and all the varieties of the bath, came to have a
kind of sacramental character, so deep was the feeling, in more serious
minds, of a moral or spiritual profit in physical health, beyond the obvious
bodily advantages one had of it; the body becoming truly, in that case, but a
quiet handmaid of the soul. The priesthood or “family” of Aesculapius, a vast
college, believed to be in possession of certain precious medical secrets, came
nearest perhaps, of all the institutions of the pagan world, to the Christian
priesthood; the temples of the god, rich in some instances with the accumulated
thank-offerings of centuries of a tasteful devotion, being really also a kind
of hospitals for the sick, administered in a full conviction of the
religiousness, the refined and sacred happiness, of a life spent in the
relieving of pain. Elements of a really experimental and progressive
knowledge there were doubtless amid this devout enthusiasm, bent so faithfully
on the reception of health as a direct gift from God; but for the most part his
care was held to take effect through a machinery easily capable of misuse for
purposes of religious fraud. Through dreams, above all, inspired by
Aesculapius himself, information as to the cause and cure of a malady was
supposed to come to the sufferer, in a belief based on the truth that dreams do
sometimes, for those who watch them carefully, give many hints concerning the
conditions of the body—those latent weak points at which disease or death may
most easily break into it. In the time of Marcus Aurelius these medical dreams
had become more than ever a fashionable caprice. Aristeides, the “Orator,” a
man of undoubted intellectual power, has devoted six discourses to their
interpretation; the really scientific Galen has recorded how beneficently they
had intervened in his own case, at certain turning-points of life; and a belief
in them was one of the frailties of the wise emperor himself. Partly for the
sake of these dreams, living ministers of the god, more likely to come to one in
his actual dwelling-place than elsewhere, it was almost a necessity that the
patient should sleep one or more nights within the precincts of a temple
consecrated to his service, during which time he must observe certain rules
prescribed by the priests. For this purpose, after devoutly saluting the
Lares, as was customary before starting on a journey, Marius set forth one
summer morning on his way to the famous temple which lay among the hills beyond
the valley of the Arnus. It was his greatest adventure hitherto; and he had
much pleasure in all its details, in spite of his feverishness. Starting early,
under the guidance of an old serving-man who drove the mules, with his wife who
took all that was needful for their refreshment on the way and for the offering
at the shrine, they went, under the genial heat, halting now and then to pluck
certain flowers seen for the first time on these high places, upwards, through
a long day of sunshine, while cliffs and woods sank gradually below their path.
The evening came as they passed along a steep white road with many windings
among the pines, and it was night when they reached the temple, the lights of
which shone out upon them pausing before the gates of the sacred enclosure,
while Marius became alive to a singular purity in the air. A rippling of water
about the place was the only thing audible, as they waited till two priestly
figures, speaking Greek to one another, admitted them into a large,
white-walled and clearly lighted guest-chamber, in which, while he partook of a
simple but wholesomely prepared supper, Marius still seemed to feel pleasantly
the height they had attained to among the hills. The agreeable sense of
all this was spoiled by one thing only, his old fear of serpents; for it was
under the form of a serpent that Aesculapius had come to Rome, and the last
definite thought of his weary head before he fell asleep had been a dread
either that the god might appear, as he was said sometimes to do, under this
hideous aspect, or perhaps one of those great sallow-hued snakes themselves,
kept in the sacred place, as he had also heard was usual. And after an
hour’s feverish dreaming he awoke—with a cry, it would seem, for some one had
entered the room bearing a light. The footsteps of the youthful figure which approached
and sat by his bedside were certainly real. Ever afterwards, when the thought
arose in his mind of some unhoped-for but entire relief from distress, like
blue sky in a storm at sea, would come back the memory of that gracious
countenance which, amid all the kindness of its gaze, had yet a certain air of
predominance over him, so that he seemed now for the first time to have found
the master of his spirit. It would have been sweet to be the servant of him who
now sat beside him speaking. He caught a lesson from what was then said,
still somewhat beyond his years, a lesson in the skilled cultivation of life,
of experience, of opportunity, which seemed to be the aim of the young priest’s
recommendations. The sum of them, through various forgotten intervals of
argument, as might really have happened in a dream, was the precept, repeated
many times under slightly varied aspects, of a diligent promotion of the
capacity of the eye, inasmuch as in the eye would lie for him the determining
influence of life: he was of the number of those who, in the words of a poet
who came long after, must be “made perfect by the love of visible beauty.” The
discourse was conceived from the point of view of a theory Marius found
afterwards in Plato’s Phaedrus, which supposes men’s spirits susceptible to
certain influences, diffused, after the manner of streams or currents, by fair
things or persons visibly present—green fields, for instance, or children’s
faces—into the air around them, acting, in the case of some peculiar natures,
like potent material essences, and conforming the seer to themselves as with
some cunning physical necessity. This theory,* in itself so fantastic, had
however determined in a range of methodical suggestions, altogether quaint here
and there from their circumstantial minuteness. And throughout, the possibility
of some vision, as of a new city coming down “like a bride out of heaven,” a
vision still indeed, it might seem, a long way off, but to be granted perhaps
one day to the eyes thus trained, was presented as the motive of this
laboriously practical direction. * [Transliteration:] Ê aporroê tou
kallous. +Translation: “Emanation from a thing of beauty.” “If thou
wouldst have all about thee like the colours of some fresh picture, in a clear
light,” so the discourse recommenced after a pause, “be temperate in thy
religious notions, in love, in wine, in all things, and of a peaceful heart
with thy fellows.” To keep the eye clear by a sort of exquisite personal
alacrity and cleanliness, extending even to his dwelling-place; to
discriminate, ever more and more fastidiously, select form and colour in things
from what was less select; to meditate much on beautiful visible objects, on
objects, more especially, connected with the period of youth—on children at
play in the morning, the trees in early spring, on young animals, on the
fashions and amusements of young men; to keep ever by him if it were but a
single choice flower, a graceful animal or sea-shell, as a token and
representative of the whole kingdom of such things; to avoid jealously, in his
way through the world, everything repugnant to sight; and, should any
circumstance tempt him to a general converse in the range of such objects, to
disentangle himself from that circumstance at any cost of place, money, or
opportunity; such were in brief outline the duties recognised, the rights
demanded, in this new formula of life. And it was delivered with conviction; as
if the speaker verily saw into the recesses of the mental and physical being of
the listener, while his own expression of perfect temperance had in it a
fascinating power—the merely negative element of purity, the mere freedom from
taint or flaw, in exercise as a positive influence. Long afterwards, when
Marius read the Charmides—that other dialogue of Plato, into which he seems to
have expressed the very genius of old Greek temperance—the image of this
speaker came back vividly before him, to take the chief part in the
conversation. It was as a weighty sanction of such temperance, in almost
visible symbolism (an outward imagery identifying itself with unseen
moralities) that the memory of that night’s double experience, the dream of the
great sallow snake and the utterance of the young priest, always returned to
him, and the contrast therein involved made him revolt with unfaltering
instinct from the bare thought of an excess in sleep, or diet, or even in
matters of taste, still more from any excess of a coarser kind. When he
awoke again, still in the exceeding freshness he had felt on his arrival, and
now in full sunlight, it was as if his sickness had really departed with the
terror of the night: a confusion had passed from the brain, a painful dryness
from his hands. Simply to be alive and there was a delight; and as he bathed in
the fresh water set ready for his use, the air of the room about him seemed
like pure gold, the very shadows rich with colour. Summoned at length by one of
the white-robed brethren, he went out to walk in the temple garden. At a
distance, on either side, his guide pointed out to him the Houses of Birth and
Death, erected for the reception respectively of women about to become mothers,
and of persons about to die; neither of those incidents being allowed to
defile, as was thought, the actual precincts of the shrine. His visitor of the
previous night he saw nowhere again. But among the official ministers of the
place there was one, already marked as of great celebrity, whom Marius saw
often in later days at Rome, the physician Galen, now about thirty years old.
He was standing, the hood partly drawn over his face, beside the holy well, as
Marius and his guide approached it. This famous well or conduit, primary
cause of the temple and its surrounding institutions, was supplied by the water
of a spring flowing directly out of the rocky foundations of the shrine. From
the rim of its basin rose a circle of trim columns to support a cupola of
singular lightness and grace, itself full of reflected light from the rippling
surface, through which might be traced the wavy figure-work of the marble
lining below as the stream of water rushed in. Legend told of a visit of
Aesculapius to this place, earlier and happier than his first coming to Rome:
an inscription around the cupola recorded it in letters of gold. “Being come
unto this place the son of God loved it exceedingly:”—Huc profectus filius Dei
maxime amavit hunc locum;—and it was then that that most intimately human of
the gods had given men the well, with all its salutary properties. The element
itself when received into the mouth, in consequence of its entire freedom from
adhering organic matter, was more like a draught of wonderfully pure air than
water; and after tasting, Marius was told many mysterious circumstances
concerning it, by one and another of the bystanders:—he who drank often thereof
might well think he had tasted of the Homeric lotus, so great became his desire
to remain always on that spot: carried to other places, it was almost
indefinitely conservative of its fine qualities: nay! a few drops of it would
amend other water; and it flowed not only with unvarying abundance but with a
volume so oddly rhythmical that the well stood always full to the brim,
whatever quantity might be drawn from it, seeming to answer with strange
alacrity of service to human needs, like a true creature and pupil of the
philanthropic god. Certainly the little crowd around seemed to find singular
refreshment in gazin g on it. The whole place appeared sensibly influenced
by the amiable and healthful spirit of the thing. All the objects of the
country were there at their freshest. In the great park-like enclosure for the
maintenance of the sacred animals offered by the convalescent, grass and trees
were allowed to grow with a kind of graceful wildness; otherwise, all was
wonderfully nice. And thatfreshness seemed to have something moral in its
influence, as if it acted upon the body and the merely bodily powers of
apprehension, through the intelligence; and to the end of his visit Marius saw
no more serpents. A lad was just then drawing water for ritual uses, and
Marius followed him as he returned from the well, more and more impressed by
the religiousness of all he saw, on his way through a long cloister or
corridor, the walls well-nigh hidden under votive inscriptions recording
favours from the son of Apollo, and with a distant fragrance of incense in the
air, explained when he turned aside through an open doorway into the temple
itself. His heart bounded as the refined and dainty magnificence of the place
came upon him suddenly, in the flood of early sunshine, with the ceremonial
lights burning here and there, and withal a singular expression of sacred
order, a surprising cleanliness and simplicity. Certain priests, men whose
countenances bore a deep impression of cultivated mind, each with his little
group of assistants, were gliding round silently to perform their morning
salutation to the god, raising the closed thumb and finger of the right hand
with a kiss in the air, as the y came and went on their sacred business,
bearing their frankincense and lustral water. Around the walls, at such a level
that the worshippers might read, as in a book, the story of the god and his
sons, the brotherhood of the Asclepiadae, ran a series of imageries, in low
relief, their delicate light and shade being heightened, here and there, with
gold. Fullest of inspired and sacred expression, as if in this place the chisel
of the artist had indeed dealt not with marble but with the very
breath of feeling and thought, was the scene in which the earliest generation of
the sons of Aesculapius were transformed into healing dreams; for “grown now
too glorious to abide longer among men, by the aid of their sire they put away
their mortal bodies, and came into another country, yet not indeed into Elysium
nor into the Islands of the Blest. But being made like to the immortal gods,
they began to pass about through the world, changed thus far from their first
form that they appear eternally young, as many persons have seen them in many
places—ministers and heralds of their father, passing to and fro over the
earth, like gliding stars. Which thing is, indeed, the most wonderful
concerning them!” And in this scene, as throughout the series, with all its
crowded personages, Marius noted on the carved faces the same peculiar union of
unction, almost of hilarity, with a certain self-possession and reserve, which
was conspicuous in the living ministrants around him. In the central
space, upon a pillar or pedestal, hung, ex voto, with the richest personal
ornaments, stood the image of Aesculapius himself, surrounded by choice
flowering plants. It presented the type, still with something of the severity
of the earlier art of Greece about it, not of an aged and crafty physician, but
of a youth, earnest and strong of aspect, carrying an ampulla or bottle in one
hand, and in the other a traveller’s staff, a pilgrim among his pilgrim
worshippers; and one of the ministers explained to Marius this pilgrim
guise.—One chief source of the master’s knowledgeof healing had been
observation of the remedies resorted to by animals labouring under disease or
pain—what leaf or berry the lizard or dormouse lay upon its wounded fellow; to
which purpose for long years he had led the life of a wanderer, in wild places.
The boy took his place as the last comer, a little way behind the group of
worshippers who stood in front of the image. There, with uplifted face, the
palms of his two hands raised and open before him, and taught by the priest, he
said his collect of thanksgiving and prayer (Aristeides has recorded it at the
end of his Asclepiadae) to the Inspired Dreams:— “O ye children of
Apollo! who in time past have stilledthe waves of sorrow for many people,
lighting up a lamp of safety before those who travel by sea and land, be
pleased, in your great condescension, though ye be equal in glory with your
elder brethren the Dioscuri, and your lot in immortal youth be as theirs, to
accept this prayer, which in sleep and vision ye have inspired. Order it
arig ht, I pray you, according to your loving-kindness to men. Preserve me
from sickness; and endue my body with such a measure of health as may suffice
it for the obeying of the spirit, that I maypass my days unhindered and in
quietness.” On the last morning of his visit Marius entered the shrine
again, and just before his departure the priest, who had been his special
director during his stay at the place, lifting a cunningly contrived panel,
which formed the back of one of the carved seats, bade him look through. What
he saw was like the vision of a new world, by the opening of some unsuspected
window in a familiar dwelling-place. He looked out upon a long-d rawn
valley of singularly cheerful aspect, hidden, by the peculiar conformation of
the locality, from all points of observation but this. In a green meadow at the
foot of the steep olive-clad rocks below, the novices were taking their
exercise. The softly sloping sides of the vale lay alike in full sunlight; and
its distant opening was closed by a beautifully formed mountain, from which the
last wreaths of morning mist were rising under the heat. It might have seemed
the very presentment of a land of hope, its hollows brimful of a shadow of blue
flowers; and lo! on the one level space of the horizon, in a long dark line,
were towers and a dome: and that was Pisa.—Or Rome, was it? asked Marius, ready
to believe the utmost, in his excitement. All this served, as he
understood afterwards in retrospect, at once to strengthen and to purify a
certain vein of character in him. Developing the ideal, pre-existent there, of
a religious beauty, associated for the future with the exquisite splendour of
the temple of Aesculapius, as it dawned upon him on that morning of his first
visit—it developed that ideal in connexion with a vivid sense of the value of
mental and bodily sanity. And this recognition of the beauty, even for the
aesthetic sense, of mere bodily health, now acquired, operated afterwards as an
influence morally salutary, counteracting the less desirable or hazardous
tendencies of some phases of thought, through which he was to pass. He
came home brown with health to find the health of his mother failing; and about
her death, which occurred not long afterwards, there was a circumstance which
rested with him as the cruellest touch of all, in an event which for a time
seemed to have taken the light out of the sunshine. She died away from home,
but sent for him at the last, with a painful effort on her part, but to his
great gratitude, pondering, as he always believed, that he might chance
otherwise to look back all his life long upon a single fault with something
like remorse, and find the burden a great one. For it happened that, through
some sudden, incomprehensible petulance there had been an angry childish
gesture, and a slighting word, at the very moment of her departure, actually
for the last time. Remembering this he would ever afterwards pray to be saved
from offences against his own affections; the thought of that marred parting
having peculiar bitterness for one, who set so much store, both by principle
and habit, on the sentiment of home. O mare! O littus! verum secretumque
Mouseion,+ quam multa invenitis, quam multa dictatis! Pliny’s Letters.
It would hardly have been possible to feel more seriously than did Marius
in those grave years of his early life. But the death of his mother turned
seriousness of feeling into a matter of the intelligence: it made him a
questioner; and, by bringing into full evidence to him the force of his
affections and the probable importance of their place in his future, developed
in him generally the more human and earthly elements of character. A singularly
virile consciousness of the realities of life pronounced itself in him; still
however as in the main a poetic apprehension, though united already with
something of personal ambition and the instinct of self-assertion. There were
days when he could suspect, though it was a suspicion he was careful at first
to put from him, that that early, much cherished religion of the villa might
come to count with him as but one form of poetic beauty, or of the ideal, in
things; as but one voice, in a world where there were many voices it would be a
moral weakness not to listen to. And yet this voice, through its forcible
pre-occupation of his childish conscience, still seemed to make a claim of a
quite exclusive character, defining itself as essentially one of but two
possible leaders of his spirit, the other proposing to him unlimited
self-expansion in a world of various sunshine. The contrast was so pronounced
as to make the easy, light-hearted, unsuspecting exercise of himself, among the
temptations of the new phase of life which had now begun, seem nothing less
than a rival religion, a rival religious service. The temptations, the various
sunshine, were those of the old town of Pisa, where Marius was now a tall
schoolboy. Pisa was a place lying just far enough from home to make his rare
visits to it in childhood seem like adventures, such as had never failed to
supply new and refreshing impulses to the imagination. The partly decayed pensive
town, which still had its commerce by sea, and its fashion at the
bathing-season, had lent, at one time the vivid memory of its fair streets of
marble, at another the solemn outline of the dark hills of Luna on its
background, at another the living glances of its men and women, to the thickly
gathering crowd of impressions, out of which his notion of the world was then
forming. And while he learned that the object, the experience, as it will be
known to memory, is really from first to last the chief point for consideration
in the conduct of life, these things were feeding also the idealism
constitutional with him—his innate and habitual longing for a world altogether
fairer than that he saw. The child could find his way in thought along those
streets of the old town, expecting duly the shrines at their corners, and their
recurrent intervals of garden-courts, or side-views of distant sea. The great
temple of the place, as he could remember it, on turning back once for a last
look from an angle of his homeward road, counting its tall gray columns between
the blue of the bay and the blue fields of blossoming flax beyond; the harbour
and its lights; the foreign ships lying there; the sailors’ chapel of Venus,
and her gilded image, hung with votive gifts; the seamen themselves, their
women and children, who had a whole peculiar colour-world of their own—the
boy’s superficial delight in the broad light and shadow of all that was mingled
with the sense of power, of unknown distance, of the danger of storm and possible
death. To this place, then, Marius came down now from White-nights, to
live in the house of his guardian or tutor, that he might attend the school of
a famous rhetorician, and learn, among other things, Greek. The school, one of
many imitations of Plato’s Academy in the old Athenian garden, lay in a quiet
suburb of Pisa, and had its grove of cypresses, its porticoes, a house for the
master, its chapel and images. For the memory of Marius in after-days, a clear
morning sunlight seemed to lie perpetually on that severe picture in old gray
and green. The lad went to this school daily betimes, in state at first, with a
young slave to carry the books, and certainly with no reluctance, for the sight
of his fellow-scholars, and their petulant activity, coming upon the sadder
sentimental moods of his childhood, awoke at once that instinct of emulation
which is but the other side of sympathy; and he was not aware, of course, how
completely the difference of his previous training had made him, even in his
most enthusiastic participation in the ways of that little world, still
essentially but a spectator. While all their heart was in their limited boyish
race, and its transitory prizes, he was already entertaining himself, very
pleasurably meditative, with the tiny drama in action before him, as but the
mimic, preliminary exercise for a larger contest, and already with an implicit
epicureanism. Watching all the gallant effects of their small rivalries—a scene
in the main of fresh delightful sunshine—he entered at once into the sensations
of a rivalry beyond them, into the passion of men, and had already recognised a
certain appetite for fame, for distinction among his fellows, as his dominant
motive to be. The fame he conceived for himself at this time was, as the
reader will have anticipated, of the intellectual order, that of a poet
perhaps. And as, in that gray monastic tranquillity of the villa, inward voices
from the reality of unseen things had come abundantly; so here, with the sounds
and aspects of the shore, and amid the urbanities, the graceful follies, of a
bathing-place, it was the reality, the tyrannous reality, of things visible
that was borne in upon him. The real world around—a present humanity not less
comely, it might seem, than that of the old heroic days—endowing everything it
touched upon, however remotely, down to its little passing tricks of fashion
even, with a kind of fleeting beauty, exercised over him just then a great
fascination. That sense had come upon him in all its power one exceptionally
fine summer, the summer when, at a somewhat earlier age than was usual, he had
formally assumed the dress of manhood, going into the Forum for that purpose,
accompanied by his friends in festal array. At night, after the full measure of
those cloudless days, he would feel well-nigh wearied out, as if with a long
succession of pictures and music. As he wandered through the gay streets or on
the sea-shore, the real world seemed indeed boundless, and himself almost
absolutely free in it, with a boundless appetite for experience, for adventure,
whether physical or of the spirit. His entire rearing hitherto had lent itself
to an imaginative exaltation of the past; but now the spectacle actually
afforded to his untired and freely open senses, suggested the reflection that
the present had, it might be, really advanced beyond the past, and he was ready
to boast in the very fact that it was modern. If, in a voluntary archaism, the
polite world of that day went back to a choicer generation, as it fancied, for
the purpose of a fastidious self-correction, in matters of art, of literature,
and even, as we have seen, of religion, at least it improved, by a shade or two
of more scrupulous finish, on the old pattern; and the new era, like the
Neu-zeit of the German enthusiasts at the beginning of our own century, might
perhaps be discerned, awaiting one just a single step onward—the perfected new
manner, in the consummation of time, alike as regards the things of the
imagination and the actual conduct of life. Only, while the pursuit of an ideal
like this demanded entire liberty of heart and brain, that old, staid,
conservative religion of his childhood certainly had its being in a world of
somewhat narrow restrictions. But then, the one was absolutely real, with nothing
less than the reality of seeing and hearing—the other, how vague, shadowy,
problematical! Could its so limited probabilities be worth taking into account
in any practical question as to the rejecting or receiving of what was indeed
so real, and, on the face of it, so desirable? And, dating from the time
of his first coming to school, a great friendship had grown up for him, in that
life of so few attachments—the pure and disinterested friendship of
schoolmates. He had seen Flavian for the first time the day on which he had
come to Pisa, at the moment when his mind was full of wistful thoughts
regarding the new life to begin for him to-morrow, and he gazed curiously at
the crowd of bustling scholars as they came from their classes. There was something
in Flavian a shade disdainful, as he stood isolated from the others for a
moment, explained in part by his stature and the distinction of the low, broad
forehead; though there was pleasantness also for the newcomer in the roving
blue eyes which seemed somehow to take a fuller hold upon things around than is
usual with boys. Marius knew that those proud glances made kindly note of him
for a moment, and felt something like friendship at first sight. There was a
tone of reserve or gravity there, amid perfectly disciplined health, which, to
his fancy, seemed to carry forward the expression of the austere sky and the
clear song of the blackbird on that gray March evening. Flavian indeed was a
creature who changed much with the changes of the passing light and shade about
him, and was brilliant enough under the early sunshine in school next morning.
Of all that little world of more or less gifted youth, surely the centre was
this lad of servile birth. Prince of the school, he had gained an easy dominion
over the old Greek master by the fascination of his parts, and over his
fellow-scholars by the figure he bore. He wore already the manly dress; and
standing there in class, as he displayed his wonderful quickness in reckoning,
or his taste in declaiming Homer, he was like a carved figure in motion,
thought Marius, but with that indescribable gleam upon it which the words of
Homer actually suggested, as perceptible on the visible forms of the gods—hoia
theous epenênothen aien eontas.+ A story hung by him, a story which his
comrades acutely connected with his habitual air of somewhat peevish pride. Two
points were held to be clear amid its general vagueness—a rich stranger paid
his schooling, and he was himself very poor, though there was an attractive
piquancy in the poverty of Flavian which in a scholar of another figure might
have been despised. Over Marius too his dominion was entire. Three years older
than he, Flavian was appointed to help the younger boy in his studies, and
Marius thus became virtually his servant in many things, taking his humours
with a sort of grateful pride in being noticed at all, and, thinking over all
this afterwards, found that the fascination experienced by him had been a
sentimental one, dependent on the concession to himself of an intimacy, a
certain tolerance of his company, granted to none beside. That was in the
earliest days; and then, as their intimacy grew, the genius, the intellectual
power of Flavian began its sway over him. The brilliant youth who loved dress,
and dainty food, and flowers, and seemed to have a natural alliance with, and
claim upon, everything else which was physically select and bright, cultivated
also that foppery of words, of choice diction which was common among the élite
spirits of that day; and Marius, early an expert and elegant penman,
transcribed his verses (the euphuism of which, amid a genuine original power,
was then so delightful to him) in beautiful ink, receiving in return the profit
of Flavian’s really great intellectual capacities, developed and accomplished
under the ambitious desire to make his way effectively in life. Among other
things he introduced him to the writings of a sprightly wit, then very busy
with the pen, one Lucian—writings seeming to overflow with that intellectual
light turned upon dim places, which, at least in seasons of mental fair
weather, can make people laugh where they have been wont, perhaps, to pray.
And, surely, the sunlight which filled those well-remembered early mornings in
school, had had more than the usual measure of gold in it! Marius, at least,
would lie awake before the time, thinking with delight of the long coming hours
of hard work in the presence of Flavian, as other boys dream of a
holiday. It was almost by accident at last, so wayward and capricious was
he, that reserve gave way, and Flavian told the story of his father—a freedman,
presented late in life, and almost against his will, with the liberty so fondly
desired in youth, but on condition of the sacrifice of part of his peculium—the
slave’s diminutive hoard—amassed by many a self-denial, in an existence
necessarily hard. The rich man, interested in the promise of the fair child
born on his estate, had sent him to school. The meanness and dejection,
nevertheless, of that unoccupied old age defined the leading memory of Flavian,
revived sometimes, after this first confidence, with a burst of angry tears
amid the sunshine. But nature had had her economy in nursing the strength of
that one natural affection; for, save his half-selfish care for Marius, it was the
single, really generous part, the one piety, in the lad’s character. In him
Marius saw the spirit of unbelief, achieved as if at one step. The much-admired
freedman’s son, as with the privilege of a natural aristocracy, believed only
in himself, in the brilliant, and mainly sensuous gifts, he had, or meant to
acquire. And then, he had certainly yielded himself, though still with
untouched health, in a world where manhood comes early, to the seductions of
that luxurious town, and Marius wondered sometimes, in the freer revelation of
himself by conversation, at the extent of his early corruption. How often,
afterwards, did evil things present themselves in malign association with the
memory of that beautiful head, and with a kind of borrowed sanction and charm
in its natural grace! To Marius, at a later time, he counted for as it were an
epitome of the whole pagan world, the depth of its corruption, and its
perfection of form. And still, in his mobility, his animation, in his eager
capacity for various life, he was so real an object, after that visionary
idealism of the villa. His voice, his glance, were like the breaking in of the
solid world upon one, amid the flimsy fictions of a dream. A shadow, handling
all things as shadows, had felt a sudden real and poignant heat in them.
Meantime, under his guidance, Marius was learning quickly and abundantly,
because with a good will. There was that in the actual effectiveness of his
figure which stimulated the younger lad to make the most of opportunity; and he
had experience already that education largely increased one’s capacity for
enjoyment. He was acquiring what it is the chief function of all higher
education to impart, the art, namely, of so relieving the ideal or poetic
traits, the elements of distinction, in our everyday life—of so exclusively
living in them—that the unadorned remainder of it, the mere drift or débris of
our days, comes to be as though it were not. And the consciousness of this aim
came with the reading of one particular book, then fresh in the world, with
which he fell in about this time—a book which awakened the poetic or romantic
capacity as perhaps some other book might have done, but was peculiar in giving
it a direction emphatically sensuous. It made him, in that visionary reception
of every-day life, the seer, more especially, of a revelation in colour and
form. If our modern education, in its better efforts, really conveys to any of
us that kind of idealising power, it does so (though dealing mainly, as its
professed instruments, with the most select and ideal remains of ancient
literature) oftenest by truant reading; and thus it happened also, long ago,
with Marius and his friend. NOTES 43. +Transliteration:
Mouseion. The word means “seat of the muses.” Translation: “O sea! O shore! my
own Helicon, / How many things have you uncovered to me, how many things
suggested!” Pliny, Letters, Book I, ix, to Minicius Fundanus. 50.
+Transliteration: hoia theous epenênothen aien eontas. Translation: “such as
the gods are endowed with.” Homer, Odyssey, 8.365. The two lads were
lounging together over a book, half-buried in a heap of dry corn, in an old
granary—the quiet corner to which they had climbed out of the way of their
noisier companions on one of their blandest holiday afternoons. They looked
round: the western sun smote through the broad chinks of the shutters. How like
a picture! and it was precisely the scene described in what they were reading,
with just that added poetic touch in the book which made it delightful and
select, and, in the actual place, the ray of sunlight transforming the rough
grain among the cool brown shadows into heaps of gold. What they were intent on
was, indeed, the book of books, the “golden” book of that day, a gift to
Flavian, as was shown by the purple writing on the handsome yellow wrapper,
following the title Flaviane!—it said, Flaviane! lege Felicitur!
Flaviane! Vivas! Fioreas! Flaviane! Vivas! Gaudeas! It was perfumed
with oil of sandal-wood, and decorated with carved and gilt ivory bosses at the
ends of the roller. And the inside was something not less dainty and
fine, full of the archaisms and curious felicities in which that generation
delighted, quaint terms and images picked fresh from the early dramatists, the
lifelike phrases of some lost poet preserved by an old grammarian, racy morsels
of the vernacula r and studied prettinesses:—all alike, mere playthings
for the genuine power and natural eloquence of the erudite artist, unsuppressed
by his erudition, which, however, made some people angry, chiefly less well
“got-up” people, and especially those who were untidy from indolence. No!
it was certainly not that old-fashioned, unconscious ease of the early
literature, which could never come again; which, after all, had had more in
common with the “infinite patience” of Apuleius than with the hack-work
readiness of his detractors, who might so well have been “self-conscious” of
going slip-shod. And at least his success was unmistakable as to the precise
literary effect he had intended, including a certain tincture of “neology” in
expression—nonnihil interdum elocutione novella parum signatum—in the language
of Cornelius Fronto, the contemporary prince of rhetoricians. What words he had
found for conveying, with a single touch, the sense of textures, colours,
incidents! “Like jewellers’ work! Like a myrrhine vase!”—admirers said of his
writing. “The golden fibre in the hair, the gold thread-work in the gown marked
her as the mistress”—aurum in comis et in tunicis, ibi inflexum hic intextum,
matronam profecto confitebatur—he writes, with his “curious felicity,” of one
of his heroines. Aurum intextum: gold fibre:—well! there was something of that
kind in his own work. And then, in an age when people, from the emperor
Aurelius downwards, prided themselves unwisely on writing in Greek, he had
written for Latin people in their own tongue; though still, in truth, with all
the care of a learned language. Not less happily inventive were the incidents
recorded—story within story—stories with the sudden, unlooked-for changes of
dreams. He had his humorous touches also. And what went to the ordinary boyish
taste, in those somewhat peculiar readers, what would have charmed boys more
purely boyish, was the adventure:—the bear loose in the house at night, the
wolves storming the farms in winter, the exploits of the robbers, their
charming caves, the delightful thrill one had at the question—“Don’t you know
that these roads are infested by robbers?” The scene of the romance was
laid in Thessaly, the original land of witchcraft, and took one up and down its
mountains, and into its old weird towns, haunts of magic and incantation, where
all the more genuine appliances of the black art, left behind her by Medea when
she fled through that country, were still in use. In the city of Hypata,
indeed, nothing seemed to be its true self—“You might think that through the
murmuring of some cadaverous spell, all things had been changed into forms not
their own; that there was humanity in the hardness of the stones you stumbled
on; that the birds you heard singing were feathered men; that the trees around
the walls drew their leaves from a like source. The statues seemed about to
move, the walls to speak, the dumb cattle to break out in prophecy; nay! the
very sky and the sunbeams, as if they might suddenly cry out.” Witches are
there who can draw down the moon, or at least the lunar virus—that white fluid
she sheds, to be found, so rarely, “on high, heathy places: which is a poison.
A touch of it will drive men mad.” And in one very remote village lives
the sorceress Pamphile, who turns her neighbours into various animals. What
true humour in the scene where, after mounting the rickety stairs, Lucius,
peeping curiously through a chink in the door, is a spectator of the
transformation of the old witch herself into a bird, that she may take flight
to the object of her affections—into an owl! “First she stripped off every rag
she had. Then opening a certain chest she took from it many small boxes, and
removing the lid of one of them, rubbed herself over for a long time, from head
to foot, with an ointment it contained, and after much low muttering to her
lamp, began to jerk at last and shake her limbs. And as her limbs moved to and
fro, out burst the soft feathers: stout wings came forth to view: the nose grew
hard and hooked: her nails were crooked into claws; and Pamphile was an owl.
She uttered a queasy screech; and, leaping little by little from the ground,
making trial of herself, fled presently, on full wing, out of doors.” By
clumsy imitation of this process, Lucius, the hero of the romance, transforms
himself, not as he had intended into a showy winged creature, but into the
animal which has given name to the book; for throughout it there runs a vein of
racy, homely satire on the love of magic then prevalent, curiosity concerning
which had led Lucius to meddle with the old woman’s appliances. “Be you my
Venus,” he says to the pretty maid-servant who has introduced him to the view
of Pamphile, “and let me stand by you a winged Cupid!” and, freely applying the
magic ointment, sees himself transformed, “not into a bird, but into an
ass!” Well! the proper remedy for his distress is a supper of roses,
could such be found, and many are his quaintly picturesque attempts to come by
them at that adverse season; as he contrives to do at last, when, the grotesque
procession of Isis passing by with a bear and other strange animals in its
train, the ass following along with the rest suddenly crunches the chaplet of
roses carried in the High-priest’s hand. Meantime, however, he must wait
for the spring, with more than the outside of an ass; “though I was not so much
a fool, nor so truly an ass,” he tells us, when he happens to be left alone
with a daintily spread table, “as to neglect this most delicious fare, and feed
upon coarse hay.” For, in truth, all through the book, there is an unmistakably
real feeling for asses, with bold touches like Swift’s, and a genuine animal
breadth. Lucius was the original ass, who peeping slily from the window of his
hiding-place forgot all about the big shade he cast just above him, and gave
occasion to the joke or proverb about “the peeping ass and his shadow.”
But the marvellous, delight in which is one of the really serious elements in
most boys, passed at times, those young readers still feeling its fascination,
into what French writers call the macabre—that species of almost insane
pre-occupation with the materialities of our mouldering flesh, that luxury of
disgust in gazing on corruption, which was connected, in this writer at least,
with not a little obvious coarseness. It was a strange notion of the gross lust
of the actual world, that Marius took from some of these episodes. “I am told,”
they read, “that when foreigners are interred, the old witches are in the habit
of out-racing the funeral procession, to ravage the corpse”—in order to obtain
certain cuttings and remnants from it, with which to injure the
living—“especially if the witch has happened to cast her eye upon some goodly
young man.” And the scene of the night-watching of a dead body lest the witches
should come to tear off the flesh with their teeth, is worthy of Théophile
Gautier. But set as one of the episodes in the main narrative, a true gem
amid its mockeries, its coarse though genuine humanity, its burlesque horrors,
came the tale of Cupid and Psyche, full of brilliant, life-like situations,
speciosa locis, and abounding in lovely visible imagery (one seemed to see and
handle the golden hair, the fresh flowers, the precious works of art in it!)
yet full also of a gentle idealism, so that you might take it, if you chose,
for an allegory. With a concentration of all his finer literary gifts, Apuleius
had gathered into it the floating star-matter of many a delightful old
story.— The Story of Cupid and Psyche. In a certain city
lived a king and queen who had three daughters exceeding fair. But the beauty
of the elder sisters, though pleasant to behold, yet passed not the measure of
human praise, while such was the loveliness of the youngest that men’s speech
was too poor to commend it worthily and could express it not at all. Many of
the citizens and of strangers, whom the fame of this excellent vision had
gathered thither, confounded by that matchless beauty, could but kiss the
finger-tips of their right hands at sight of her, as in adoration to the
goddess Venus herself. And soon a rumour passed through the country that she
whom the blue deep had borne, forbearing her divine dignity, was even then
moving among men, or that by some fresh germination from the stars, not the sea
now, but the earth, had put forth a new Venus, endued with the flower of
virginity. This belief, with the fame of the maiden’s loveliness, went
daily further into distant lands, so that many people were drawn together to behold
that glorious model of the age. Men sailed no longer to Paphos, to Cnidus or
Cythera, to the presence of the goddess Venus: her sacred rites were neglected,
her images stood uncrowned, the cold ashes were left to disfigure her forsaken
altars. It was to a maiden that men’s prayers were offered, to a human
countenance they looked, in propitiating so great a godhead: when the girl went
forth in the morning they strewed flowers on her way, and the victims proper to
that unseen goddess were presented as she passed along. This conveyance of
divine worship to a mortal kindled meantime the anger of the true Venus. “Lo!
now, the ancient parent of nature,” she cried, “the fountain of all elements!
Behold me, Venus, benign mother of the world, sharing my honours with a mortal
maiden, while my name, built up in heaven, is profaned by the mean things of
earth! Shall a perishable woman bear my image about with her? In vain did the
shepherd of Ida prefer me! Yet shall she have little joy, whosoever she be, of
her usurped and unlawful loveliness!” Thereupon she called to her that winged,
bold boy, of evil ways, who wanders armed by night through men’s houses,
spoiling their marriages; and stirring yet more by her speech his inborn
wantonness, she led him to the city, and showed him Psyche as she walked.
“I pray thee,” she said, “give thy mother a full revenge. Let this maid become
the slave of an unworthy love.” Then, embracing him closely, she departed to
the shore and took her throne upon the crest of the wave. And lo! at her
unuttered will, her ocean-servants are in waiting: the daughters of Nereus are
there singing their song, and Portunus, and Salacia, and the tiny charioteer of
the dolphin, with a host of Tritons leaping through the billows. And one blows
softly through his sounding sea-shell, another spreads a silken web against the
sun, a third presents the mirror to the eyes of his mistress, while the others
swim side by side below, drawing her chariot. Such was the escort of Venus as
she went upon the sea. Psyche meantime, aware of her loveliness, had no
fruit thereof. All people regarded and admired, but none sought her in
marriage. It was but as on the finished work of the craftsman that they gazed
upon that divine likeness. Her sisters, less fair than she, were happily
wedded. She, even as a widow, sitting at home, wept over her desolation, hating
in her heart the beauty in which all men were pleased. And the king,
supposing the gods were angry, inquired of the oracle of Apollo, and Apollo
answered him thus: “Let the damsel be placed on the top of a certain mountain,
adorned as for the bed of marriage and of death. Look not for a son-in-law of
mortal birth; but for that evil serpent-thing, by reason of whom even the gods
tremble and the shadows of Styx are afraid.” So the king returned home
and made known the oracle to his wife. For many days she lamented, but at last
the fulfilment of the divine precept is urgent upon her, and the company make
ready to conduct the maiden to her deadly bridal. And now the nuptial torch
gathers dark smoke and ashes: the pleasant sound of the pipe is changed into a
cry: the marriage hymn concludes in a sorrowful wailing: below her yellow
wedding-veil the bride shook away her tears; insomuch that the whole city was
afflicted together at the ill-luck of the stricken house. But the mandate
of the god impelled the hapless Psyche to her fate, and, these solemnities
being ended, the funeral of the living soul goes forth, all the people
following. Psyche, bitterly weeping, assists not at her marriage but at her own
obsequies, and while the parents hesitate to accomplish a thing so unholy the
daughter cries to them: “Wherefore torment your luckless age by long weeping?
This was the prize of my extraordinary beauty! When all people celebrated us
with divine honours, and in one voice named the New Venus, it was then ye
should have wept for me as one dead. Now at last I understand that that one
name of Venus has been my ruin. Lead me and set me upon the appointed place. I
am in haste to submit to that well-omened marriage, to behold that goodly
spouse. Why delay the coming of him who was born for the destruction of the
whole world?” She was silent, and with firm step went on the way. And
they proceeded to the appointed place on a steep mountain, and left there the
maiden alone, and took their way homewards dejectedly. The wretched parents, in
their close-shut house, yielded themselves to perpetual night; while to Psyche,
fearful and trembling and weeping sore upon the mountain-top, comes the gentle
Zephyrus. He lifts her mildly, and, with vesture afloat on either side, bears
her by his own soft breathing over the windings of the hills, and sets her
lightly among the flowers in the bosom of a valley below. Psyche, in
those delicate grassy places, lying sweetly on her dewy bed, rested from the
agitation of her soul and arose in peace. And lo! a grove of mighty trees, with
a fount of water, clear as glass, in the midst; and hard by the water, a
dwelling-place, built not by human hands but by some divine cunning. One
recognised, even at the entering, the delightful hostelry of a god. Golden
pillars sustained the roof, arched most curiously in cedar-wood and ivory. The
walls were hidden under wrought silver:—all tame and woodland creatures leaping
forward to the visitor’s gaze. Wonderful indeed was the craftsman, divine or
half-divine, who by the subtlety of his art had breathed so wild a soul into
the silver! The very pavement was distinct with pictures in goodly stones. In
the glow of its precious metal the house is its own daylight, having no need of
the sun. Well might it seem a place fashioned for the conversation of gods with
men! Psyche, drawn forward by the delight of it, came near, and, her
courage growing, stood within the doorway. One by one, she admired the
beautiful things she saw; and, most wonderful of all! no lock, no chain, nor
living guardian protected that great treasure house. But as she gazed there
came a voice—a voice, as it were unclothed of bodily vesture—“Mistress!” it
said, “all these things are thine. Lie down, and relieve thy weariness, and
rise again for the bath when thou wilt. We thy servants, whose voice thou
hearest, will be beforehand with our service, and a royal feast shall be
ready.” And Psyche understood that some divine care was providing, and,
refreshed with sleep and the Bath, sat down to the feast. Still she saw no one:
only she heard words falling here and there, and had voices alone to serve her.
And the feast being ended, one entered the chamber and sang to her unseen,
while another struck the chords of a harp, invisible with him who played on it.
Afterwards the sound of a company singing together came to her, but still so
that none were present to sight; yet it appeared that a great multitude of
singers was there. And the hour of evening inviting her, she climbed into
the bed; and as the night was far advanced, behold a sound of a certain
clemency approaches her. Then, fearing for her maidenhood in so great solitude,
she trembled, and more than any evil she knew dreaded that she knew not. And
now the husband, that unknown husband, drew near, and ascended the couch, and
made her his wife; and lo! before the rise of dawn he had departed hastily. And
the attendant voices ministered to the needs of the newly married. And so it
happened with her for a long season. And as nature has willed, this new thing,
by continual use, became a delight to her: the sound of the voice grew to be
her solace in that condition of loneliness and uncertainty. One night the
bridegroom spoke thus to his beloved, “O Psyche, most pleasant bride! Fortune
is grown stern with us, and threatens thee with mortal peril. Thy sisters,
troubled at the report of thy death and seeking some trace of thee, will
come to the mountain’s top. But if by chance their cries reach thee, answer
not, neither look forth at all, lest thou bring sorrow upon me and destruction
upon thyself.” Then Psyche promised that she would do according to his will.
But the bridegroom was fled away again with the night. And all that day she
spent in tears, repeating that she was now dead indeed, shut up in that golden
prison, powerless to console her sisters sorrowing after her, or to see their
faces; and so went to rest weeping. And after a while came the bridegroom
again, and lay down beside her, and embracing her as she wept, complained, “Was
this thy promise, my Psyche? What have I to hope from thee? Even in the arms of
thy husband thou ceasest not from pain. Do now as thou wilt. Indulge thine own
desire, though it seeks what will ruin thee. Yet wilt thou remember my warning,
repentant too late.” Then, protesting that she is like to die, she obtains from
him that he suffer her to see her sisters, and present to them moreover what
gifts she would of golden ornaments; but therewith he ofttimes advised her
never at any time, yielding to pernicious counsel, to enquire concerning his
bodily form, lest she fall, through unholy curiosity, from so great a height of
fortune, nor feel ever his embrace again. “I would die a hundred times,” she said,
cheerful at last, “rather than be deprived of thy most sweet usage. I love thee
as my own soul, beyond comparison even with Love himself. Only bid thy servant
Zephyrus bring hither my sisters, as he brought me. My honeycomb! My husband!
Thy Psyche’s breath of life!” So he promised; and after the embraces of the
night, ere the light appeared, vanished from the hands of his bride. And
the sisters, coming to the place where Psyche was abandoned, wept loudly among
the rocks, and called upon her by name, so that the sound came down to her, and
running out of the palace distraught, she cried, “Wherefore afflict your souls
with lamentation? I whom you mourn am here.” Then, summoning Zephyrus, she
reminded him of her husband’s bidding; and he bare them down with a gentle
blast. “Enter now,” she said, “into my house, and relieve your sorrow in the
company of Psyche your sister.” And Psyche displayed to them all the
treasures of the golden house, and its great family of ministering voices,
nursing in them the malice which was already at their hearts. And at last one
of them asks curiously who the lord of that celestial array may be, and what
manner of man her husband? And Psyche answered dissemblingly, “A young man,
handsome and mannerly, with a goodly beard. For the most part he hunts upon the
mountains.” And lest the secret should slip from her in the way of further
speech, loading her sisters with gold and gems, she commanded Zephyrus to bear
them away. And they returned home, on fire with envy. “See now the
injustice of fortune!” cried one. “We, the elder children, are given like
servants to be the wives of strangers, while the youngest is possessed of so
great riches, who scarcely knows how to use them. You saw, Sister! what a hoard
of wealth lies in the house; what glittering gowns; what splendour of precious
gems, besides all that gold trodden under foot. If she indeed hath, as she
said, a bridegroom so goodly, then no one in all the world is happier. And it
may be that this husband, being of divine nature, will make her too a goddess.
Nay! so in truth it is. It was even thus she bore herself. Already she looks
aloft and breathes divinity, who, though but a woman, has voices for her
handmaidens, and can command the winds.” “Think,” answered the other, “how arrogantly
she dealt with us, grudging us these trifling gifts out of all that store, and
when our company became a burden, causing us to be hissed and driven away from
her through the air! But I am no woman if she keep her hold on this great
fortune; and if the insult done us has touched thee too, take we counsel
together. Meanwhile let us hold our peace, and know naught of her, alive or
dead. For they are not truly happy of whose happiness other folk are
unaware.” And the bridegroom, whom still she knows not, warns her thus a
second time, as he talks with her by night: “Seest thou what peril besets thee?
Those cunning wolves have made ready for thee their snares, of which the sum is
that they persuade thee to search into the fashion of my countenance, the seeing
of which, as I have told thee often, will be the seeing of it no more for ever.
But do thou neither listen nor make answer to aught regarding thy husband.
Besides, we have sown also the seed of our race. Even now this bosom grows with
a child to be born to us, a child, if thou but keep our secret, of divine
quality; if thou profane it, subject to death.” And Psyche was glad at the
tidings, rejoicing in that solace of a divine seed, and in the glory of that
pledge of love to be, and the dignity of the name of mother. Anxiously she
notes the increase of the days, the waning months. And again, as he tarries
briefly beside her, the bridegroom repeats his warning: “Even now the
sword is drawn with which thy sisters seek thy life. Have pity on thyself,
sweet wife, and upon our child, and see not those evil women again.” But the
sisters make their way into the palace once more, crying to her in wily tones,
“O Psyche! and thou too wilt be a mother! How great will be the joy at home!
Happy indeed shall we be to have the nursing of the golden child. Truly if he
be answerable to the beauty of his parents, it will be a birth of Cupid
himself.” So, little by little, they stole upon the heart of their
sister. She, meanwhile, bids the lyre to sound for their delight, and the
playing is heard: she bids the pipes to move, the quire to sing, and the music
and the singing come invisibly, soothing the mind of the listener with sweetest
modulation. Yet not even thereby was their malice put to sleep: once more they
seek to know what manner of husband she has, and whence that seed. And Psyche,
simple over-much, forgetful of her first story, answers, “My husband comes from
a far country, trading for great sums. He is already of middle age, with
whitening locks.” And therewith she dismisses them again. And returning
home upon the soft breath of Zephyrus one cried to the other, “What shall be
said of so ugly a lie? He who was a young man with goodly beard is now in
middle life. It must be that she told a false tale: else is she in very truth
ignorant what manner of man he is. Howsoever it be, let us destroy her quickly.
For if she indeed knows not, be sure that her bridegroom is one of the gods: it
is a god she bears in her womb. And let that be far from us! If she be called
mother of a god, then will life be more than I can bear.” So, full of
rage against her, they returned to Psyche, and said to her craftily, “Thou
livest in an ignorant bliss, all incurious of thy real danger. It is a deadly
serpent, as we certainly know, that comes to sleep at thy side. Remember the
words of the oracle, which declared thee destined to a cruel beast. There are
those who have seen it at nightfall, coming back from its feeding. In no long
time, they say, it will end its blandishments. It but waits for the babe to be
formed in thee, that it may devour thee by so much the richer. If indeed the
solitude of this musical place, or it may be the loathsome commerce of a hidden
love, delight thee, we at least in sisterly piety have done our part.” And at last
the unhappy Psyche, simple and frail of soul, carried away by the terror of
their words, losing memory of her husband’s precepts and her own promise,
brought upon herself a great calamity. Trembling and turning pale, she answers
them, “And they who tell those things, it may be, speak the truth. For in very
deed never have I seen the face of my husband, nor know I at all what manner of
man he is. Always he frights me diligently from the sight of him, threatening
some great evil should I too curiously look upon his face. Do ye, if ye can
help your sister in her great peril, stand by her now.” Her sisters
answered her, “The way of safety we have well considered, and will teach thee.
Take a sharp knife, and hide it in that part of the couch where thou art wont
to lie: take also a lamp filled with oil, and set it privily behind the
curtain. And when he shall have drawn up his coils into the accustomed place,
and thou hearest him breathe in sleep, slip then from his side and discover the
lamp, and, knife in hand, put forth thy strength, and strike off the serpent’s
head.” And so they departed in haste. And Psyche left alone (alone but
for the furies which beset her) is tossed up and down in her distress, like a
wave of the sea; and though her will is firm, yet, in the moment of putting
hand to the deed, she falters, and is torn asunder by various apprehension of
the great calamity upon her. She hastens and anon delays, now full of distrust,
and now of angry courage: under one bodily form she loathes the monster and
loves the bridegroom. But twilight ushers in the night; and at length in haste
she makes ready for the terrible deed. Darkness came, and the bridegroom; and
he first, after some faint essay of love, falls into a deep sleep. And
she, erewhile of no strength, the hard purpose of destiny assisting her, is
confirmed in force. With lamp plucked forth, knife in hand, she put by her sex;
and lo! as the secrets of the bed became manifest, the sweetest and most gentle
of all creatures, Love himself, reclined there, in his own proper loveliness!
At sight of him the very flame of the lamp kindled more gladly! But Psyche was
afraid at the vision, and, faint of soul, trembled back upon her knees, and
would have hidden the steel in her own bosom. But the knife slipped from her
hand; and now, undone, yet ofttimes looking upon the beauty of that divine
countenance, she lives again. She sees the locks of that golden head, pleasant
with the unction of the gods, shed down in graceful entanglement behind and
before, about the ruddy cheeks and white throat. The pinions of the winged god,
yet fresh with the dew, are spotless upon his shoulders, the delicate plumage
wavering over them as they lie at rest. Smooth he was, and, touched with light,
worthy of Venus his mother. At the foot of the couch lay his bow and arrows,
the instruments of his power, propitious to men. And Psyche, gazing
hungrily thereon, draws an arrow from the quiver, and trying the point upon her
thumb, tremulous still, drave in the barb, so that a drop of blood came forth.
Thus fell she, by her own act, and unaware, into the love of Love. Falling upon
the bridegroom, with indrawn breath, in a hurry of kisses from eager and open
lips, she shuddered as she thought how brief that sleep might be. And it chanced
that a drop of burning oil fell from the lamp upon the god’s shoulder. Ah!
maladroit minister of love, thus to wound him from whom all fire comes; though
’twas a lover, I trow, first devised thee, to have the fruit of his desire even
in the darkness! At the touch of the fire the god started up, and beholding the
overthrow of her faith, quietly took flight from her embraces. And
Psyche, as he rose upon the wing, laid hold on him with her two hands, hanging
upon him in his passage through the air, till she sinks to the earth through
weariness. And as she lay there, the divine lover, tarrying still, lighted upon
a cypress tree which grew near, and, from the top of it, spake thus to her, in
great emotion. “Foolish one! unmindful of the command of Venus, my mother, who
had devoted thee to one of base degree, I fled to thee in his stead. Now know I
that this was vainly done. Into mine own flesh pierced mine arrow, and I made
thee my wife, only that I might seem a monster beside thee—that thou shouldst
seek to wound the head wherein lay the eyes so full of love to thee! Again and
again, I thought to put thee on thy guard concerning these things, and warned
thee in loving-kindness. Now I would but punish thee by my flight hence.” And
therewith he winged his way into the deep sky. Psyche, prostrate upon the
earth, and following far as sight might reach the flight of the bridegroom,
wept and lamented; and when the breadth of space had parted him wholly from
her, cast herself down from the bank of a river which was nigh. But the stream,
turning gentle in honour of the god, put her forth again unhurt upon its
margin. And as it happened, Pan, the rustic god, was sitting just then by the
waterside, embracing, in the body of a reed, the goddess Canna; teaching her to
respond to him in all varieties of slender sound. Hard by, his flock of goats
browsed at will. And the shaggy god called her, wounded and outworn, kindly to
him and said, “I am but a rustic herdsman, pretty maiden, yet wise, by favour
of my great age and long experience; and if I guess truly by those faltering
steps, by thy sorrowful eyes and continual sighing, thou labourest with excess
of love. Listen then to me, and seek not death again, in the stream or
otherwise. Put aside thy woe, and turn thy prayers to Cupid. He is in truth a
delicate youth: win him by the delicacy of thy service.” So the
shepherd-god spoke, and Psyche, answering nothing, but with a reverence to his
serviceable deity, went on her way. And while she, in her search after Cupid,
wandered through many lands, he was lying in the chamber of his mother,
heart-sick. And the white bird which floats over the waves plunged in haste
into the sea, and approaching Venus, as she bathed, made known to her that her
son lies afflicted with some grievous hurt, doubtful of life. And Venus cried,
angrily, “My son, then, has a mistress! And it is Psyche, who witched away my
beauty and was the rival of my godhead, whom he loves!” Therewith she
issued from the sea, and returning to her golden chamber, found there the lad,
sick, as she had heard, and cried from the doorway, “Well done, truly! to
trample thy mother’s precepts under foot, to spare my enemy that cross of
anunworthy love; nay, unite her to thyself, child as thou art, that I might
have a daughter-in-law who hates me! I will make thee repent of thy sport, and
the savour of thy marriage bitter. There is one who shall chasten this body of
thine, put out thy torch and unstring thy bow. Not till she has plucked forth
that hair, into which so oft these hands have smoothed the golden light, and
sheared away thy wings, shall I feel the injury done me avenged.” And with this
she hastened in anger from the doors. And Ceres and Juno met her, and
sought to know the meaning of her troubled countenance. “Ye come in season,”
she cried; “I pray you, find for me Psyche. It must needs be that ye have heard
the disgrace of my house.”And they, ignorant of what was done, would have
soothed her anger, saying, “What fault, Mistress, hath thy son committed, that
thou wouldst destroy the girl he loves? Knowest thou not that he is now of age?
Because he wears his years so lightly must he seem to thee ever but a child?
Wilt thou for ever thus pry into the pastimes of thy son, always accusing his
wantonness, and blaming in him those delicate wiles which are all thine own?”
Thus, in secret fear of the boy’s bow, did they seek to please him with their
gracious patronage. But Venus, angry at their light taking of her wrongs,
turned her back upon them, and with hasty steps made her way once more to the
sea. Meanwhile Psyche, tost in soul, wandering hither and thither, rested
not night or day in the pursuit of her husband, desiring, if she might not
soothe his anger by the endearments of a wife, at the least to propitiate him
with the prayers of a handmaid. And seeing a certain temple on the top of a
high mountain, she said, “Who knows whether yonder place be not the abode of my
lord?” Thither, therefore, she turned her steps, hastening now the more because
desire and hope pressed her on, weary as she was with the labours of the way,
and so, painfully measuring out the highest ridges of the mountain, drew near
to the sacred couches. She sees ears of wheat, in heaps or twisted into
chaplets; ears of barley also, with sickles and all the instruments of harvest,
lying there in disorder, thrown at random from the hands of the labourers in
the great heat. These she curiously sets apart, one by one, duly ordering them;
for she said within herself, “I may not neglect the shrines, nor the holy service,
of any god there be, but must rather win by supplication the kindly mercy of
them all.” And Ceres found her bending sadly upon her task, and cried
aloud, “Alas, Psyche! Venus, in the furiousness of her anger, tracks thy
footsteps through the world, seeking for thee to pay her the utmost penalty;
and thou, thinking of anything rather than thine own safety, hast taken on thee
the care of what belongs to me!” Then Psyche fell down at her feet, and
sweeping the floor with her hair, washing the footsteps of the goddess in her
tears, besought her mercy, with many prayers:—“By the gladdening rites of
harvest, by the lighted lamps and mystic marches of the Marriage and mysterious
Invention of thy daughter Proserpine, and by all beside that the holy place of
Attica veils in silence, minister, I pray thee, to the sorrowful heart of
Psyche! Suffer me to hide myself but for a few days among the heaps of corn,
till time have softened the anger of the goddess, and my strength, out-worn in
my long travail, be recovered by a little rest.” But Ceres answered her,
“Truly thy tears move me, and I would fain help thee; only I dare not incur the
ill-will of my kinswoman. Depart hence as quickly as may be.” And Psyche,
repelled against hope, afflicted now with twofold sorrow, making her way back
again, beheld among the half-lighted woods of the valley below a sanctuary
builded with cunning art. And that she might lose no way of hope, howsoever
doubtful, she drew near to the sacred doors. She sees there gifts of price, and
garments fixed upon the door-posts and to the branches of the trees, wrought
with letters of gold which told the name of the goddess to whom they were
dedicated, with thanksgiving for that she had done. So, with bent knee and
hands laid about the glowing altar, she prayed saying, “Sister and spouse of
Jupiter! be thou to these my desperate fortune’s Juno the Auspicious! I know
that thou dost willingly help those in travail with child; deliver me from the
peril that is upon me.” And as she prayed thus, Juno in the majesty of her
godhead, was straightway present, and answered, “Would that I might incline
favourably to thee; but against the will of Venus, whom I have ever loved as a
daughter, I may not, for very shame, grant thy prayer.” And Psyche,
dismayed by this new shipwreck of her hope, communed thus with herself,
“Whither, from the midst of the snares that beset me, shall I take my way once
more? In what dark solitude shall I hide me from the all-seeing eye of Venus?
What if I put on at length a man’s courage, and yielding myself unto her as my
mistress, soften by a humility not yet too late the fierceness of her purpose?
Who knows but that I may find him also whom my soul seeketh after, in the abode
of his mother?” And Venus, renouncing all earthly aid in her search,
prepared to return to heaven. She ordered the chariot to be made ready, wrought
for her by Vulcan as a marriage-gift, with a cunning of hand which had left his
work so much the richer by the weight of gold it lost under his tool. From the
multitude which housed about the bed-chamber of their mistress, white doves
came forth, and with joyful motions bent their painted necks beneath the yoke.
Behind it, with playful riot, the sparrows sped onward, and other birds sweet
of song, making known by their soft notes the approach of the goddess. Eagle
and cruel hawk alarmed not the quireful family of Venus. And the clouds broke
away, as the uttermost ether opened to receive her, daughter and goddess, with
great joy. And Venus passed straightway to the house of Jupiter to beg
from him the service of Mercury, the god of speech. And Jupiter refused not her
prayer. And Venus and Mercury descended from heaven together; and as they went,
the former said to the latter, “Thou knowest, my brother of Arcady, that never
at any time have I done anything without thy help; for how long time, moreover,
I have sought a certain maiden in vain. And now naught remains but that, by thy
heraldry, I proclaim a reward for whomsoever shall find her. Do thou my bidding
quickly.” And therewith she conveyed to him a little scrip, in the which was
written the name of Psyche, with other things; and so returned home. And
Mercury failed not in his office; but departing into all lands, proclaimed that
whosoever delivered up to Venus the fugitive girl, should receive from herself
seven kisses—one thereof full of the inmost honey of her throat. With that the
doubt of Psyche was ended. And now, as she came near to the doors of Venus, one
of the household, whose name was Use-and-Wont, ran out to her, crying, “Hast
thou learned, Wicked Maid! now at last! that thou hast a mistress?” And seizing
her roughly by the hair, drew her into the presence of Venus. And when Venus
saw her, she cried out, saying, “Thou hast deigned then to make thy salutations
to thy mother-in-law. Now will I in turn treat thee as becometh a dutiful
daughter-in-law!” And she took barley and millet and poppy-seed, every
kind of grain and seed, and mixed them together, and laughed, and said to her:
“Methinks so plain a maiden can earn lovers only by industrious ministry: now
will I also make trial of thy service. Sort me this heap of seed, the one kind
from the others, grain by grain; and get thy task done before the evening.” And
Psyche, stunned by the cruelty of her bidding, was silent, and moved not her
hand to the inextricable heap. And there came forth a little ant, which had
understanding of the difficulty of her task, and took pity upon the consort of
the god of Love; and he ran deftly hither and thither, and called together the
whole army of his fellows. “Have pity,” he cried, “nimble scholars of the
Earth, Mother of all things!—have pity upon the wife of Love, and hasten to
help her in her perilous effort.” Then, one upon the other, the hosts of the
insect people hurried together; and they sorted asunder the whole heap of seed,
separating every grain after its kind, and so departed quickly out of
sight. And at nightfall Venus returned, and seeing that task finished
with so wonderful diligence, she cried, “The work is not thine, thou naughty
maid, but his in whose eyes thou hast found favour.” And calling her again in
the morning, “See now the grove,” she said, “beyond yonder torrent. Certain
sheep feed there, whose fleeces shine with gold. Fetch me straightway a lock of
that precious stuff, having gotten it as thou mayst.” And Psyche went
forth willingly, not to obey the command of Venus, but even to seek a rest from
her labour in the depths of the river. But from the river, the green reed,
lowly mother of music, spake to her: “O Psyche! pollute not these waters by
self-destruction, nor approach that terrible flock; for, as the heat groweth,
they wax fierce. Lie down under yon plane-tree, till the quiet of the river’s
breath have soothed them. Thereafter thou mayst shake down the fleecy gold from
the trees of the grove, for it holdeth by the leaves.” And Psyche,
instructed thus by the simple reed, in the humanity of its heart, filled her
bosom with the soft golden stuff, and returned to Venus. But the goddess smiled
bitterly, and said to her, “Well know I who was the author of this thing also.
I will make further trial of thy discretion, and the boldness of thy heart.
Seest thou the utmost peak of yonder steep mountain? The dark stream which
flows down thence waters the Stygian fields, and swells the flood of Cocytus.
Bring me now, in this little urn, a draught from its innermost source.” And
therewith she put into her hands a vessel of wrought crystal. And Psyche
set forth in haste on her way to the mountain, looking there at last to find
the end of her hapless life. But when she came to the region which borders on
the cliff that was showed to her, she understood the deadly nature of her task.
From a great rock, steep and slippery, a horrible river of water poured forth,
falling straightway by a channel exceeding narrow into the unseen gulf below.
And lo! creeping from the rocks on either hand, angry serpents, with their long
necks and sleepless eyes. The very waters found a voice and bade her depart, in
smothered cries of, Depart hence! and What doest thou here? Look around thee!
and Destruction is upon thee! And then sense left her, in the immensity of her
peril, as one changed to stone. Yet not even then did the distress of
this innocent soul escape the steady eye of a gentle providence. For the bird
of Jupiter spread his wings and took flight to her, and asked her, “Didst thou
think, simple one, even thou! that thou couldst steal one drop of that
relentless stream, the holy river of Styx, terrible even to the gods? But give
me thine urn.” And the bird took the urn, and filled it at the source, and
returned to her quickly from among the teeth of the serpents, bringing with him
of the waters, all unwilling—nay! warning him to depart away and not molest
them. And she, receiving the urn with great joy, ran back quickly that
she might deliver it to Venus, and yet again satisfied not the angry goddess.
“My child!” she said, “in this one thing further must thou serve me. Take now
this tiny casket, and get thee down even unto hell, and deliver it to
Proserpine. Tell her that Venus would have of her beauty so much at least as
may suffice for but one day’s use, that beauty she possessed erewhile being
foreworn and spoiled, through her tendance upon the sick-bed of her son; and be
not slow in returning.” And Psyche perceived there the last ebbing of her
fortune—that she was now thrust openly upon death, who must go down, of her own
motion, to Hades and the Shades. And straightway she climbed to the top of an
exceeding high tower, thinking within herself, “I will cast myself down thence:
so shall I descend most quickly into the kingdom of the dead.” And the tower
again, broke forth into speech: “Wretched Maid! Wretched Maid! Wilt thou
destroy thyself? If the breath quit thy body, then wilt thou indeed go down
into Hades, but by no means return hither. Listen to me. Among the pathless
wilds not far from this place lies a certain mountain, and therein one of
hell’s vent-holes. Through the breach a rough way lies open, following which
thou wilt come, by straight course, to the castle of Orcus. And thou must not
go empty-handed. Take in each hand a morsel of barley-bread, soaked in
hydromel; and in thy mouth two pieces of money. And when thou shalt be now well
onward in the way of death, then wilt thou overtake a lame ass laden with wood,
and a lame driver, who will pray thee reach him certain cords to fasten the
burden which is falling from the ass: but be thou cautious to pass on in
silence. And soon as thou comest to the river of the dead, Charon, in that
crazy bark he hath, will put thee over upon the further side. There is greed
even among the dead: and thou shalt deliver to him, for the ferrying, one of
those two pieces of money, in such wise that he take it with his hand from
between thy lips. And as thou passest over the stream, a dead old man, rising
on the water, will put up to thee his mouldering hands, and pray thee draw him
into the ferry-boat. But beware thou yield not to unlawful pity. “When
thou shalt be come over, and art upon the causeway, certain aged women,
spinning, will cry to thee to lend thy hand to their work; and beware again
that thou take no part therein; for this also is the snare of Venus, whereby
she would cause thee to cast away one at least of those cakes thou bearest in
thy hands. And think not that a slight matter; for the loss of either one of
them will be to thee the losing of the light of day. For a watch-dog exceeding
fierce lies ever before the threshold of that lonely house of Proserpine. Close
his mouth with one of thy cakes; so shalt thou pass by him, and enter
straightway into the presence of Proserpine herself. Then do thou deliver thy
message, and taking what she shall give thee, return back again; offering to
the watch-dog the other cake, and to the ferryman that other piece of money
thou hast in thy mouth. After this manner mayst thou return again beneath the
stars. But withal, I charge thee, think not to look into, nor open, the casket
thou bearest, with that treasure of the beauty of the divine countenance hidden
therein.” So spake the stones of the tower; and Psyche delayed not, but
proceeding diligently after the manner enjoined, entered into the house of
Proserpine, at whose feet she sat down humbly, and would neither the delicate
couch nor that divine food the goddess offered her, but did straightway the
business of Venus. And Proserpine filled the casket secretly and shut the lid,
and delivered it to Psyche, who fled therewith from Hades with new strength.
But coming back into the light of day, even as she hasted now to the ending of
her service, she was seized by a rash curiosity. “Lo! now,” she said within
herself, “my simpleness! who bearing in my hands the divine loveliness, heed
not to touch myself with a particle at least therefrom, that I may please the
more, by the favour of it, my fair one, my beloved.” Even as she spoke, she
lifted the lid; and behold! within, neither beauty, nor anything beside, save
sleep only, the sleep of the dead, which took hold upon her, filling all her
members with its drowsy vapour, so that she lay down in the way and moved not,
as in the slumber of death. And Cupid being healed of his wound, because
he would endure no longer the absence of her he loved, gliding through the
narrow window of the chamber wherein he was holden, his pinions being now
repaired by a little rest, fled forth swiftly upon them, and coming to the
place where Psyche was, shook that sleep away from her, and set him in his
prison again, awaking her with the innocent point of his arrow. “Lo! thine old
error again,” he said, “which had like once more to have destroyed thee! But do
thou now what is lacking of the command of my mother: the rest shall be my
care.” With these words, the lover rose upon the air; and being consumed
inwardly with the greatness of his love, penetrated with vehement wing into the
highest place of heaven, to lay his cause before the father of the gods. And
the father of gods took his hand in his, and kissed his face and said to him,
“At no time, my son, hast thou regarded me with due honour. Often hast thou
vexed my bosom, wherein lies the disposition of the stars, with those busy
darts of thine. Nevertheless, because thou hast grown up between these mine
hands, I will accomplish thy desire.” And straightway he bade Mercury call the
gods together; and, the council-chamber being filled, sitting upon a high
throne, “Ye gods,” he said, “all ye whose names are in the white book of the
Muses, ye know yonder lad. It seems good to me that his youthful heats should
by some means be restrained. And that all occasion may be taken from him, I
would even confine him in the bonds of marriage. He has chosen and embraced a
mortal maiden. Let him have fruit of his love, and possess her for ever.”
Thereupon he bade Mercury produce Psyche in heaven; and holding out to her his
ambrosial cup, “Take it,” he said, “and live for ever; nor shall Cupid ever
depart from thee.” And the gods sat down together to the marriage-feast.
On the first couch lay the bridegroom, and Psyche in his bosom. His rustic serving-boy
bare the wine to Jupiter; and Bacchus to the rest. The Seasons crimsoned all
things with their roses. Apollo sang to the lyre, while a little Pan prattled
on his reeds, and Venus danced very sweetly to the soft music. Thus, with due
rites, did Psyche pass into the power of Cupid; and from them was born the
daughter whom men call Voluptas. So the famous story composed itself in
the memory of Marius, with an expression changed in some ways from the original
and on the whole graver. The petulant, boyish Cupid of Apuleius was become more
like that “Lord, of terrible aspect,” who stood at Dante’s bedside and wept, or
had at least grown to the manly earnestness of the Erôs of Praxiteles. Set in
relief amid the coarser matter of the book, this episode of Cupid and Psyche
served to combine many lines of meditation, already familiar to Marius, into
the ideal of a perfect imaginative love, centered upon a type of beauty
entirely flawless and clean—an ideal which never wholly faded from his
thoughts, though he valued it at various times in different degrees. The human
body in its beauty, as the highest potency of all the beauty of material
objects, seemed to him just then to be matter no longer, but, having taken
celestial fire, to assert itself as indeed the true, though visible, soul or
spirit in things. In contrast with that ideal, in all the pure brilliancy, and
as it were in the happy light, of youth and morning and the springtide, men’s
actual loves, with which at many points the book brings one into close contact,
might appear to him, like the general tenor of their lives, to be somewhat mean
and sordid. The hiddenness of perfect things: a shrinking mysticism, a
sentiment of diffidence like that expressed in Psyche’s so tremulous hope
concerning the child to be born of the husband she had never yet seen—“in the
face of this little child, at the least, shall I apprehend thine”—in hoc saltem
parvulo cognoscam faciem tuam: the fatality which seems to haunt any signal+
beauty, whether moral or physical, as if it were in itself something illicit
and isolating: the suspicion and hatred it so often excites in the
vulgar:—these were some of the impressions, forming, as they do, a constant
tradition of somewhat cynical pagan experience, from Medusa and Helen downwards,
which the old story enforced on him. A book, like a person, has its fortunes
with one; is lucky or unlucky in the precise moment of its falling in our way,
and often by some happy accident counts with us for something more than its
independent value. The Metamorphoses of Apuleius, coming to Marius just then,
figured for him as indeed The Golden Book: he felt a sort of personal gratitude
to its writer, and saw in it doubtless far more than was really there for any
other reader. It occupied always a peculiar place in his remembrance, never
quite losing its power in frequent return to it for the revival of that first
glowing impression. Its effect upon the elder youth was a more practical
one: it stimulated the literary ambition, already so strong a motive with him,
by a signal example of success, and made him more than ever an ardent,
indefatigable student of words, of the means or instrument of the literary art.
