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Monday, April 8, 2024

GRICE ITALICO A/Z C

 

d'insegnamento nan corrispondono al-  le esigenze estetiche dell'evoluzione dell’arte attraverso i  tempi. L'arte non si insegna. Gli attuali diplomati non sono  né tecnici competenti né artisti.    Abolizione delle Accademie di Belle Arti e Professio-  nali senz’altre sostituzioni. (Proposta Marasco).  PROPAGANDA ARTISTICA ITALIANA ALL'ESTERO mediante un Istituto Nazionale di propaganda ar-  tistica all’estero che tuteli glì interessi artistici ed econo-  mici degli artisti italiani.   Questo Istituto dovrà essere diretto da giovani artisti  stimati all’estero e che propugnino con italianità il genio  novatore italiano Avrà commissioni permanenti riguarda  ti le varie arti e uffici di corrispondenza nei principali  centri artistici esteri. Agirà mediante conferenze, concerti,  esposizioni e pubblicazioni periodiche di propaganda. (Pro-  posta Prampolini, Russolo, Buzzi, Volt, Marasco). CONCORSI LIBERI D'ARTE.    Utilizzare una parte del denaro che lo Stato spende  attualmente per l'arte in concorsi di poesia, plastica, ar-  chitettura, musica, riservati ai giovani non ancora venti-  cinquenni, da premiarsi mediante un referendum popo-  lare. (Proposta Balla, Marinetti, Marasco).  AFFIDARE L'ORGANIZZAZIONE DELLE FE.  STE NAZIONALI E COMUNALI (cortei, gare sportive,  ecc.) ai gruppi d’artisti d'avanguardia italiani, i quali han-  no ormai provato in modo incontestabile la loro genialità  innovatrice, fonte di quell’ottimismo che è indispensabi-  le alla salute della Patria. (Proposta Depero, Azari, Mari-  netti, Marasco).  AGEVOLAZIONI AGLI ARTISTI. Riconoscimento legale da parte del Governo dei  diritti d'autore per gli artisti delle arti plastiche, sul mag-  gior prezzo raggiunto dalle opere loro, attraverso le ven-  dite successive, mediante una istituzione simile alla « So-  cietà degli Autori ».    d) Abolizione delle tariffe doganali internazionali sia  riguardo le importazioni che le esportazioni delle opere  d’arte moderna. (Proposta Prampolini, Depero, Azari, Ma-  rasco, Marinetti, Volt).    9° CONSIGLI TECNICI CONSULTIVI formati da  artisti ed eletti fra artisti con una rappresentanza propor-  zionale delle tendenze d'avanguardia. Questi Consigli Tec-  nici consultivi avranno lo scopo di tutelare gl’interessi de-  gli artisti nei rapporti con le istituzioni statali, comunali,  private e gli artisti stessi. {Proposta Prampolini, Mara-  sco, Marinetti, Volt)  RAPPRESENTANZA PROPORZIONALE.    Le avanguardie artistiche italiane dovranno essere in-  vitate a partecipare con una rappresentanza proporzionale  a tutte le manifestazioni e cariche artistiche statali, co-  munali e private. (Proposta Prampolini, Marasco, Marinet-  ti, Volt). CONSORZIO INTERNAZIONALE per la tute.  la degli interessi artistici ed economici degli artisti d'avan-  guardia. Questo Consorzio dovrebbe proporsi l’accentra-  mento delle migliori istituzioni artistiche di avanguardia,  per la solidarietà, la difesa e la propaganda artistica ed  economica. (Proposta Prampolini, Marasco, Marinetti,  Volt).   Per la Direzione del Movimento Futurista  e per tutti i Gruppi Futuristi ltaliani   MARINETTI   NATALE SENZA LUCE  sequestrato).    Chi fu legionario di Fiume non potrà mai dimenti-  care le rosse giornate natalizie di quattro anni fa, con  le quali si conchiudeva tragicamente e desolatamente una  breve ma non ingloriosa epopea. Il ricordo ha poi un  valore particolare per chi lo avvicini al pensiero della  situazione politica odierna, che ha qualche vaga analogia  con quella che segnò la fine di un generoso sforzo della  nuova Italia.   Il sangue fraterno di quelle Cinque Giornate non è  stato ben vendicato. Pareva a molti di noi che la Marcia  su Roma dovesse continuare quella di Ronchi per dare  alla nostra grande Patria una nuova fisionomia di po-  tenza e per vivificarla di un nuovo afflusso di giovi-  nezza. Ma la spinta rinnovatrice della generazione di Vit-  torio Veneto si è, ahimé, fiaccata nel labirinto delle vec-  chie pance e vecchie barbe che tengono tuttora il campo  della vita nazionale. E sul tempo d’arresto che oggi fa  segnare il passo alle orgogliose avanguardie d'impero, la  sagoma «immortale » del cavalier Giolitti si profila —  come quattro anni fa — a rassicurare il mondo che l’Ita-  lia è ancora quella mediocre, umile nazioncella di molte  chiacchiere innacue ma di pochi fatti pericolosi, e che  agni tentativo di virilizzarsi e impennarsi in alati eroismi,  è destinato al più pietaso insuccesso.   Sembra — a ben considerare i più recenti avvenimen-  ti — che il sogno di una politica più alta, più rettilinea,  più forte, sia una morbosa fantasia di cervelli malati; e  che una sola specie di politica sia possibile: quella che  ha nome Giolitti. Vale a dire: quella basata sull’intrigo,  sul compromesso, sulla pattuizione, sull’arte di farsi ricat-  tare.   La manovra parlamentare domina ancora tutto il con-  gegno di governo. E’ pacifico che non si governa coi  parlamenti, poiché essi sono l’antigoverno per  eccellenza: ma è altrettanto pacifico che questo popolo italiano    119    rabbiosamente ingovernabile non vuol rinunciare al suo  bravo Parlamento, fonte di ogni male, serbatoio di ogni  decadenza.    Contro questa massima cloaca nazionale (parlo, s’in-  tende, dell'Istituto, non degli uomini) il Fascismo è an-  dato a impantanarsi pazzescamente. Il Fascismo ha com-  messo questo gravissimo errote iniziale: di non saltare  a pié pari il Parlamento. Viceversa vi si è sentito attratto,  ha voluto saggiarne le delizie, ha voluto conquistare que-  sta quota a colpi di scheda — mortificando la sua anima  guerriera — quando avrebbe dovuto farla saltare a colpi  di bomba. E certi errori sono troppo gravi perché non  si debbano scontare.    Tuttavia, non si potrà negare a noi irriducibili anti-  parlamentari, a noi rimasti fuori dell'aula per volontà pre-  meditata, e quindi immuni da interessi e da schiavitù  elettorali, it diritto di tener fede ai principi per quali s'ini-  ziò la battaglia, e soprattutto alla nostra accesa spiritua-  lità di italiani #4ovi: nuovi nella mente, nel tempera-  mento, nell’educazione, nella passione. Anche se tutto  crollasse attorno a noi, e il nostro sogno trilustre, perse-  guita con appassionata tensione di nervi e di cervello, do-  vesse ridursi in polvere di macerie, noi non rinunzierem-  mo ad essere quelli che fummo e che siamo: cittadini di  una Patria più grande, più eroica, più possente, più do-  minatrice.   Mai non rinunceremo — lo sappiano bene i nostri  nemici — alla nostra sete d’impero, alla nostra fiamma  di grandezza, che odia la vita democratica, l’egualitarismo  ipocrita, il pietismo umanitario, l’eunuco calamento di bra-  che. A noi conviene la formula maschia di Silla, che  per disciplinare la repubblica in dissoluzione e prepararla  all'impero, chiedeva tutti i poteri, il controllo sui tribu-  nali civili e militari, la giurisdizione eccezionale, la legi-  siazione di gabinetto da sovrapporre a tutte le leggi ante-  riori, il diritto di battere moneta, di convocare il popolo,  di sospendere e punire i funzionari dello Stato, e infine,  di mettere fuori della legge i cattivi cittadini. A noi piace  infinitamente Ja salutare ferocia di questo Dittatore-mo    120    dello, che, mentre il Senato discute se conferirgli o no  la potestà dittatoria, fa giungere nell'aula il fiero ululato  dei seimila prigionieri di Porta Collina, sgozzati al suo  segnale, e che incide sulla tabella i nomi dei Senatori  vetanti contro di lui, per ricordarsene a tempo e luogo.   Il Fascismo è venuto al potere più attraverso la spa  da di Silla che l’oratoria di Cicerone. Perché dimenti-  carsene? II Fascismo non ha nulla da sperare da una  sua politica di debolezza conciliatrice. I suoi nemici lo  vogliono polverizzato e disperso, e tale lo avranno se si  continuerà a ceder loro in ogni occasione. Dal 10 giugno  in poi, si può dire che l’Italia è stata governata dall'om-  bra dell’Aventino. Tutto questo è contro natura, contro  storia, contro giustizia. Non sono le ombre che possano  aver diritto al comando, bensì le energie luminose. Quan-  do ci scrolleremo di dosso tutte le ombre importune che  ci soffocano come ali di corvacci e di vampiri?    Mario CARLI  [da: Fascismo intransigente, Bemporad, Firenze 1926, pag. 253-256]   Con la Mostra della Rivoluzione si risolve finalmente,  e in modo favorevole, il grave problema della militariz-  zazione della fantasia creatrice mediante temi fissi da im-  porre agli artisti.   Molti fra i pittori, scultori e architetti, invitati a rea-  lizzare questa Mostra grandiosa, furono indubbiamente  turbati dal prestigio di queste gloriose parole che domi-  nano ormai nella nuova storia d’Italia: interventismo, Vit-  torio Veneto, Mussolini, e Popolo d'Italia, Diciannove,  battaglia di via Mercanti e incendio dell’Avanti!, covo di  via Paolo da Cannobio, Casa Rossa, Lodi, Palazzo Accur-  sio, Marcia su Roma. Legati tradizionalmente ai noti motivi idilliaci cittadi-  nì o rurali, tramonti melanconici e ritratti statici, que-  sti artisti sentirono subito la necessità di capovolgere il  loro spirito per disegnare nell'aria un tuffo perfetto nel  mare della novità.   