The secrets of utterance, of expression itself, of that through which alone any
intellectual or spiritual power within one can actually take effect upon
others, to over-awe or charm them to one’s side, presented themselves to this
ambitious lad in immediate connexion with that desire for predominance, for the
satisfaction of which another might have relied on the acquisition and display
of brilliant military qualities. In him, a fine instinctive sentiment of the
exact value and power of words was connate with the eager longing for sway over
his fellows. He saw himself already a gallant and effective leader, innovating
or conservative as occasion might require, in the rehabilitation of the
mother-tongue, then fallen so tarnished and languid; yet the sole object, as he
mused within himself, of the only sort of patriotic feeling proper, or possible,
for one born of slaves. The popular speech was gradually departing from the
form and rule of literary language, a language always and increasingly
artificial. While the learned dialect was yearly becoming more and more
barbarously pedantic, the colloquial idiom, on the other hand, offered a
thousand chance-tost gems of racy or picturesque expression, rejected or at
least ungathered by what claimed to be classical Latin. The time was coming
when neither the pedants nor the people would really understand Cicero; though
there were some indeed, like this new writer, Apuleius, who, departing from the
custom of writing in Greek, which had been a fashionable affectation among the
sprightlier wits since the days of Hadrian, had written in the
vernacular. The literary prog ramme which Flavian had already
designed for himself would be a work, then, partly conservative or reactionary,
in its dealing with the instrument of the literary art; partly popular and
revolutionary, asserting, so to term them, the rights of the proletariate of
speech. More than fifty years before, the younger Pliny, himself an effective
witness for the delicate power of the Latin tongue, had said,—“I am one of
those who admire the ancients, yet I do not, like some others, underrate
certain instances of genius which our own times afford. For it is not true that
nature, as if weary and effete, no longer produces what is admirable.” And he,
Flavian, would prove himself the true master of the opportunity thus indicated.
In his eagerness for a not too distant fame, he dreamed over all that, as the
young Caesar may have dreamed of campaigns. Others might brutalise or
neglect the native speech, that true “open field” for charm and sway over men.
He would make of it a serious study, weighing the precise power of every phrase
and word, as though it were precious metal, disentangling the later
associations and going back to the original and native sense of each,—restoring
to full significance all its wealth of latent figurative expression, reviving
or replacing its outworn or tarnished images. Latin literature and the Latin
tongue were dying of routine and languor; and what was necessary, first of all,
was to re-establish the natural and direct relationship between thought and
expression, between the sensation and the term, and restore to words their
primitive power. For words, after all, words manipulated with all his
delicate force, were to be the apparatus of a war for himself. To be forcibly
impressed, in the first place; and in the next, to find the means of making
visible to others that which was vividly apparent, delightful, of lively
interest to himself, to the exclusion of all that was but middling, tame, or
only half-true even to him—this scrupulousness of literary art actually awoke
in Flavian, for the first time, a sort of chivalrous conscience. What care for
style! what patience of execution! what research for the significant tones of
ancient idiom—sonantia verba et antiqua! What stately and regular
word-building—gravis et decora constructio! He felt the whole meaning of the
sceptical Pliny’s somewhat melancholy advice to one of his friends, that he
should seek in literature deliverance from mortality—ut studiis se literarum a
mortalitate vindicet. And there was everything in the nature and the training
of Marius to make him a full participator in the hopes of such a new literary
school, with Flavian for its leader. In the refinements of that curious spirit,
in its horror of profanities, its fastidious sense of a correctness in external
form, there was something which ministered to the old ritual interest, still
surviving in him; as if here indeed were involved a kind of sacred service
tothe mother-tongue. Here, then, was the theory of Euphuism, as
manifested in every age in which the literary conscience has been awakened to
forgotten duties towards language, towards the instrument of expression: infact
it does but modify a little the principles of all effective expression at all
times. ’Tis art’s function to conceal itself: ars est celare artem:—is a saying,
which, exaggerated by inexact quotation, has perhaps been oftenest and most
confidently quoted by those who have had little literary or other art to
conceal; and from the very beginning of professional literature, the “labour of
the file”—a labour in the case of Plato, for instance, or Virgil, like that of
the oldest of goldsmiths as described by Apuleius, enriching the work by far
more than the weight of precious metal it removed—has always had its function.
Sometimes, doubtless, as in later examples of it, this Roman Euphuism,
determined at any cost to attain beauty in writing—es kallos graphein+—might
lapse into its characteristic fopperies or mannerisms, into the “defects of its
qualities,” in truth, not wholly unpleasing perhaps, or at least excusable,
when looked at as but the toys (so Cicero calls them), the strictly congenial
and appropriate toys, of an assiduously cultivated age, which could not help
being polite, critical, self-conscious. The mere love of novelty also had, of
course, its part there: as with the Euphuism of the Elizabethan age, and of the
modern French romanticists, its neologies were the ground of one of the
favourite charges against it; though indeed, as regards these tricks of taste
also, there is nothing new, but a quaint family likeness rather, between the
Euphuists of successive ages. Here, as elsewhere, the power of “fashion,” as it
is called, is but one minor form, slight enough, it may be, yet distinctly
symptomatic, of that deeper yearning of human nature towards ideal perfection,
which is a continuous force in it; and since in this direction too human nature
is limited, such fashions must necessarilyreproduce themselves. Among other
resemblances to later growths of Euphuism, its archaisms on the one hand, and
its neologies on the other, the Euphuism of the days of Marcus Aurelius had, in
the composition of verse, its fancy for the refrain. It was a snatch from a
popular chorus, something he had heard sounding all over the town of Pisa one
April night, one of the firstbland and summer-like nights of the year, that
Flavian had chosen for the refrain of a poem he was then pondering—the
Pervigilium Veneris—the vigil, or “nocturn,” of Venus. Certain elderly
counsellors, filling what may be thought a constant part in the little
tragi-comedy which literature and its votaries are playing in all ages, would
ask, suspecting some affectation or unreality in that minute culture of
form:—Cannot those who have a thing to say, say it directly? Why not be simple
and broad, like the old writers of Greece? And this challenge had at least the
effect of setting his thoughts at work on the intellectual situation
as it lay between the children of the present and those earliest masters.
Certainly, the most wonderful, the unique, point, about the Greek genius, in
literature as in everything else, was the entire absence of imitation in its
productions. How had the burden of precedent, laid upon every artist, increased
since then! It was all around one:—that smoothly built world of old classical taste,
an accomplished fact, with overwhelming authority on every detail of the
conduct of one’s work. With no fardel on its own back, yet so imperious towards
those who came labouring after it, Hellas, in its early freshness, looked as
distant from him even then as it does from ourselves. There might seem to be no
place left for novelty or originality, —place only for a patient, an
infinite, faultlessness. On this question too Flavian passed through a world of
curious art-casuistries, of self-tormenting, at the threshold of his work. Was
poetic beauty a thing ever one and the same, a type absolute; or, changing
always with the soul of time itself, did it depend upon the taste, the peculiar
trick of apprehension, the fashion, as we say, of each successive age? Might
one recover that old, earlier sense of it, that earlier manner, in a
mas terly effort to recall all the complexities of the life, moral and
intellectual, of the earlier age to which it had belonged? Had there been
really bad ages in art or literature? Were all ages, even those earliest,
adventurous, matutinal days, in themselves equally poetical or unpoetical; and
poetry, the literary beauty, the poetic ideal, always but a borrowed light upon
men’s actual life? Homer had said— Hoi d’hote dê limenos
polybentheos entos hikonto, Histia men steilanto, thesan d’ en nêi melainê...
Ek de kai autoi bainon epi phêgmini thalassês.+ And how poetic the
simple incident seemed, told just thus! Homer was always telling things after
this manner. And one might think there had been no effort in it: that here was
but the almost mechanical transcript of a time, naturally, intrinsically,
poetic, a time in which one could hardly have spoken at all without ideal
effect, or, the sailors pulled down their boat without making a picture in “the
great style,” against a sky charged with marvels. Must not the mere prose of an
age, itself thus ideal, have coun ted for more than half of Homer’s
poetry? Or might the closer student discover even here, even in Homer, the really
mediatorial function of the poet, as between the reader and the actual matter
of his experience; the poet waiting, so to speak, in an age which had felt
itself trite and commonplace enough, on his opportunity for the touch of
“golden alchemy,” or at least for the pleasantly lighted side of things
themselves? Might not another, in one’s own prosaic and used-up time, so
uneventful as it had been through the long reign of these quiet Antonines, in
like manner, discover his ideal, by a due waiting upon it? Would not a future
generation, looking back upon this, under the power of the enchanted-distance
fallacy, find it ideal to view, in contrast with its own languor—the languor
that for some reason (concerning which Augustine will one day have his view)
seemed to haunt men always? Had Homer, even, appeared unreal and affected in
his poetic flight, to some of the people of his own age, as seemed to happen
with every new literature in turn? In any case, the intellectual conditions of
early Greece had been—how different from these! And a true literary tact would
accept that difference in forming the primary conception of the literary
function at a later time. Perhaps the utmost one could get by conscious effort,
in the way of a reaction or return to the conditions of an earlier and fresher
age, would be but novitas, artificial artlessness, naïveté; and this quality
too might have its measure of euphuistic charm, direct and sensible enough,
though it must count, in comparison with that genuine early Greek newness at the
beginning, not as the freshness of the open fields, but only of a bunch of
field-flowers in a heated room. There was, meantime, all this:—on one
side, the old pagan culture, for us but a fragment, for him an accomplished yet
present fact, still a living, united, organic whole, in the entirety of its
art, its thought, its religions, its sagacious forms of polity, that so weighty
authority it exercised on every point, being in reality only the measure of its
charm for every one: on the other side, the actual world in all its eager
self-assertion, with Flavian himself, in his boundless animation, there, at the
centre of the situation. From the natural defects, from the pettiness, of his
euphuism, his assiduous cultivation of manner, he was saved by the consciousness
that he had a matter to present, very real, at least to him. That preoccupation
of the dilettante with what might seem mere details of form, after all, did but
serve the purpose of bringing to the surface, sincerely and in their integrity,
certain strong personal intuitions, a certain vision or apprehension of things
as really being, with important results, thus, rather than thus,—intuitions
which the artistic or literary faculty was called upon to follow, with the
exactness of wax or clay, clothing the model within. Flavian too, with his fine
clear mastery of the practically effective, had early laid hold of the
principle, as axiomatic in literature: that to know when one’s self is
interested, is the first condition of interesting other people. It was a
principle, the forcible apprehension of which made him jealous and fastidious
in the selection of his intellectual food; often listless while others read or
gazed diligently; never pretending to be moved out of mere complaisance to
people’s emotions: it served to foster in him a very scrupulous literary
sincerity with himself. And it was this uncompromising demand for a matter, in
all art, derived immediately from lively personal intuition, this constant
appeal to individual judgment, which saved his euphuism, even at its weakest,
from lapsing into mere artifice. Was the magnificent exordium of
Lucretius, addressed to the goddess Venus, the work of his earlier manhood, and
designed originally to open an argument less persistently sombre than that protest
against the whole pagan heaven which actually follows it? It is certainly the
most typical expression of a mood, still incident to the young poet, as a thing
peculiar to his youth, when he feels the sentimental current setting forcibly
along his veins, and so much as a matter of purely physical excitement, that he
can hardly distinguish it from the animation of external nature, the upswelling
of the seed in the earth, and of the sap through the trees. Flavian, to whom,
again, as to his later euphuistic kinsmen, old mythology seemed as full of
untried, unexpressed motives and interest as human life itself, had long been
occupied with a kind of mystic hymn to the vernal principle of life in things;
a composition shaping itself, little by little, out of a thousand dim
perceptions, into singularly definite form (definite and firm as fine-art in
metal, thought Marius) for which, as I said, he had caught his “refrain,” from
the lips of the young men, singing because they could not help it, in the
streets of Pisa. And as oftenest happens also, with natures of genuinely poetic
quality, those piecemeal beginnings came suddenly to harmonious completeness
among the fortunate incidents, the physical heat and light, of one singularly
happy day. It was one of the first hot days of March—“the sacred day”—on
which, from Pisa, as from many another harbour on the Mediterranean, the Ship
of Isis went to sea, and every one walked down to the shore-side to witness the
freighting of the vessel, its launching and final abandonment among the waves,
as an object really devoted to the Great Goddess, that new rival, or “double,”
of ancient Venus, and like her a favourite patroness of sailors. On the evening
next before, all the world had been abroad to view the illumination of the river;
the stately lines of building being wreathed with hundreds of many-coloured
lamps. The young men had poured forth their chorus— Cras amet qui nunquam
amavit, Quique amavit cras amet— as they bore their torches through
the yielding crowd, or rowed their lanterned boats up and down the stream, till
far into the night, when heavy rain-drops had driven the last lingerers home.
Morning broke, however, smiling and serene; and the long procession started
betimes. The river, curving slightly, with the smoothly paved streets on either
side, between its low marble parapet and the fair dwelling-houses, formed the
main highway of the city; and the pageant, accompanied throughout by
innumerable lanterns and wax tapers, took its course up one of these streets,
crossing the water by a bridge up-stream, and down the other, to the haven,
every possible standing-place, out of doors and within, being crowded with
sight-seers, of whom Marius was one of the most eager, deeply interested in
finding the spectacle much as Apuleius had described it in his famous
book. At the head of the procession, the master of ceremonies, quietly
waving back the assistants, made way for a number of women, scattering
perfumes. They were succeeded by a company of musicians, piping and twanging,
on instruments the strangest Marius had ever beheld, the notes of a hymn,
narrating the first origin of this votive rite to a choir of youths, who
marched behind them singing it. The tire-women and other personal attendants of
the great goddess came next, bearing the instruments of their ministry, and
various articles from the sacred wardrobe, wrought of the most precious
material; some of them with long ivory combs, plying their hands in wild yet
graceful concert of movement as they went, in devout mimicry of the toilet.
Placed in their rear were the mirror-bearers of the goddess, carrying large
mirrors of beaten brass or silver, turned in such a way as to reflect to the
great body of worshippers who followed, the face of the mysterious image, as it
moved on its way, and their faces to it, as though they were in fact advancing
to meet the heavenly visitor. They comprehended a multitude of both sexes and
of all ages, already initiated into the divine secret, clad in fair linen, the
females veiled, the males with shining tonsures, and every one carrying a
sistrum—the richer sort of silver, a few very dainty persons of fine
gold—rattling the reeds, with a noise like the jargon of innumerable birds and
insects awakened from torpor and abroad in the spring sun. Then, borne upon a
kind of platform, came the goddess herself, undulating above the heads of the
multitude as the bearers walked, in mystic robe embroidered with the moon and
stars, bordered gracefully with a fringe of real fruit and flowers, and with a
glittering crown upon the head. The train of the procession consisted of the
priests in long white vestments, close from head to foot, distributed into
various groups, each bearing, exposed aloft, one of the sacred symbols of
Isis—the corn-fan, the golden asp, the ivory hand of equity, and among them the
votive ship itself, carved and gilt, and adorned bravely with flags flying.
Last of all walked the high priest; the people kneeling as he passed to kiss
his hand, in which were those well-remembered roses. Marius followed with
the rest to the harbour, where the mystic ship, lowered from the shoulders of
the priests, was loaded with as much as it could carry of the rich spices and
other costly gifts, offered in great profusion by the worshippers, and thus,
launched at last upon the water, left the shore, crossing the harbour-bar in
the wake of a much stouter vessel than itself with a crew of white-robed
mariners, whose function it was, at the appointed moment, finally to desert it
on the open sea. The remainder of the day was spent by most in parties on
the water. Flavian and Marius sailed further than they had ever done before to
a wild spot on the bay, the traditional site of a little Greek colony, which,
having had its eager, stirring life at the time when Etruria was still a power
in Italy, had perished in the age of the civil wars. In the absolute
transparency of the air on this gracious day, an infinitude of detail from sea
and shore reached the eye with sparkling clearness, as the two lads sped
rapidly over the waves—Flavian at work suddenly, from time to time, with his
tablets. They reached land at last. The coral fishers had spread their nets on
the sands, with a tumble-down of quaint, many-hued treasures, below a little
shrine of Venus, fluttering and gay with the scarves and napkins and gilded
shells which these people had offered to the image. Flavian and Marius sat down
under the shadow of a mass of gray rock or ruin, where the sea-gate of the
Greek town had been, and talked of life in those old Greek colonies. Of this
place, all that remained, besides those rude stones, was—a handful of silver
coins, each with a head of pure and archaic beauty, though a little cruel
perhaps, supposed to represent the Siren Ligeia, whose tomb was formerly shown
here—only these, and an ancient song, the very strain which Flavian had
recovered in those last months. They were records which spoke, certainly, of
the charm of life within those walls. How strong must have been the tide of
men’s existence in that little republican town, so small that this circle of
gray stones, of service now only by the moisture they gathered for the
blue-flowering gentians among them, had been the line of its rampart! An
epitome of all that was liveliest, most animated and adventurous, in the old
Greek people of which it was an offshoot, it had enhanced the effect of these
gifts by concentration within narrow limits. The band of “devoted youth,”—hiera
neotês.+—of the younger brothers, devoted to the gods and whatever luck the
gods might afford, because there was no room for them at home—went forth,
bearing the sacred flame from the mother hearth; itself a flame, of power to
consume the whole material of existence in clear light and heat, with no
smouldering residue. The life of those vanished townsmen, so brilliant and
revolutionary, applying so abundantly the personal qualities which alone just
then Marius seemed to value, associated itself with the actual figure of his
companion, standing there before him, his face enthusiastic with the sudden thought
of all that; and struck him vividly as precisely the fitting opportunity for a
nature like his, so hungry for control, for ascendency over men. Marius
noticed also, however, as high spirits flagged at last, on the way home through
the heavy dew of the evening, more than physical fatigue in Flavian, who seemed
to find no refreshment in the coolness. There had been something feverish,
perhaps, and like the beginning of sickness, about his almost forced gaiety, in
this sudden spasm of spring; and by the evening of the next day he was lying
with a burning spot on his forehead, stricken, as was thought from the first,
by the terrible new disease. NOTES 93. +Corrected from the
Macmillan edition misprint “singal.” 98. +Transliteration: es
kallos graphein. Translation: “To write beautifully.”Iliad 1.432-33, 437.
Transliteration: Hoi d’ hote dê limenos polybentheos entos hikonto,
Histia men steilanto, thesan d’ en nêi melainê... Ek de kai autoi bainon epi
phêgmini thalassês. Etext editor’s translation: When
they had safely made deep harbor They took in the sail, laid it in their black
ship... And went ashore just past the breakers. 109.
+Transliteration: hiera neotês. Pater translates the phrase, “devoted
youth.” For the fantastical colleague of the philosophic emperor Marcus
Aurelius, returning in triumph from the East, had brought in his train, among
the enemies of Rome, one by no means a captive. People actually sickened at a
sudden touch of the unsuspected foe, as they watched in dense crowds the
pathetic or grotesque imagery of failure or success in the triumphal
procession. And, as usual, the plague brought with it a power to develop all
pre-existent germs of superstition. It was by dishonour done to Apollo himself,
said popular rumour—to Apollo, the old titular divinity of pestilence,
that the poisonous thing had come abroad. Pent up in a golden coffer
consecrated to the god, it had escaped in the sacrilegious plundering of his
temple at Seleucia by the soldiers of Lucius Verus, after a traitorous surprise
of that town and a cruel massacre. Certainly there was something which baffled
all imaginable precautions and all medical science, in the suddenness with
which the disease broke out simultaneously, here and there, among both soldiers
and citizens, even in places far remote from the main line of its march in the
rear of the victorious army. It seemed to have invaded the whole empire, and
some have even thought that, in a mitigated form, it permanently remained
there. In Rome itself many thousands perished; and old authorities tell of
farmsteads, whole towns, and even entire neighbourhoods, which from that time
continued without inhabitants and lapsed into wildness or ruin. Flavian
lay at the open window of his lodging, with a fiery pang in the brain, fancying
no covering thin or light enough to be applied to his body. His head being
relieved after a while, there was distress at the chest. It was but the fatal
course of the strange new sickness, under many disguises; travelling from the
brain to the feet, like a material resident, weakening one after another of the
organic centres; often, when it did not kill, depositing various degrees of
lifelong infirmity in this member or that; and after such descent, returning
upwards again, now as a mortal coldness, leaving the entrenchments of the
fortress of life overturned, one by one, behind it. Flavian lay there,
with the enemy at his breast now in a painful cough, but relieved from that
burning fever in the head, amid the rich-scented flowers—rare Paestum roses,
and the like —procured by Marius for his solace, in a fancied convalescence;
and would, at intervals, return to labour at his verses, with a great
eagerness to complete and transcribe the work, while Marius sat and wrote at
his dictation, one of the latest but not the poorest specimens of genuine Latin
poetry. It was in fact a kind of nuptial hymn, which, taking its start
from the thought of nature as the universal mother, celebrated the preliminary
pairing and mating together of all fresh things, in the hot and genial
spring-time—the immemorial nuptials of the soul of spring itself and the brown
earth; and was full of a delighted, mystic sense of what passed between them in
that fantastic marriage. That mystic burden was relieved, at intervals, by the
familiar playfulness of the Latin verse-writer in dealing with mythology,
which, though coming at so late a day, had still a wonderful freshness in its
old age.—“Amor has put his weapons by and will keep holiday. He was bidden go
without apparel, that none might be wounded by his bowand arrows. But take
care! In truth he is none the less armed than usual, though he be all
unclad.” In the expression of all this Flavian seemed, while making it
his chief aim to retain the opulent, many-syllabled vocabulary of the Latin
genius, at some points even to have advanced beyond it, in anticipation of
wholly new laws of taste as regards sound, a new range of sound itself. The
peculiar resultant note, associating itself with certain other experiences of
his, was to Marius like the foretaste of an entirely novel world of poetic
beauty to come. Flavian had caught, indeed, something of the rhyming cadence,
the sonorous organ-music of the medieval Latin, and therewithal something of
its unction and mysticity of spirit. There was in his work, along with the
last splendour of the classical language, a touch, almost prophetic, of that
transformed life it was to have in the rhyming middle age, just about to dawn.
The impression thus forced upon Marius connected itself with a feeling, the
exact inverse of that, known to every one, which seems to say, You have been
just here, just thus, before!—a feeling, in his case, not reminiscent but
prescient of the future, which passed over him afterwards many times, as he
came across certain places and people. It was as if he detected there the
process of actual change to a wholly undreamed-of and renewed condition of
human body and soul: as if he saw the heavy yet decrepit old Roman
architectureabout him, rebuilding on an intrinsically better pattern. Could it
have been actually on a new musical instrument that Flavian had first heard the
novel accents of his verse? And still Marius noticed there, amid all its
richness of expression and imagery, that firmness of outline he had always
relished so much in the composition of Flavian. Yes! a firmness like that of
some master of noble metal-work, manipulating tenacious bronze or gold. Even
now that haunting refrain, with its impromptu variations, from the throats of
those strong young men, came floating through the window. Cras amet qui
nunquam amavit, Quique amavit cras amet! —repeated Flavian,
tremulously, dictating yet one stanza more. What he was losing, his
freehold of a soul and body so fortunately endowed, the mere liberty of life
above-ground, “those sunny mornings in the cornfields by the sea,” as he
recollected them one day, when the window was thrown open upon the early
freshness—his sense of all this, was from the first singularly near and
distinct, yet rather as of something he was but debarred the use of for a time
than finally bidding farewell to. That was while he was still with no very
grave misgivings as to the issue of his sickness, and felt the sources of life
still springing essentially unadulterate within him. From time to time, indeed,
Marius, labouring eagerly at the poem from his dictation, was haunted by a
feeling of the triviality of such work just then. The recurrent sense of some
obscure danger beyond the mere danger of death, vaguer than that and by so much
the more terrible, like the menace of some shadowy adversary in the dark with
whose mode of attack they had no acquaintance, disturbed him now and again
through those hours of excited attention to his manuscript, and to the purely
physical wants of Flavian. Still, during these three days there was much hope
and cheerfulness, and even jesting. Half-consciously Marius tried to prolong
one or another relieving circumstance of the day, the preparations for rest and
morning refreshment, for instance; sadly making the most of the little luxury
of this or that, with something of the feigned cheer of the mother who sets her
last morsels before her famished child as for a feast, but really that he “may
eat it and die.” On the afternoon of the seventh day he allowed Marius
finally to put aside the unfinished manuscript. For the enemy, leaving the
chest quiet at length though much exhausted, had made itself felt with full
power again in a painful vomiting, which seemed to shake his body asunder, with
great consequent prostration. From that time the distress increased rapidly
downwards. Omnia tum vero vitai claustra lababant;+ and soon the cold was
mounting with sure pace from the dead feet to the head. And now Marius
began more than to suspect what the issue must be, and henceforward could but
watch with a sort of agonised fascination the rapid but systematic work of the
destroyer, faintly relieving a little the mere accidents of the sharper forms
of suffering. Flavian himself appeared, in full consciousness at last—in
clear-sighted, deliberate estimate of the actual crisis—to be doing battle with
his adversary. His mind surveyed, with great distinctness, the various
suggested modes of relief. He must without fail get better, he would fancy,
might he be removed to a certain place on the hills where as a child he had
once recovered from sickness, but found that he could scarcely raise his head
from the pillow without giddiness. As if now surely foreseeing the end, he
would set himself, with an eager effort, and with that eager and angry look,
which is noted as one of the premonitions of death in this disease, to fashion
out, without formal dictation, still a few more broken verses of his unfinished
work, in hard-set determination, defiant of pain, to arrest this or that little
drop at least from the river of sensuous imagery rushing so quickly past
him. But at length delirium—symptom that the work of the plague was done,
and the last resort of life yielding to the enemy—broke the coherent order of
words and thoughts; and Marius, intent on the coming agony, found his best hope
in the increasing dimness of the patient’s mind. In intervals of clearer
consciousness the visible signs of cold, of sorrow and desolation, were very
painful. No longer battling with the disease, he seemed as it were to place
himself at the disposal of the victorious foe, dying passively, like some dumb
creature, in hopeless acquiescence at last. That old, half-pleading petulance,
unamiable, yet, as it might seem, only needing conditions of life a little
happier than they had actually been, to become refinement of affection, a
delicate grace in its demand on the sympathy of others, had changed in those
moments of full intelligence to a clinging and tremulous gentleness, as he
lay—“on the very threshold of death”—with a sharply contracted hand in the hand
of Marius, to his almost surprised joy, winning him now to an absolutely
self-forgetful devotion. There was a new sort of pleading in the misty eyes,
just because they took such unsteady note of him, which made Marius feel as if
guilty; anticipating thus a form of self-reproach with which even the tenderest
ministrant may be sometimes surprised, when, at death, affectionate labour
suddenly ceasing leaves room for the suspicion of some failure of love perhaps,
at one or another minute point in it. Marius almost longed to take his share in
the suffering, that he might understand so the better how to relieve it.
It seemed that the light of the lamp distressed the patient, and Marius
extinguished it. The thunder which had sounded all day among the hills, with a
heat not unwelcome to Flavian, had given way at nightfall to steady rain; and
in the darkness Marius lay down beside him, faintly shivering now in the sudden
cold, to lend him his own warmth, undeterred by the fear of contagion which had
kept other people from passing near the house. At length about day-break he
perceived that the last effort had come with a revival of mental clearness, as
Marius understood by the contact, light as it was, in recognition of him there.
“Is it a comfort,” he whispered then, “that I shall often come and weep over
you?”—“Not unless I be aware, and hear you weeping!” The sun shone out on
the people going to work for a long hot day, and Marius was standing by the
dead, watching, with deliberate purpose to fix in his memory every detail, that
he might have this picture in reserve, should any hour of forgetfulness
hereafter come to him with the temptation to feel completely happy again. A
feeling of outrage, of resentment against nature itself, mingled with an agony
of pity, as he noted on the now placid features a certain look of humility,
almost abject, like the expression of a smitten child or animal, as of one,
fallen at last, after bewildering struggle, wholly under the power of a
merciless adversary. From mere tenderness of soul he would not forget one
circumstance in all that; as a man might piously stamp on his memory the
death-scene of a brother wrongfully condemned to die, against a time that may
come. The fear of the corpse, which surprised him in his effort to watch
by it through the darkness, was a hint of his own failing strength, just in
time. The first night after the washing of the body, he bore stoutly enough the
tax which affection seemed to demand, throwing the incense from time to time on
the little altar placed beside the bier. It was the recurrence of the
thing—that unchanged outline below the coverlet, amid a silence in which the
faintest rustle seemed to speak—that finally overcame his determination.
Surely, here, in this alienation, this sense of distance between them, which
had come over him before though in minor degree when the mind of Flavian had
wandered in his sickness, was another of the pains of death. Yet he was able to
make all due preparations, and go through the ceremonies, shortened a little because
of the infection, when, on a cloudless evening, the funeral procession went
forth; himself, the flames of the pyre having done their work, carrying away
the urn of the deceased, in the folds of his toga, to its last resting-place in
the cemetery beside the highway, and so turning home to sleep in his own
desolate lodging. Quis desiderio sit pudor aut modus
Tam cari capitis?—+ What thought of others’ thoughts about
one could there be with the regret for “so dear a head” fresh at one’s
heart? NOTES 116. +Lucretius, Book VI.1153. 120.
+Horace, Odes I.xxiv.1-2. Animula, vagula, blandula Hospes comesque
corporis, Quae nunc abibis in loca? Pallidula, rigida, nudula. The
Emperor Hadrian to his Soul Flavian was no more. The little marble
chest with its dust and tears lay cold among the faded flowers. For most people
the actual spectacle of death brings out into greater reality, at least for the
imagination, whatever confidence they may entertain of the soul’s survival in
another life. To Marius, greatly agitated by that event, the earthly end of
Flavian came like a final revelation of nothing less than the soul’s
extinction. Flavian had gone out as utterly as the fire among those still
beloved ashes. Even that wistful suspense of judgment expressed by the dying
Hadrian, regarding further stages of being still possible for the soul in some
dim journey hence, seemed wholly untenable, and, with it, almost all that
remained of the religion of his childhood. Future extinction seemed just then
to be what the unforced witness of his own nature pointed to. On the other
hand, there came a novel curiosity as to what the various schools of ancient
philosophy had had to say concerning that strange, fluttering creature; and
that curiosity impelled him to certain severe studies, in which his earlier
religious conscience seemed still to survive, as a principle of hieratic
scrupulousness or integrity of thought, regarding this new service to
intellectual light. At this time, by his poetic and inward temper, he might
have fallen a prey to the enervating mysticism, then in wait for ardent souls
in many a melodramatic revival of old religion or theosophy. From all this,
fascinating as it might actually be to one side of his character, he was kept
by a genuine virility there, effective in him, among other results, as a hatred
of what was theatrical, and the instinctive recognition that in vigorous
intelligence, after all, divinity was most likely to be found a resident. With
this was connected the feeling, increasing with his advance to manhood, of a
poetic beauty in mere clearness of thought, the actually aesthetic charm of a
cold austerity of mind; as if the kinship of that to the clearness of physical
light were something more than a figure of speech. Of all those various
religious fantasies, as so many forms of enthusiasm, he could well appreciate
the picturesque; that was made easy by his natural Epicureanism, already
prompting him to conceive of himself as but the passive spectator of the world
around him. But it was to the severer reasoning, of which such matters as
Epicurean theory are born, that, in effect, he now betook himself.
Instinctively suspicious of those mechanical arcana, those pretended “secrets
unveiled” of the professional mystic, which really bring great and little souls
to one level, for Marius the only possible dilemma lay between that old,
ancestral Roman religion, now become so incredible to him and the honest action
of his own untroubled, unassisted intelligence. Even the Arcana Celestia of Platonism—what
the sons of Plato had had to say regarding the essential indifference of pure
soul to its bodily house and merely occasional dwelling-place—seemed to him
while his heart was there in the urn with the material ashes of Flavian, or
still lingering in memory over his last agony, wholly inhuman or morose, as
tending to alleviate his resentment at nature’s wrong. It was to the sentiment
of the body, and the affections it defined—the flesh, of whose force and colour
that wandering Platonic soul was but so frail a residue or abstract—he must
cling. The various pathetic traits of the beloved, suffering, perished body of
Flavian, so deeply pondered, had made him a materialist, but with something of
the temper of a devotee. As a consequence it might have seemed at first
that his care for poetry had passed away, to be replaced by the literature of
thought. His much-pondered manuscript verses were laid aside; and what happened
now to one, who was certainly to be something of a poet from first to last,
looked at the moment like a change from poetry to prose. He came of age about
this time, his own master though with beardless face; and at eighteen, an age
at which, then as now, many youths of capacity, who fancied themselves poets,
secluded themselves from others chiefly in affectation and vague dreaming, he
secluded himself indeed from others, but in a severe intellectual meditation,
that salt of poetry, without which all the more serious charm is lacking to the
imaginative world. Still with something of the old religious earnestness of
hischildhood, he set himself—Sich im Denken zu orientiren—to determine his
bearings, as by compass, in the world of thought—to get that precise
acquaintance with the creative intelligence itself, its structure and
capacities, its relation to other parts of himself and to other things, without
which, certainly, no poetry can be masterly. Like a young man rich in this
world’s goods coming of age, he must go into affairs, and ascertain his
outlook. There must be no disguises. An exact estimate of realities, as towards
himself, he must have—a delicately measured gradation of certainty in
things—from the distant, haunted horizon of mere surmise or imagination, to the
actual feeling of sorrow in his heart, as he reclined one morning, alone
instead of in pleasant company, to ponder the hard sayings of an imperfect old
Greek manuscript, unrolled beside him. His former gay companions, meeting him
in the streets of the old Italian town, and noting the graver lines coming into
the face of the sombre but enthusiastic student of intellectual structure, who
could hold his own so well in the society of accomplished older men, were half
afraid of him, though proud to have him of their company. Why this
reserve?—they asked, concerning the orderly, self-possessed youth, whose speech
and carriage seemed so carefully measured, who was surely no poet like the
rapt, dishevelled Lupus. Was he secretly in love, perhaps, whose toga was so
daintily folded, and who was always as fresh as the flowers he wore; or bent on
his own line of ambition: or even on riches? Marius, meantime, was
reading freely, in early morning for the most part, those writers chiefly who
had made it their business to know what might be thought concerning that
strange, enigmatic, personal essence, which had seemed to go out
altogether, along with the funeral fires. And the old Greek who more than any
other was now giving form to his thoughts was a very hard master. From
Epicurus, from the thunder and lightning of Lucretius—like thunder and
lightning some distance off, one might recline to enjoy, in a garden of
roses—he had gone back to the writer who was in a ce rtain sense the
teacher of both, Heraclitus of Ionia. His difficult book “Concerning Nature”
was even then rare, for people had long since satisfied themselves by the
quotation of certain brilliant, isolated, oracles only, out of what was at best
a taxing kind of lore. But the difficulty of the early Greek prose did but spur
the curiosity of Marius; the writer, the superior clearness of whose
intellectual view had so sequestered him from other men, who had had so little
joy of that superiority, being avowedly exacting as to the amount of devout
attention he required from the student. “The many,” he said, always thus
emphasising the difference between the many and the few, are “like people heavy
with wine,” “led by children,” “knowing not whither they go;” and yet, “much
learning doth not make wise;” and again, “the ass, after all, would have his
thistles rather than fine gold.” Heraclitus, indeed, had not under-rated
the difficulty for “the many” of the paradox with which his doctrine begins,
and the due reception of which must involve a denial of habitual impressions,
as the necessary first step in the way of truth. His philosophy had been
developed in conscious, outspoken opposition to the current mode of thought, as
a matter requiring some exceptional loyalty to pure reason and its “dry
light.” Men are subject to an illusion, he protests, regarding matters apparent
to sense. What the uncorrected sense gives was a false impression of permanence
or fixity in things, which have really changed their nature in the very moment
in which we see and touch them. And the radical flaw in the current mode of
thinking would lie herein: that, reflecting this false or uncorrected
sensation, it attributes to the phenomena of experience a durability which does
not really belong to them. Imaging forth from those fluid impressions a world
of firmly out-lined objects, it leads one to regard as a thing stark and dead
what is in reality full of animation, of vigour, of the fire of life—that
eternal process of nature, of which at a later time Goethe spoke as the “Living
Garment,” whereby God is seen of us, ever in weaving at the “Loom of
Time.” And the appeal which the old Greek thinker made was, in the first
instance, from confused to unconfused sensation; with a sort of prophetic
seriousness, a great claim and assumption, such as we may understand, if we
anticipate in this preliminary scepticism the ulterior scope of his
speculation, according to which the universal movement of all natural things is
but one particular stage, or measure, of that ceaseless activity wherein the
divine reason consists. The one true being—that constant subject of all early
thought—it was his merit to have conceived, not as sterile and stagnant
inaction, but as a perpetual energy, from the restless stream of which, at
certain points, some elements detach themselves, and harden into non-entity and
death, corresponding, as outward objects, to man’s inward condition of
ignorance: that is, to the slowness of his faculties. It is with this paradox
of a subtle, perpetual change in all visible things, that the high speculation
of Heraclitus begins. Hence the scorn he expresses for anything like a
careless, half-conscious, “use-and-wont” reception of our experience, which
took so strong a hold on men’s memories! Hence those many precepts towards a
strenuous self-consciousness in all we think and do, that loyalty to cool and
candid reason, which makes strict attentiveness of mind a kind of religious
duty and service. The negative doctrine, then, that the objects of our
ordinary experience, fixed as they seem, are really in perpetual change, had
been, as originally conceived, but the preliminary step towards a large
positive system of almost religious philosophy. Then as now, the illuminated
philosophic mind might apprehend, in what seemed a mass of lifeless matter, the
movement of that universal life, in which things, and men’s impressions of
them, were ever “coming to be,” alternately consumed and renewed. That
continual change, to be discovered by the attentive understanding where
common opinion found fixed objects, was but the indicator of a subtler but
all-pervading motion—the sleepless, ever-sustained, inexhaustible energy of the
divine reason itself, proceeding always by its own rhythmical logic, and
lendingto all mind and matter, in turn, what life they had. In this “perpetual
flux” of things and of souls, there was, as Heraclitus conceived, a
continuance, if not of their material or spiritual elements, yet of orderly
intelligible relationships, like the harmony of musical notes, wrought out in
and through the series of their mutations—ordinances of the divine reason,
maintained throughout the changes of the phenomenal world; and this harmony in
their mutation and opposition, was, after all, a principle of sanity, of
reality, there. But it happened, that, of all this, the first, merely sceptical
or negative step, that easiest step on the threshold, had alone remained in
general memory; and the “doctrine of motion” seemed to those who had felt its
seduction to make all fixed knowledge impossible. The swift passage of things,
the still swifter passage of those modes of our conscious being which seemed to
reflect them, might indeed be the burning of the divine fire: but what was
ascertained was that they did pass away like a devouring flame, or like the
race of water in the mid-stream—too swiftly for any real knowledge of them to
be attainable. Heracliteanism had grown to be almost identical with the famous
doctrine of the sophist Protagoras, that the momentary, sensible apprehension
of the individual was the only standard of what is or is not, and each one the
measure of all things to himself. The impressive name of Heraclitus had become
but an authority for a philosophy of the despair of knowledge. And as it
had been with his original followers in Greece, so it happened now with the
later Roman disciple. He, too, paused at the apprehension of that constant
motion of things—the drift of flowers, of little or great souls, of ambitious
systems, in the stream around him, the first source, the ultimate issue, of
which, in regions out of sight, must count with him as but a dim problem. The
bold mental flight of the old Greek master from the fleeting, competing objects
of experience to that one universal life, in which the whole sphere of physical
change might be reckoned as but a single pulsation, remained by him as
hypothesis only—the hypothesis he actually preferred, as in itself most
credible, however scantily realisable even by the imagination—yet still as but
one unverified hypothesis, among many others, concerning the first principle of
things. He might reserve it as a fine, high, visionary consideration, very
remote upon the intellectual ladder, just at the point, indeed, where that
ladder seemed to pass into the clouds, but for which there was certainly no
time left just now by his eager interest in the real objects so close to him,
on the lowlier earthy steps nearest the ground. And those childish days of
reverie, when he played at priests, played in many another day-dream, working
his way from the actual present, as far as he might, with a delightful sense of
escape in replacing the outer world of other people by an inward world as
himself really cared to have it, had made him a kind of “idealist.” He was
become aware of the possibility of a large dissidence between an inward and
somewhat exclusive world of vivid personal apprehension, and the unimproved,
unheightened reality of the life of those about him. As a consequence, he was
ready now to concede, somewhat more easily than others, the first point of his
new lesson, that the individual is to himself the measure of all things, and to
rely on the exclusive certainty to himself of his own impressions. To move
afterwards in that outer world of other people, as though taking it at their
estimate, would be possible henceforth only as a kind of irony. And as with the
Vicaire Savoyard, after reflecting on the variations of philosophy, “the first
fruit he drew from that reflection was the lesson of a limitation of his
researches to what immediately interested him; to rest peacefully in a profound
ignorance as to all beside; to disquiet himself only concerning those things
which it was of import for him to know.” At least he would entertain no theory
of conduct which did not allow its due weight to this primary element of
incertitude or negation, in the conditions of man’s life. Just here he joined company,
retracing in his individual mental pilgrimage the historic order of human
thought, with another wayfarer on the journey, another ancient Greek master,
the founder of the Cyrenaic philosophy, whose weighty traditional utterances
(for he had left no writing) served in turn to give effective outline to the
contemplations of Marius. There was something in the doctrine itself congruous
with the place wherein it had its birth; and for a time Marius lived much,
mentally, in the brilliant Greek colony which had given a dubious name to the
philosophy of pleasure. It hung, for his fancy, between the mountains and the
sea, among richer than Italian gardens, on a certain breezy table-land
projecting from the African coast, some hundreds of miles southward from Greece.
There, in a delightful climate, with something of transalpine temperance amid
its luxury, and withal in an inward atmosphere of temperance which did but
further enhance the brilliancy of human life, the school of Cyrene had
maintained itself as almost one with the family of its founder; certainly as
nothing coarse or unclean, and under the influence of accomplished women.
Aristippus of Cyrene too had left off in suspense of judgment as to what might
really lie behind—flammantia moenia mundi: the flaming ramparts of the world.
Those strange, bold, sceptical surmises, which had haunted the minds of the
first Greek enquirers as merely abstract doubt, which had been present to the
mind of Heraclitus as one element only in a system of abstract philosophy, became
with Aristippus a very subtly practical worldly-wisdom. The difference between
him and those obscure earlier thinkers is almost like that between an ancient
thinker generally, and a modern man of the world: it was the difference between
the mystic in his cell, or the prophet in the desert, and the expert,
cosmopolitan, administrator of his dark sayings, translating the abstract
thoughts of the master into terms, first of all, of sentiment. It has been
sometimes seen, in the history of the human mind, that when thus translated
into terms of sentiment—of sentiment, as lying already half-way towards
practice—the abstract ideas of metaphysics for the first time reveal their true
significance. The metaphysical principle, in itself, as it were, without hands
or feet, becomes impressive, fascinating, of effect, when translated into a
precept as to how it were best to feel and act; in other words, under its
sentimental or ethical equivalent. The leading idea of the great master of
Cyrene, his theory that things are but shadows, and that we, even as they,
never continue in one stay, might indeed have taken effect as a languid,
enervating, consumptive nihilism, as a precept of “renunciation,” which would
touch and handle and busy itself with nothing. But in the reception of
metaphysical formulae, all depends, as regards their actual and ulterior
result, on the pre-existent qualities of that soil of human nature into which
they fall—the company they find already present there, on their admission into
the house of thought; there being at least so much truth as this involves in
the theological maxim, that the reception of this or that speculative
conclusion is really a matter of will. The persuasion that all is vanity, with
this happily constituted Greek, who had been a genuine disciple of Socrates and
reflected, presumably, something of his blitheness in the face of the world,
his happy way of taking all chances, generated neither frivolity nor sourness,
but induced, rather, an impression, just serious enough, of the call upon men’s
attention of the crisis in which they find themselves. It became the stimulus
towards every kind of activity, and prompted a perpetual, inextinguishable
thirst after experience. With Marius, then, the influence of the
philosopher of pleasure depended on this, that in him an abstract doctrine,
originally somewhat acrid, had fallen upon a rich and genial nature, well
fitted to transform it into a theory of practice, of considerable stimulative
power towards a fair life. What Marius saw in him was the spectacle of one of
the happiest temperaments coming, so to speak, to an understanding with the
most depressing of theories; accepting the results of a metaphysical system
which seemed to concentrate into itself all the weakening trains of thought in
earlier Greek speculation, and making the best of it; turning its hard, bare
truths, with wonderful tact, into precepts of grace, and delicate wisdom, and a
delicate sense of honour. Given the hardest terms, supposing our days are
indeed but a shadow, even so, we may well adorn and beautify, in scrupulous
self-respect, our souls, and whatever our souls touch upon—these wonderful
bodies, these material dwelling-places through which the shadows pass together
for a while, the very raiment we wear, our very pastimes and the intercourse of
society. The most discerning judges saw in him something like the graceful
“humanities” of the later Roman, and our modern “culture,” as it is termed;
while Horace recalled his sayings as expressing best his own consummate amenity
in the reception of life. In this way, for Marius, under the guidance of
that old master of decorous living, those eternal doubts as to the criteria of
truth reduced themselves to a scepticism almost drily practical, a scepticism
which developed the opposition between things as they are and our impressions
and thoughts concerning them—the possibility, if an outward world does really
exist, of some faultiness in our apprehension of it—the doctrine, in short, of
what is termed “the subjectivity of knowledge.” That is a consideration,
indeed, which lies as an element of weakness, like some admitted fault or flaw,
at the very foundation of every philosophical account of the universe; which
confronts all philosophies at their starting, but with which none have really
dealt conclusively, some perhaps not quite sincerely; which those who are not
philosophers dissipate by “common,” but unphilosophical, sense, or by religious
faith. The peculiar strength of Marius was, to have apprehended this weakness
on the threshold of human knowledge, in the whole range of its consequences.
Our knowledge is limited to what we feel, he reflected: we need no proof that
we feel. But can we be sure that things are at all like our feelings? Mere
peculiarities in the instruments of our cognition, like the little knots and
waves on the surface of a mirror, may distort the matter they seem but to
represent. Of other people we cannot truly know even the feelings, nor how far
they would indicate the same modifications, each one of a personality really
unique, in using the same terms as ourselves; that “common experience,” which
is sometimes proposed as a satisfactory basis of certainty, being after all
only a fixity of language. But our own impressions!—The light and heat of that
blue veil over our heads, the heavens spread out, perhaps not like a curtain
over anything!—How reassuring, after so long a debate about the rival criteria
of truth, to fall back upon direct sensation, to limit one’s aspirations after
knowledge to that! In an age still materially so brilliant, so expert in the
artistic handling of material things, with sensible capacities still in
undiminished vigour, with the whole world of classic art and poetry outspread
before it, and where there was more than eye or ear could well take in—how
natural the determination to rely exclusively upon the phenomena of the senses,
which certainly never deceive us about themselves, about which alone we can
never deceive ourselves! And so the abstract apprehension that the little
point of this present moment alone really is, between a past which has just
ceased to be and a future which may never come, became practical with Marius,
under the form of a resolve, as far as possible, to exclude regret and desire,
and yield himself to the improvement of the present with an absolutely
disengaged mind. America is here and now—here, or nowhere: as Wilhelm Meister
finds out one day, just not too late, after so long looking vaguely across the
ocean for the opportunity of the development of his capacities. It was as if,
recognising in perpetual motion the law of nature, Marius identified his own
way of life cordially with it, “throwing himself into the stream,” so to speak.
He too must maintain a harmony with that soul of motion in things, by constantly
renewed mobility of character. Omnis Aristippum decuit color et status et
res.— Thus Horace had summed up that perfect manner in the
reception of life attained by his old Cyrenaic master; and the first practical
consequence of the metaphysic which lay behind that perfect manner, had been a
strict limitation, almost the renunciation, of metaphysical enquiry itself.
Metaphysic—that art, as it has so often proved, in the words of Michelet, _de
s’égarer avec méthode_, of bewildering oneself methodically:—one must spend
little time upon that! In the school of Cyrene, great as was its mental
incisiveness, logical and physical speculation, theoretic interests generally,
had been valued only so far as they served to give a groundwork, an
intellectual justification, to that exclusive concern with practical ethics
which was a note of the Cyrenaic philosophy. How earnest and enthusiastic, how
true to itself, under how many varieties of character, had been the effort of
the Greeks after Theory—Theôria—that vision of a wholly reasonable world,
which, according to the greatest of them, literally makes man like God: how
loyally they had still persisted in the quest after that, in spite of how many
disappointments! In the Gospel of Saint John, perhaps, some of them might have
found the kind of vision they were seeking for; but not in “doubtful
disputations” concerning “being” and “not being,” knowledge and appearance.
Men’s minds, even young men’s minds, at that late day, might well seem
oppressed by the weariness of systems which had so far outrun positive
knowledge; and in the mind of Marius, as in that old school of Cyrene, this
sense of ennui, combined with appetites so youthfully vigorous, brought about
reaction, a sort of suicide (instances of the like have been seen since) by
which a great metaphysical acumen was devoted to the function of proving
metaphysical speculation impossible, or useless. Abstract theory was to be
valued only just so far as it might serve to clear the tablet of the mind from
suppositions no more than half realisable, or wholly visionary, leaving it in
flawless evenness of surface to the impressions of an experience, concrete and
direct. To be absolutely virgin towards such experience, by ridding
ourselves of such abstractions as are but the ghosts of bygone impressions—to
be rid of the notions we have made for ourselves, and that so often only
misrepresent the experience of which they profess to be the
representation—_idola_, idols, false appearances, as Bacon calls them later—to
neutralise the distorting influence of metaphysical system by an
all-accomplished metaphysic skill: it is this bold, hard, sober recognition,
under a very “dry light,” of its own proper aim, in union with a habit of
feeling which on the practical side may perhaps open a wide doorway to human
weakness, that gives to the Cyrenaic doctrine, to reproductions of this
doctrine in the time of Marius or in our own, their gravity and importance. It
was a school to which the young man might come, eager for truth, expecting much
from philosophy, in no ignoble curiosity, aspiring after nothing less than an
“initiation.” He would be sent back, sooner or later, to experience, to the
world of concrete impressions, to things as they may be seen, heard, felt by
him; but with a wonderful machinery of observation, and free from the tyranny
of mere theories. So, in intervals of repose, after the agitation which
followed the death of Flavian, the thoughts of Marius ran, while he felt
himself as if returned to the fine, clear, peaceful light of that pleasant
school of healthfully sensuous wisdom, in the brilliant old Greek colony, on
its fresh upland by the sea. Not pleasure, but a general completeness of life,
was the practical ideal to which this anti-metaphysical metaphysic really pointed.
And towards such a full or complete life, a life of various yet select
sensation, the most direct and effective auxiliary must be, in a word, Insight.
Liberty of soul, freedom from all partial and misrepresentative doctrine which
does but relieve one element in our experience at the cost of another, freedom
from all embarrassment alike of regret for the past and of calculation on the
future: this would be but preliminary to the real business of
education—insight, insight through culture, into all that the present moment
holds in trust for us, as we stand so briefly in its presence. From that maxim
of Life as the end of life, followed, as a practical consequence, the
desirableness of refining all the instruments of inward and outward intuition,
of developing all their capacities, of testing and exercising one’s self in
them, till one’s whole nature became one complex medium of reception, towards
the vision—the “beatific vision,” if we really cared to make it such—of our
actual experience in the world. Not the conveyance of an abstract body of
truths or principles, would be the aim of the right education of one’s self, or
of another, but the conveyance of an art—an art in some degree peculiar to each
individual character; with the modifications, that is, due to its special
constitution, and the peculiar circumstances of its growth, inasmuch as no one
of us is “like another, all in all.” Such were the practical conclusions
drawn for himself by Marius, when somewhat later he had outgrown the mastery of
others, from the principle that “all is vanity.” If he could but count upon the
present, if a life brief at best could not certainly be shown to conduct one
anywhere beyond itself, if men’s highest curiosity was indeed so persistently
baffled—then, with the Cyrenaics of all ages, he would at least fill up the
measure of that present with vivid sensations, and such intellectual
apprehensions, as, in strength and directness and their immediately realised
values at the bar of an actual experience, are most like sensations. So some
have spoken in every age; for, like all theories which really express a strong
natural tendency of the human mind or even one of its characteristic modes of
weakness, this vein of reflection is a constant tradition in philosophy. Every
age of European thought has had its Cyrenaics or Epicureans, under many
disguises: even under the hood of the monk. But—Let us eat and drink, for
to-morrow we die!—is a proposal, the real import of which differs immensely,
according to the natural taste, and the acquired judgment, of the guests who
sit at the table. It may express nothing better than the instinct of Dante’s
Ciacco, the accomplished glutton, in the mud of the Inferno;+ or, since on no
hypothesis does man “live by bread alone,” may come to be identical with—“My
meat is to do what is just and kind;” while the soul, which can make no sincere
claim to have apprehended anything beyond the veil of immediate experience, yet
never loses a sense of happiness in conforming to the highest moral ideal it
can clearly define for itself; and actually, though but with so faint hope,
does the “Father’s business.” In that age of Marcus Aurelius, so
completely disabused of the metaphysical ambition to pass beyond “the flaming
ramparts of the world,” but, on the other hand, possessed of so vast an
accumulation of intellectual treasure, with so wide a view before it over all
varieties of what is powerful or attractive in man and his works, the thoughts
of Marius did but follow the line taken by the majority of educated persons,
though to a different issue. Pitched to a really high and serious key, the
precept—Be perfect in regard to what is here and now: the precept of “culture,”
as it is called, or of a complete education—might at least save him from the
vulgarity and heaviness of a generation, certainly of no general fineness of
temper, though with a material well-being abundant enough. Conceded that what
is secure in our existence is but the sharp apex of the present moment between
two hypothetical eternities, and all that is real in our experience but a
series of fleeting impressions:—so Marius continued the sceptical argument he
had condensed, as the matter to hold by, from his various philosophical
reading:—given, that we are never to get beyond the walls of the closely shut
cell of one’s own personality; that the ideas we are somehow impelled to form
of an outer world, and of other minds akin to our own, are, it may be, but a
day-dream, and the thought of any world beyond, a day-dream perhaps idler
still: then, he, at least, in whom those fleeting impressions—faces, voices,
material sunshine—were very real and imperious, might well set himself to the
consideration, how such actual moments as they passed might be made to yield
their utmost, by the most dexterous training of capacity. Amid abstract
metaphysical doubts, as to what might lie one step only beyond that experience,
reinforcing the deep original materialism or earthliness of human nature
itself, bound so intimately to the sensuous world, let him at least make the most
of what was “here and now.” In the actual dimness of ways from means to
ends—ends in themselves desirable, yet for the most part distant and for him,
certainly, below the visible horizon—he would at all events be sure that the
means, to use the well-worn terminology, should have something of finality or
perfection about them, and themselves partake, in a measure, of the more
excellent nature of ends—that the means should justify the end. With this
view he would demand culture, paideia,+ as the Cyrenaics said, or, in other
words, a wide, a complete, education—an education partly negative, as
ascertaining the true limits of man’s capacities, but for the most part
positive, and directed especially to the expansion and refinement of the power
of reception; of those powers, above all, which are immediately relative to
fleeting phenomena, the powers of emotion and sense. In such an education, an
“aesthetic” education, as it might now be termed, and certainly occupied very
largely with those aspects of things which affect us pleasurably through
sensation, art, of course, including all the finer sorts of literature, would
have a great part to play. The study of music, in that wider Platonic sense,
according to which, music comprehends all those matters over which the Muses of
Greek mythology preside, would conduct one to an exquisite appreciation of all
the finer traits of nature and of man. Nay! the products of the imagination
must themselves be held to present the most perfect forms of life—spirit and
matter alike under their purest and most perfect conditions—the most strictly
appropriate objects of that impassioned contemplation, which, in the world of
intellectual discipline, as in the highest forms of morality and religion, must
be held to be the essential function of the “perfect.” Such manner of life
might come even to seem a kind of religion—an inward, visionary, mystic piety,
or religion, by virtue of its effort to live days “lovely and pleasant” in
themselves, here and now, and with an all-sufficiency of well-being in the
immediate sense of the object contemplated, independently of any faith, or hope
that might be entertained as to their ulterior tendency. In this way, the true
aesthetic culture would be realisable as a new form of the contemplative life,
founding its claim on the intrinsic “blessedness” of “vision”—the vision of
perfect men and things. One’s human nature, indeed, would fain reckon on an
assured and endless future, pleasing itself with the dream of a final home, to
be attained at some still remote date, yet with a conscious, delightful
home-coming at last, as depicted in many an old poetic Elysium. On the other
hand, the world of perfected sensation, intelligence, emotion, is so close to
us, and so attractive, that the most visionary of spirits must needs represent
the world unseen in colours, and under a form really borrowed from it. Let me
be sure then—might he not plausibly say?—that I miss no detail of this life of
realised consciousness in the present! Here at least is a vision, a theory,
theôria,+ which reposes on no basis of unverified hypothesis, which makes no
call upon a future after all somewhat problematic; as it would be unaffected by
any discovery of an Empedocles(improving on the old story of Prometheus) as to
what had really been the origin, and course of development, of man’s actually
attained faculties and that seemingly divine particle of reason or spirit in
him. Such a doctrine, at more leisurable moments, would of course have its
precepts to deliver on the embellishment, generally, of what is near at hand,
on the adornment of life, till, in a not impracticable rule of conduct, one’s
existence, from day to day, came to be like a well-executed piece of music;
that “perpetual motion” in things (so Marius figured the matter to himself,
under the old Greek imageries) according itself to a kind of cadence or
harmony. It was intelligible that this “aesthetic” philosophy might find
itself (theoretically, at least, and by way of a curious question in casuistry,
legitimate from its own point of view) weighing the claims of that eager,
concentrated, impassioned realisation of experience, against those of the
received morality. Conceiving its own function in a somewhat desperate temper,
and becoming, as every high-strung form of sentiment, as the religious
sentiment itself, may become, somewhat antinomian, when, in its effort towards
the order of experiences it prefers, it is confronted with the traditional and
popular morality, at points where that morality may look very like a convention,
or a mere stage-property of the world, it would be found, from time to time,
breaking beyond the limits of the actual moral order; perhaps not without some
pleasurable excitement in so bold a venture. With the possibility of some
such hazard as this, in thought or even in practice—that it might be, though
refining, or tonic even, in the case of those strong and in health, yet, as
Pascal says of the kindly and temperate wisdom of Montaigne, “pernicious for
those who have any natural tendency to impiety or vice,” the line of reflection
traced out above, was fairly chargeable.—Not, however, with “hedonism” and its
supposed consequences. The blood, the heart, of Marius were still pure. He knew
that his carefully considered theory of practice braced him, with the effect of
a moral principle duly recurring to mind every morning, towards the work of a
student, for which he might seem intended. Yet there were some among his
acquaintance who jumped to the conclusion that, with the “Epicurean stye,” he
was making pleasure—pleasure, as they so poorly conceived it—the sole motive of
life; and they precluded any exacter estimate of the situation by covering it
with a high-sounding general term, through the vagueness of which they were
enabled to see the severe and laborious youth in the vulgar company of Lais.
Words like “hedonism”— terms of large and vague comprehension—above all when
used for a purpose avowedly controversial, have ever been the worst examples of
what are called “question-begging terms;” and in that late age in which Marius
lived, amid the dust of so many centuries of philosophical debate, the air was
full of them. Yet those who used that reproachful Greek term for the philosophy
of pleasure, were hardly more likely than the old Greeks themselves (on whom
regarding this very subject of the theory of pleasure, their masters in the art
of thinking had so emphatically to impress the necessity of “making
distinctions”) to come to any very delicately correct ethical conclusions by a
reasoning, which began with a general term, comprehensive enough to cover
pleasures so different in quality, in their causes and effects, as the
pleasures of wine and love, of art and science, of religious enthusiasm and
political enterprise, and of that taste or curiosity which satisfied itself
with long days of serious study. Yet, in truth, each of those pleasurable modes
of activity, may, in its turn, fairly become the ideal of the “hedonistic”
doctrine. Really, to the phase of reflection through which Marius was then
passing, the charge of “hedonism,” whatever its true weight might be, was not
properly applicable at all. Not pleasure, but fulness of life, and “insight” as
conducting to that fulness—energy, variety, and choice of experience, including
noble pain and sorrow even, loves such as those in the exquisite old story of
Apuleius, sincere and strenuous forms of the moral life, such as Seneca and
Epictetus—whatever form of human life, in short, might be heroic, impassioned,
ideal: from these the “new Cyrenaicism” of Mariustook its criterion of values.
It was a theory, indeed, which might properly be regarded as in great degree
coincident with the main principle of the Stoics themselves, and an older
version of the precept “Whatsoever thy hand findeth to do, do it with thy might”—a
doctrine so widely acceptable among the nobler spirits of that time. And, as
with that, its mistaken tendency would lie in the direction of a kind of
idolatry of mere life, or natural gift, or strength—l’idôlatrie des
talents. To understand the various forms of ancient art and thought, the
various forms of actual human feeling (the only new thing, in a world almost
too opulent in what was old) to satisfy, with a kind of scrupulous equity, the
claims of these concrete and actual objects on his sympathy, his intelligence,
his senses—to “pluck out the heart of their mystery,” and in turn become the
interpreter of them to others: this had now defined itself for Marius as a very
narrowly practical design: it determined his choice of a vocation to live by. It
was the era of the rhetoricians, or sophists, as they were sometimes called; of
men who came in some instances to great fame and fortune, by way of a literary
cultivation of “science.” That science, it has been often said, must have been
wholly an affair of words. But in a world, confessedly so opulent in what was
old, the work, even of genius, must necessarily consist very much in criticism;
and, in the case of the more excellent specimens of his class, the rhetorician
was, after all, the eloquent and effective interpreter, for the delighted ears
of others, of what understanding himself had come by, in years of travel and
study, of the beautiful house of art and thought which was the inheritance of
the age. The emperor Marcus Aurelius, to whose service Marius had now been
called, was himself, more or less openly, a “lecturer.” That late world, amid
many curiously vivid modern traits, had this spectacle, so familiar to
ourselves, of the public lecturer or essayist; in some cases adding to his
other gifts that of the Christian preacher, who knows how to touch people’s
sensibilities on behalf of the suffering. To follow in the way of these
successes, was the natural instinct of youthful ambition; and it was with no
vulgar egotism that Marius, at the age of nineteen, determined, like many
another young man of parts, to enter as a student of rhetoric at Rome.
Though the manner of his work was changed formally from poetry to prose, he
remained, and must always be, of the poetic temper: by which, I mean, among other
things, that quite independently of the general habit of that pensive age he
lived much, and as it were by system, in reminiscence. Amid his eager grasping
at the sensation, the consciousness, of the present, he had come to see that,
after all, the main point of economy in the conduct of the present, was the
question:—How will it look to me, at what shall I value it, this day next
year?—that in any given day or month one’s main concern was its impression for
the memory. A strange trick memory sometimes played him; for, with no natural
gradation, what was of last month, or of yesterday, of to-day even, would seem
as far off, as entirely detached from him, as things of ten years ago. Detached
from him, yet very real, there lay certain spaces of his life, in delicate
perspective, under a favourable light; and, somehow, all the less fortunate
detail and circumstance had parted from them. Such hours were oftenest those in
which he had been helped by work of others to the pleasurable apprehension of
art, of nature, or of life. “Not what I do, but what I am, under the power of
this vision”—he would say to himself—“is what were indeed pleasing to the
gods!” And yet, with a kind of inconsistency in one who had taken for his
philosophic ideal the monochronos hêdonê+ of Aristippus—the pleasure of the
ideal present, of the mystic now—there would come, together with that
precipitate sinking of things into the past, a desire, after all, to retain
“what was so transitive.” Could he but arrest, for others also, certain clauses
of experience, as the imaginative memory presented them to himself! In those
grand, hot summers, he would have imprisoned the very perfume of the flowers.
To create, to live, perhaps, a little while beyond the allotted hours, if it
were but in a fragment of perfect expression:—it was thus his longing defined
itself for something to hold by amid the “perpetual flux.” With men of his
vocation, people were apt to say, words were things. Well! with him, words
should be indeed things,—the word, the phrase, valuable in exact proportion to
the transparency with which it conveyed to others the apprehension, the
emotion, the mood, so vividly real within himself. Verbaque provisam rem non
invita sequentur:+ Virile apprehension of the true nature of things, of the
true nature of one’s own impression, first of all!—words would follow that
naturally, a true understanding of one’s self being ever the first condition of
genuine style. Language delicate and measured, the delicate Attic phrase, for
instance, in which the eminent Aristeides could speak, was then a power to
which people’s hearts, and sometimes even their purses, readily responded. And
there were many points, as Marius thought, on which the heart of that age
greatly needed to be touched. He hardly knew how strong that old religious
sense of responsibility, the conscience, as we call it, still was within him—a
body of inward impressions, as real as those so highly valued outward ones—to
offend against which, brought with it a strange feeling of disloyalty, as to a
person. And the determination, adhered to with no misgiving, to add nothing,
not so much as a transient sigh, to the great total of men’s unhappiness, in
his way through the world:—that too was something to rest on, in the drift of
mere “appearances.” All this would involve a life of industry, of
industrious study, only possible through healthy rule, keeping clear the eye
alike of body and soul. For the male element, the logical conscience asserted
itself now, with opening manhood—asserted itself, even in his literary style,
by a certain firmness of outline, that touch of the worker in metal, amid its
richness. Already he blamed instinctively alike in his work and in himself, as
youth so seldom does, all that had not passed a long and liberal process of
erasure. The happy phrase or sentence was really modelled upon a cleanly
finished structure of scrupulous thought. The suggestive force of the one
master of his development, who had battled so hard with imaginative prose; the
utterance, the golden utterance, of the other, so content with its living power
of persuasion that he had never written at all,—in the commixture of these two
qualities he set up his literary ideal, and this rare blending of grace with an
intellectual rigour or astringency, was the secret of a singular expressiveness
in it. He acquired at this time a certain bookish air, the somewhat
sombre habitude of the avowed scholar, which though it never interfered with
the perfect tone, “fresh and serenely disposed,” of the Roman gentleman, yet
qualified it as by an interesting oblique trait, and frightened away some of
his equals in age and rank. The sober discretion of his thoughts, his sustained
habit of meditation, the sense of those negative conclusions enabling him to
concentrate himself, with an absorption so entire, upon what is immediately
here and now, gave him a peculiar manner of intellectual confidence, as of one
who had indeed been initiated into a great secret.—Though with an air so
disengaged, he seemed to be living so intently in the visible world! And now,
in revolt against that pre-occupation with other persons, which had so often
perturbed his spirit, his wistful speculations as to what the real, the
greater, experience might be, determined in him, not as the longing for love—to
be with Cynthia, or Aspasia—but as a thirst for existence in exquisite places.
The veil that was to be lifted for him lay over the works of the old masters of
art, in places where nature also had used her mastery. And it was just at this
moment that a summons to Rome reached him. NOTES 145. +Canto
VI. 147. +Transliteration: paideia. Definition “rearing,
education.” 149. +Transliteration: theôria. Definition “a looking
at ... observing ... contemplation.” 154. +Transliteration:
monochronos hêdonê. Pater’s definition “the pleasure of the ideal present, of
the mystic now.” The definition is fitting; the unusual adjective monokhronos
means, literally, “single or unitary time.” 155. +Horace, Ars
Poetica 311. +Etext editor’s translation: “The subject once foreknown, the
words will follow easily.” Mirum est ut animus agitatione motuque corporis
excitetur. Pliny’s Letters. Many points in that train of thought,
its harder and more energetic practical details especially, at first surmised
but vaguely in the intervals of his visits to the tomb of Flavian, attained the
coherence of formal principle amid the stirring incidents of the journey, which
took him, still in all the buoyancy of his nineteen years and greatly
expectant, to Rome. That summons had come from one of the former friends of his
father in the capital, who had kept himself acquainted with the lad’s progress,
and, assured of his parts, his courtly ways, above all of his beautiful
penmanship, now offered him a place, virtually that of an amanuensis, near the
person of the philosophic emperor. The old town-house of his family on the
Caelian hill, so long neglected, might well require his personal care; and
Marius, relieved a little by his preparations for travelling from a certain
over-tension of spirit in which he had lived of late, was presently on his way,
to await introduction to Aurelius, on his expected return home, after a first
success, illusive enough as it was soon to appear, against the invaders from
beyond the Danube. The opening stage of his journey, through the firm,
golden weather, for which he had lingered three days beyond the appointed time
of starting—days brown with the first rains of autumn—brought him, by the
byways among the lower slopes of the Apennines of Luna, to the town of Luca, a
station on the Cassian Way; travelling so far mainly on foot, while the baggage
followed under the care of his attendants. He wore a broad felt hat, in fashion
not unlike a more modern pilgrim’s, the neat head projecting from the collar of
his gray paenula, or travelling mantle, sewed closely together over the breast,
but with its two sides folded up upon the shoulders, to leave the arms free in
walking, and was altogether so trim and fresh, that, as he climbed the hill
from Pisa, by the long steep lane through the olive-yards, and turned to gaze
where he could just discern the cypresses of the old school garden, like two
black lines down the yellow walls, a little child took possession of his hand,
and, looking up at him with entire confidence, paced on bravely at his side,
for the mere pleasure of his company, to the spot where the road declined again
into the valley beyond. From this point, leaving the servants behind, he
surrendered himself, a willing subject, as he walked, to the impressions of the
road, and was almost surprised, both at the suddenness with which evening came
on, and the distance from his old home at which it found him. And at the
little town of Luca, he felt that indescribable sense of a welcoming in the
mere outward appearance of things, which seems to mark out certain places for
the special purpose of evening rest, and gives them always a peculiar
amiability in retrospect. Under the deepening twilight, the rough-tiled roofs
seem to huddle together side by side, like one continuous shelter over the
whole township, spread low and broad above the snug sleeping-rooms within; and
the place one sees for the first time, and must tarry in but for a night,
breathes the very spirit of home. The cottagers lingered at their doors for a
few minutes as the shadows grew larger, and went to rest early; though there
was still a glow along the road through the shorn corn-fields, and the birds
were still awake about the crumbling gray heights of an old temple. So quiet
and air-swept was the place, you could hardly tell where the country left off
in it, and the field-paths became its streets. Next morning he must needs
change the manner of his journey. The light baggage-wagon returned, and he
proceeded now more quickly, travelling a stage or two by post, along the
Cassian Way, where the figures and incidents of the great high-road seemed
already to tell of the capital, the one centre to which all were hastening, or
had lately bidden adieu. That Way lay through the heart of the old, mysterious
and visionary country of Etruria; and what he knew of its strange religion of
the dead, reinforced by the actual sight of the funeral houses scattered so
plentifully among the dwelling-places of the living, revived in him for a
while, in all its strength, his old instinctive yearning towards those
inhabitants of the shadowy land he had known in life. It seemed to him that he
could half divine how time passed in those painted houses on the hillsides,
among the gold and silver ornaments, the wrought armour and vestments, the
drowsy and dead attendants; and the close consciousness of that vast population
gave him no fear, but rather a sense of companionship, as he climbed the hills
on foot behind the horses, through the genial afternoon. The road, next
day, passed below a town not less primitive, it might seem, than its rocky
perch—white rocks, that had long been glistening before him in the distance.
Down the dewy paths the people were descending from it, to keep a holiday, high
and low alike in rough, white-linen smocks. A homely old play was just begun in
an open-air theatre, with seats hollowed out of the turf-grown slope. Marius
caught the terrified expression of a child in its mother’s arms, as it turned
from the yawning mouth of a great mask, for refuge in her bosom. The way
mounted, and descended again, down the steep street of another place, all
resounding with the noise of metal under the hammer; for every house had its
brazier’s workshop, the bright objects of brass and copper gleaming, like
lights in a cave, out of their dark roofs and corners. Around the anvils the
children were watching the work, or ran to fetch water to the hissing, red-hot
metal; and Marius too watched, as he took his hasty mid-day refreshment, a mess
of chestnut-meal and cheese, while the swelling surface of a great copper
water-vessel grew flowered all over with tiny petals under the skilful strokes.
Towards dusk, a frantic woman at the roadside, stood and cried out the words of
some philter, or malison, in verse, with weird motion of her hands, as the
travellers passed, like a wild picture drawn from Virgil. But all along,
accompanying the superficial grace of these incidents of the way, Marius noted,
more and more as he drew nearer to Rome, marks of the great plague. Under Hadrian
and his successors, there had been many enactments to improve the condition of
the slave. The ergastula+ were abolished. But no system of free labour had as
yet succeeded. A whole mendicant population, artfully exaggerating every
symptom and circumstance of misery, still hung around, or sheltered themselves
within, the vast walls of their old, half-ruined task-houses. And for the most
part they had been variously stricken by the pestilence. For once, the heroic
level had been reached in rags, squints, scars—every caricature of the human
type—ravaged beyond what could have been thought possible if it were to survive
at all. Meantime, the farms were less carefully tended than of old: here and
there they were lapsing into their natural wildness: some villas also were
partly fallen into ruin. The picturesque, romantic Italy of a later time—the
Italy of Claude and Salvator Rosa—was already forming, for the delight of the
modern romantic traveller. And again Marius was aware of a real change in
things, on crossing the Tiber, as if some magic effect lay in that; though
here, in truth, the Tiber was but a modest enough stream of turbid water.
Nature, under the richer sky, seemed readier and more affluent, and man fitter
to the conditions around him: even in people hard at work there appeared to be
a less burdensome sense of the mere business of life. How dreamily the
women were passing up through the broad light and shadow of the steep streets
with the great water-pots resting on their heads, like women of Caryae, set
free from slavery in old Greek temples. With what a fresh, primeval poetry was
daily existence here impressed—all the details of the threshing-floor and the
vineyard; the common farm-life even; the great bakers’ fires aglow upon the
road in the evening. In the presence of all this Marius felt for a moment like
those old, early, unconscious poets, who created the famousGreek myths of
Dionysus, and the Great Mother, out of the imagery of the wine-press and the
ploughshare. And still the motion of the journey was bringing his thoughts to
systematic form. He seemed to have grown to the fulness of intellectual
manhood, on his way hither. The formative and literary stimulus, so to call it,
of peaceful exercise which he had always observed in himself, doing its utmost
now, the form and the matter of thought alike detached themselves clearly and
with readiness from the healthfully excited brain.—“It is wonderful,” says
Pliny, “how the mind is stirred to activity by brisk bodily exercise.” The
presentable aspects of inmost thought and feeling became evident to him: the
structure of all he meant, its order and outline, defined itself: his general
sense of a fitness and beauty in words became effective in daintily pliant
sentences, with all sorts of felicitous linking of figure to abstraction. It
seemed just then as if the desire of the artist in him—that old longing to
produce—might be satisfied by the exact and literal transcript of what was then
passing around him, in simple prose, arresting the desirable moment as it
passed, and prolonging its life a little.—To live in the concrete! To be sure,
at least, of one’s hold upon that!—Again, his philosophic scheme was but the
reflection of the data of sense, and chiefly of sight, a reduction to the
abstract, of the brilliant road he travelled on, through the sunshine.
But on the seventh evening there came a reaction in the cheerful flow of our
traveller’s thoughts, a reaction with which mere bodily fatigue, asserting
itself at last over his curiosity, had much to do; and he fell into a mood,
known to all passably sentimental wayfarers, as night deepens again and again
over their path, in which all journeying, from the known to the unknown, comes
suddenly to figure as a mere foolish truancy—like a child’s running away from
home—with the feeling that one had best return at once, even through the
darkness. He had chosen to climb on foot, at his leisure, the long windings by
which the road ascended to the place where that day’s stage was to end, and
found himself alone in the twilight, far behind the rest of his
travelling-companions. Would the last zigzag, round and round those dark
masses, half natural rock, half artificial substructure, ever bring him within
the circuit of the walls above? It was now that a startling incident turned
those misgivings almost into actual fear. From the steep slope a heavy mass of
stone was detached, after some whisperings among the trees above his head, and
rushing down through the stillness fell to pieces in a cloud of dust across the
road just behind him, so that he felt the touch upon his heel. That was
sufficient, just then, to rouse out of its hiding-place his old vague fear of
evil—of one’s “enemies”—a distress, so much a matter of constitution with him,
that at times it would seem that the best pleasures of life could but be
snatched, as it were hastily, in one moment’s forgetfulness of its dark,
besetting influence. A sudden suspicion of hatred against him, of the nearness
of “enemies,” seemed all at once to alter the visible form of things, as with
the child’s hero, when he found the footprint on the sand of his peaceful,
dreamy island. His elaborate philosophy had not put beneath his feet the terror
of mere bodily evil; much less of “inexorable fate, and the noise of greedy
Acheron.” The resting-place to which he presently came, in the keen,
wholesome air of the market-place of the little hill-town, was a pleasant
contrast to that last effort of his journey. The room in which he sat down to
supper, unlike the ordinary Roman inns at that day, was trim and sweet. The
firelight danced cheerfully upon the polished, three-wicked lucernae burning
cleanly with the best oil, upon the white-washed walls, and the bunches of
scarlet carnations set in glass goblets. The white wine of the place put before
him, of the true colour and flavour of the grape, and with a ring of delicate
foam as it mounted in the cup, had a reviving edge or freshness he had found in
no other wine. These things had relieved a little the melancholy of the hour
before; and it was just then that he heard the voice of one, newly arrived at
the inn, making his way to the upper floor—a youthful voice, with a reassuring
clearness of note, which completed his cure. He seemed to hear that voice
again in dreams, uttering his name: then, awake in the full morning light and
gazing from the window, saw the guest of the night before, a very
honourable-looking youth, in the rich habit of a military knight, standing
beside his horse, and already making preparations to depart. It happened that Marius,
too, was to take that day’s journey on horseback. Riding presently from the
inn, he overtook Cornelius—of the Twelfth Legion—advancing carefully down the
steep street; and before they had issued from the gates of Urbs-vetus, the two
young men had broken into talk together. They were passing along the street of
the goldsmiths; and Cornelius must needs enter one of the workshops for the
repair of some button or link of his knightly trappings. Standing in the
doorway, Marius watched the work, as he had watched the brazier’s business a
few days before, wondering most at the simplicity of its processes, a
simplicity, however, on which only genius in that craft could have lighted.—By
what unguessed-at stroke of hand, for instance, had the grains of precious metal
associated themselves with so daintily regular a roughness, over the surface of
the little casket yonder? And the conversation which followed, hence arising,
left the two travellers with sufficient interest in each other to insure an
easy companionship for the remainder of their journey. In time to come, Marius
was to depend very much on the preferences, the personal judgments, of the
comrade who now laid his hand so brotherly on his shoulder, as they left the
workshop. Itineris matutini gratiam capimus,+—observes one of our
scholarly travellers; and their road that day lay through a country,
well-fitted, by the peculiarity of its landscape, to ripen a first acquaintance
into intimacy; its superficial ugliness throwing the wayfarers back upon each
other’s entertainment in a real exchange of ideas, the tension of which,
however, it would relieve, ever and anon, by the unexpected assertion of
something singularly attractive. The immediate aspect of the land was, indeed,
in spite of abundant olive and ilex, unpleasing enough. A river of clay seemed,
“in some old night of time,” to have burst up over valley and hill, and
hardened there into fantastic shelves and slides and angles of cadaverous rock,
up and down among the contorted vegetation; the hoary roots and trunks seeming
to confess some weird kinship with them. But that was long ago; and these
pallid hillsides needed only the declining sun, touching the rock with purple,
and throwing deeper shadow into the immemorial foliage, to put on a peculiar, because
a very grave and austere, kind of beauty; while the graceful outlines common to
volcanic hills asserted themselves in the broader prospect. And, for
sentimental Marius, all this was associated, by some perhaps fantastic
affinity, with a peculiar trait of severity, beyond his guesses as to the
secret of it, which mingled with the blitheness of his new companion.
Concurring, indeed, with the condition of a Roman soldier, it was certainly
something far more than the expression of military hardness, or ascêsis; and
what was earnest, or even austere, in the landscape they had traversed
together, seemed to have been waiting for the passage of this figure to
interpret or inform it. Again, as in his early days with Flavian, a vivid
personal presence broke through the dreamy idealism, which had almost come to
doubt of other men’s reality: reassuringly, indeed, yet not without some sense
of a constraining tyranny over him from without. For Cornelius, returning
from the campaign, to take up his quarters on the Palatine, in the imperial
guard, seemed to carry about with him, in that privileged world of comely usage
to which he belonged, the atmosphere of some still more jealously exclusive
circle. They halted on the morrow at noon, not at an inn, but at the house of
one of the young soldier’s friends, whom they found absent, indeed, in
consequence of the plague in those parts, so that after a mid-day rest only,
they proceeded again on their journey. The great room of the villa, to which
they were admitted, had lain long untouched; and the dust rose, as they
entered, into the slanting bars of sunlight, that fell through the half-closed
shutters. It was here, to while away the time, that Cornelius bethought himself
of displaying to his new friend the various articles and ornaments of his
knightly array—the breastplate, the sandals and cuirass, lacing them on, one by
one, with the assistance of Marius, and finally the great golden bracelet on
the right arm, conferred on him by his general for an act of valour. And as he
gleamed there, amid that odd interchange of light and shade, with the staff of
a silken standard firm in his hand, Marius felt as if he were face to face, for
the first time, with some new knighthood or chivalry, just then coming into the
world. It was soon after they left this place, journeying now by
carriage, that Rome was seen at last, with much excitement on the part of our
travellers; Cornelius, and some others of whom the party then consisted,
agreeing, chiefly for the sake of Marius, to hasten forward, that it might be
reached by daylight, with a cheerful noise of rapid wheels as they passed over
the flagstones. But the highest light upon the mausoleum of Hadrian was quite
gone out, and it was dark, before they reached the Flaminian Gate. The abundant
sound of water was the one thing that impressed Marius, as they passed down a
long street, with many open spaces on either hand: Cornelius to his military
quarters, and Marius to the old dwelling-place of his fathers. . +E-text
editor’s note: ergastula were the Roman agrarian equivalent of
prison-workhouses. 168. +Apuleius, The Golden Ass, I.17.
Marius awoke early and passed curiously from room to room, noting for
more careful inspection by and by the rolls of manuscripts. Even greater than
his curiosity in gazing for the first time on this ancient possession, was his
eagerness to look out upon Rome itself, as he pushed back curtain and shutter,
and stepped forth in the fresh morning upon one of the many balconies, with an
oft-repeated dream realised at last. He was certainly fortunate in the time of
his coming to Rome. That old pagan world, of which Rome was the flower, had
reached its perfection in the things of poetry and art—a perfection which
indicated only too surely the eve of decline. As in some vast intellectual
museum, all its manifold products were intact and in their places, and with
custodians also still extant, duly qualified to appreciate and explain them.
And at no period of history had the material Rome itself been better worth
seeing—lying there not less consummate than that world of pagan intellect which
it represented in every phase of its darkness and light. The various work of
many ages fell here harmoniously together, as yet untouched save by time,
adding the final grace of a rich softness to its complex expression. Much which
spoke of ages earlier than Nero, the great re-builder, lingered on, antique,
quaint, immeasurably venerable, like the relics of the medieval city in the
Paris of Lewis the Fourteenth: the work of Nero’s own time had come to have
that sort of old world and picturesque interest which the work of Lewis has for
ourselves; while without stretching a parallel too far we might perhaps liken
the architectural finesses of the archaic Hadrian to the more excellent products
of our own Gothic revival. The temple of Antoninus and Faustina was still fresh
in all the majesty of its closely arrayed columns of cipollino; but, on the
whole, little had been added under the late and present emperors, and during
fifty years of public quiet, a sober brown and gray had grown apace on things.
The gilding on the roof of many a temple had lost its garishness: cornice and
capital of polished marble shone out with all the crisp freshness of real
flowers, amid the already mouldering travertine and brickwork, though the birds
had built freely among them. What Marius then saw was in many respects, after
all deduction of difference, more like the modern Rome than the enumeration of
particular losses might lead us to suppose; the Renaissance, in its most
ambitious mood and with amplest resources, having resumed the ancient classical
tradition there, with no break or obstruction, as it had happened, in any very
considerable work of the middle age. Immediately before him, on the square,
steep height, where the earliest little old Rome had huddled itself together,
arose the palace of the Caesars. Half-veiling the vast substruction of rough,
brown stone—line upon line of successive ages of builders—the trim,
old-fashioned garden walks, under their closely-woven walls of dark glossy
foliage, test of long and careful cultivation, wound gradually, among choice
trees, statues and fountains, distinct and sparkling in the full morning
sunlight, to the richly tinted mass of pavilions and corridors above, centering
in the lofty, white-marble dwelling-place of Apollo himself. How often
had Marius looked forward to that first, free wandering through Rome, to which
he now went forth with a heat in the town sunshine (like a mist of fine
gold-dust spread through the air) to the height of his desire, making the dun
coolness of the narrow streets welcome enough at intervals. He almost feared,
descending the stair hastily, lest some unforeseen accident should snatch the
little cup of enjoyment from him ere he passed the door. In such morning
rambles in places new to him, life had always seemed to come at its fullest: it
was then he could feel his youth, that youth the days of which he had already
begun to count jealously, in entire possession. So the grave, pensive figure, a
figure, be it said nevertheless, fresher far than often came across it now,
moved through the old city towards the lodgings of Cornelius, certainly not by
the most direct course, however eager to rejoin the friend of yesterday.
Bent as keenly on seeing as if his first day in Rome were to be also his last,
the two friends descended along the _Vicus Tuscus_, with its rows of
incense-stalls, into the _Via Nova_, where the fashionable people were busy
shopping; and Marius saw with much amusement the frizzled heads, then _à la
mode_. A glimpse of the _Marmorata_, the haven at the river-side, where
specimens of all the precious marbles of the world were lying amid great white
blocks from the quarries of Luna, took his thoughts for a moment to his distant
home. They visited the flower-market, lingering where the _coronarii_ pressed
on them the newest species, and purchased zinias, now in blossom (like painted
flowers, thought Marius), to decorate the folds of their togas. Loitering to
the other side of the Forum, past the great Galen’s drug-shop, after a glance
at the announcements of new poems on sale attached to the doorpost of a famous
bookseller, they entered the curious library of the Temple of Peace, then a
favourite resort of literary men, and read, fixed there for all to see, the
_Diurnal_ or Gazette of the day, which announced, together with births and
deaths, prodigies and accidents, and much mere matter of business, the date and
manner of the philosophic emperor’s joyful return to his people; and, thereafter,
with eminent names faintly disguised, what would carry that day’s news, in many
copies, over the provinces—a certain matter concerning the great lady, known to
be dear to him, whom he had left at home. It was a story, with the development
of which “society” had indeed for some time past edified or amused itself,
rallying sufficiently from the panic of a year ago, not only to welcome back
its ruler, but also to relish a _chronique scandaleuse;_ and thus, when soon
after Marius saw the world’s wonder, he was already acquainted with the
suspicions which have ever since hung about her name. Twelve o’clock was come
before they left the Forum, waiting in a little crowd to hear the _Accensus_,
according to old custom, proclaim the hour of noonday, at the moment when, from
the steps of the Senate-house, the sun could be seen standing between the
_Rostra_ and the _Græcostasis_. He exerted for this function a strength of
voice, which confirmed in Marius a judgment the modern visitor may share with
him, that Roman throats and Roman chests, namely, must, in some peculiar way,
be differently constructed from those of other people. Such judgment indeed he
had formed in part the evening before, noting, as a religious procession passed
him, how much noise a man and a boy could make, though not without a great deal
of real music, of which in truth the Romans were then as ever passionately
fond. Hence the two friends took their way through the Via Flaminia,
almost along the line of the modern Corso, already bordered with handsome
villas, turning presently to the left, into the Field-of-Mars, still the
playground of Rome. But the vast public edifices were grown to be almost
continuous over the grassy expanse, represented now only by occasional open
spaces of verdure and wild-flowers. In one of these a crowd was standing, to
watch a party of athletes stripped for exercise. Marius had been surprised at
the luxurious variety of the litters borne through Rome, where no carriage
horses were allowed; and just then one far more sumptuous than the rest, with
dainty appointments of ivory and gold, was carried by, all the town pressing
with eagerness to get a glimpse of its most beautiful woman, as she passed
rapidly. Yes! there, was the wonder of the world—the empress Faustina herself:
Marius could distinguish, could distinguish clearly, the well-known profile,
between the floating purple curtains. For indeed all Rome was ready to
burst into gaiety again, as it awaited with much real affection, hopeful and
animated, the return of its emperor, for whose ovation various adornments were
preparing along the streets through which the imperial procession would pass.
He had left Rome just twelve months before, amid immense gloom. The alarm of a
barbarian insurrection along the whole line of the Danube had happened at the
moment when Rome was panic-stricken by the great pestilence. In fifty
years of peace, broken only by that conflict in the East from which Lucius
Verus, among other curiosities, brought back the plague, war had come to seem a
merely romantic, superannuated incident of bygone history. And now it was
almost upon Italian soil. Terrible were the reports of the numbers and audacity
of the assailants. Aurelius, as yet untried in war, and understood by a few
only in the whole scope of a really great character, was known to the majority
of his subjects as but a careful administrator, though a student of philosophy,
perhaps, as we say, a dilettante. But he was also the visible centre of
government, towards whom the hearts of a whole people turned, grateful for
fifty years of public happiness—its good genius, its “Antonine”—whose fragile
person might be foreseen speedily giving way under the trials of military life,
with a disaster like that of the slaughter of the legions by Arminius. Prophecies
of the world’s impending conflagration were easily credited: “the secular fire”
would descend from heaven: superstitious fear had even demanded the sacrifice
of a human victim. Marcus Aurelius, always philosophically considerate of
the humours of other people, exercising also that devout appreciation of every
religious claim which was one of his characteristic habits, had invoked, in aid
of the commonwealth, not only all native gods, but all foreign deities as well,
however strange.—“Help! Help! in the ocean space!” A multitude of foreign
priests had been welcomed to Rome, with their various peculiar religious rites.
The sacrifices made on this occasion were remembered for centuries; and the
starving poor, at least, found some satisfaction in the flesh of those herds of
“white bulls,” which came into the city, day after day, to yield the savour of
their blood to the gods. In spite of all this, the legions had but
followed their standards despondently. But prestige, personal prestige, the name
of “Emperor,” still had its magic power over the nations. The mere approach of
the Roman army made an impression on the barbarians. Aurelius and his colleague
had scarcely reached Aquileia when a deputation arrived to ask for peace. And
now the two imperial “brothers” were returning home at leisure; were waiting,
indeed, at a villa outside the walls, till the capital had made ready to
receive them. But although Rome was thus in genial reaction, with much relief,
and hopefulness against the winter, facing itself industriously in damask of
red and gold, those two enemies were still unmistakably extant: the barbarian
army of the Danube was but over-awed for a season; and the plague, as we saw
when Marius was on his way to Rome, was not to depart till it had done a large
part in the formation of the melancholy picturesque of modern Italy—till it had
made, or prepared for the making of the Roman Campagna. The old, unaffected,
really pagan, peace or gaiety, of Antoninus Pius—that genuine though
unconscious humanist—was gone for ever. And again and again, throughout this
day of varied observation, Marius had been reminded, above all else, that he
was not merely in “the most religious city of the world,” as one had said, but
that Rome was become the romantic home of the wildest superstition. Such
superstition presented itself almost as religious mania in many an incident of
his long ramble,—incidents to which he gave his full attention, though
contending in some measure with a reluctance on the part of his companion, the motive
of which he did not understand till long afterwards. Marius certainly did not
allow this reluctance to deter his own curiosity. Had he not come to Rome
partly under poetic vocation, to receive all those things, the very impress of
life itself, upon the visual, the imaginative, organ, as upon a mirror; to
reflect them; to transmute them into golden words? He must observe that strange
medley of superstition, that centuries’ growth, layer upon layer, of the
curiosities of religion (one faith jostling another out of place) at least for
its picturesque interest, and as an indifferent outsider might, not too deeply
concerned in the question which, if any of them, was to be the survivor.
Superficially, at least, the Roman religion, allying itself with much diplomatic
economy to possible rivals, was in possession, as a vast and complex system of
usage, intertwining itself with every detail of public and private life,
attractively enough for those who had but “the historic temper,” and a taste
for the past, however much a Lucian might depreciate it. Roman religion, as
Marius knew, had, indeed, been always something to be done, rather than
something to be thought, or believed, or loved; something to be done in
minutely detailed manner, at a particular time and place, correctness in which
had long been a matter of laborious learning with a whole school of
ritualists—as also, now and again, a matter of heroic sacrifice with certain
exceptionally devout souls, as when Caius Fabius Dorso, with his life in his
hand, succeeded in passing the sentinels of the invading Gauls to perform a
sacrifice on the Quirinal, and, thanks to the divine protection, had returned
in safety. So jealous was the distinction between sacred and profane, that, in
the matter of the “regarding of days,” it had made more than half the year a
holiday. Aurelius had, indeed, ordained that there should be no more than a
hundred and thirty-five festival days in the year; but in other respects he had
followed in the steps of his predecessor, Antoninus Pius—commended especially
for his “religion,” his conspicuous devotion to its public ceremonies—and whose
coins are remarkable for their reference to the oldest and most hieratic types
of Roman mythology. Aurelius had succeeded in more than healing the old feud
between philosophy and religion, displaying himself, in singular combination,
as at once the most zealous of philosophers and the most devout of polytheists,
and lending himself, with an air of conviction, to all the pageantries of
public worship. To his pious recognition of that one orderly spirit, which,
according to the doctrine of the Stoics, diffuses itself through the world, and
animates it—a recognition taking the form, with him, of a constant effort
towards inward likeness thereto, in the harmonious order of his own soul—he had
added a warm personal devotion towards the whole multitude of the old national
gods, and a great many new foreign ones besides, by him, at least, not ignobly
conceived. If the comparison may be reverently made, there was something here
of the method by which the catholic church has added the cultus of the saints
to its worship of the one Divine Being. And to the view of the majority,
though the emperor, as the personal centre of religion, entertained the hope of
converting his people to philosophic faith, and had even pronounced certain
public discourses for their instruction in it, that polytheistic devotion was
his most striking feature. Philosophers, indeed, had, for the most part,
thought with Seneca, “that a man need not lift his hands to heaven, nor ask the
sacristan’s leave to put his mouth to the ear of an image, that his prayers
might be heard the better.”—Marcus Aurelius, “a master in Israel,” knew all
that well enough. Yet his outward devotion was much more than a concession to
popular sentiment, or a mere result of that sense of fellow-citizenship with
others, which had made him again and again, under most difficult circumstances,
an excellent comrade. Those others, too!—amid all their ignorances, what were
they but instruments in the administration of the Divine Reason, “from end to
end sweetly and strongly disposing all things”? Meantime “Philosophy” itself
had assumed much of what we conceive to be the religious character. It had even
cultivated the habit, the power, of “spiritual direction”; the troubled soul
making recourse in its hour of destitution, or amid the distractions of the
world, to this or that director—philosopho suo—who could really best understand
it. And it had been in vain that the old, grave and discreet religion of
Rome had set itself, according to its proper genius, to prevent or subdue all
trouble and disturbance in men’s souls. In religion, as in other matters,
plebeians, as such, had a taste for movement, for revolution; and it had been
ever in the most populous quarters that religious changes began. To the
apparatus of foreign religion, above all, recourse had been made in times of
public disquietude or sudden terror; and in those great religious celebrations,
before his proceeding against the barbarians, Aurelius had even restored the
solemnities of Isis, prohibited in the capital since the time of Augustus,
making no secret of his worship of that goddess, though her temple had been
actually destroyed by authority in the reign of Tiberius. Her singular and in
many ways beautiful ritual was now popular in Rome. And then—what the
enthusiasm of the swarming plebeian quarters had initiated, was sure to be
adopted, sooner or later, by women of fashion. A blending of all the religions
of the ancient world had been accomplished. The new gods had arrived, had been
welcomed, and found their places; though, certainly, with no real security, in
any adequate ideal of the divine nature itself in the background of men’s
minds, that the presence of the new-comer should be edifying, or even refining.
High and low addressed themselves to all deities alike without scruple;
confusing them together when they prayed, and in the old, authorised, threefold
veneration of their visible images, by flowers, incense, and ceremonial
lights—those beautiful usages, which the church, in her way through the world,
ever making spoil of the world’s goods for the better uses of the human spirit,
took up and sanctified in her service. And certainly “the most religious
city in the world” took no care to veil its devotion, however fantastic. The
humblest house had its little chapel or shrine, its image and lamp; while
almost every one seemed to exercise some religious function and responsibility.
Colleges, composed for the most part of slaves and of the poor, provided for
the service of the Compitalian Lares—the gods who presided, respectively, over
the several quarters of the city. In one street, Marius witnessed an incident
of the festival of the patron deity of that neighbourhood, the way being strewn
with box, the houses tricked out gaily in such poor finery as they possessed,
while the ancient idol was borne through it in procession, arrayed in gaudy
attire the worse for wear. Numerous religious clubs had their stated anniversaries,
on which the members issued with much ceremony from their guild-hall, or
schola, and traversed the thoroughfares of Rome, preceded, like the
confraternities of the present day, by their sacred banners, to offer sacrifice
before some famous image. Black with the perpetual smoke of lamps and incense,
oftenest old and ugly, perhaps on that account the more likely to listen to the
desires of the suffering—had not those sacred effigies sometimes given sensible
tokens that they were aware? The image of the Fortune of Women—Fortuna
Muliebris, in the Latin Way, had spoken (not once only) and declared; Bene me,
Matronae! vidistis riteque dedicastis! The Apollo of Cumae had wept during
three whole nights and days. The images in the temple of Juno Sospita had been seen
to sweat. Nay! there was blood—divine blood—in the hearts of some of them: the
images in the Grove of Feronia had sweated blood! From one and all
Cornelius had turned away: like the “atheist” of whom Apuleius tells he had
never once raised hand to lip in passing image or sanctuary, and had parted
from Marius finally when the latter determined to enter the crowded doorway of
a temple, on their return into the Forum, below the Palatine hill, where the
mothers were pressing in, with a multitude of every sort of children, to touch
the lightning-struck image of the wolf-nurse of Romulus—so tender to little
ones!—just discernible in its dark shrine, amid a blaze of lights. Marius gazed
after his companion of the day, as he mounted the steps to his lodging, singing
to himself, as it seemed. Marius failed precisely to catch the words.
And, as the rich, fresh evening came on, there was heard all over Rome,
far above a whisper, the whole town seeming hushed to catch it distinctly, the
lively, reckless call to “play,” from the sons and daughters of foolishness, to
those in whom their life was still green—Donec virenti canities abest!—Donec
virenti canities abest!+ Marius could hardly doubt how Cornelius would have
taken the call. And as for himself, slight as was the burden of positive moral
obligation with which he had entered Rome, it was to no wasteful and vagrant
affections, such as these, that his Epicureanism had committed him.
NOTES 187. +Horace, Odes I.ix.17. Translation: “So long as youth is
fresh and age is far away.” But ah! Maecenas is yclad in claye, And great
Augustus long ygoe is dead, And all the worthies liggen wrapt in lead, That
matter made for poets on to playe.+ Marcus Aurelius who, though he
had little relish for them himself, had ever been willing to humour the taste
of his people for magnificent spectacles, was received back to Rome with the
lesser honours of the Ovation, conceded by the Senate (so great was the public
sense of deliverance) with even more than the laxity which had become its habit
under imperial rule, for there had been no actual bloodshed in the late
achievement. Clad in the civic dress of the chief Roman magistrate, and with a
crown of myrtle upon his head, his colleague similarly attired walking beside
him, he passed up to the Capitol on foot, though in solemn procession along the
Sacred Way, to offer sacrifice to the national gods. The victim, a goodly
sheep, whose image we may still see between the pig and the ox of the
Suovetaurilia, filleted and stoled almost like some ancient canon of the
church, on a sculptured fragment in the Forum, was conducted by the priests,
clad in rich white vestments, and bearing their sacred utensils of massive
gold, immediately behind a company of flute-players, led by the great choir-master,
or conductor, of the day, visibly tetchy or delighted, according as the
instruments he ruled with his tuning-rod, rose, more or less adequately amid
the difficulties of the way, to the dream of perfect music in the soul within
him. The vast crowd, including the soldiers of the triumphant army, now
restored to wives and children, all alike in holiday whiteness, had left their
houses early in the fine, dry morning, in a real affection for “the father of
his country,” to await the procession, the two princes having spent the
preceding night outside the walls, at the old Villa of the Republic. Marius,
full of curiosity, had taken his position with much care; and stood to see the
world’s masters pass by, at an angle from which he could command the view of a great
part of the processional route, sprinkled with fine yellow sand, and
punctiliously guarded from profane footsteps. The coming of the pageant
was announced by the clear sound of the flutes, heard at length above the
acclamations of the people—Salve Imperator!—Dii te servent!—shouted in regular
time, over the hills. It was on the central figure, of course, that the whole
attention of Marius was fixed from the moment when the procession came in
sight, preceded by the lictors with gilded fasces, the imperial image-bearers,
and the pages carrying lighted torches; a band of knights, among whom was
Cornelius in complete military, array, following. Amply swathed about in the
folds of a richly worked toga, after a manner now long since become obsolete
with meaner persons, Marius beheld a man of about five-and-forty years of age,
with prominent eyes—eyes, which although demurely downcast during this
essentially religious ceremony, were by nature broadly and benignantly
observant. He was still, in the main, as we see him in the busts which
represent his gracious and courtly youth, when Hadrian had playfully called
him, not Verus, after the name of his father, but Verissimus, for his candour
of gaze, and the bland capacity of the brow, which, below the brown hair,
clustering thickly as of old, shone out low, broad, and clear, and still
without a trace of the trouble of his lips. You saw the brow of one who, amid
the blindness or perplexity of the people about him, understood all things
clearly; the dilemma, to which his experience so far had brought him, between
Chance with meek resignation, and a Providence with boundless possibilities and
hope, being for him at least distinctly defined. That outward serenity,
which he valued so highly as a point of manner or expression not unworthy the
care of a public minister—outward symbol, it might be thought, of the inward
religious serenity it had been his constant purpose to maintain—was increased
to-day by his sense of the gratitude of his people; that his life had been one
of such gifts and blessings as made his person seem in very deed divine to
them. Yet the cloud of some reserved internal sorrow, passing from time to time
into an expression of fatigue and effort, of loneliness amid the shouting
multitude, might have been detected there by the more observant—as if the
sagacious hint of one of his officers, “The soldiers can’t understand you, they
don’t know Greek,” were applicable always to his relationships with other
people. The nostrils and mouth seemed capable almost of peevishness; and Marius
noted in them, as in the hands, and in the spare body generally, what was new
to his experience—something of asceticism, as we say, of a bodily gymnastic, by
which, although it told pleasantly in the clear blue humours of the eye, the
flesh had scarcely been an equal gainer with the spirit. It was hardly the
expression of “the healthy mind in the healthy body,” but rather of a sacrifice
of the body to the soul, its needs and aspirations, that Marius seemed to
divine in this assiduous student of the Greek sages—a sacrifice, in truth, far
beyond the demands of their very saddest philosophy of life. Dignify
thyself with modesty and simplicity for thine ornaments!—had been ever a maxim
with this dainty and high-bred Stoic, who still thought manners a true part of
morals, according to the old sense of the term, and who regrets now and again
that he cannot control his thoughts equally well with his countenance. That
outward composure was deepened during the solemnities of this day by an air of
pontifical abstraction; which, though very far from being pride—nay, a sort of
humility rather—yet gave, to himself, an air of unapproachableness, and to his
whole proceeding, in which every minutest act was considered, the character of
a ritual. Certainly, there was no haughtiness, social, moral, or even
philosophic, in Aurelius, who had realised, under more trying conditions
perhaps than any one before, that no element of humanity could be alien from
him. Yet, as he walked to-day, the centre of ten thousand observers, with eyes
discreetly fixed on the ground, veiling his head at times and muttering very
rapidly the words of the “supplications,” the rich, fresh evening
came on, there was heard all over Rome, far above a whisper, the whole town
seeming hushed to catch it distinctly, the lively, reckless call to “play,”
from the sons and daughters of foolishness , to those in whom their life
was still green—Donec virenti canities abest!—Donec virenti canities abest!+
Marius could hardly doubt how Cornelius would have taken the call. And as for
himself, slight as was the burden of positive moral obligation with which he
had entered Rome, it was to no wasteful and vagrant affections, such as these,
that his Epicureanism had committed him. . +Horace, Odes I.ix.17.
Translation: “So long as youth is fresh and age is far away.” But ah!
Maecenas is yclad in claye, And great Augustus long ygoe is dead, And all the
worthies liggen wrapt in lead, That matter made for poets on to playe.+
Marcus Aurelius who, though he had little relish for them himself, had
ever been willing to humour the taste of his people for magnificent spectacles,
was received back to Rome with the lesser honours of the Ovation, conceded by
the Senate (so great was the public sense of deliverance) with even more than
the laxity which had become its habit under imperial rule, for there had been
no actual bloodshed in the late achievement. Clad in the civic dress of the
chief Roman magistrate, and with a crown of myrtle upon his head, his colleague
similarly attired walking beside him, he passed up to the Capitol on foot,
though in solemn procession along the Sacred Way, to offer sacrifice to the
national gods. The victim, a goodly sheep, whose image we may still see between
the pig and the ox of the Suovetaurilia, filleted and stoled almost like some
ancient canon of the church, on a sculptured fragment in the Forum, was
conducted by the priests, clad in rich white vestments, and bearing their
sacred utensils of massive gold, immediately behind a company of flute-players,
led by the great choir-master, or conductor, of the day, visibly tetchy or
delighted, according as the instruments he ruled with his tuning-rod, rose,
more or less adequately amid the difficulties of the way, to the dream of perfect
music in the soul within him. The vast crowd, including the soldiers of the
triumphant army, now restored to wives and children, all alike in holiday
whiteness, had left their houses early in the fine, dry morning, in a real
affection for “the father of his country,” to await the procession, the two
princes having spent the preceding night outside the walls, at the old Villa of
the Republic. Marius, full of curiosity, had taken his position with much care;
and stood to see the world’s masters pass by, at an angle from which he could
command the view of a great part of the processional route, sprinkled with fine
yellow sand, and punctiliously guarded from profane footsteps. The coming
of the pageant was announced by the clear sound of the flutes, heard at length
above the acclamations of the people—Salve Imperator!—Dii te servent!—shouted
in regular time, over the hills. It was on the central figure, of course, that
the whole attention of Marius was fixed from the moment when the procession
came in sight, preceded by the lictors with gilded fasces, the imperial
image-bearers, and the pages carrying lighted torches; a band of knights, among
whom was Cornelius in complete military, array, following. Amply swathed about
in the folds of a richly worked toga, after a manner now long since become
obsolete withmeaner persons, Marius beheld a man of about five-and-forty years
of age, with prominent eyes—eyes, which although demurely downcast during this
essentially religious ceremony, were by nature broadly and benignantly
observant. He was still, in the main, as we see him in the busts which
represent his gracious and courtly youth, when Hadrian had playfully called
him, not Verus, after the name of his father, but Verissimus, for his
candour of gaze, and the bland capacity of the brow, which, below the brown
hair, clustering thickly as of old, shone out low, broad, and clear, and still
without a trace of the trouble of his lips. You saw the brow of one who, amid
the blindness or perplexity of the people about him, understood all things
clearly; the dilemma, to which his experience so far had brought
him, between Chance with meek resignation, and a Providence with boundless
possibilities and hope, being for him at least distinctly defined. That
outward serenity, which he valued so highly as a point of manner or expression
not unworthy the care of a public minister—outward symbol, it might be thought,
of the inward religious serenity it had been his constant purpose to
maintain—was increased to-day by his sense of the gratitude of his people; that
his life had been one of such gifts and blessings as made his person seem in
very deed divine to them. Yet the cloud of some reserved internal sorrow,
passing from time to time into an expression of fatigue and effort, of loneliness
amid the shouting multitude, might have been detected there by the more
observant—as if the sagacious hint of one of his officers, “The soldiers can’t
understand you, they don’t know Greek,” were applicable always to his
relationships with other people. The nostrils and mouth seemed capable almost
of peevishness; and Marius noted in them, as in the hands, and in the spare
body generally, what was new to his experience—something of asceticism, as
we say, of a bodily gymnastic, by which, although it told pleasantly in the
clear blue humours of the eye, the flesh had scarcely been an equal gainer with
the spirit. It was hardly the expression of “the healthy mind in the healthy
body,” but rather of a sacrifice of the body to the soul, its needs and
aspirations, that Marius seemed to divine in this assiduous student of the
Greek sages—a sacrifice, in truth, far beyond the demands of their very saddest
philosophy of life. Dignify thyself with modesty and simplicity for thine
ornaments!—had been ever a maxim with this dainty and high -bred Stoic,
who still thought manners a true part of morals, according to the old sense of
the term, and who regrets now and again that he cannot control his thoughts
equally well with his countenance. That outward composure was deepened during
the solemnities of this day by an air of pontifical abstraction; which, though
very far from being pride—nay, a sort of humility rather—yet gave, to himself,
an air of unapproachableness, and to his whole proceeding, in which every
minutest act was considered, the character of a ritual. Certainly, there was no
haughtiness, social, moral, or even philosophic, in Aurelius, who had realised,
under more trying conditions perhaps than any one before, that no element of
humanity could be alien from him. Yet, as he walked to-day, the centre of ten
thousand observers, with eyes discreetly fixed on the ground, veiling his head
at times and muttering very rapidly the words of the “supplications,” there was
something many spectators may have noted as a thing new in their experience,
for Aurelius, unlike his predecessors, took all this with absolute seriousness.
The doctrine of the sanctity of kings, that, in the words of Tacitus, Princes
are as Gods—Principes instar deorum esse—seemed to have taken a novel, because
a literal, sense. For Aurelius, indeed, the old legend of his descent from
Numa, from Numa who had talked with the gods, meant much. Attached in very
early years to the service of the altars, like many another noble youth, he was
“observed to perform all his sacerdotal functions with a constancy and
exactness unusual at that age; was soon a master of the sacred music; and had
all the forms and ceremonies by heart.” And now, as the emperor, who had not
only a vague divinity about his person, but was actually the chief religious
functionary of the state, recited from time to time the forms of invocation, he
needed not the help of the prompter, or ceremoniarius, who then approached, to
assist him by whispering the appointed words in his ear. It was that pontifical
abstraction which then impressed itself on Marius as the leading outward
characteristic of Aurelius; though to him alone, perhaps, in that vast crowd of
observers, it was no strange thing, but a matter he had understood from of old.
Some fanciful writers have assigned the origin of these triumphal processions
to the mythic pomps of Dionysus, after his conquests in the East; the very word
Triumph being, according to this supposition, only Thriambos-the Dionysiac
Hymn. And certainly the younger of the two imperial “brothers,” who, with the
effect of a strong contrast, walked beside Aurelius, and shared the honours of
the day, might well have reminded people of the delicate Greek god of flowers
and wine. This new conqueror of the East was now about thirty-six years old,
but with his scrupulous care for all the advantages of his person, and a soft
curling beard powdered with gold, looked many years younger. One result of the
more genial element in the wisdom of Aurelius had been that, amid most
difficult circumstances, he had known throughout life how to act in union with
persons of character very alien from his own; to be more than loyal to the
colleague, the younger brother in empire, he had too lightly taken to himself,
five years before, then an uncorrupt youth, “skilled in manly exercises and
fitted for war.” When Aurelius thanks the gods that a brother had fallen to his
lot, whose character was a stimulus to the proper care of his own, one sees
that this could only have happened in the way of an example, putting him on his
guard against insidious faults. But it is with sincere amiability that the
imperial writer, who was indeed little used to be ironical, adds that the
lively respect and affection of the junior had often “gladdened” him. To be
able to make his use of the flower, when the fruit perhaps was useless or
poisonous:—that was one of the practical successes of his philosophy; and his
people noted, with a blessing, “the concord of the two Augusti.” The
younger, certainly, possessed in full measure that charm of a constitutional
freshness of aspect which may defy for a long time extravagant or erring habits
of life; a physiognomy, healthy-looking, cleanly, and firm, which seemed
unassociable with any form of self-torment, and made one think of the muzzle of
some young hound or roe, such as human beings invariably like to stroke—a
physiognomy, in effect, with all the goodliness of animalism of the finer sort,
though still wholly animal. The charm was that of the blond head, the unshrinking
gaze, the warm tints: neither more nor less than one may see every English
summer, in youth, manly enough, and with the stuff which makes brave soldiers,
in spite of the natural kinship it seems to have with playthings and gay
flowers. But innate in Lucius Verus there was that more than womanly fondness
for fond things, which had made the atmosphere of the old city of Antioch,
heavy with centuries of voluptuousness, a poison to him: he had come to love
his delicacies best out of season, and would have gilded the very flowers. But
with a wonderful power of self-obliteration, the elder brother at the capital
had directed his procedure successfully, and allowed him, become now also the
husband of his daughter Lucilla, the credit of a “Conquest,” though Verus had
certainly not returned a conqueror over himself. He had returned, as we know,
with the plague in his company, along with many another strange creature of his
folly; and when the people saw him publicly feeding his favourite horse Fleet
with almonds and sweet grapes, wearing the animal’s image in gold, and finally
building it a tomb, they felt, with some un-sentimental misgiving, that he
might revive the manners of Nero.—What if, in the chances of war, he should
survive the protecting genius of that elder brother? He was all himself
to-day: and it was with much wistful curiosity that Marius regarded him. For
Lucius Verus was, indeed, but the highly expressive type of a class,—the true
son of his father, adopted by Hadrian. Lucius Verus the elder, also, had had
the like strange capacity for misusing the adornments of life, with a masterly
grace; as if such misusing were, in truth, the quite adequate occupation of an
intelligence, powerful, but distorted by cynical philosophy or some
disappointment of the heart. It was almost a sort of genius, of which there had
been instances in the imperial purple: it was to ascend the throne, a few years
later, in the person of one, now a hopeful little lad at home in the palace;
and it had its following, of course, among the wealthy youth at Rome, who
concentrated no inconsiderable force of shrewdness and tact upon minute details
of attire and manner, as upon the one thing needful. Certainly, flowers were
pleasant to the eye. Such things had even their sober use, as making the
outside of human life superficially attractive, and thereby promoting the first
steps towards friendship and social amity. But what precise place could there
be for Verus and his peculiar charm, in that Wisdom, that Order of divine
Reason “reaching from end to end, strongly and sweetly disposing all things,”
from the vision of which Aurelius came down, so tolerant of persons like him?
Into such vision Marius too was certainly well-fitted to enter, yet, noting the
actual perfection of Lucius Verus after his kind, his undeniable achievement of
the select, in all minor things, felt, though with some suspicion of himself,
that he entered into, and could understand, this other so dubious sort of
character also. There was a voice in the theory he had brought to Rome with him
which whispered “nothing is either great nor small;” as there were times when
he could have thought that, as the “grammarian’s” or the artist’s ardour of
soul may be satisfied by the perfecting of the theory of a sentence, or the
adjustment of two colours, so his own life also might have been fulfilled by an
enthusiastic quest after perfection—say, in the flowering and folding of a
toga. The emperors had burned incense before the image of Jupiter,
arrayed in its most gorgeous apparel, amid sudden shouts from the people of
Salve Imperator! turned now from the living princes to the deity, as they
discerned his countenance through the great open doors. The imperial brothers
had deposited their crowns of myrtle on the richly embroidered lapcloth of the
god; and, with their chosen guests, sat down to a public feast in the temple
itself. There followed what was, after all, the great event of the day:—an
appropriate discourse, a discourse almost wholly de contemptu mundi, delivered
in the presence of the assembled Senate, by the emperor Aurelius, who had thus,
on certain rare occasions, condescended to instruct his people, with the double
authority of a chief pontiff and a laborious student of philosophy. In those
lesser honours of the ovation, there had been no attendant slave behind the
emperors, to make mock of their effulgence as they went; and it was as if with
the discretion proper to a philosopher, and in fear of a jealous Nemesis, he
had determined himself to protest in time against the vanity of all outward
success. The Senate was assembled to hear the emperor’s discourse in the
vast hall of the Curia Julia. A crowd of high-bred youths idled around, or on
the steps before the doors, with the marvellous toilets Marius had noticed in the
Via Nova; in attendance, as usual, to learn by observation the minute points of
senatorial procedure. Marius had already some acquaintance with them, and
passing on found himself suddenly in the presence of what was still the most
august assembly the world had seen. Under Aurelius, ever full of veneration for
this ancient traditional guardian of public religion, the Senate had recovered
all its old dignity and independence. Among its members many hundreds in
number, visibly the most distinguished of them all, Marius noted the great
sophists or rhetoricians of the day, in all their magnificence. The antique
character of their attire, and the ancient mode of wearing it, still surviving
with them, added to the imposing character of their persons, while they sat, with
their staves of ivory in their hands, on their curule chairs—almost the exact
pattern of the chair still in use in the Roman church when a Bishop
pontificates at the divine offices—“tranquil and unmoved, with a majesty that
seemed divine,” as Marius thought, like the old Gaul of the Invasion. The rays
of the early November sunset slanted full upon the audience, and made it
necessary for the officers of the Court to draw the purple curtains over the
windows, adding to the solemnity of the scene. In the depth of those warm
shadows, surrounded by her ladies, the empress Faustina was seated to listen.
The beautiful Greek statue of Victory, which since the days of Augustus had
presided over the assemblies of the Senate, had been brought into the hall, and
placed near the chair of the emperor; who, after rising to perform a brief
sacrificial service in its honour, bowing reverently to the assembled fathers
left and right, took his seat and began to speak. There was a certain
melancholy grandeur in the very simplicity or triteness of the theme: as it
were the very quintessence of all the old Roman epitaphs, of all that was
monumental in that city of tombs, layer upon layer of dead things and people.
As if in the very fervour of disillusion, he seemed to be composing—Hôsper
epigraphas chronôn kai holôn ethnôn+—the sepulchral titles of ages and whole
peoples; nay! the very epitaph of the living Rome itself. The grandeur of the
ruins of Rome,—heroism in ruin: it was under the influence of an imaginative
anticipation of this, that he appeared to be speaking. And though the
impression of the actual greatness of Rome on that day was but enhanced by the
strain of contempt, falling with an accent of pathetic conviction from the
emperor himself, and gaining from his pontifical pretensions the authority of a
religious intimation, yet the curious interest of the discourse lay in this,
that Marius, for one, as he listened, seemed to forsee a grass-grown Forum, the
broken ways of the Capitol, and the Palatine hill itself in humble occupation.
That impression connected itself with what he had already noted of an actual
change even then coming over Italian scenery. Throughout, he could trace
something of a humour into which Stoicism at all times tends to fall, the
tendency to cry, Abase yourselves! There was here the almost inhuman
impassibility of one who had thought too closely on the paradoxical aspect of
the love of posthumous fame. With the ascetic pride which lurks under all
Platonism, resultant from its opposition of the seen to the unseen, as
falsehood to truth—the imperial Stoic, like his true descendant, the hermit of
the middle age, was ready, in no friendly humour, to mock, there in its narrow
bed, the corpse which had made so much of itself in life. Marius could but contrast
all that with his own Cyrenaic eagerness, just then, to taste and see and
touch; reflecting on the opposite issues deducible from the same text. “The
world, within me and without, flows away like a river,” he had said; “therefore
let me make the most of what is here and now.”—“The world and the thinker upon
it, are consumed like a flame,” said Aurelius, “therefore will I turn away my
eyes from vanity: renounce: withdraw myself alike from all affections.” He
seemed tacitly to claim as a sort of personal dignity, that he was very
familiarly versed in this view of things, and could discern a death’s-head
everywhere. Now and again Marius was reminded of the saying that “with the
Stoics all people are the vulgar save themselves;” and at times the orator seemed
to have forgotten his audience, and to be speaking only to himself. “Art
thou in love with men’s praises, get thee into the very soul of them, and
see!—see what judges they be, even in those matters which concern themselves.
Wouldst thou have their praise after death, bethink thee, that they who shall
come hereafter, and with whom thou wouldst survive by thy great name, will be
but as these, whom here thou hast found so hard to live with. For of a truth,
the soul of him who is aflutter upon renown after death, presents not this
aright to itself, that of all whose memory he would have each one will likewise
very quickly depart, until memory herself be put out, as she journeys on by
means of such as are themselves on the wing but for a while, and are extinguished
in their turn.—Making so much of those thou wilt never see! It is as if thou
wouldst have had those who were before thee discourse fair things concerning
thee. “To him, indeed, whose wit hath been whetted by true doctrine, that
well-worn sentence of Homer sufficeth, to guard him against regret and
fear.— Like the race of leaves The race of man is:— The wind in
autumn strows The earth with old leaves: then the spring the
woods with new endows.+ Leaves! little leaves!—thy children, thy
flatterers, thine enemies! Leaves in the wind, those who would devote thee to
darkness, who scorn or miscall thee here, even as they also whose great fame
shall outlast them. For all these, and the like of them, are born indeed in the
spring season—Earos epigignetai hôrê+: and soon a wind hath scattered them, and
thereafter the wood peopleth itself again with another generation of leaves.
And what is common to all of them is but the littleness of their lives: and yet
wouldst thou love and hate, as if these things should continue for ever. In a
little while thine eyes also will be closed, and he on whom thou perchance hast
leaned thyself be himself a burden upon another. “Bethink thee often of
the swiftness with which the things that are, or are even now coming to be, are
swept past thee: that the very substance of them is but the perpetual motion of
water: that there is almost nothing which continueth: of that bottomless depth
of time, so close at thy side. Folly! to be lifted up, or sorrowful, or
anxious, by reason of things like these! Think of infinite matter, and thy
portion—how tiny a particle, of it! of infinite time, and thine own brief point
there; of destiny, and the jot thou art in it; and yield thyself readily to the
wheel of Clotho, to spin of thee what web she will. “As one casting a
ball from his hand, the nature of things hath had its aim with every man, not
as to the ending only, but the first beginning of his course, and passage
thither. And hath the ball any profit of its rising, or loss as it descendeth
again, or in its fall? or the bubble, as it groweth or breaketh on the air? or
the flame of the lamp, from the beginning to the end of its brief story?
“All but at this present that future is, in which nature, who disposeth all
things in order, will transform whatsoever thou now seest, fashioning from its
substance somewhat else, and therefrom somewhat else in its turn, lest the
world grow old. We are such stuff as dreams are made of—disturbing dreams.
Awake, then! and see thy dream as it is, in comparison with that erewhile it
seemed to thee. “And for me, especially, it were well to mind those many
mutations of empire in time past; therein peeping also upon the future, which
must needs be of like species with what hath been, continuing ever within the
rhythm and number of things which really are; so that in forty years one may
note of man and of his ways little less than in a thousand. Ah! from this
higher place, look we down upon the ship-wrecks and the calm! Consider, for
example, how the world went, under the emperor Vespasian. They are married and
given in marriage, they breed children; love hath its way with them; they heap
up riches for others or for themselves; they are murmuring at things as then
they are; they are seeking for great place; crafty, flattering, suspicious,
waiting upon the death of others:—festivals, business, war, sickness,
dissolution: and now their whole life isno longer anywhere at all. Pass on to
the reign of Trajan: all things continue the same: and that life also is no
longer anywhere at all. Ah! but look again, and consider, one after another, as
it were the sepulchral inscriptions of all peoples and times, according to one
pattern.—What multitudes, after their utmost striving—a little afterwards! were
dissolved again into their dust. “Think again of life as it was far off
in the ancient world; as it must be when we shall be gone; as it is now among
the wild heathen. How many have never heard your names and mine, or will soon
forget them! How soon may those who shout my name to-day begin to revile it,
because glory, and the memory of men, and all things beside, are but vanity—a
sand-heap under the senseless wind, the barking of dogs, the quarrelling of
children, weeping incontinently upon their laughter. “This hasteth to be;
that other to have been: of that which now cometh to be, even now somewhat hath
been extinguished. And wilt thou make thy treasure of any one of these things?
It were as if one set his love upon the swallow, as it passeth out of sight
through the air! “Bethink thee often, in all contentions public and
private, of those whom men have remembered by reason of their anger and
vehement spirit—those famous rages, and the occasions of them—the great
fortunes, and misfortunes, of men’s strife of old. What are they all now, and
the dust of their battles? Dust and ashes indeed; a fable, a mythus, or not so
much as that. Yes! keep those before thine eyes who took this or that, the like
of which happeneth to thee, so hardly; were so querulous, so agitated. And where
again are they? Wouldst thou have it not otherwise with thee? Consider
how quickly all things vanish away—their bodily structure into the general
substance; the very memory of them into that great gulf and abysm of past
thoughts. Ah! ’tis on a tiny space of earth thou art creeping through life—a
pigmy soul carrying a dead body to its grave. “Let death put thee upon
the consideration both of thy body and thy soul: what an atom of all matter
hath been distributed to thee; what a little particle of the universal mind.
Turn thy body about, and consider what thing it is, and that which old age, and
lust, and the languor of disease can make of it. Or come to its substantial and
causal qualities, its very type: contemplate that in itself, apart from the
accidents of matter, and then measure also the span of time for which the
nature of things, at the longest, will maintain that special type. Nay! in the
very principles and first constituents of things corruption hath its part—so
much dust, humour, stench , and scraps of bone! Consider that thy marbles
are but the earth’s callosities, thy gold and silver its faeces; this silken
robe but a worm’s bedding, and thy purple an unclean fish. Ah! and thy life’s
breath is not otherwise, as it passeth out of matters like these, into the like
of them again. “For the one soul in things, taking matter like wax in the
hands, moulds and remoulds—how hastily!—beast, and plant, and the babe, in
turn: and that which dieth hath not slipped out of the order of nature, but, remaining
therein, hath also its changes there, disparting into those elements of
which nature herself, and thou too, art compacted. She changes without
murmuring. The oaken chest falls to pieces with no more complaining than when
the carpenter fitted it together. If one told thee certainly that on the morrow
thou shouldst die, or at the furthest on the day after, it would be no great
matter to thee to die on the day after to-morrow, rather than to-morrow. Strive
to think it a thing no greater that thou wilt die—not to-morrow, but a year, or
two years, or ten years f rom to-day. “I find that all things are
now as they were in the days of our buried ancestors—all things sordid in their
elements, trite by long usage, and yet ephemeral. How ridiculous, then, how
like a countryman in town, is he, who wonders at aught. Doth the sameness, the
repetition of the public shows, weary thee? Even so doth that likeness of
events in the spectacle of the world. And so must it be with thee to the end.
For the wheel of the world hath ever the same motion, upward and downward, from
generation to generation. When, when, shall time give place to eternity?
“If there be things which trouble thee thou canst put them away, inasmuch as
they have their being but in thine own notion concerning them. Consider what
death is, and how, if one does but detach from it the appearances, the notions,
that hang about it, resting the eye upon it as in itself it really is, it must
be thought of but as an effect of nature, and that man but a child whom an
effect of nature shall affright. Nay! not function and effect of nature, only;
but a thing profitable also to herself. “To cease from action—the ending
of thine effort to think and do: there is no evil in that. Turn thy thought to
the ages of man’s life, boyhood, youth, maturity, old age: the change in every
one of these also is a dying, but evil nowhere. Thou climbedst into the ship,
thou hast made thy voyage and touched the shore. Go forth now! Be it into some
other life: the divine breath is everywhere, even there. Be it into
forgetfulness for ever; at least thou wilt rest from the beating of sensible
images upon thee, from the passions which pluck thee this way and that like an
unfeeling toy, from those long marches of the intellect, from thy toilsome ministry
to the flesh. “Art thou yet more than dust and ashes and bare bone—a name
only, or not so much as that, which, also, is but whispering and a resonance,
kept alive from mouth to mouth of dying abjects who have hardly known
themselves; how much less thee, dead so long ago! “When thou lookest upon
a wise man, a lawyer, a captain of war, think upon another gone. When thou
seest thine own face in the glass, call up there before thee one of thine
ancestors—one of those old Caesars. Lo! everywhere, thy double before thee!
Thereon, let the thought occur to thee: And where are they? anywhere at all,
for ever? And thou, thyself—how long? Art thou blind to that thou art—thy
matter, how temporal; and thy function, the nature of thy business? Yet tarry,
at least, till thou hast assimilated even these things to thine own proper
essence, as a quick fire turneth into heat and light whatsoever be cast upon
it. “As words once in use are antiquated to us, so is it with the names
that were once on all men’s lips: Camillus, Volesus, Leonnatus: then, in a
little while, Scipio and Cato, and then Augustus, and then Hadrian, and then
Antoninus Pius. How many great physicians who lifted wise brows at other men’s
sick-beds, have sickened and died! Those wise Chaldeans, who foretold, as a
great matter, another man’s last hour, have themselves been taken by surprise.
Ay! and all those others, in their pleasant places: those who doated on a
Capreae like Tiberius, on their gardens, on the baths: Pythagoras and Socrates,
who reasoned so closely upon immortality: Alexander, who used the lives of
others as though his own should last for ever—he and his mule-driver alike
now!—one upon another. Well-nigh the whole court of Antoninus is extinct.
Panthea and Pergamus sit no longer beside the sepulchre of their lord. The
watchers over Hadrian’s dust have slipped from his sepulchre.—It were jesting
to stay longer. Did they sit there still, would the dead feel it? or feeling
it, be glad? or glad, hold those watchers for ever? The time must come when
they too shall be aged men and aged women, and decease, and fail from their
places; and what shift were there then for imperial service? This too is but
the breath of the tomb, and a skinful of dead men’s blood. “Think again
of those inscriptions, which belong not to one soul only, but to whole
families: Eschatos tou idiou genous:+ He was the last of his race. Nay! of the
burial of whole cities: Helice, Pompeii: of others, whose very burial place is
unknown. “Thou hast been a citizen in this wide city. Count not for how
long, nor repine; since that which sends thee hence is no unrighteous judge, no
tyrant, but Nature, who brought thee hither; as when a player leaves the stage
at the bidding of the conductor who hired him. Sayest thou, ‘I have not played
five acts’? True! but in human life, three acts only make sometimes an entire
play. That is the composer’s business, not thine. Withdraw thyself with a good
will; for that too hath, perchance, a good will which dismisseth thee from thy
part.” The discourse ended almost in darkness, the evening having set in
somewhat suddenly, with a heavy fall of snow. The torches, made ready to do him
a useless honour, were of real service now, as the emperor was solemnly
conducted home; one man rapidly catching light from another—a long stream of
moving lights across the white Forum, up the great stairs, to the palace. And,
in effect, that night winter began, the hardest that had been known for a
lifetime. The wolves came from the mountains; and, led by the carrion scent,
devoured the dead bodies which had been hastily buried during the plague, and,
emboldened by their meal, crept, before the short day was well past, over the
walls of the farmyards of the Campagna. The eagles were seen driving the flocks
of smaller birds across the dusky sky. Only, in the city itself the winter was
all the brighter for the contrast, among those who could pay for light and
warmth. The habit-makers made a great sale of the spoil of all such furry
creatures as had escaped wolves and eagles, for presents at the Saturnalia; and
at no time had the winter roses from Carthage seemed more lustrously yellow and
red. NOTES 188. +Spenser, Shepheardes Calendar, October,
61-66. 200. +Transliteration: Hôsper epigraphas chronôn kai holôn
ethnôn. Pater’s Translation: “the sepulchral titles of ages and whole
peoples.” 202. +Homer, Iliad VI.146-48. 202.
+Transliteration: Earos epigignetai hôrê. Translation: “born in springtime.”
Homer, Iliad VI.147. 210. +Transliteration: Eschatos tou idiou genous.
Translation: “He was the last of his race.” After that sharp, brief
winter, the sun was already at work, softening leaf and bud, as you might feel
by a faint sweetness in the air; but he did his work behind an evenly white
sky, against which the abode of the Caesars, its cypresses and bronze roofs,
seemed like a picture in beautiful but melancholy colour, as Marius climbed the
long flights of steps to be introduced to the emperor Aurelius. Attired in the
newest mode, his legs wound in dainty fasciae of white leather, with the heavy
gold ring of the ingenuus, and in his toga of ceremony, he still retained all
his country freshness of complexion. The eyes of the “golden youth” of Rome
were upon him as the chosen friend of Cornelius, and the destined servant of
the emperor; but not jealously. In spite of, perhaps partly because of, his
habitual reserve of manner, he had become “the fashion,” even among those who
felt instinctively the irony which lay beneath that remarkable self-possession,
as of one taking all things with a difference from other people, perceptible in
voice, in expression, and even in his dress. It was, in truth, the air of one
who, entering vividly into life, and relishing to the full the delicacies of
its intercourse, yet feels all the while, from the point of view of an ideal
philosophy, that he is but conceding reality to suppositions, choosing of his
own will to walk in a day-dream, of the illusiveness of which he at least is
aware. In the house of the chief chamberlain Marius waited for the due
moment of admission to the emperor’s presence. He was admiring the peculiar
decoration of the walls, coloured like rich old red leather. In the midst of
one of them was depicted, under a trellis of fruit you might have gathered, the
figure of a woman knocking at a door with wonderful reality of perspective.
Then the summons came; and in a few minutes, the etiquette of the imperial
household being still a simple matter, he had passed the curtains which divided
the central hall of the palace into three parts—three degrees of approach to
the sacred person—and was speaking to Aurelius himself; not in Greek, in which
the emperor oftenest conversed with the learned, but, more familiarly, in
Latin, adorned however, or disfigured, by many a Greek phrase, as now and again
French phrases have made the adornment of fashionable English. It was with real
kindliness that Marcus Aurelius looked upon Marius, as a youth of great
attainments in Greek letters and philosophy; and he liked also his serious
expression, being, as we know, a believer in the doctrine of physiognomy—that,
as he puts it, not love only, but every other affection of man’s soul, looks
out very plainly from the window of the eyes. The apartment in which
Marius found himself was of ancient aspect, and richly decorated with the
favourite toys of two or three generations of imperial collectors, now finally
revised by the high connoisseurship of the Stoic emperor himself, though
destined not much longer to remain together there. It is the repeated boast of
Aurelius that he had learned from old Antoninus Pius to maintain authority
without the constant use of guards, in a robe woven by the handmaids of his own
consort, with no processional lights or images, and “that a prince may shrink
himself almost into the figure of a private gentleman.” And yet, again as at
his first sight of him, Marius was struck by the profound religiousness of the
surroundings of the imperial presence. The effect might have been due in part
to the very simplicity, the discreet and scrupulous simplicity, of the central
figure in this splendid abode; but Marius could not forget that he saw before
him not only the head of the Romanreligion, but one who might actually have
claimed something like divine worship, had he cared to do so. Though the
fantastic pretensions of Caligula had brought some contempt on that claim,
which had become almost a jest under the ungainly Claudius, yet, from Augustus
downwards, a vague divinity had seemed to surround the Caesars even in this
life; and the peculiar character of Aurelius, at once a ceremonious polytheist
never forgetful of his pontifical calling, and a philosopher whose mystic
speculation encircled him with a sort of saintly halo, had restored to his
person, without his intending it, something of that divine prerogative, or
prestige. Though he would never allow the immediate dedication of altars to
himself, yet the image of his Genius—his spirituality or celestial
counterpart—was placed among those of the deified princes of the past; and his family,
including Faustina and the young Commodus, was spoken of as the “holy” or
“divine” house. Many a Roman courtier agreed with the barbarian chief, who,
after contemplating a predecessor of Aurelius, withdrew from his presence with
t he exclamation:—“I have seen a god to-day!” The very roof of his house,
rising into a pediment or gable, like that of the sanctuary of a god, the
laurels on either side its doorway, the chaplet of oak-leaves above, seemed to
designate the place for religious veneration. And notwithstanding all this, the
household of Aurelius was singularly modest, with none of the wasteful expense
of palaces after the fashion of Lewis the Fourteenth; the palatial dignity
being felt only in a peculiar sense of order, the absence of all that was
casual, of vulgarity and discomfort. A merely official residence of his
predecessors, the Palatine had become the favourite dwelling-place of Aurelius;
its many-coloured memories suiting, perhaps, his pensive character, and the
crude splendours of Nero and Hadrian being now subdued by time. The window-less
Roman abode must have had much of what toa modern would be gloom. How did the
children, one wonders, endure houses with so little escape for the eye into the
world outside? Aurelius, who had altered little else, choosing to live there,
in a genuine homeliness, had shifted and made the most of the level lights, and
broken out a quite medieval window here and there, and the clear daylight,
fully appreciated by his youthful visitor, made pleasant shadows among the
objects of the imperial collection. Some of these, indeed, by reason of their
Greek simplicity and grace, themselves shone out like spaces of a purer, early
light, amid the splendours of the Roman manufacture. Though he looked,
thought Marius, like a man who did not sleep enough, he was abounding and
bright to-day, after one of those pitiless headaches, which since boyhood had
been the “thorn in his side,” challenging the pretensions of his philosophy to
fortify one in humble endurances. At the first moment, to Marius, remembering
the spectacle of the emperor in ceremony, it was almost bewildering to be in
private conversation with him. There was much in the philosophy of
Aurelius—much consideration of mankind at large, of great bodies, aggregates
and generalities, after the Stoic manner—which, on a nature less rich than his,
might have acted as an inducement to care for people in inverse proportion to
their nearness to him. That has sometimes been the result of the Stoic
cosmopolitanism. Aurelius, however, determined to beautify by all means, great
or little, a doctrine which had in it some potential sourness, had brought all
the quickness of his intelligence, and long years of observation, to bear on
the conditions of social intercourse. He had early determined “not to make
business an excuse to decline the offices of humanity—not to pretend to be too
much occupied with important affairs to concede what life with others may
hourly demand;” and with such success, that, in an age which made much of the
finer points of that intercourse, it was felt that the mere honesty of his
conversation was more pleasing than other men’s flattery. His agreeableness to
his young visitor to-day was, in truth, a blossom of the same wisdom which had
made of Lucius Verus really a brother—the wisdom of not being exigent with men,
any more than with fruit-trees (it is his own favourite figure) beyond their
nature. And there was another person, still nearer to him, regarding whom this
wisdom became a marvel, of equity—of charity. The centre of a group of
princely children, in the same apartment with Aurelius, amid all the refined
intimacies of a modern home, sat the empress Faustina, warming her hands over a
fire. With her long fingers lighted up red by the glowing coals of the brazier
Marius looked close upon the most beautiful woman in the world, who was also
the great paradox of the age, among her boys and girls. As has been truly said
of the numerous representations of her in art, so in life, she had the air of one
curious, restless, to enter into conversation with the first comer. She had
certainly the power of stimulating a very ambiguous sort of curiosity about
herself. And Marius found this enigmatic point in her expression, that even
after seeing her many times he could never precisely recall her features in
absence. The lad of six years, looking older, who stood beside her, impatiently
plucking a rose to pieces over the hearth, was, in outward appearance, his
father—the young Verissimus—over again; but with a certain feminine length of
feature, and with all his mother’s alertness, or license, of gaze. Yet
rumour knocked at every door and window of the imperial house regarding the
adulterers who knocked at them, or quietly left their lovers’ garlands there.