Da tempo il Futurismo italiano, con il suo seguito di  avanguardie estere più o meno originali, gridava per in-  segnare l'invenzione a ogni costo. Quattro mesi fa il Du-  ce, con la sua bella parola imperiosa e veloce, ordinò che  si evitasse il passatismo della palandrana di Giolitti.   Suggestionati poi dal dinamismo aggressivo colorato e  tragico della Rivoluzione, essi abbandonarono la loro sta-  ticità e la classicità placida. Gli architetti incaricati di dare  una faccia nuova al vecchio e brutto Palazzo dell’Esposi-  zione, sentirono l’assurdità di qualsiasi decorativismo sim-  bolico, floreale, mitologico o grazioso.   Le loro prime linee gettate sulla carta, rizzandosi ascen-  sionalmente, presero lo slancio aggressivo, guerriero e mi-  naccioso di altissime torri di acciaio o ciminiere naviganti.   A me ricordano simpaticamente i geniali fasci di ascen-  sori dell'architettura di Antonio Sant'Elia, il grande e com-  pianto padre futurista dell’architettura moderna.    Logicamente andò determinandosi lo stile della Mostra  per virtù della Rivoluzione e del suo ritmo mobile ag-  gressivo. Si ricorda l’intero profilo d’uno squadrista. Un  dettaglio basta. Di quell’autocarro schiacciato dal peso  dei fascisti come un tino stracarico di giganteschi grappo-  li neri io ricordo soltanto il mosto rosso a terra e l’acu-  tissimo odore di benzina. Quindi sintesi, dinamismo e in-  tersecazioni di piani. Visibilità aggressività giocondità.  Questa Mostra della Rivoluzione, che tutti gli squadristi  augurano non effimera ma duratura, stabilisce la gloria  del Fascismo con uno stile rivoluzionario italiano che ha  avuto pet primi maestri Sant'Elia e Boccioni. E’, secondo  le parole di Edmondo Rossoni dettemi questa mattina, il  trionfo dell’arte futurista.   F.T MARINETTI  [du: Fuiuriszo, Nel fervore della polemica pro e contro il Futurismo  molti si chiedono: come la pensa il Duce? A questo in  terrogativo i nostri avversari rispondono arbitrariamente  come saremmo ugualmente arbitrari noi volendo asserire  l'opposto di ciò che loro affermano. Per la verità il Duce  non può essere dall’una o dall’altra parte (passatismo ©  futurismo) ma nella sua specifica qualità di Capo della  Nazione non può essere passatista e futurista nello stesso  tempo. Che Egli prediliga come certuni pretendono cor-  renti intermedie lo esclude il suo temperamento nemico  di tutti gli oscillamenti e di ogni mezzo termine. Prefe-  risce le posizioni diritte anche le più azzardate e non è  detto quindi che si compiaccia trattenersi ad ammirare le  varie denominazioni che si dànno alla strada nel corso  di così lungo e complicato cammino com'è quello dell'arte.  Egli tende alla meta: L’arte fine a se stessa. Passatismo  e Futurismo: due colossi che se non esistessero Musso-  lini li avrebbe creati apposta non fosse altro, per }a gioia  patriottica di vedere scaturire dal cozzo di queste mentalità  opposte, nuove faville di luminosa genialità italiana. I  piccoli mondi che rotolano ai margini di questa battaglia  sono frammenti o scorie staccatesi, nell’urto, dal corpo  dei titani: hanno una vita effimera e quelli che precipitan-  do come valanghe trascinano nella loro scia deboli detriti  superficiali, se sopravvivono, sono sempre alimentati dal-  l'atmosfera incandescente generosa che emana il corpo che  li ha creati. Passatismo e Futurismo rimangono inamo-  vibili l'uno di fronte all'altro: impossibile conciliare il  concetto conservatore tradizionale del primo col principio  rivoluzionario rinnovatore del secondo. Chi sia il più forte  non è facile stabilite: dipende da determinate condizioni  intellettuali e spirituali di tempo. Oggi però — in que-  sto secolo fascista — più che le biblioteche e i musei si  moltiplicano scuole avanguardiste, impressioniste, raziona-  liste, novecentisie, moderniste in genere, tutte volenti o  nolenti generate dal futurismo. Volenti o nolenti: non ha    123    valore il fatto che molti sconfessano la loto origine. E'  fatale; anzi vorremmo dire storico. Probabilmente tra cin-  quant’anni il mondo fascistizzato considererà Mussolini un  utopista e ogni nazione vanterà il merito di avere instau-  rato per prima il nuovo regime politico. Di queste infa-  mie la storia è... maestra; solo dopo qualche secolo si  rende giustizia alla verità. Tornando al nostro argomento,  è fuori dubbio che Mussolini, valotizzatore delle gloriose  conquiste del passato, sprona i capaci a superarle sul tra-  guardo del più fulgido domani. Quindi il futurismo rap-  presenta infatti quell’eroica generosa pattuglia d’assalto  che trascina l’esercito degli artisti alla conquista del nuo-  vo. Questo fatto in sé eloquente e inconfondibile, unico  nella storia dell’arte, ha rapporti precisi in campo poli-  tico con la gloriosa epopea mussoliniana. L'inesauribile  ottimismo futurista si identifica così con il concetto gene-  roso originale ardito del fascismo vittorioso. Senza citare  fatti e particolari di cui sono ricchi i nostri ricordi per-  sonali, in tema « Mussolini e il futurismo » basterà ri-  cordare giacché l'occasione è opportuna queste tre date  significative: Boccioni vi  avrà detto che tutte le mie simpatie sono, anche nel  dominio dell’arte, per i novatori e i distruttori e per i  futuristi... » Mussolini. 1924: «... presente adunata futu-  rista che sintetizza vent'anni di grandi battaglie artistiche  politiche spesso consacrate col sangue. Congresso deve  essere punto di partenza non punto d'artivo... » Mussolini. ...Dopo di avere concesso il suo alto patronato per le onoranze nazionali al futurista  Boccioni, Mussolini offre il PRIMO generoso contributo ma-  teriale per il trionfo della grande rassegna dell’arte futu-  rista italiana.   A questo punto, dopo quanto abbiamo detto, ulteriori  considerazioni sono superflue come sarebbe superfluo ri-  cordare ancora una volta l'influenza patriottica esercitata  dal futurismo sulla gioventù italiana prima durante e dopo  la guerra e il fattivo isolato contributo dei futuristi al  fascismo nel 1919 (...).   Mino SOMENZ2I  (da: Sant'Elia, n. 3, anno II, 1° febbraio 1934]  Allorché quindici anni or sono, nel palazzo di Piazza  San Sepolcro, Mussolini gettò le fondamenta di quello  edificio colossale che doveva essere il Fascismo, se nel  manipolo degli intervenuti individuò degli artisti, questi  erano soltanto ed esclusivamente artisti futuristi.   Appena creati i Fasci di combattimento, i primi gruppi  che cotseto ad ingrossare le schiere che cominciavano a  formarsi furono i gruppi politici futuristi, prima, e gli  arditi di guerra e i legionari fiumani, poi, sempre per me-  rito esclusivo dei futuristi.   Il nostro Movimento diede quindi al Fascismo un  apporto qualitativo e un apporto quantitativo: inoltre die-  de alla creazione mussoliniana un conttibuto gigantesco  di fede cieca, di entusiasmo eroico.    Vogliamo indagare il perché di questa spontanea sim-  patia, di questo irresistibile trasporto del Futurismo verso  il Fascismo; il perché della meravigliosa, totalitaria cor-  rispondenza fra una cemcezione eminentemente politica ed  una concezione eminentemente artistica?    Prima di tutto, troviamo che il Fascismo e il Futu-  rismo hanno alla loro origine dei germi comuni: l’amore  disperato alla propria terra, la necessità di moto e di  azione. Dell’intervento nella grande guerra uno fece il  punto di partenza per la sognata rivalorizzazione della  patria; l’altro, lo sbocco conclusivo di quei fatti e di quel-  le idee che possono riassumersi nei tre principii futuristi:  « Tutti 1 diritti, meno quello di esser vigliacchi ». « La  parola Italia deve prevalere sulla parola libertà ». « La  puerta, sola igiene del mondo »,   Dalle piazze affollate d'Italia si passò alle trincee in-  sanguinate d'Italia: interventisti intervenuti: identico en-  tusiasmo: identici sacrifici: identica volontà di far ger-  mogliare il bene della Patria dal martirio e dalla morte  dei suoi figli.   E questa è già molto per dimostrare la straordinaria    125    affinità sentimentale, di origine e di scopi esistente tra  Fascismo e Futurismo.   Ma v'è di più. Infatti, passando dal campo delle con-  cezioni teoretiche a quello delle espressioni pratiche, noi  vediamo il Fascismo disdegnoso di adagiarsi nei ricordi  del passato, ansioso di sciogliersi dai vincoli del presente,  protesa con gli spuardi e con tutte le energie alla conqui-  sta del domani. Avanti, avanti sempre, incita il Duce;  raggiunta una mèta, mille altre se ne profilano: occorre  raggiungere anche queste: ogni sosta è un tradimento:  ogni indugio è un delitto.   Non sona questi i principii stessi cui s’informa il  Futurismo?   E il Futurismo è tutto azione e vita: nelle sue schie-  re accoglie la più bella e sana gioventù d'Italia: gioven-  tù d'anni, ma anche di spiriti.   I suoi artisti creano con la stessa generosità, con lo  stesso dispregio di ogni premio e di ogni riconoscimento,  con i quali ! nostri soldati scattavano all’assalto: loro uni-  co orgoglio, lora unica aspirazione è di poter contribuire  a che il nome d’Italia sempre più alto e sonoro e sempre  niù in estensione squilli nel mondo.   E non è Fascismo, questa?   