Was not that likeness of the husband, in the boy beside her, really the effect
of a shameful magic, in which the blood of the murdered gladiator, his true
father, had been an ingredient? Were the tricks for deceiving husbands which
the Roman poet describes, really hers, and her household an efficient school of
all the arts of furtive love? Or, was the husband too aware, like every one
beside? Were certain sudden deaths which happened there, really the work of
apoplexy, or the plague? The man whose ears, whose soul, those rumours
were meant to penetrate, was, however, faithful to his sanguine and optimist
philosophy, to his determination that the world should be to him simply what
the higher reason preferred to conceive it; and the life’s journey Aurelius had
made so far, though involving much moral and intellectual loneliness, had been
ever in affectionate and helpful contact with other wayfarers, very unlike
himself. Since his days of earliest childhood in the Lateran gardens, he seemed
to himself, blessing the gods for it after deliberate survey, to have been
always surrounded by kinsmen, friends, servants, of exceptional virtue. From
the great Stoic idea, that we are all fellow-citizens of one city, he had
derived a tenderer, a more equitable estimate than was common among Stoics, of
the eternal shortcomings of men and women. Considerations that might tend to
the sweetening of his temper it was his daily care to store away, with a kind
of philosophic pride in the thought that no one took more good-naturedly than
he the “oversights” of his neighbours. For had not Plato taught (it was not
paradox, but simple truth of experience) that if people sin, it is because they
know no better, and are “under the necessity of their own ignorance”? Hard to
himself, he seemed at times, doubtless, to decline too softly upon unworthy
persons. Actually, he came thereby upon many a useful instrument. The empress
Faustina he would seem at least to have kept, by a constraining affection, from
becoming altogether what most people have believed her, and won in her (we must
take him at his word in the “Thoughts,” abundantly confirmed by letters, on
both sides, in his correspondence with Cornelius Fronto) a consolation, the
more secure, perhaps, because misknown of others. Was the secret of her actual
blamelessness, after all, with him who has at least screened her name? At all
events, the one thing quite certain about her, besides her extraordinary
beauty, is her sweetness to himself. No! The wise, who had made due
observation on the trees of the garden, would not expect to gather grapes of
thorns or fig-trees: and he was the vine, putting forth his genial fruit, by
natural law, again and again, after his kind, whatever use people might make of
it. Certainly, his actual presence never lost its power, and Faustina was glad
in it to-day, the birthday of one of her children, a boy who stood at her knee
holding in his fingers tenderly a tiny silver trumpet, one of his birthday
gifts.—“For my part, unless I conceive my hurt to be such, I have no hurt at
all,”—boasts the would-be apathetic emperor:—“and how I care to conceive of the
thing rests with me.” Yet when his children fall sick or die, this pretence
breaks down, and he is broken-hearted: and one of the charms of certain of his
letters still extant, is his reference to those childish sicknesses.—“On my
return to Lorium,” he writes, “I found my little lady—domnulam meam—in a
fever;” and again, in a letter to one of the most serious of men, “You will be
glad to hear that our little one is better, and running about the room—parvolam
nostram melius valere et intra cubiculum discurrere.” The young Commodus
had departed from the chamber, anxious to witness the exercises of certain
gladiators, having a native taste for such company, inherited, according to
popular rumour, from his true father—anxious also to escape from the too
impressive company of the gravest and sweetest specimen of old age Marius had
ever seen, the tutor of the imperial children, who had arrived to offer his
birthday congratulations, and now, very familiarly and affectionately, made a
part of the group, falling on the shoulders of the emperor, kissing the empress
Faustina on the face, the little ones on the face and hands. Marcus Cornelius
Fronto, the “Orator,” favourite teacher of the emperor’s youth, afterwards his
most trusted counsellor, and now the undisputed occupant of the sophistic
throne, whose equipage, elegantly mounted with silver, Marius had seen in the
streets of Rome, had certainly turned his many personal gifts to account with a
good fortune, remarkable even in that age, so indulgent to professors or
rhetoricians. The gratitude of the emperor Aurelius, always generous to his
teachers, arranging their very quarrels sometimes, for they were not always
fair to one another, had helped him to a really great place in the world. But
his sumptuous appendages, including the villa and gardens of Maecenas, had been
borne with an air perfectly becoming, by the professor of a philosophy which,
even in its most accomplished and elegant phase, presupposed a gentle contempt
for such things. With an intimate practical knowledge of manners,
physiognomies, smiles, disguises, flatteries, and courtly tricks of every
kind—a whole accomplished rhetoric of daily life—he applied them all to the promotion
of humanity, and especially of men’s family affection. Through a long life of
now eighty years, he had been, as it were, surrounded by the gracious and
soothing air of his own eloquence—the fame, the echoes, of it—like warbling
birds, or murmuring bees. Setting forth in that fine medium the best ideas of
matured pagan philosophy, he had become the favourite “director” of noble
youth. Yes! it was the one instance Marius, always eagerly on the
look-out for such, had yet seen of a perfectly tolerable, perfectly beautiful,
old age—an old age in which there seemed, to one who perhaps habitually
over-valued the expression of youth, nothing to be regretted, nothing
really lost, in what years had taken away. The wise old man, whose blue eyes
and fair skin were so delicate, uncontaminate and clear, would seem to have
replaced carefully and consciously each natural trait of youth, as it departed
from him, by an equivalent grace of culture; and had the blitheness, the placid
cheerfulness, as he had also the infirmity, the claim on stronger people, of a
delightful child. And yet he seemed to be but awaiting his exit from life—that
moment with which the Stoics were almost as much preoccupied as the Christians,
however differently—and set Marius pondering on the contrast between a
placidity like this, at eighty years, and the sort of desperateness he was
aware of in his own manner of entertaining that thought. His infirmities
nevertheless had been painful and long-continued, with losses of children, of
pet grandchildren. What with the crowd, and the wretched streets, it was a sign
of affection which had cost him something, for the old man to leave his own
house at all that day; and he was glad of the emperor’s support, as he moved
from place to place among the children he protests so often to have loved as
his own. For a strange piece of literary good fortune, at the beginning
of the present century, has set freethe long-buried fragrance of this famous
friendship of the old world, from below a valueless later manuscript, in a
series of letters, wherein the two writers exchange, for the most part their
evening thoughts, especially at family anniversaries, and with entire intimacy,
on their children, on the art of speech, on all the various subtleties of the
“science of images”—rhetorical images—above all, of course, on sleep and
matters of health. They are full of mutual admiration of each other’s
eloquence, restless in absence till they see one another again, noting,
characteristically, their very dreams of each other, expecting the day which
will terminate the office, the business or duty, which separates them—“as
superstitious people watch for the star, at the rising of which they may break
their fast.” To one of the writers, to Aurelius, the correspondence was sincerely
of value. We see him once reading his letters with genuine delight on going to
rest. Fronto seeks to deter his pupil from writing in Greek.—Why buy, at great
cost, a foreign wine, inferior to that from one’s own vineyard? Aurelius, on
the other hand, with an extraordinary innate susceptibility to words—la parole
pour la parole, as the French say—despairs, in presence of Fronto’s rhetorical
perfection. Like the modern visitor to the Capitoline and some other
museums, Fronto had been struck, pleasantly struck, by the family likeness
among the Antonines; and it was part of his friendship to make much of it, in
the case of the children of Faustina. “Well! I have seen the little ones,” he
writes to Aurelius, then, apparently, absent from them: “I have seen the little
ones—the pleasantest sight of my life; for they are as like yourself as could
possibly be. It has well repaid me for my journey over that slippery road, and
up those steep rocks; for I beheld you, not simply face to face before me, but,
more generously, whichever way I turned, to my right and my left. For the rest,
I found them, Heaven be thanked! with healthy cheeks and lusty voices. One was
holding a slice of white bread, like a king’s son; the other a crust of brown
bread, as becomes the offspring of a philosopher. I pray the gods to have both
the sower and the seed in their keeping; to watch over this field wherein the
ears of corn are so kindly alike. Ah! I heard too their pretty voices, so sweet
that in the childish prattle of one and the other I seemed somehow to be
listening—yes! in that chirping of your pretty chickens—to the limpid+ and
harmonious notes of your own oratory. Take care! you will find me growing
independent, having those I could love in your place:—love, on the surety of my
eyes and ears.” +“Limpid” is misprinted “Limped.” “Magistro
meo salutem!” replies the Emperor, “I too have seen my little ones in your
sight of them; as, also, I saw yourself in reading your letter. It is that
charming letter forces me to write thus:” with reiterations of affection, that
is, which are continual in these letters, on both sides, and which may strike a
modern reader perhaps as fulsome; or, again, as having something in common with
the old Judaic unction of friendship. They were certainly sincere. To one
of those children Fronto had now brought the birthday gift of the silver
trumpet, upon which he ventured to blow softly now and again, turning away with
eyes delighted at the sound, when he thought the old man was not listening. It
was the well-worn, valetudinarian subject of sleep, on which Fronto and
Aurelius were talking together; Aurelius always feeling it a burden, Fronto a
thing of magic capacities, so that he had written an encomium in its praise,
and often by ingenious arguments recommends his imperial pupil not to be
sparing of it. To-day, with his younger listeners in mind, he had a story to
tell about it:— “They say that our father Jupiter, when he ordered the
world at the beginning, divided time into two parts exactly equal: the one part
he clothed with light, the other with darkness: he called them Day and Night;
and he assigned rest to the night and to day the work of life. At that time
Sleep was not yet born and men passed the whole of their lives awake: only, the
quiet of the night was ordained for them, instead of sleep. But it came to
pass, little by little, being that the minds of men are restless, that they
carried on their business alike by night as by day, and gave no part at all to
repose. And Jupiter, when he perceived that even in the night-time they ceased
not from trouble and disputation, and that even the courts of law remained open
(it was the pride of Aurelius, as Fronto knew, to be assiduous in those courts
till far into the night) resolved to appoint one of his brothers to be the
overseer of the night and have authority over man’s rest. But Neptune pleaded
in excuse the gravity of his constant charge of the seas, and Father Dis the
difficulty of keeping in subjection the spirits below; and Jupiter, having
taken counsel with the other gods, perceived that the practice of nightly
vigils was somewhat in favour. It was then, for the most part, that Juno gave
birth to her children: Minerva, the mistress of all art and craft, loved the
midnight lamp: Mars delighted in the darkness for his plots and sallies; and
the favour of Venus and Bacchus was with those who roused by night. Then it was
that Jupiter formed the design of creating Sleep; and he added him to the
number of the gods, and gave him the charge over night and rest, putting into
his hands the keys of human eyes. With his own hands he mingled the juices
wherewith Sleep should soothe the hearts of mortals—herb of Enjoyment and herb
of Safety, gathered from a grove in Heaven; and, from the meadows of Acheron,
the herb of Death; expressing from it one single drop only, no bigger than a
tear one might hide. ‘With this juice,’ he said, ‘pour slumber upon the eyelids
of mortals. So soon as it hath touched them they will lay themselves down
motionless, under thy power. But be not afraid: they shall revive, and in a
while stand up again upon their feet.’ Thereafter, Jupiter gave wings to Sleep,
attached, not, like Mercury’s, to his heels, but to his shoulders, like the
wings of Love. For he said, ‘It becomes thee not to approach men’s eyes as with
the noise of chariots, and the rushing of a swift courser, but in placid and
merciful flight, as upon the wings of a swallow—nay! with not so much as the
flutter of the dove.’ Besides all this, that he might be yet pleasanter to men,
he committed to him also a multitude of blissful dreams, according to every
man’s desire. One watched his favourite actor; another listened to the flute,
or guided a charioteer in the race: in his dream, the soldier was victorious,
the general was borne in triumph, the wanderer returned home. Yes!—and
sometimes those dreams come true! Just then Aurelius was summoned to make
the birthday offerings to his household gods. A heavy curtain of tapestry was
drawn back; and beyond it Marius gazed for a few moments into the Lararium, or
imperial chapel. A patrician youth, in white habit, was in waiting, with a
little chest in his hand containing incense for the use of the altar. On richly
carved consoles, or side boards, around this narrow chamber, were arranged the rich
apparatus of worship and the golden or gilded images, adorned to-day with fresh
flowers, among them that image of Fortune from the apartment of Antoninus Pius,
and such of the emperor’s own teachers as were gone to their rest. A dim fresco
on the wall commemorated the ancient piety of Lucius Albinius, who in flight
from Rome on the morrow of a great disaster, overtaking certain priests on foot
with their sacred utensils, descended from the wagon in which he rode and
yielded it to the ministers of the gods. As he ascended into the chapel the
emperor paused, and with a grave but friendly look at his young visitor,
delivered a parting sentence, audible to him alone: _Imitation is the most
acceptable part of worship:—the gods had much rather mankind should resemble
than flatter them. Make sure that those to whom you come nearest be the happier
by your presence!_ It was the very spirit of the scene and the hour—the
hour Marius had spent in the imperial house. How temperate, how tranquillising!
what humanity! Yet, as he left the eminent company concerning whose ways of
life at home he had been so youthfully curious, and sought, after his manner,
to determine the main trait in all this, he had to confess that it was a
sentiment of mediocrity, though of a mediocrity for once really
golden. During the Eastern war there came a moment when schism in
the empire had seemed possible through the defection of Lucius Verus; when to
Aurelius it had also seemed possible to confirm his allegiance by no less a gift
than his beautiful daughter Lucilla, the eldest of his children—the domnula,
probably, of those letters. The little lady, grown now to strong and stately
maidenhood, had been ever something of the good genius, the better soul, to
Lucius Verus, by the law of contraries, her somewhat cold and apathetic modesty
acting as counterfoil to the young man’s tigrish fervour. Conducted to Ephesus,
she had become his wife by form of civil marriage, the more solemn wedding
rites being deferred till their return to Rome. The ceremony of the
Confarreation, or religious marriage, in which bride and bridegroom partook
together of a certain mystic bread, was celebrated accordingly, with due pomp,
early in the spring; Aurelius himself assisting, with much domestic feeling. A
crowd of fashionable people filled the space before the entrance to the
apartments of Lucius on the Palatine hill, richly decorated for the occasion,
commenting, not always quite delicately, on the various details of the rite,
which only a favoured few succeeded in actually witnessing. “She comes!” Marius
could hear them say, “escorted by her young brothers: it is the young Commodus
who carries the torch of white-thornwood, the little basket of work-things, the
toys for the children:”—and then, after a watchful pause, “she is winding the
woollen thread round the doorposts. Ah! I see the marriage-cake: the bridegroom
presents the fire and water.” Then, in a longer pause, was heard the chorus,
Thalassie! Thalassie! and for just a few moments, in the strange light of many
wax tapers at noonday, Marius could see them both, side by side, while the
bride was lifted over the doorstep: Lucius Verus heated and handsome—the pale,
impassive Lucilla looking very long and slender, in her closely folded yellow
veil, and high nuptial crown. As Marius turned away, glad to escape from
the pressure of the crowd, he found himself face to face with Cornelius, an
infrequent spectator on occasions such as this. It was a relief to depart with
him—so fresh and quiet he looked, though in all his splendid equestrian array
in honour of the ceremony—from the garish heat of the marriage scene. The
reserve which had puzzled Marius so much on his first day in Rome, was but an
instance of many, to him wholly unaccountable, avoidances alike of things and
persons, which must certainly mean that an intimate companionship would cost
him something in the way of seemingly indifferent amusements. Some inward
standard Marius seemed to detect there (though wholly unable to estimate its
nature) of distinction, selection, refusal, amid the various elements of the
fervid and corrupt life across which they were moving together:—some secret,
constraining motive, ever on the alert at eye and ear, which carried him
through Rome as under a charm, so that Marius could not but think of that
figure of the white bird in the market-place as undoubtedly made true of him.
And Marius was still full of admiration for this companion, who had known how
to make himself very pleasant to him. Here was the clear, cold corrective, which
the fever of his present life demanded. Without it, he would have felt
alternately suffocated and exhausted by an existence, at once so gaudy and
overdone, and yet so intolerably empty; in which people, even at their best,
seemed only to be brooding, like the wise emperor himself, over a world’s
disillusion. For with all the severity of Cornelius, there was such a breeze of
hopefulness—freshness and hopefulness, as of new morning, about him. For the
most part, as I said, those refusals, that reserve of his, seemed
unaccountable. But there were cases where the unknown monitor acted in a
direction with which the judgment, or instinct, of Marius himself wholly
concurred; the effective decision of Cornelius strengthening him further
therein, as by a kind of outwardly embodied conscience. And the entire drift of
his education determined him, on one point at least, to be wholly of the same
mind with this peculiar friend (they two, it might be, together, against the
world!) when, alone of a whole company of brilliant youth, he had withdrawn
from his appointed place in the amphitheatre, at a grand public show, which
after an interval of many months, was presented there, in honour of the
nuptials of Lucius Verus and Lucilla. And it was still to the eye, through
visible movement and aspect, that the character, or genius of Cornelius made
itself felt by Marius; even as on that afternoon when he had girt on his
armour, among the expressive lights and shades of the dim old villa at the
roadside, and every object of his knightly array had seemed to be but sign or
symbol of some other thing far beyond it. For, consistently with his really
poetic temper, all influence reached Marius, even more exclusively than he was
aware, through th e medium of sense. From Flavian in that brief early
summer of his existence, he had derived a powerful impression of the “perpetual
flux”: he had caught there, as in cipher or symbol, or low whispers more
effective than any definite language, his own Cyrenaic philosophy, presented
thus, for the first time, in an image or person, with much attractiveness,
touched also, consequently, with a pathetic sense of personal sorrow:—a
concrete image, the abstract equivalent of which he could recognise afterwards,
when the agitating personal influence had settled down for him, clearly enough,
into a theory of practice. But of what possible intellectual formula could this
mystic Cornelius be the sensible exponent; seeming, as he did, to live ever in
close relationship with, and recognition of, a mental view, a source of
discernment, a light upon his way, which had certainly not yet sprung up for
Marius? Meantime, the discretion of Cornelius, his energetic clearness and
purity, were a charm, rather physical than moral: his exquisite correctness of
spirit, at all events, accorded so perfectly with the regular beauty of his
person, as to seem to depend upon it. And wholly different as was this later
friendship, with its exigency, its warnings, its restraints, from the feverish
attachment to Flavian, which had made him at times like an uneasy slave, still,
like that, it was a reconciliation to the world of sense, the visible world.
From the hopefulness o f this gracious presence, all visible things around
him, even the commonest objects of everyday life—if they but stood together to
warm their hands at the same fire—took for him a new poetry, a delicate fresh
bloom, and interest. It was as if his bodily eyes had been indeed mystically
washed, renewed, strengthened. And how eagerly, with what a light heart,
would Flavian have taken his placein the amphitheatre, among the youth of his
own age! with what an appetite for every detail of the entertainment, and its
various accessories:—the sunshine, filtered into soft gold by the vela, with
their serpentine patterning, spread over the more select part of the company;
the Vestal virgins, taking their privilege of seats near the empress Faustina,
who sat there in a maze of double-coloured gems, changing, as she moved, like
the waves of the sea; the cool circle of shadow, in which the wonderful toilets
of the fashionable told so effectively around the blazing arena, covered again
and again during the many hours’ show, with clean sand for the absorption of
certain great red patches there, by troops of white-shirted boys, for whom the
good-natured audience provided a scramble of nuts and small coin, flung to them
over a trellis-work of silver-gilt and amber, precious gift of Nero, while a
rain of flowers and perfume fell over themselves, as they paused between the
parts of their long feast upon the spectacle of animal suffering. During
his sojourn at Ephesus, Lucius Verus had readily become a patron, patron or
protégé, of the great goddess of Ephesus, the goddess of hunters; and the show,
celebrated by way of a compliment to him to-day, was to present some incidents
of her story, where she figures almost as the genius of madness, in animals, or
in the humanity which comes in contact with them. The entertainment would have
an element of old Greek revival in it, welcome to the taste of a learned and
Hellenising society; and, as Lucius Verus was in some sense a lover of animals,
was to be a display of animals mainly. There would be real wild and domestic
creatures, all of rare species; and a real slaughter. On so happy an occasion,
it was hoped, the elder emperor might even concede a point, and a living
criminal fall into the jaws of the wild beasts. And the spectacle was,
certainly, to end in the destruction, by one mighty shower of arrows, of a
hundred lions, “nobly” provided by Aurelius himself for the amusement of his
people.—Tam magnanimus fuit! The arena, decked and in order for the first
scene, looked delightfully fresh, re-inforcing on the spirits of the audience
the actual freshness of the morning, which at this season still brought the
dew. Along the subterranean ways that led up to it, the sound of an advancing
chorus was heard at last, chanting the words of a sacred song, or hymn to
Diana; for the spectacle of the amphitheatre was, after all, a religious
occasion. To its grim acts of blood-shedding a kind of sacrificial character
still belonged in the view of certain religious casuists, tending conveniently
to soothe the humane sensibilities of so pious an emperor as Aurelius, who, in
his fraternal complacency, had consented to preside over the shows.
Artemis or Diana, as she may be understood in the actual development of her
worship, was, indeed, the symbolical expression of two allied yet contrasted
elements of human temper and experience—man’s amity, and also his enmity, towards
the wild creatures, when they were still, in a certain sense, his brothers. She
is the complete, and therefore highly complex, representative of a state, in
which man was still much occupied with animals, not as his flock, or as his
servants after the pastoral relationship of our later, orderly world, but
rather as his equals, on friendly terms or the reverse,—a state full of
primeval sympathies and antipathies, of rivalries and common wants—while he
watched, and could enter into, the humours of those “younger brothers,” with an
intimacy, the “survivals” of which in a later age seem often to have had a kind
of madness about them. Diana represents alike the bright and the dark side of
such relationship. But the humanities of that relationship were all forgotten
to-day in the excitement of a show, in which mere cruelty to animals, their
useless suffering and death, formed the main point of interest. People watched
their destruction, batch after batch, in a not particularly inventive fashion;
though it was expected that the animals themselves, as living creatures are apt
to do when hard put to it, would become inventive, and make up, by the
fantastic accidents of their agony, for the deficiencies of an age fallen
behind in this matter of manly amusement. It was as a Deity of Slaughter—the
Taurian goddess who demands the sacrifice of the shipwrecked sailors thrown on
her coasts—the cruel, moonstruck huntress, who brings not only sudden death,
but rabies, among the wild creatures that Diana was to be presented, in the
person of a famous courtesan. The aim at an actual theatrical illusion, after
the first introductory scene, was frankly surrendered to the display of the
animals, artificially stimulated and maddened to attack each other. And as
Diana was also a special protectress of new-born creatures, there would be a
certain curious interest in the dexterously contrived escape of the young from
their mother’s torn bosoms; as many pregnant animals as possible being
carefully selected for the purpose. The time had been, and was to come
again, when the pleasures of the amphitheatre centered in a similar practical
joking upon human beings. What more ingenious diversion had stage manager ever
contrived than that incident, itself a practical epigram never to be forgottten,
when a criminal, who, like slaves and animals, had no rights, was compelled to
present the part of Icarus; and, the wings failing him in due course, had
fallen into a pack of hungry bears? For the long shows of the amphitheatre
were, so to speak, the novel-reading of that age—a current help provided for
sluggish imaginations, in regard, for instance, to grisly accidents, such as
might happen to one’s self; but with every facility for comfortable inspection.
Scaevola might watch his own hand, consuming, crackling, in the fire, in the
person of a culprit, willing to redeem his life by an act so delightful to the
eyes, the very ears, of a curious public. If the part of Marsyas was called
for, there was a criminal condemned to lose his skin. It might be almost
edifying to study minutely the expression of his face, while the assistants
corded and pegged him to the bench, cunningly; the servant of the law waiting
by, who, after one short cut with his knife, would slip the man’s leg from his
skin, as neatly as if it were a stocking—a finesse in providing the due amount
of suffering for wrong-doers only brought to its height in Nero’s living
bonfires. But then, by making his suffering ridiculous, you enlist against the
sufferer, some real, and all would-be manliness, and do much to stifle any
false sentiment of compassion. The philosophic emperor, having no great taste
for sport, and asserting here a personal scruple, had greatly changed all that;
had provided that nets should be spread under the dancers on the tight-rope,
and buttons for the swords of the gladiators. But the gladiators were still
there. Their bloody contests had, under the form of a popular amusement, the
efficacy of a human sacrifice; as, indeed, the whole system of the public shows
was understood to possess a religious import. Just at this point, certainly,
the judgment of Lucretius on pagan religion is without reproach— Tantum
religio potuit suadere malorum. And Marius, weary and indignant,
feeling isolated in the great slaughter-house, could not but observe that, in
his habitual complaisance to Lucius Verus, who, with loud shouts of applause
from time to time, lounged beside him, Aurelius had sat impassibly through all
the hours Marius himself had remained there. For the most part indeed, the
emperor had actually averted his eyes from the show, reading, or writing on
matters of public business, but had seemed, after all, indifferent. He was
revolving, perhaps, that old Stoic paradox of the Imperceptibility of pain;
which might serve as an excuse, should those savage popular humours ever again
turn against men and women. Marius remembered well his very attitude and
expression on this day, when, a few years later, certain things came to pass in
Gaul, under his full authority; and that attitude and expression defined
already, even thus early in their so friendly intercourse, and though he was
still full of gratitude for his interest, a permanent point of difference
between the emperor and himself—between himself, with all the convictions of
his life taking centre to-day in his merciful, angry heart, and Aurelius, as
representing all the light, all the apprehensive power there might be in pagan
intellect. There was something in a tolerance such as this, in the bare fact
that he could sit patiently through a scene like this, which seemed to Marius
to mark Aurelius as his inferior now and for ever on the question of
righteousness; to set them on opposite sides, in some great conflict, of which
that difference was but a single presentment. Due, in whatever proportions, to
the abstract principles he had formulated for himself, or in spite of them,
there was the loyal conscience within him, deciding, judging himself and every
one else, with a wonderful sort of authority:—You ought, methinks, to be something
quite different from what you are; here! and here! Surely Aurelius must be
lacking in that decisive conscience at first sight, of the intimations of which
Marius could entertain no doubt—which he looked for in others. He at least, the
humble follower of the bodily eye, was aware of a crisis in life, in this
brief, obscure existence, a fierce opposition of real good and real evil around
him, the issues of which he must by no means compromise or confuse; of the
antagonisms of which the “wise” Marcus Aurelius was unaware. That long
chapter of the cruelty of the Roman public shows may, perhaps, leave with the
children of the modern world a feeling of self-complacency. Yet it might seem
well to ask ourselves—it is always well to do so, when we read of the
slave-trade, for instance, or of great religious persecutions on this side or
on that, or of anything else which raises in us the question, “Is thy servant a
dog, that he should do this thing?”—not merely, what germs of feeling we may
entertain which, under fitting circumstances, would induce us to the like; but,
even more practically, what thoughts, what sort of considerations, may be
actually present to our minds such as might have furnished us, living in
another age, and in the midst of those legal crimes, with plausible excuses for
them: each age in turn, perhaps, having its own peculiar point of blindness,
with its consequent peculiar sin—the touch-stone of an unfailing conscience in
the select few. Those cruel amusements were, certainly, the sin of blindness,
of deadness and stupidity, in the age of Marius; and his light had not failed
him regarding it. Yes! what was needed was the heart that would make it
impossible to witness all this; and the future would be with the forces that
could beget a heart like that. His chosen philosophy had said,—Trust the eye:
Strive to be right always in regard to the concrete experience: Beware of
falsifying your impressions. And its sanction had at least been effective here,
in protesting—“This, and this, is what you may not look upon!” Surely evil was
a real thing, and the wise man wanting in the sense of it, where, not to have
been, by instinctive election, on the right side, was to have failed in
life. The very finest flower of the same company Aurelius with the
gilded fasces borne before him, a crowd of exquisites, the empress
Faustina her- self, and all the elegant blue -stockings of the day,
who maintained, people said, their private " sophists " to
whisper philosophy into their ears winsomely as they performed the duties
of the toilet was assembled again a few months later, in a
different place and for a very different purpose. The temple of Peace, a
" modernis- ing" foundation of Hadrian, enlarged by a library
and lecture-rooms, had grown into an institution like something between a
college and a literary club ; and here Cornelius Pronto was to
pronounce a discourse on the Nature of Morals. There were some, indeed,
who had desired the emperor Aurelius himself to declare his whole
mind on this matter. Rhetoric was become almost a function of the state :
philosophy was upon the throne ; and had from time to time,
by request, delivered an official utterance with well- nigh divine
authority. And it was as the delegate of this authority, under the full
sanction of the philosophic emperor emperor and pontiff, that the
aged Pronto purposed to-day to expound some parts of the Stoic doctrine,
with the view of recommending morals to that refined but perhaps
prejudiced company, as being, in effect, one mode of comeliness in things
as it were music, or a kind of artistic order, in life. And he did
this earnestly, with an outlay of all his science of mind, and that
eloquence of which he was known to be a master. For Stoicism was no
longer a rude a nd unkempt thing. Received at court, it had largely
decorated itself: it was grown persuasive and insinuating, and sought
not only to convince men's intelligence but to allure their souls.
Associated with the beautiful old age of the great rhetorician, and his
winning voice, it was almost Epicurean. And the old man was at his
best on the occasion ; the last on which he ever appeared in this way. To-day
was his own birthday. Early in the morning the imperial letter of
congratulation had reached him ; and all the pleasant animation it had
caused was in his face, when assisted by his daughter Gratia he
took his place on the ivory chair, as president of the Athenaeum of Rome,
wearing with a wonderful grace the philosophic pall, in reality
neither more nor less than the loose woollen cloak of the common soldier,
but fastened on his right shoulder with a magnificent clasp, the
emperor's birthday gift. It was an age, as abundant evidence
shows, whose delight in rhetoric was but one result of a general
susceptibility an age not merely taking pleasure in words, but
experiencing a great moral power in them. Fronto's quaintly
fashionable audience would have wept, and also assisted with their
purses, had his present purpose been, as sometimes happened, the
recommendation of an object of charity. As it was, arranging them-
selves at their ease among the images and flowers, these amateurs of
exquisite language, with their tablets open for careful record of
felicitous word or phrase, were ready to give themselves wholly to
the intellectual treat prepared for them, applauding, blowing loud kisses
through the air sometimes, at the speaker's triumphant exit from
one of his long, skilfully modulated sentences ; while the younger of
them meant to imitate everything about him, down to the inflections
of his voice and the very folds of his mantle. Certainly there was
rhetoric enough : a wealth of imagery ; illustrations from painting,
music, mythology, the experiences of love ; a manage- ment, by
which subtle, unexpected meaning was brought out of familiar terms, like
flies from morsels of amber, to use Fronto's own figure. But with
all its richness, the higher claim of his style was rightly understood to
lie in gravity and self-command, and an especial care for
the purities of a vocabulary which rejected every expression
unsanctioned by the authority of approved ancient models. And
it happened with Marius, as it will sometimes happen, that this general
discourse to a general audience had the effect of an utterance
adroitly designed for him. His conscience still vibrating painfully under
the shock of that scene in the amphitheatre, and full of the
ethical charm of Cornelius, he was questioning himself with much
impatience as to the possibility of an adjustment between his own
elaborately thought- / out intellectual scheme and the " old
morality." In that intellectual scheme indeed the old morality
had so far been allowed no place, as seeming to demand from him the
admission of certain first principles such as might misdirect or
retard him in his efforts towards a complete, many-sided existence ; or
distort the revelations of the experience of life ; or curtail his
natural liberty of heart and mind. But now (his imagination being
occupied for the moment with the noble and resolute air, the gallantry,
so to call it, which composed the outward mien and presentment of
his strange friend's inflexible ethics) he felt already some nascent
suspicion of his philosophic programme, in regard, precisely, to
the question of good taste. There was the taint of a graceless "
antinomianism " perceptible in it, a dissidence, a revolt against
accustomed modes, the actual impression of which on other men might
rebound upon himself in some loss of that personal pride to which it was
part of his theory of life to allow so much. And it was exactly a
moral situation such as this that Pronto appeared to be contemplating. He
seemed to have before his mind the case of one Cyrenaic or
Epicurean, as the courtier tends to be, by habit and instinct, if not on
principle who yet experiences, actually, a strong tendency to moral
assents, and a desire, with as little logical incon- sistency as may be,
to find a place for duty and righteousness in his house of thought.
And the Stoic professor found the key to this problem in the purely
aesthetic beauty of the old morality, as an element in things,
fascinating to the imagination, to good taste in its most highly
developed form, through association a system or order, as a matter of
fact, in possession, not only of the larger world, but of the rare
minority of elite intelligences ; from which, therefore, least of
all would the sort of Epicurean he had in view endure to become, so to
speak, an outlaw. He supposed his hearer to be, with all sincerity,
in search after some principle of conduct (and it was here that he
seemed to Marius to be speaking straight to him) which might give unity
of motive to an actual rectitude, a cleanness and probity of life,
determined partly by natural affection, partly by enlightened
self-interest or the feeling of honour, due in part even to the
mere fear of penalties ; no element of which, however, was distinctively
moral in the agent himself as such, and providing him, therefore,
no common ground with a really moral being like Cornelius, or even like
the philosophic emperor. Performing the same offices ; actually
satisfying, even as they, the external claims of others ; rendering
to all their dues one thus circum- stanced would be wanting,
nevertheless, in the secret of inward adjustment to the moral
agents around him. How tenderly more tenderly than many stricter
souls he might yield himself to kindly instinct ! what fineness of
charity in passing judgment on others ! what an exquisite
conscience of other men's susceptibilities ! He knows for how much the
manner, because the heart itself, counts, in doing a kindness. He
goes beyond most people in his care for all weakly creatures ; judging,
instinctively, that to be but sentient is to possess rights. He
con- ceives a hundred duties, though he may not call them by that
name, of the existence of which purely duteous souls may have no
suspicion. He has a kind of pride in doing more than they, in a way
of his own. Sometimes, he may think that those men of line and rule do
not really under- stand their own business. How narrow, inflex-
ible, unintelligent ! what poor guardians (he may reason) of the inward
spirit of righteousness, are some supposed careful walkers according to
its letter and form. And yet all the while he admits, as such, no
moral world at all : no theoretic equivalent to so large a
proportion of the facts of life. But, over and above such
practical rectitude, thus determined by natural affection or
self-love or fear, he may notice that there is a rem- nant of right
conduct, what he does, still more what he abstains from doing, not so
much through his own free election, as from a defer- ence, an
" assent," entire, habitual, unconscious, to custom to the
actual habit or fashion of others, from whom he could not endure to
break away, any more than he would care to be out of agreement with them
on questions of mere manner, or, say, even, of dress. Yes ! there
were the evils, the vices, which he avoided as, essentially, a failure in
good taste. An assent, such as this, to the preferences of others,
might seem to be the weakest of motives, and the rectitude it could
determine the least consider- able element in a moral life. Yet here,
accord- ing to Cornelius Pronto, was in truth the revealing
example, albeit operating upon com- parative trifles, of the general
principle required. There was one great idea associated with which
that determination to conform to precedent was elevated into the
clearest, the fullest, the weightiest principle of moral action ; a
principle under which one might subsume men's most strenuous
efforts after righteousness. And he proceeded to expound the idea of
Humanity of a universal commonwealth of mind, which becomes
explicit, and as if incarnate, in a select communion of just men made
perfect. 'O Koo-fjios axravel 7ro\t9 <rrw the world is as
it were a commonwealth, a city : and there are observances,
customs, usages, actually current in it, things our friends and
companions will expect of us, as the condition of our living there
with them at all, as really their peers or fellow- citizens. Those
observances were, indeed, the creation of a visible or invisible
aristocracy in it, whose actual manners, whose preferences from of
old, become now a weighty tradition as to the way in which things should
or should not be done, are like a music, to which the intercourse
of life proceeds such a music as no one who had once caught its
harmonies would willingly jar. In this way, the becoming, as in
Greek TO irpiirov : or T^ rj#?7, mores, manners, as both Greeks and
Romans said, would indeed be a comprehensive term for duty.
Righteous- ness would be, in the words of " Caesar "
himself, of the philosophic Aurelius, but a " following of the
reasonable will of the oldest, the most venerable, of cities, of polities
of the royal, the law-giving element, therein forasmuch as we are
citizens also in that supreme city on high, of which all other cities
beside are but as single habitations." But as the old man spoke
with animation of this supreme city, this invisible society, whose
conscience was become explicit in its inner circle of inspired souls, of
whose common spirit, the trusted leaders of human conscience had
been but the mouthpiece, of whose successive personal preferences in
the conduct of life, the " old morality " was the sum,
Marius felt that his own thoughts were pass- ing beyond the actual
intention of the speaker ; not in the direction of any clearer theoretic
or abstract definition of that ideal commonwealth, but rather as if
in search of its visible locality and abiding-place, the walls and towers
of which, so to speak, he might really trace and tell, according to
his own old, natural habit of mind. ^ It would be the fabric, the outward
fabric, of a system reaching, certainly, far beyond the great city
around him, even if conceived in all the machinery of its visible and
invisible influences at their grandest as Augustus or Trajan might
have conceived of them however well the visible Rome might pass for a
figure of that new, unseen, Rome on high. At moments, Marius even
asked himself with surprise, whether it might be some vast secret
society the speaker had in view : that august community, to be an outlaw
from which, to be foreign to the manners of which, was a loss so
much greater than to be excluded, into the ends of the earth, from the
sovereign Roman common- wealth. Humanity, a universal order, the
great polity, its aristocracy of elect spirits, the mastery of
their example over their successors these were the ideas, stimulating
enough in their way, by association with which the Stoic professor
had attempted to elevate, to unite under a single principle, men's
moral efforts, himself lifted up with so genuine an enthusiasm. But
where might Marius search for all this, as more than an intellectual
abstraction ? Where were those elect souls in whom the claim of
Humanity became so amiable, winning, persuasive whose footsteps
through the world were so beautiful in the actual order he saw whose
faces averted from him, would be more than he could bear ? Where
was that comely order, to which as a great fact of experience he must
give its due ; to which, as to all other beautiful " phenomena
" in life, he must, for his own peace, adjust himself ?
Rome did well to be serious. The discourse ended somewhat abruptly,
as the noise of a great crowd in motion was heard below the walls ;
whereupon, the audience, following the humour of the younger element in
it, poured into the colonnade, from the steps of which the famous
procession, or transvectio y of the military knights was to be seen
passing over the Forum, from their trysting-place at the temple of Mars,
to the temple of the Dioscuri. The ceremony took place this year,
not on the day accustomed- anniversary of the victory of Lake
Regillus, with its pair of celestial assistants and amid the heat
and roses of a Roman July, but, by anticipation, some months earlier, the
almond- trees along the way being still in leafless flower. Through
that light trellis-work, Marius watched the riders, arrayed in all their
gleaming orna- ments, and wearing wreaths of olive around their
helmets, the faces below which, what with battle and the plague, were
almost all youthful. It was a flowery scene enough, but had to-day
its fulness of war-like meaning ; the return of the army to the North,
where the enemy was again upon the move, being now imminent.
Cornelius had ridden along in his place, and, on the dismissal of the
company, passed below the steps where Marius stood, with | that new
song he had heard once before floating from his lips. And Marius,
for his part, was grave enough. The discourse of Cornelius Pronto, with
its wide prospect over the human, the spiritual, horizon, had set
him on a review on a review of the isolating narrowness, in particular,
of his own theoretic scheme. Long after the very latest roses were
faded, when " the town " had departed to country villas, or the
baths, or the war, he remained behind in Rome ; anxious to try the
lastingness of his own Epicurean rose- garden ; setting to work over
again, and deliberately passing from point to point of his old
argument with himself, down to its practical conclusions. That age and
our own have much in common many difficulties and hopes. Let the
reader pardon me if here and there I seem to be passing from Marius to
his modern representa- tives from Rome, to Paris or London.
What really were its claims as a theory of practice, of the
sympathies that determine practice ? It had been a theory, avowedly,
of loss and gain (so to call it) of an economy. If, therefore, it
missed something in the commerce of life, which some other theory of
practice was able to include, if it made a needless sacrifice, then
it must be, in a manner, inconsistent with itself, and lack theoretic
completeness. Did it make such a sacrifice ? What did it lose, or
cause one to lose ? And we may note, as Marius could hardly
have done, that Cyrenaicism is ever the char- acteristic philosophy of
youth, ardent, but narrow in its survey sincere, but apt to become
one- sided, or even fanatical. It is one of those sub- jective and
partial ideals, based on vivid, because limited, apprehension of the
truth of one aspect of experience (in this case, of the beauty of
the world and the brevity of man's life there) which it may be said
to be the special vocation of the young to express. In the school of
Cyrene, in that comparatively fresh Greek world, we see this
philosophy where it is least blase^ as we say , in its most pleasant, its
blithest and yet perhaps its wisest form, youthfully bright in the youth
of European thought. But it grows young again for a while in almost
every youthful soul. It is spoken of sometimes as the appropriate
utterance of jaded men ; but in them it can hardly be sincere, or,
by the nature of the case, an enthusi- asm. " Walk in the ways of
thine heart, and in the sight of thine eyes," is, indeed, most
often, according to the supposition of the book from which I quote
it, the counsel of the young, who feel that the sunshine is pleasant
along their veins, and wintry weather, though in a general sense
foreseen, a long way off. The youthful enthusi- asm or fanaticism, the
self-abandonment to one favourite mode of thought or taste, which occurs,
quite naturally, at the outset of every really vigorous intellectual
career, finds its special opportunity in a theory such as that so
carefully put together by Marius, just because it seems to call on
one to make the sacrifice, accompanied by a vivid sensation of power and
will, of what others value sacrifice of some conviction, or
doctrine, or supposed first principle for the sake of that clear-eyed
intellectual consistency, which is like spotless bodily cleanliness, or
scrupulous personal honour, and has itself for the mind of the
youthful student, when he first comes to appreciate it, the fascination
of an ideal. The Cyrenaic doctrine, then, realised as a
motive of strenuousness or enthusiasm, is not so properly the utterance
of the u jaded Epicurean," as of the strong young man in all the
freshness of thought and feeling, fascinated by the notion of
raising his life to the level of a daring theory, while, in the first
genial heat of existence, the beauty of the physical world strikes
potently upon his wide-open, unwearied senses. He discovers a great
new poem every spring, with a hundred delightful things he too has felt,
but which have never been expressed, or at least never so truly,
before. The workshops of the artists, who can select and set before us
what is really most distinguished in visible life, are open to him.
He thinks that the old Platonic, or the new Baconian philosophy, has been
better explained than by the authors themselves, or with some
striking original development, this very month. In the quiet heat of
early summer, on the dusty gold morning, the music comes, louder at
intervals, above the hum of voices from some neighbouring church, among
the flowering trees, valued now, perhaps, only for the poetically
rapt faces among priests or wor- shippers, or the mere skill and
eloquence, it may be, of its preachers of faith and righteousness.
In his scrupulous idealism, indeed, he too feels himself to be something
of a priest, and that devotion of his days to the contemplation of
what is beautiful, a sort of perpetual religious service. Afar off, how
many fair cities and delicate sea-coasts await him ! At that age,
with minds of a certain constitution, no very choice or exceptional
circumstances are needed to provoke an enthusiasm something like
this. Life in modern London even, in the heavy glow of summer, is
stuff sufficient for the fresh imagination of a youth to build its "
palace of art" of; and the very sense and enjoyment of an
experience in which all is new, are but en- hanced, like that glow of
summer itself, by the thought of its brevity, giving him something
of a gambler's zest, in the apprehension, by dex- terous act or
diligently appreciative thought, of the highly coloured moments which are
to pass away so quickly. At bottom, perhaps, in his elaborately
developed self-consciousness, his sensibilities, his almost fierce grasp
upon the things he values at all, he has, beyond all others, an
inward need of something permanent in its character, to hold by : of
which circumstance, also, he may be partly aware, and that, as with
the brilliant Claudio in Measure for Measure -, it is, in truth, but
darkness he is, " encountering, like a bride." But the
inevitable falling of the curtain is probably distant ; and in the
daylight, at least, it is not often that he really shudders at the
thought of the grave the weight above, the narrow world and its company,
within. When the thought of it does occur to him, he may say to
himself: Well ! and the rude monk, for instance, who has renounced all
this, on the security of some dim world beyond it, really
acquiesces in that " fifth act," amid all the consoling
ministries around him, as little as I should at this moment ; though I
may hope, that, as at the real ending of a play, however well
acted, I may already have had quite enough of it, and find a true
well-being in eternal sleep. And precisely in this circumstance,
that, consistently with the function of youth in general,
Cyrenaicism will always be more or less the special philosophy, or
"prophecy," of the young, when the ideal of a rich
experience comes to them in the ripeness of the receptive, if not
of the reflective, powers precisely in this circumstance, if we rightly
consider it, lies the duly prescribed corrective of that
philosophy. For it is by its exclusiveness, and by negation rather
than positively, that such theories fail to satisfy us permanently ; and
what they really need for their correction, is the complementary
influence of some greater system, in which they may find their due place.
That Sturm und Drang of the spirit, as it has been called, that
ardent and special apprehension of half-truths, in the enthusiastic, and
as it were " prophetic " advocacy of which, devotion to truth,
in the case of the young apprehending but one point at a time in
the great circumference most usually embodies itself, is levelled down,
safely enough, afterwards, as in history so in the individual, by
the weakness and mere weariness, as well as by the maturer wisdom, of our
nature. And though truth indeed, resides, as has been said, "
in the whole " in harmonisings and adjust- ments like this yet those
special apprehen- sions may still owe their full value, in this
sense of " the whole," to that earlier, one-sided but
ardent pre-occupation with them. Cynicism and Cyrenaicism : they
are the earlier Greek forms of Roman Stoicism and Epicureanism, and
in that world of old Greek thought, we may notice with some surprise
that, in a little while, the nobler form of Cyrenaicism
-Cyrenaicism cured of its faults met the nobler form of Cynicism
half-way. Starting from opposed points, they merged, each in its
most refined form, in a single ideal of temperance or moderation. Something
of the same kind may be noticed regarding some later phases of
Cyrenaic theory. If it starts with considerations opposed to the
religious temper, which the religious temper holds it a duty to repress,
it is like it, nevertheless, and very unlike any lower development
of temper, in its stress and earnest- ness, its serious application to
the pursuit of a very unworldly type of perfection. The saint, and
the Cyrenaic lover of beauty, it may be thought, would at least
understand each other | better than either would understand the
mere 1 man of the world. Carry their respective positions a point
further, shift the terms a little, and they might actually touch.
Perhaps all theories of practice tend, as they rise to their best,
as understood by their worthiest representatives, to identification with
each other. For the variety of men's possible reflections on their
experience, as of that experience itself, is not really so great as it
seems ; and as the highest and most disinterested ethical formula,
filtering down into men's everyday existence, reach the same poor
level of vulgar egotism, so, we may fairly suppose that all the highest
spirits, from whatever contrasted points they have started, would yet
be found to entertain, in the moral consciousness realised by themselves,
much the same kind of mental company ; to hold, far more than might
be thought probable, at first sight, the same personal types of
character, and even the same artistic and literary types, in esteem
or aversion ; to convey, all of them alike, the same savour of
unworldliness. And Cyrenaicism or Epicureanism too, new or old, may be
noticed, in proportion to the completeness of its develop- ment, to
approach, as to the nobler form of Cynicism, so also to the more nobly
developed phases of the old, or traditional morality. In the
gravity of its conception of life, in its pursuit after nothing less than
a perfection, in its appre- hension of the value of time the passion
and the seriousness which are like a consecration la passion et le
serieux qui consacrent it may be conceived, as regards its main drift, to
be not so much opposed to the old morality, as an exaggeration of
one special motive in it. Some cramping, narrowing, costly
preference of one part of his own nature, and of the nature of
things, to another, Marius seemed to have detected in himself, meantime,
in himself, as also in those old masters of the Cyrenaic philo- sophy.
If they did realise the povoxpovo? fiSovij, as it was called the pleasure
of the " Ideal Now " if certain moments of their lives were
high- pitched, passionately coloured, intent with sensation, and a kind
of knowledge which, in its vivid clearness, was like sensation if, now and
then, they apprehended the world in its fulness, and had a vision,
almost " beatific," of ideal person- alities in life and art,
yet these moments were a very costly matter: they paid a great
price for them, in the sacrifice of a thousand possible sympathies,
of things only to be enjoyed through sympathy, from which they detached
themselves, in intellectual pride, in loyalty to a mere theory that
would take nothing for granted, and assent to no approximate or
hypothetical truths. In their unfriendly, repellent attitude towards
the Greek religion, and the old Greek morality, surely, they had
been but faulty economists. The Greek religion was then alive : then,
still more than in its later day of dissolution, the higher view of
it was possible, even for the philosopher. Its story made little or no
demand for a reasoned or formal acceptance. A religion, which had
grown through and through man's life, with so much natural strength ; had
meant so much for so many generations ; which ex- pressed so much
of their hopes, in forms so familiar and so winning ; linked by
associations so manifold to man as he had been and was a religion
like this, one would think, might have had its uses, even for a
philosophic sceptic. Yet those beautiful gods, with the whole round
of their poetic worship, the school of Cyrene definitely
renounced. The old Greek morality, again, with all its
imperfections, was certainly a comely thing. Yes ! a harmony, a music, in
men's ways, one might well hesitate to jar. The merely aesthetic
sense might have had a legitimate satisfaction in the spectacle of that
fair order of choice manners, in those attractive conventions,
enveloping, so gracefully, the whole of life, insuring some sweetness,
some security at least against offence, in the intercourse of the world.
Beyond an obvious utility, it could claim, indeed but custom use
-and -wont, as we say for its sanction. But then, one of the advantages
of that liberty of spirit among the Cyrenaics (in which, through
theory, they had become dead to theory, so that all theory, as such, was
really indifferent to them, and indeed nothing valuable but in its
tangible ministration to life) was precisely this, that it gave
them free play in using as their ministers or servants, things which, to
the uninitiated, must be masters or nothing. Yet, how little the
followers of Aristippus made of that whole comely system of manners or
morals, then actually in possession of life, is shown by the bold
practical consequence, which one of them main- tained (with a hard,
self-opinionated adherence to his peculiar theory of values) in the not
very amiable paradox that friendship and patriotism were things one
could do without ; while another Deaths-advocate^ as he was called
helped so many to self-destruction, by his pessimistic eloquence on the
evils of life, that his lecture-room was closed. That this was in
the range of their consequences that this was a possible, if
remote, deduction from the premisses of the discreet Aristippus was
surely an incon- sistency in a thinker who professed above all
things an economy of the moments of life. And yet those old Cyrenaics
felt their way, as if in the dark, we may be sure, like other men in the
ordinary transactions of life, beyond the narrow limits they drew of
clear and absolutely legitimate knowledge, admitting what was not of
immediate sensation, and drawing upon that " fantastic "
future which might never come. A little more of such "walking by
faith/' a little more of such not unreasonable " assent," and
they might have profited by a hundred services to their culture,
from Greek religion and Greek morality, as they actually were. The
spectacle of their fierce, exclusive, tenacious hold on their own
narrow apprehension, makes one think of a picture with no relief,
no soft shadows nor breadth of space, or of a drama without proportionate
repose. Yet it was of perfection that Marius (to return to
him again from his masters, his intellectual heirs) had been really
thinking all the time : a narrow perfection it might be objected,
the perfection of but one part of his nature his capacities of
feeling, of exquisite physical im- pressions, of an imaginative sympathy
but still, a true perfection of those capacities, wrought out to
their utmost degree, admirable enough in its way. He too is an economist
: he hopes, by that " insight " of which the old Cyrenaics
made so much, by skilful apprehension of the condi- tions of
spiritual success as they really are, the special circumstances of the
occasion with which he has to deal, the special felicities of his
own nature, to make the most, in no mean or vulgar sense, of the
few years of life ; few, indeed, for the attainment of anything like
general perfec- tion ! With the brevity of that sum of years his
mind is exceptionally impressed ; and this purpose makes him no frivolous
dilettante^ but graver than other men : his scheme is not that of a
trifler, but rather of one who gives a meaning of his own, yet a very
real one, to those old words Let us work while it is day ! He has a
strong apprehension, also, of the beauty of the visible things around him
; their fading, momentary, graces and attractions. His natural susceptibility
in this direction, enlarged by experience, seems to demand of him an
almost exclusive pre- occupation with the aspects of things ; with
their aesthetic character, as it is called their revelations to the eye
and the imagination : not so much because those aspects of them
yield him the largest amount of enjoy- ment, as because to be occupied,
in this way, with the aesthetic or imaginative side of things, is
to be in real contact with those elements of his own nature, and of
theirs, which, for him at least, are matter of the most real kind of
appre- hension. As other men are concentrated upon truths of
number, for instance, or on business, or it may be on the pleasures of
appetite, so he is wholly bent on living in that full stream of
refined sensation. And in the prosecution of this love of beauty, he
claims an entire personal liberty, liberty of heart and mind, liberty,
above all, from what may seem conventional answers to first
questions. But, without him there is a venerable system of
sentiment and idea, widely extended in time and place, in a kind of
impregnable possession of human life a system, which, like some
other great products of the conjoint efforts of human mind through
many generations, is rich in the world's experience ; so that, in attaching
oneself to it, one lets in a great tide of that experience, and
makes, as it were with a single step, a great experience of one's own,
and with great con- sequent increase to one's sense of colour,
variety, and relief, in the spectacle of men and things. The mere
sense that one belongs to a system an imperial system or organisation
has, in itself, the expanding power of a great experience ; as some
have felt who have been admitted from narrower sects into the communion
of the catholic church ; or as the old Roman citizen felt. It is,
we might fancy, what the coming into possession of a very widely spoken
language might be, with a great literature, which is also the speech of
the people we have to live among. A wonderful order, actually
in possession of / human life ! grown inextricably through and { 7
f through it ; penetrating into its laws, its very language, its
mere habits of decorum, in a thousand half-conscious ways ; yet still
felt to be, in part, an unfulfilled ideal ; and, as such, awaken-
ing hope, and an aim, identical with the one only consistent aspiration
of mankind ! In the apprehension of that, just then, Marius seemed
to have joined company once more with his own old self; to have
overtaken on the road the pilgrim who had come to Rome, with absolute
sincerity, on the search fo r perfection. It defined not so
much a change of practice, as of sympathy a new departure, an expansion,
of sympathy. It in- volved, certainly, some curtailment of his liberty,
in concession to the actual manner, the distinc- tions, the enactments of
that great crowd of admirable spirits, who have elected so, and not
otherwise, in their conduct of life, and are not here to give one, so to
term it, an " indulgence." But then, under the supposition of
their dis- approval, no roses would ever seem worth plucking again.
The authority they exercised was like that of classic taste an influence
so subtle, yet so real, as defining the loyalty of the scholar ; or
of some beautiful and venerable ritual, in which every observance is
become spontaneous and almost mechanical, yet is found, the more
carefully one considers it, to have a reasonable significance and a
natural history. And Marius saw that he would be but an
inconsistent Cyrenaic, mistaken in his estimate of values, of loss and
gain, and untrue to the well- considered economy of life which he had
brought with him to Rome that some drops of the great cup would
fall to the ground if he did not make that concession, if he did but
remain just there. " Many prophets and kings have desired
to see the things which ye see." The enemy on the Danube was,
indeed, but the vanguard of the mighty invading hosts of the fifth
century. Illusively repressed just now, those confused movements along
the northern boundary of the Empire were destined to unite
triumphantly at last, in the barbarism, which, powerless to destroy the
Christian church, was yet to suppress for a time the achieved culture
of the pagan world. The kingdom of Christ was to grow up in a
somewhat false alienation from the light and beauty of the kingdom of
nature, of the natural man, with a partly mistaken tradition
concerning it, and an incapacity, as it might almost seem at times, for
eventual re- conciliation thereto. Meantime Italy had armed itself
once more, in haste, and the imperial brothers set forth for the
Alps. Whatever misgiving the Roman people may have felt
as to the leadership of the younger was unexpectedly set at rest ; though
with some temporary regret for the loss of what had been, after
all, a popular figure on the world's stage. Travelling fraternally in the
same litter with Aurelius, Lucius Verus was struck with sudden and
mysterious disease, and died as he hastened back to Rome. His death awoke
a swarm of sinister rumours, to settle on Lucilla, jealous, it was
said, of Fabia her sister, perhaps of Faustina on Faustina herself, who
had accompanied the imperial progress, and was anxious now to hide
a crime of her own even on the elder brother, who, beforehand with the
treasonable designs of his colleague, should have helped him at
supper to a favourite morsel, cut with a knife poisoned ingeniously
on one side only. Aurelius, certainly, with sincere distress, his long
irritations, so duti- fully concealed or repressed, turning now into
a single feeling of regret for the human creature, carried the
remains back to Rome, and demanded of the Senate a public funeral, with a
decree for the apotheosis^ or canonisation, of the dead. For
three days the body lay in state in the Forum, enclosed in an open coffin
of cedar-wood, on a bed of ivory and gold, in the centre of a sort
of temporary chapel, representing the temple of his patroness Venus
Genetrix. Armed soldiers kept watch around it, while choirs of
select voices relieved one another in the chanting of hymns or
monologues from the great tragedians. At the head of the couch were
displayed the various personal decorations which had belonged to
Verus in life. Like all the rest of Rome, Marius went to gaze on the face
he had seen last scarcely disguised under the hood of a
travelling-dress, as the wearer hurried, at night- fall, along one of the
streets below the palace, to some amorous appointment. Unfamiliar
as he still was with dead faces, he was taken by surprise, and
touched far beyond what he had reckoned on, by the piteous change there ;
even the skill of Galen having been not wholly successful in the
process of embalming. It was as if a brother of his own were lying low
before him, with that meek and helpless expression it would have
been a sacrilege to treat rudely. Meantime, in the centre of the
Campus Martins^ within the grove of poplars which enclosed the
space where the body of Augustus had been burnt, the great funeral pyre,
stuffed with shavings of various aromatic woods, was built up in
many stages, separated from each other by a light entablature of
woodwork, and adorned abundantly with carved and tapestried images.
Upon this pyramidal or flame-shaped structure lay the corpse, hidden now
under a mountain of flowers and incense brought by the women, who
from the first had had their fond- ness for the wanton graces of the
deceased. The dead body was surmounted by a waxen effigy of great
size, arrayed in the triumphal ornaments. At last the Centurions to whom
that office belonged, drew near, torch in hand, to ignite the pile
at its four corners, while the soldiers, in wild excitement, flung
themselves around it, casting into the flames the decorations they
had received for acts of valour under the dead emperor's command.
It had been a really heroic order, spoiled a little, at the last
moment, through the some- what tawdry artifice, by which an eagle
not a very noble or youthful specimen of its kind was caused to
take flight amid the real or affected awe of the spectators, above the
perishing remains; a court chamberlain, according to ancient
etiquette, subsequently making official declaration before the Senate,
that the imperial " genius " had been seen in this way,
escaping from the fire. And Marius was present when the Fathers,
duly certified of the fact, by "acclamation," muttering their
judgment all together, in a kind of low, rhythmical chant, decreed
Gcelum the privilege of divine rank to the departed. The
actual gathering of the ashes in a white cere-cloth by the widowed
Lucilla, when the last flicker had been extinguished by drops of
wine ; and the conveyance of them to the little cell, already populous,
in the central mass of the sepulchre of Hadrian, still in all the
splen- dour of its statued colonnades, were a matter of private or
domestic duty ; after the due accomplishment of which Aurelius was
at liberty to retire for a time into the privacy of his beloved
apartments of the Palatine. And hither, not long afterwards, Marius was
sum- moned a second time, to receive from the imperial hands the
great pile of manuscripts it would be his business to revise and
arrange. One year had passed since his first visit to the
palace ; and as he climbed the stairs to-day, the great cypresses rocked
against the sunless sky, like living creatures in pain. He had to
traverse a long subterranean gallery, once a secret entrance to the
imperial apartments, and in our own day, amid the ruin of all around it,
as smooth and fresh as if the carpets were but just removed from
its floor after the return of the emperor from the shows. It was here, on
such an occasion, that the emperor Caligula, at the age of
twenty-nine, had come by his end, the assassins gliding along it as he
lingered a few moments longer to watch the movements of a party of
noble youths at their exercise in the courtyard below. As Marius waited,
a second time, in that little red room in the house of the chief
chamberlain, curious to look once more upon its painted walls the very
place whither the assassins were said to have turned for refuge
after the murder he could all but see the figure, which in its
surrounding light and darkness seemed to him the most melancholy in
the entire history of Rome. He called to mind the greatness of that
popularity and early promise the stupefying height of irresponsible
power, from which, after all, only men's viler side had been clearly
visible the overthrow of reason the seemingly irredeemable memory ;
and still, above all, the beautiful head in which the noble lines of the
race of Augustus were united to, he knew not what expression of
sensibility and fineness, not theirs, and for the like of which one must
pass onward to the Antonines. Popular hatred had been careful to
destroy its semblance wherever it was to be found ; but one bust, in dark
bronze-like basalt of a wonderful perfection of finish, preserved
in the museum of the Capitol, may have seemed to some visitors there
perhaps the finest extant relic of Roman art. Had the very seal of
empire upon those sombre brows, reflected from his mirror, suggested his
insane attempt upon the liberties, the dignity of men ? " O
humanity ! " he seems to ask, " what hast thou done to me that
I should so despise thee ? " And might not this be indeed the
true meaning of kingship, if the world would have one man to reign
over it ? The like of this : or, some incredible, surely never to be
realised, height of disinterestedness, in a king who should be the
servant of all, quite at the other extreme of the practical dilemma
involved in such a position. Not till some while after his death
had the body been decently interred by the piety of the sisters he had
driven into exile. Fraternity of feeling had been no invariable feature in
the incidents of Roman story. One long Vicus Sceleratus^ from its
first dim foundation in fraternal quarrel on the morrow of a common
deliverance so touching had not almost every step in it some gloomy
memory of unnatural violence ? Romans did well to fancy the
traitress Tarpeia still " green in earth," crowned, enthroned,
at the roots of the Capitoline rock. If in truth the religion of Rome was
every- where in it, like that perfume of the funeral incense still
upon the air, so also was the memory of crime prompted by a
hypocritical cruelty, down to the erring, or not erring, Vesta
calmly buried alive there, only eighty years ago, under Domitian.
It was with a sense of relief that Marius found himself in the
presence of Aurelius, whose gesture of friendly intelligence, as he
entered, raised a smile at the gloomy train of his own thoughts just
then, although since his first visit to the palace a great change
had passed over it. The clear daylight found its way now into empty
rooms. To raise funds for the war, Aurelius, his luxurious brother
being no more, had determined to sell by auction the accumulated
treasures of the im- perial household. The works of art, the dainty
furniture, had been removed, and were now " on view " in the
Forum, to be the delight or dismay, for many weeks to come, of
the large public of those who were curious in these things. In such
wise had Aurelius come to the condition of philosophic detachment
he had affected as a boy, hardly persuaded to wear warm clothing, or to
sleep in more luxurious manner than on the bare floor. But, in his
empty house, the man of mind, who had always made so much of the
pleasures of philosophic contemplation, felt freer in thought than
ever. He had been reading, with less self-reproach than usual, in the
Republic of Plato, those passages which describe the life of the
philosopher-kings like that of hired servants in their own house who,
possessed of the " gold undefiled " of intellectual
vision, forgo so cheerfully all other riches. It was one of his
happy days : one of those rare days, when, almost with none of the
effort, otherwise so constant with him, his thoughts came rich and
full, and converged in a mental view, as exhilarating to him as the
prospect of some wide expanse of landscape to another man's bodily
eye. He seemed to lie readier than was his wont to the imaginative
influence of the philosophic reason to its suggestions of a
possible open country, commencing just where all actual experience leaves
off, but which experience, one's own and not another's, may one day
occupy. In fact, he was seeking strength for himself, in his own way,
before he started for that ambiguous earthly warfare which was to
occupy the remainder of his life. " Ever remember this," he
writes, " that a happy life depends, not on many things &
o\iyi(TTot,<i tceiTai." And to-day, committing himself with a
steady effort of volition to the mere silence of the great empty
apartments, he might be said to have escaped, according to Plato's
promise to those who live closely with philosophy, from the evils of the
world. In his "conversations with himself" Marcus
Aurelius speaks often of that City on high^ of which all other cities are
but single habitations. From him in fact Cornelius Pronto, in his
late discourse, had borrowed the expression ; and he certainly
meant by it more than the whole commonwealth of Rome, in any idealisation
of it, however sublime. Incorporate somehow with the actual city
whose goodly stones were lying beneath his gaze, it was also implicate
in that reasonable constitution of nature, by devout contemplation
of which it is possible for man to associate himself to the consciousness
of God. In that New Rome he had taken up his rest for awhile on
this day, deliberately feeding his thoughts on the better air of it, as
another might have gone for mental renewal to a favourite villa.
" Men seek retirement in country-houses," he writes,
" on the sea-coast, on the mountains ; and you have yourself as much
fondness for such places as another. But there is little proof of
culture therein ; since the privilege is yours of retiring into yourself
whensoever you please, into that little farm of one's own mind, where
a silence so profound may be enjoyed." That it could make
these retreats, was a plain con- sequence of the kingly prerogative of
the mind, its dominion over circumstance, its inherent liberty.
" It is in thy power to think as thou wilt : The essence of things
is in thy thoughts about them : All is opinion, conception : No man
can be hindered by another : What is out- side thy circle of thought is
nothing at all to it ; hold to this, and you are safe : One thing
is needful to live close to the divine genius with- in thee, and
minister thereto worthily." And the first point in this true
ministry, this culture, was to maintain one's soul in a condition of
indifference and calm. How continually had public claims, the claims of
other persons, with their rough angularities of character, broken
in upon him, the shepherd of the flock. But after all he
had at least this privilege he could not part with, of thinking as he
would ; and it was well, now and then, by a conscious effort of will,
to indulge it for a while, under systematic direc- tion. The duty
of thus making discreet, systematic use of the power of imaginative
vision for purposes of spiritual culture, " since the soul
takes colour from its fantasies," is a point he has frequently
insisted on. The influence of these seasonable meditations a
symbol, or sacrament, because an intensified condition, of the soul's own
ordinary and natural life would remain upon it, perhaps for many
days. There were experiences he could not for- get, intuitions beyond
price, he had come by in this way, which were almost like the
breaking of a physical light upon his mind ; as the great Augustus
was said to have seen a mysterious physical splendour, yonder, upon the
summit of the Capitol, where the altar of the Sibyl now stood. With
a prayer, therefore, for inward quiet, for conformity to the divine
reason, he read some select passages of Plato, which bear upon the
harmony of the reason, in all its forms, with itself. "Could there
be Cosmos, that wonderful, reasonable order, in him, and nothing
but disorder in the world without ? " It was from this question he
had passed on to the vision of a reasonable, a divine, order, not in
nature, but in the condition of human affairs that unseen Celestial
City, Uranopolis, Callipolis, Urbs Eeata in which, a consciousness of the
divine will being everywhere realised, there would be, among other
felicitous differences from this lower visible world, no more quite
hopeless death, of men, or children, or of their affections. He had
tried to-day, as never before, to make the most of this vision of a New
Rome, to realise it as distinctly as he could, and, as it were, find
his way along its streets, ere he went down into a world so
irksomely different, to make his practical effort towards it, with a soul
full of compassion for men as they were. However distinct the
mental image might have been to him, with the descent of but one flight
of steps into the market-place below, it must have retreated again,
as if at touch of some malign magic wand, beyond the utmost verge of
the horizon. But it had been actually, in his clearest vision of
it, a confused place, with but a recognisable entry, a tower or fountain,
here or there, and haunted by strange faces, whose novel expression
he, the great physiognomist, could by no means read. Plato, indeed, had
been able to articulate, to see, at least in thought, his ideal
city. But just because Aurelius had passed beyond Plato, in the scope of
the gracious charities he pre-supposed there, he had been unable
really to track his way about it. Ah ! after all, according to Plato
himself, all vision was but reminiscence, and this, his heart's
desire, no place his soul could ever have visited in any region of
the old world's achievements. He had but divined, by a kind of generosity
of spirit, the void place, which another experience than his must
fill. Yet Marius noted the wonderful expression of peace, of
quiet pleasure, on the countenance of Aurelius, as he received from him
the rolls of fine clear manuscript, fancying the thoughts of the
emperor occupied at the moment with the famous prospect towards the Alban
hills, from those lofty windows. The ideas of Stoicism, so precious
to Marcus Aurelius, ideas of large generalisation, have sometimes
induced, in those over whose in- tellects they have had real power, a
coldness of heart. It was the distinction of Aurelius that he was
able to harmonise them with the kindness, one might almost say the
amenities, of a humourist, as also with the popular religion and
its many gods. Those vasty conceptions of the later Greek philosophy had
in them, in truth, the germ of a sort of austerely opinion- ative
"natural theology," and how often has that led to religious
dryness a hard contempt of everything in religion, which touches
the senses, or charms the fancy, or really concerns the affections.
Aurelius had made his own the secret of passing, naturally, and with no
violence to his thought, to and fro, between the richly coloured
and romantic religion of those old gods who had still been human beings,
and a very abstract speculation upon the impassive, I universal soul
that circle whose centre everywhere, the circumference nowhere of
which a series of purely logical necessities had evolved the formula. As
in many another instance, those traditional pieties of the place
and the hour had been derived by him from his mother : frapci rrfc Mrpbs
TO Oeoo-eftes. Puri- fied, as all such religion of concrete time
and place needs to be, by frequent confronting with the ideal of
godhead as revealed to that innate religious sense in the possession of
which Aurelius differed from the people around him, it was the
ground of many a sociability with their simpler souls, and for himself,
certainly, a consolation, whenever the wings of his own soul
flagged in the trying atmosphere of purely intellectual vision. A host of
companions, guides, helpers, about him from of old time, " the
very court and company of heaven," objects for him of personal
reverence and affection the supposed presence of the ancient
popular gods determined the character of much of his daily life, and
might prove the last stay of human nature at its weakest. " In
every time and place," he had said, " it rests with
thyself to use the event of the hour religiously : , at all seasons
worship the gods." And when he said " Worship the gods ! "
he did it, as strenuously as everything else. Yet here again,
how often must he have experienced disillusion, or even some revolt
of feeling, at that contact with coarser natures to which his
religious conclusions exposed him. At the beginning of the year one
hundred and seventy -three public anxiety was as great as ever ;
and as before it brought people's supersti- tion into unreserved play.
For seven days the images of the old gods, and some of the graver
new ones, lay solemnly exposed in the open air, arrayed in all their
ornaments, each in his separate resting-place, amid lights and
burning incense, while the crowd, following the imperial example,
daily visited them, with offerings of flowers to this or that particular
divinity, according to the devotion of each. But
supplementing these older official observ- ances, the very wildest gods
had their share of worship, strange creatures with strange secrets
startled abroad into open daylight. The deliri- ous sort of religion of
which Marius was a spectator in the streets of Rome, during the
seven days of the Lectisternium, reminded him now and again of an
observation of Apuleius : it was " as if the presence of the gods
did not do men good, but disordered or weakened them." Some
jaded women of fashion, especi- ally, found in certain oriental
devotions, at once relief for their religiously tearful souls and
an opportunity for personal display ; preferring this or that
"mystery," chiefly because the attire required in it was
suitable to their peculiar manner of beauty. And one morning
Marius encountered an extraordinary crimson object, borne in a
litter through an excited crowd -the famous courtesan Benedicta, still
fresh from the bath of blood, to which she had submitted herself,
sitting below the scaffold where the victims provided for that
purpose were slaughtered by the priests. Even on the last day of
the solemnity, when the emperor himself performed one of the oldest ceremonies
of the Roman religion, this fantastic piety had asserted itself. There
were victims enough certainly, brought from the choice pastures of
the Sabine mountains, and conducted around the city they were to die for,
in almost con- tinuous procession, covered with flowers and
well-nigh worried to death before the time by the crowds of people
superstitiously pressing to touch them. But certain old-fashioned
Romans, in these exceptional circumstances, demanded something more than
this, in the way of a human sacrifice after the ancient pattern ;
as when, not so long since, some Greeks or Gauls had been buried alive in
the Forum. At least, human blood should be shed ; and it was
through a wild multitude of fanatics, cutting their flesh with knives
and whips and licking up ardently the crimson stream, that the
emperor repaired to the temple of Bellona, and in solemn symbolic act
cast the bloodstained spear, or " dart," carefully pre-
served there, towards the enemy's country towards that unknown world of
German homes, still warm, as some believed under the faint northern
twilight, with those innocent affections of which Romans had lost the
sense. And this at least was clear, amid all doubts of abstract
right or wrong on either side, that the ruin of those homes was involved
in what Aurelius was then preparing for, with, Yes ! the gods be
thanked for that achievement of an invigorat- ing philosophy ! almost
with a light heart. For, in truth, that departure, really so
difficult to him, for which Marcus Aurelius had needed to brace himself
so strenuously, came to test the power of a long-studied theory of
practice ; and it was the development of this theory a theoria^ literally
a view, an intuition, of the most important facts, and still more
im- portant possibilities, concerning man in the world, that Marius
now discovered, almost as if by accident, below the dry surface of
the manuscripts entrusted to him. The great purple rolls contained,
first of all, statistics, a general historical account of the writer's
own time, and an exact diary ; all alike, though in three different
degrees of nearness to the writer's own personal experience, laborious,
formal, self- suppressing. This was for the instruction of the
public ; and part of it has, perhaps, found its way into the Augustan
Histories. But it was for the especial guidance of his son Commodus
that he had permitted himself to break out, here and there, into
reflections upon what was pass- ing, into conversations with the reader.
And then, as though he were put off his guard in this way, there
had escaped into the heavy matter-of-fact, of which the main portion
was composed, morsels of his conversation with him- self. It was
the romance of a soul (to be traced only in hints, wayside notes,
quotations from older masters), as it were in lifelong, and often
baffled search after some vanished or elusive golden fleece, or
Hesperidean fruit-trees, or some mysterious light of doctrine, ever
retreat- ing before him. A man, he had seemed to Marius from the
first, of two lives, as we say. Of what nature, he had sometimes
wondered, on the day, for instance, when he had inter- rupted the
emperor's musings in the empty palace, might be that placid inward guest
or inhabitant, who from amid the pre-occupations of the man of
practical affairs looked out, as if surprised, at the things and faces
around. Here, then, under the tame surface of what was meant for a
life of business, Marius dis- covered, welcoming a brother, the
spontaneous self-revelation of a soul as delicate as his own, a
soul for which conversation with itself was a necessity of existence.
Marius, indeed, had always suspected that the sense of such
necessity was a peculiarity of his. But here, certainly, was
another, in this respect like himself; and again he seemed to detect the
advent of some new or changed spirit into the world, mystic, inward,
hardly to be satisfied with that wholly external and objective habit of
life, which had been sufficient for the old classic soul. His
purely literary curiosity was greatly stimulated by this example of a
book of self-portraiture. It was in fact the position of the modern
essayist, creature of efforts rather than of achievements, in the matter
of apprehending truth, but at least conscious of lights by the way,
which he must needs record, acknowledge. What seemed to underlie that
position was the desire to make the most of every experience that
might come, outwardly or from within : to perpetuate, to display, what
was so fleeting, f in a kind of instinctive, pathetic protest
against the imperial writer's own theory that theory of the "
perpetual flux " of all things to Marius himself, so plausible from
of old. There was, besides, a special moral or doctrinal
significance in the making of such conversation with one's self at all.
The Logos, the reasonable spark, in man, is common to him with the
gods KOWO? at 77/309 roi>$ 0eov9 cum diis communis. That might seem
but the truism of a certain school of philosophy ; but in Aurelius
was clearly an original and lively ap- prehension. There could be no
inward conver- sation with one's self such as this, unless there
were indeed some one else, aware of our actual thoughts and feelings,
pleased or displeased at one's disposition of one's self. Cornelius
Front* too could enounce that theory of the reasonable community
between men and God, in many different ways. But then, he was a
cheerful man, and Aurelius a singularly sad one ; and what to
Pronto was but a doctrine, or a motive of mere rhetoric, was to the other
a consolation. He walks and talks, for a spiritual refreshment
lacking which he would faint by the way, with what to the learned
professor is but matter of philosophic eloquence. In performing
his public religious functions Marcus Aurelius had ever seemed like one
who took part in some great process, a great thing really done,
with more than the actually visible assistants about him. Here, in these
manu- scripts, in a hundred marginal flowers of thought or
language, in happy new phrases of his own like the impromptus of an
actual conversation, in quotations from other older masters of the
inward life, taking new significance from the chances of such
intercourse, was the record of his communion with that eternal reason,
which was also his own proper self, with the divine companion,
whose tabernacle was in the intelli- gence of men the journal of his
daily commerce with that. Chance : or Providence ! Chance :
or Wis- dom, one with nature and man, reaching from end to end,
through all time and all exist- ence, orderly disposing all things,
according to fixed periods, as he describes it, in terms very like
certain well-known words of the book of Wisdom: those are the
"fenced opposites " of the speculative dilemma, the tragic
embarras^ of which Aurelius cannot too often remind himself as the
summary of man's situation in the world. If there be, however, a
provident soul like this " behind the veil," truly, even to
him, even in the most intimate of those conversations, it has never
yet spoken with any quite irresistible assertion of its presence. Yet
one's choice in that speculative dilemma, as he has found it, is on
the whole a matter of will. "'Tis in thy power," here too,
again, "to think as thou wilt." For his part he has asserted
his will, and has the courage of his opinion. " To the better
of two things, if thou findest that, turn with thy whole heart :
eat and drink ever of the best before thee." "Wisdom,"
says that other disciple of the Sapiential philosophy, " hath
mingled Her wine, she hath also prepared Herself a table." ToO
apurTov aTroXaue : "Partake ever of Her best ! " And what
Marius, peeping now very closely upon the intimacies of that
singular mind, found a thing actually * pathetic and affecting, was the
manner of the writer's bearing as in the presence of this supposed
guest ; so elusive, so jealous of any palpable manifestation of himself,
so taxing to one's faith, never allowing one to lean frankly upon
him and feel wholly at rest. Only, he would do his part, at least, in
maintaining the constant fitness, the sweetness and quiet, of the
guest-chamber. Seeming to vary with the in- tellectual fortune of the
hour, from the plainest account of experience, to a sheer fantasy,
only "believed because it was impossible/' that one hope was,
at all events, sufficient to make men's common pleasures and their common
ambition, above all their commonest vices, seem very petty indeed,
too petty to know of. It bred in him a kind of magnificence of character,
in the old Greek sense of the term ; a temper incompatible with any
merely plausible advocacy of his convic- tions, or merely superficial
thoughts about any- thing whatever, or talk about other people, or
speculation as to what was passing in their so visibly little souls, or
much talking of any kind, however clever or graceful. A soul thus
disposed had " already entered into the better life": was
indeed in some sort "a priest, a minister of the gods." Hence
his constant " re- collection " ; a close watching of his soul,
of a kind almost unique in the ancient world. Before all things
examine into thyself: strive to be at home 'with thyself ! Marius, a
sympathetic witness of all this, might almost seem to have had a
foresight of monasticism itself in the prophetic future. With this mystic
companion he had gone a step onward out of the merely objective
pagan existence. Here was already a master in that craft of
self-direction, which was about to So play so large a part in
the forming of human mind, under the sanction of the Christian
church. Yet it was in truth a somewhat melancholy service, a
service on which one must needs move about, solemn, serious, depressed,
with the hushed footsteps of those who move about the house where a
dead body is lying. Such was the impression which occurred to Marius
again and again as he read, with a growing sense of some profound
dissidence from his author. By certain quite traceable links of
association he was reminded, in spite of the moral beauty of the
philosophic emperor's ideas, how he had sat, essentially unconcerned, at
the public shows. For, actually, his contemplations had made him of
a sad heart, inducing in him that melancholy Tristitia which even the
monastic moralists have held to be of the nature of deadly sin,
akin to the sin of Desidia or Inactivity. Resignation, a sombre
resignation, a sad heart, patient bearing of the burden of a sad heart :
Yes ! this be- longed doubtless to the situation of an honest
thinker upon the world. Only, in this case there seemed to be too much of
a complacent acquiescence in the world as it is. And there could be
no true Theodicee in that ; no real accommodation of the world as it is,
to the divine pattern of the Logos y the eternal reason, over
against it. It amounted to a tolerance of evil. The soul of good,
though it moveth upon a way thou canst but little understand, yet
prospereth on the journey: If thou sufferest nothing contrary to nature,
there can be nought of evil with thee therein : If thou hast
done aught in harmony with that reason in which men are communicant
with the gods, there also can be nothing of evil with thee nothing
to be afraid of : Whatever is, is right ; as from the hand of one
dispensing to every man according to his desert : If
reason fulfil its part in things, what more dost thou require ? Dost thou
take it ill that thy stature is but of four cubits ? That which happeneth
to each of us is for the profit of the whole : The profit of
the whole, that was sufficient ! Links, in a train of thought
really generous ! of which, nevertheless, the forced and yet facile
optimism, refusing to see evil anywhere, might lack, after all, the
secret of genuine cheerfulness. It left in truth a weight upon the
spirits ; and with that weight unlifted, there could be no real
justification of the ways of Heaven to man. " Let thine air be
cheerful," he had said ; and, with an effort, did himself at times
attain to that serenity of aspect, which surely ought to accompany,
as their outward flower and favour, hopeful assumptions like those.
Still, what in Aurelius was but a passing expression, was with
Cornelius (Marius could but note the contrast) nature, and a veritable
physiognomy. With Cornelius, in fact, it was nothing less than the
joy which Dante apprehended in the blessed spirits of the perfect, the
outward semblance of which, like a reflex of physical light upon
human faces from " the land which is very far off," we
may trace from Giotto onward to its consumma- tion in the work of Raphael
the serenity, the durable cheerfulness, of those who have been
indeed delivered from death, and of which the utmost degree of that famed
" blitheness " of the Greeks had been but a transitory gleam,
as in careless and wholly superficial youth. And yet, in Cornelius,
it was certainly united with the bold recognition of evil as a fact in
the world ; real as an aching in the head or heart, which one
instinctively desires to have cured ; an enemy with whom no terms could
be made, visible, hatefully visible, in a thousand forms the ap-
parent waste of men's gifts in an early, or even in a late grave ; the
death, as such, of men, and even of animals ; the disease and pain of the
body. And there was another point of dissidence between Aurelius
and his reader. The philo- sophic emperor was a despiser of the
body. Since it is " the peculiar privilege of reason to move
within herself, and to be proof against corporeal impressions, suffering
neither sensation nor passion to break in upon her," it follows
that the true interest of the spirit must ever be to treat the body
Well ! as a corpse attached thereto, rather than as a living companion
nay, actually to promote its dissolution. In counter- poise to the
inhumanity of this, presenting itself to the young reader as nothing less
than a sin against nature, the very person of Cornelius was nothing
less than a sanction of that reverent delight Marius had always had in
the visible body of man. Such delight indeed had been but a natural
consequence of the sensuous or material- istic character of the
philosophy of his choice. } Now to Cornelius the body of man was
unmis- takeably, as a later seer terms it, the one true I
temple in the world ; or rather itself the proper object of worship, of a
sacred service, in which the very finest gold might have its
seemliness and due symbolic use : Ah ! and of what awe- stricken
pity also, in its dejection, in the perish- ing gray bones of a poor
man's grave ! Some flaw of vision, thought Marius, must be
involved in the philosopher's contempt for it- some diseased point of
thought, or moral dulness, leading logically to what seemed to him
the strangest of all the emperor's inhumanities, the temper of the
suicide ; for which there was just then, indeed, a sort of mania in the
world. " 'Tis part of the business of life," he read, "
to lose it handsomely." On due occasion, " one might give
life the slip." The moral or mental powers might fail one ; and then
it were a fair question, precisely, whether the time for taking
leave was not come : " Thou canst leave this prison when thou wilt.
Go forth boldly ! " Just there, in the bare capacity to entertain
such question at all, there was what Marius, with a soul which must
always leap up in loyal gratitude for mere physical sunshine,
touching him as it touched the flies in the air, could not away
with. There, surely, was a sign of some crookedness in the natural
power of apprehension. It was the attitude, the melancholy
intellectual attitude, of one who might be greatly mistaken in
things who might make the greatest of mistakes. A heart that
could forget itself in the mis- fortune, or even in the weakness of
others : of this Marius had certainly found the trace, as a
confidant of the emperor's conversations with himself, in spite of those
jarring inhumanities, of that pretension to a stoical indifference, and
the many difficulties of his manner of writing. He found it again
not long afterwards, in still stronger evidence, in this way. As he read
one morning early, there slipped from the rolls of manuscript a
sealed letter with the emperor's superscription, which might well be of
importance, and he felt bound to deliver it at once in person ;
Aurelius being then absent from Rome in one of his favourite
retreats, at Praeneste, taking a few days of quiet with his young
children, before his departure for the war. A whole day passed as
Marius crossed the Gampagna on horseback, pleased by the random autumn
lights bringing out in the distance the sheep at pasture, the
shepherds in their picturesque dress, the golden elms, tower and villa ;
and it was after dark that he mounted the steep street of the little
hill-town to the imperial residence. He was struck by an odd
mixture of stillness and excitement about the place. Lights burned at the
windows. It seemed that numerous visitors were within, for the
courtyard was crowded with litters and horses in waiting. For the moment,
indeed, all larger cares, even the cares of war, of late so heavy a
pressure, had been forgotten in what was passing with the little Annius
Verus ; who for his part had forgotten his toys, lying all day across
the knees of his mother, as a mere child's ear-ache grew rapidly to
alarming sickness with great and manifest agony, only suspended a little,
from time to time, when from very weariness he passed into a few
moments of unconsciousness. The country surgeon called in, had removed
the imposthume with the knife. There had been a great effort to
bear this operation, for the terrified child, hardly persuaded to submit
him- self, when his pain was at its worst, and even more for the
parents. At length, amid a company of pupils pressing in with him, as
the custom was, to watch the proceedings in the sick-room, the
eminent Galen had arrived, only to pronounce the thing done visibly
useless, the patient falling now into longer intervals of delirium.
And thus, thrust on one side by the crowd of departing visitors, Marius
was forced into the privacy of a grief, the desolate face of which
went deep into his memory, as he saw the emperor carry the child away
quite conscious at last, but with a touching expression upon it of
weakness and defeat pressed close to his bosom, as if he yearned just
then for one thing only, to be united, to be absolutely one with it, in
its obscure distress. Paratum cor meum deus ! paratum cor meum
! THE emperor demanded a senatorial decree for the erection
of images in memory of the dead prince ; that a golden one should be
carried, together with the other images, in the great procession of
the Circus, and the addition of the child's name to the Hymn of the
Salian Priests : and so, stifling private grief, without further
delay set forth for the war. True kingship, as Plato, the old
master of Aurelius, had understood it, was essentially of the
nature of a service. If so be, you can discover a mode of life more desirable
than the being a king, for those who shall be kings ; then, the
true Ideal of the State will become a possibility; but not otherwise. And
if the life of Beatific Vision be indeed possible, if philosophy
really " concludes in an ecstasy/' affording full fruition to
the entire nature of man ; then, for certain elect souls at least, a mode
of life will have been discovered more desirable than to be a king.
By love or fear you might induce such persons to forgo their
privilege ; to take upon them the distasteful task of governing other
men, or even of leading them to victory in battle. But, by the very
conditions of its tenure, their dominion would be wholly a ministry to
others : they would have taken upon them " the form of a
servant ": they would be reigning for the well- being of others
rather than their own. The true king, the righteous king, would be Saint
Lewis, exiling himself from the better land and its perfected
company so real a thing to him, definite and real as the pictured scenes
of his psalter to take part in or to arbitrate men's quarrels,
about the transitory appearances of things. In a lower degree (lower, in
proportion as the highest Platonic dream is lower than any
Christian vision) the true king would be Marcus Aurelius, drawn from the
meditation of books, to be the ruler of the Roman people in peace,
and still more, in war. To Aurelius, certainly, the philosophic
mood, the visions, however dim, which this mood brought with it,
were sufficiently pleasant to him, together with the endearments of his
home, to make public rule nothing less than a sacrifice of himself
according to Plato's requirement, now consummated in his setting forth
for the cam- paign on the Danube. That it was such a sacrifice was
to Marius visible fact, as he saw hirn ceremoniously lifted into the
saddle amid all the pageantry of an imperial departure, yet with
the air less of a sanguine and self-reliant leader than of one in some
way or other already defeated. Through the fortune of the subsequent
years, passing and repassing so inexplicably from side to side, the
rumour of which reached him amid his own quiet studies, Marius seemed
always to see that central figure, with its habitually dejected hue
grown now to an expression of positive suffering, all the stranger from
its contrast with the magnificent armour worn by the emperor on
this occasion, as it had been worn by his pre- decessor Hadrian.
Totus et argento contextus et auro : clothed in its gold and
silver, dainty as that old divinely constructed armour of which
Homer tells, but without its miraculous lightsomeness he looked out
baffled, labouring, moribund ; a mere comfortless shadow taking part in
some shadowy reproduction of the labours of Hercules, through those
northern, mist-laden confines of the civilised world. It was as if the
familiar soul which had been so friendly disposed towards him were
actually departed to Hades ; and when he read the Conversations
afterwards, though his judgment of them underwent no material
change, it was nevertheless with the allowance we make for the
dead. The memory of that suffering image, while it certainly strengthened
his adhesion to what he could accept at all in the philo- sophy of Aurelius,
added a strange pathos to what must seem the writer's mistakes.
What, after all, had been the meaning of that incident, observed as
so fortunate an omen long since, when the prince, then a little child
much younger than was usual, had stood in ceremony among the priests
of Mars and flung his crown of flowers with the rest at the sacred image
reclin- ing on the Pulvinar ? The other crowns lodged themselves
here or there ; when, Lo ! the crown thrown by Aurelius, the youngest of
them all, alighted upon the very brows of the god, as if placed
there by a careful hand ! He was still young, also, when on the day of
his adoption by Antoninus Pius he saw himself in a dream, with as
it were shoulders of ivory, like the images of the gods, and found them
more capable than shoulders of flesh. Yet he was now well-nigh
fifty years of age, setting out with two-thirds of life behind him, upon
a labour which would fill the remainder of it with anxious cares a
labour for which he had perhaps no capacity, and certainly no
taste. That ancient suit of armour was almost the only object
Aurelius now possessed from all those much cherished articles of vertu
collected by the Caesars, making the imperial residence like a
magnificent museum. Not men alone were needed for the war, so that it
became necessary, to the great disgust alike of timid persons and
of thelovers of sport, to arm the gladiators, but money also was
lacking. Accordingly, at the sole motion of Aurelius himself, unwilling
that the public burden should be further increased, especially on
the part of the poor, the whole of the imperial ornaments and furniture,
a sump- tuous collection of gems formed by Hadrian, with many works
of the most famous painters and sculptors, even the precious ornaments
of the emperor's chapel or Lararium, and the ward- robe of the
empress Faustina, who seems to have borne the loss without a murmur, were
exposed for public auction. u These treasures," said Aurelius,
" like all else that I possess, belong by right to the Senate
and People." Was it not a characteristic of the true kings in Plato
that they had in their houses nothing they could call their own ?
Connoisseurs had a keen delight in the mere reading of the Prtetor's list
of the property for sale. For two months the learned in these
matters were daily occupied in the appraising of the embroidered
hangings, the choice articles of personal use selected for pre-
servation by each succeeding age, the great out- landish pearls from
Hadrian's favourite cabinet, the marvellous plate lying safe behind the
pretty iron wicker-work of the shops in the goldsmiths' quarter.
Meantime ordinary persons might have an interest in the inspection of
objects which had been as daily companions to people so far above
and remote from them things so fine also in workmanship and material as to
seem, with their antique and delicate air, a worthy survival of the
grand bygone eras, like select thoughts or utterances embodying the very
spirit of the vanished past. The town became more pensive than ever
over old fashions. The welcome amusement of this last act of
preparation for the great war being now over, all Rome seemed to settle
down into a singular quiet, likely to last long, as though bent only
on watching from afar the languid, somewhat un- eventful course of
the contest itself. Marius took advantage of it as an opportunity for
still closer study than of old, only now and then going out to one
of his favourite spots on the Sabine or Alban hills for a quiet even
greater than that of Rome in the country air. On one of these
occasions, as if by favour of an invisible power withdrawing some unknown
cause of dejection from around him, he enjoyed a quite unusual
sense of self-possession the possession of his own best and happiest
self. After some gloomy thoughts over-night, he awoke under the
full tide of the rising sun, himself full, in his entire
refreshment, of that almost religious appreciation of sleep, the
graciousness of its influence on men's spirits, which had made the old
Greeks conceive of it as a god. It was like one of those old joyful
wakings of childhood, now becoming rarer and rarer with him, and looked
back upon with much regret as a measure of advancing age. In
fact, the last bequest of this serene sleep had been a dream, in
which, as once before, he overheard those he loved best pronouncing his
name very pleasantly, as they passed through the rich light and
shadow of a summer morning, along the pavement of a city Ah ! fairer far
than Rome ! In a moment, as he arose, a certain oppression of late
setting very heavily upon him was lifted away, as though by some physical
motion in the air. That flawless serenity, better than the
most pleasurable excitement, yet so easily ruffled by chance
collision even with the things and persons he had come to value as the
greatest treasure in life, was to be wholly his to-day, he thought,
as he rode towards Tibur, under the early sunshine ; the marble of
its villas glistening all the way before him on the hillside. And why
could he not hold such serenity of spirit ever at command ? he
asked, expert as he was at last become in the art of setting the house of
his thoughts in order. " 'Tis in thy power to think as thou wilt :
" he repeated to himself : it was the most serviceable of all
the lessons enforced on him by those imperial conversations. " 'Tis
in thy power to think as thou wilt." And were the cheerful,
sociable, restorative beliefs, of which he had there read so much, that
bold adhesion, for instance, to the hypothesis of an eternal friend
to man, just hidden behind the veil of a mechanical and material
order, but only just behind it, ready perhaps even now to break through
: were they, after all, really a matter of choice, dependent on
some deliberate act of volition on his part ? Were they doctrines one
might take for granted, generously take for granted, and led on by
them, at first as but well-defined objects of hope, come at last into the
region of a corre- sponding certitude of the intellect ? " It is
the truth I seek," he had read, " the truth, by which no
one," gray and depressing though it might seem, "was ever
really injured." And yet, on the other hand, the imperial wayfarer,
he had been able to go along with so far on his intel- lectual
pilgrimage, let fall many things con- cerning the practicability of a
methodical and self-forced assent to certain principles or pre-
suppositions " one could not do without." Were there, as the
expression " one could not do 'without " seemed to hint,
beliefs, without which life itself must be almost impossible, principles
which had their sufficient ground of evidence in that very fact?
Experience certainly taught that, as regarding the sensible world he
could attend or not, almost at will, to this or that colour, this
or that train of sounds, in the whole tumultuous concourse of colour and
sound, so it was also, for the well-trained intelligence, in regard
to that hum of voices which besiege the inward no less than the
outward ear. Might it be not otherwise with those various and
competing hypotheses, the permissible hypotheses, which, in that
open field for hypothesis one's own actual ignorance of the origin and
tendency of our being present themselves so importunately, some of
them with so emphatic a reiteration, through all the mental changes of
successive ages ? Might the will itself be an org an of
knowledge, of vision ? On this day truly no mysterious light,
no irresistibly leading hand from afar reached him ; only the
peculiarly tranquil influence of its first hour increased steadily upon
him, in a manner with which, as he conceived, the aspects of the
place he was then visiting hadsomething to do. The air there, air
supposed to possess the singular property of restoring the whiteness of
ivory, was pure and thin. An even veil of lawn-like white cloud had
now drawn over the sky; and under its broad, shadowless light every hue
and tone of time came out upon the yellow old temples, the elegant
pillared circle of the shrine of the patronal Sibyl, the houses seemingly
of a piece with the ancient fundamental rock. Some half- conscious
motive of poetic grace would appear to have determined their grouping ;
in part resisting, partly going along with the natural wildness and
harshness of the place, its floods and precipices. An air of immense
age possessed, above all, the vegetation around a world of
evergreen trees the olives especially, older than how many generations of
men's lives ! fretted and twisted by the combining forces of life
and death, intoevery conceivable caprice of form. In the windless weather
all seemed to be listening to the roar of the immemorial waterfall,
plunging down so unassociably among these human habitations, and with a
motion so un- changing from age to age as to count, even in this
time-worn place, as an image of unalterable rest. Yet the clear sky all
but broke to let through the ray which was silently quickening
everything in the late February afternoon, and the unseen violet refined
itself through the air. / It was as if the spirit of life in nature were
but withholding any too precipitate revelation of itself, in its
slow, wise, maturing work. Through some accident to the trappings
of his horse at the inn where he rested, Marius had an unexpected
delay. He sat down in an olive- garden, and, all around him and within
still turning to reverie, the course of his own life hitherto
seemed to withdraw itself into some other world, disparted from this
spectacular point where he was now placed to survey it, like that
distant road below, along which he had travelled this morning across the
Campagna. Through a dreamy land he could see himself moving, as if
in another life, and like another person, through all his fortunes and
misfortunes, passing from point to point, weeping, delighted,
escaping from various dangers. That prospect brought him, first of
all, an impulse of lively gratitude : it was as if he must look round for
some one else to share his joy with : for some one to whom he might
tell the thing, for his own relief. Companionship, indeed, familiarity
with others, gifted in this way or that, or at least pleasant to
him, had been, through one or another long span of it, the chief delight
of the journey. And was it only the resultant general sense of such
familiarity, diffused through his memory, that in a while suggested the
question whether there had not been besides Flavian, besides
Cornelius even, and amid the solitude which in spite of ardent friendship
he had perhaps loved best of all things some other companion, an
unfailing companion, ever at his side throughout ; doubling his pleasure
in the roses by the way, patient of his peevishness or depression,
sympathetic above all with his grate- ful recognition, onward from his
earliest days, of the fact that he was there at all ? Must not the
whole world around have faded away for him altogether, had he been left
for one moment really alone in it f In his deepest apparent
solitude there had been rich entertainment. It was as if there were not
one only, but two way- farers, side by side, visible there across the
plain, as he indulged his fancy. A bird came and sang among the
wattled hedge-roses : an animal feed- ing crept nearer : the child who
kept it was gazing quietly : and the scene and the hours still
conspiring, he passed from that mere fantasy of a self not himself,
beside him in his coming and going, to those divinations of a living and
com- panionable spirit at work in all things, of which he had
become aware from time to time in his old philosophic readings in Plato
and others, , last but not least, in Aurelius. Through one
reflection upon another, he passed from such instinctive divinations, to
the thoughts which give them logical consistency, formulating at
last, as the necessary exponent of our own and the world's life, that
reasonable Ideal to which the Old Testament gives the name of Creator,
which for the philosophers of Greece is the Eternal Reason, and in the
New Testament the Father of Men even as one builds up from act and
word and expression of the friend actually visible at one's side, an
ideal of the spirit within him. In this peculiar and
privileged hour, his bodily frame, as he could recognise, although
just then, in the whole sum of its capacities, so entirely possessed by
him Nay ! actually his very self was yet determined by a
far-reaching system of material forces external to it, a thousand
combining currents from earth and sky. Its seemingly active powers of
appre- hension were, in fact, but susceptibilities to ,
influence. The perfection of its capacity might be said to depend on its
passive surrender, as of a leaf on the wind, to the motions of the
great stream of physical energy without it. And might not the
intellectual frame also, still more intimately himself as in truth it was,
after the analogy of the bodily life, be a moment only, an impulse
or series of impulses, a single process, in an intellectual or spiritual
system external to it, diffused through all time and place that
great stream of spiritual energy, of which his own imperfect thoughts,
yesterday or to-day, would be but the remote, and therefore im-
perfect pulsations ? It was the hypothesis (boldest, though in reality
the most conceivable of all hypotheses) which had dawned on the
contemplations of the two opposed great masters of the old Greek thought,
alike: the "World of Ideas," existent only because, and in so
far as, they are known, as Plato conceived ; the " creative,
incorruptible, informing mind, " sup- posed by Aristotle, so
sober-minded, yet as regards this matter left something of a mystic
after all. Might not this entire material world," the very scene
around him, the immemorial rocks, the firm marble, the olive-gardens,
the falling water, be themselves but reflections in, or a creation
of, that one indefectible mind, wherein he too became conscious, for an
hour, a day, for so many years ? Upon what other hypothesis could
he so well understand the persistency of all these things for his
own intermittent consciousness of them, for the intermittent
consciousness of so many generations, fleeting away one after another ?
It was easier to conceive of the material fabric of things as but an
element in a world of thought as a thought in a mind, than of mind as an
element, or accident, or passing condition in a world of matter,
because mind was really nearer to him- self : it was an explanation of
what was less known by what was known better. The purely material
world, that close, impassable prison- wall, seemed just then the unreal
thing, to be actually dissolving away all around him : and he felt
a quiet hope, a quiet joy dawning faintly, in the dawning of this
doctrine upon him as a really credible opinion. It was like the
break of day over some vast prospect with the " new
city," as it were some celestial New Rome, in the midst of it. That
divine companion figured no longer as but an occasional wayfarer
beside him ; but rather as the unfailing " assist- ant,"
without whose inspiration and concurrence he could not breathe or see,
instrumenting his bodily senses, rounding, supporting his imperfect
thoughts. How often had the thought of their brevity spoiled for him the
most natural pleasures of life, confusing even his present sense of
them by the suggestion of disease, of death, of a coming end, in
everything ! How had he longed, sometimes, that there were indeed
one to whose boundless power of memory he could commit his own most
fortunate moments, his admiration, his love, Ay ! the very sorrows
of which he could not bear quite to lose the sense : one strong to retain
them even though he forgot, in whose more vigorous consciousness
they might subsist for ever, beyond that mere quickening of capacity
which was all that remained of them in himself ! " Oh ! that
they might live before Thee " To-day at least, in the peculiar
clearness of one privileged hour, he seemed to have apprehended that in
which the experiences he valued most might find, one by one, an
abiding-place. And again, the result- ant sense of companionship, of a
person beside him, evoked the faculty of conscience of conscience,
as of old and when he had been at his best, in the form, not of fear, nor
of ] self-reproach even, but of a certain lively gratitude.
Himself his sensations and ideas never fell again precisely into
focus as on that day, | yet he was the richer by its experience.
But for once only to have come under the power of that peculiar
mood, to have felt the train of reflections which belong to it really
forcible and conclusive, to have been led by them to a conclusion,
to have apprehended the Great \ Ideal) so palpably that it defined
personal * gratitude and the sense of a friendly hand laid upon him
amid the shadows of the world, left this one particular hour a marked
point in life never to be forgotten. It gave him a definitely ascertained
measure of his moral or intellectual need, of the demand his soul must
make upon the powers, whatsoever they might be, which had brought him, as
he was, into the world at all. And again, would he be faithful to
himself, to his own habits of mind, his leading suppositions, if he did
but remain just there ? Must not all that remained of life be but a
search for the equivalent of that Ideal, among so-called actual things a
gathering together of every trace or token of it, which his actual
experience might present ? " Your old men shall dream
dreams." A nature like that of Marius, composed, in
about equal parts, of instincts almost physical, and of slowly
accumulated intellectual judg- ments, was perhaps even less susceptible
than other men's characters of essential change. And yet the
experience of that fortunate hour, seeming to gather into one central act
of vision ; all the deeper impressions his mind had ever, received,
did not leave him quite as he had been. For his mental view, at least, it
changed measurably the world about him, of which he was still
indeed a curious spectator, but which looked further off, was weaker in
its hold, and, in a sense, less real to him than ever. It was as if
he viewed it through a diminishing glass. And the permanency of this
change he could note, some years later, when it happened that he was
a guest at a feast, in which the various exciting elements of Roman
life, its physical and intellectual accomplish- ments, its frivolity and
far-fetched elegances, its strange, mystic essays after the unseen,
were elaborately combined. The great Apuleius> the literary ideal of
his boyhood, had arrived in Rome, was now visiting Tusculum, at the
house of their common friend, a certain aristo- cratic poet who loved
every sort of superiorities ; and Marius was favoured with an invitation
to a supper given in his honour. It was with a feeling of
half-humorous concession to his own early boyish hero-worship, yet
with some sense of superiority in himself, seeing his old curiosity grown
now almost to indifference when on the point of satisfaction at
last, and upon a juster estimate of its object, that he mounted to the
little town on the hillside, the foot -ways of which were so many
flights of easy-going steps gathered round a single great house
under shadow of the "haunted" ruins of Cicero's villa on the
wooded heights. He found a touch of weirdness in the cir- cumstance
that in so romantic a place he had been bidden to meet the writer who
was come to seem almost like one of the personages in his own
fiction. As he turned now and then to gaze at the evening scene through
the tall narrow openings of the street, up which the cattle were
going home slowly from the pastures below, the Alban mountains,
stretched between the great walls of the ancient houses, seemed
close at hand a screen of vaporous dun purple against the setting sun
with those waves of surpassing softness in the boundary lines which
indicate volcanic formation. The cool- ness of the little brown
market-place, for profit of which even the working-people, in long
file through the olive- gardens, were leaving the plain for the
night, was grateful, after the heats of Rome. Those wild country figures,
clad in every kind of fantastic patchwork, stained by wind and weather
fortunately enough for the eye, under that significant light
inclined him to poetry. And it was a very delicate poetry of its
kind that seemed to enfold him, \ as passing into the poet's house he
paused for; a moment to glance back towards the heights above ;
whereupon, the numerous cascades of the precipitous garden of the villa,
framed in the doorway of the hall, fell into a harmless picture, in
its place among the pictures within, and scarcely more real than they a
landscape- piece, in which the power of water (plunging into what
unseen depths !) done to the life, was pleasant, and without its natural
terrors. At the further end of this bland apartment, fragrant
with the rare woods of the old inlaid panelling, the falling of aromatic
oil from the ready-lighted lamps, the iris-root clinging to the
dresses of the guests, as with odours from the altars of the gods, the
supper-table was spread, in all the daintiness characteristic of the
agree- able petit-maitrC) who entertained. He was already most
carefully dressed, but, like Martial's Stella, perhaps consciously, meant
to change his attire once and again during the banquet ; in the
last instance, for an ancient vesture (object of much rivalry among the
young men of fashion, at that great sale of the imperial wardrobes)
a toga, of altogether lost hue and texture. He wore it with a grace
which became the leader of a thrilling movement then on foot for the
restora- tion of that disused garment, in which, laying aside the
customary evening dress, all the visitors were requested to appear,
setting off the delicate sinuosities and well-disposed " golden
ways" of its folds, with harmoniously tinted flowers. The opulent
sunset, blending pleasan tly with artificial light, fell across the
quiet ancestral effigies of old consular dignitaries, along the wide
floor strewn with sawdust of sandal -wood, and lost itself in the
heap of cool coronals, lying ready for the foreheads of the guests on a
sideboard of old citron. The crystal vessels darkened with old
wine, the hues of the early autumn fruit mulberries, pomegranates, and
grapes that had long been hanging under careful protection upon the
vines, were almost as much a feast for the eye, as the dusky fires of the
rare twelve-petalled roses. A favourite animal, white as snow,
brought by one of the visitors, purred its way gracefully among the
wine-cups, coaxed onward from place to place by those at table, as
they reclined easily on their cushions of German eider-down, spread
over the long-legged, carved couches. A highly refined
modification of the acroama a musical performance during supper for
the diversion of the guests was presently heard hovering round the
place, soothingly, and so unobtrusively that the company could not
guess, and did not like to ask, whether or not it had been designed
by their entertainer. They inclined on the whole to think it some
wonderful peasant- music peculiar to that wild neighbourhood, turn-
ing, as it did now and then, to a solitary reed- note, like a bird's,
while it wandered into the distance. It wandered quite away at last,
as darkness with a bolder lamplight came on, and made way for
another sort of entertainment. An odd, rapid, phantasmal glitter,
advancing from the garden by torchlight, defined itself, as it came
nearer, into a dance of young men in armour. Arrived at length in a
portico, open to the supper-chamber, they contrived that their
mechanical march-movement should fall out into a kind of highly
expressive dramatic action ; and with the utmost possible emphasis of
dumb motion, their long swords weaving a silvery network in the
air, they danced the Death of Paris. The young Commodus, already an
adept in these matters, who had condescended to welcome the eminent
Apuleius at the banquet, had mysteriously dropped from his place to
take his share in the performance ; and at its con- clusion
reappeared, still wearing the dainty accoutrements of Paris, including a
breastplate, composed entirely of overlapping tigers' claws,
skilfully gilt. The youthful prince had lately assumed the dress of
manhood, on the return of the emperor for a brief visit from the North
; putting up his hair, in imitation of Nero, in a golden box
dedicated to Capitoline Jupiter. His likeness to Aurelius, his father,
was become, in consequence, more striking than ever ; and he had
one source of genuine interest in the great literary guest of the
occasion, in that the latter was the fortunate possessor of a monopoly
for the exhibition of wild beasts and gladiatorial shows in the
province of Carthage, where he resided. Still, after all
complaisance to the perhaps somewhat crude tastes of the emperor's son,
it was felt that with a guest like Apuleius whom they had come
prepared to entertain as veritable connoisseurs, the conversation should
be learned and superior, and the host at last deftly led his
company round to literature, by the way of bind- ings. Elegant rolls of
manuscript from his fine library of ancient Greek books passed from
hand to hand about the table. It was a sign for the visitors
themselves to draw their own choicest literary curiosities from their
bags, as their con- tribution to the banquet ; and one of them,
a famous reader, choosing his lucky moment, delivered in tenor voice
the piece which follows, with a preliminary query as to whether it
could indeed be the composition of Lucian of Samosata, understood to
be the great mocker of that day : " What sound was that,
Socrates ? " asked Chaerephon. " It came from the beach
under the cliff yonder, and seemed a long way off. And how
melodious it was ! Was it a bird, I wonder. I thought all sea-birds were
songless." "Aye! a sea-bird," answered Socrates,
"a bird called the Halcyon, and has a note full of plaining
and tears. There is an old story people tell of it. It was a mortal woman
once, daughter of ^Eolus, god of the winds. Ceyx, the son of the
morning-star, wedded her in her early maidenhood. The son was not less
fair than the father; and when it came to pass that he died, the
crying of the girl as she lamented his sweet usage, was, Just that ! And
some while after, as Heaven willed, she was changed into a bird.
Floating now on bird's wings over the sea she seeks her lost Ceyx there ;
since she was not able to find him after long wandering over the
land." " That then is the Halcyon the
kingfisher," said Chaerephon. " I never heard a bird like
it before. It has truly a plaintive note. What kind of a bird is it,
Socrates f " " Not a large bird, though she has
received large honour from the gods on account of her singular
conjugal affection. For whensoever she makes her nest, a law of nature
brings round what is called Halcyon's weather, days distinguish-
able among all others for their serenity, though they come sometimes amid
the storms of winter days like to-day ! See how transparent is the
sky above us, and how motionless the sea ! like a smooth
mirror." " True ! A Halcyon day, indeed ! and
yester- day was the same. But tell me, Socrates, what is one to
think of those stories which have been told from the beginning, of birds
changed into mortals and mortals into birds ? To me nothing seems
more incredible." "Dear Chaerephon," said Socrates,
"methinks we are but half-blind judges of the impossible and
the possible. We try the question by the standard of our human faculty,
which avails neither for true knowledge, nor for faith, nor vision.
Therefore many things seem to us impossible which are really easy, many
things unattainable which are within our reach ; partly through
inexperience, partly through the child- ishness of our minds. For in
truth, every man, even the oldest of us, is like a little child, so
brief and babyish are the years of our life in comparison of eternity.
Then, how can we, who comprehend not the faculties of gods and of
the heavenly host, tell whether aught of that kind be possible or no f
What a tempest you saw three days ago ! One trembles but to think of
the lightning, the thunderclaps, the violence of the wind ! You might
have thought the whole world was going to ruin. And then, after a
little, came this wonderful serenity of weather, which has continued till
to-day. Which do you think the greater and more difficult thing to do
: to exchange the disorder of that irresistible whirlwind to a
clarity like this, and becalm the whole world again, or to refashion the
form of a woman into that of a bird ? We can teach even little children
to do something of that sort, to take wax or clay, and mould out of the
same material many kinds of form, one after another, without
difficulty. And it may be that to the Deity, whose power is too vast for
comparison with ours, all processes of that kind are manage- able
and easy. How much wider is the whole circle of heaven than thyself?
Wider than thou canst express. "Among ourselves also,
how vast the differ- ence we may observe in men's degrees of power
! To you and me, and many another like us, many things are impossible
which are quite easy to others. For those who are un- musical, to
play on the flute ; to read or write, for those who have not yet learned
; is no easier than to make birds of women, or women of birds. From
the dumb and lifeless egg Nature moulds her swarms of winged creatures,
aided, as some will have it, by a divine and secret art in the wide
air around us. She takes from the honeycomb a little memberless live
thing ; she brings it wings and feet, brightens and beautifies it
with quaint variety of colour : and Lo ! the bee in her wisdom, making
honey worthy of the gods. "It follows, that we mortals,
being alto- gether of little account, able wholly to discern no
great matter, sometimes not even a little one, for the most part at a
loss regarding what happens even with ourselves, may hardly speak
with security as to what may be the powers of the immortal gods
concerning Kingfisher, or Nightingale. Yet the glory of thy mythus,
as my fathers bequeathed it to me, O tearful songstress ! that will I too
hand on to my children, and tell it often to my wives, Xanthippe
and Myrto : the story of thy pious love to Ceyx, and of thy melodious
hymns ; and, above all, of the honour thou hast with the gods !
" The reader's well-turned periods seemed to stimulate,
almost uncontrollably, the eloquent stirrings of the eminent man of
letters then present. The impulse to speak masterfully was visible,
before the recital was well over, in the moving lines about his mouth, by
no means designed, as detractors were wont to say, simply to
display the beauty of his teeth. One of the company, expert in his
humours, made ready to transcribe what he would say, the sort
of things of which a collection was then forming, the " Florida
" or Flowers, so to call them, he was apt to let fall by the way no
impromptu ventures at random ; but rather elaborate, carved
ivories of speech, drawn, at length, out of the rich treasure-house of a
memory stored with such, and as with a fine savour of old musk
about them. Certainly in this case, as Marius thought, it was worth while
to hear a charming writer speak. Discussing, quite in our modern
way, the peculiarities of those sub- urban views, especially the
sea-views, of which he was a professed lover, he was also every
inch a priest of Aesculapius, patronal god of Carthage. There was a
piquancy in his rococo^ very African, and as it were perfumed
person- ality, though he was now well-nigh sixty years old, a
mixture there of that sort of Platonic spiritualism which can speak of
the soul of man as but a sojourner in the prison of the body a
blending of that with such a relish for merely bodily graces as availed
to set the fashion in matters of dress, deportment, accent, and the
like, nay ! with something also which reminded Marius of the vein of
coarseness he had found in the "Golden Book/' All this made
the total impression he conveyed a very uncommon one. Marius did not
wonder, as he watched him speaking, that people freely attributed
to him many of the marvellous adven- tures he had recounted in that
famous romance, over and above the wildest version of his own actual
story his extraordinary marriage, his religious initiations, his acts of
mad generosity, his trial as a sorcerer. But a sign came from
the imperial prince that it was time for the company to separate.
He was entertaining his immediate neighbours at the table with a trick
from the streets ; tossing his olives in rapid succession into the
air, and catching them, as they fell, between his lips. His
dexterity in this performance made the mirth around him noisy, disturbing
the sleep of the furry visitor : the learned party broke up ; and
Marius withdrew, glad to escape into the open air. The courtesans in
their large wigs of false blond hair, were lurking for the guests,
with groups of curious idlers. A great con- flagration was visible in the
distance. Was it in Rome ; or in one of the villages of the country
? Pausing for a few minutes on the terrace to watch it, Marius was
for the first time able to converse intimately with Apuleius ; and in
this moment of confidence the " illuminist," himself with
locks so carefully arranged, and seemingly so full of affectations,
almost like one of those light women there, dropped a veil as it
were, and appeared, though still permitting the play of a certain
element of theatrical interest in hi s bizarre tenets, to be ready
to explain and defend his position reasonably. For a moment his
fantastic foppishness and his pretensions to ideal vision seemed to fall
into some intelligible con- gruity with each other. In truth, it was
the Platonic Idealism, as he conceived it, which for him literally
animated, and gave him so livelyan interest in, this world of the purely
outward aspects of men and things. Did material things, such things
as they had had around them all that evening, really need apology for
being there, to interest one, at all ? Were not all visible objects
the whole material world indeed, according to the consistent testimony of
philosophy in many forms "full of souls"? embarrassed
perhaps, partly imprisoned, but still eloquent souls ? Certainly,
the contemplative philosophy of Plato, with its figurative imagery and
apologue, its mani- fold aesthetic colouring, its measured
eloquence, its music for the outward ear, had been, like Plato's
old master himself, a two-sided or two- coloured thing. Apuleius was a
Platonist : only, for him, the Ideas of Plato were no creatures of
logical abstraction, but in very truth informing souls, in every type and
variety of sensible things. Those noises in the house all supper-
time, sounding through the tables and along the walls : were they only
startings in the old rafters, at the impact of the music and laughter
; or rather importunities of the secondary selves, the true unseen
selves, of the persons, nay ! of the very things around, essaying to
break through their frivolous, merely transitory surfaces, to
remind one of abiding essentials beyond them, which might have their say,
their judgment to give, by and by, when the shifting of the meats
and drinks at life's table would be over ? And was not this the true
significance of the Platonic doctrine ? a hierarchy of divine beings,
associ- ating themselves with particular things and places, for the
purpose of mediating between God and man man, who does but need due
attention on his part to become aware of his celestial company, filling
the air about him, thick as motes in the sunbeam, for the glance of
sympathetic intelligence he casts through it. " Two kinds
there are, of animated beings," he exclaimed : " Gods, entirely
differing from men in the infinite distance of their abode, since
one part of them only is seen by our blunted vision those mysterious
stars! in the eternity of their existence, in the perfection of
their nature, infected by no contact with ourselves : and men, dwelling
on the earth, with frivolous and anxious minds, with infirm and
mortal members, with variable fortunes ; labouring in vain ; taken
altogether and in their whole species perhaps, eternal ; but, severally,
quitting the scene in irresistible succession. " What
then ? Has nature connected itself together by no bond, allowed itself to
be thus crippled, and split into the divine and human elements ?
And you will say to me : If so it be, that man is thus entirely exiled
from the immortal gods, that all communication is denied him, that
not one of them occasionally visits us, as a shepherd his sheep to whom
shall I address my prayers ? Whom, shall I invoke as the helper of
the unfortunate, the protector of the good ? " Well !
there are certain divine powers of a middle nature, through whom our
aspirations are conveyed to the gods, and theirs to us. Passing
between the inhabitants of earth and heaven, they carry from one to the
other prayers and bounties, supplication and assistance, being a
kind of interpreters. This interval of the air is full of them ! Through
them, all revelations, miracles, magic processes, are effected.
For, specially appointed members of this order have their special
provinces, with a ministry according to the disposition of each. They go
to and fro without fixed habitation : or dwell in men's houses
" Just then a companion's hand laid in the dark- ness on
the shoulder of the speaker carried him away, and the discourse broke off
suddenly. Its singular intimations, however, were sufficient to
throw back on this strange evening, in all its detail the dance, the
readings, the distant fire a kind of allegoric expression : gave it
the character of one of those famous Platonic figures or apologues
which had then been in fact under discussion. When Marius recalled its
circum- stances he seemed to hear once more that voice of genuine
conviction, pleading, from amidst a scene at best of elegant frivolity,
for so boldly mystical a view of man and his position in the world.
For a moment, but only for a moment, as he listened, the trees had
seemed, as of old, to be growing " close against the sky." Yes
! the reception of theory, of hypothesis, of beliefs, did depend a
great deal on temperament. They were, so to speak, mere equivalents of
tempera- ment. A celestial ladder, a ladder from heaven to earth:
that was the assumption which the experience of Apuleius had suggested to
him : it was what, in different forms, certain persons in every age
had instinctively supposed : they would be glad to find their supposition
accredited by the authority of a grave philosophy. Marius, however,
yearning not less than they, in that hard world of Rome, and below its
unpeopled sky, for the trace of some celestial wing across it, must
still object that they assumed the thing with too much facility, too much
of self-com- placency. And his second thought was, that to indulge
but for an hour fantasies, fantastic visions of that sort, only left the
actual world more lonely than ever. For him certainly, and for his
solace, the little godship for whom the rude countryman, an unconscious
Platonist, trimmed his twinkling lamp, would never slip from the
bark of these immemorial olive-trees. No ! not even in the wildest
moonlight. For himself, it was clear, he must still hold by what his
eyes really saw. Only, he had to concede also, that the very
boldness of such theory bore witness, at least, to a variety of human
disposition and a consequent variety of mental view, which might
who can tell ? be correspondent to, be defined by and define, varieties
of facts, of truths, just " behind the veil," regarding the
world all alike had actually before them as their original premiss
or starting-point ; a world, wider, perhaps, in its possibilities than all
possible fancies concernng it. " Your old men shall dream dreams, and
your young men shall see visions." Cornelius had certain
friends in or near Rome, whose household, to Marius, as he pondered
now and again what might be the determining influ- ences of that
peculiar character, presented itself as possibly its main secret the
hidden source from which the beauty and strength of a nature, so
persistently fresh in the midst of a somewhat jaded world, might be
derived. But Marius had never yet seen these friends; and it was
almost by accident that the veil of reserve was at last lifted,
and, with strange contrast to his visit to the poet's villa at Tusculum,
he entered another curious house. "The house in which
she lives," says that mystical German writer quoted once before,
" is for the orderly soul, which does not live on blindly
before her, but is ever, out of her passing experiences, building and
adorning the parts of a many-roomed abode for herself, only an
expansion of the body ; as the body, according to the philosophy of
Swedenborg, is but a process, an expansion, of the soul. For such an
orderly soul, as life proceeds, all sorts of delicate affinities
establish themselves, between herself and the doors and passage-ways, the
lights and shadows, of her outward dwelling-place, until she may
seem incorporate with it until at last, in the entire expressiveness of
what is outward, there is for her, to speak properly, between
outward and inward, no longer any distinction at all ; and the
light which creeps at a particular hour on a particular picture or space
upon the wall, the scent of flowers in the air at a particular
window, become to her, not so much apprehended objects, as
themselves powers of apprehension and door- ways to things beyond the
germ or rudiment of certain new faculties, by which she, dimly yet
surely, apprehends a matter lying beyond her actually attained capacities
of spirit and sense." So it must needs be in a world which is
itself, we may think, together with that bodily " tent "
or " tabernacle," only one of many vestures for the clothing of
the pilgrim soul, to be left by her, surely, as if on the wayside,
worn-out one by one, as it was from her, indeed, they borrowed what
momentary value or significance they had. The two friends were returning
to Rome from a visit to a country-house, where again a mixed
company of guests had been assembled ; Marius, for his part, a little
weary of gossip, and those sparks of ill-tempered rivalry, which would
seem sometimes to be the only sort of fire the intercourse of people in
general society can strike out of them. A mere reaction upon this, as
they started in the clear morning, made their com- panionship, at
least for one of them, hardly less tranquillising than the solitude he so
much valued. Something in the south-west wind, combining with their
own intention, favoured increasingly, as the hours wore on, a serenity
like that Marius had felt once before in journeying over the great
plain towards Tibur a serenity that was to-day brotherly amity also, and
seemed to draw into its own charmed circle whatever was then
present to eye or ear, while they talked or were silent together, and all
petty irritations, and the like, shrank out of existence, or kept
certainly beyond its limits. The natural fatigue of the long journey
overcame them quite suddenly at last, when they were still about
two miles distant from Rome. The seemingly end- less line of tombs
and cypresses had been visible for hours against the sky towards the west
; and it was just where a cross-road from the Latin Way fell into
the Appian, that Cornelius halted at a doorway in a long, low wall the
outer wall of some villa courtyard, it might be supposed as if at
liberty to enter, and rest there awhile. He held the door open for his
companion to enter also, if he would ; with an expression, as he
lifted the latch, which seemed to ask Marius, apparently shrinking from a
possible intrusion : " Would you like to see it ? " Was he
willing to look upon that, the seeing of which might define yes !
define the critical turning-point in his days ? The little
doorway in this long, low wall admitted them, in fact, into the court or
garden of a villa, disposed in one of those abrupt natural hollows,
which give its character to the country in this place ; the house itself,
with all its dependent buildings, the spaciousness of which
surprised Marius as he entered, being thus wholly concealed from
passengers along the road. All around, in those well-ordered precincts,
were the quiet signs of wealth, and of a noble taste a taste,
indeed, chiefly evidenced in the selection and juxtaposition of the
material it had to deal with, consisting almost exclusively of the
remains of older art, here arranged and harmonised, with effects,
both as regards colour and form, so delicate as to seem really derivative
from some finer intelligence in these matters than lay within the
resources of the ancient world. It was the \ old way of true Renaissance
being indeed the way of nature with her roses, the divine way with
the body of man, perhaps with his soul conceiving the new organism by no
sudden and abrupt creation, but rather by the action of a new I principle
upon elements, all of which had in truth already lived and died many
times. The fragments of older architecture, the mosaics, the spiral
columns, the precious corner-stones of im- memorial building, had put on,
by such juxta- position, a new and singular expressiveness, an air
of grave thought, of an intellectual purpose, in itself, aesthetically,
very seductive. Lastly, herb and tree had taken possession,
spreading their seed-bells and light branches, just astir in the
trembling air, above the ancient garden-wall, against the wide realms of
sunset. And from the first they could hear singing, the singing of
children mainly, it would seem, and of a new kind ; so novel indeed in
its effect, as to bring suddenly to the recollection of Marius,
Flavian's early essays towards a new world of poetic sound. It was
the expression not altogether of mirth, yet of some wonderful sort of
happiness the blithe self-expansion of a joyful soul in people upon
whom some all-subduing experience had wrought heroically, and who still
remembered, on this bland afternoon, the hour of a great
deliverance. His old native susceptibility to the spirit, the
special sympathies, of places, above all, to any hieratic or religious
significance they might have, was at its liveliest, as Marius, still
encompassed by that peculiar singing, and still amid the evidences
of a grave discretion all around him, passed into the house. That
intelligent seriousness about life, the absence of which had ever seemed
to remove those who lacked it into some strange species wholly alien from
himself, ac- cumulating all the lessons of his experience since
those first days at White-nights, was as it were translated here, as if
in designed congruity with his favourite precepts of the power of
physical vision, into an actual picture. If the true value of souls
is in proportion to what they can admire, Marius was just then an
acceptable soul. As he passed through the various chambers, great
and small, one dominant thought increased upon him, the thought of
chaste women and their children of all the various affections of family
life under its most natural conditions, yet developed, as if in
devout imitation of some sublime new type of it, into large controlling
passions. There reigned throughout, an order and purity, an orderly
dis- position, as if by way of making ready for some gracious
spousals. The place itself was like a bride adorned for her husband ; and
its singular cheerfulness, the abundant light everywhere, the sense
of peaceful industry, of which he received a deep impression though
without precisely reckoning wherein it resided, as he moved on
rapidly, were in forcible contrast just at first to the place to which he
was next conducted by Cornelius still with a sort of eager, hurried,
half- troubled reluctance, and as if he forbore the explanation
which might well be looked for by his companion. An old
flower-garden in the rear of the house, set here and there with a
venerable olive-tree a picture in pensive shade and fiery blossom,
as transparent, under that afternoon light, as the old
miniature-painters' work on the walls of the chambers within was bounded
towards the west by a low, grass-grown hill. A narrow opening cut
in its steep side, like a solid black- ness there, admitted Marius and
his gleaming leader into a hollow cavern or crypt, neither more nor
less in fact than the family burial- place of the Cecilii, to whom this
residence belonged, brought thus, after an arrangement then
becoming not unusual, into immediate connexion with the abode of the
living, in bold assertion of that instinct of family life, which
the sanction of the Holy Family was, hereafter, more and more to
reinforce. Here, in truth, was the centre of the peculiar religious
expres- siveness, of the sanctity, of the entire scene. That
"any person may, at his own election, constitute the place which
belongs to him a religious place, by the carrying of his dead into
it": had been a maxim of old Roman law, which it was reserved for
the early Christian societies, like that established here by the
piety of a wealthy Roman matron, to realise in all its
consequences. Yet this was certainly unlike any cemetery Marius had ever
before seen ; most obviously in this, that these people had
returned to the older fashion of disposing of their dead by burial
instead of burning. Origin- ally a family sepulchre, it was growing to a
vast necropolis^ a whole township of the deceased, by means of some
free expansion of the family interest beyond its amplest natural limits.
That air of venerable beauty which characterised the house and its
precincts above, was maintained also here. It was certainly with a great
outlay of labour that these long, apparently endless, yet
elaborately designed galleries, were increasing so rapidly, with their
layers of beds or berths, one above another, cut, on either side the
path- way, in the porous tufa^ through which all the moisture
filters downwards, leaving the parts above dry and wholesome. All alike
were care- fully closed, and with all the delicate costliness at
command ; some with simple tiles of baked clay, many with slabs of
marble, enriched by fair inscriptions : marble taken, in some
cases, from older pagan tombs the inscription some- times a
palimpsest^ the new epitaph being woven into the faded letters of an
earlier one. As in an ordinary Roman cemetery, an abundance
of utensils for the worship or com memoration of the departed was disposed around incense,
lights, flowers, their flame or their freshness being relieved to the
utmost by contrast with the coal-like blackness of the soil itself,
a volcanic sandstone, cinder of burnt- out fires. Would they ever kindle
again ? possess, transform, the place ? Turning to an ashen pallor
where, at regular intervals, an air-hole or luminare let in a hard beam
of clear but sunless light, with the heavy sleepers, row upon row
within, leaving a passage so narrow that only one visitor at a time could
move along, cheek to cheek with them, the high walls seemed to shut
one in into the great company of the dead. Only the long straight
pathway lay before him ; opening, however, here and there, into a small
chamber, around a broad, table-like coffin or " altar-tomb,"
adorned even more profusely than the rest as if for some
anniversary observance. Clearly, these people, concurring in this with
the special sympathies of Marius himself, had adopted the practice
of burial from some peculiar feeling of hope they entertained
concerning the body ; a feeling which, in no irreverent curiosity, he
would fain have penetrated. The complete and irreparable
disappearance of the dead in the funeral fire, so crushing to the
spirits, as he for one had found it, had long since induced in him a
preference for that other mode of settlement to the last sleep, as
having something about it more home- like and hopeful, at least in
outward seeming. But whence the strange confidence that these
"handfuls of white dust" would hereafter re- compose themselves
once more into exulting human creatures ? By what heavenly alchemy,
what reviving dew from above, such as was certainly never again to reach
the dead violets ? Januarius, Agapetus^ Felicitas ; Martyrs !
refresh, I pray you, the soul of Cecil, of Cornelius ! said an
inscription, one of many, scratched, like a passing sigh, when it was
still fresh in the mortar that had closed up the prison-door. All
critical estimate of this bold hope, as sincere apparently as it was
audacious in its claim, being set aside, here at least, carried
further than ever before, was that pious, systematic commemoration
of the dead, which, in its chivalrous refusal to forget or finally desert
the helpless, had ever counted with Marius as the central exponent or
symbol of all natural duty. The stern soul of the excellent
Jonathan Edwards, applying the faulty theology of John Calvin,
afforded him, we know, the vision of infants not a span long, on the
floor of hell. Every visitor to the Catacombs must have observed,
in a very different theological con- nexion, the numerous children's
graves there beds of infants, but a span long indeed, lowly
"prisoners of hope," on these sacred floors. It was with great
curiosity, certainly, that Marius considered them, decked in some
in- stances with the favourite toys of their tiny occupants
toy-soldiers, little chariot-wheels, the entire paraphernalia of a
baby-house ; and when he saw afterwards the living children, who sang
and were busy above sang their psalm Laudate Pueri Dominumf their very
faces caught for him a sort of quaint unreality from the memory of
those others, the children of the Catacombs, but a little way below
them. Here and there, mingling with the record of merely
natural decease, and sometimes even at these children's graves, were the
signs of violent death or " martyrdom," proofs that some
" had loved not their lives unto the death " in the little red
phial of blood, the palm-branch, the red flowers for their heavenly
" birthday." About one sepulchre in particular, distinguished
in this way, and devoutly arrayed for what, by a bold paradox, was thus
treated as, natalitia a birthday, the peculiar arrangements of the
whole place visibly centered. And it was with a singular novelty of
feeling, like the dawn- ing of a fresh order of experiences upon
him, that, standing beside those mournful relics, snatched in haste
from the common place of execution not many years before, Marius
be- came, as by some gleam of foresight, aware of the whole force
of evidence for a certain strange, new hope, defining in its turn some
new and weighty motive of action, which lay in deaths so tragic for
the " Christian superstition." Something of them he had heard
indeed already. They had seemed to him but one savagery the more,
savagery self- provoked, in a cruel and stupid world. And yet
these poignant memorials seemed also to draw him onwards to-day, as if
towards an image of some still more pathetic suffering, in the
remote background. Yes ! the interest, the expression, of the entire
neighbourhood was instinct with it, as with the savour of some
priceless incense. Penetrating the whole atmosphere, touching everything
around with its peculiar sentiment, it seemed to make all this
visible mortality, death's very self Ah ! lovelier than any fable of old
mythology had ever thought to render it, in the utmost limits i of
fantasy ; and this, in simple candour of feeling about a supposed fact.
Peace! Pax! Pax tecuml the word, the thought was put forth everywhere,
with images of hope, snatched sometimes from that jaded pagan world
which had really afforded men so little of it from first to last ;
the various consoling images it had thrown off, of succour, of
regeneration, of escape from the grave Hercules wrestling with
Death for possession of Alcestis, Orpheus taming the wild beasts,
the Shepherd with his sheep, the Shepherd carrying the sick lamb upon
his shoulders. Yet these imageries after all, it must be confessed,
formed but a slight contribution to the dominant effect of tranquil hope
there a kind of heroic cheerfulness and grateful ex- i pansion of
heart, as with the sense, again, of some real deliverance, which seemed
to deepen the longer one lingered through these strange and awful
passages. A figure, partly pagan in character, yet most frequently
repeated of all these visible parables the figure of one
just escaped from the sea, still clinging as for life to the shore
in surprised joy, together with the inscription beneath it, seemed best
to express the prevailing sentiment of the place. And it was just
as he had puzzled out this inscription / went down to the bottom of
the mountains. The earth with her bars was about me for ever : Yet
hast Thou brought up my life from corruption ! that with no feeling
of suddenness or change Marius found himself emerging again, like a
later mystic traveller through similar dark places " quieted by
hope," into the daylight. They were still within the precincts
of the house, still in possession of that wonderful sing- ing,
although almost in the open country, with a great view of the Campagna
before them, and the hills beyond. The orchard or meadow, through
which their path lay, was already gray with twilight, though the western
sky, where the greater stars were visible, was still afloat in
crimson splendour. The colour of all earthly things seemed repressed by
the contrast, yet with a sense of great richness lingering in their
shadows. At that moment the voice of the singers, a " voice of joy
and health," concen- trated itself with solemn antistrophic
movement, into an evening, or " candle " hymn.
" Hail ! Heavenly Light, from his pure glory poured, Who is
the Almighty Father, heavenly, blest : Worthiest art Thou, at all times
to be sung With undefiled tongue." It was like the evening
itself made audible, its hopes and fears, with the stars shining in
the midst of it. Half above, half below the level white mist,
dividing the light from the dark- ness, came now the mistress of this
place, the wealthy Roman matron, left early a widow a,i few years
before, by Cecilius " Confessor and [ Saint." With a certain
antique severity in the I gathering of the long mantle, and with coif
or veil folded decorously below the chin, " gray within
gray," to the mind of Marius her temperate beauty brought
reminiscences of the serious and virile character of the best
female statuary of Greece. Quite foreign, however, to any Greek
statuary was the expression of pathetic care, with which she carried a
little child at rest in her arms. Another, a year or two older,
walked beside, the fingers of one hand within her girdle. She paused for
a moment with a greeting for Cornelius. That visionary scene
was the close, the fit- ting close, of the afternoon's strange
experiences. A few minutes later, passing forward on his way along
the public road, he could have fancied it a dream. The house of Cecilia
grouped itself beside that other curious house he had lately
visited at Tusculum. And what a contrast was presented by the former, in
its suggestions of hopeful industry, of immaculate cleanness, of
responsive affection ! all alike determined by that transporting
discovery of some fact, or series of facts, in which the old puzzle of
life had found its solution. In truth, one of his most
characteristic and constant traits had ever been a certain longing for
escape for some sudden, relieving interchange, across the very spaces of
life, it might be, along which he had lingered most pleasantly for a
lifting, from time to time, of the actual horizon. It was like the
necessity under which the painter finds himself, to set a window or open
doorway in the back- ground of his picture ; or like a sick man's
longing for northern coolness, and the whisper- ing willow-trees, amid
the breathless evergreen forests of the south. To some such effect
had this visit occurred to him, and through so slight an accident.
Rome and Roman life, just then, were come to seem like some stifling forest
of bronze -work, transformed, as if by malign en- chantment, out of
the generations of living trees, yet with roots in a deep, down-trodden
soil of poignant human susceptibilities. In the midst of its
suffocation, that old longing for escape had been satisfied by this
vision of the church in Cecilia's house, as never before. It was
still, indeed, according to the unchangeable law of his
temperament, to the eye, to the visual faculty of mind, that those
experiences appealed the peaceful light and shade, the boys whose
very faces seemed to sing, the virginal beauty of the mother and her
children. But, in his case, what was thus visible constituted a
moral or spiritual influence, of a somewhat exigent and controlling
character, added anew to life, a new element therein, with which,
consistently with his own chosen maxim, he must make terms.
The thirst for every kind of experience, encouraged by a philosophy
which taught that nothing was intrinsically great or small, good or
evil, had ever been at strife in him with a hieratic refinement, in which
the boy -priest survived, prompting always the selection of what
was perfect of its kind, with subsequent loyal adherence of his soul
thereto. This had carried him along in a continuous communion with
ideals, certainly realised in part, either in the conditions of his own
being, or in the actual company about him, above all, in Cornelius.
Surely, in this strange new society he had touched upon for the first
time to-day in this strange family, like "a garden enclosed "
was the fulfilment of all trie preferences, the judg- ments, of
that half-understood friend, which of late years had been his protection
so often amid the perplexities of life. Here, it might be, was, if
not the cure, yet the solace or anodyne of his great sorrows of that
constitutional sorrowfulness, not peculiar to himself perhaps, but
which had made his life certainly like one long " disease of the
spirit." Merciful intention made itself known remedially here, in
the mere contact of the air, like a soft touch upon aching flesh. On
the other hand, he was aware that new responsibilities also might be
awakened new and untried responsibilities a demand for something
from him in return. Might this new vision, like the malignant beauty of
pagan Medusa, be exclusive of any admiring gaze upon anything but
itself? At least he suspected that, after the beholding of it, he could
never again be altogether as he had been before. Faithful to the
spirit of his early Epicurean philosophy and the impulse to surrender
himself, in perfectly liberal inquiry about it, to anything that,
as a matter of fact, attracted or impressed him strongly, Marius informed
himself with much pains concerning the church in Cecilia's house ;
inclining at first to explain the peculi- arities of that place by the
establishment there of the schola or common hall of one of those
burial- guilds, which then covered so much of the unofficial, and,
as it might be called, subterranean enterprise of Roman society.
And what he found, thus looking, literally, for the dead among the
living, was the vision of a natural, a scrupulously natural, love,
transform- ing, by some new gift of insight into the truth of human
relationships, and under the urgency of some new motive by him so far
unfathomable, all the conditions of life. He saw, in all its primi-
tive freshness and amid the lively facts of its! actual coming into the
world, as a reality of experience, that regenerate type of humanity,
which, centuries later, Giotto and his successors, down to the best and
purest days of the young Raphael, working under conditions very
friendly to the imagination, were to conceive as an artistic ideal.
He felt there, felt amid the stirring of some wonderful new hope within
himself, the genius, the unique power of Christianity; in exercise
then, as it has been exercised ever since, in spite of many hindrances,
and under the most inopportune circumstances. Chastity, as he
seemed to understand the chastity of men and women, amid all the
conditions, and with the results, proper to such chastity, is the
most beautiful thing in the world and the truest con- servation of
that creative energy by which men and women were first brought into it.
The nature of the family, for which the better genius of old Rome
itself had sincerely cared, of the family and its appropriate affections
all that love of one's kindred by which obviously one does triumph
in some degree over death had never been so felt before. Here, surely! in
its genial warmth, its jealous exclusion of all that was opposed to
it, to its own immaculate naturalness, in the hedge set around the sacred
thing on every side, this development of the family did but carry
forward, and give effect to, the purposes, the kindness, of nature
itself, friendly to man. As if by way of a due recognition of some
im- measurable divine condescension manifest in a certain historic
fact, its influence was felt more especially at those points which
demanded some sacrifice of one's self, for the weak, for the aged,
for little children, and even for the dead. And % then, for its constant
outward token, its significant manner or index, it issued in a certain
debonair grace, and a certain mystic attractiveness, a courtesy,
which made Marius doubt whether that famed Greek " blitheness,"
or gaiety, or grace, in the handling of life, had been, after all,
an unrivalled success. Contrasting with the in- curable insipidity even
of what was most exquisite in the higher Roman life, of what was still
truest to the primitive soul of goodness amid its evil, the new
creation he now looked on as it were a picture beyond the craft of any
master of old pagan beauty had indeed all the appropriate freshness
of a " bride adorned for her husband." Things new and old
seemed to be coming as if out of some goodly treasure-house, the brain
full of science, the heart rich with various sentiment, possessing
withal this surprising healthfulness, this reality of heart.
" You would hardly believe," writes Pliny to his own wife
! "what a longing for you possesses me. Habit that we have not
been used to be apart adds herein to the primary force of
affection. It is this keeps me awake at night fancying I see you beside
me. That is why my feet take me unconsciously to your sitting-room
at those hours when I was wont to visit you there. That is why I turn from
the door of the empty chamber, sad and ill-at-ease, like an
excluded lover." There, is a real idyll from that family
life, the protection of which had been the motive of so large a
part of the religion of the Romans, still surviving among them ; as it
survived also in Aurelius, his disposition and aims, and, spite of
slanderous tongues, in the attained sweetness of his interior life. What
Marius had been per- mitted to see was a realisation of such life
higher still : and with Yes ! with a more effective sanction and
motive than it had ever possessed before, in that fact, or series of
facts, to be ascer- tained by those who would. The central
glory of the reign of the Anto- nines was that society had attained in
it, though very imperfectly, and for the most part by cumbrous
effort of law, many of those ends to which Christianity went straight,
with the sufficiency, the success, of a direct and appro- priate
instinct. Pagan Rome, too, had its touch- ing charity-sermons on
occasions of great public distress ; its charity-children in long file,
in memory of the elder empress Faustina ; its prototype, under
patronage of Aesculapius, of the modern hospital for the sick on the
island of Saint Bartholomew. But what pagan charity was doing
tardily, and as if with the painful cal- culation of old age, the church
was doing, almost without thinking about it, with all the
liberal enterprise of youth, because it was her very being thus to
do. " You fail to realise your own good intentions," she seems
to say, to pagan virtue, pagan kindness. She identified herself
with those intentions and advanced them with an un- paralleled
freedom and largeness. The gentle Seneca would have reverent burial
provided even for the dead body of a criminal. Yet when a certain
woman collected for interment the insulted remains of Nero, the pagan
world surmised that she must be a Christian: only a Christian would
have been likely to conceive so chivalrous a devotion towards mere
wretchedness. "We refuse to be witnesses even of a homicide
com- manded by the law," boasts the dainty consciena of a Christian
apologist, " we take no part ii your cruel sports nor in the
spectacles of the amphitheatre, and we hold that to witness a
murder is the same thing as to commit one." And there was another
duty almost forgotten, the sense of which Rousseau brought back to
the degenerate society of a later age. In an im- passioned
discourse the sophist Favorinus counsels mothers to suckle their own
infants ; and there are Roman epitaphs erected to mothers, which
gratefully record this proof of natural affection as a thing then
unusual. In this matter too, what a sanction, what a provocative to
natural duty, lay in that image discovered to Augustus by the
Tiburtine Sibyl, amid the aurora of a new age, the image of the Divine
Mother and the Child, just then rising upon the world like the dawn
! Christian belief, again, had presented itself as a great
inspirer of chastity. Chastity, in turn, realised in the whole scope of
its conditions, fortified that rehabilitation of peaceful labour,
after the mind, the pattern, of the workman of Galilee, which was another
of the natural in- stincts of the catholic church, as being indeed
the long-desired initiator of a religion of cheerfulness, as a true
lover of the industry so to term it the labour, the creation, of
God. And this severe yet genial assertion of the ideal of
woman, of the family, of industry, of man's work in life, so close to the
truth of nature, was also, in that charmed hour of the minor "
Peace of the church," realised as an influence tending to beauty, to
the adornment of life and the world. The sword in the world, the
right eye plucked out, the right hand cut off*, the spirit of
reproach which those images express, and of which monasticism is the
fulfilment, reflect one side only of the nature of the divine
missionary of the New Testament. Opposed to, yet blent with, this
ascetic or militant character, is the function of the Good Shepherd,
serene, blithe and debonair, beyond the gentlest shepherd of Greek
mythology; of a king under whom the beatific vision is realised of a
reign of peace-- peace of heart among men. Such aspect of the
divine character of Christ, rightly understood, is indeed the final
consummation of that bold and brilliant hopefulness in man's nature,
which had sustained him so far through his immense labours, his
immense sorrows, and of which pagan gaiety in the handling of life, is
but a minor achieve- ment. Sometimes one, sometimes the other, of
those two contrasted aspects of its Founder, have, in different ages and
under the urgency of different human needs, been at work also in the
Christian Church. Certainly, in that brief " Peace of the
church " under the Antonines, the spirit of a pastoral security and
happiness seems to have been largely expanded. There, in the early
church of Rome, was to be seen, and on sufficiently reasonable grounds,
that satisfaction and serenity on a dispassionate survey of the
facts of life, which all hearts had desired, though for the most
part in vain, contrasting itself for Marius, in particular, very
forcibly, with the imperial philosopher's so heavy burden of un-
relieved melancholy. It was Christianity in its humanity, or even its
humanism, in its generous hopes for man, its common sense and alacrity
of cheerful service, its sympathy with all creatures, its
appreciation of beauty and daylight. " The angel of
righteousness," says the Shep- herd of Hermas, the most
characteristic religious book of that age, its Pilgrim's Progress
"the angel of righteousness is modest and delicate and meek
and quiet. Take from thyself grief, for (as Hamlet will one day discover)
'tis the sister of doubt and ill-temper. Grief is more evil than any
other spirit of evil, and is most dread- ful to the servants of God, and
beyond all spirits destroyeth man. For, as when good news is come
to one in grief, straightway he forgetteth his former grief, and no
longer attendeth to any- thing except the good news which he hath
heard, so do ye, also ! having received a renewal of your soul
through the beholding of these good things. Put on therefore gladness
that hath always favour before God, and is acceptable unto Him, and
delight thyself in it ; for every man that is glad doeth the things that
are good, and thinketh good thoughts, despising grief." Such
were the commonplaces of this new people, among whom so much of what
Marius had valued most in the old world seemed to be under renewal
and further promotion. Some trans- forming spirit was at work to harmonise
con- trasts, to deepen expression a spirit which, in its dealing
with the elements of ancient life, was guided by a wonderful tact of
selection, exclu- sion, juxtaposition, begetting thereby a unique
effect of freshness, a grave yet wholesome beauty, because the world of
sense, the whole outward world was understood to set forth the
veritable unction and royalty of a certain priesthood and kingship
of the soul within, among the preroga- tives of which was a delightful
sense of freedom. The reader may think perhaps, that Marius, who,
Epicurean as he was, had his visionary aptitudes, by an inversion of one
of Plato's peculiarities with which he was of course familiar, must
have descended, \>j foresight, upon a later age than his own, and
anticipated Chris- tian poetry and art as they came to be under the
influence of Saint Francis of Assisi. But if he dreamed on one of those
nights of the beautiful house of Cecilia, its lights and flowers, of
Cecilia herself moving among the lilies, with an en- hanced grace
as happens sometimes in healthy dreams, it was indeed hardly an
anticipation. He had lighted, by one of the peculiar in- )
tellectual good-fortunes of his life, upon a period when, even more than
in the days of austere ascesis which had preceded and were to
follow it, the church was true for a moment, truer perhaps than she
would ever be again, to that element of profound serenity in the soul of
her Founder, which reflected the eternal goodwill of God to man,
" in whom," according to the oldest version of the angelic
message, " He is well- pleased." For what
Christianity did many centuries afterwards in the way of informing an
art, a poetry, of graver and higher beauty, we may think, than that
of Greek art and poetry at their best, was in truth conformable to the
original tendency of its genius. The genuine capacity of the
catholic church in this direction, discover- able from the first in the
New Testament, was also really at work, in that earlier "
Peace," under the Antonines the minor "Peace of the
church," as we might call it, in distinction from the final "
Peace of the church," commonly so called, under Constantine. Saint
Francis, with his following in the sphere of poetry and of the arts
the voice of Dante, the hand of Giotto giving visible feature and colour,
and a palpable place among men, to the regenerate race, did but
re-establish a continuity, only suspended in part by those troublous
intervening centuries the "dark ages," properly thus named with
the gracious spirit of the primitive church, as manifested in that
first early springtide of her success. The greater " Peace " of
Constantine, on the other hand, in many ways, does but establish the
ex- clusiveness, the puritanism, the ascetic gloom which, in the
period between Aurelius and the first Christian emperor, characterised a
church under misunderstanding or oppression, driven back, in a
world of tasteless controversy, inwards upon herself.
Already, in the reign of Antoninus Pius, the time was gone by when
men became Christians under some sudden and overpowering
impression, and with all the disturbing results of such a crisis.
At this period the larger number, perhaps, had been born Christians, had
been ever with peaceful hearts in their " Father's house."