Ma non è soltanto ciò quello che ci spiega come, fatto  mai verificatosi nella storia dell'umanità, una concezione  esclusivamente morale ed artistica abbia potuto così bene  assorbire ed assorbirsi in una concezione esclusivamente  politica e sociale   Il fatto straordinario che oggi non può non riempirci  di legittima se pur meravigliata soddisfazione, è questo:  un colosso della politica che pensa, agisce, crea, con la  ispirazione e la chiaroveggenza luminosa di un poeta: un  poeta che vive la sua arte come una battaglia politica per  la gloria della Patria sua. Né le due espressioni, fino ad  oggi antitetiche, politica e arte, s'urtano o si contrastano:  anzi si può ben dire che esse hanno così informato di sé  medesime le due personalità che concepirle in diversi at-  teggiamenti spirituali ci sarebbe impossibile.    Come spiegare questo fatto così nuovo e così fuori    126    del comune, se non riferendoci ad una forza incoerci-  bile, misteriosa, ma che tuttavia sussiste, a quella for-  za cioè che crea in alcuni privilegiati quegli speciali stati  d'animo per cui il Genio, attraverso l'adamantina lumi-  nosità di un pensiero superiore, giganteggia e s’infutura?   E’ indubbiamente questa forza contro la quale noi  nulla possiamo che fa di Mussolini un futurista della  stessa tempra di Marinetti e di Marinetti un fascista, de-  gno seguace di Mussolini.   E' sempre questa forza che avvicinando i due crea-  tori, avvicina conseguentemente le loro due creature: è  perciò che come non potrebbe comprendersi un futurismo  non fascista così non si potrebbe concepire un fascismo  conservatore e passatista.   E’ perciò ancora che i futuristi e i fascisti, se veri  ambedue, s’intende, non possono distinguersi: l’italiano  nuovo è un miscuglio — nel valore che la chimica dì  a questa parola — di fascismo e di futurismo: essi costi-  tuiscono i due elementi inscindibili e insostituibili di un  tutto organico.   Chi ha detto ai nostri giovani di chiamarsi /uturfasci-  sti? Nessuno: eppure essi, generalmente, così amano de-  finirsi. Inconscio, spontaneo riconoscimento di una gran-  de verità che non può discutersi e non si distrugge.   Come altrettanto vero è che i fascisti autentici sono  ottimi futuristi. e non potrebbe essere diversamente data  l'essenza dinamica, generosa, novatrice, ottimista nella  quale il Duce vuole plasmati i nuovi italiani.   Ma come avviene, allora, che anche tra i fascisti sono  molti i contrati al Futurismo?   Perché molti sono i rimrorchiati che pur vestendo in  camicia nera e ostentando il distintivo, parlando (e pur-  troppo parlando solo) fascisticamente e mettendosi sem-  pre in prima fila nei cortei, han tuttavia conservato l’ani-  ma italiana di anteguerra, pavida, gretta, piccina.   Molti altri poi, pur sentendo nel loro intimo tutto  ciò che di bello e di buono ha il Futurismo, per un sen-  so invincibile di borghesisma, per timore di essere ridicolizzati e per desiderio di essere tenuti e rispettati quali  persone serie, dicono e non dicono, ammettono e smen-  tiscono, concedono e negano, opportunisti rammolliti, bor-  ghesi, vigliacchi.   Ma ciò che prima o poi capiterà a costoro, che noi  sentiamo di odiare profondamente, molta ma molto di  più dei nemici nostri aperti e leali, che almeno rispet-  tiamo, lo ha detto chiaramente il Duce nel suo recente  magnifico discorso all'Assemblea quinquennale. Per essi  non si tratta né di Fascismo né di Futurismo: si tratta di  vigliaccheria, e basta. Non han diritto neppure a chiamarsi  italiani.   Né escludiamo da questa ignominiosa schiera quei gio-  vani d'anni che han conservato intatta l’anima dei bisa-  voli: che gridano doversi l’arte rinnovare e si impuntano  come muli riottosi dinanzi al futurismo: che accettano e  sì prosternano ad ogni novità che ci proviene d'oltre  confine, anche se figlia di genitori futuristi italiani, e  fanno i disdegnosi, gl’incontentabili, i superuomini verso  il nostro movimento che gli stranieri stessi ammirano co-  me un’altra delle tante glorie italiane.    Anche questi così detti giovani non possono e non po-  tranno mai essere fascisti sul serio, giacché essi non  hanno del Fascismo né compreso né assimilato quelle ca-  ratteristiche di spiccato futurismo che sono il rinnovamen-  to, la velocità, il dinamismo, il continuo superarsi, la mat  cia ininterrotta verso la perenne conquista.    E lo stesso diciamo di quei critici che si fermano a  vivisezionare un'opera d’arte, isolandola dal vasto am-  biente donde essa ttae la sua ragione di vita; che fanno  l'anatomia di un nostro artista senza riflettere che esso è  soltanto un membro di un corpo gigantesco. Essi dimo-  strano di aver perduto o di non aver mai posseduto quella  somma virtù latina, fascista e futurista insieme, che è la  virtù della sintesi soffocata in loro dalla fredda pesantez-  za anglo-sassone dell’analisi. Ma costoro sono i compri-  matii, le comparse della nostra vita e abbiamo di già  concesso loro troppo onore di discussione.    Su tutto e su tutti restano le idee: nel campo politi    128    co-sociale, l'idea fascista; nel campo artistico-spirituale.  l’idea futurista.   Ambedue han detto al loro mondo una parola non an-  corta udita; ambedue hanno tracciato, ognuna nei propri  confini, la via nuova da seguire per giungere alla salvezza:  tanto l’una che l’altra si sono dimostrate possenti dina-  mo, generatrici di forza, di fiducia in noi stessi, dì ottimi-  smo. di passione, di entusiasmo.   L'una, nel campo politico, ha raccolto infiniti proseliti  ovunque, e ciò in relazione ai numerosi problemi d’indole  contingente di cui ha trovato o propone le soluzioni; l'al-  tra, nel campo più ristretto dell'arte, ha egualmente susci-  tato energie, ridestato gli addormentati, incitato i pigri,  rincuorato i pavidi, persuaso i dubbiosi.   Se qui dovesse attestarsi l’opera vitale sia dell'una  che dell'altra idea, già tutti i diritti esse avrebbero acqui-  stati per l'imperitura riconoscenza della civiltà.   Ma ambedue continuano nella loro marcia ascensio-  nale: e i critici che affermano essere il Futurismo supe-  rato ci fan lo stesso effetto di quei pochi e sparuti anti.  fascisti che affermano aver il Fascismo esaurito il suo  compito.   Idee come queste nostre non possono né sostare, né  esaurirsi, né esser superate: la loro essenza stessa di con-  tinua marcia, di continua ascesa, di continua conquista  non lo permette.   Un uomo, a idea, una opera potranno esser supe-  rati: ma non l'Uomo, non l’idea, non l’opera.   Ed ora che conclusione trarremo dalla dimostrata iden-  tica struttura spirituale del Fascismo e del Futurismo, dal-  la dimostrata perfetta corresponsione fra loro di scopi e  d’intenti?   La conclusione è la solita: ripetiamo ancora una volta  e confermiamo che il solo artista capace di riprodurre in  tutta la sua ampiezza, in tutta la sua luce e in tutta la  sua gloria la vita nuova dell’Italia di Mussolini è l'artista  futurista e che il Futurismo è la sola espressione d'arte  degna e capace di tramandare ai posteti la vitalità, la po-  tenza, la dinamicità dell’éra fascista. Questo diritto che noi accampiamo ci proviene da quel-  l'identità di spirito, di tendenze, di sensibilità che fa del  Fascismo e del Futurismo un unico, perfetto blocco e che  nessuna scuola, nessuna tendenza, nessun'altra forma di  arte può vantare   E noi teniama al riconoscimento di questo nostro di-  ritto: non perché ci spingano meschini interessi o poco  nobili ambizioni ma perché, forti di un infinito amore per  la patria nostra e di una dedizione cosciente e completa  di tutta la nostra spiritualità alla sovrumana potenza di  un'idea, al fascino gigantesco di un Genio universale, vo.  gliamo che non abbia soste il cammino trionfale che l’Ita-  lia rinnovata sta compiendo verso le sue più alte mète,  sotto il comando romano di Benito Mussolini.    FuTURISMO  [da Sant'Elia, n 64, anna III 4 aprile 1934]  La polemica accesasi negli Anni Trenta tra futuristi  rivoluzionari e futuristi sostanziali o di destra, è già  espressione di quel «secondo futurismo», che abbia  mo visto e detto essere momento collaterale del fa-  scismo-regime. O tentativo piuttosto di conservare la  avanguardia nell'ambito di un sistema che come tale  era più propenso ad un suo ordine intrinseco e im-  prescindibile da mantenere 0 da continuare. In questo  senso il futurismo «di destra», come lo definisce il  sansepolcrista Bruno Corra nel marzo del ‘32 su Fu-  turismo, vorrebbe un po’ essere quello degli « arri.  vati », di chi si asside sulle comode poltrone della  fine della carriera, pur cercando di mantenere uno  Spirito 4 precedente », giovanile e innovatore, che non  può essere venuto meno in chi ha giù combattuto e  si è esposto per una causa di rinnovamento. Gli fa  eco Corrado Gawvoni riprendendo il discorso e pun-  tualizzando il concetto stesso di futurismo, senza che  gli si debba o gli si voglia nulla rubare, come è staio  fatto da tutte le parti, e a riconoscergli invece la sua  portata e i suoi risultati.   Solo una settimana dopo ribatte Paolo Buzzi sul  numero del 26 marzo sempre di Futurismo con un  violento attacco ai «futuristi di destra » e il sostegno  4 un ritorno alle estrema sinistra », come già dice nel  titolo. L'’avanguardia, in quanto avanguardia e se vuol  rimanere avanguardia, non può che esercitare una  funzione di vottura per il rinnovamento ed il rivolgi-  meuto del vecchio e del passato. Come tale l'aver  guardia non può che essere e rimanere di « estrema  sinistra », sC il futurisito si ritiene ancora uvangaar  dia 0 vuole mantenersi e vivere. Resta però forse una  voce isolata quella del Buzzi, rincalzato ancora il 2  aprile, sul numero della settimana dopo, da Remo  Chiti che postula un futurismo sostanziale in cui tutto  si annulla, destra e sinistra, nel momento stesso in  cuni tt futurismo diviene ercativo e vu libera dvi con-  formismi e delle convenzioni.   Ancora «all'Avanguardia » dedicava un quinto ed  ultimo articolo Luciano Folgore, sempre su Futurismo  dello stesso anno (1933). Il futurismo di destra e  quello di sinistra st superano oramai nell'avanguardia  che ancora continua e sì muove nell'avanzata dell'en-  tusiasnio. E l'ottintismo continua in effetti fino al’ul-  timo, anche con la fine del fascismo, anche con la  morte di Marinetti, anche con la sconfitta nella guerra  « sola igiene del mondo », continua ancora nelle ulti  me gencrazioni e nel messaggio dell'ultimo manifesto,  quello del «futurismo-oggi », che vive e crea nel pre  sente.    NOI FUTURISTI DI DESTRA    Quando si riunirà in Roma il primo grande congresso  dei futuristi di tutto il mondo, io andrò a sedermi —  vicino a Buzzi, a Notari, a Folgore, a Govoni — ad un  banco dell’estrema destra. Ma esiste dunque, può esiste-  te un Futurismo di destra? I due termini non fanno a  pugni? Un movimento rivoluzionario può contenere in sé  tendenze conservative? E, infine, l’espressione « futuri-  sta di destra» non val quanto « futurista annacquato e  prudente » non s'identifica con l’ambigua parola « nove-  centista »?   Mi pare che qui si tratti, prima di tutto, di una que-  stione di moralità. Dare al Futurismo quel che al Futuri  smo appartiene: e non truccare il proprio ingegno con una  etichetta di convenienza. Chi si dichiara avanguardista ma  non futurista, sputa nel piatto dove ha mangiato. Poi, io  stabilirei questo principio: che il privilegio di poter restare  nella sfera magnetica del Futurismo pure affermando, nel-  la propria opera matura un remperamento realizzatore di  destra debba accordarsi soltanto a coloro che han dimo-  strato di saper essere « integralmente » futuristi. E recla-  merei il diritto di sedermi a destra, per mio conto, in no-  me della mia effettiva collaborazione al Futurismo più ri-  voluzionario: Teatro Sintetico; Cinema futurista; e due  opete di audacissima narrazione fututista (La donna ce  duta dal cieln — Sam Dunn è morto).   In realtà, fermo restando che l’essenza del Futurismo  è e non può non essere rivoluzionaria, bisogna dire che  nel nostro movimento i termini sinistra e destra non si  oppongono, perdono ciaè il loro significato convenzionale.  La mentalità futurista supera il contrasto fra il sovverti-  mento e la conservazione, in quanto si libera di continuo  in uno slancio creativa. Perciò un eventuale Congresso fu-  turista dovrebbe assumere una configurazione non oriz-  zontale ma verticale: fututisti di cima e futuristi di base,    133    aviazione e fanteria. E soltanto per ragioni di comodo, io  qui mi son servito della parola destra.   Ma diciamo pure i fanti, i pontieri, i costruttori di stra-  de del Futurismo, e avremo indicato il carattere e spiega-  to la necessità di questo settore nel nostro movimento:  l'aderenza al terreno pratico. Come l'architettura, come la  decorazione, l’arte narrativa adempie a una funzione in  gran parte pratica: da ciò l'obbligo per essa di equili-  brarsi tra il dovere del rinnovamento artistico e l’impe-  rativo degli scopi vitali ai quali la sua natura la destina.  Un romanzo illeggibile equivale a una casa senza finestre  per vederci o a una stazione dove i treni non possono cir-  colare. Ora il Futurismo vanta la proptia aderenza al tem-  po attuale anche nel senso della praticità. Le case futuriste  vogliono essere le più comode: la struttura delle città futu-  riste mira ad assicurare i massimi vantaggi alle moltitudi-  ni che devono abitarle. Allo stesso modo il narratore fu-  turista ambisce di garbare alle folle dei giovani, traendone  e in esse trasfondendo gli ideali tipici del nostro tempo,  per via di una tecnica intonata alla sensibilità moderna,  tutta nitidezza brevità sintetismo. Va da sé che il buon  narratore futurista dovrà ogni tanto lasciare la sua bisogna  terrestre, per collaudare ed eccitare nell’ebbrezza di un  volo lirico la propria tempra di novatore. Questa nota velo-  ce non intende di risolvere l'importante problema al qua-  le si riferisce: ma soltanto di proporre lo studio ai came-  rati futuristi.   Bruno CorRrA  Sansepolcrista  [da: Futurismo -- Con il suo articolo « Noi futuristi di destra » uscito  nell'ultimo numero di Futurismo, Bruno Corra ha oppor-  tunamente aperto una tempestiva discussione intorno al  movimento futurista che, secondo me, va allargata e approfondita da una serie di perentorie domande — argo-  menti che, investendone in pieno la vita e la vitalità, ri-  chiedono altrettante risposte urgenti e risolutive,   Quali sono le origini e le funzioni del movimento fu-  turista in Italia.   Quanti e quali sono i movimenti artistici e letterari  succedntisi in questi ultimi venti anni in Europa, che  accusano sinceramente una netta derivazione dal Futu-  rismo.   Individuazione dei movimenti artistici e letterari che  rappresentano una deviazione e una contraffazione del  Futurismo e dei movimenti che, o fingendo d’ignorarlo,  o ammettendolo furbescamente solo attraverso la propria  attenuazione, continuano a pompargli generoso sangue e  a servirsene di veicolo sull’allegro esempio della comoda  simbiosi di Bernardo l’Eremita.   Quali sono Je vere umane ragioni per cui elementi  di primissimo ordine si dispersero e si distaccarono dal  movimento futurista dopo averne fatto parte, o. dopo aver-  ne attraversata l’esperienza (cito alcuni nomi: Palazzeschi  e Carrà; Soffici e Papini).   In che cosa consista e came vada intesa il cosidetto  « contenuto polemico » che, seconda certa critica nostra-  na, costituirebbe il peso morto e il punto d'arresto del  Fututismo.   Quale fondamento abbia l'accusa spesso rivolta al Fu-  tutismo di essere un movimento difettoso e caduco per-  ché nato senza una dottrina estetica che lo giustifichi.   Espansione influenza e fortune del Futurismo in tut-  to il mondo e suo riconoscimento in Italia.   Sono tutte domande che hanno bisogno per una con-  veniente risposta, di lunghe e minuziose trattazioni.   Ed è più che naturale e logica la irresistibile tendenza  dei nostri connazionali a sbarazzarsene con una sola pa-  rola.   Questa parola la conosciamo troppo bene: Marinetti!   Ma conosciamo troppo bene anche il grossolano  trucco,    Si accarezza Marinetti (fino ad un certo punto, e il più nascostamente che sia possibile: è bene non compro-  mettersi troppo!), per negare poi il Futurismo e massacra-  re i futuristi.   Da troppo tempo si pratica ormai l'iniquo inganno  per non sperare che abbia finalmente a fruttare un ri-  sultato vittorioso e definitivo!   E’ il trucco indegno tentato dagli antifascisti contro  il fascismo quando si cercava di mettere in mora il fa-  scismo proclamando il Mussolinisma, nell’assurda cana-  gliesca mira di dividerli, per batterli poi con più comada  separatamente.   Mussolini anche a quei tempi era trappo Duce per  non avvertire la subdola insidia e sventarla.   Marinetti! Chi più di noi l’ha più fedelmente amato  ed ammirato?   Per conoscere quali prodigiosi tesori di amore e di  energia egli possieda, bisogna vederlo all'estero. Bisogna  sentire allora con che fuoco egli è capace di affrontare  i pubblici più paurosi per numero e distinzione, più ostili  ad ogni cosa che abbia la nostra impronta di quanto non  st creda, e per mentalità, per gelosia e furore d'inferiorità;  bisogna sentirlo dominare a poco a poco col suo impeto  irresistibile gli spiriti o avversi o diffidenti, e, mentre  fa giganteggiare nelle assemblee stipate l’ombra magnani-  ma del Duce, vederlo a trascinarle all’'entusiasmo e co-  stringerle a riconoscere la poesia italiana come una cosa  caduta dal cielo: bisogna, dico, vedere quest'Uomo straor-  dinario all’estero, per capire che instancabile affascinante  ambasciatore d'italianità nel mondo noi abbiamo in lui.   Se l’attività di Marinetti presenta una debolezza, que-  sto avviene proprio in casa nostra. E' una debolezza che  è forse il suo più alto titolo di gloria. E ritorneremo sul-  l'argomento.   Ma approfitrarsene come troppi fanno, è un mostruo-  so delitto.   Che cosa volete allora?, ci domanderà qualche impru-  dente con un sorriso allusivo.   No, no, non invidiamo il puzzo di benzina, state tran-  quilli: a questo volevate alludere. Ma troppe volte ricevia-    136    mo in faccia la cenciata dell'insolente puzzo di benzina  per non sentirci offesi e disgustati nella nostra rassegnata  povertà.   La ragione del nostro malcontento è che da troppo  tempo noi andiamo seminando e falciando per quelli che  ci seguono e allegramente raccolgono senza nemmeno ri-  volgerci un pensiero di ringraziamento.   Amici cari, se ci fermassimo un po’, se ci voltassimo  un pochino indietro anche noi? Se pensassimo anche noi  di raccogliere un pugno di quelle spighe, da portarcele a  casa se non altro per ricordo e testimonianza della lunga  fatica compiuta?   