That earlier belief in the speedy coming of judgment and of the end
of the world, with the con- sequences it so naturally involved in the
temper of men's minds, was dying out. Every day the contrast between
the church and the world was becoming less pronounced. And now also,
as the church rested awhile from opposition, that rapid
self-development outward from within, proper to times of peace, was in
progress. Antoninus Pius, it might seem, more truly even than
Marcus Aurelius himself, was of that group of pagan saints for whom
Dante, like Augustine, has provided in his scheme of the house with
many mansions. A sincere old Roman piety had urged his fortunately constituted
nature to no mistakes, no offences against humanity. And of his
entire freedom from guile one reward had been this singular happiness,
that under his rule there was no shedding of Christian blood. To
him belonged that half-humorous placidity of soul, of a kind illustrated
later very effectively by Montaigne, which, starting with an instinct
of mere fairness towards human nature and the world, seems at last
actually to qualify its possessor to be almost the friend of the people
of Christ. Amiable, in its own nature, and full of a reasonable
gaiety, Christianity has often had its advantage of characters such as
that. The geni- ality of Antoninus Pius, like the geniality of the
earth itself, had permitted the church, as being in truth no alien from
that old mother earth, to expand and thrive for a season as by
natural process. And that charmed period under the Antonines,
extending to the later years of the reign of Aurelius (beautiful, brief,
chapter of ecclesiastical history !), contains, as one of its
motives of interest, the earliest development of Christian ritual under
the presidence of the church of Rome. Again as in one of
those mystical, quaint visions of the Shepherd of Hernias, "the
aged woman was become by degrees more and more youthful. And in the
third vision she was quite young, and radiant with beauty : only her
hair was that of an aged woman. And at the last she was joyous, and
seated upon a throne seated upon a throne, because her position is a strong
one." The subterranean worship of the church belonged properly to
those years of her early history in which it was illegal for her to
worship at all. But, hiding herself for awhile as con- flict grew
violent, she resumed, when there was felt to be no more than ordinary
risk, her natural freedom. And the kind of outward prosperity she
was enjoying in those moments of her first " Peace," her modes
of worship now blossoming freely above-ground, was re-inforced by the
deci- sion at this point of a crisis in her internal history.
In the history of the church, as throughout the moral history of
mankind, there are two distinct ideals, either of which it is possible
to maintain two conceptions, under one or the other of which we may
represent to ourselves men's efforts towards a better life
corresponding to those two contrasted aspects, noted above,
as discernible in the picture afforded by the New Testament itself
of the character of Christ. The ideal of asceticism represents moral
effort as essentially a sacrifice, the sacrifice of one part of
human nature to another, that it may live the more completely in what
survives of it ; while the ideal of culture represents it as a
harmonious development of all the parts of human nature, in just
proportion to each other. It was to the latter order of ideas that the
church, and' especially the church of Rome in the age of the
Antonines, freely lent herself. In that earlier " Peace " she
had set up for herself the ideal of spiritual development, under the
guidance of an instinct by which, in those serene moments, she was
absolutely true to the peaceful soul of her Founder. " Goodwill to
men," she said, " in whom God Himself is well -pleased ! "
For a little while, at least, there was no forced opposi- tion
between the soul and the body, the world and the spirit, and the grace of
graciousness itself was pre-eminently with the people of Christ.
Tact, good sense, ever the note of a true ortho- doxy, the merciful
compromises of the church, indicative of her imperial vocation in regard
to all the varieties of human kind, with a universal- ity of which
the old Roman pastorship she was superseding is but a prototype, was
already become conspicuous, in spite of a discredited, irritating,
vindictive society, all around her. Against that divine urbanity and
moderation the old error of Montanus we read of dimly, was a
fanatical revolt sour, falsely anti-mun- dane, ever with an air of
ascetic affectation, and a bigoted distaste in particular for all
the peculiar graces of womanhood. By it the desire to please was
understood to come of the author of evil. In this interval of quietness,
it was perhaps inevitable, by the law of reaction, that some such
extravagances of the religious temper should arise. But again the church
of Rome, now becoming every day more and more com- pletely the
capital of the Christian world, checked the nascent Montanism, or
puritanism of the moment, vindicating for all Christian people a
cheerful liberty of heart, against many a narrow group of sectaries, all
alike, in their different ways, accusers of the genial creation of
God. With her full, fresh faith in the Evange/e in a veritable
regeneration of the earth and the body, in the dignity of man's entire
personal being for a season, at least, at that critical period in
the development of Christianity, she was for reason, for common sense,
for fairness to human nature, and generally for what may be called
the naturalness of Christianity. As also for its comely order: she would
be "brought to her king in raiment of needlework." It was
by the bishops of Rome, diligently transforming themselves, in the
true catholic sense, into universal pastors, that the path of what we
must call humanism was thus defined. And then, in this hour of
expansion, as if now at last the catholic church might venture to
show her outward lineaments as they really were, worship "the beauty
of holiness," nay! the elegance of sanctity was developed, with
a bold and confident gladness, the like of which has hardly been
the ideal of worship in any later age. The tables in fact were turned :
the prize of a cheerful temper on a candid survey of life was no
longer with the pagan world. The aesthetic charm of the catholic church,
her evoca- tive power over all that is eloquent and expres- sive in
the better mind of man, her outward comeliness, her dignifying
convictions about human nature : all this, as abundantly realised
centuries later by Dante and Giotto, by the great medieval
church-builders, by the great ritualists like Saint Gregory, and the
masters of sacred music in the middle age we may see already, in
dim anticipation, in those charmed moments towards the end of the second
century. Dissi- pated or turned aside, partly through the fatal
mistake of Marcus Aurelius himself, for a brief space of time we may
discern that influence clearly predominant there. What might seem
harsh as dogma was already justifying itself as worship ; according to
the sound rule : Lex orandi^ lex credendi Our Creeds are but the
brief abstract of our prayer and song. The wonderful liturgical
spirit of the church, her wholly unparalleled genius for
worship, being thus awake, she was rapidly re-organising both pagan
and Jewish elements of ritual, for the expanding therein of her own new
heart of devotion. Like the institutions of monasticism, like the
Gothic style of architecture, the ritual system of the church, as we see
it in historic retrospect, ranks as one of the great, conjoint, and
(so to term them) necessary, products of human mind. Destined for ages to
come, to direct with so deep a fascination men's religious
instincts, it was then already recognisable as a new and precious fact in
the sum of things. What has been on the whole the method of the
church, as " a power of sweetness and patience," in dealing
with matters like pagan art, pagan literature was even then manifest ;
and has the character of the moderation, the divine modera- tion of
Christ himself. It was only among the ignorant, indeed, only in the "
villages," that Christianity, even in conscious triumph over
paganism, was really betrayed into iconoclasm. In the final " Peace
" of the Church under Constantine, while there was plenty of
destruc- tive fanaticism in the country, the revolution was
accomplished in the larger towns, in a manner more orderly and discreet
in the Roman manner. The faithful were bent less on the destruction
of the old pagan temples than on their conversion to a new and higher use
; and, with much beautiful furniture ready to hand, they became
Christian sanctuaries. Already, in accordance with such maturer
wisdom, the church of the " Minor Peace " had adopted many of
the graces of pagan feeling and pagan custom ; as being indeed a living
creature, taking up, transforming, accommodating still more closely
to the human heart what of right belonged to it. In this way an obscure
syna- gogue was expanded into the catholic church. Gathering, from
a richer and more varied field of sound than had remained for him, those
old Roman harmonies, some notes of which Gregory the Great,
centuries later, and after generations of interrupted development, formed
into the Gregorian music, she was already, as we have heard, the
house of song of a wonderful new music and poesy. As if in anticipation
of the sixteenth century, the church was becoming!
"humanistic," in an earlier, and unimpeachable/ Renaissance.
Singing there had been in abund-j ance from the first ; though often it
dared only be " of the heart." And it burst forth, when
it might, into the beginnings of a true ecclesiastical music; the
Jewish psalter, inherited from the synagogue, turning now, gradually,
from Greek into Latin broken Latin, into Italian, as the ritual use
of the rich, fresh, expressive vernacular superseded the earlier
authorised language of the Church. Through certain surviving
remnants of Greek in the later Latin liturgies, we may still
discern a highly interesting intermediate phase of ritual development,
when the Greek and the Latin were in combination; the poor, surely !
the poor and the children of that liberal Roman church responding already
in their own " vulgar tongue," to an office said in the
original, liturgical Greek. That hymn sung in the early morning, of which
Pliny had heard, was kindling into the service of the Mass.
The Mass, indeed, would appear to have been said continuously from
the Apostolic age. Its details, as one by one they become visible
in later history, have already the character of what is ancient and
venerable. "We are very old, and ye are young ! " they seem to
protest, to those who fail to understand them. Ritual, in fact,
like all other elements of religion, must grow and cannot be made grow by
the same law of development which prevails everywhere else, in the
moral as in the physical world. As regards this special phase of the
religious life, however, such development seems to have been
unusually rapid in the subterranean age which preceded Constantine ; and
in the very first days j of the final triumph of the church the
Mass emerges to general view already substantially complete. "
Wisdom " was dealing, as with the dust of creeds and philosophies,
so also with the dust of outworn religious usage, like the very
spirit of life itself, organising soul and body out of the lime and clay
of the earth. In a generous eclecticism, within the bounds of her
liberty, and as by some providential power within her, she gathers
and serviceably adopts, as in other matters so in ritual, one thing here,
another there, from various sources Gnostic, Jewish, Pagan to adorn
and beautify the greatest act of worship the world has seen. It was thus
the liturgy of the church came to be full of con- solations for the
human soul, and destined, surely ! one day, under the sanction of so many
ages of human experience, to take exclusive possession of the
religious consciousness. TANTUM ERGO SACRAMENTUM
VENEREMUR CERNUI : ET ANTIQUUM DOCUMENTUM NOVO CEDAT RITUI.
" Wisdom hath builded herselt a house : she hath mingled hex
wine : she hath also prepared for herself a table." The more
highly favoured ages of imaginative art present instances of the summing
up of an entire world of complex associations under some single
form, like the Zeus of Olympia, or the series of frescoes which
commemorate The Acts of Saint Francis, at Assisi, or like the play
of Hamlet or Faust. It was not in an image, or series of images,
yet still in a sort of dramatic action, and with the unity of a single appeal
to eye and ear, that Marius about this time found all his new
impressions set forth, regarding what he had already recognised,
intellectually, as for him at least the most beautiful thing in the
world. To understand the influence upon him of what follows
the reader must remember that it was an experience which came amid a
deep sense of vacuity in life. The fairest products of the
earth seemed to be dropping to pieces, as if in men's very hands, around
him. How real was their sorrow, and his ! " His observation of
life " had come to be like the constant telling of a sorrowful
rosary, day after day ; till, as if taking infection from the cloudy
sorrow of the mind, the eye also, the very senses, were grown faint
and sick. And now it happened as with the actual morning on which he
found himself a spectator of this new thing. The long winter had
been a season of unvarying sullenness. At last, on this day he awoke with
a sharp flash of lightning in the earliest twilight : in a little while
the heavy rain had filtered the air: the clear light was abroad ; and, as
though the spring had set in with a sudden leap in the heart of
things, the whole scene around him lay like some untarnished picture
beneath a sky of delicate blue. Under the spell of his late de-
pression, Marius had suddenly determined to leave Rome for a while. But
desiring first to advertise Cornelius of his movements, and failing
to find him in his lodgings, he had ventured, still early in the day, to
seek him in the Cecilian villa. Passing through its silent and
empty court-yard he loitered for a moment, to admire. Under the clear but
immature light of winter morning after a storm, all the details of
form and colour in the old marbles were dis- tinctly visible, and with a
kind of severity or sadness so it struck him amid their beauty : in
them, and in all other details of the scene the cypresses, the bunches of
pale daffodils in the grass, the curves of the purple hills of
Tusculum, with the drifts of virgin snow still lying in their
hollows. The little open door, through which he passed from
the court-yard, admitted him into what was plainly the vast Lararium^ or
domestic sanctuary, of the Cecilian family, transformed in many
particulars, but still richly decorated, and retaining much of its
ancient furniture in metal- work and costly stone. The peculiar
half-light of dawn seemed to be lingering beyond its hour upon the
solemn marble walls ; and here, though at that moment in absolute
silence, a great company of people was assembled. In that brief
period of peace, during which the church emerged for awhile from her
jealously- guarded subterranean life, the rigour of an earlier rule
of exclusion had been relaxed. And so it came to pass that, on this
morning Marius saw for the first time the wonderful spectacle -
wonderful, especially, in its evidential power over himself, over his own
thoughts of those who believe. There were noticeable, among
those present, great varieties of rank, of age, of personal type.
The Roman ingenuus^ with the white toga and gold ring, stood side by side
with his slave ; and the air of the whole company was, above all, a
grave one, an air of recollection. Coming thus unexpectedly upon this
large assembly, so entirely united, in a silence so profound, for
purposes unknown to him, Marius felt for a moment as if he had stumbled
by chance upon some great conspiracy. Yet that could scarcely be,
for the peoplehere collected might have figured as the earliest handsel,
or pattern, of a new world, from the very face of which dis-
content had passed away. Corresponding to the variety of human type there
present, was the various expression of every form of human sorrow
assuaged. What desire, what fulfilment of desire, had wrought so
pathetically on the features of these ranks of aged men and women of
humble condition ? Those young men, bent down so j discreetly on
the details of their sacred service, had faced life and were glad, by
some science, or light of knowledge they had, to which there had
certainly been no parallel in the older world. Was some credible message
from beyond " the flaming rampart of the world " a message
of hope, regarding the place of men's souls and theirinterest in
the sum of things already moulding anew their very bodies, and
looks, and voices, now and here ? At least, there was a cleansing
and kindling flame at work in them, which seemed to make everything else Marius
had ever known look comparatively vulgar and mean. There were the
children, above all troops of children reminding him of those
pathetic children's graves, like cradles or garden-beds, he had noticed in his
first visit to these places; and they more than satisfied the odd
curiosity he had then conceived about them, wondering in what quaintly
expressive forms they might come forth into the daylight, if
awakened from sleep. Children of the Cata- combs, some but "a span
long," with features not so much beautiful as heroic (that world
of new, refining sentiment having set its seal even on phildhood),
they retained certainly no stain or trace of anything subterranean this
morning, in the alacrity of their worship as ready as if they had
been at play stretching forth their hands, crying, chanting in a resonant
voice, and with boldly upturned faces, Christe Eleison ! For
the silence silence, amid those lights of early morning to which Marius
had always been constitutionally impressible, as having in them a
certain reproachful austerity was broken suddenly by resounding cries of
Kyrie Eleison ! Christe Eleison! repeated alternately, again and
again, until the bishop, rising from his chair, made sign that this
prayer should cease. But the voices burst out once more presently,
in richer and more varied melody, though still of an antiphonal
character ; the men, the women and children, the deacons, the people,
answering one another, somewhat after the manner of a Greek chorus.
But again with what a novelty of poetic accent ; what a genuine expansion
of heart ; what profound intimations for the intellect, as the meaning of
the words grew upon him ! Cum grandi affectu et compunctione
dicatur says an ancient eucharistic order ; and certainly, the
mystic tone of this praying and singing was one with the expression of
deliverance, of grate- ful assurance and sincerity, upon the faces
of those assembled. As if some searching correc- tion, a
regeneration of the body by the spirit, \ had begun, and was already gone
a great way, the countenances of men, women, and children alike had
a brightness on them which he could fancy reflected upon himself an
amenity, a mystic amiability and unction, which found its way most
readily of all to the hearts of children themselves. The religious poetry
of those Hebrew psalms Benedixisti Domine terram tuam: Dixit
Dominus Domino meo^ sede a dextris meis was certainly in marvellous
accord with the lyrical instinct of his own character. Those august
hymns, he thought, must thereafter ever remain by him as among the
well-tested powers in things to soothe and fortify the soul. One
could never grow tired of them ! In the old pagan worship there had
been little to call the understanding into play. Here, on the other
hand, the utterance, the eloquence, the music of worship conveyed, as
Marius readily understood, a fact or series of facts, for
intellectual reception. That became evident, more especially, in those
lessons, or sacred readings, which, like the singing, in
broken vernacular Latin, occurred at certain intervals, amid the
silence of the assembly. There were readings, again with bursts of
chanted invocation between for fuller light on a difficult path, in
which many a vagrant voice of human philo- sophy, haunting men's minds
from of old, recurred with clearer accent than had ever belonged to
it before, as if lifted, above its first intention, into the harmonies of
some supreme system of knowledge or doctrine, at length complete.
And last of all came a narrative which, with a thousand tender memories,
every one appeared to know by heart, displaying, in all the
vividness of a picture for the eye, the mournful figure of him towards
whom this whole act of worship still consistently turned a figure
which seemed to have absorbed, like some rich tincture in his garment,
all that was deep-felt and impassioned in the experiences of the
past. It was the anniversary of his birth as a little child
they celebrated to-day. Astiterunt reges terra : so the Gradual, the
" Song of Degrees," proceeded, the young men on the steps of
the altar responding in deep, clear, antiphon or chorus
Astiterunt reges terrae Adversus sanctum puerum tuum, Jesum
: Nunc, Domine, da servis tuis loqui verbum tuum Et
signa fieri, per nomen sancti pueri Jesu. And the proper action of
the rite itself, like a half-opened book to be read by the duly
initi- ated mind took up those suggestions, and carried them forward
into the present, as having refer- ence to a power still efficacious,
still after some mystic sense even now in action among the people
there assembled. The entire office, in- deed, with its interchange of
lessons, hymns, prayer, silence, was itself like a single piece j
of highly composite, dramatic music ; a " song j of degrees,"
rising steadily to a climax. Not- | withstanding the absence of any
central image visible to the eye, the entire ceremonial process, /
like the place in which it was enacted, was weighty with symbolic
significance, seemed to express a single leading motive. The
mystery, if such in fact it was, centered indeed in the actions of
one visible person, distinguished among the assistants, who stood ranged
in semicircle around him, by the extreme fineness of his white
vestments, and the pointed cap with the golden ornaments upon his
head. Nor had Marius ever seen the pontifical character, as
he conceived it sicut unguentum in capite^ descendens in oram vestimenti
so fully real- ised, as in the expression, the manner and voice, of
this novel pontiff, as he took his seat on the white chair placed for him
by the young men, and received his long staff into his hand, or
moved his hands hands which seemed endowed in very deed with some
mysterious power at the Lavabo, or at the various benedictions, or to
bless certain objects on the table before him, chanting in cadence of a
grave sweetness the leading parts of the rite. What profound
unction and mysticity ! The solemn character of the singing was at its
height when he opened his lips. Like some new sort of rhapsodos, it
was for the moment as if he alone possessed the words of the office, and
they flowed anew from some permanent source of inspiration within
him. The table or altar at which he presided, below a canopy on delicate
spiral columns, was in fact the tomb of a youthful " witness,"
of the family of the Cecilii, who had shed his blood not many years
before, and whose relics were still in this place. It was for his sake
the bishop put his lips so often to the surface before him ; the
regretful memory of that death entwining itself, though not without
certain notes of triumph, as a matter of special inward
significance, throughout a service, which was, before all else,
from first to last, a commemoration of the dead. A sacrifice
also, a sacrifice, it might seem, like the most primitive, the most
natural and enduringly significant of old pagan sacrifices, of the
simplest fruits of the earth. And in con- nexion with this circumstance
again, as in the actual stones of the building so in the rite
itself, what Marius observed was not so much new matter as a new
spirit, moulding, informing, with a new intention, many observances
not witnessed for the first time to-day. Men and women came to the
altar successively, in perfect order, and deposited below the
lattice-work 01 pierced white marble, their baskets of wheat and
grapes, incense, oil for the sanctuary lamps ; bread and wine especially
pure wheaten bread, the pure white wine of the Tusculan vineyards.
There was here a veritable consecration, hopeful and animating, of the
earth's gifts, of old dead and dark matter itself, now in some way
re- deemed at last, of all that we can touch or see, in the midst
of a jaded world that had lost the true sense of such things, and in
strong contrast to the wise emperor's renunciant and impassive
attitude towards them. Certain portions of that bread and wine were taken
into the bishop's hands ; and thereafter, with an increasing mysti-
city and effusion the rite proceeded. Still in a strain of inspired
supplication, the antiphonal singing developed, from this point, into a
kind of dialogue between the chief minister and the whole assisting
company SURSUM CORDA ! HABEMUS AD DOMINUM.
GRATIAS AGAMUS DOMINO DEO NOSTRO ! It might have been thought
the business, the duty or service of young men more particularly,
as they stood there in long ranks, and in severe and simple vesture of
the purest white a service in which they would seem to be flying for
refuge, as with their precious, their treacher- ous and critical youth in
their hands, to one- Yes ! one like themselves, who yet claimed
their worship, a worship, above all, in the way of Aurelius, in the way
of imitation. Adoramus te Christe^ quia per crucem tuam redemisti mundum
! they cry together. So deep is the emotion that at moments it
seems to Marius as if some there present apprehend that prayer
prevails, that the very object of this pathetic crying him- self
draws near. From the first there had been the sense, an increasing
assurance, of one coming : actually with them now, according to the
oft- repeated affirmation or petition, e Dominus vobis- cum ! Some
at least were quite sure of it ; and the confidence of this remnant fired
the hearts, and gave meaning to the bold, ecstatic worship, of all
the rest about them. Prompted especially by the suggestions
of that mysterious old Jewish psalmody, so new to him lesson and
hymn and catching there- with a portion of the enthusiasm of those
beside him, Marius could discern dimly, behind the solemn
recitation which now followed, at once a narrative and a prayer, the most
touching image truly that had ever come within the scope of his
mental or physical gaze. It was the image of a young man giving up
voluntarily, one by one, for the greatest of ends, the greatest
gifts ; actually parting with himself, above all, with the serenity, the
divine serenity, of his own soul ; yet from the midst of his desolation
crying out upon the greatness of his success, as if foreseeing this very
worship. 1 As centre of the supposed facts which for these people
were become so constraining a motive of hopefulness, of activity,
that image seemed to display itself with an overwhelming claim on human
grati- tude. What Saint Lewis of France discerned, and found so
irresistibly touching, across the dimness of many centuries, as a painful
thing done for love of him by one he had never seen, was to them
almost as a thing of yesterday ; and their hearts were whole with it. It
had the force, among their interests, of an almost recent event in
the career of one whom their fathers' fathers might have known. From
memories so sublime, yet so close at hand, had the narra- tive
descended in which these acts of worship centered ; though again the
names of some more recently dead were mingled in it. And it seemed
as if the very dead were aware; to be stirring beneath the slabs of the
sepulchres which lay so near, that they might associate themselves
to this enthusiasm to this exalted worship of Jesus. One by
one, at last, the faithful approach to receive from the chief minister
morsels of the great, white, wheaten cake, he had taken into his
hands Perducat vos ad vitarn ceternam ! he prays, half-silently, as they
depart again, after 1 Psalm xxii. 22-31. discreet embraces.
The Eucharist of those early days was, even more entirely than at any
later or happier time, an act of thanksgiving ; and while the
remnants of the feast are borne away for the reception of the sick, the
sustained gladness of the rite reaches its highest point in the
sing- ing of a hymn : a hymn like the spontaneous product of two
opposed militant companies, contending accordantly together,
heightening, accumulating, their witness, provoking one an- other's
worship, in a kind of sacred rivalry. Ite ! Missa esf ! cried the
young deacons : and Marius departed from that strange scene along
with the rest. What was it ? Was it this made the way of Cornelius so
pleasant through the world ? As for Marius himself, the natural
soul of worship in him had at last been satisfied as never before. He
felt, as he left that place, that he must hereafter experience
often a longing memory, a kind of thirst, for all this, over again. And
it seemed moreover to define what he must require of the powers,
whatsoever they might be, that had brought him into the world at all, to
make him not unhappy in it. In cheerfulness is the success of our
studies, says Pliny studia hilaritate proveniunt. It was still the
habit of Marius, encouraged by his experi- ence that sleep is not only a
sedative but the best of stimulants, to seize the morning hours for
creation, making profit when he might of the wholesome serenity which
followed a dreamless night. " The morning for creation," he
would say; "the afternoon for the perfecting labour of the
file ; the evening for reception the reception of matter from without
one, of other men's words and thoughts matter for our own dreams,
or the merely mechanic exercise of the brain, brooding thereon silently,
in its dark chambers." To leave home early in the day was therefore
a rare thing for him. He was induced so to do on the occasion of a
visit to Rome of the famous writer Lucian, whom he had been bidden
to meet. The breakfast over, he walked away with the learned guest,
having offered to be his guide to the lecture-room of a well-known
Greek rhetorician and expositor of the Stoic philosophy, a teacher
then much in fashion among the studious youth of Rome. On reaching
the place, however, they found the doors closed, with a slip of
writing attached, which proclaimed " a holiday " ; and the
morning being a fine one, they walked further, along the Appian Way.
Mortality, with which the Queen of Ways in reality the favourite cemetery
of Rome was so closely crowded, in every imaginable form of
sepulchre, from the tiniest baby-house, to the massive monument out of
which the Middle Age would adapt a fortress-tower, might seem, on a
morning like this, to be " smiling through tears." The
flower-stalls just beyond the city gates pre- sented to view an array of
posies and garlands, fresh enough for a wedding. At one and another
of them groups of persons, gravely clad, were making their bargains
before starting for some perhaps distant spot on the highway, to keep
a dies rosationis, this being the time of roses, at the grave of a
deceased relation. Here and there, a funeral procession was slowly on its
way, in weird contrast to the gaiety of the hour. The two
companions, of course, read the epitaphs as they strolled along. In one,
remind- ing them of the poet's Si lacrima prosunt, visis te ostende
videri ! a woman prayed that her lost husband might visit her dreams.
Their charac- teristic note, indeed, was an imploring cry, still to
be sought after by the living. "While I live," such was the
promise of a lover to his dead mistress, " you will receive this
homage : after my death, who can tell ? " post mortem nescio.
" If ghosts, my sons, do feel anything after death, my sorrow will
be lessened by your frequent coming to me here ! " " This is a
privileged tomb ; to my family and descendants has been conceded
the right of visiting this place as often as they please."
-"This is an eternal habita- tion ; here lie I ; here I shall lie
for ever." " Reader ! if you doubt that the soul
survives, make your oblation and a prayer for me; and you shall understand
! " The elder of the two readers, certainly, was little
affected by those pathetic suggestions. It was long ago that after
visiting the banks of the Padus, where he had sought in vain for
the poplars (sisters of Phaethon erewhile) whose tears became
amber, he had once for all arranged for himself a view of the world
exclusive of all reference to what might lie beyond its "
flaming barriers." And at the age of sixty he had no
misgivings. His elegant and self-complacent but far fromunamiable
scepticism, long since brought to perfection, never failed him. It
sur- rounded him, as some are surrounded by a magic ring of fine
aristocratic manners, with " a ram- part," through which he
himself never broke, nor permitted any thing or person to break
upon him. Gay, animated, content with his old age as it was, the
aged student still took a lively interest in studious youth. Could Marius
inform him of any such, now known to him in Rome ? What did the
young men learn, just then? and how? In answer, Marius became
fluent concerning the promise of one young student, the son, as it
presently appeared, of parents of whom Lucian himself knew something: and
soon afterwards the lad was seen coming along briskly a lad with
gait and figure well enough expressive of the sane mind in the healthy body,
though a little slim and worn of feature, and with a pair of eyes
expressly designed, it might seem, for fine glancings at the stars. At
the sight of Marius he paused suddenly, and with a modest blush on
recognising his companion, who straightway took with the youth, so prettily
enthusiastic, the freedom of an old friend. In a few moments
the three were seated together, immediately above the fragrant
borders of a rose-farm, on the marble bench of one of the exhedra
for the use of foot-passengers at the roadside, from which they could
overlook the grand, earnest prospect of the Campagna^ and enjoy the
air. Fancying that the lad's plainly written enthusiasm had induced in
the elder speaker somewhat more fervour than was usual with him,
Marius listened to the conversation which follows. " Ah
! Hermotimus ! Hurrying to lecture ! if I may judge by your pace, and that
volume in your hand. You were thinking hard as you came along,
moving your lips and waving your arms. Some fine speech you were
pondering, some knotty question, some viewy doctrine not to be idle
for a moment, to be making progress in philosophy, even on your way to
the schools. To-day, however, you need go no further. We read a
notice at the schools that there would be no lecture. Stay therefore, and
talk awhile with us. -With pleasure, Lucian. Yes ! I was
rumin- ating yesterday's conference. One must not lose a moment.
Life is short and art is long ! And it was of the art of medicine, that
was first said a thing so much easier than divine philo- sophy, to
which one can hardly attain in a life- time, unless one be ever wakeful,
ever on the watch. And here the hazard is no little one : By the
attainment of a true philosophy to attain happiness ; or, having missed
both, to perish, as one of the vulgar herd. The prize is a
great one, Hermotimus ! and you must needs be near it, after these months
of toil, and with that scholarly pallor of yours. Unless, indeed,
you have already laid hold upon it, and kept us in the dark.
How could that be, Lucian? Happiness, as Hesiod says, abides very
far hence; and the way to it is long and steep and rough. I see
myself still at the beginning of my journey ; still but at the mountain's
foot. I am trying with all my might to get forward. What I need is
a hand, stretched out to help me. And is not the master
sufficient for that ? Could he not, like Zeus in Homer, let down to
you, from that high place, a golden cord, to draw you up thither, to
himself and to that Happiness, to which he ascended so long ago ?
The very point, Lucian ! Had it depended on him I should long ago
have been caught up. 'Tis I, am wanting. Well ! keep your eye
fixed on the journey's end, and that happiness there above, with
con- fidence in his goodwill. Ah ! there are many who start
cheerfully on the journey and proceed a certain distance, but lose
heart when they light on the obstacles of the way. Only, those who endure
to the end do come to the mountain's top, and thereafter live in
Happiness : live a wonderful manner of life, seeing all other people from
that great height no bigger than tiny ants. What little
fellows you make of us less than the pygmies down in the dust here.
Well ! we, * the vulgar herd,' as we creep along, will not forget you in
our prayers, when you are seated up there above the clouds, whither
you have been so long hastening. But tell me, Hermotimus ! when do
you expect to arrive there ? Ah ! that I know not. In twenty
years, perhaps, I shall be really on the summit. A great while ! you
think. But then, again, the prize I contend for is a great one.
Perhaps ! But as to those twenty years that you will live so long.
Has the master assured you of that ? Is he a prophet as well as a
philosopher? For I suppose you would not endure all this, upon a mere
chance toiling day and night, though it might happen that just ere
the last step, Destiny seized you by the foot and plucked you thence,
with your hope still unfulfilled. Hence, with these
ill-omened words, Lucian ! Were I to survive but for a day, I
should be happy, having once attained wisdom. Howf Satisfied with a
single day, after all those labours ? Yes ! one blessed
moment were enough ! But again, as you have never been, how
know you that happiness is to be had up there, at all the happiness that
is to make all this worth while ? I believe what the master
tells me. Of a certainty he knows, being now far above all
others. And what was it he told you about it ? Is it riches,
or glory, or some indescribable pleasure ? Hush ! my friend !
All those are nothing in comparison of the life there. What,
then, shall those who come to the end of this discipline what excellent
thing shall they receive, if not these ? Wisdom, the absolute
goodness and the absolute beauty, with the sure and certain
knowledge of all things how they are. Riches and glory and pleasure
whatsoever belongs to the body they have cast from them : stripped
bare of all that, they mount up, even as Hercules, consumed in the fire,
became a god. He too cast aside all that he had of his earthly
mother, and bearing with him the divine element, pure and undefiled,
winged his way to heaven from the discerning flame. Even so do
they, detached from all that others prize, by the burning fire of a true
philosophy, ascend to the highest degree of happiness.
Strange ! And do they never come down again from the heights to
help those whom they left below ? Must they, when they be once come
thither, there remain for ever, laughing, as you say, at what other men
prize ? More than that ! They whose initiation is entire are
subject no longer to anger, fear, desire, regret. Nay ! They scarcely
feel at all. -Well ! as you have leisure to-day, why not tell
an old friend in what way you first started on your philosophic journey ?
For, if I might, I should like to join company with you from this
very day. If you be really willing, Lucian ! you will learn
in no long time your advantage over all other people. They will seem
but as children, so far above them will be your thoughts.
Well ! Be you my guide ! It is but fair. But tell me Do you allow
learners to contra- dict, if anything is said which they don't
think right ? No, indeed ! Still, if you wish, oppose
your questions. In that way you will learn more easily. Let
me know, then Is there one only way which leads to a true philosophy
your own way the way of the Stoics : or is it true, as I have
heard, that there are many ways of approaching it ? -Yes !
Many ways ! There are the Stoics, and the Peripatetics, and those who
call them- selves after Plato : there are the enthusiasts for
Diogenes, and Antisthenes, and the followers of Pythagoras, besides
others. It was true, then. But again, is what they say the
same or different ? Very different. -Yet the truth, I
conceive, would be one and the same, from all of them. Answer me
then In what, or in whom, did you confide when you first betook yourself
to philosophy, and seeing so many doors open to you, passed them
all by and went in to the Stoics, as if there alone lay the way of truth
? What token had you ? Forget, please, all you are to-day-
half-way, or more, on the philosophic journey : answer me as you would
have done then, a mere outsider as I am now. Willingly ! It
was there the great ma- jority went ! 'Twas by that I judged it to
be the better way. A majority how much greater than the
Epicureans, the Platonists, the Peripatetics f You, doubtless, counted
them respectively, as with the votes in a scrutiny. No ! But
this was not my only motive. I heard it said by every one that the
Epicureans were soft and voluptuous, the Peripatetics ava- ricious
and quarrelsome, and Plato's followers puffed up with pride. But of the
Stoics, not a few pronounced that they were true men, that they
knew everything, that theirs was the royal road, the one road, to wealth,
to wisdom, to all that can be desired. Of course those who
said this were not themselves Stoics : you would not have believed
them still less their opponents. They were the vulgar, therefore.
True ! But you must know that I did not trust to others
exclusively. I trusted also to myself to what I saw. I saw the Stoics
going through the world after a seemly manner, neatly clad, never
in excess, always collected, ever faithful to the mean which all
pronounce ' golden.' You are trying an experiment on
me. You would fain see how far you can mislead me as to your real
ground. The kind of pro- bation you describe is applicable, indeed,
to works of art, which are rightly judged by their appearance to
the eye. There is something in the comely form, the graceful drapery,
which tells surely of the hand of Pheidias or Alcamenes. But if
philosophy is to be judged by outward appearances, what would become of
the blind man, for instance, unable to observe the attire and gait
of your friends the Stoics ? It was not of the blind I was
thinking. -Yet there must needs be some common criterion in a
matter so important to all. Put the blind, if you will, beyond the
privileges of philosophy ; though they perhaps need that inward
vision more than all others. But can those who are not blind, be they as keen-sighted
as you will, collect a single fact of mind from a man's attire, from
anything outward ? Under- stand me ! You attached yourself to these
men did you not ? because of a certain love you had for the mind in
them, the thoughts they possessed desiring the mind in you to be
im- proved thereby ? Assuredly ! How, then, did you
find it possible, by the sort of signs you just now spoke of, to
distinguish the true philosopher from the false ? Matters of that
kind are not wont so to reveal themselves. They are but hidden mysteries,
hardly to be guessed at through the words and acts which may in some
sort be conformable to them. You, however, it would seem, can look
straight into the heart in men's bosoms, and acquaint yourself with
what really passes there. You are making sport of me, Lucian !
In truth, it was with God's help I made my choice, and I don't
repent it. And still you refuse to tell me, to save me from
perishing in that ' vulgar herd.' Because nothing I can tell you
would satisfy you. You are mistaken, my friend ! But
since you deliberately conceal the thing, grudging me, as I
suppose, that true philosophy which would make me equal to you, I will
try, if it may be, to find out for myself the exact criterion in
these matters how to make a perfectly safe choice. And, do you
listen. I will ; there may be something worth knowing in what
you will say. Well ! only don't laugh if I seem a little
fumbling in my efforts. The fault is yours, in refusing to share your
lights with me. Let Philosophy, then, be like a city --a city whose
citizens within it are a happy people, as your master would tell you,
having lately come thence, as we suppose. All the virtues are
theirs, and they are little less than gods. Those acts of violence
which happen among us are not to be seen in their streets. They live
together in one mind, very seemly ; the things which
beyond everything else cause men to contend against each other,
having no place upon them. Gold and silver, pleasure, vainglory, they
have long since banished, as being unprofitable to the commonwealth
; and their life is an unbroken calm, in liberty, equality, an equal
happiness. And is it not reasonable that all men should
desire to be of a city such as that, and take no account of the length
and difficulty of the way thither, so only they may one day become
its freemen ? It might well be the business of life :
leaving all else, forgetting one's native country here, unmoved by the
tears, the restraining hands, of parents or children, if one had
them only bidding them follow the same road ; and if they would not
or could not, shaking them off, leaving one's very garment in their
hands if they took hold on us, to start off straightway for that
happy place ! For there is no fear, I suppose, of being shut out if one
came thither naked. I remember, indeed, long ago an aged man
related to me how things passed there, offering himself to be my leader,
and enrol me on my arrival in the number of the citizens. I was but
fifteen certainly very foolish: and it may be that I was then actually
within the suburbs, or at the very gates, of the city. Well, this
aged man told me, among other things, that all the citizens were
wayfarers from afar. Among them were barbarians and slaves, poor men
aye ! and cripples all indeed who truly desired that citizenship. For the
only legal conditions of enrolment were not wealth, nor bodily
beauty, nor noble ancestry things not named among them but intelligence,
and the desire for moral beauty, and earnest labour. The last comer,
thus qualified, was made equal to the rest : master and slave, patrician,
plebe- ian, were words they had not in that blissful place. And
believe me, if that blissful, that beautiful place, were set on a hill
visible to all the world, I should long ago have journeyed thither.
But, as you say, it is far off: and one must needs find out for oneself
the road to it, and the best possible guide. And I find a multi-
tude of guides, who press on me their services, and protest, all alike,
that they have themselves come thence. Only, the roads they propose
are many, and towards adverse quarters. And one of them is steep
and stony, and through the beating sun ; and the other is through
green meadows, and under grateful shade, and by many a fountain of
water. But howsoever the road may be, at each one of them stands a
credible guide ; he puts out his hand and would have you come his way.
All other ways are wrong, all other guides false. Hence my diffi-
culty ! The number and variety of the ways ! For you know, There is but
one road that leads to Corinth. Well ! If you go the whole
round, you will find no better guides than those. If you wish to get
to Corinth, you will follow the traces of Zeno and Chrysippus. It is
impossible otherwise. Yes ! The old, familiar language !
Were one of Plato's fellow-pilgrims here, or a follower of Epicurus
or fifty others each would tell me that I should never get to Corinth
except in his company. One must therefore credit all alike, which
would be absurd ; or, what is far safer, distrust all alike, until one
has discovered the truth. Suppose now, that, being as I am,
ignorant which of all philosophers is really in possession of truth, I
choose your sect, relying on yourself my friend, indeed, yet still
ac- quainted only with the way of the Stoics ; and that then some
divine power brought Plato, and Aristotle, and Pythagoras, and the
others, back to life again. Well ! They would come round about me,
and put me on my trial for my presumption, and say : c In whom was
it you confided when you preferred Zeno and Chrysippus to me? and
me? masters of far more venerable age than those, who are but of
yesterday ; and though you have never held any discussion with us, nor
made trial of our doctrine ? It is not thus that the law would have
judges do listen to one party and refuse to let the other speak for
himself. If judges act thus, there may be an appeal to another
tribunal.' What should I answer? Would it be enough to say : ' I trusted
my friend Her- motimus ? ' c We know not Hermotimus, nor he us/
they would tell me ; adding, with a smile, 'your friend thinks he may
believe all our adversaries say of us whether in ignorance or in
malice. Yet if he were umpire in the games, and if he happened to see one
of our wrestlers, by way of a preliminary exercise, knock to pieces
an antagonist of mere empty air, he would not thereupon pronounce him a
victor. Well ! don't let your friend Hermotimus sup- pose, in like
manner, that his teachers have really prevailed over us in those battles
of theirs, fought with our mere shadows. That, again, were to be
like children, lightly overthrowing their own card-castles ; or like
boy-archers, who cry out when they hit the target of straw. The
Persian and Scythian bowmen, as they speed along, can pierce a bird on
the wing.' Let us leave Plato and the others at rest. It is
not for me to contend against them. Let us rather search out together if
the truth of Philosophy be as I say. Why summon the athletes, and
archers from Persia ? Yes ! let them go, if you think them in
the way. And now do you speak ! You really look as if you had something
wonderful to deliver. -Well then, Lucian ! to me it seems
quite possible for one who has learned the doctrines of the Stoics
only, to attain from those a knowledge of the truth, without proceeding to
inquire into all the various tenets of the others. Look at the
question in this way. If one told you that twice two make four, would it
be necessary for you to go the whole round of the arithme- ticians,
to see whether any one of them will say that twice two make five, or
seven ? Would you not see at once that the man tells the truth ?
At once. Why then do you find it impossible that one
who has fallen in with the Stoics only, in their enunciation of what is
true, should adhere to them, and seek after no others ; assured
that four could never be five, even if fifty Platos, fifty
Aristotles said so ? f-You are beside the point, Hermotimus !
You are likening open questions to principles universally received. Have
you ever met any one who said that twice two make five, or seven
? No ! only a madman would say that. And have you ever met,
on the other hand, a Stoic and an Epicurean who were agreed upon
the beginning and the end, the principle and the final cause, of things ?
Never ! Then your parallel is false. We are inquiring to which of
the sects philosophic truth belongs, and you seize on it by anticipation,
and assign it to the Stoics, alleging, what is by no means clear,
that itis they for whom twice two make four. But the Epicureans, or the
Platonists, might say that it is they, in truth, who make two and
two equal four, while you make them five or seven. Is it not so, when you
think virtue the only good, and the Epicureans plea- sure; when you
hold all things to be material^ while the Platonists admit something
immaterial? As I said, you resolve offhand, in favour of the
Stoics, the very point which needs a critical decision. If it is clear
beforehand that the Stoics alone make two and two equal four,
then the others must hold their peace. But so long as that is the
very point of debate, we must listen to all sects alike, or be well-
assured that we shall seem but partial in our judgment. I
think, Lucian ! that you do not alto- gether understand my meaning. To
make it clear, then, let us suppose that two men had entered a
temple, of Aesculapius, say ! or Bacchus : and that afterwards one of the
sacred vessels is found to be missing. And the two men must be
searched to see which of them has hidden it under his garment. For it is
certainly in the possession of one or the other of them. Well ! if
it be found on the first there will be no need to search the second ; if
it is not found on the first, then the other must have it ; and
again, there will be no need to search him. Yes ! So let it
be. And we too, Lucian ! if we have found the holy vessel in
possession of the Stoics, shall no longer have need to search other
philosophers, having attained that we were seeking. Why trouble
ourselves further ? No need, if something had indeed been
found, and you knew it to be that lost thing : if, at the least, you
could recognise the sacred object when you saw it. But truly, as
the matter now stands, not two persons only have entered the
temple, one or the other of whom must needs have taken the golden cup,
but a whole crowd of persons. And then, it is not clear what the
lost object really is cup, or flagon, or diadem ; for one of the priests
avers this, another that ; they are not even in agree- ment as to
its material : some will have it to be of brass, others of silver, or
gold. It thus becomes necessary to search the garments of all
persons who have entered the temple, if the lost vessel is to be
recovered. And if you find a golden cup on the first of them, it will
still be necessary to proceed in searching the garments of the
others ; for it is not certain that this cup really belonged to the
temple. Might there not be many such golden vessels ? No ! we must
go on to every one of them, placing all that we find in the midst
together, and then make our guess which of all those things may fairly
be supposed to be the property of the god. For, again, this
circumstance adds greatly to our difficulty, that without exception every
one searched is found to have something upon him cup, or flagon, or
diadem, of brass, of silver, of gold : and still, all the while, it is not
ascer- tained which of all these is the sacred thing. And you must
still hesitate to pronounce any one of them guilty of the sacrilege
those objects may be their own lawful property: one cause of all
this obscurity being, as I think, that there was no inscription on the
lost cup, if cup it was. Had the name of the god, or even that of
the donor, been upon it, at least we should have had less trouble, and
having detected the inscription, should have ceased to trouble any
one else by our search. I have nothing to reply to
that. Hardly anything plausible. So that if we wish to find
who it is has the sacred vessel, or who will be our best guide to
Corinth, we must needs proceed to every one and examinehim with the
utmost care, stripping off his garment and considering him closely.
Scarcely, even so, shall we come at the truth. And if we are to
have a credible adviser regarding this question of philosophy which of
all philosophies one ought to follow he alone who is acquainted with
the dicta of every one of them can be such a guide : all others
must be inadequate. I would give no credence to them if they lacked
information as to one only. If somebody introduced a fair person
and told us he was the fairest of all men, we should not believe that,
unless we knew that he had seen all the people in the world. Fair
he might be; but, fairest of all none could know, unless he had seen all.
And we too desire, not a fair one, but the fairest of all. Unless
we find him, we shall think we have failed. It is no casual beauty that
will content us; what we are seeking after is that supreme beauty
which must of necessity be unique. -What then is one to do, if the
matter be really thus ? Perhaps you know better than I. All I see
is that very few of us would have time to examine all the various sects
of philosophy in turn, even if we began in early life. I know not
how it is ; but though you seem to me to speak reasonably, yet (I must
confess it) you have distressed me not a little by this exact ex- position
of yours. I was unlucky in coming out to-day, and in my falling in with
you, who have thrown me into utter perplexity by your proof that
the discovery of truth is impossible, just as I seemed to be on the point
of attaining my hope. Blame your parents, my child, not me
! Or rather, blame mother Nature herself, for giving us but seventy
or eighty years instead of making us as long-lived as Tithonus. For
my part, I have but led you from premise to conclusion.
Nay ! you are a mocker ! I know not wherefore, but you have a
grudge against philosophy ; and it is your entertainment to make a
jest of her lovers. Ah ! Hermotimus ! what the Truth may be,
you philosophers may be able to tell better than I. But so much at least
I know of her, that she is one by no means pleasant to those who
hear her speak : in the matter of pleasant- ness , she is far
surpassed by Falsehood : and Falsehood has the pleasanter countenance.
She, nevertheless, being conscious of no alloy within, discourses with
boldness to all men, who there- fore have little love for her. See how
angry you are now because I have stated the truth about certain
things of which we are both alike enamoured that they are hard to come
by. It is as if you had fallen in love with a statue and hoped to
win its favour, thinking it a human creature; and I, understanding it to
be but an image of brass or stone, had shown you, as a friend, that
your love was impossible, and there- upon you had conceived that I bore
you some ill-will. But still, does it not follow from what
you said, that we must renounce philosophy and pass our days in
idleness? When did you hear me say that? I did but assert
that if we are to seek after philo- sophy, whereas there are many ways
professing to lead thereto, we must with much exactness distinguish
them. Well, Lucian ! that we must go to all the schools in
turn, and test what they say, if we are to choose the right one, is
perhaps reasonable; but surely ridiculous, unless we are to live
as many years as the Phoenix, to be so lengthy in the trial of each
; as if it were not possible to learn the whole by the part! They say
that Pheidias, when he was shown one of the talons of a lion,
computed the stature and age of the animal it belonged to, modelling a
complete lion upon the standard of a single part of it. You too
would recognise a human hand were the rest of the body concealed. Even so
with the schools of philosophy : the leading doctrines of each
might be learned in an afternoon. That over-exactness of yours, which
required so long a time, is by no means necessary for making the
better choice. -You are forcible, Hermotimus ! with this
theory of The Whole by the Part. Yet, methinks, I heard you but now
propound the contrary. But tell me; would Pheidias when he saw the
lion's talon have known that it was a lion's, if he had never seen the
animal ? Surely, the cause of his recognising the part was his knowledge
of the whole. There is a way of choosing one's philosophy even less
troublesome than yours. Put the names of all the philo- sophers
into an urn. Then call a little child, and let him draw the name of the
philosopher you shall follow all the rest of your days. Nay !
be serious with me. Tell me ; did you ever buy wine ?
Surely. And did you first go the whole round of the
wine-merchants, tasting and comparing their wines ? By no
means. No ! You were contented to order the first good wine
you found at your price. By tasting a little you were ascertained of
the quality of the whole cask. How if you had gone to each of the
merchants in turn, and said, ' I wish to buy a cotyle of wine. Let me
drink out the whole cask. Then I shall be able to tell which is
best, and where I ought to buy.' Yet this is what you would do with the
philo- sophies. Why drain the cask when you might taste, and see
? How slippery you are; how you escape from one's fingers !
Still, you have given me an advantage, and are in your own trap.
How so ? Thus ! You take a common object known to every
one, and make wine the figure of a thing which presents the greatest
variety in itself, and about which all men are at variance, because
it is an unseen and difficult thing. I hardly know wherein philosophy and
wine are alike unless it be in this, that the philosophers exchange
their ware for money, like the wine- merchants; some of them with a
mixture of water or worse, or giving short measure. How- ever, let
us consider your parallel. The wine in the cask, you say, is of one kind
through- out. But have the philosophers has your own master even but
one and the same thing only to tell you, every day and all days, on a
subject so manifold? Otherwise, how can you know the whole by the
tasting of one part? The whole is not the same Ah ! and it may be
that God has hidden the good wine of philosophy at the bottom of
the cask. You must drain it to the end if you are to find those drops
of divine sweetness you seem so much to thirst for ! Yourself,
after drinking so deeply, are still but at the beginning, as you said.
But is not philosophy rather like this? Keep the figure of the
merchant and the cask : but let it be filled, not with wine, but with
every sort of grain. You come to buy. The merchant hands you a
little of the wheat which lies at the top. Could you tell by looking at
that, whether the chick-peas were clean, the lentils tender, the
beans full ? And then, whereas in selecting our wine we risk only our
money ; in selecting our philosophy we risk ourselves, as you told
me might ourselves sink into the dregs of * the vulgar herd.'
Moreover, while you may not drain the whole cask of wine by way of
tasting, Wisdom grows no less by the depth of your drinking. Nay !
if you take of her, she is in- creased thereby. And then I
have another similitude to pro- pose, as regards this tasting of
philosophy. Don't think I blaspheme her if I say that it may be
with her as with some deadly poison, hemlock or aconite. These too, though
they cause death, yet kill not if one tastes but a minute portion.
You would suppose that the tiniest particle must be sufficient.
Be it as you will, Lucian! One must live a hundred years : one must
sustain all this labour ; otherwise philosophy is unattainable.
Not so ! Though there were nothing strange in that, if it be true,
as you said at first, that Life is short and art is long. But now
you take it hard that we are not to see you this very day, before
the sun goes down, a Chrysippus, a Pythagoras, a Plato. You
overtake me, Lucian ! and drive me into a corner; in jealousy of heart, I
believe, because I have made some progress in doctrine whereas you
have neglected yourself. Well ! Don't attend to me ! Treat me as
a Corybant, a fanatic : and do you go forward on this road of yours.
Finish the journey in accordance with the view you had of these
matters at the beginning of it. Only, be assured that my judgment on it
will remain unchanged. Reason still says, that without criticism,
with- out a clear, exact, unbiassed intelligence to try them, all
those theories all things will have been seen but in vain. c To that
end,' she tells us, 'much time is necessary, many delays of
judgment, a cautious gait; repeated inspection.' And we are not to regard
the outward appear- ance, or the reputation of wisdom, in any of
the speakers; but like the judges of Areopagus, who try their causes
in the darkness of the night, look only to what they say. Philosophy,
then, is impossible, or possible only in another life !
Hermotimus ! I grieve to tell you that all this even, may be in
truth insufficient. After all, we may deceive ourselves in the belief
that we have found something : like the fishermen ! Again and again
they let down the net. At last they feel something heavy, and with vast
labour draw up, not a load of fish, but only a pot full of sand, or
a great stone. I don't understand what you mean by the net.
It is plain that you have caught me in it. Try to get out ! You can
swim as well as another. We may go to all philosophers in turn and
make trial of them. Still, I, for my part, hold it by no mean certain
that any one of them really possesses what we seek. The truth may
be a thing that not one of them has yet found. You have twenty beans in
your hand, and you bid ten persons guess how many : one says five,
another fifteen ; it is possible that one of them may tell the true
number ; but it is not im- possible that all may be wrong. So it is
with the philosophers. All alike are in search of Happiness what
kind of thing it is. One says one thing, one another : it is pleasure ;
it is virtue ; what not ? And Happiness may indeed be one of those
things. But it is possible also that it may be still something else,
different and distinct from them all. What is this? There is
something, I know not how, very sad and disheartening in what you
say. We seem to have come round in a circle to the spot whence we
started, and to our first incertitude. Ah ! Lucian, what have you
done to me ? You have proved my priceless pearl to be but ashes, and all
my past labour to have been in vain. Reflect, my friend, that
you are not the first person who has thus failed of the good thing
he hoped for. All philosophers, so to speak, are but fighting about the c
ass's shadow.' To me you seem like one who should weep, and
reproach fortune because he is not able to climb up into heaven, or go
down into the sea by Sicily and come up at Cyprus, or sail on wings
in one day from Greece to India. And the true cause of his trouble is
that he has based his hope on what he has seen in a dream, or his
own fancy has put together ; without previous thought whether what he
desires is in itself attainable and within the compass of human
nature. Even so, methinks, has it happened with you. As you dreamed, so
largely, of those wonderful things, came Reason, and woke you up
from sleep, a little roughly : and then you are angry with Reason, your
eyes being still but half open, and find it hard to shake off sleep
for the pleasure of what you saw therein. Only, don't be angry with
me, because, as a friend, I would not suffer you to pass your life in a
dream, pleasant perhaps, but still only a dream because I wake you
up and demand that you should busy yourself with the proper business of
life, and send you to it possessed of common sense. What your soul
was full of just now is not very different from those Gorgons and
Chimaeras and the like, which the poets and the painters con-
struct for us, fancy-free: things which never were, and never will be,
though many believe in them, and all like to see and hear of them,
just because they are so strange and odd. And you too,
methinks, having heard from some such maker of marvels of a certain
woman of a fairness beyond nature beyond the Graces, beyond Venus
Urania herself asked not if he spoke truth, and whether this woman be
really alive in the world, but straightway fell in love with her ;
as they say that Medea was en- amoured of Jason in a dream. And what
more than anything else seduced you, and others like you, into that
passion, for a vain idol of the fancy, is, that he who told you about
that fair woman, from the very moment when you first believed that
what he said was true, brought for- ward all the rest in consequent
order. Upon her alone your eyes were fixed ; by her he led you
along, when once you had given him a hold upon you led you along the
straight road, as he said, to the beloved one. All was easy after
that. None of you asked again whether it was the true way ;
following one after another, like sheep led by the green bough in the
hand of the shepherd. He moved you hither and thither with his
finger, as easily as water spilt on a table ! My friend ! Be not so
lengthy in preparing the banquet, lest you die of hunger ! I saw
one who poured water into a mortar, and ground it with all his
might with a pestle of iron, fancy- ing he did a thing useful and necessary;
but it remained water only, none the less." Just there
the conversation broke off suddenly, and the disputants parted. The
horses were come for Lucian. The boy went on his way, and Marius
onward, to visit a friend whose abode lay further. As he returned to
Rome towards evening the melancholy aspect, natural to a city of
the dead, had triumphed over the superficial gaudiness of the early day.
He could almost have fancied Canidia there, picking her way among
the rickety lamps, to rifle some neglected or ruined tomb ; for these
tombs were not all equally well cared for (Post mortem nescio /)
and it had been one of the pieties of Aurelius to frame a severe law to
prevent the defacing of such monuments. To Marius there seemed to
be some new meaning in that terror of isolation, of being left alone in
these places, of which the sepulchral inscriptions were so full. A
blood- red sunset was dying angrily, and its wild glare upon the
shadowy objects around helped to combine the associations of this famous way,
its deeply graven marks of immemorial travel, together with the
earnest questions of the morning as to the true way of that other sort of
travelling, around an image, almost ghastly in the traces of its
great sorrows bearing along for ever, on bleeding feet, the
instrument of its punishment which was all Marius could recall distinctly
of a certain Christian legend he had heard. The legend told of an
encounter at this very spot, of two wayfarers on the Appian Way, as also
upon some very dimly discerned mental journey, altogether different
from himself and his late companions an encounter between Love,
liter- ally fainting by the road, and Love "travelling in the
greatness of his strength," Love itself, suddenly appearing to
sustain that other. A strange contrast to anything actually presented
in that morning's conversation, it seemed neverthe- less to echo
its very words " Do they never come down again," he heard once
more the well- modulated voice : " Do they never come down
again from the heights, to help those whom they left here below?"
"And we too desire, not a fair one, but the fairest of all. Unless
we find him, we shall think we have failed." It was become a
habit with Marius one of his modernisms developed by his assistance at
the Emperor's "conversations with himself," to keep a
register of the movements of his own private thoughts and humours ; not
continuously indeed, yet sometimes for lengthy intervals, dur- ing
which it was no idle self-indulgence, but a necessity of his intellectual
life, to " confess himself," with an intimacy, seemingly
rare among the ancients ; ancient writers, at all evtiits, having
been jealous, for the most part, of affording us so much as a glimpse of
that interior self, which in many cases would have actually doubled
the interest of their objective informations. " If a
particular tutelary or genius" writes Marius, " according to
old belief, walks through life beside each one of us, mine is very
certainly a capricious creature. He fills one with wayward, unaccountable,
yet quite irresistible humours, and seems always to be in collusion with
some outward circumstance, often trivial enough in itself the
condition of the weather, forsooth ! the people one meets by chance the
things one happens to overhear them say, veritable evofaoi,
o-vfjL@o\oi 9 or omens by the wayside, as the old Greeks fancied to push
on the unreason- able prepossessions of the moment into weighty
motives. It was doubtless a quite explicable, physical fatigue that
presented me to myself, on awaking this morning, so lack-lustre and
trite. But I must needs take my petulance, contrasting it with my
accustomed morning hopefulness, as a sign of the ageing of appetite, of a
decay in the very capacity of enjoyment. We need some imaginative
stimulus, some not impossible ideal such as may shape vague hope, and
transform it into effective desire, to carry us year after year,
without disgust, through the routine-work which is so large a part of
life. "Then, how if appetite, be it for real or ideal,
should itself fail one after awhile ? /^h, yes ! is it of cold always
that men die ; and on some of us it creeps very gradually. In truth,
I can remember just such a lack-lustre condition of feeling once or
twice before. But I note, that it was accompanied then by an odd
indifference, as the thought of them occurred to me, in regard to
the sufferings of others a kind of callousness, so unusual with me, as at
once to mark the humour it accompanied as a palpably morbid one that
could not last. Were those sufferings, great or little, I asked myself
then, of more real conse- quence to them than mine to me, as I
remind myself that 'nothing that will end is really long '--long
enough to be thought of import- ance f But to-day, my own sense of
fatigue, the pity I conceive for myself, disposed me strongly to a
tenderness for others. For a moment the whole world seemed to present
itself as a hospital of sick persons ; many of them sick in mind;
all of whom it would be a brutality not to humour, not to indulge.
"Why, when I went out to walk off my wayward fancies, did I
confront the very sort of incident (my unfortunate genius had
surely beckoned it from afar to vex me) likely to irritate them further
? A party of men were coming down the street. They were leading a
fine race-horse; a handsome beast, but badly hurt somewhere, in the
circus, and useless. They were taking him to slaughter ; and I
think the animal knew it : he cast such looks, as if of mad appeal,
to those who passed him, as he went among the strangers to whom his
former owner had committed him, to die, in his beauty and pride,
for just that one mischance or fault ; although the morning air was still
so animating, and pleasant to snuff. I could have fancied a human
soul in the creature, swelling against its luck. And I had come across
the incident just when it would figure to me as the very symbol of
our poor humanity, in its capacities for pain, its wretched accidents,
and those imperfect sym- pathies, which can never quite identify us
with one another ; the very power of utterance and appeal to others
seeming to fail us, in propor- tion as our sorrows come home to
ourselves, are really our own. We are constructed for suffer- ing !
What proofs of it does but one day afford, if we care to note them, as we
go a whole long chaplet of sorrowful mysteries ! Sunt lacrimtf
rerum et mentem mortalia tangunt. " Men's fortunes touch us !
The little chil- dren of one of those institutions for the support
of orphans, now become fashionable among us by way of memorial of eminent
persons deceased, are going, in long file, along the street, on
their way to a holiday in the country. They halt, and count
themselves with an air of triumph, to show that they are all there. Their
gay chatter has disturbed a little group of peasants ; a young
woman and her husband, who have brought the old mother, now past work and
witless, to place her in a house provided for such afflicted
people. They are fairly affectionate, but anxious how the thing
they have to do may go hope only she may permit them to leave her there
behind quietly. And the poor old soul is excited by the noise made
by the children, and partly aware of what is going to happen with her.
She too begins to count one, two, three, five on her trembling
fingers, misshapen by a life of toil. ' Yes ! yes ! and twice five
make ten ' they say, to pacify her. It is her last appeal to be
taken home again ; her proof that all is not yet up with her ; that
she is, at all events, still as capable as those joyous children.
"At the baths, a party of labourers are at work upon one of
the great brick furnaces, in a cloud of black dust. A frail young child
has brought food for one of them, and sits apart, waiting till his
father comes watching the labour, but with a sorrowful distaste for the
din and dirt. He is regarding wistfully his own place in the world,
there before him. His mind, as he watches, is grown up for a moment ;
and he foresees, as it were, in that moment, all the long tale of
days, of early awakings, of his own coming life of drudgery at work like
this. " A man comes along carrying a boy whose rough
work has already begun the only child whose presence beside him sweetened
the father's toil a little. The boy has been badly injured by a
fall of brick-work, yet, with an effort, he rides boldly on his father's
shoulders. It will be the way of natural affection to keep him
alive as long as possible, though with that miserably shattered body ' Ah
! with us still, and feeling our care beside him ! ' and yet surely
not without a heartbreaking sigh of relief, alike from him and them, when
the end comes. " On the alert for incidents like these, yet of
necessity passing them by on the other side, I find it hard to get rid of
a sense that I, for one, have failed in love. I could yield to the humour
till I seemed to have had my share in those great public cruelties,
the shocking legal crimes which are on record, like that cold-blooded
slaughter, according to law, of the four hundred slaves in the
reign of Nero, because one of their number was thought to have murdered
his master. The reproach of that, together with the kind of facile
apologies those who had no share in the deed may have made for it, as
they went about quietly on their own affairs that day, seems to come
very close to me, as I think upon it. And to how many of those now
actually around me, whose life is a sore one, must I be indifferent, if I
ever become aware of their soreness at all ? To some, perhaps, the
necessary conditions of my own life may cause me to be opposed, in a kind
of natural conflict, regarding those interests which actually
determine the happiness of theirs. I \ would that a stronger love might
arise in my \ heart ! " Yet there is plenty of charity
in the world. My patron, the Stoic emperor, has made it even
fashionable. To celebrate one of his brief returns to Rome lately from
the war, over and above a largess of gold pieces to all who would,
the public debts were forgiven. He made a nice show of it : for once, the
Romans enter- tained themselves with a good-natured spectacle, and
the whole town came to see the great bonfire in the Forum, into which all bonds
and evidence of debt were thrown on delivery, by the emperor
himself; many private creditors following his example. That was done
well enough ! But still the feeling returns to me, that no charity
of ours can get at a certain natural unkindness which I find in things
them- selves. "When I first came to Rome, eager to
observe its religion, especially its antiquities of religious usage, I
assisted at the most curious, perhaps, of them all, the most distinctly
marked with that immobility which is a sort of ideal in the Roman
religion. The ceremony took place at a singular spot some miles distant
from the city, among the low hills on the bank of the Tiber, beyond
the Aurelian Gate. There, in a little wood of venerable trees, piously
allowed their own way, age after age ilex and cypress remaining
where they fell at last, one over the other, and all caught, in that
early May-time, under a riotous tangle of wild clematis was to be
found a magnificent sanctuary, in which the members of the Arval College
assembled them- selves on certain days. The axe never touched those
trees Nay ! it was forbidden to introduce any iron thing whatsoever
within the precincts ; not only because the deities of these quiet places
hate to be disturbed by the harsh noise of metal, but also in memory of
that better age the lost Golden Age the homely age of the potters,
of which the central act of the festival was a com-
memoration. " The preliminary ceremonies were long and
fe complicated, but of a character familiar enough. Peculiar to the
time and place was the solemn exposition, after lavation of hands,
processions backwards and forwards, and certain changes of
vestments, of the identical earthen vessels veritable relics of the old
religion of Numa ! the vessels from which the holy Numa himself had
eaten and drunk, set forth above a kind of altar, amid a cloud of flowers
and incense, and many lights, for the veneration of the credulous
or the faithful. " They were, in fact, cups or vases of
burnt clay, rude in form : and the religious veneration thus
offered to them expressed men's desire to give honour to a simpler age,
before iron had found place in human life : the persuasion that
that age was worth remembering : a hope that it might come again.
" That a Numa, and his age of gold, would return, has been the
hope or the dream of some, in every period. Yet if he did come back,
or any equivalent of his presence, he could but weaken, and by no
means smite through, that root of evil, certainly of sorrow, of
outraged human sense, in things, which one must care- fully
distinguish from all preventible accidents. Death, and the little
perpetual daily dyings, which have something of its sting, he must necessarily
leave untouched. And, methinks, that were all the rest of man's life
framed entirely to his liking, he would straightway begin to sadden
himself, over the fate say, of the flowers ! For there is, there has come
to be since Numa lived perhaps, a capacity for sorrow in his heart,
which grows with all the growth, alike of the individual and of the race,
in intel- lectual delicacy and power, and which 'will find its
aliment. " Of that sort of golden age, indeed, one
discerns even now a trace, here and there. Often have I maintained that, in
this generous southern country at least, Epicureanism is the
special philosophy of the poor. How little I myself really need, when
people leave me alone, with the intellectual powers at work
serenely. The drops of falling water, a few wild flowers with their
priceless fragrance, a few tufts even of half-dead leaves, changing
colour in the quiet of a room that has but light and shadow in it;
these, for a susceptible mind, might well do duty for all the glory of
Augustus. I notice some- times what I conceive to be the precise
character of the fondness of the roughest working-people for their
young children, a fine appreciation, not only of their serviceable
affection, but of their visible graces : and indeed, in this country,
the children are almost always worth looking at. I see daily, in
fine weather, a child like a delicate nosegay, running to meet the rudest
of brick-makers as he comes from work. She is not at all afraid to hang
upon his rough hand : and through her, he reaches out to, he makes
his own, something from that strange region, so dis- tant from him
yet so real, of the world's refine- ment. What is of finer soul, or of
finer stuff in things, and demands delicate touching to him the
delicacy of the little child represents that : it initiates him into
that. There, surely, is a touch of the secular gold, of a perpetual
age of gold. But then again, think for a moment, with what a hard
humour at the nature of things, his struggle for bare life will go
on, if the child should happen to die. I observed to-day, under one
of the archways of the baths, two children at play, a little seriously a
fair girl and her crippled younger brother. Two toy chairs and a
little table, and sprigs of fir set upright in the sand for a garden !
They played at housekeeping. Well ! the girl thinks her life a
perfectly good thing in the service of this crippled brother. But she
will have a jealous lover in time: and the boy, though his face is
not altogether unpleasant, is after all a hopeless cripple.
" For there is a certain grief in things as they are, in man
as he has come to be, as he certainly is, over and above those griefs of
circumstance which are in a measure removable some inex- plicable
shortcoming, or misadventure, on the part of nature itself death, and old
age as it must needs be, and that watching for their ap- proach,
which makes every stage of life like a dying over and over again. Almost
all death is painful, and in every thing that comes to an end a
touch of death, and therefore of wretched coldness struck home to one, of
remorse, of loss and parting, of outraged attachments. Given
faultless men and women, given a perfect state of society which should
have no need to practise on men's susceptibilities for its own selfish
ends, adding one turn more to the wheel of the great rack for its
own interest or amusement, there would still be this evil in the world,
of a certain necessary sorrow and desolation, felt, just in pro-
portion to the moral, or nervous perfection men have attained to. And
what we need in the world, over against that, is a certain
permanent and general power of compassion humanity's standing force
of self-pity as an elementary ingredient of our social atmosphere, if we
are to live in it at all. I wonder, sometimes, in what way man has
cajoled himself into the bearing of his burden thus far, seeing how every
step in the capacity of apprehension his labour has won for him, from
age to age, must needs increase his dejection. It is as if the increase
of know- ledge were but an increasing revelation of the radical
hopelessness of his position : and I would that there were one even as I,
behind this vain show of things ! " At all events, the
actual conditions of our life being as they are, and the capacity
for suffering so large a principle in things since the only
principle, perhaps, to which we may always safely trust is a ready
sympathy with the pain one actually sees it follows that the '
practical and effective difference between men will lie in their power of
insight into those con- ditions, their power of sympathy. The future
1 will be with those who have most of it ; while for the present,
as I persuade myself, those who have much of it, have something to hold
by, even in the dissolution of a world, or in that dissolution of
self, which is, for every one, no less than the dissolution of the world
it repre- sents for him. Nearly all of us, I suppose, have had our
moments, in which any effective sym- pathy for us on the part of others
has seemed impossible ; in which our pain has seemed a stupid
outrage upon us, like some overwhelming physical violence, from which we
could take refuge, at best, only in some mere general sense of
goodwill somewhere in the world perhaps. And then, to one's surprise, the
discovery of that goodwill, if it were only in a not unfriendly
animal, may seem to have explained, to have actually justified to us, the
fact of our pain. There have been occasions, certainly, when I have
felt that if others cared for me as I cared for them, it would be, not so
much a consola- tion, as an equivalent, for what one has lost or
suffered : a realised profit on the summing up of one's accounts : a
touching of that absolute ground amid all the changes of phenomena,
such as our philosophers have of late confessed them- selves quite
unable to discover. In the mere clinging of human creatures to each
other, nay ! in one's own solitary self-pity, amid the effects even
of what might appear irredeemable loss, I seem to touch the eternal.
Something in that pitiful contact, something new and true, fact or
apprehension of fact, is educed, which, on a review of all the
perplexities of life, satisfies our moral sense, and removes that
appearance of unkindness in the soul of things themselves, and
assures us that not everything has been in vain. " And I
know not how, but in the thought thus suggested, I seem to take up, and
re-knit 'myself to, a well-remembered hour, when by some gracious
accident it was on a journey- all things about me fell into a more
perfect har- mony than is their wont. Everything seemed to be, for
a moment, after all, almost for the best. Through the train of my
thoughts, one against another, it was as if I became aware of the
dominant power of another person in contro- versy, wrestling with me. I
seem to be come round to the point at which I left off then. The
antagonist has closed with me again. A protest comes, out of the very
depths of man's radically hopeless condition in the world, with the
energy of one of those suffering yet prevailing deities, of which old poetry
tells. Dared one hope that there is a heart, even as ours, in that
divine e Assistant ' of one's thoughts a heart even as mine, behind this
vain show of things!" " Ah ! voila les ames qu'il
falloit a la miennc ! " Rousseau. The charm of its
poetry, a poetry of the affec- tions, wonderfully fresh in the midst of a
thread- bare world, would have led Marius, if nothing else had done
so, again and again, to Cecilia's house. He found a range of intellectual
plea- sures, altogether new to him, in the sympathy of that pure
and elevated soul. Elevation of soul, generosity, humanity little by
little it came to seem to him as if these existed nowhere else. The
sentiment of maternity, above all, as it might be understood there, its
claims, with the claims of all natural feeling everywhere, down to
the sheep bleating on the hills, nay ! even to the mother-wolf, in her
hungry cave seemed to have been vindicated, to have been enforced
anew, by the sanction of some divine pattern thereof. He saw its
legitimate place in the world given at last to the bare capacity
for suffering in any creature, however feeble or apparently useless.
In this chivalry, seeming to leave the world's heroism a mere property
of the stage, in this so scrupulous fidelity to what could not help
itself, could scarcely claim not to be forgotten, what a contrast to
the hard contempt of one's own or other's pain, of death, of glory
even, in those discourses of Aurelius ! But if Marius thought
at times that some long - cherished desires were now about to
blossom for him, in the sort of home he had sometimes pictured to
himself, the very charm of which would lie in its contrast to any
random affections : that in this woman, to whom children instinctively
clung, he might find such a sister, at least, as he had always longed for
; there were also circumstances which reminded him that a certain
rule forbidding second marriages, was among these people still in force
; ominous incidents, moreover, warning a suscep- tible conscience
not to mix together the spirit and the flesh, nor make the matter of a
heavenly banquet serve for earthly meat and drink. One day he
found Cecilia occupied with the burial of one of the children of her
household. It was from the tiny brow of such a child, as he now
heard, that the new light had first shone forth upon them through the
light of mere physical life, glowing there again, when the child
was dead, or supposed to be dead. The aged servant of Christ had arrived
in the midst of their noisy grief; and mounting to the little
chamber where it lay, had returned, not long afterwards, with the child
stirring in his arms as he descended the stair rapidly ; bursting
open the closely-wound folds of the shroud and scattering the
funeral flowers from them, as the soul kindled once more through its
limbs. Old Roman common-sense had taught people to occupy their
thoughts as little as might be with children who died young. Here,
to-day, however, in this curious house, all thoughts were tenderly
bent on the little waxen figure, yet with a kind of exultation and joy,
notwith- standing the loud weeping of the mother. The other
children, its late companions, broke with it, suddenly, into the place
where the deep black bed lay open to receive it. Pushing away the
grim fossores, the grave-diggers, they ranged themselves around it in
order, and chanted that old psalm of theirs Laudate pueri dominum !