Ma se lasciamo ancora correre un poco, ho paura che  ci negheranno anche questo piccolo premio di consolazio-  ne; e se ci destineranno un posto {bontà loro!), questo  non sarà che per il museo, tra le mummie di coloro che  st prodigarono e sactificarono per una fede e un ideale  e che Alfredo Panzini già propose di raggruppate in una  sola classifica con la denominazione di collezione di fessi...    CorRrADO GovonI  [da: Futwrismo,  ESTREMA SINISTRA    E non vorrei altro aggiungere. Le distinzioni, «i pun-  ti fermi», Îe categorie anagrafiche non contano. Si sa  che, per taluni, l'età del « destino » futurista è passata da  un pezzo. Pure, quando la febbre della creazione non è  discesa e, soprattutto, quando il traguardo tremendamente  astrale della proptia Opera non è raggiunto, ci si sente,  ogni mattina, l'età — magari — di Vittoria, di Ala e di  Luce Marinetti...! Questo, e non altro, è il vero futurismo.  Perché dovrei sedermi a destra, proprio io? Mi sembre-  rebbe di tradire la causa di « Aeroplani », di « Ellisse €  la Spirale », di « Cavalcata delle vertigini », di « Popolo  canta così! » di « Dannazioni » e di tutto il mio Teatro  inedito, ma ultra violetto, che ha forse, a suo tempo, spa-  ventato anche i genii scenici sovversivi di Petrolini e di  Bragaglia.   Soprattutto, mi sembrerebbe di tradite le mie Opere  fantasticamente audaci di domani: « Beatitudini »  (affret-  tati mio caro Campitelli: perché l'aeroplano-razzo deve  partire per le stelle!). « Canto quotidiano », dove vedrete  il Poema attimistico del 1932 (la « Prora », lo sta stam-  pando); e «Nostra Signora degli Abissi »: dove, fina]  mente, la Motte sarà vinta e le onde cosmiche impaste-  ranno da pari loro la nuova genesi delle radiazioni inter-  planetari.    Questo è futurismo: e di ultra estrema sinistra.    Le mie anatomie sintetiche di anime e di sensi, le mie  aeropitture di tipi e di paesaggi, i miei cosmapolitismi spa-  ziali e i miei intimismi vorticosi stanno per una intransi-  genza etico estetica che costituisce, ormai, la gioia (ed, un  pochino, anche la gloria) della mia lunga carriera di uomo  che ha sempre fatto dell'Arte come il sacerdote celebra  messa. Aviatore sempre, adunque: fante e stradino, non  mai. Lo so che i miei romanzi (appunto perché sempre ed  esclusivamente poemi) non hanno trovato che editori san-  ti, martiri ed eroi. Ma anche questo è un segno nobile del-  le cose e degli uomini e degli eventi. In quanto alle mie  opere di Poesia pura, ho avuto la soddisfazione recente di  trovarmele analizzate e comprese e discusse ed evidente-  mente — quindi — amate da una Rivista di giovanissime  menti e di ardentissimi cuori: dico, la « Penna dei Ragaz-  zi » diretta da Vittorio Mussolini, edita in Roma.   I giovani, quelli veramente degni di questo nome pri-  maverile, sanno che, al di fuori e al di sopra d’ogni inevi-  tabile chiasso letterario, la parola « futurismo » risponde  alla solo unica vera «idea forza» che oggi esista nella  sfera ideale del Mondo: e che è in grazia di essa, unica-  mente di essa, se oggi la Poesia della miracolosa Italia  fascista vive e vivrà.   Naturalmente io dico ai giovani, anche e specie se    138    coronati dal casco d'alluminio in pieno cielo: « lavorate »  non accontentatevi di quattro parole intonate all’onoma-  topea del motore: la Poesia italiana ha ben altri diritti ed  impone ben altri doveri! guardate dalle finestre di Palazzo  Venezia, la Via dell'Impero! e cantate i nuovi « Carmi de-  gli Augusti e dei Consolari », se ne siete capaci! Il Duce  vi premierà.  PaoLo BUZZI  [da: Futurismo,  FUTURISMO SOSTANZIALE    « Non c’è che un futurismo: quello di estrema si-  nistra », ha affermato Paolo Buzzi. Ma questa generosa  intransigenza che parrebbe volere ammettere un unico  modo di manifestarsi — contro la premessa di Bruno Cor-  ra circa il riconoscimento o meno d'un futurismo di destra  « aderente al terreno pratico » — rimane una questione  poetica e individuale di fronte agli argomenti che le ter-  ranno dappresso:    1) Il futurismo non è formalista; non si crea né  si lascia creare barriere dalle definizioni; pago della pro-  pria influenza, lontano da ripulse d’ortodossia vendicati-  va, riconosce per suo anche quello che è tale sull’altro  name.   Del resto Corra aveva scritto: « fermo restando che  l’essenza del futurismo è e non può non essere rivolu-  zionaria, bisogna dire che nel nostro Movimento i termi-  ni sinistra e destra non sì oppongono, perdono cioè il loro  significato convenzionale. La mentalità futurista supera  il contrasto fra il sovvertimento e la conservazione, in  quanto si libera di continuo in uno slancio creativo ». Le centinaia di migliaia di aderenti al Movimen-  to non si compongono di un solo tipo di futurista. La convinzione può essere unica; ma l'ispirazione e i tem-  peramenti saranno naturalmente diversi. Così uno stesso  tema, di sentimento futurista, verrà espresso in stili di-  versi.   Si dovrebbe scartare i meno intensi? Fino a quel pun-  to? E come negarne la sostanza futurista?    3) La varietà di tipi, che documenta l’importanza  sociale del fenomeno futurista, è assoluta; e va dai poeti  ai militari, dai pittori agli industriali, ecc.   Bisogna presupporne quindi una gradazione di realiz.  zatori; gradazione intimamente connessa alle diverse si.  tuazioni ambientali o tecniche in cui i tipi si trovano. Non  si tratta qui di temperamento o di mentalità più o meno  ardenti. Si tratta di concezione e di azione che devono  spesso basarsi sul comune « campo pratico » dove s'in-  contrano il numero o la psicologia, cioè i mezzi materiali  negli scambi del pensiero e del lavoro (p. e, i giornalisti,  gl'ingegneri).   Io penso che Marinetti, quando parla nei convegni e  alle inaugurazioni, faccia — con istintiva attenuazione del-  la sua anima inquieta — del futurismo di destra. Perché  allora è sul terreno « pratico ».   E buon testimone potrebbe esserci Mino Somenzi stes-  so, uomo ardito, pittore d'incendi, cervello intransigente,  che pure fu l'organizzatore, modesto e alacre del I. Con-  gresso futurista a Milano, 1924, riuscendo con l'intelli-  gente accoglienza a dare alla manifestazione una luce  di concordia, rara nelle ancor più rare grandi adunate di  artisti e di caratteri spiccatissimi; Somenzi stesso che fon-  dò questo giornale indispensabile alle rivendicazioni di con-  quiste artistiche e ideali misconosciute ed alla continua-  zione della tenace opera di ringiovanimento, ed accolse  dopo, con larghezza d'intenti, l'ingegno d'ogni età e d'ogni  fama purché attratto da poli positivi.   Dunque, se si dovesse affermare l'essenza d’un solo  futurismo bisognerebbe dire: « futurismo sostanziale », che  è poi quello del 1909, di oggi e dell'avvenire: umano, illi-  mitato, ascendente.   Le idee vitali sono al disopra degli stessi uomini che le divinano e le dettano. Esse formano il « tempo », mi.  racolosamente, quasi contro tutte le volontà.    Corrado Govoni, a seguito della discussione aperta da  Bruno Corra, proponeva di riesaminare la posizione del  tuturismo fra le correnti nostrane ed estere. Dei sette que-  siti presentati, una richiamava l’attenzione su l'accusa mos-  sa dal culturalismo circa una pretesa assenza di dottrina  giustificante l'estetica futurista.    Anche il Fascismo fu accusato di assenza di dottrina: -  e non dai soli avversari.    Quale dottrina, quando la critica ufficiale vede attra-  verso la cultura, divenuta una seconda natura?    Remo CHITI  (da: Faturismo, n. 30, anno II, 2 aprile 1933] Mi ricordo che Umberto Boccioni propendeva per un  movimento chiuso e voleva che i giovani artisti, i quali  si dichiatavano futuristi e aspitavano ad entrare nel nostro  gruppo, subissero un lungo periodo di quarantena.   Secondo Boccioni non bastava proclamarsi novatore  per esserlo, in realtà; non era sufficiente una adesione più  o meno entusiastica per avere ingresso libero in un mo-  vimento che si proponeva di attuare nell'arte e nella vita  un nuovo ordine di cose.    Dal suo punto di vista, puramente artistico, il crea-  tore del « dinamismo plastico » non aveva torto. Il dono  della originalità non è largito che a pochi. Per superare  il già fatto, mettersi in armonia coi propri tempi e pre-  vedere i lineamenti estetici del futuro occorre un’intelli-  genza ardita, geniale e di largo respiro.    Ma contro l’esclusivismo boccioniano insorgeva la vi    141    brante liberalità di Marinetti, che più futurista di ogni  altro intuiva la necessità di creare un clima, di generaliz-  zare una tendenza, di suscitare una vasta atmosfera spiri-  tuale in cui si dovessero respirare continuamente il senso  e il desiderio della novità.   Ecco la ragione profonda del suo proselitismo, della  sua accettazione, quasi incondizionata nel movimento, di  tutti quei giovani e giovanissimi che avessero fede nel  futurismo.   Tale generosità non fu e non sarà mai faciloneria.   Nel fervore del diciottenne c'è sempre qualcosa di vivo  e di sacro che è impossibile trascurare. Ognuno di noi  sa per esperienza che è la primavera, anche con le sue  intemperanze, la stagione che prepara i germi e i frutti di  domani. E non bisogna aver paura che gli entusiasmi sbol-  liscano presto. Basta che la fiaccola timanga accesa e che  trascorra di mano in mano agitata e sollevata continua-  mente da qualcuno che ha fiducia nell’eterna giovinezza  della nostra arte e della nostra vita.   Futurismo di destra? Futurismo di sinistra? Non cre-  do che sia il caso di parlarne. In quanto alle benemerenze  e al sacrifici, talvolta eroici, dei primi banditori del futu-  tismo essi appartengono ormai alla storia.   L'amico Govoni vorrebbe che i futuristi della vigilia  fossero promossi al grado di santoni e avessero quel tribu-  to di applausi e di ricompense che essi giustamente meri-  tano. Ma ciò equivarrebbe a una giubilazione e noi ri-  schieremmo di diventare dei sopravvissuti.   Il piedistallo e l’altare non sono il nostro posto di  combattimento.   In prima linea sempre e all'avanguardia ad ogni co-  sto! Anche a costo di essere eternamente in contrasto con  il gusto del pubblico che è per sua natura ritardatario e  accetta soltanto il futurismo di seconda mano, addomesti-  cato dagli abili profittatori del nostro movimento.   Questo disprezzo del rendiconto e del caso personale,  questa ferma volontà di essere più giovani dei giovani è  un segno di vitalità e quindi di ottimismo. Di quell’otti-  mismo che molti pseudo-avanguardisti aborrono perché so-    142    no nati con la barba nel cervello, non hanno avuto mai  vent'anni e non arrivano a comprendere che soltanto nel-  l'entusiasmo assoluto e nella fede cosciente ma senza mez-  zi termini c'è il lievito di ogni grandezza futura e d’ogni  poesia nuova. Chi ha il torcicollo nostalgico non può guar-  dare dititto innanzi a sé e andare oltre speditamente.   Chi nega l'ottimismo nega lo slancio vitale che si per-  petua nel tempo e nello spazio perché ricco di speranze  istintive e fornito da madre natura del vero e genvino  senso dell'immortalità.   Avanti dunque coi giovani e giovanissimi. Il clima fu-  turista dev’essere sopratttuto un clima primaverile e  acerbo.   Luciano FOLGORE  [da: Futurismo, -- Abbiamo raccolto quattro testimonianze futuriste, è  sul futurismo. Una è di Alberto Sartoris, architetto,  una di Tullio Crali, pittore, una di Curto Belloli, eri-  tico d'arte, e una di Enzo Benedetto, pittore e giorna-  lista. Tre furono e sono futuristi: il quarto (Carlo Bel.  loli) è un esperto, studioso ed interprete del futurismo.  Ci sono sembrati interventi significativi e ittdispensa-  bili alla puntualizzazione dell'argomento, visto che si  tratta di personaggi viventi, che hanno partecipato al  futurismo e che ancora oggi lo sostengono e cercano  di dargli alito o di vivere futuristicamente a tutt'oggi  in un mondo, forse, ricaduto nel « passatismo ». Crali  con l'aeropittura e la sassintesi ha continuato l'avan-  guardia, cui aveva aderito col futurismo che sempre  l'aveva sostenuta, al di qua e al di là del fascismo.  Benedetto con un manifesto {Futurismo oggi) e poi    con un foglio periodico «operativo », capace di pro  porci il futurismo di ieri e anche quello di oggi. Sar  toris con un'ottività artistica professionale volta 4 con-  timuare, anche se in oltre direzioni n con altri strumen-  ti di vicerca, la prima avanguardia cui aveva aderito  entusiasta. Belloli puntualizza e sancisce criticamente  con la profondità dell’evperto certi. rapporti e certe  « colleganze », troppo spesso volutamente dimenticate 0  accantonate. La critica deve essere seria e intellettual.  mente, n «ideologicamente », corretta. E° quello che  abbiamo cercato di fare. Anche con la pubblicazione  di questo testimonianze    Carlo Belloli, critico, poeza « visuale » di sperimen  tazione futurista, e docente nelle università svizzere di  estetica {Basilca) e storia della critica d'arte (Strasbur-  go) Nato nel 1922, vive a Milano e Basilea. E' colla  boratore de La Martinella di Milano, già del Roma di  Napoli, e della rivista Les Arts di Parigi Organizza  come consulente le mostre di numerose gallerie d'arte    di Milano.    Enzo Benedetto, pittore e scrittore, futurista « da  sempre » (1923). E' nato a Reggio Calabria nel 1905,  vive a Roma, dove ha lo studio e pubblica Futurismo  aggi, che esce dal ‘69, bimestralmente, con saggi e ri  produzioni di opere futuriste. Fu anche autore del  l'omonimo manifesto nel dopoguerra (1967).    ‘Tullio Crali, pittore futurista e aeropittore. E' nato  nel 1910 a Igalo, in Dalmazia. Vive a Milano dove ha  lo studio e il più importante archivio del futurismo  attualmente esistente. Futurista dal '29 e creatore della  camicia anticravatta e della giacca antibavero (nel '33),  é firmatario nel ‘58 del manifesto futurista sulla « Sas-  sintesi ». Sarà uno degli ultimi a vedere Marinetti nel  ‘4d, prima della morte, a Venezia e e concordare can  lui la continuità del futurismo dapo la guerra    Alberto Sartoris, architeito e professore dll'Univer  sità di Losanna. Futurista e amico di Terragm e di Le  Corbusier, E' nato a Torino nel 1901. Vive a Cossonay  Ville, vicino a Losanna, Aderì al futurismo nel 1920 e  nel ‘28 sarà con Prampolini e Fillia nel gruppo torinese.  Nel ’36 fonda il gruppo degli astrattisti a Como, dove  collabora con Terragni nel progetto della città operaia  di Rebbio. ('39-40). Sua opera fondamentale è il li  bro Gli elementi dell’architettura funzionale (1932),  pilastro teorico del razionalismo architettonico italiano  (introdotto da Le Corbusier)    FUTURISMO-FASCISMO:  OSMOSI DI DUE MOVIMENTI DELL'ITALIA  CONTEMPORANEA    Dal futurismo confluirono al fascismo, o viceversa, al-  cuni letterati e pittori, qualche pensatore, di singolare auto-  nomia espressiva.   E' il caso di Mario Carli, Emilio Settimelli ed Arman-  do Mazza letterati e giornalisti di non trascurabile inci-  denza che dalla originaria militanza futurista estrassero  dialettica, argomentazioni autonome e maturazione spiri-  tuale, per assumere nel giornalismo fascista più avanzato  ruoli protagonisti.   Mario Carli, ufficiale degli Arditi nella prima guerra  mondiale e poi legionario fiumano, fondò con F.T. Ma-  rinetti l'Associazione degli Arditi d’Italia e il periodico  Roma Futurista dalle cui colonne trovarono sistematica  divulgazione il teatro sintetico, le pratiche parolibere dei  poeti futuristi e le prime prove versoliberiste di Giuseppe  Bottai che ne fu redattore.   In quel 1919 anche il generale Luigi Capello si avvi-  cinerà ai futuristi per esporre alcune tavole parolibere di  accertata ingegnosità, alla « Grande Esposizione Naziona-  le Futurista » nella galleria centrale d'arte di Palazzo Co-  va a Milano, mostra successivamente presentata a Firenze  e a Genova.   Mario Carli con la raccolta di versi liberi e parole  in libertà Caproni, pubblicata a Milano nel 1925, precorse  l’aeropoesia futurista degli Anni Trenta.    Alla prosa poetica, Carli, aveva dedicato Le notti fil-  trate, singolare repertorio lirico pubblicato nel 1918 e ri-  stampato a Roma, nel 1923 per i tipi di Giorgio Berlutti  che dirigerà quella Libreria del Littorio, editrice di mo:  numenti e documenti dell'era fascista. Il suo debutto di  prosatore era avvenuto nel 1909 con un seguito di novel-  le, Seduzioni, cui seguirà, nel 1915, il suo primo romanzo, Retroscena. All’attività letteraria e giornalistica Mario  Carli alternerà quella politica e diplomatica.    Nel 1926 pubblicherà a Firenze Fascismo Intransigente,  con prefazione di Roberto Farinacci, che inaugurerà la ten-  denza più oltranzista del fascismo.   Nel 1925 Carli era stato nominato Console d’Italia  in Brasile, per essere in seguito trasferito a Porto Alegre  nel 1927, anno in cui Bernardo Attolico assumerà la reg-  genza dell'Ambasciata d’Italia a Rio de Janeiro.   La tournée brasiliana del fondatore del futurismo a  Rio de Janeiro, Porto Alegre, San Paolo e Santos, nel  maggio del 1926, troverà Mario Carli a fianco di Mari-  netti per arginare le polemiche causate in Brasile dalla  aperta posizione fascista dell’inventore delle parole in li  bertà.   Dalla ribalta dei teatri brasiliani Carli prenderà la  parola con Marinetti ricordando che il fascismo dei-futu-  risti non aveva impedito di condurre ricerche nuove nelle  arti e nell'estetica alle quali la poetica futurista aveva  aperto liberi orizzonti precisamente influenzando il « mo-  dernismo » sudamericano.   Emilio Settimelli, poeta, scrittore di teatro e giorna-  lista, aveva debuttato nel gruppo futurista toscano nel  1915 e con F.T. Marinetti e Bruno Corra aveva curato  la prima antologia del Teatro Sintetico Futurista, edita da  Umberto Notati, a Milano in quel medesimo anno, nella  collezione dei « Breviari Intellettuali » del suo Istituto  Editoriale Italiano.   Nel 1917 Settimelli pubblicherà a Firenze Maschera-  te e, nel 1918, I capricci della Duchessa Pallore, edito a  Milano dalle Messaggerie Italiane. Settimelli risulta pre-  cursote di un periodare scarno e telegrafico, serrato e dia-  lettico, inttoducendo la pratica di neologismi sociopolitici  che avranno fortuna nel linguaggio governativo e giorna-  listico italiano degli Anni Venti e Trenta. Il teatro sin-  tetico di Settimelli si differenzia da quello degli altri auto-  ri futuristi per lucida imprevedibilità di azioni-stati d’ani-  mo simultanei. Nel fascismo anche Settimelli appartenne  alla corrente più revisionista e le sue Sassate, pubblicate    148    a Roma-Firenze nel 1926 dalla Casa Editrice Italiana, col:  piranno più di un gerarca in posizione moderata e con-  formista.   Filippo Tommaso Marinetti redigerà nel 1921 con Emi-  lio Settimelli e Mario Carli il manifesto Che cos'è il Futu-  rismo | Nozioni elementari, dove vengono considerati « fu-  turisti nella politica » coloro che amano il progresso del-  l'Italia più di loro stessi, quelli che vorranno liberare  l'Italia dal papato, dalla monarchia, dal senato, dal parla-  mento, dal matrimonio, precorrendo molti, successivi, pro-  positi del fascismo.   