Dead children, children's graves Marius had been always half aware of an
old superstitious fancy in his mind concerning them; as if in
coming near them he came near the failure of some lately-born hope or
purpose of his own. And now, perusing intently the expression with
which Cecilia assisted, directed, returned after- wards to her house, he
felt that he too had had to-day his funeral of a little child. But it
had always been his policy, through all his pursuit of "
experience/' to take flight in time from any too disturbing passion, from
any sort of affection likely to quicken his pulses beyond the point
at which the quiet work of life was practicable. Had he, after all,
been taken unawares, so that it was no longer possible for him to fly ?
At least, during the journey he took, by way of test- ing the
existence of any chain about him, he found a certain disappointment at
his heart, greater than he could have anticipated; and as he passed
over the crisp leaves, nipped off in multitudes by the first sudden cold
of winter, he felt that the mental atmosphere within himself was
perceptibly colder. Yet it was, finally, a quite successful
resigna- tion which he achieved, on a review, after his manner,
during that absence, of loss or gain. The image of Cecilia, it would
seem, was already become for him like some matter of poetry, or of
another man's story, or a picture on the wall. And on his return to Rome
there had been a rumour in that singular company, of things which
spoke certainly not of any merely tranquil loving : hinted rather that he
had come across a world, the lightest contact with which might make
appropriate to himself also the precept that " They which have wives
be as they that have none." This was brought home to
him, when, in early spring, he ventured once more to listen to the
sweet singing of the Eucharist. It breathed more than ever the spirit of a
wonderful hop* of hopes more daring than poor, labouring humanity
had ever seriously entertained before, though it was plain that a great
calamity was befallen. Amid stifled sobbing, even as the pathetic
words of the psalter relieved the tension of their hearts, the people
around him still wore upon their faces their habitual gleam of joy,
of placid satisfaction. They were still under the influence of an
immense gratitude in thinking. even amid their present distress, of the
hour or a great deliverance. As he followed again that mystical
dialogue, he felt also again, like a mighty spirit about him, the
potency, the half- realised presence, of a great multitude, as if
thronging along those awful passages, to hear the sentence of its release
from prison; a company which represented nothing less than orbis
ter- rarum the whole company of mankind. And the special note of
the day expressed that relief a sound new to him, drawn deep from
some old Hebrew source, as he conjectured, Alleluia! repeated over
and over again, Alleluia! Alleluia! at every pause and movement of the
long Easter ceremonies. And then, in its place, by way of
sacred lection, although in shocking contrast with the peaceful
dignity of all around, came the Epistle of the churches of Lyons and
Vienne^ to " their sister,'' the church of Rome. For the
"Peace" of the church had been broken broken, as Marius
could not but acknowledge, on the responsibility of the emperor Aurelius
himself, following tamely, and as a matter of course, the traces of
his predecessors, gratuitously enlisting, against the good as well as the
evil of that great pagan world, the strange new heroism of which
this singular message was full. The greatness of it certainly lifted away
all merely private regret, inclining one, at last, actually to draw
sword for the oppressed, as if in some new order of knighthood
" The pains which our brethren have endured we have no power
fully to tell, for the enemy came upon us with his whole strength. But
the grace of God fought for us, set free the weak, and made ready
those who, like pillars, were able to bear the weight. These, coming
now into close strife with the foe, bore every kind of pang and
shame. At the time of the fair which is held here with a great crowd, the
governor led forth the Martyrs as a show. Holding what was thought
great but little, and that the pains of to-day are not deserving to be
measured against the glory that shall be made known, these worthy
wrestlers went joyfully on their way; their delight and the sweet favour
of God mingling in their faces, so that their bonds seemed but a
goodly array, or like the golden bracelets of a bride. Filled with the
fragrance of Christ, to some they seemed to have been touched with
earthly perfumes. " Vettius Epagathus, though he was vei
young, because he would not endure to see unjust judgment given against
us, vented his anger, and sought to be heard for the brethren, for
he was a youth of high place. Whereupon the governor asked him whether he
also were a Christian. He confessed in a clear voice, and was added
to the number of the Martyrs. But he had the Paraclete within him ; as,
in truth, he showed by the fulness of his love; glorying in the
defence of his brethren, and to give his life for theirs.
" Then was fulfilled the saying of the Lord that the day
should come, When he that slayeth you 'will think that he doeth God
service. Most madly did the mob, the governor and the soldiers,
rage against the handmaiden Blandina, in whom Christ showed that what
seems mean among men is of price with Him. For whilst we all, and
her earthly mistress, who was herself one of the contending Martyrs, were
fearful lest through the weakness of the flesh she should be unable
to profess the faith, Blandina was filled with such power that her
tormentors, following upon each other from morning until night,
owned that they were overcome, and had no more that they could do to her
; admiring that she still breathed after her whole body was torn
asunder. " But this blessed one, in the very midst of
her c witness,' renewed her strength ; and to repeat, / am Christ's ! was
to her rest, refresh- ment, and relief from pain. As for Alexander,
he neither uttered a groan nor any sound at all, but in his heart talked
with God. Sanctus, the deacon, also, having borne beyond all
measure pains devised by them, hoping that they would get something
from him, did not so much as tell his name ; but to all questions
answered only, / am Chrises ! For this he confessed instead of his
name, his race, and everything beside. Whence also a strife in torturing
him arose between the governor and those tormentors, so that when
they had nothing else they could do they set red-hot plates of brass to
the most tender parts of his body. But he stood firm in his
profession, cooled and fortified by that stream of living water which
flows from Christ. His corpse, a single wound, having wholly lost
the form of man, was the measure of his pain. But Christ, paining in him,
set forth an en- sample to the rest that there is nothing fearful,
nothing painful, where the love of the Father overcomes. And as all those
cruelties were made null through the patience of the Martyrs, they
bethought them of other things ; among which was their imprisonment in a
dark and most sorrowful place, where many were privily strangled.
But destitute of man's aid, they were filled with power from the Lord,
both in body and mind, and strengthened their brethren. Also, much
joy was in our virgin mother, the Church ; for, by means of these, such as
were fallen away retraced their steps were again con- ceived, were
filled again with lively heat, and hastened to make the profession of
their faith. "The holy bishop Pothinus, who was now past
ninety years old and weak in body, yet in his heat of soul and longing
for martyrdom, roused what strength he had, and was also cruelly
dragged to judgment, and gave witness. Thereupon he suffered many
stripes, all thinking it would be a wickedness if they fell short
in cruelty towards him, for that thus their own gods would be
avenged. Hardly drawing breath, he was thrown into prison, and after two
days there died. "After these things their martyrdom
was parted into divers manners. Plaiting as it were one crown of
many colours and every sort of flowers, they offered it to God. Maturus,
there- fore, Sanctus and Blandina, were led to the wild beasts. And
Maturus and Sanctus passed through all the pains of the amphitheatre, as
if they had suffered nothing before : or rather, as having in many
trials overcome, and now contending for the prize itself, were at last
dismissed. " But Blandina was bound and hung upon a
stake, and set forth as food for the assault of the wild beasts. And as
she thus seemed to be hung upon the Cross, by her fiery prayers she
imparted much alacrity to those contending Witnesses. For as they
looked upon her with the eye of flesh, through her, they saw Him that was
cruci- fied. But as none of the beasts would then touch her, she
was taken down from the Cross, and sent back to prison for another day :
that, though weak and mean, yet clothed with the mighty wrestler,
Christ Jesus, she might by many con- quests give heart to her
brethren. " On the last day, therefore, of the shows,
she was brought forth again, together with Ponticus, a lad of about
fifteen years old. They were brought in day by day to behold the pains
of the rest. And when they wavered not, the mob was full of rage ;
pitying neither the youth of the lad, nor the sex of the maiden. Hence,
they drave them through the whole round of pain. And Ponticus,
taking heart from Blandina, hav- ing borne well the whole of those
torments, gave up his life. Last of all, the blessed Blandina
herself, as a mother that had given life to her children, and sent them
like conquerors to the great King, hastened to them, with joy at
the end, as to a marriage-feast; the enemy himself confessing that
no woman had ever borne pain so manifold and great as hers.
" Nor even so was their anger appeased ; some among them
seeking for us pains, if it might be, yet greater; that the saying might
be fulfilled, He that is unjust, let him be unjust still. And their
rage against the Martyrs took a new form, insomuch that we were in great
sorrow for lack of freedom to entrust their bodies to the
earth, Neither did the night-time, nor the offer of money, avail us
for this matter; but they set watch with much carefulness, as though it
were a great gain to hinder their burial. Therefore, after the
bodies had been displayed to view for many days, they were at last burned
to ashes, and cast into the river Rhone, which flows by this place,
that not a vestige of them might be left upon the earth. For they said,
Now shall we see whether they will rise again, and whether their
God can save them out of our hands" Not many months after the date of that
epistle, Marius, then expecting to leave Rome for a long time, and
in fact about to leave it for ever, stood to witness the triumphal entry
of Marcus Aurelius, almost at the exact spot from which he had
watched the emperor's solemn return to the capital on his own first
coming thither. His triumph was now a " full " one Justus
Triumphus justified, by far more than the due amount of bloodshed in
those Northern wars, at length, it might seem, happily at an end.
Among the captives, amid the laughter of the crowds at his blowsy upper
garment, his trousered legs and conical wolf-skin cap, walked our
own ancestor, representative of subject Germany, under a figure
very familiar in later Roman sculpture; and, though certainly with none
of the grace of the Dying Gau/, yet with plenty of uncouth pathos
in his misshapen features, and the pale, servile, yet angry eyes. His
children, white-skinned and golden-haired " as angels,"
trudged beside him. His brothers, of the animal world, the ibex, the
wild-cat, and the reindeer, stalking and trumpeting grandly, found
their due place in the procession; and among the spoil, set forth
on a portable frame that it might be distinctly seen (no mere model, but
the very house he had lived in), a wattled cottage, in all the
simplicity of its snug contrivances against the cold, and well-calculated
to give a moment's delight to his new, sophisticated masters.
Andrea Mantegna, working at the end of the fifteenth century, for a
society full of antiquarian fervour at the sight of the earthy relics of
the old Roman people, day by day returning to light out of the clay
childish still, moreover, and with no more suspicion of pasteboard than
the old Romans themselves, in its unabashed love of open-air
pageantries, has invested this, the great- est, and alas ! the most
characteristic, of the splendours of imperial Rome, with a reality
livelier than any description. The homely senti- ments for which he has
found place in his learned paintings are hardly more lifelike than
the great public incidents of the show, there depicted. And then, with
all that vivid realism, how refined, how dignified, how select in
type, is this reflection of the old Roman world ! now especially,
in its time-mellowed red and gold, for the modern visitor to the old
English palace. It was under no such selected types that the
great procession presented itself to Marius ; though, in effect, he found
something there pro- phetic, so to speak, and evocative of ghosts,
as susceptible minds will do, upon a repetition after long interval
of some notable incident, which may yet perhaps have no direct concern
for themselves. In truth, he had been so closely bent of late on
certain very personal interests that the broad current of the world's
doings seemed to have withdrawn into the distance, but now, as he
witnessed this procession, to return once more into evidence for him. The
world, certainly, had been holding on its old way, and was all its
old self, as it thus passed by dramatic- ally, accentuating, in this
favourite spectacle, its mode of viewing things. And even apart
from the contrast of a very different scene, he would have found
it, just now, a somewhat vulgar spectacle. The temples, wide open, with
their ropes of roses flapping in the wind against the rich,
reflecting marble, their startling draperies and heavy cloud of incense,
were but the centres of a great banquet spread through all the
gaudily coloured streets of Rome, for which the carnivo- rous
appetite of those who thronged them in the glare of the mid -day sun was
frankly enough asserted. At best, they were but calling their gods
to share with them the cooked, sacrificial, and other meats, reeking to
the sky. The child, who was concerned for the sorrows of one
of those Northern captives as he passed by, and explained to his
comrade "There's feeling in that hand, you know ! " benumbed
and lifeless as it looked in the chain, seemed, in a moment, to
transform the entire show into its own proper tinsel. Yes ! these Romans
were a coarse, a vulgar people; and their vulgarities of soul in
full evidence here. And Aurelius himself seemed to have undergone the
world's coinage, and fallen to the level of his reward, in a medi-
ocrity no longer golden. Yet if, as he passed by, almost filling
the quaint old circular chariot with his magnificent golden-flowered
attire, he presented himself to Marius, chiefly as one who had made the
great mistake ; to the multitude he came as a more than magnanimous
conqueror. That he had " forgiven " the innocent wife and
children of the dashing and almost successful rebel Avidius
Cassius, now no more, was a recent circumstance still in memory. As the
children went past not among those who, ere the emperor ascended
the steps of the Capitol, would be detached from the great progress for
execution, happy rather, and radiant, as adopted members of the
imperial family the crowd actually enjoyed an exhibi- tion of the
moral order, such as might become perhaps the fashion. And it was in
considera- tion of some possible touch of a heroism herein that
might really have cost him something, that Marius resolved to seek the
emperor once more, with an appeal for common-sense, for reason and
justice. He had set out at last to revisit his old home ; and
knowing that Aurelius was then in retreat at a favourite villa, which lay
almost on his way thither, determined there to present himself.
Although the great plain was dying steadily, a new race of wild birds
establishing itself there, as he knew enough of their habits to
understand, and the idle contadino^ with his never-ending ditty of
decay and death, replacing the lusty Roman labourer, never had that
poetic region between Rome and the sea more deeply im- pressed him
than on this sunless day of early autumn, under which all that fell
within the immense horizon was presented in one uniform tone of a
clear, penitential blue. Stimulating to the fancy as was that range of
low hills to the northwards, already troubled with the upbreak- ing
of the Apennines, yet a want of quiet in their outline, the record of
wild fracture there, of sudden upheaval and depression, marked them
as but the ruins of nature ; while at every little descent and ascent of
the road might be noted traces of the abandoned work of man. From
time to time, the way was still redolent of the floral relics of summer,
daphne and myrtle- blossom, sheltered in the little hollows and
ravines. At last, amid rocks here and there piercing the soil, as those
descents became steeper, and the main line of the Apennines, now visible,
gave a higher accent to the scene, he espied over the plateau^ almost
like one of those broken hills, cutting the horizon towards the
sea, the old brown villa itself, rich in memories of one after another of
the family of the Antonines. As he approached it, such remi- niscences
crowded upon him, above all of the life there of the aged Antoninus Pius,
in its wonderful mansuetude and calm. Death had overtaken him here
at the precise moment when the tribune of the watch had received from
his lips the word Aequanimitas! as the watchword of the night. To
see their emperor living there like one of his simplest subjects, his
hands red at vintage-time with the juice of the grapes, hunt- ing,
teaching his children, starting betimes, with all who cared to join him,
for long days of anti- quarian research in the country around :
this, and the like of this, had seemed to mean the peace of
mankind. Upon that had come like a stain ! it seemed to
Marius just then the more intimate life of Faustina, the life of Faustina
at home. Surely, that marvellous but malign beauty must still haunt
those rooms, like an unquiet, dead goddess, who might have perhaps, after
all, something reassuring to tell surviving mortals about her
ambiguous self. When, two years since, the news had reached Rome that
those eyes, always so persistently turned to vanity, had suddenly
closed for ever, a strong desire to pray had come over Marius, as he
followed in fancy on its wild way the soul of one he had spoken with now
and again, and whose presence in it for a time the world of art
could so ill have spared. Certainly, the honours freely accorded to
embalm her memory were poetic enough the rich temple left among
those wild villagers at the spot, now it was hoped sacred for ever, where
she had breathed her last ; the golden image, in her old place at
the amphitheatre ; the altar at which the newly married might make their
sacrifice ; above all, the great foundation for orphan girls, to be
called after her name. The latter, precisely, was the cause
why Marius failed in fact to see Aurelius again, and make the
chivalrous effort at enlightenment he had proposed to himself. Entering
the villa, he learned from an usher, at the door of the long
gallery, famous still for its grand prospect in the memory of many a
visitor, and then lead- ing to the imperial apartments, that the
emperor was already in audience : Marius must wait his turn he knew
not how long it might be. An odd audience it seemed ; for at that moment,
through the closed door, came shouts of laughter, the laughter of a great
crowd of children the " Faustinian Children " themselves, as he
after- wards learned happy and at their ease, in the imperial
presence. Uncertain, then, of the time for which so pleasant a reception
might last, so pleasant that he would hardly have wished to shorten
it, Marius finally determined to proceed, as it was necessary that he
should accomplish the first stage of his journey on this day. The
thing was not to be Vale ! anima infelicissima ! He might at least carry
away that sound of the laughing orphan children, as a not unamiable
last impression of kings and their houses. The place he was now
about to visit, especi- ally as the resting-place of his dead, had
never been forgotten. Only, the first eager period of his life in
Rome had slipped on rapidly ; and, almost on a sudden, that old time had
come to seem very long ago. An almost burdensome solemnity had
grown about his memory of the place, so that to revisit it seemed a thing
that needed preparation : it was what he could not have done
hastily. He half feared to lessen, or disturb, its value for himself. And
then, as he travelled leisurely towards it, and so far with quite
tranquil mind, interested also in many another place by the way, he
discovered a shorter road to the end of his journey, and found
himself indeed approaching the spot that was to him like no other.
Dreaming now only of the dead before him, he journeyed on rapidly through
the night ; the thought of them increasing on him, in the darkness. It
was as if they had been waiting for him there through all those
years, and felt his footsteps approaching now, and understood his
devotion, quite gratefully, in that lowliness of theirs, in spite of its
tardy fulfilment. As morning came, his late tran- quillity of mind
had given way to a grief which surprised him by its freshness. He was
moved more than he could have thought possible by so distant a
sorrow. " To-day ! " they seemed to be saying as the hard dawn
broke, " To-day, he will come ! " At last, amid all his
distractions, they were become the main purpose of what he was then
doing. The world around it, when he actually reached the place later in
the day, was in a mood very different from his : so work- a-day, it
seemed, on that fine afternoon, and the villages he passed through so
silent ; the inhabitants being, for the most part, at their labour
in the country. Then, at length, above the tiled outbuildings, were the
walls of the old villa itself, with the tower for the pigeons ;
and, not among cypresses, but half-hidden by aged poplar-trees,
their leaves like golden fruit, the birds floating around it, the conical
roof of the tomb itself. In the presence of an old servant who
remembered him, the great seals were broken, the rusty key turned at last
in the lock, the door was forced out among the weeds grown thickly
about it, and Marius was actually in the place which had been so often in
his thoughts. He was struck, not however without a touch of
remorse thereupon, chiefly by an odd air of neglect, the neglect of a
place allowed to remain as when it was last used, and left in a hurry,
till long years had covered all alike with thick dust the faded
flowers, the burnt-out lamps, the tools and hardened mortar of the
workmen who had had something to do there. A heavy fragment of
woodwork had fallen and chipped open one of the oldest of the mortuary
urns, many hundreds in number ranged around the walls. It was not
properly an urn, but a minute coffin of stone, and the fracture had
revealed a piteous spectacle of the mouldering, unburned remains
within ; the bones of a child, as he understood, which might have died,
in ripe age, three times over, since it slipped away from among his
great-grandfathers, so far up in the line. Yet the protruding baby hand
seemed to stir up in him feelings vivid enough, bringing him
intimately within the scope of dead people's grievances. He noticed, side
by side with the urn of his mother, that of a boy of about his own
age one of the serving-boys of the household who had descended hither,
from the lightsome world of childhood, almost at the same time with
her. It seemed as if this boy of his own age had taken filial place beside
her there, in his stead. That hard feeling, again, which had always
lingered in his mind with the thought of the father he had scarcely
known, melted wholly away, as he read the precise number of his
years, and reflected suddenly He was of my own present age ; no hard old
man, but with interests, as he looked round him on the world for
the last time, even as mine to-day! And with that came a blinding rush of
kindness, as if two alienated friends had come to under- stand each
other at last. There was weakness in all this ; as there is in all care
for dead persons, to which nevertheless people will always yield in
proportion as they really care for one another. With a vain yearning, as
he stood there, still to be able to do something for them, he
reflected that such doing must be, after all, in the nature of
things, mainly for himself. His own epitaph might be that old one
"Eo-^aTo? TOV ISlov yevov? He was the last of his race ! Of those
who might come hither after himself probably no one would ever
again come quite as he had done to-day ; and it was under the influence
of this thought that he determined to bury all that, deep below the
surface, to be remembered only by him, and in a way which would claim
no sentiment from the indifferent. That took many days was like a
renewal of lengthy old burial rites as he himself watched the work,
early and late ; coming on the last day very early, and
anticipating, by stealth, the last touches, while the workmen were absent
; one young lad only, finally smoothing down the earthy bed,
greatly surprised at the seriousness with which Marius flung in his
flowers, one by one, to mingle with the dark mould. Those eight days
at his old home, so mournfully occupied, had been for Marius in some sort
a forcible disruption from the world and the roots of his life in
it. He had been carried out of himself as never before ; and when the
time was over, it was as if the claim over him of the earth below
had been vindicated, over against the interests of that living world
around. Dead, yet sentient and caressing hands seemed to reach out
of the ground and to be clinging about him. Looking back sometimes now,
from about the midway of life the age, as he conceived, at which
one begins to re-descend one's life though antedating it a little, in his
sad humour, he would note, almost with surprise, the un- broken
placidity of the contemplation in which it had been passed. His own
temper, his early theoretic scheme of things, would have pushed him
on to movement and adventure. Actually, as circumstances had determined,
all its movement had been inward ; movement of observa- tion only, or
even of pure meditation ; in part, perhaps, because throughout it had
been some- thing of a meditatio mortis^ ever facing towards the act
of final detachment. Death, however, as he reflected, must be for every
one nothing ( less than the fifth or last act of a drama, and, as 1
such, was likely to have something of the stirring ! character of a
denouement. And, in fact, it was in form tragic enough that his end not
long after- ' wards came to him. In the midst of the extreme
weariness and depression which had followed those last days,
Cornelius, then, as it happened, on a journey and travelling near the
place, finding traces of him, had become his guest at Whitenights. It
was just then that Marius felt, as he had never done before, the
value to himself, the overpowering charm, of his friendship. " More
than brother ! " he felt " like a son also ! " contrasting
the fatigue of soul which made himself in effect an older man, with
the irrepressible youth of his companion. For it was still the
marvellous hopefulness of Cornelius, his seeming prerogative over
the future, that determined, and kept alive, all other sentiment
concerning him. A new hope had sprung up in the world of which he,
Cornelius, was a depositary, which he was to bear onward in it.
Identifying himself with Cornelius in so dear a friendship, through
him, Marius seemed to touch, to ally himself to, actually to become a
possessor of the coming world ; even as happy parents reach out,
and take possession of it, in and through the survival of their
children. For in these days their intimacy had grown very close, as they
moved hither and thither, leisurely, among the country-places thereabout,
Cornelius being on his way back to Rome, till they came one evening to
a little town (Marius remembered that he had been there on his
first journey to Rome) which had even then its church and legend the
legend and holy relics of the martyr Hyacinthus, a young Roman
soldier, whose blood had stained the soil of this place in the reign of
the emperor Trajan. The thought of that so recent death,
haunted Marius through the night, as if with audible crying and
sighs above the restless wind, which came and went around their lodging.
But towards dawn he slept heavily ; and awaking in broad daylight,
and finding Cornelius absent, set forth to seek him. The plague was still
in the place had indeed just broken out afresh ; with an outbreak
also of cruel superstition among its wild and miserable inhabitants.
Surely, the old gods were wroth at the presence of this new enemy
among them ! And it was no ordinary morning into which Marius stepped
forth. There was a menace in the dark masses of hill, and
motionless wood, against the gray, although apparently unclouded sky.
Under this sunless heaven the earth itself seemed to fret and fume
with a heat of its own, in spite of the strong night-wind. And now the
wind had fallen. Marius felt that he breathed some strange heavy
fluid, denser than any common air. He could have fancied that the world
had sunken in the night, far below its proper level, into some
close, thick abysm of its own atmosphere. The Christian people of the
town, hardly less terrified and overwrought by the haunting sick-
ness about them than their pagan neighbours, were at prayer before the
tomb of the martyr ; and even as Marius pressed among them to a
place beside Cornelius, on a sudden the hills seemed to roll like a sea
in motion, around the whole compass of the horizon. For a moment
Marius supposed himself attacked with some sudden sickness of brain, till
the fall of a great mass of building convinced him that not himself
but the earth under his feet was giddy. A few moments later the little
market- place was alive with the rush of the distracted inhabitants
from their tottering houses ; and as they waited anxiously for the second
shock of earthquake, a long -smouldering suspicion leapt
precipitately into well-defined purpose, and the whole body of people was
carried forward towards the band of worshippers below. An hour
later, in the wild tumult which followed, the earth had been stained
afresh with the blood of the martyrs Felix and Faustinus F
lores apparuerunt in terra nostra ! and their brethren, together
with Cornelius and Marius, thus, as it had happened, taken among them,
were prisoners, reserved for the action of the law. Marius and his
friend, with certain others, exercising the privilege of their rank, made
claim to be tried in Rome, or at least in the chief town of the
district; where, indeed, in the troublous days that had now begun, a
legal process had been already instituted. Under the care of a
military guard the captives were removed on the same day, one stage
of their journey ; sleeping, for security, during the night, side by side
with their keepers, in the rooms of a shepherd's deserted house by
the wayside. It was surmised that one of the prisoners was
not a Christian : the guards were forward to make the utmost pecuniary
profit of this circum- stance, and in the night, Marius, taking
advan- tage of the loose charge kept over them, and by means partly
of a large bribe, had contrived that Cornelius, as the really innocent
person, should be dismissed in safety on his way, to procure, as
Marius explained, the proper means of defence for himself, when the time
of trial came. And in the morning Cornelius in fact set forth
alone, from their miserable place of deten- tion. Marius believed that
Cornelius was to be the husband of Cecilia; and that, perhaps
strangely, had but added to the desire to get him away safely. We wait
for the great crisis which is to try what is in us : we can hardly bear
the pressure of our hearts, as we think of it : the lonely
wrestler, or victim, which imagination foreshadows to us, can hardly be
one's self; it seems an outrage of our destiny that we should be
led along so gently and imperceptibly, to so terrible a leaping-place in
the dark, for more perhaps than life or death. At last, the great
act, the critical moment itself comes, easily, almost unconsciously.
Another motion of the clock, and our fatal line the " great
climacteric point " has been passed, which changes our- selves
or our lives. In one quarter of an hour, under a sudden, uncontrollable
impulse, hardly weighing what he did, almost as a matter of course
and as lightly as one hires a bed for one's ; night's rest on a journey,
Marius had taken upon himself all the heavy risk of the position in
which Cornelius had then been the long and wearisome delays of judgment,
which were possible ; the danger and wretchedness of a long journey
in this manner ; possibly the danger of death. He had delivered his
brother, after the \ manner he had sometimes vaguely anticipated as
a kind of distinction in his destiny; though indeed always with wistful
calculation as to what it might cost him : and in the first moment
after the thing was actually done, he felt only satisfac- tion at
his courage, at the discovery of his possession of "
nerve." Yet he was, as we know, no hero, no heroic martyr
had indeed no right to be ; and when he had seen Cornelius depart, on his
blithe and hopeful way, as he believed, to become the husband of
Cecilia ; actually, as it had hap- pened, without a word of farewell,
supposing Marius was almost immediately afterwards to follow
(Marius indeed having avoided the moment of leave-taking with its
possible call for an explanation of the circumstances), the re-
action came. He could only guess, of course, at what might really happen.
So far, he had but taken upon himself, in the stead of Cornelius, a
certain amount of personal risk ; though he hardly supposed himself to be
facing the danger of death. Still, especially for one such as he,
with all the sensibilities of which his whole manner of life had been but
a promotion, the situation of a person under trial on a criminal
charge was actually full of distress. To him, in truth, a death such as
the recent death of those saintly brothers, seemed no glorious end. In
his case, at least, the Martyrdom, as it was called the overpowering
act of testimony that Heaven had come down among men would be but a
common execution : from the drops of his blood there would spring no
miraculous, poetic flowers ; no eternal aroma would indicate the place of
his burial ; no plenary grace, overflowing for ever upon those who
might stand around it. Had there been one to listen just then, there
would have come, from the very depth of his desolation, an eloquent
utterance at last, on the irony of men's fates, on the singular accidents
of life and death. The guards, now safely in possession of what-
ever money and other valuables the prisoners had had on them, pressed
them forward, over the rough mountain paths, altogether careless of
their sufferings. The great autumn rains were falling. At night the
soldiers lighted a fire ; but it was impossible to keep warm. From time
to time they stopped to roast portions of the meat they carried
with them, making their captives sit round the fire, and pressing it upon
them. But weariness and depression of spirits had deprived Marius
of appetite, even if the food had been more attractive, and for some days
he partook of nothing but bad bread and water. All through the dark
mornings they dragged over boggy plains, up and down hills, wet through
some- times with the heavy rain. Even in those de- plorable
circumstances, he could but notice the wild, dark beauty of those regions
the stormy sunrise, and placid spaces of evening. One of the
keepers, a very young soldier, won him at times, by his simple kindness,
to talk a little, with wonder at the lad's half-conscious, poetic
delight in the adventures of the journey. At times, the whole company
would lie down for rest at the roadside, hardly sheltered from the
storm ; and in the deep fatigue of his spirit, his old longing for
inopportune sleep overpowered him. Sleep anywhere, and under any
conditions, seemed just then a thing one might well ex- change the
remnants of one's life for. It must have been about the fifth
night, as he afterwards conjectured, that the soldiers, believing
him likely to die, had finally left him unable to proceed further, under
the care of some country people, who to the extent of their power
certainly treated him kindly in his sickness. He awoke to
consciousness after a severe attack of fever, lying alone on a rough bed,
in a kind of hut. It seemed a remote, mysterious place, as he
looked around in the silence ; but so fresh lying, in fact, in a
high pasture-land among the mountains that he felt he should recover, if
he might but just lie there in quiet long enough. Even during those
nights of delirium he had felt the scent of the new-mown hay pleasantly,
with a dim sense for a moment that he was lying safe in his old
home. The sunlight lay clear beyond the open door ; and the sounds of the
cattle reached him softly from the green places around. Recalling
confusedly the torturing hurry of his late journeys, he dreaded, as his
consciousness of the whole situation returned, the coming of the
guards. But the place remained in absolute stillness. He was, in fact, at
liberty, but for his own disabled condition. And it was certainly a
genuine clinging to life that he felt just then, at the very bottom of
his mind. So it had been, obscurely, even through all the wild fancies of
his delirium, from the moment which followed his decision against himself, in
favour of Cornelius. The occupants of the place were to be
heard presently, coming and going about him on their business : and
it was as if the approach of death brought out in all their force the
merely human sentiments. There is that in death which certainly
makes indifferent persons anxious to forget the dead : to put them those
aliens away out of their thoughts altogether, as soon as may be.
Conversely, in the deep isolation of spirit which was now creeping upon
Marius, the faces of these people, casually visible, took a strange
hold on his affections ; the link of general brotherhood, the feeling of
human kin- ship, asserting itself most strongly when it was about
to be severed for ever. At nights he would find this face or that
impressed deeply on his fancy ; and, in a troubled sort of manner,
his mind would follow them onwards, on the ways of their simple,
humdrum, everyday life, with a peculiar yearning to share it with them,
envying the calm, earthy cheerfulness of all their days to be,
still under the sun, though so indifferent, of course, to him ! as if
these rude people had been suddenly lifted into some height of earthly
good-fortune, which must needs isolate them from himself.
Tristem neminem fecit he repeated to himself; his old prayer
shaping itself now almost as his epitaph. Yes ! so much the very hardest
judge must concede to him. And the sense of satis- faction which
that thought left with him dis- posed him to a conscious effort of
recollection, while he lay there, unable now even to raise his
head, as he discovered on attempting to reach a .pitcher of water which
stood near. Revelation, vision, the discovery of a vision, the seeing of
a perfect humanity, in a perfect world through all his alternations
of mind, by some dominant instinct, determined by the original
necessities of his own nature and character, he had always set that
above the having, or even the doing, of any- thing. For, such vision, if
received with due attitude on his part, was, in reality, the being
something, and as such was surely a pleasant offering or sacrifice to
whatever gods there might be, observant of him. And how goodly had
the vision been ! one long unfolding of beauty and energy in things, upon
the closing of which he might gratefully utter his " Vixi ! '
Even then, just ere his eyes were to be shut for ever, the things they
had seen seemed a veritable possession in hand ; the persons, the places,
above all, the touching image of Jesus, apprehended dimly through
the expressive faces, the crying of the children, in that mysterious
drama, with a sudden sense of peace and satisfaction now, which he
could not explain to himself. Surely, he had prospered in life ! And
again, as of old, the sense of gratitude seemed to bring with it
the sense also of a living person at his side. For still, in a shadowy
world, his deeper wisdom had ever been, with a sense of economy,
with a jealous estimate of gain and loss, to use life, not as the means
to some problematic end, but, as far as might be, from dying hour to
dying hour, an end in itself a kind of music, all- sufficing to the
duly trained ear, even as it died out on the air. Yet now, aware still in
that suffering body of such vivid powers of mind and sense, as he
anticipated from time to time how his sickness, practically without aid
as he must be in this rude place, was likely to end, and that the
moment of taking final account was drawing very near, a consciousness of
waste would come, with half-angry tears of self-pity, in his great
weakness a blind, outraged, angry feeling of wasted power, such as he
might have experienced himself standing by the deathbed of another,
in condition like his own. And yet it was the fact, again,
that the vision of men and things, actually revealed to him on his
way through the world, had developed, with a wonderful largeness, the
faculties to which it addressed itself, his general capacity of vision
; and in that too was a success, in the view of certain, very
definite, well-considered, undeni- able possibilities. Throughout that
elaborate and lifelong education of his receptive powers, he had ever
kept in view the purpose of pre- paring himself towards possible further
revelation some day towards some ampler vision, which should take up
into itself and explain this world's delightful shows, as the scattered
frag- / ments of a poetry, till then but half-understood, might be
taken up into the text of a lost epic, recovered at last. At this moment,
his un- clouded receptivity of soul, grown so steadily through all
those years, from experience to ex- perience, was at its height ; the
house ready for the possible guest ; the tablet of the mind white
and smooth, for whatsoever divine fingers might choose to write there.
And was not this pre- cisely the condition, the attitude of mind,
to which something higher than he, yet akin to him, would be likely
to reveal itself ; to which that influence he had felt now and again like
a friendly hand upon his shoulder, amid the actual obscurities of
the world, would be likely to make a further explanation ? Surely, the
aim of a true philosophy must lie, not in futile efforts towards
the complete accommodation of man to the circumstances in which he
chances to find himself, but in the maintenance of a kind of candid
discontent, in the face of the very highest achievement; the unclouded
and receptive soul quitting the world finally, with the same fresh
wonder with which it had entered the world still unimpaired, and going on
its blind way at last with the consciousness of some profound
enigma in things, as but a pledge of something further to come. Marius
seemed to understand how one might look back upon life here, and
its excellent visions, as but the portion of a race- course left
behind him by a runner still swift of foot : for a moment he experienced
a singular curiosity, almost an ardent desire to enter upon a future,
the possibilities of which seemed so large. And just then,
again amid the memory of certain touching actual words and images,
came the thought of the great hope, that hope against hope, which,
as he conceived, had arisen Lux sedentibus in tenebris upon the aged
world ; the hope Cornelius had seemed to bear away upon him in his
strength, with a buoyancy which had caused Marius to feel, not so much
that by a caprice of destiny, he had been left to die in his place,
as that Cornelius was gone on a mission to deliver him also from death.
There had been a permanent protest established in the world, a
plea, a perpetual after-thought, which humanity henceforth would ever
possess in reserve, against any wholly mechanical and disheartening
theory of itself and its conditions. That was a thought which
relieved for him the iron outline of the horizon about him, touching it
as if with soft light from beyond ; filling the shadowy, hollow
places to which he was on his way with the warmth of definite affections
; confirming also certain considerations by which he seemed to link
himself to the generations to come in the world he was leaving. Yes !
through the sur- vival of their children, happy parents are able to think
calmly, and with a very practical affection, of a world in which they are
to have no direct share; planting with a cheerful good-humour, the
acorns they carry about with them, that their grand-children may be
shaded from the sun by the broad oak-trees of the future. That is
nature's way of easing death to us. It was thus too, surprised,
delighted, that Marius, under the power of that new hope among men, could
think of the generations to come after him. Without it, dim in
truth as it was, he could hardly have dared to ponder the world which limited
all he really knew, as it would be when he should have departed
from it. A strange lonesomeness, like physical darkness, seemed to settle
upon the thought of it ; as if its business hereafter must be, as
far as he was concerned, carried on in some inhabited, but distant and
alien, star. Contrari- wise, with the sense of that hope warm about
him, he seemed to anticipate some kindly care for himself, never to fail
even on earth, a care for his very body that dear sister and companion
of his soul, outworn, suffering, and in the very article of death,
as it was now. For the weariness came back tenfold ; and he
had finally to abstain from thoughts like these, as from what caused
physical pain. And then, as before in the wretched, sleepless nights of
those forced marches, he would try to fix his mind, as it were
impassively, and like a child thinking over the toys it loves, one after
another, that it may fall asleep thus, and forget all about them
the sooner, on all the persons he had loved in life on his love for them,
dead or living, grate- ful for his love or not, rather than on theirs
for him letting their images pass away again, or rest with him, as
they would. In the bare sense of having loved he seemed to find,
even amid this foundering of the ship, that on which his soul might
"assuredly rest and depend." One after another, he suffered
those faces and voices to come and go, as in some mechanical
exercise, as he might have repeated all the verses he knew by heart, or
like the telling of beads one by one, with many a sleepy nod
between- whiles. For there remained also, for the old
earthy creature still within him, that great blessedness of
physical slumber. To sleep, to lose one's self in sleep that, as he had
always recognised, was a good thing. And it was after a space of
deep sleep that he awoke amid the murmuring voices of the people
who had kept and tended him so carefully through his sickness, now kneeling
around his bed : and what he heard confirmed, in the then perfect
clearness of his soul, the in- evitable suggestion of his own bodily
feelings. He had often dreamt he was condemned to die, that the
hour, with wild thoughts of escape, was arrived; and waking, with the sun
all around him, in complete liberty of life, had been full of
gratitude for his place there, alive still, in the land of the living. He
read surely, now, in the manner, the doings, of these people, some
of whom were passing out through the doorway, where the heavy
sunlight in very deed lay, that his last morning was come, and turned to
think once more of the beloved. Often had he fancied of old that
not to die on a dark or rainy day might itself have a little alleviating
grace or favour about it. The people around his bed were praying
fervently Abi! Abi! Anima Christiana! In the moments of his extreme
helplessness their mystic bread had been placed, had descended like a
snow-flake from the sky, between his lips. Gentle fingers had applied
to hands and feet, to all those old passage-ways of the senses,
through which the world had come and gone for him, now so dim and
obstructed, a medicinable oil. It was the same people who, in the
gray, austere evening of that day, took up his remains, and buried them
secretly, with their accustomed prayers ; but with joy also,
holding his death, according to their generous view in this matter,
to have been of the nature of a martyrdom ; and martyrdom, as the church
had always said, a kind of sacrament with plenary grace.P Corrado Curcio. Curcio. Keywords: esistenti -- Lucrezio,
Foscolo, Leopardi, Alighieri, Gentile, Diano, Sicilian philosophy. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Curcio” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Curi: l’implicatura
conversazionale dei figli di Marte -- passione e compassione, senso e consenso –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Verona). Filosofo
italiano. Grice: “I like Curi; unlike me, we would call him a prolific
philosopher; my favourite are his reflections on ‘eros’, ‘amore’ and bello, but
he has also written on various topics related to maleness -- Si laurea a Padova. Insegna a Padova. Membro
dell’Istituto Gramsci Veneto. Formatosi alla scuola di Diano, Gentile e Bozzi, incontra
Cacciari. A partire da quel topos, si avvia un sodalizio estremamente solido e
fecondo, all'insegna di una comune ricerca del nuovo, e di un impegno
teoretico rigoroso, che va oltre il piano strettamente della speculazione, in direzione
di una pratica civile. Filosofa sul nesso politica-civilita e guerra e sul
concetto di ‘polemos’ – cf. Grice epagoge/diagoge “”War is war” – Eirene --,
lungo la linea che congiunge Eraclito a Heidegger. Valorizza la narrazione, sia
intesa come mythos, sia concepita come opera cinematografica. Medita su alcuni
temi fondamentali dell'interrogazione filosofica, quali l'amore e la morte, il
dolore e il destino. Altre opere: “Endiadi: figure della dualità”
(Feltrinelli, Milano); “La filosofia come ‘bellum’” (Bollati Boringhieri,
Torino); “La forza dello sguardo” – Lat. vereor – warten: to see --; “Meglio
non essere nati: la condizione umana” – cf. la condition humaine”, Malraux);
“Lo schermo” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Un filosofo al cinema,
Bompiani, Milano).Quello che non e filosofo, ma ha soltanto una verniciatura di
casi umani, come il maschio abbronzato dal sole, vedendo quante cose si devono
imparare, quante fatiche bisogna sopportare, come si convenga, a seguire tale
studio, la vita regolata di ogni giorno, giudica che sia una cosa difficile e impossibile
per lui. A questo maschio bisogna mostrare che cos'è davvero la filosofia, e
quante difficoltà presenta, e quanta fatica comporta.” (Platone, Lettera
settima). La libertà non è soltanto l'essere-liberati DA lle catene né soltanto
l'esser-divenuti-liberi PER la luce, ma l'autentico essere-liberi è
essere-liberatori DA il buio. La ridiscesa nella caverna non è un divertimento
aggiuntivo che il presunto "libero" possa concedersi così per svago,
magari per curiosita. E esser-ci dentro tutto, essa soltanto, il compimento autentico
del divenire liberi. Heidegger, L'essenza della verità, Franco Volpi, Milano).Ne
“La brama dell'avere” si ha un attento e puntuale riesame sia
storico-filosofico che critico-filologico della fondamentale categoria
esistenziale dell'”avere” – “the have and have-nots” -- alla luce dell'odierno assetto
socio-comunitario. Cf. Grice on “H” for “Hazzes” “x H y” Curi focuses on ‘ekhein’ which would then
correspond to Grice’s “H” --. Altre opere: “Il coraggio di pensare,
manualistica di filosofia, Loescher editore, Torino); “Il problema dell'unità
del sapere nel comportamentismo” (MILANI, Padova); “Analisi operazionale e operazionismo”
(MILANI, Padova); “L'analisi operazionale della psicologia” (Franco Angeli,
Milano); “Dagli Jonici alla crisi della fisica” (MILANI, Padova); “Anti-conformismo
e libertà intellettuale: per una dialettica tra pensiero e politica” (Padova) –
cfr. Grice on non-conformismo – “Psicologia e critica dell'ideologia” (Bertani,
Roma); “La ricerca” (Marsilio, Venezia); “Katastrophé. Sulle forme del
mutamento scientifico” (Arsenale Cooperativa, Venezia); “La linea divisa.
Modelli di razionalita' e pratiche scientifiche nel pensiero occidentale” (De
Donato, Bari); “Pensare la guerra. Per una cultura della pace” (Dedalo, Bari) –
cf. Grice on ‘eirenic effect’ – pax et bellum – si vis pacem para bellum. ex
bello pace. “Dimensioni del tempo” (Franco Angeli, Milano); “Einstein”
(Gabriele Corbo, Ferrara); “La cosmologia filosofica” (Gabriele Corbo,
Ferrara); “La politica sommersa. Per un'analisi del sistema politico italiano,
Franco Angeli, Milan); “Lo scudo di Achille. Il PCI nella grande crisi” (Franco
Angeli, Milano); “L'albero e la foresta. Il Partito Democratico della Sinistra
nel sistema politico italiano, con Paolo Flores d'Arcais, Franco Angeli,
Milano); “Metamorfosi del tragico tra classico e moderno, Bari); “La repubblica
che non c'è” (Milano); “Poròs. Dialogo in una società che rifiuta la bellezza,
Milano); L'orto di Zenone. Coltivare per osmosi” (Milano); “Amore duale”
(Feltrinelli, Milano); “Platone: Il mantello e la scarpa” (Il Poligrafo,
Padova); “Pensare la guerra. L'Europa e il destino della politica, Dedalo,
Bari); “Pólemos. Filosofia come guerra, Bollati Boringhieri, Torino); Ombra
della’ idea. Filosofia del cinema fra «American beauty» e «Parla con lei»,
Pendragon, Bologna); “Filosofia del Don Giovanni. Alle origini di un mito moderno,
Bruno Mondadori, Milano); “Il farmaco della democrazia. Alle radici della politica,
Marinotti, Milano); “La forza dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino); “Skenos.
Il Don Giovanni nella società dello spettacolo” (Milano); “Libidine” (Milano). Un
filosofo al cinema, Bompiani, Milano); Meglio non essere nati. La condizione
umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino); Miti d'amore.
Filosofia dell'eros, Bompiani, Milano); Pensare con la propria testa” (Mimesis,
Milano); “Straniero, Raffaello Cortina Editore, Milano); “Passione” (Raffaello
Cortina Editore, Milano. La porta stretta. Come diventare maggiorenni” (Bollati
Boringhieri, Torino); “I figli di Ares. Guerra infinita e terrorismo,
Castelvecchi, Roma. La brama dell'avere; Il Margine, Trento); “Il mito di
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Marte (divinità) dio romano della guerra e dei duelli Lingua Segui Modifica
Marte (in latino: Mars[1]) è, nella religione romana e italica[2], il dio della
guerra e dei duelli e, secondo la mitologia più arcaica, anche del tuono, della
pioggia e della fertilità[3]. Simile alla divinità greca Ares, col tempo ne ha
assorbito tutti gli attributi, fino a venire completamente identificato con
esso. Statua colossale di Marte: "Pirro" nei Musei
capitolini a Roma. Fine del I secolo d.C. Culto. Venere e Marte, affresco
romano da Pompei, 1 secolo d. C. È una divinità sia etrusca[4] che italica
(Mamers nei dialetti sabellici[5]); nella religione romana (dove era
considerato padre del primo re Romolo) era il dio guerriero per eccellenza, in
parte associato a fenomeni atmosferici come la tempesta e il fulmine. Assieme a
Quirino e Giove, faceva parte della cosiddetta "Triade arcaica", che
in seguito, su influsso della cultura etrusca, sarà invece costituita da Giove,
Giunone e Minerva. Più tardi, identificandolo con il greco Ares, venne detto
figlio di Giunone e Giove e inserito in un contesto mitologico
ellenizzato. Alcuni studiosi del passato (Wilhelm Roscher, Hermann Usner,
e soprattutto Alfred von Domaszewski) hanno parlato di Marte anche nei termini
di divinità "agraria", legata all'agricoltura, soprattutto sulla
scorta del testo di una preghiera rimastaci nel De agri cultura di Catone, che
lo invoca per proteggere i campi da ogni tipo di sciagura e malattia. Secondo
Georges Dumézil tuttavia il collegamento fra Marte e l'ambito campestre non
farebbe di lui una divinità legata alla terra, in quanto il suo ruolo sarebbe
esclusivamente di difensore armato dei campi da mali umani e soprannaturali,
senza diversificazione dalla sua natura intrinsecamente guerresca. Il
dio, inoltre, rappresentava la virtù e la forza della natura e della gioventù,
che nei tempi antichi era dedita alla pratica militare. In questo senso era
posto in relazione con l'antica pratica italica del uer sacrum, la Primavera
Sacra: in una situazione difficile, i cittadini prendevano la decisione sacra
di allontanare dal territorio la nuova generazione, non appena fosse divenuta
adulta. Giunto il momento, Marte prendeva sotto la sua tutela i giovani
espulsi, che formavano solo una banda, e li proteggeva finché non avessero
fondato una nuova comunità sedentaria espellendo o sottomettendo altri
occupanti; accadeva talvolta che gli animali consacrati a Marte guidassero i
sacrani e divenissero loro eponimi: un lupo (hirpus) aveva guidato gli Irpini,
un picchio (picus) i Piceni, mentre i Mamertini derivavano il loro nome
direttamente da quello del dio. Sempre a Marte era dedicata la legio sacrata,
cioè la legione Sannita, detta anche linteata, poiché era bianca.[senza
fonte] Marte, nella società romana, assunse un ruolo molto più importante
della sua controparte greca (Ares), probabilmente perché considerato il padre
del popolo romano e di tutti gli Italici in generale: Marte, accoppiatosi con
la vestale Rea Silvia generò Romolo e Remo, che fondarono Roma.[6] Di
conseguenza Marte era considerato il padre del popolo romano e i romani si
chiamavano tra loro Figli di Marte. I suoi più importanti discendenti, oltre a
Romolo e Remo, furono Pico e Fauno. Marte comparve spesso sulla
monetazione romana, sia repubblicana che imperiale, con vari titoli: Marti
conservatori (protettore), Marti patri (padre), Mars ultor (vendicatore), Marti
pacifero (portatore di pace), Marti propugnatori (difensore), Mars victor (vincitore).
Il mese di marzo, il giorno di martedì, i nomi Marco, Marcello, Martino, il
pianeta Marte, il popolo dei Marsie il loro territorio Martia Antica (la
contemporanea Marsica) devono a lui il loro nome. Leggenda sulla nascita
di MarteModifica Secondo il mito, Giunone era invidiosa del fatto che Giove
avesse concepito da solo Minerva senza la sua partecipazione. Chiese quindi
aiuto a Flora che le indicò un fiore che cresceva nelle campagne in Etoliache
permetteva di concepire al solo contatto. Così diventò madre di Marte, che fece
allevare da Priapo, il quale gli insegnò l'arte della guerra. La leggenda è di
tradizione tarda come dimostra la discendenza di Minerva da Giove, che ricalca
il mito greco. Flora, al contrario, testimonia una tradizione più antica:
l'equivalente norreno Thor nasce dalla terra, Jǫrð e così le molte divinità
elleniche. NomiModifica Statua di Marte nudo in un affrescodi
Pompei. Marte era venerato con numerosi nomi dagli stessi latini, dagli
Etruschi e da altri popoli italici: Maris, nome Etrusco da cui deriva il
nome del Dio Romano;[4] Mars, nome Romano; Marmar; Marmor; Mamers, nome con cui
era venerato dai popoli italicidi stirpe osca[7]; Marpiter; Marspiter; Mavors.
EpitetiModifica Diuum deus: 'dio degli dei', nome con cui viene designato nel
Carmen Saliare. Gradivus: 'colui che va', con valore spesso di 'colui che va in
battaglia', ma può essere collegato anche al ver sacrum, quindi 'colui che
guida, che va'. Leucesios: epiteto del Carmen Saliare che significa 'lucente',
'dio della luce', questo epiteto può essere anche legato alla sua
caratteristica di dio del tuono e del lampo. Silvanus: in Catone, nel libro De
agri cultura, 83 Marte viene soprannominato Silvanus in riferimento ai suoi
aspetti legati alla natura e collegandolo con Fauno. Ultor: epiteto tardo, dato
da Augusto in onore della vendetta per i cesaricidi (da ultor, -oris:
vendicatore). RappresentazioniModifica Gli antichi monumenti rappresentano il
dio Marte in maniera piuttosto uniforme; quasi sempre Marte è raffigurato con
indosso l'elmo, la lancia o la spada e lo scudo, raramente con uno scettro
talvolta è ritratto nudo, altre volte con l'armatura e spesso ha un mantello
sulle spalle. A volte è rappresentato con la barba ma, nella maggior parte dei
casi, è sbarbato. È raffigurato a piedi o su un carro trainato da due cavalli
imbizzarriti, ma ha sempre un aspetto combattivo. Gli antichi Sabini lo
adoravano sotto l'effigie di una lancia chiamata "Quiris" da cui si
racconta derivi il nome del dio Quirino, spesso identificato con Romolo.
Bisogna dire che il nome Quirinus, come il nome Quirites, deriva da *co-uiria,
cioè assemblea del popolo e indicava il popolo in quanto corpus di cittadini,
da distinguere con Populus (dal verbo populari = devastare), che indica il popolo
in armi. Il ruolo di Marte a RomaModifica Venere e Marte, affresco
romano da Pompei, 1 secolo d. C. A Roma Marte era onorato in modo particolare.
A partire dal regno di Numa Pompilio, venne istituito un consiglio di
sacerdoti, scelti tra i patrizi, chiamati Salii, chiamati a vigilare su dodici
scudi sacri, gli Ancilia, di cui si dice che uno sia caduto dal cielo. Questi
sacerdoti erano riconoscibili dal resto del popolo per la loro tunica purpurea.
I sacerdoti Salii, in realtà erano un'istituzione ben più antica di Numa
Pompilio, risalivano addirittura al re-dio Fauno, che li creò in onore di
Marte, costituendo così i primi culti iniziatici latini. Nella capitale
dell'impero, vi era anche una fontana consacrata al dio Marte e venerata dai
cittadini. L'imperatore Nerone, una volta, si bagnò in quella fontana, gesto
che fu interpretato dal popolo come un sacrilegio e che gli alienò la simpatia
popolare. A partire da quel giorno, l'imperatore iniziò ad avere problemi di
salute, secondo la gente dovuta alla vendetta del dio. FestivitàModifica
Era venerato fastosamente in marzo, il primo mese dell'anno nel calendario
romano, che segnava la ripresa delle attività militari dopo l'inverno e che
portava il suo nome, con le feriae Martis, Equirria, agonium martiale,
Quinquatrus e tubilustrum. Altre cerimonie importanti avvenivano in febbraio e
in ottobre. Gli Equirria si tenevano il 27 febbraio e il 14 marzo. Erano
giorni sacri con significato religioso e militare; i romani vi mettevano molta
enfasi per sostenere l'esercito e rafforzare la morale pubblica. I sacerdoti
tenevano riti di purificazione dell'esercito. Si tenevano corse di cavalli nel
Campo Marzio. Le feriae Martis si tenevano dal 1º marzo al 24 marzo.
Durante le feriae Martis i dodici Salii Palatinipercorrevano la città in
processione, portando ciascuno un Ancile, uno dei dodici scudi sacri, e
fermandosi ogni notte ad una stazione diversa (mansio). Nel percorso i Salii
eseguivano una danza con un ritmo di tre tempi (tripudium) e cantavano l'antico
e misterioso Carmen Saliare. Il 19 marzo si teneva il Quinquatrus, durante il
quale gli scudi venivano ripuliti. Il 23 marzo si teneva il Tubilustrium,
dedicato alla purificazione delle trombe usate dai Saliie alla preparazione
delle armi dopo la pausa invernale. Il 24 marzo gli ancilia venivano riposti
nel sacrario della Regia. L'October Equus si teneva alle idi di ottobre
(15 ottobre). Si svolgeva una corsa di bighe e veniva sacrificato a Marte il
cavallo di destra del trio vincente tramite un colpo di lancia del Flamine
marziale. La coda veniva tagliata e il suo sangue sparso nel cortile della
Regia. C'era una battaglia tradizionale tra gli abitanti della Suburra che
volevano la coda per portarla alla Turris Mamilia e quelli della Via Sacra che
la volevano per la Regia. Il 19 ottobre si teneva l'Armilustrium,
dedicato alla purificazione delle armi e alla loro conservazione per
l'inverno. Ogni cinque anni si tenevano in Campo Marzio le Suovetaurilia,
dove davanti all'altare di Marte (Ara Martis) il censo veniva accompagnato da
un rito di purificazione tramite il sacrificio di un bue, un maiale e una
pecora. Luoghi di cultoModifica Marte e Venere, copia settecentesca
da I Modi di Marcantonio Raimondi Tra le popolazioni italiche, si sa di un antico
tempio dedicato al dio Marte a Suna,[8] antica città degli Aborigeni, e di un
oracolo del dio, nella città aborigena di Tiora.[9] Animali e oggetti
sacriModifica Lupo: si ricorda il nipote Fauno, il lupo per eccellenza è la
lupa che ha allattato Romolo e Remo[6] Picchio: il picchio è l'uccello del
tuono e della pioggia oracolare, ha nutrito Romolo e Remo insieme alla lupa
Cavallo: simbolo della guerra (si ricorda Nettuno e gli Equirria) Toro: altro
animale molto importante per il ver sacrum e per tutti i popoli italici Hastae
Martiae: sono le lance di Marte che si scuotevano in caso di gravi pericoli,
tenute nel sacrario della Regia Lapis manalis: la pietra della pioggia, in
quanto dio della pioggia OfferteModifica A Marte si offrivano come vittime
sacrificali vari tipi di animali: dei tori, dei maiali, delle pecore e, più
raramente, cavalli, galli, lupi e picchi verdi, molti dei quali gli erano
consacrati. Le matrone romane gli sacrificavano un gallo il primo giorno del
mese a lui dedicato che, fino al tempo di Gaio Giulio Cesare, era anche il
primo dell'anno. Identificazioni con dei celticiModifica Mars Alator:
Fusione con il dio celtico Alator Mars Albiorix, Mars Caturix o Mars Teutates:
Fusione con il dio celtico Toutatis Mars Barrex: Fusione con il dio celtico Barrex,
di cui si ha notizia solo da un'iscrizione a Carlisle Mars Belatucadrus:
Fusione con il dio celtico Belatu-Cadros. Questo epiteto è stato trovato in
cinque iscrizioni nell'area del Vallo di Adriano Mars Braciaca: Fusione con il
dio celtico Braciaca, trovato in un'iscrizione a Bakewell Mars Camulos: Fusione
con il dio della guerra celtico Camulo Mars Capriociegus: Fusione con il dio
celtico gallaico Capriociegus, trovato in due iscrizioni a Pontevedra Mars
Cocidius: Fusione con il dio celtico Cocidio Mars Condatis: Fusione con il dio
celtico Condatis Mars Lenus: Fusione con il dio celtico Leno Mars Loucetius:
Fusione con il dio celtico Leucezio Mars Mullo: Fusione con il dio celtico
Mullo Mars Nodens: Fusione con il dio celtico Nodens Mars Ocelus: Fusione con
il dio celtico Ocelus Mars Olloudius: Fusione con il dio celtico Olloudio Mars
Segomo: Fusione con il dio celtico Segomo Mars Visucius: Fusione con il dio
celtico Visucio Marte nell'arteModifica PitturaModifica Marte, di Diego
Velázquez (1640) Marte che spoglia Venere con amorino e cane, di Paolo Veronese
Marte e Venere sorpresi da Vulcano, di François Boucher (1754) Minerva protegge
la Pace da Marte, di Pieter Paul Rubens (1629-1630) Venere e Marte, di Sandro
Botticelli NoteModifica ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ MARTE su Treccani,
enciclopedia ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ a b Pallotino, pp. 29, 30;
Hendrik Wagenvoort, "The Origin of the Ludi Saeculares," in Studies
in Roman Literature, Culture and Religion (Brill, 1956), p. 219 et passim; John
F. Hall III, "The Saeculum Novum of Augustus and its Etruscan
Antecedents," Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.3 (1986),
p. 2574. ^ MARTE su Treccani, enciclopedia ^ a b Strabone, Geografia, V 3.2. ^
Nota sul dio Mamerte (o Mamers), in Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane, I 14.3. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, I 14.5.
BibliografiaModifica Andrea Carandini, La nascita di Roma, Torino, Einaudi. (L'archeologo
Andrea Carandini dà la definitiva rivalutazione del dio Marte). Renato Del
Ponte, Dei e miti italici, Genova, ECIG, Dumézil, La religione romana arcaica,
Milano, Rizzoli, Libro del grande storico delle religioni, che per primo
rivalutò Marte da feroce dio emulo di Ares a divinità più originale e
importante). James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Milano, Adelphi,
Un libro che dimostra come questo dio sia presente nelle guerre contemporanee).
Jacqueline Champeux, La religione dei romani, Bologna, Il Mulino, Ares Divinità
della guerra Flamine marziale Fauno Marte (astronomia) Mamerte Pico (mitologia)
Hachiman Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons
contiene immagini o altri file su Marte Collegamenti esterniModifica Fano di
Marmar [collegamento interrotto], su latinae.altervista.org. Portale Antica
Roma Portale Mitologia Salii collegio sacerdotale romano per il
culto di Marte Mamuralia festività Triade arcaica Wikipedia Il
contenuto Umberto Curi. Keywords: passione, have, habere, habitus,
comportamentismo, behaviourism. La brama dell’avere, anticonformismo, guerra e
pace – Eirene – cosmologia anthropologia – l’orto di Zenone – lo scudo
d’Achille – I figli di Marte -- il
mantello e la scarpa libido -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Curi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Cusani: l’implicatura
conversazionale del primo hegelista – lo stato italiano -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Solopaca). Filosofo italiano. Grice: “I love Cusani;
for one, I was born at Harborne, but nobody cares; Cuasani was born in
Solopaca, and there’s a ‘corso Cusani’, and a ‘Biblioteca Cusani’.” Grice:
“Cusani would have been friend with Bosanquet; both are Hegelians – Italians,
after SOME Germans, were the first to endorse the philosophy of the absolute
spirit inmanent to dialectic – Cusani does attempt to respond to a criticism on
the ‘assoluto’ brought up by Hamilton (of all people), and consdtantly refers
to the ‘metafisica dell’assoluto’ – a ‘progetto,’ he humply titles it!” Figlio
di Filippo e Caterina Cardillo, nacque al capoluogo distrettuale e di
comprensorio del Regno delle Due Sicilie. Membro dei Pontaniani. Frequenta il
circolo del marchese Basilio Puoti, insieme a Sanctis e Gatti. Punto di partenza della sua filosofia, comune
a buona parte del circolo del’hegelismo di stanza a Napoli, dei quali e un
esponente, fu Cousin, il fondatore della “storiografia filosofica”. Insegna a
Montecassino, e al collegio Tulliano di Arpino, dove fu affiancato da Spaventa,
chiamato poi a sostituirlo. Si stabilisce a Napoli nel proprio studio privato.
I saggi di Cusani furono pubblicati su “Il progresso delle scienze, delle lettere
e delle arti” e “Museo di filosofia”. La seconda fu da lui stesso fondata. Molti
dei saggi di filosofia più impegnati furono pubblicati in L’Antologia, di
Firenze. Scrisse inoltre note e recensioni nel periodico l'Omnibus e nella
Rivista napolitana. Molte delle sue
opere sono archiviate presso la Biblioteca "Stefano Cusani" di
Solopaca. Idealista hegeliano ed
esponente dell’ecletticismo filosofico di Cousin. Opere: “Della fenomenologia,
il fatto di coscienza intersoggetiva”; “Del metodo filosofico”; “Storia dei
sistemi filosofici”; “Della materia della filosofia e del solo procedimento a
poterlo raggiungere”; “Il romanzo filosofico”; “La poesia drammatica”; “L’assoluto
– l’obbjezione d’Hamilton”; “Logica immanente e logica trascendentale”;
“Compendio di storia di filosofia”; “Della lirica considerata nel suo
svolgimento storico e del suo predominio sugli' altri generi di poesia”; “Economia
politica e sua relazione colla morale”; “L’essere e gli esseri: disegno di una
metafisica”; “Percezione dell’esistenza”. Nel comune di Solapaca è stato
indetto nel un anno di celebrazione in
occasione del centenario della nascita nel comune di Solopaca. Il corso Stefano
Cusani gli è stato intitolato a Solopaca. Sanctis lo cita nella autobiografia.
Cusani dato alla stessa filosofia, ha maggiore ingegno del superbissimo Gatti,
ed e mitissima natura d'uomo. Sale al tavolo degli oratori con tale fervore
dialettico che a tutta la persona grondava onorato sudore» (G. Giucci, Degli
scienziati italiani formanti parte del VII congresso in Napoli nell'autunno del
1845: notizie biografiche, Napoli. L'amico coetaneo Cesare Correnti, patriota
milanese legato ai circoli Napoli, insegnante nella Scuola di lingua italiana
da lui fondata, gli dedicò un necrologio. Ecco un altro amico, un'altra fiorita
speranza di questa nostra Napoli sparire a un tratto a noi d'intorno. Ben dissi
a un tratto, poiché la sua non lunga malattia parve un momento agli amici. La
filosofia specialmente nol sedussero, in modo che a più severi studi non
volgesse l'acuto e fervidissimo spirito, e a bella armonìa si composero
nell'anima sua. Rivista europea», ripr. in Scritti scelti, T. Massarani, Forzani,
Roma). «Rivista europea», ripubblicato in Scritti scelti, T. Massarani,
Forzani, Roma, Dizionario biobibliografico del Sannio, Napoli, "Il Progresso",
"Il Lucifero","Omnibus"; "Rivista napolitana", Sanctis,
La letteratura ital. nel sec. XIX, II, La scuola liberale e la scuola
democratica N. Cortese, Napoli; G. Oldrini, Gli hegeliani di Napoli. A. Vera e
la corrente "ortodossa" (Milano); F. Zerella, Filosofia italiana meridionale”;
“Dall'eclettismo all'hegelismo in Italia”. Cusani e la filosofia italiana:
Vico, Galluppi, Mamiami, Colecchi, Rosmini. Nasceva
in Solopaca, una volta Distretto di Caserta, oggi Circondario di Cerreto
Sannite (Benevento) il 23 dicembre 1816, Stefano Cusani da Filippo e Caterina
Cardillo. Suo padre, insigne avvocato, fu sollecito della educazione di questo
come di altri quattro suoi figliuoli, che, affidati alle cure di un suo
fratello germano a nome Matteo, sacerdote, mandolli in tenera età a
imcominciare e compiere i loro studî in Napoli. Ivi Stefano, ch'era il
secondogenito di cinque fratelli, frequentava i più rinomati Istituti privati
di quel tempo (che allora l'insegnamento pubblico esisteva sol di nome),
si distingueva fra gli altri condiscepoli in ognuno di questi, così che in
breve, compiuti gli studi letterarî fu giocoforza mettersi a studiare le
scienze della facoltà che doveva seguire. Fu questo il solo brutto periodo di
sua vita. Suo padre voleva fare di lui un Avvocato civile, come suol dirsi, e
quindi fu obbligato a studiare leggi e pandette, per le quali discipline non si
sentiva la benchè minima inclinazione, anzi, a dir vero, sentiva per esse la
più marcata avversiono; ma buon figlio e docile essendo, per non dispiacere al
padre, che tanti sacrifizî avea fatti e faceva per lui, come per gli altri
fratelli, a malincuore sempre, ma sempre tacendo, giunse fino ad esser
Avvocato, ed a fare la pratica presso uno de'luminari del Foro Napoletano. Da
questo momento incomincia il suo grande sviluppo intellettuale. Non potendone
più, la rompe col padre, dicendosi avverso ai processi, ed allo studio di essi,
e ad ogni altro artifizio da causidico. La rompe con quella pratica noiosa, che
tralascia ed abbandona; ed ottiene dal padre stesso, che ragionevole e savio
uomo era, di poter attendere a quegli studi che più alla sua indole si
affacevano. Fioriva in quel tempo, a Napoli, la scuola del Marchese Basilio
Puoti, ed egli, incontratosi con Stanislao Gatti che fu poi indivisibile amico
e compagno, vi si getto a capofitto, e fu in poco tempo il più caro e pregiato
discepolo del Marchese, come l'amico e compagno del De Sanctis, del Mirabelli,
e di tutta quella pleiade che in quel tempo arricchirono Napoli di filosofi
insigni. Ma a quell'ingegno che s'andava ogni giorno più sviluppando e
fortificando di sani e severi studî, parve angusto oramai quest'orizzonte, o
volse l'ala, e la di instese con intensità ed ardore allo studio della
filosofia. Ben cinque anni decorsero di volontaria prigionia nel suo
studiolo, ovo ridottosi, o giorno e notte indefessa mente attendeva a'
prediletti studî, e si beava di leggere Platone nel testo, chè familiare la
lingua gli era; come pure si fece a studiare la lingua alemanna per
mettersi al corrente dei progressi della filosofia, e per meditare e studiare
le dottrine e teorie dell'Hegel, ultimo filosofo tedesco di quella epoca.
Uscito dopo questa epoca a nuova vita incominciò a scrivere sul Progresso, una
Rivista di scienze e letteratura, diretta dal Baldacchini, articoli su
questioni filosofiche; e, dopo un anno, era già conosciuto in tutta la Napoli
pensante. In questo torno di tempo si apri un concorso per la Cattedra di filosofia
e matematica, nel Collegio Tulliano di Arpino, e lui fu prescelto per titoli ad
occuparla. Vi andò e vi trovò il suo amico Emmanuele Rocco, che v'insegnava
letteratura. Vi stette un anno e vedendosi in una cerchia troppo angusta alla
sua attività, si dimise, e fece ritorno in Napoli, conducendo con sè anche
l'amico Rocco. Quivi apri studio privato unitamente al Gatti di filosofia, e
dal bel principio quello studio fioriva per numerosa gioventù, che accorreva a
udire le sue lezioni. In breve fu lo studio più affollato di Napoli. Le ore che
aveva libere dallo insegnamento le occupava a scrivere articoli di filosofia
che si pubblicavano sulle Riviste Napoletane di quel tempo, il Progresso che
usciva in fascicoli voluminosi, la Rivista Napoletana di Scienze, Lettere ed
Arti, il Museo di Scienza e Letteratura, ove collaboravano per la lor parte
Antonio Tari, Francesco Trinchera, ed altri; e sul Progresso il Colecchi
ed altri. Non andò guari e s'incontrò col Mamiani in quistioni di alta
Metafisica, o ne usci onorato dell'amicizia e della riverenza dell'insigno
filosofo. Il suo intelletto altamente speculativo destava ammirazione perchè si
elevava ad altezze tali filosofiche che non gli si potevano
contrastare. In quel tempo si agitò una polemica tra V. Cousin, filosofo
francese, ed un insigne filosofo inglese, il cui nome ora non mi sovviene; dopo
varî articoli scambiatisi parea che l'inglese avesse preso il di sopra, ed il
Cousin, che lui credeva più dell'altro stare nel vero, avesse dovuto soccomberé.
Allora senza frapporre tempo in mezzo egli entrò terzo nella quistione e
scrisse epubblico una serie di articoli che costrinse l'inglese a desistere
dalla polemica, ed il Cousin a scrivergli una lettera di ringraziamenti e di
felicitazioni, e con la quale lo chiamava, e si firmava suo cugino. Si
radunava il Congresso dei Filosofi in Napoli nell'ottobre del 1845, o lui ne
dovea far parte; ma non sapendosi se il Borbone lo avesse permesso, o meno,
erasi ridotto in patria a villeggiare con la moglie e due piccini, l'uno
lattante e l'altro di due anni. Il Congresso fu permesso, i filosofi si
riunirono in Napoli, e lui fu invitato espressamente a farvi ritorno; che anzi
il Presidente della Sezione “Filosofia speculativa” a cui egli apparteneva, non
volle aprire la sessione s'egli non fosse arrivato. Cosi corse in Napoli solo,
lasciando in patria la famiglia, che poi sarebbe andato a rilevare, dopo finito
e sciolto il Congresso. Fu questa la causa della sua morte! Arrivato in Napoli
vede gli amici - con essi si intrattiene passeggiando -- suda; è l'ora già che
s'apre la Sessione -- essi ve lo accompagnano a piedi per goderselo di più --
vi si arriva. Egli era sudatissimo -- entra e n'esce dopo quattro lunghe ore di
discussione; quel sudore lo avea già colpito a morte. Si riduce a casa, si
ricambia le mutande - la camicia era troppo tardi! Incomincia dopo poco
tempo una tosse secca, stizzosa, ch'egli non cura, perchè forte e robusto era;
e questo fu il peggiore dei divisamenti. Ritorna in patria per ripigliare la
famiglia e ridursi in Napoli, poiché si era alla vigilia del novembre. Si
riapre lo studio, si riprendono le lezioni; il maggior numero degli alunni
affluito gli rinfocola l'ardore, ch'ei metteva in esse, e parla dalla cattedra
per lunghe ore, e poi agli alunni più provetti che gli propongono dubbi o
problemi a risolvere, parla pure ad alta voce, e quella tosse insidiosa non lo
lascia, anzi invida della sua noncuranza lo avverte spesso del suo malefico
potere, interrompendogli il discorso, e forzandolo per poco a tacere. Le cose
durarono ancora così per altri 10, o 12 giorni, e finalmente la emottisi tenne
dietro a quella tosse funesta, e fu giuocoforza sottomettersi a quanto l'arte
salutare poteva e sapeva consigliare, ma invano tutto! Chè una tisi florida si
svolse, ed in meno di due mesi si spense la robusta complessione di S. Cusani!