Così la volontà di perseguire un governo tecnico di  giovani, senza parlamento, « vivificato da un consiglio ec-  citatorio di giovanissimi », la determinazione di « espro-  priare gradualmente tutte le terre incolte e malcoltivate,  preparando la distribuzione della terra ai suoi lavoratori »  e l'abolizione di ogni forma di parassitisma burocratico,  industriale e capitalistico, diventeranno tipicamente na-  zionalfasciste e fasciorepubblicane.   Il manifesto considera, poi, « futurista nella vita » chi  « sa dare a tempo un cazzotto e uno schiaffo decisivo »,  chi « agisce con energia pronta e non esita per vigliacche-  ria », come chi « fra due decisioni da prendere preferisce  la più generosa e la più audace, sempre che sia legata al  maggiore perfezionamento e sviluppo dell'individuo e del-  la razza... »: medesima l'etica fascista di alcuni anni dopo.   Nel 1922 Emilio Settimelli aveva dedicato un saggio  critico all'opera di Marinetti, edito a Milano con | tipi  di Gaetano Facchi, che può essere considerato il primo ten-  tativo di analizzare la letteratura marinettiana al di sopra  del clamore scandalistico e della propaganda futurista.   Nel 1927 Settimelli pubblicherà a Roma, nelle Edizioni  d'Arte e di Critica, Come combatto che raccoglie i suoi  più polemici scritti apparsi sul quotidiano romano L’Irm-  pero, diretto con Mario Carli.   Verso la fine degli Anni Trenta, Settimelli, subirà al.  cuni anni di confino di polizia causati dalla sua intransi-  genza critica verso alcuni personaggi-chiave del regime.   Di Armando Mazza, che ci fu dato di personalmente    149    conoscere e frequentare, il futurismo si avvaleva per pre-  sentare le prime, contestate, serate propagandistiche nei  teatri della Penisola.   Eccellente declamatore di versi, tonante dicitore di  manifesti tecnici futuristi, Mazza possedeva un fisico atle-  tico di lottatore greco-romano. Marinetti affidava, quindi,  a Mazza la protezione della ribalta dagli attacchi passatisti,  mentre Îa sua voce tonante sovrastava i fischi e il vociare  degli oppositori.   Singolare poeta parolibero, Mazza, sarà il primo ad  organizzate un movimento anticomunista, fondando nel  1919 a Milano, il settimanale politico I wmemzici d'Italia,  organo antimarxista, nazionalista e prefascista. Nel 1918  Mazza aveva pubblicato dall'editore Gaetano Facchi di  Milano 10 Liriche d'Amore, seguito di altrettanti poemi  in versi liberi stampati come cartoline postali raccolte in  contenitore di carta crespata. Queste cartoline poetiche so-  no il primo esempio rilevabile e significativo di quella che  negli Anni Settanta verrà definita Ma:l Art, « Arte po-  stale », assegnando alla comunicazione poetica il canale  inabituale della spedizione a domicilio del messaggio este-  tico. Già nel 1917, Armando Mazza, aveva introdotto l’uso  delle « Cartoline Postali di Guerra », edite dallo Stabi-  limento Tipografico Taveggia di Milano, di cui Vedetta  (cm. 13,7 x 19) resta la più curiosa ed esteticamente de-  terminante. Ai poemi postali faranno seguito Due morti.  liriche pubblicate nel 1919.    Nel 1920 Mazza pubblica Firmamento / con una spie  gazione di F.T. Marinetti sulle Parole in Libertà, edito a  Milana dalle Edizioni Futuriste di Poesia. Si tratta di  una pregevole sequenza di parole in libertà dove la com-  ponente tipovisuale dialettizza le scelte semantiche, tal-  volta enfatiche ed irruenti con frequenti ricorsi ad ana-  logie non sempre depurate. Poi Mazza verrà totalmente  assorbito dal giornalismo e dall’attività politica    Sarà direttore di importanti periodici come La grande  Italia e di quotidiani: L'Arena di Verona, I! Giornale di  Genova, Il Resto del Carlino di Bologna.    Ricordiamo i grandi occhi azzurri di Armando Mazza    150    farsi ancora più liquidi e trasparenti quando ci parlava del  Manifesto dell’Antitradizione Futurista dalle righe del qua-  le Apollinaire gli inviava, nel 1913, fiori, « rose », riser-  vando « merde » ai conservatori e ai romantici. Mazza  aveva frequentato Guglielmo Apollinaire a Parigi e Grasa  Aranba a Rio de Janeiro, Benedetto Croce a Napoli, ai  tempi de La Diana e Giovanni Gentile a Milano, proprio  mentre il filosofo stava orientandosi verso il fascismo.  Amicissimo di Umberto Boccioni, che aveva aiutato nei  primi anni del soggiorno milanese, Mazza, era stato di-  pinto dal maestro futurista in un esemplare pastello di  rara fattura e di deflagrante cromaticità, che pubblicam-  mo nel 1977 fra le opere inedite di Boccioni.    Sarà Mazza a favorire l'attitudine di Boccioni per la  critica d'arte, presentandolo ad Umberto Notari, editore  del quotidiano, poi settimanale, Gli Avvenimenti dove il  pittore reggerà per qualche tempo la rubrica d'arte. Il  fascismo di Armando Mazza restò sempre moderato e la  sua coerenza politica gli causerà nel dopoguerra 1940-1945  il più completo ostracismo, impedendogli di continuare la  attività giornalistica di cui ebbe profonda nostalgia sino  agli ultimi giorni di vita.   Il forzoso silenzio pubblicistico ricondusse Mazza alla  poesia alla quale apporterà non trascurabili contributi in  versi liberi pubblicati, fra il 1948 e il 1959, presso editori  inadeguati. Fra i più importanti poeti del futurismo con-  fluiranno al fascismo, assumendovi incarichi di alta re-  sponsabilità, anche Auro d'Alba (Umberto Bottone) che,  a Roma, diventerà capo dell'ufficio stampa della M.V.S.N.  (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) e Paolo  Buzzi che, a Milano, assumerà la carica di Segretario Ge-  nerale della Deputazione Provinciale. Altri futuristi di  minore rilievo, come il poeta Federico Pinna-Berchet, au-  tore delle Liriche d’Assalto, pubblicate a Roma nel 1930,  il poeta parolibero giuliano Bruno Sambo e Ferruccio  Vecchi, prosatore e capitano degli Arditi, aderiranno al  fascismo svolgendovi ruoli anche decisivi. Sambo diventerà  federale di Addis Abeba, mentre Pinna-Berchet e Vecchi  ricopriranno alte cariche corporative. Così il genovese Bolzon, poeta-pittore futurista dal 1919 e battagliero  giornalista, sarà Sottosegretario alle Colonie nel 1928, poi  Consigliere di Stato e autore, fra il 1920 e il 1930, di  saggi di critica sociale e di teoria fascista pubblicati dalle  edizioni Alpes di Milano.   Anche il grande invalido di guerra Giuseppe Steiner,  piacentino, poeta parolibero e autore di quei fondamentali  Stati d'Animo disegnati, editi nel 1923, che precorsero la  « poesia grafica » di Pino Masnata e la « poesia visiva »  dei giovani fiorentini negli Anni Sessanta, sarà nominato  Consigliere Nazionale fascista. Dal futurismo si oriente-  ranno verso il fascismo anche il poeta-aviatore Guido Kel-  ler, legionario fiumano e autore del lancio aereo di un  pitale su Montecitorio a monito di Francesco Saverio Nitti,  il « cagoia » del « Natale di sangue » fiumano; e la Me-  daglia d'Oro ferrarese Olao Gaggioli, poeta parolibero fu-  turista e pluridecorato ufficiale del XXIII Battaglione di  Assalto dei Bersaglieri sul Podgora.    Nan va, infine, dimenticato il giornalista Ernesto Da-  quanno, poeta parolibero e cofondatore a Milano del pe-  riodico I Principe, organo fascista difensore della « Mo-  narchia integrale ». Daquanno, che nel 1925 aveva pub-  blicato Now c'è poesia, saggi sul risveglio dell’artigianato  italiano, diventerà nel 1927 capo ufficio stampa della  Federazione Fascista delle Comunità Artigiane.    Un riferimento, poi, al poeta parolibero e autore di  teatro sintetico Guglielmo Jannelli, messinese, che dai «Fa-  sci Futuristi », di cui era stato promotore nel 1918 con  Marinetti, passerà ai « Fasci di Combattimento Siciliani »  assumendovi compiti determinanti. Nel 1924 Jannelli pub-  blichetà a Messina, per i tipi delle Edizioni della Balza  Futurista un polemico saggio dedicato a La crisi del Fa-  scismo in Sicilia, dedicato in frontespizio « A Emilio Set-  timelli e Mario Carli, miei fratelli nella avanguardia arti-  stica e politica della nuova Italia e anime capaci di ren-  dere pienamente la sincerità che mi ha mosso a compiere  queste franche pagine obbiettive ».    Questo scritto di Jannelli conferma l’esistenza di una  autocritica nell’ambito del fascismo, di una volontà revt-   con 1acusaro adagio. «.., oDbDedienza pronta, cieca, aSS0-  luta... ». Così Jannelli vede il fascismo nel 1924: «... il  fascismo si è rotto in due pezzi: molta della parte più  buona è rimasta bloccata, impedita di agire; e l’altra par-  te trionfa esteriormente unita ma intimamente diversa, po-  co moderna, niente affatto veloce e qualche volta insi-    gnificante... ».    Anche Corrado Pavolini, poeta, autore teatrale, regi-  sta, critico d’arte e letterario, che si era avvicinato al mo-  vimento di Marinetti attraverso l’opera del pittore futuri-  sta fiorentino Primo Conti e aveva dedicato nel 1924 un  saggio monografico al fondatore del futurismo pet, infine,  pubblicare nel 1927, a Bologna per i tipi dello Zanichelli,  quel fondamentale Cubismo Futurismo Impressionisnio, ade-  rirà al fascismo assumendo importanti incarichi nel diret.  torio del partito e al Ministero della Cultura Popolare.  