Tale fu quest'uomo, che a 30 anni la morte rapiva a'suoi, alla scienza, alla
patria. Nato a 23 dicembre 1816, moriva a 2 gennaio 1816. Dissi rapito alla
patria, e giustamente, poichè egli da giovanissimo appartenne alla Giovine
Italia, e in Napoli fu sempre il più ardente fra i patrioti. Egli con altri
preparò e cooperò con ardore al movimento del '18 che poi non potė vedere! La
sua casa era il convegno di Carlo Poerio, L. Settembrini, S. Spaventa, P.
Mancini, e di tutti gli altri illustri compromessi politici di quel tempo, con
i quali si congiurava, si faceva propaganda, e si organizzava la
rivoluzione. Fu cosi caro a questi tutti che se un giorno solo nol vedeano, si
tenea por certo la visita loro in sua casa; ed il Poerio, addoloratissimo della
sua malattia, volle ed ottenne che fosse stato medicato, curato ed assistito
infino all'ultimo istante di sua vita dal fido o dotto medico Alessandro Lo
Piccolo. L'esequie furono imponenti pel concorso di amici,
che formavano tutte le notabilità scientifiche, patriottiche e
letterarie. Il lutto per la sua perdita fu sentito generalmente per Napoli, che
in lui salutava la giovine scienza, e che per lui si metteva a paro di altre
città d'Italia, che fiorivano per altissimi ingegni ed insigni filosofi, come
il Mamiani, il Rosmini, il Gioberti, ed altri, se quella vita non si fosse
spenta nel mezzo del cammino! La cura della filosofia di Cusani
d’Ottonello ha il merito di riproporre all’attenzione una figura di rilievo
della cultura filosofica napoletana dell'Ottocento. Benché scomparso in
giovanissima età, nel gennaio 1846 (eranato nel dicembre del 1815, o forse del
1816, come i piú sostengono), Cusani lascia di sé traccia profonda, testimoniata
dalla considerazione in cui e tenuto, per tacer d’altri, da Sanctis, o dalla
valutazione che di lui dette Gentile. Con Gatti ed altri può essere inserito -
come nota il curatore nella nitida e puntuale introduzione nell'ambito
dell'hegelismo napoletano, oltrecché in quello piú generale dell'eclettismo
alla Cicerone. Opportunamente si avverte però che Hegel costituisce per Cusani
un potente polo d'attrazione, ma non il filosofo fondamentale. In realtà si può
forse con fondamento aggiungere, pur senza ricorrere ad una indagine falsamente
sottile, che resta in ombra, nellepur autorevoli e acute analisi dedicate alle
ascendenze cousiniane ed hegeliane di Cusani, un filosofo fondamentale che
sicuramente ispira la filosofia piú significativa di Cusani: Vico. La
costruzione del sistema eclettico cui Cusani dichiara di dedicarsi segna una
fase già tarda dell'eclettismo napoletano e giungeva al termine di un decennio
assai ricco di suggestioni in questa direzione negli ambienti culturali
napoletani. È sicuramente da condividere l'affermazione del curatore secondo il
quale il sincretismo avvertibile in Cusani non impedisce però l'emergere di un
nucleo speculativo che deborda dalla semplice trama delle affermazioni altrui.
In questo senso il problema del metodo filosofico e il connesso problema della
storia italiana segnano sin dall’inizio lo sforzo speculativo di Cusani, la cui
originalità trova subito sulla sua strada Vico. Collaboratore della Temi
napoletana, dell'Omnibus letterario, scrive prevalentemente sul “Progresso.”
Sin dalprimo scritto, Filosofia in Italia, il tema della storia italiana appare
questione teorica centrale. Non a caso una ricerca storica da l'occasione a
Cusani di porre il problema che gli sta acuore, sin dalla citazione tratta da
Guizot che apre la nota. I fatti sonomeme affermazioni al problema della storia
trova subito sumanibus letterario ma are i grandiuti al fatto che risguardato,
en per il pensiero, ciò che le regole della morale sono per la volontà. Egli è
tenuto di conoscerli, e di portarne il peso, ed è solo allorché ha sodisfatto a
questo dovere, e ne ha misurato e percorso tutta l’estensione, che gliè
permesso di montare verso i risultamenti razional. Il rinnovato interesseper la
storia italiana che si registra-- che né l'Antichità, né i tempi di poco
anteriori a questi che viviamo avevano mai risguardato -- non sembrano a Cusani
casuali, ma dovuti al fatto che l'intendimento si rivolge a indagare i grandi
ordini di fenomeni per scoprire e prendere inconsiderazione i fatti e le ragioni,
una storia ed una filosofia. Il bisogno di comprendere e giudicare il fatto,
piuttosto che esserne solo spettatore (e dunque di verificare una diversa
attitudine della storia italiana), esalta questa parte immortale della Storia,
cioè il conoscere il legamento fatalista della causa e dell’effetto, le
ragioni, i fatti generali, le idee da ultimo ch'essi celano sotto il manto
della loro esteriorità. Onde ch’egli è d'uopo sceverar con chiarezza e con
precisione la differenza di queste due parti della storia italiana che sono per
cosí dire il corpo e l'anima, la parte materiale, e la parte spirituale di
tutti gli avvenimenti esterni e visibili, che compongono la nazione italiana,
secondo che dice Vico. Il rifiuto, che Cusani trae dalla lezione vichiana, di
affidarsi a pre-mature generalità, e con formole metafisiche per soddisfare il
mero bisogno intellettivo, è una traccia decisiva per comprendere il suo
pensiero. L'annotazione di Gentile, secondo il quale l'osservazione storica non
è piú l'integrazione della psicologia, bensí la costruzione stessa della
filosofia, può commentare l'intero itinerario filosofico di Cusani, che si
consuma nell'arco di pochissimi anni. Il discorso sul metodo che Cusani compie
si basas in dall'inizio su una acquisizione precisa: un sistema o una filosofia
consistono nel loro stesso metodo. Nel primo saggio veramente organico (Del
metodo filosofico e d'una sua storia infino agli ultimi sistemi di filosofia
che sono si veduri uscir fuori in Germania – Hegel -- e in Francia -- Cousin)
Cusani parla addirittura di un metodo generale, il quale presiede
all'investigazione dell'unica e universal verità. La filosofia è dunque la
regina scientiarum che consente di ricondurre ad “unità” il sapere, e a tal
pro-posito l'assimilazione dei termini è dichiarata apertamente, a proposito
dell’analisi psicologica, la quale segna il punto di partenza della
riflessione, ed è la base unica dell'immenso edificio filosofico, il solo
solido fondamento, il suo atrio e il suo vestibolo. E nel saggio, “Del reale obbietto
di ogni filosofia” (Il Progresso) ribadisce e chiarisce che lo studio de’ fatti
della natura umana, o de’ fenomeni psicologici, vuoto del tutto riuscirebbe, se
invece di tenerlo come base d'ogni ulteriore investigazione, si volesse
considerare come il termine stesso della filosofia. Il secolo decimottavo si è
trovato dunque di fronte al centrale problema del metodo filosofico. Se è vero
che nella storia italiana è tutta quanta la filosofia italiana, occorre
riconoscere il merito insuperabile di quella mente divinatrice e profonda che
avea posta nel mondo la nazione italiana. Vico, definito – nella nota sul Nuovo
Dizionario de sinonimi della lingua italiana di Niccolò Tommaseo,
quell'altissimo lume d'Italia, con una locuzione che introduce un discorso,
ingiustamente trascurato, sulla tradizione filosofica meridionale, piú volte
ripreso dal Cusani. Lo studio di Vico qui esaminato è appunto il “De
antiquissima Italorum sapientia”; nel quale potentemente convinto della
relazione che stà tra il pensiero (l’animus, il segnato) e la parola (il
segno), fecesi ad investigar quello degli antichi romani e italici nostri
maggiori, cavandolo per avventura da quella lingua italiana ch'era nelle bocche
volgari degli uomini. Il rapporto tra spontaneità e riflessione, che tanta
parte ha in Cusani, è dunque introdotto sotto il segno di Vico. Si ponga mente
alle affermazioni che seguono il passo già citato, allorché Cusani insiste sul
fattoche veramente il Vico porta opinione che tutto l'antico (antichissimo)
pensiero o sapienza italiana era in quella lingua italiana ch'egli disamina, e
dalla quale intende rimetterlo in luce, e che se la lingua italiana non e opera
di un filosofo, ma sibbene il prodotto spontaneo delle facoltà nell'uomo
italiano, se innanzi che venissero adoperate nella costruzione e nel
concepimento del sistema di un filosofo, di cui pur e il necessario strumento
espressivo e communicativo, esisteva nella massa de’ popolo italiano. Insomma,
quella che è stata chiamata la svolta hegeliana del Cusani, va valutata alla
luce di una ispirazione legittimamente riferibile a Vico. Si veda il Saggio su
la realtà della humanitas di Vincenzo De Grazia (Il Progresso), già sul crinale
della svolta hegeliana. L'epigrafe di Cousin posta all'inizio ritorna sul
problema che sta a cuore a Cusani, e che ne determina l'originale ricerca. Ci
ha due spezie di filosofie. La prima spezie di filosofia studia il fatto, lo
disamina, e lo descrive, riordinandoli secondo le loro differenze o
somiglianze, e potrebbesi però denominare filosofia “elementare” o immanente.
L’altra spezie di filosofia comincia ove si ferma la prima, investigando la
*natura* de’ fatti, e intendendo di penetrare la loro ragione, la loro origine,
il lor fine, e potrebbesi denominare filosofia trascendente, o filosofia prima.
La citazione dai Frammenti filosofici serve in realtà a Cusani pergiungere alla
fondamentale affermazione secondo cui, esaurita nel secolo precedente la
filosofia elementare, e necessario che si cominciasse asentire il bisogno di
nuovi problemi, e che l'ontologia ricomparisse nel dominio della speculazione
filosofica. Insomma la disamina del fatto immanente elementare (il segno) deve
servire a rintracciarne la natura, le origini, le relazioni, che è il vero fine
supremo della filosofia prima. Ma questo è possibile (e l'eclettismo di Cusani
si dimostra non mero sincretismo, ma sapiente innesto di elementi concorrenti a
rafforzare le personali ipotesi speculative) soprattutto all’italiano, chi può
vantare una tradizione filosofica ininterrotta che ha in Vico il suo vate
supremo. Il bisogno dell’ontologia ha ulteriori ragioni in Italia, dove la
filosofia trova terreno fecondo emotivo di continuità. Ed è la tradizione
ontologica de’ filosofi italiani, e il predominio costante della filosofia
prima o trascendente in Italia sulla elementare o immanente, non solo in tempi
che era cagione universale nel mondo della scienza, ma eziandio allorché
fortemente altrove ponevasi la base d'ogni filosofia ed all'apo genere a nostri
e quell'indole elementare, e molto studiavasi in essa. Di qui nacque
quell'indole speculativa che si è sempre accordata in genere al filosofo
italiano, anche quando discendevano alla pratica ed all'applicazione de’
principi. É di vero se si pon mente alla Storia, e si consideri che dalla
scuola italica di Crotone o da Pittagora suo fondatore, passando per i filosofi
di Velia (Senone), arrivando fino all’apparizione di quella meraviglia del
Vico, si troverà che la verità da noi accennata apparisce luminosa e in tutta
la sua pienezza. Dunque continuità della tradizione, rivendicazione della
propria originalità speculativa, e soprattutto applicazione esemplare del
metodo storico come proprio della storia della filosofia. Già affrontando il
problema della fenomenologia semiotica, Cusani non manca di annotare, con una
affermazione che resta sostanzialmente immutata nella sua produzione, a riprova
del vichismo naturale della sua ispirazione, che l’italiano è cosí fortemente
incluso intutta la morale che ne forma il subbietto perenne, e non si può farne
astrazione senza far crollare tutto l'edificato da quelle. Del resto nel saggio
Del reale obbietto d'ogni filosofia, posto sotto il segno di Vico – la cui “De
constantia Philosophiae” fornisce l’epigrafe, Cusani ha chiarito che la umana
intelligenza, di cui si ricerca e scopre una storia naturale, una volta
esaurita l’investigazione della natura, ripiega progressivamente verso il
subbietto stesso di quelle investigazioni, e rientrando dall'esterno
nell'interno, fa se stessa obbietto della sua conoscenza. La morale nasconode
questo percorso, allorché il filosofo ritorna sopra se stesso dopo indagare il
mondo esterno. La svolta hegeliana può a questo punto arrivare, ma a sua volta
innestandosi su questa ricerca di una legge onde si regge il mondo. Il dilemma
su un oggetto immutabile della conoscenza, e della mutabilità al tempo stesso
del fatto che il pensiero trascendente va indagando, diventatra la questione
centrale. Spesso Cusani torna nella sua opera, che riesce difficile in questa
sede indagare in dettaglio, sulle permanenze della storia italiana e sulle
variazioni. Nel Saggio analitico sul diritto e sulla scienza ed istruzione
politico-legale d’Albini, significativamente impostato il tema, e sempre
ricorrendo a Vico. In Italia fu primo tra tutti Vico che intende ala ricerca
d'un principio universale ed immutabile del diritto e che questo ponesse nella
ragione, unica fonte dell'assoluta giustizia, distinguendo esattamente il
diritto universale, o filosofico, dal diritto storico. Anzi, la debolezza della
cultura filosofica italiana può essere addebitata al mancato studio di Vico il
cui esempio non frutto gran bene, ch'io mi sappia all'Italia,non essendo le sue
teorie accettate da'suoi contemporanei, perché forse troppo superiori
all'intelligenza comune, fino al punto che l’italiano perde, com'a dire, la sua
particolare fisionomia, rivestendo un'indole forestiera – come i fanatici di
Hegel con la sua lingua foresteriera! -- Se non che questo che al presente
diciamo fu molto piú pronunciato in Beccaria e Verri non furono che
perfettissimi seguitatori dell'Helvelvinitius e del Rousseau, quanto
all'ipotesi del Contratto sociale, che in il vichismo dunque, se accolto,
avrebbe garantito la continuità e originalità della filosofia italiana. Infatti
la cultura napoletana da in questo senso testimonianza della continuità
speculativa della filosofia proprio attraverso la tradizione vichiana.
Filangieri, ma soprattutto Pagano, ritennero l'elemento tradizionale italiano,
che li riannodava a tutta l'erudizione. Anche quando nel Museo di letteratura e
filosofia soprattutto, e la Rivista napoletana, piú evidente si coglie la
lettura di Hegel, Cusani testimonia la persistenza sicura della lezione
vichiana. Senza rotture, ma sviluppando le tematiche e gli interessi, nel saggio
Della lirica considerata nel suo svolgimento storico, ove – come ha notato
Oldrinisi incontra un esplicito richiamo alle lezioni hegeliane di filosofia
della storia, Cusani riprende con vigore la questione fondamentale. Ora poiché
l'uomo è il subbietto storico per eccellenza a volere istabilire lal egge che
governa tutte le accidentalità variabili delle vicende umane, la filosofia non
puo che cercarla nelle modificazioni della stessa umanita. Questo punto di
partenza, che il Vico, per il primo, prescrisse alla filosofia della storia,
facendo che le sue ricerche rientrassero nella coscienza psicologica
dell’italiano, e si cercasse di spiegar questo per mezzo della sua propria
natura, ma eziandio tutti i fatti di cui egli è causa, ingenera tanto vantaggio,
che da un lato tolse la specie umana dall'esser considerata come mezzo da
servire ad altri fini, e dall'altro la rialza sopra la natura, di cui vuole
sene fare prodotto o artificio. In che misura l'hegelismo, rintracciabile nella
preoccupazione di garantire l'unità del sistema attraverso l'unità della
filosofia, deve tener con toda un lato della matrice vichiana del pensiero di
Cusani e dall'altro dello sforzo di costruire l'edificio eclettico della
filosofia in modo originale? Andrebbe qui indagato, con cura e minuziosità che
questa sede non consente, il tema del senso comune in piú luoghi richiamato da
Cusani. Sipensi al saggio apparso sul « Museo », Idea d'una storia compendiata
della filosofia, proprio dove il tema della filosofia assume intonazioni sicuramente
hegeliane. Purtuttavia, sebbene l'uomo sia conscio nell'intimo della sua
coscienza della sua libertà, e riconosca in sé stesso il potere di cominciare
una serie di atti, di cui egli è causa; ciò nondimeno non può non iscorgere
eziandio, che la sua volontà è posta sotto il dominio e la soggezione d'una
legge, che diversamente vien denominata secondo che diverse sono le occasioni,
alle quali essa si applica, contrassegnandosi ora come legge morale, ora come
ragione, ed ora comesenso comune. L'indipendenza speculativa che Cusani
manifesta nel rimeditare tutti i contributi all'interno della sua riflessione è
evidente, e su questo tema operante nei confronti dello stesso Vico. Esaminando
la questione del fatalism e della libertà (giustamente si ricorda come sia
questa la questione piú importante che si possa scontrare nella filosofia della
storia, dai primi agli ultimi scritti presente inche di sua volone causar in
Cusani), nell'Idea d'una storia compendiata della filosofia, Cusani ha qualcosa
da rimproverare a Vico stesso, da altri peraltro erroneamente collocate tra gli
storici fatalisti -- cosí Livio si distingue da Machiavello e da Vico; e
sebbene Livio da maggiore influenza alla parte passiva e fatale dell’italiano
nella storia; ciò nondimeno non si è data che ai secondi, a cominciar da
Machiavello, la nota del storico fatalista. Se è vero infatti che Vico cerca
nell'italiano il principio e la legge dello svolgimento dell'umanità, egli ebbe
però il torto di essere esclusivo, in quanto non ha riconosciuto l'influenza
della natura italiana sull'italiano. Si annota come a Cusani fin dai primi
studi si affacci il dilemma tra pensiero come condizione e pensiero come
condizionato: se una legge governa lo svolgimento dell'intelligenza, la storia
è da intendersi fatalisticamente costretta entro i termini di una legge fissa
del pensiero? Del resto in un saggio nel Progresso (e non compresa nei due
volumi degli Scritti, forse perché firmata — come del resto altre note raccolte
da Ottonello — con la sola sigla S. C.), Elementi di Fisica sperimentale e di
meteorologia di M. Pouillet, Cusani ritorna sul metodo delle scienze e sulla
accostabilità tra scienze morali e scienze fisiche. Dappoiché la scienza della
natura e sottoposta nella sua ricerca a metodi certi e sicuri, e l'umana
intelligenza punto da quelli non dipartendosi, seguitò attesamente le sue
investigazioni, i progressi rapidi e continuati succedettero ai lenti e quasi
invisibili dell'antichità. Il successo di queste scienze — come di ogni scienza
— è nel metodo, cosi che da meglio che tre secoli lo spirito umano procede, in
questa special branca delle sue conoscenze con tanta fidanza, e direi quasi,
contanta certezza de' suoi risultamenti, che nissun'altra scienza per
avventurapuò con questa venire al paragone. Si badi, le scienze fisiche non
costituiscono altro che una special branca delle conoscenze dello spirito
umano. Dunque occorre applicare anche alle altre branche metodi certie sicuri,
come è possibile dal momento che la storia universale dell'Umanità, che pone la
Storia al centro dell'investigazione, racchiude,com'a dire, in un corpo tutto
lo svolgimento intellettivo della spezie. Ecco perché nel saggio Della lirica,
a proposito della legge della evoluzione ideale dell'umanità nel progresso
storico, Cusani nota che questo è di proprio particolar dominio di quella
scienza, che sorta gigante in Italia per opera di quella maraviglia del Vico,
costituisce ora il centro intorno a cui si svolgono tutti gli sforzi del
secolo. Simili le espressioni usate nella recensione agli Elementi di Fisica
sperimentale, allorché della storia universale dell'Umanità nota che forma a
questi nostri tempi il punto di mezzo, intorno di cui si volge e gravita tutto
il processo del lavori del secolo. Il ricco saggio “Idea d'una storia
compendiata della filosofia” è a questo punto da considerare fondamentale. La
connessione che la storia ci rivelatra libertà e necessità, ci consente di
rintracciare la legge necessaria del progresso storico. Noi sappiamo che la
filosofia del popolo italiano non è altra cosa se non lo spirito del popolo
italianom non già come si manifesta
nella sua religione spontanea, nelle sue arti, nella sua costi-in se stesso
aveva, artea, un concertelli avvenimee metafisica. cipale delle sourcetuzione
politica, nelle sue leggi e costumi, ma come si rivela nell'esilio inviolabile
del pensiero puro, che riferma il piú alto grado al quale possada sé stesso
elevarsi. Cusani ha, a tal proposito, filosofato nel saggio “Della poesia
drammatica” un concetto che poi si ritrova in seguito. Egliè il vero che sotto
la varietà degli avvenimenti del fatto e della vita stessa della società
italiana è nascosa la legge suprema e metafisica che li governa,e che il
filosofo tenta di scoprire, e ne fa l'obbietto principale delle sue ricerche,
ma all’italiano, ch'é, come dice quell'altissimo ingegno di Vico, il senso
della nazione italiana e dato tutto al piú di sentirla, ma non deve essere suo
scopo di manifestarla, dove all'ispirazione vichiana pare già si aggiunga,
insinuandosi, una suggestione hegeliana. Nello saggio Della lirica, Cusani
ribadisce l'argomento. Se la filosofia non deve fat suo scopo, come altrove
dicemmo, parlando della poesia drammatica, la rivelazione di essa legge secondo
la quale l'umanità si svolge nello spazio e nel tempo, puf tuttavia non potrà
certo cansarla nella sua manifestazione storica, cioè nel suo progresso
attraverso delle nazio ultima recension Felice Roman son sottoposti alla legge
storica in generale, la quale le impronta quasi una seconda indole, ed è questa
poi, che fa che i filosofi sieno, come diceVico, il senso della nazione
italiana. Sorprendentemente, nell'ultima recensione pubblicata sulla « Rivista
napolitana », Liriche del Cav. Felice Romani, quasi ad emblematica chiusura,
Cusani ripete. Vico innanzi tuttia veva formolata questa solenne verità,
proclamando che il filosofo e
ilblematica sblata questa sojeni filosofi ne sinnestare Hegedea
d'uneinnanzi Qui l'eclettismo cusaniano ha voluto innestare Hegel sulla
tradizione italiana custodita e proclamata, specie allorché, nella idea d'una
storia, riprende il tema di una ragione fondamentale, di una idea filosofica
fondante le manifestazioni della vita umana, per cui la religione e soprattutto
la filosofia già ricordata sono riconducibili ad una legge razionale. Un'altra
citazione, non giustificata in questa sede, si rende necessaria per la sintesi
che riesce a conseguire, in specie sul tema del senso comune. Allorché il
movimento filosofico o riflessivo passa dalla fede alla scienza,e dalle credenze
popolari alle idee della ragione, e si trova d'essere giunto a scoprire il
pensiero celato dapprima sotto FORMA SIMBOLICA, e che si traduce
nell’istituzione, nella costume, nella filosofia e e nelle industria, egli
fatto quasi banditore della verità scoperta, l'annunzia per farla conoscere
alle masse, le quali non avrebbero potuto pervenire sino a quel segno che tardi
e lentamente. È in questo senso che il filosofo accelera il movimento delle
masse, e da qui nasce ancora che egli stesso e indugiato nel movimento che è
loro proprio. Dappoiché se le masse accettano la nuova luce che loro arreca il
filosofo, sono d'altra parte lente e ritenute nell'abbandonare le vecchie
opinioni, che il tempo ha rese abituali, e bisogna innanzitutto che esse
comprendano ciò che loro viene rivelato, e lo comprendanoa loro modo, cioè
facendo che discenda in certa guisa dalle forme astratte della scienza alle
forme pratiche del senso comune. Dunque il filosofo comprende e spiega
nient'altro che ciò che l’intelligenza spontanea dei popoli crede
istintivamente, e pertanto, lafilosofia non è che la spiegazione del senso
comune. Possiamo a questo punto scoprire l'errore di chi ha collocato Vico e
Machiavelli tra un storico fatalista como Livio, dappoiché, se a tuttaprima
poteva parere, che l’italiano appo costoro fosse schiavo dell’istituzione, in
quanto che queste venivano considerate come cose non procedenti dall’italiano
stesso, pure, allorché si vide che l’istituzione none che la manifestazione
esterna, il segno, e la realizzazione delle idee del popolo italiano, libertà
umana nella creazione degli avvenimenti del mondo. Come si risolve pertanto il
problema della libertà? Si pone inquesti termini l'interrogativo. La ragione è
dunque il fondamento della libertà; ma ragione e libertà sono da intendersi
esclusivamente riferitisare appunto che il problema della libertà investa
soltanto l'azione soggettiva (non intersoggetiva o collettiva) che ha per
teatro la storia. In realtà però, proprio per l'ampia visuale che egli propone
della storia globalmente intesa, la libertà non è solo quella dell'individuo o
soggetto italiano che si affranca dai condizionamenti dell'istinti -- vità, ma
anche quella che costituisce la linea intelligibile di tutto lohere nelle pella
sciente quella con il. La soluzione che si può intravedere in Cusani, concorde
ed omogenea allo sviluppo della questione della scienza e del metodo nell'intera, intensa elaborazione culturale
di Cusani è forse quella contenuta nella Idea d'una storia. Resta certo il
rammarico del mancato approfondimento delle tante tematiche che a questa
risposta devono riferirsi, in particolare sulla politica e sulla estetica. Ma
la sintesi che Cusani propone rimane oltremodo significativa. L'ordine adunque
degli avvenimenti, la provvidenza, o legge dell'intelligenza umana, è quella
legge che Iddio stesso ha imposta al
mondo morale, e che non differisce dalle leggi della natura, se non per questo,
cioè che la legge imposta al mondo morale non distrugge punto la libertà
individuale, essendo ché è permezzo della libertà che si compiono i destini
della intelligenza, laddovele legge della natura e compita senza il concorso
della libera volontà. SCIENZA MORALE E FILOSOFIA CIVILE. “Quando gia la
stagione eclettica andava verso il tramonto”. 1. Cusani si volgeva al metodo
storico per tracciare la via sicura che consentisse, come scrisse nel 1842,
all’idea filosofica di “elevarsi al grado di scienza che si dimostri per se
stessa” 2. Giacche se evero che “la decomposizione (...), o l’analisi
psicologica del fatto primitivo della coscienza e la condizione necessaria
d’ogni riflessione, che ritorna sul proprio pensiero; il che e dire ch’e la
condizione necessaria d’ogni filosofia”, ancor piu essenziale e comprendere che
“se l’osservazione minuta, e l’analisi profonda di tutte le singole parti di
quella sintesi primitiva della coscienza e il punto donde bisogna muovere,
perche si possa riuscire a bene nelle speculazioni filosofiche, essa non e
certo al termine; perocche dopo aver esattamente analizzato tutte quelle parti,
ed osservatele da tutti i lati, egli e mestiere procedere alla cognizione de’
riferimenti che l’une hanno colle altre, perche si possa risalire a quella
ricomposizione del tutto primitivo, che e lo scopo ultimo della filosofia” 3. E
questo il contributo essenziale che la storia fornisce e senza il quale ogni
itinerario verso la conoscenza e condannato a restare monco, e la scienza
filosofica e destinata ar estare preclusa. Infatti 1. F. Tessitore, Da Cuoco a
De Sanctis. Studi sulla filosofia napoletana nel primo Ottocento, Napoli, 1988,
p. 58. 2 Della scienza assoluta (Discorso I), in “Museo di letteratura e
filosofia”, a. II, n. 8, vol. IV, 1842, p. 116. Al Discorso I non seguirono
altre parti. 3. Del metodo filosofico ed'una sua storia infino agli ultimi
sistemi di filosofia che sonosi veduti uscir fuori in Germania ed in Francia,
in “Progresso”, XXII, 1839, p. 178. Sul pensiero
filosofico del Cusani cfr. G. G,
Storia della filosofia italiana , Firenze, 1969,
vol. II, pp. 557-563; S. Mastellone, Victor Cousin e il
Risorgimento italiano, Firenze, 1955, pp. 194-210; S. Landucci,
Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis ,
Milano, Oldrini, Gli hegeliani di Napoli, Milano, 1964,
pp.32ss; ID., Il primo hegelismo italiano, Firenze, (della Introduzione) e
pp.125-127; F. Ottonello, Introduzione a S. Cusani, Scritti, Genova; F.
Tessitore, Op. cit., pp. 64-65.2 “ne e a dire che la psicologia potrebbe far da
se, e proseguire il suo lavoro senza punto brigarsi della storia; perciocche
oltre i danni che potrebbero scaturirne eche noi piu sopra dicemmo, si
eviterebbero i vantaggi che a lei verrebbero dalla storia, sarebbero infiniti” Proprio
in relazione a questa fase del pensiero del giovane napoletano, Giovanni
Gentile annota che “pel C.,l’osservazione psicologica diventa la riflessione
che rifa la storia dello spirito, una fenomenologia; el’osservazione storica
non e piu l’integrazione della psicologia, bensi la
costruzione stessa della filosofia”L’eclettismo
non poteva piu, a questo punto, rispondere all’orizzonte
intravisto, cosicche “il C., staccatosi dall’eclettismo si diede allo
studio della filosofia hegeiiana”. Del metodo filosofico e d'una sua storia,
cit., p.183. Poche righe piu sopra Cusani aveva annotato che “dare una
ripruova e un confronto all’osservazione psicologica, che sia capace di
ritrarla dall’errore, allorche per manco d’esperimento essa cada
nell’incompleto, sarebbe per avventura il regalo piu sicuro, e una norma
certissima del metodo per ben filosofare. E questa ripruova adunque che ci
viene insegnata dal metodo storico, la cui importanza non e certo minore
dell’altro, e l’esito altrettanto giusto e sicuro. Certo che dall’aver
dimenticala Storia ne son proceduti due
ordini di mali: il primo, perche si e rotta quella
legge di continuita nel progresso de’ lavori dell’intelligenza, e si e
terminato donde si sarebbe dovuto cominciare; l’altro perche lo Spirito Umano
non si e potuto correggere delle sue deviazioni nello svolgimento intellettivo,
mancandogli la cognizione de’ suoi passati travisamenti. Nella storia adunque e
tutta quanta la filosofia, e riconoscerla nella storia econdizione non
evitabile d’ogni filosofia” (pp. 182-183). 5 G. Gentile, Op. cit., vol.I,
p.639. Lo sforzo di costruire “l’edificio eclettico della scienza” e condotto
da Cusani negli scritti pubblicati tra il 1839 ed il 1840. In particolare,
oltre che nel citato Del metodo filosofico (pp. 176-215), nei saggi Del reale
obbietto di ogni filosofia e del solo procedimento a poterlo raggiungere, in
“Progresso”, XXIII, 1839, pp.27-60; Della scienza fenomenologica e
dello studio dei fatti di coscienza, in
“Progresso”, XXIV, 1839, pp. 28-83 (I), e XXV, 1840, pp.16-37(II) e
187-247 (III); D'un'obbiezione dell'Hamilton intorno alla filosofia
dell’Assoluto, in “Progresso”, XXVI, 1840, pp. 5-31; Della logica
trascendentale, in “Progresso”, XXVI, 1840, pp. 161-187. 6 S. Mastellone, Op.
cit., p. 210. Sulla cosiddetta “svolta hegeiiana”, oltre alle valutazioni degli
autori le cui opere sono state in precedenza indicate (nella nota 2), cfr.
ancora S. Mastellone, Op. cit., p. 202: “Cusani, che pure era stato un
divulgatore di Cousin, in un articolo apparso nella Rivista napolitana (1841)
dal titolo Del modo da trattare la scienza degli esseri (ontologia), disegno di
una metafisica, alludendo ai rapporti tra l’eclettismo francese e l’ontologismo
tedesco, ossia allapolemica tra Cousin e Schelling, poneva alcune limitazioni
al suo eclettismo (...) Si prepara quel fermento spirituale che prendera forma
coll’hegelismo, il quale, se trasse la prima radice dal pensieroco usiniano, si
rivolgera poi contro di questo”. Infine mi permetto di rinviare a G. Acocella,
Vico e la storia in Cusani, in “Bollettino del Centro di studi
vichiani”, XI, 1981, pp. 214-221, in specie pp. 217-218. Gia
nel 1839, in pieno periodo “eclettico”, Cusani aveva sottolineato il
ruoio unificante della filosofia, e aveva concluso che “la storia della
filosofia, la quale disegna come in una tela tutto lo svolgimento progressivo
dello Spirito Umano, non e che la manifestazione di quel potentissimo bisogno
che ha Cuomo di conoscere e di sapere” 7. In questa direzione, dopo che lo Spirito
Umano ha rivolto il primo scopo della sua investigazione nel “mondo degli
obbietti”, ed una volta esaurita la “investigazione della natura lo Spirito “si
viene gradatamente ripiegando inverso il subbietto stesso di quelle
investigazioni, erientrando dall’esterno nell’interno, fa se stesso obbietto
della sua conoscenza”. E cost “di qui nascono, come da una comune radice, tutte
le scienze morali” 8. La conclusione “eclettica” di Cusani si arricchisce di
motivi che preparano l’accoglimento della lezione hegeliana, la quale di sicuro
influenzera gli scritti successivi al 1840, senza liquidare gli altri elementi
che costituiscono l’originalita del filosofo. L’immenso bisogno di conoscere
che tormenta e percorre la “storia naturale dell’intelligenza” anela alla
ricomposizione unitaria che costituisce la scienza: “Questi tre grandi obbietti
adunque, Dio, l’Universo e l’Umanita; l’assoluto, il non me, e il me, che
racchiudono tutto il campo delle speculazioni, costituiscono l’obietto di tutta
la scienza umana. (...) E si potrebbe da’ tentativi diversi, e da’ diversi
risultamenti ottenuti intorno a questo problema, cercar di fare un ordinamento
compiuto di tutte le scuole filosofiche che dall’antichita insino a’ giorni
nostri sonosi succedute nella Storia dello svolgimento naturale
dell’intelligenza” 9. Rispetto a questo proponimento la lettura di Hegel - del
quale pur si doveva denunciare che fosse partito “da cid che ci ha di piu
astratto nella ragione, e di piu indeterminato, cioe dal pensiero
dispogliato di tutte le cose, e ridotto a pensiero puro, a idea” - offriva
contributi rispetto ai quali Cusani gia dichiarava il suo esplicito interesse:
“Ponendo come base del suo edificio filosofico l’identita dell’idea e
dell’essere, del pensiero e della realta, del subbiettivo e dell’obbiettivo
(...) ne procede che cid che evero del pensiero, evero eziandio della
realta, e che le leggi della logica sono le leggi ontologiche, ed essa
stessa si converte in una vera ontologia” 10. 7. Del reale obbietto di ogni
filosofia e del solo procedimento a poterlo raggiungere, cit., p. 27. 8.
Ibidem, pp. 28-29. “Giunto a quest’altezza, lo Spirito Umano tenta
d’impadronirsi quasi dell’infinito, cacciarsi nel seno stesso di
Dio, e discoprire nella loro sorgente le leggi onde si regge il mondo”
(p. 29). 9. Ibidem, p. 30. 10. Del metodo filosofico, cit., pp. 210-211. In
queste pagine Cusani fornisce una 4 II principio di una idea filosofica capace
di fondare le manifestazioni della vita umana, dunque una ragione “non
dispogliata delle cose”, diviene per Cusani l’efficace punto di equilibrio del
suo itinerario tra eclettismo ed hegelismo, in grado di assicurare gli
orientamenti etici di ciascuna eta della storia. Nel 1841 Cusani, nel saggio
sulle relazioni tra economia e morale, scrive significativamente che “Ora non
ci ha e non puo esserci scienza morale senza un principio assoluto e
necessario, perche l’assoluto e il necessario e lo scopo ultimo e il termine
degli sforzi del pensiero, e1’ideale della scienza” 51. Nella stessa prospettiva
spiegava, in un corposo saggio pubblicato l’anno successive 12, il valore
filosofico che assumeva la ricerca dei fondamenti etici della societa,
asserendo che “di fatto non si puo concepire una societa che non abbia un
pensro generale, cioe a dire un insieme d’idee acquistate senza ricercare senza
scopo, e che informino tutta la sua vita; perciocche bisognerebbe allora
supporre che possa esserci una societa senza religione, senza istituzioni
politiche, senza costumi e senza industria, non essendo altra cosa le
istituzioni, la religione naturale, l’industria e i costumi, che effetti
naturali delle idee e delle credenze comuni” 53. La filosofia di un popolo,
pertanto, e il pensiero di quello stesso popolo, non nelle semplici forme nelle
quali si manifesta nella religione o nelle istituzioni o nelle stesse arti, o
nel diritto e nei costumi, ma con quei caratteri interpretazione della
filosofia tedesca, in sintonia con il tentativo di rintracciare l’unita del
pensiero perseguita dall’eclettismo. E un’ interpretazione che,
nata in terra di Francia, trovo piu generosa fortuna nell’hegelismo napoletano
da B. Spaventa in avanti. Ecco la pagina del Cusani: “Dappoicche la filosofia
del Fichte, che non era che la filosofia stessa del Kant, risguardata dal punto
di vista subbiettivo, e quella dello Schelling, che nelle sue conseguenze non
fu che il criticismo risguardato dal punto di vista obbiettivo, doveano essere
entrambe porzioni di quel medesimo tutto, che Hegel abbraccio nella sua
filosofia dell’idealismo assoluto. Egli parti dalla ragione, e dal pensiero, ma
da cio che ci ha di piu astratto nella ragione, e di piu
indeterminato, cioe dal pensiero dispogliato di tutte le cose, e ridotto a
pensiero puro, a idea” (p. 210). 11. Dell'economia politica considerata
nel suo principio, e nelle sue relazioni colle scienze morale in “Museo di
letteratura e filosofia”, a.I, n.1, vol. I, settembre
1841, p. 54. Cfr. G. Oldrini, ll primo hegelismo
italiano, cit., pp. 48-49. In nota scrive l’Oldrini che “il saggio
parafrasa e riadatta, per molta parte, concetti delle lezioni sull’economia
smithiana di Victor Cousin” (p.48n.). 12. Idea d’una storia compendiata della
filosofia, in “Museo di letteratura e filosofia”, a, I, n. 2, vol.I, novembre
1841, pp.113-135 (parti I-II); a I, n. 3, vol. II, gennaio- febbraio 1842,
pp.3-8 (III); a. I. n. 4, vol. II, marzo-aprile 1842, pp. 97-120 (IV, V.VI). 13
Ibidem, p. 119. “lo svolgimento adunque spontaneo e istintivo; e l’altro
filosofico riflesso, che entrambi non si effettuano che sotto le leggi del
pensiero umano, costituiscono il meccanismo, se possiamo cost dire, della vita
sociale dei popoli” (p.121). general del pensiero che di quelle forme
costituiscono la fonte; eppure il “progresso” e reso possibile solo dall’incontro
tra due diverse componenti “Allorche il movimento filosofico o riflessivo passa
dalla fede alla scienza, ed alle credenze popolari alle idee della ragione, e
si trova d’essere giunto a scoprire il pensiero celato dapprima sotto FORMA
SIMBOLICA, e che si traduceva nelle Istituzioni, nei costumi, nelle Arti e
nelle Industrie, egli fatto quasi banditore della verita scoperta, l’annunzia
per farla conoscere alle masse, le quali non avrebbero potuto pervenire a quel
segno che tardi e lentamente” 14. Il debito nei confronti di Vico appare
evidente, tanto piu che - indirizzandosi l’interesse di Cusani verso le
esperienze umane del diritto e dell’economia - le influenze hegeliane si
rivelano in realta filtrate dalla tradizione della filosofia meridionale, da Vico
a Filangieri a Pagano 15. La filosofia e la scienza compongono insieme la trama
che segna l'itinerario travagliato e non lineare della storia verso il “vero”:
“i filosofi accelerano il movimento delle masse, ed a qui nasce ancora che essi
stessi sono indugiati nel movimento che e loro proprio. Dappoicche se le masse
accettano la nuova luce che loro arrecano i filosofi, sono d’altra parte lente
e ritenute nell’abbandonare le vecchie opinioni, che il tempo ha reso abituali,
e bisogna innanzi tutto che esse comprendano cio che loro vien rivelato, e lo
comprendano a loro modo, cioe facendo che discenda in certa guisa dalle forme
astratte della scienza, alle forme pratiche del senso comune” 16. Il tema del
senso comune - cosi tipicamente vichiano e tanto frequentemente richiamato in
piu punti dell’opera cusaniana - costituisce un elemento fondamentale
dell’itinerario che il filosofo napoletano svolge, rivelandosi capace di
svelare la trama della ragione nella storia. Cosi come nella vita sociale le
“branche dell’attivita umana” precedono la filosofia e la storia [14 Ibidem, p.
121. 15 Cfr. G. Acocella, Op. cit., pp.216 e 217-218. 16 Idea d’una storia
compendiata, cit., pp. 121-122. “Insomma non eche dalla combinazione di questi
due movimenti che progrediscono le idee umane, edal progresso delle idee umane
nasce la trasformazione e il miglioramento successivo delle leggi,
dei costumi e delle istituzioni, che sono altrettanti elementi
costitutivi della condizione umana”. Sul senso comune cfr. p. 128: “Purtuttavia,
sebbene 1’uomo sia conscio nell’intimo della sua coscienza della sua liberta, e
riconosca in se stesso il potere di cominciare una serie di atti, di cui egli e
causa; cio nondimeno non puo non iscorgere eziandio, che la sua volonta e posta
sotto il dominio ela soggezione d’una legge, che diversamente vien denominata
secondo che diverse sono le occasioni, alle quali essa si applica,
contrasse-gnandosi ora come legge morale, ora come ragione, ed ora come senso
comune”] ria di quelle precede la storia di questa 17, cosi “l’istoria non si
realizza che dopo un lungo proceder della scienza; perocche se prima non si
sono osser-vate molte variabilita successive, non si sente il bisogno di una
storia qualunque; ma quando non si vuol considerar altro che l’essenza stessa,
ola materia di che componesi la storia della filosofia, si puo dire che essa
comincia colla scienza” 18. Cosl per esempio, rivolgendosi l’attenzione alle
esperienze umane piu rilevanti, per quel che riguarda l’economia politica
occorre indagare le leggi oggettive dell’agire economico, giacche le azioni
umane - pur tenendo conto della liberta che le generavanno ricondotte
sempre alia ragione (o si voglia dire legge morale o senso comune).
Massimamente con l’economiala questione centrale di come si compongano liberta
dell’agire individuate e conseguimento di leggi oggettive dell’economia si pone
come un nodo centrale della scienza morale, nel quale e coinvolto lo stesso
tema della relazione tra natura e ragione. Infatti, “primieramente, e noto che
il combattimento, che l’uomo, forza libera e intelligente, sostiene contro la
natura per dominarla e trasformarla ai suoi bisogni, costituisce un ordine
distinto di fenomeni e d’idee, che rientrano nel dominio dell’Economia
politica”, la quale deve pur pervenire a individuare “leggi necessarie, che
stanno a capo della produzione, consumazione e distribuzione
delle ricchezze” 19. L’interesse mostrato da Cusani verso Adamo
Smith e motivate proprio dal legame tra la liberta umana -che si esplica
nel lavoro -e le leggi necessarie dell’economia, giacche il fondamento del
valore Smith ha posto nel lavoro 20. Ma sbaglierebbe chi si fermasse al lavoro,
perche “quantunque il 17 Cfr. Ibidem, pp. 124-125: “Perciocche aquella stessa
guisa che nella vita sociale dei popoli lo stato, le industrie, le arti e la
religione precedono la filosofia, eziandio la storia di tutte queste branche
dell’attivita umana precede quella della filosofia, ultima per avventura a
prender corpo nello svolgimento intellettuale dell’uomo”. 18 Ibidem,p.
124. 19 Dell’economia politica,cit., p. 41. 20. Mentre Quesnay, con la
sua scuola, “tenne che i prodotti del suolo fossero la sola fonte, e il vero
principio del valore”, invece “Adamo Smith elevo il principio del valore,
partendo da questo, che cio& il lavoro d’una nazione costituisce la
sorgente di tutte lc sue ricchezze”, e quindi che “i bisogni dell’uomo non sono
considerati dallo Smith che subordinatamente al lavoro; il che e molto piu
ragionevole che subordinare il lavoro ai bisogni, come eintervenuto al Say e al
Tracy, i quali cio non di meno hanno comune con esso lo stesso principio del
lavoro” (Ibidem, pp. 42 e 43). Nell’esaminare la formazione dela scienza
economica Cusani riafferma il principio della tradizione italiana (come per la
scienza della legislazione ricorda in particolare Filangieri, Pagano e
Romagnosi) asserendo: “L’Economia politica nata adunque in Italia, lavoro
nel suo lento o accelerato esercizio sia quello che ingeneri la ricchezza delle
nazioni, e misuri in un certo modo, esi no a un certo segno, il valore delle
cose in ragione delle difficolta e degli ostacoli che incontra nella sua
effettuazione; purtuttavia esso non deve essere considerato, che come l’effetto
della liberta umana, ultimo principio a cui devesi ricondurre la scienza” 21.
Attraverso questo principio Cusani ricostruisce il percorso che dalla liberta,
attraverso la proprieta, giunge alla formulazione di una scienza morale la
quale, proprio perche scienza, e la “cognizione dell’assoluto invariabile, ultima
ragione delle cose” 22. Se infatti l’osservazione si conferma indispensabile
alla “investigazione scientifica, pure resta essenziale ribadire la ricerca di
un principio morale assoluto perche si possa dare scienza in questo ambito. Le
considerazioni che Cusani - partendo dall’apprezzamento del principio secondo
il quale “senza un’obbligazione assoluta non era ammessa la possibilita d’una
scienza morale” e quindi dell’imperativo categorico 23 - riferisce all’opera di
Kant, mettono a fuoco appunto il significato della liberta per la ragione, ed i
criteri per la individuazione del principio morale assoluto: “Egli
e percio, che rifermossi che il fatto della liberta, che 1’osservazione ci
rivela nel fondo della coscienza come distinto dalla fatalita delle nostre
passioni e delle nostre SENSAZION, e che eguaglia in certez- massime per opera
del Serra, non si svolse dappoi che in Francia nella celebrata setta degli
Economisti, dai quali attinse gran parte delle sue idee lo Smith”(ivi, p.
41). Sull’interesse della cultura napoletana per il ruolo svolto da Serra,
considerato precursor dello Smith, mi permetto di rinviare a G. Acocella, La
storia degli scrittori politici italiani dopo la “svolta” del 1830 a Napoli, in
“Archivio di storia della cultura”, a. VIII, 1990, pp. 69ss. 21 Ibidem,
p.45. “Togliete la liberta nell’uomo, e voi avrete esaurito nella sua
sorgente ogni lavoro possibile, essendone essa sola la causa, e la
causa vera, reale, e non immaginaria. Fare adunque l’analisi della liberta,
come produttiva del valore delle cose, sarebbe veramente farla psicologia
dell’Economia politica”(ivi, pp. 45-46). 22 Ibidem, p.54:
Questa verita conosciuta dagli antichi, i quali tenevano non potersi dare
scienza del fenomenico variabile, perciocche il fatto non e il principio ela
ragione di se stesso, estata chiaramente riprodotta dai moderni, quando hanno
sostenuto che la scienza non eche la cognizione dell’assoluto invariabile,
ultima ragione delle cose. Pure, se il fatto non e la scienza, ecertamente
prima condizione e quasi materia della scienza, potendo solo cadere sotto
l’occhio dell’osservazione, e l’osservazione ela vita d’ogni investigazione
scientifica. Tutto cio essendo or amai stato messo fuor di dubbio nel campo
dell’intelligenza, ha fatto, si che nella scienza morale si e cercato il
principio morale assoluto, ed il fatto proprio che n’e la condizione”. 23
Ibidem: “Primamente non potevasi non vedere che senza un’obbligazione assoluta
non era ammessa la possibilitad’una scienza morale, e che senza la ragione, che
sola puo comandare con un imperativo catagorico, non poteva darsi obbligazione
di sorta”. za tutti gli altri fatti, non rimanendo punto una semplice
credenza, come volevail Kant, dovesse esser solo la condizione del principio
morale, trasformato in legge dalla ragione” 24. Poteva Cusani, in virtu di
questa acquisizione, rintracciare finalmente nella liberta gli orientamenti
dell’agire morale e scoprire il principio morale della stessa economia: “Di qui
il principio: essere libero, conservati libero, cioe resta fedele alla natura,
ch’e la liberta; fu la sorgente d’ogni obbligazione e d’ogni moralita;
identificandosi colla massima degli stoici: sequere naturam. Questo principio
della morale generale stabilito, si vede apertamente che una delle prime
relazioni dell’economia colla morale, sta nell’identita del principio stesso, o
meglio, nel fatto della liberta; solo diversificando, perche l’una lo
stabilisce come trasformato dalla ragione in legge, e 1’altra lo accetta come
dato nelle applicazioni della vita”25. L’unita della scienza, che il
“fatto” della liberta - svelatosi principio unificante dell’azione umana -
realizza, e stata resa possibile dal superamento della “direzione scettica”
nella quale Cartesio getto la filosofia moderna, rendendola incapace di fondare
l’oggettivita, partendo dal soggetto 26, e dunque la comprensione del mondo
esterno. Ora, finalmente, la filosofia, rivelatasi scienza, verifica che “lo
Spirito umano e uno, identico a se stesso in tutti i tempi, in tutti I luoghi,
appo tutti gli uomini; puo esservi varieta nelle sue
determinazioni, ma l’essenza resta immutabile attraverso di tutte queste
apparenti mutazioni. La scienza non rappresenta che l’essenza, ed e percio che
l’idea filosofica, o lo spirito filosofico non e che uno e sempre identico a se
stesso” 27. Come per l’economia anche per il diritto la liberta dell’individuo
si afferma per Cusani quale principiocapace di fondarel’agire morale,
confermando l’unitarieta della scienza. Dedicando nel 1842 una lunga nota
in tre parti, benche incompiuta, all’opera
di Manna, e dopo aver 24 Ibidem, “Dappoiche non potendosi dalla
sensazione trar niente che avesse forza d’obbligazione, e vice versa la ragione
scorgendo nel fatto della liberta una superiorita di principio che procedeva
dalla stessa personality umana, potette
scorgervi il dovere asso-luto di mantenere
la dignita della persona sulla materia, e
della liberta sulla fatalita” (ivi). 25 Ibidem, p. 55.
“Sicche, da questo lato risguardata, l’Economia potrebbe esser
considerata come una derivazione della morale nelle sue piu minute conseguenze”
(ivi). 26 Cfr. Della scienza assoluta
(Discorso I), cit., p. 112. 27 Ibidem , p.
116. Sul punto cfr. G. Oldrini, Gli hegeliani
di Napoli, cit., pp.58-59. 28 Del diritto amministrativo del
Regno delle Due Sicilie. Saggio teoretico storico e positivo, in “Museo
di letteratura e filosofia”, a.I, n. 3, vol.II, gennaio-febbraio
1842, pp.38-45; a.I, n.4, vol.II, marzo-aprile 1842,
pp. 167-172; a. I, n. 5, vol. Ill, maggio- Scienzci 9 affrontato la
questione della individualita nella prima parte, dichiarando il proprio
interesse per le “partizioni teoriche del diritto amministrativo”, Cusani
decisamente ritorna sul problema della scienza avvertendo pero che “nissun
problema che tocchi la scienza sociale pud risolversi, senza aver prima
risoluto l’altro della destinazione dell’individuo, che li contiene e
gl’implica, abbracciandoli tutti nel suo seno” 29. Cosicche si puo considerare
che “se la scienza divide eperche questa e la sua condizione di esistenza, e
perche l’umano intelletto ha bisogno di successiva osservazione, e di notomia,
direi quasi, della cosa che vuol conoscere e sapere. Ma in sostanza ci ha unita
fondamentale qui, come in tutto, e la scienza umana non tende che continuamente
verso questa unita, che la sola ontologia pud promettersi” 30. II richiamo,
costante in tutta la sua opera, all’ontologia consente a Cusani di riaffermare
il principio assoluto e generale da cui discende coerentemente l’ordine morale
che la scienza pud infine conoscere. La visione unitaria perseguita - che,
tanto nella fase eclettica quanto in quella segnata dalla lettura di Hegel,
pone in primo piano la questione dei fini razionali della storia e dell’azione
umana - rivela pero con evidenza il debito comunque contratto nei confronti,
oltre che di Herder, soprattutto di Vico, rimeditato autonomamente ea contatto
con le suggestioni presenti nell’eclettismo napoletano 31. Recensendo nel 1843
la Storia della filosofia di Pasquale Galluppi, Cusani chiarisce in apertura
che “s’egli e vero che la storia della filosofia, come noi abbiamo affermato in
uno de’ fascicoli precedenti non ese non l’idea stessa, e lo spirito
dell’umanita, non quale si rivela nelle sue isti- giugno 1842, pp. 33-37.
L’ultima parte pubblicata concludevac on le parole “sara continuato” (n.5,
p.37). Non vi fu alcun seguito. Gia concludendo la prima parte, pero, Cusani,
avvertiva che “per fame un’analisi compiuta” si era ripromesso “di venir
discorrendo di ciascuna parte in particolare, ma si perche l’opera non evenuta
fuori ancor tutta per le stampe, e si perche la parte positiva del diritto
amministrativo non e in relazione coi nostri studi, cosi ci terremo contend
solo ad esaminar per ora la sola quistione che risguarda la scienza della
pubblica amministrazione, riserbandoci di parlare della parte storica quando
l’autore ne avra fatto dono al pubblico” (n. 3, p. 45). Sul Manna e sulla sua
opera cfr. F. Tessitore, Della tradizione vichiana edello storicismo giuridico
nell’Ottocento napoletano,in Aspetti del pensiero neoguelfo napoletano dopo il
Sessanta, Napoli, s. a. (1962), pp. 118 ss.; G. Rebuffa, L'opera di Giovanni
Manna nella formazione del diritto amministrativo italiano, in La formazione
del dirittoamministrativo in Italia, Bologna, 1981, pp. 33-71. 29 Del diritto
amministrativo, cit., n. 4, p. 168. 30 Ibidem, p. 169. 31 Cfr. F. Tessitore,
Momenti del vichismo giuridico-politico nella cultura meridionale, in
“Bollettino del Centro di studi vichiani”, a. VI, 1976, pp.101ss. Sul vichismo
del Manna cfr. pp. 99-100. tuzioni, nelle arti, nelle legislazioni, ma sibbene
nell’asiio inviolabile del pensiero puro, del pensiero in se; deve esser vero
eziandio che essa non e una raccolta vana di opinioni, nata per soddisfare la
curiosita di alcuni uomini, ma viceversa, secondo che diceva l'Herder, la
catena sacra della tradizione, che opera in massa, con leggi necessarie, e non
a caso ne isolatamente” 32. Si pud pertanto comprendere anche la radicale
nettezza con la quale nella nota sul Manna Cusani afferma che ‘l’ontologia
adunque e la scienza prima, che facendoci conoscere la determinata essenza
degli esseri, ci conduce a discernere il fine a cui essi sono destinati (che e
pure un problema ontologico) e che diventa problema morale se trattasi della
destinazione dell’uomo sopra la terra, problema religioso se trattasi di questa
stessa destinazione innanzi e dopo la vita terrena; problema di filosofia di
diritto, che abbraccia il diritto individual, il diritto pubblico, e il diritto
internazionale, se trattasi della giustizia reciproca che gl’individui, lo
Stato e le nazioni, debbono somministrarsi per raggiungere la loro
destinazione. Questa e l’unita della scienza, la quale non e che un pallido
riflesso dell’unita stessa della causa prima”33. Dove Vico e Herder servono al
disegno hegelia- [32. Recensione a P. Galluppi, Storia della filosofia,
Prefazione, in “Museo di letteratura e filosofia”, a. II. n. 9, vol.
IV, gennaio 1843, p.222. Su Herder e Vico cfr. Idea
d’una storia compendiata della filosofia, cit., pp. 134-135: “Ora questa legge
che governa lo svolgimento dell’umanita, e che costituisce la filosofia della
storia, non poteva che cercarsi successivamente in Dio, nell’uomo, enel
mondo, essendo questi i tre obbietti che si appalesano all’ntelligenza
(...) Di qui nasce che il Bossuet sia stato il primo filosofo della storia,
trovando nella Bibbia la soluzione del problema. A questi successe il Vico, che
cerco nell’uomo il principio e la legge dello svolgimento dell’umanita. E da
ultimo l’Herder che voile trovarlo nel mondo fisico, e nella combinazione
speciale d’influenze esterne. (...) Noi diciamo, che ognuno di essi e stato
esclusivo, in quanto che l’Herder non ha riconosciuta la parte che rappresenta
l’uomo nella evoluzione storica dell’umanita, ed il Vico, in quanto che non ha
riconosciuto l’nfluenza della natura esteriore; ed entrambi poi non
disconoscendo la parte che rappresentala Provvidenza, l’hanno subordinata
all’uomo e alla natura, mentre il Bossuet impadronendosi di questa, ha tutto
subordinate ad essa”. 33 Del dritto amministrativo, cit., p. 169. Sul
problema dello Stato cfr. p.170: “io non so concepire, come l’arte, la scienza,
la morale, e la religione debbano esser fine a loro stesse, e lo Stato debba
esser considerate come mezzo per la societa umana, quando il suo scopo non e
che uno scopo razionale, come quello che tocca in dominio alle altre sfere
dell’attivita sociale. Ne solo io dico che lo scopo e razionale ed ha gli
stessi caratteri di quelli che spettano alle altre sfere dell’attivita sociale,
ma che e identico con tutti nel fondo, e che se uno e il bene assoluto, o
l’ordine assoluto, che riferma lo scopo e la destinazione dell’uomo, non si pud
far dello stato un semplice mezzo ed una via per la conservazione dell’umanita
perfettibile”. no della scienza del’essere. Vale, pero, sottolineare
come, nel confronto con Galluppi, istituito nella nota sopra ricordata, il tema
del “vero” costituisca un interessante nodo che chiarisce il modo con il quale
Cusani interpreta Vico ed il problema della storicita dell’esperienza. Al
Galluppi che affermava che “la storia della filosofia non puo trattarsi
apriori, ma deve dedursi dall’osservazione dei fatti, perche altrimenti avremmo
dovuto trovar prima i problemi relativi alla scienza del pensiero, e poi quelii
relativi all’universo”, Cusani obietta “che la storia della filosofia e
identica colla scienza”, e pertanto “troveremo che il primo mezzo di
trattar la storia della filosofia e il metodo a priori, il quale non deve
ch’esser verificato dall’esperienza” 34. A Cusani, naturalmente, sono chiare le
novita apportate dalla modernita e le conseguenze che ne sono scaturite,
dal momento che la filosofia aveva nell’antichita la definizione di scienza
dell’universale, contrapposta a quella “ricevuta presso i moderni” della
filosofia come scienza del pensiero - per cui la “definizione degli antichi si
faceva per mezzo dell’ontologia, quella de’ moderni viceversa si fa per
mezzo della Psicologia” - ma resta pur sempre certo che in realta “l’ontologia
e la Psicologia non sonoche due determinazioni, o aspetti diversi dell’idea
filosofica, in quanto che l’una considera l’obbietto in se, e per se, l’altra
questo obbietto che divien subbietto” 35. La scienza morale che Cusani intende
definire, dunque, verifica nell’esperienza - nelle diverse “branche di
attivita” nelle quali si manifesta l’azione umana - il principio assoluto e
invariabile che da unita e senso alla scienza moderna. Cosi “l’Economia
politica non dovrebbe rappresentare che quella stessa parte, che rappresenta la
Politica, quanto alla filosofia del diritto. Perciocche laddove questa ci
rivela l’ideale a cui possono pervenire le societa umane, e la politica
determina le relazioni che passano tra l’attuale esistenza di esse, e l’ideale,
poggiando sopra queste relazioni i cangiamenti che possono patire le
istituzioni sociali; l’Economia, rispetto ai monopoli ed agli ostacoli che si
frappongono al libero esercizio del commercio, deve far ragione, prima di
effettuare il suo principio, di tutti gl’interessi attuali della societa dove
questi sistemi proibitivi sono introdotti” 36. D’altro canto la natura di
scienza morale dell’economia (come del diritto o della politica) risulta
evidente nella concezione cusaniana di una filosofia civile moderna: “come
il principio morale riferma la destinazione dell’uomo che precede sempre dalla
sua natura, e questa natura non essendo che [34. Recensione a R Galluppi, cit.,
p. 230. 35. Ibidem, p.227. 36. Dell’economia politica, cit., p. 53. doppia,
coesistendo in lui lo spirito e la materia, l’anima e il corpo, la liberta e la
fatalita (sebbene la materia e il corpo non siano che l’inviluppo esterno della
natura umana, stando la sua essenza tutta nella personalita nella liberta e
nell’anima); ne seguita che l’Economia, anche ristretta nel senso di coloro che
non vogliono fame che una scienza del benessere corporate e dell’agiatezza
sociale, dovrebbe serbare alcuna relazione verso la morale” 37. La difficile
relazione tra il “fatto” ed il principio, cioe tra l’obiettivo immediato
dell’azione e lo scopo razionale che ne costituisce il fondamento, e verificata
da Cusani nello sviluppo del pensiero moderno. L’itinerario che dalla fase
delle “utilita” deve condurre a quella dei “fini” viene percorso analizzando il
contratto sociale in Kant e Rousseau 38, in riferimento al quale Cusani puo
criticamente concludere: “Ma l’obbligazione morale e giuridica non puo mai
procedere da un atto volontario, quale e quello che riferma il contratto e il
CONSENSO (con-senso) universale, perche nessuna cosa arbitraria e volontaria
puo costituire un diritto, ed una convenzione non e che la semplice
manifestazione della volonta mutabile degli uomini” 39. Colui che ha colto piu
precisamente - ad avviso di Cusani - il significato profondo del rapporto tra
il fatto ed il fondamento razionale dell’ordinamento estato, a proposito della
questione della proprietya fondamentale per l’ordine sociale, Fichte: “Piu
ragionevolmente adunque il Fichte, che fu il. 37. Ibidem,p.
55. “Ma e perche essa abbraccia tutto il problema della destinazione dell’uomo
nelle conseguenze, che serba per avventura assai piu intime relazioni colla
morale generale” (ivi). Scrive anzi Cusani (p. 56): “La sola relazione che
passa tra il lavoro destinato per il mantenimento della vita fisica, e il
riposo destinato per il compimento della vita morale, puo esser la misura de’
differenti gradi della ricchezza nazionale, la quale aumenta in proporzione che
cresce il riposo per le occupazioni intellettuali. Insomma, produrre nel minor
tempo possibile cio ch’e necessario per la satisfazione de’ bisogni materiali
della vita, e crescere in ricchezza e moralita” .38 Questo fatto, che
l’obbligazione sia inclusa nella proprieta fu ben vista da Kant, il quale
stabili, che sebbene la specificazione e il lavoro fossero gli atti preparativi
della proprieta cio non di meno perche questa fosse riconosciuta e
rispettata da tutti, bisognava una spezie di contratto sociale, con che
si desse la proprieta definitiva. Vero e che questa idea del contratto sociale,
considerato come base giuridica necessaria del diritto di proprieta, non fu da
lui risguardata quale base della societa stessa, come era addivenuto appo
parecchi pubblicisti, e specialmente appo il Rousseau, che l’ebbero come un
precedente storico; solo voile dire ch’era necessario, accennando ad un fine
razionale avvenire, per cio che egli significava col titolo di proprieta o
possesso intellettuale”. 39 Ibidem, p.50. seguitore del Kant e il suo discepolo
filosofico, voile rifermare, nel suo Manuale e nelle sue Lezioni di Diritto
naturale, la proprieta esser costituita sulla nozione stessa di diritto.
Conciossiache la sua teorica del diritto, procedente dal suo sistema
filosofico, nel quale stabilisce che l’attivita infinita dell’Io che si svolge
come per una retta, pone, nell’urto che incontra, il mondo degli oggetti
esterni, doveva contenere tutta la ragione filosofica della proprieta” 40. Nel
1839, in un’opera segnatamente influenzata dall’eclettismo del Cousin 41, aveva
gia sottolineato la rilevanza dell’osservazione del mondo storico per la
definizione del principio morale. Rispetto al sistema di Locke 42, infine, la
scuola scozzese del Reid aveva fatto compiere un decisivo passo avanti al
“metodo della psicologica osservazione”, consentendo infine di “osservar le
Societa” e di “distinguerne e sceverare la parte sostanziale dall’accidentale,
cio che ne costituisce l’esistenza, la vita, il principio, da cio che non e che
una semplice forma contingente e variabile, secondo la diversita de’ tempi e de’
luoghi” 43. Ma la questione della legittimita, “trascurata Di fatto, siccome la
personalita umana e dotata, secondo lui, d’una liberta infinita, cosi e che il
diritto non ista che nella limitazione della liberta di ciascuno, perche possa
coesistere la liberta di tutti. Posto cio il diritto deve garantire a ciascuno
il dominio particolare nelquale deve svolgere la sua liberta”. Nello stesso
scritto Cusani torna sul Fichte riguardo alla relazione tra lavoro e
riposo e sul tema della moralita resa possibile dal produrre nel minor tempo
possibile cio che e necessario alla soddisfazione dei bisogni umani: “Primo tra
gli scrittori moderni che rifermasse questa verita semplice per se stessa, ma
troppo spesso disconosciuta, fu il Fichte, uno de’ piu nobili ingegni di
Germania: e cio perche vide che la destinazione dell'uomo non edi essere
assorbito dal lavoro destinato alia vita fisica, ma sibbene di avere a
restargli assai tempo per lo svolgimento della sua moralita” (Ibidem,
p.56). 41. Del reale obbietto di ogni filosofia e del solo procedimento a
poterlo raggiungere, in “Progresso”, XXIII, 1839, pp. 27-60. Ha scritto S.
Mastellone, “dichiarazione di fede eclettica puo considerarsi l’articolo di
Cusani: Del reale obbietto d'ogni filosofia e del solo procedimento a poterlo
raggiungere (Progresso, 1839). La lunga dissertazione sulla necessita di porre
a fondamento della filosofia la psicologia per poi passare all’ontologia,
e la definizione dei tre obbietti della filosofia (il mondo, l’anima e Dio) e
dei tre ordini di fenomeni nell’interiore della coscienza (i sensitivi i
volontari e gli intellettivi) sono tratte dall’opera di Cousin”. 42 Cfr.
Del reale obbietto , cit., p. 57: “seguitando lo stesso principio in morale, i
suoi seguitatori non fannosi punto a ricercar quale e la moralita nello
stato attuale dell’uomo, ma invece quali sono state le prime idee di bene e di
male nell’uomo ridotto allo stato selvaggio innanzi ogni civil comunanza”. 43.
Ibidem, p.59. “Cosi questa scuola modesta e timida poneva la quistione
fondamentale di tutta la scienza psicologica; e quantunque non facesse che
circoscrivere l’osservazione, e fermarsi laddove essa cessava, purtuttavia
frutto gran bene alle scienze politiche, e morali, sollevando, per cosi dire,
l’umana natura in una piu pura ragione dalle scuole menzionate”, “richiedeva
una terza scuola, che se ne fosse occupata specialmente, e questa venne su a
Konigsberg promossa da un ingegno meraviglioso” 44. Se certamente il formalismo
kantiano presentava nella interpretazione cusaniana aspetti che attiravano le
riserve del lettore di Cousin e di Hegel, pure esso rappresentava un termine di
confronto essenziale alla definizione dell’obbligazione morale, e di
conseguenza della scienza morale e delle parti in cui questa si articola. Piuttosto
il limite di Kant, come si e poco prima ricordato, consisteva nell’aver posto
il contratto a base dell’obbligazione sociale: “se si fosse cercata nella
ragione, che ci comanda con un imperativo categorico, si avrebbe per necessita
dovuto ammettere una societa a priori del genere umano, e si
sarebbe conchiuso che ci ha un diritto, che
a noi vien da natura, indipendententemente da ogni contratto e da ogni
diritto positivo” 45. La relazione che si istituisce tra l’ideale ed il reale,
tra principio ed esperienza (ed anche tra l’apriori e l’aposteriori) comporta
finalmente la possibilita di definire una scienza sociale coerente con i
principi della scienza morale, giacche nell’unita della Filosofia tutte le
parti vengono ricomposte: “Se lasciamo la morale generale, e ci facciamo a
risguardare l’Economia nelle sue relazioni colla Filosofia del diritto, colla
Legislazione, e colla Politica, siccome queste non sono che parti della
Filosofia morale in generale, cosi non potremo che scorgervi le stesse
relazioni” 46. somigliantemente in Politica, le indagini intorno allo stato
primitivo delle Societa, de’ governi, delle leggi, e la varieta de’ sistemi che
se ne ingeneravano (perocche dove ha luogo la congettura nissuno ha il potere
di limitarla) cessarono del tutto, e cominciossi a osservar le Societa, cosi
com’esse ci si presentano dinanzi”. Dell’economia politica, cit., p. 51: “Ne
sappiamo vedere come il Kant, che aveva cosi bene stabilito l’obbligazione
morale, avesse poi dovuto ripeterla, quanto alla proprieta, da un contratto e
da una convenzione. Certo e vero, che il non aver esaminato punto donde veniva
l’obbligazione attaccata aquest’ atto, ha fatto si che siasi incorso in due
errori, il primo di negare che la proprieta sia di diritto di natura, el’altro
di ammettereuno stato primitivo e selvaggio dell’uomo innanzi della societa;
perciocche se si fosse cercata nella ragione, che ci comanda con un imperativo
categorico, si avrebbe per necessita dovuto ammettere una societa a
priori nel genere umano, esi sarebbe conchiusoche ci ha un diritto, che a noi
vien da natura, indipendentemente da ogni contratto e da ogni diritto positivo.
Ne vale ammetter questo contratto come fatto nel passato, o come da farsi
nell’avvenire, non procedendo da cio nessun’illazione, quando si tiene esser
esso la base e il fondamento della proprieta”. 46. Sull’hegelismo italiano (ed
i specie napoletano) cfr. P. Piovani, Il pensiero idealistico, in Storia
d’ltalia, Torino, I documenti. Cusani puo cosi concludere il suo tentativo -non
dimentico di Fichte, ma sicuramente sensibile alla filosofia vichiana - di
delineare una scienza morale rivelatrice della missione civile della filosofia:
“Ma la scienza sociale non e costituita che dalla filosofia del diritto, la
quale accenna all’ideale che devesi raggiungere nelle societa umane, e dalla
politica che appoggiandosi sui precedenti storici delle societa medesime, ne
osserva lo stato attuale e giudica di quale avanzamento progressivo possono
esser capaci”. Ne sono lontani gli anni nei quali, su altri testi d’una diversa
tradizione, e in cospetto d’una diversa realta socio-economica d’una diversa
regione d’ltalia, Marco Minghetti proporra la sua Economia pubblica. coloritura
hegeliana o hegelianeggiante, l’ammirazione professata verso lo studiato (piu o
meno studiato) filosofo tedesco individua come connotato essenziale questo
idealismo, pur se, in senso tecnico, iconfini effettivi delle conoscenze
hegelistiche dei nostril hegeliani risultano imprecisi, elastici, quasi sempre
vicini a uno Hegel letto prevalentemente in chiave fichtiana o kant-fichtiana”.
47. Ibidem, pp. 56 e 57. “E di vero, nella filosofia del diritto non si puo far
astrazione dallo scopo che ha l’uomo a raggiungere, se si deve poter
determinare le condizioni esterne di cui abbisogna, procedenti dalla volonta
de’ suoi simili, nel cui insieme sta la scienza del diritto. Ma lo scopo o la
destinazione dell’uomo ingenera delle relazioni tra la morale e l’economia;
deve quindi di necessita ingenerarne eziandio tra il Diritto e l’economia”. Stefano
Cusani. Cusani. Keywords: l’assoluto, il relativo, spirito soggetivo, spiriti
soggetivi, spirito oggetivo, storiografia filosofica di Cousin, unita
latitudinale della filosofia, l’assoluto di Bradley, Hamilton, l’obbjezione
all’assoluto, l’essere e la metafisica, gl’esseri e la metafisica, economia e
morale, la fenomenologia, il fatto di coscienza intersoggetiva, hegelismo,
Vico, Galluppi, Mamiami, Colecchi, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cusani” – The Swimming-Pool Library.
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