Dal fascismo perverrà, invece, al futurismo il filosofo Fran-  cesco Orestano, Accademico d’Italia, che negli Anni Tren-  ta dedica al movimento di Marinetti saggi di teoria este-  tica e di critica letteraria. Orestano aveva pubblicato nel  1907 quegli importanti Valori Umani la cui struttura teo-  retica aveva particolarmente influenzato il giovane Ma-  rinetti.”   Anche Paolo Orano, scrittore, storico della filosofia  e sindacalista sorelliano, che fu Deputato fascista per la  Sardegna alla XXVI legislatura e per la Toscana alla XXVII  e al quale venne affidata nel 1926 la prima cattedra di  storia del giornalismo nella facoltà di Scienze Politiche  dell’Università di Perugia, si orienterà verso il futurismo.  Nella raccolta di saggi critici I Contemporanei, pubblicata  a Milano da Mondadori nel 1928, Orano riserverà a Ma-  rinetti una esegesi determinante, del tutta favorevole al  futurismo considerato estetica nuova di apertura inter-  nazionale. Dalla pittura futurista si muove, invece, verso  il fascismo Antonio Marasco, senz'altro il più impegnato  e coerente politico fra tutti gli operatori plastici del futu-  rismo. Calabrese di nascita, Marasco, ebbe parte rilevante nelle squadre d'azione fasciste di Firenze dove si era tra-  sferito prima ancora di arruolarsi volontario per la guerra  1915-1918, in cui verrà gravemente colpito da gas di ipri-  te sul Piave e dopo essere stato promotore con Marinetti  dei « Fasci Futuristi ».    Nel 1914 Marasco aveva accompagnato Marinetti nel  suo secondo viaggio in Russia, a Mosca e a Pietroburgo,  dove avrà modo di conoscere Velimir Klebnikow e Wla-  dimir Mavakowsky e di dedicare fisiosintesi di estrema  inventività grafica al  medico-pittore Nicolaj Kulbin, al  pittore Nikolaj Burliuk, alla poetessa Elena Guro, al poe-  ta-aviatore Kamensky, al poeta-scrittore B. Livshits, al mu-  sicista A. V. Lurié e al regista Tairow. La pittura di Ma.  rasco presenterà sempre componenti sperimentali, non con-  dizionata da temi fascisti o da enfasi dell'aviazione mili-  tare e civile che, purtroppo, sviliranno molta parte della  neropittura futurista degli Anni Trenta. Antonia Matasco  precorre il cosiddetto « astrattismo » delineatosi nell’am-  bito della milanese Galleria del Milione dei fratelli Ghi-  ringhelli e può essere considerato uno dei pionieri del  costruttivismo e del concretismo internazionali.    Particolarmente affezionati a Marasco avevamo avuto  modo, negli Anni Sessanta, di presentare la sua prima  mostra personale a Milano, di carattere antologico, attra-  verso la quale il più vasto pubblico riuscì a scoprire le  sue ricerche preastratte e protoconcretiste realizzate a Fi-  renze fra il 1923 e il 1930    Marasco restò sempre legato al futurismo e il suo fa-  scismo ebbe coerenza di adesione alla Repubblica Sociale  Italiana dove ricoprì importanti incarichi nella rinnovata  Direzione Generale delle Belle Arti e dei Beni Culturali  del Ministero della Cultura Popolare. Questo magistrale  pittore svolse anche attività di scrittore e di critico d’arte  e un suo libro, pubblicato a Firenze nel 1935, Parrorami  allo Zenit, risulta anticipatore dell’attuale science-fiction.   Nell'ambito del movimento futurista, Marasco, pro-  mosse i « Gruppi Futuristi Indipendenti », attivi a Firen-  ze fra il 1925 e il 1958, che rivelarono personaggi della  importanza di Cesare Augusto Poggi, architetto razionalista, tecnologo del cemento armato e ideatore di singolari  costruzioni civili per la difesa bellica. Quando, nella se-  conda metà degli Anni Trenta, s'inasprirà la campagna fa-  scista contro il futurismo, accusato di difendere l'arte  « astratta » considerata « giudea e massonica », Matasco  sarà a fianco di Marinetti per chiarire i termini di indi-  pendenza dell’« astrattismo » plastico da ogni motivazio-  ne di razza, da qualsivoglia matrice israelitica o mura-  toria. Se disponessimo di maggiore spazio per analizzare  compiutamente questo pericoloso momento dei rapporti fu-  turismo-fascismo ne risulterebbe la conferma di una pre-  cisa interdipendenza di propositi e di azione fra i due  movimenti. Il futurismo non condizionò mai le proprie  libertà espressive, i propositi di rinnovamento, di costan-  te evoluzione spirituale, alle esigenze agiografiche del fa-  scismo che, del resto, non considerò il futurismo come  arte di Stato, riservando questo pericoloso privilegio al  movimento del Novecento, celebrarore di miti romanistici  e imperiali, istigarore del ritorno al neoclassicismo, pur  mascherato da un malcompreso funzionalismo.   Antonio Marasco morirà a Firenze, nel 1975, alla so-  glia degli ottant'anni.   Dopo un Jungo soggiorno romano aveva dipinto, sino  all'ultimo, cromostrutture dinamiche e inoggettive di auto-  noma soluzione cinevisuale. Puntualmente ci inviava let-  tere di accorata italianità, preziosi appunti di teoria pla-  stica che, un giorno, dovremo pur raccogliere e pubblicare  come contributi fondamentali alla storia del costruttivismo  e del concretismo internazionali. Noi giovanissimi non era-  vamo disposti ad anteporre la dogmatica della mistica fa-  scista alle libertà espressive promosse e favorite dal futu-  rismo, né ci si potrà accusare di aver posto le nostre pri-  me ricerche futuriste al servizio dell'apologia di regime.   Così le nostre Parole per la Guerra, pubblicate nel mar-  zo del 1944 dalle edizioni dî Futuristi in Armi, sovven-  zionate e dirette da F.T. Marinetti, non rinviano ai canoni  conformisti dell'aeropoesia futurista di guerra di quegli an-  ni ma anticipano, piuttosto, modalità di poesia concreta e visuale, come è stato ampiamente rilevato dalla critica  internazionale più obiettiva e attenta.    Il nostro poema Bimba / bomba, del 1943, può essere,  infatti, considerato il primo esempio esistente di poesia  concreta a struttura semantica reversibile e a susseguenza  ottica alternata, dove l'uso della parola-chiave è già seria-  listico.    Il nostro fascismo eta quindi disarticolato dalle pra-  tiche dell’estetica futurista, proprio come si era verificato  per gli iniziatori del futurismo: F.T. Marinetti, Paolo Buz-  zi, Armando Mazza, Auro d’Alba, Luciano Folgore. In-  fatti anche i nostri Testi-Poemzi Murali, pubblicati nel 1944  dalle Edizioni Etre (Repubblica) con un «collaudo » di  Martinetti, piuttosto di risolversi nell'abituale apologia  guetresca di quel periodo, introducono un modo nuovo di  poetare inaugurando le problematiche di quella « poesia  visuale » che, solo negli Anni Cinquanta, troverà consensi  internazionali sino a farsi scuola di poesia avanzata. L’ideo-  logia politica di Marinetti, le teorie del suo particolare na-  zionalismo « prefascista » sono raccolte in due volumi pub-  blicati in tempi diversi. Democrazia Futurista, edita a Mi-  lano nel 1919 da Gaetano Facchi, è la sintesi delle posi-  zioni politiche assunte da Marinetti nell'immediato dopo-  guerra 1915-1918.    Vi si ripercorre l'atmosfera in cui nel 1918, dopo Ca-  poretto, Marinetti fonda i « Fasci Politici Fututisti » con  Giuseppe Bottai, Emilio Settimelli, Mario Carli, Gugliel-  mo Jannelli, Antonio Marasco, i pittori Gino Galli, Gia-  como Balla, Ottone Rosai, Fattunato Depero, il poeta-pit-  tore cremonese Enzo Mainardi, lo scrittore Remo Chiti,  il poeta Luciano Nicastro, Massimo Bontempelli, il chirur-  go Giovanni Masnata, poi Senatore del Regno, padre del  poeta parolibero stradellino Pino Masnata, ai quali aderi-  Sta settanta intellettuali e uomini di varia estrazione cul-  turale.    I «Fasci Politici Futuristi » si trasformeranno, poi,  gradualmente in « Fasci di Combattimento » confluendo nel.  lo squadrismo fascista. Così, quando i fascisti partecipe-  ranno per Ja prima volta alle elezioni politiche del 1919,    156    rinetti, Piero Bolzon, il poeta-aviatore Giacomo Macchi,  Baseggio e Podrecca.   Futurismo e Fascismo, pubblicato da Franco Campi.  telli, editore in Foligno, nel 1924, indica, invece, la per-  sonale interpretazione della dottrina fascista praticata da  Marinetti e da molti artisti futuristi, come dai numerosi  affiancatori e propagandisti del movimento futurista. Con  il manifesto L'Impero Italiano / A Benito Mussolini - Ca-  po della Nuova Italia redatto nel 1922 da F.T. Marinetti,  Mario Carli ed Emilio Settimelli, il futurismo, già in que-  gli anni, istigherà il fascismo alla fondazione dell'Impero,  precorrendo una realtà che, negli Anni Trenta si concluderà  con la conquista dell'Etiopia.   Marinetti scriverà nel 1924: «... il Fascismo, naro  dall’interventismo e dal futurismo si nutrì di principi fu.  turisti... »   Una storia parallela dei due movimenti, ancora da scri-  vere, dovrà tener conto della mai rinunciata indipendenza  futurista che non condizionò le esigenze di libera ricerca  espressiva alla necessità della politica dominante. Innanzi tutto confesso che sono nato alla vita sociale  prima come fascista e dopo come futurista.   Avevo sedici anni quando nel 1921, proprio in corti.  spondenza del mio compleanno, sottoscrissi una domanda  di ammissione ai « Fasci di Combattimento ». La doman-  da fu avvallata da due miei amici di maggiore età, come  soci presentatori, i quali compirono coscientemente un pic-  colo falso alterando di due anni la mia data di nascita al fine di consentire la mia ammissione come socio ad ogni  effetto. Così diventai a pieno titolo uno dei pochi iscritti  della Sezione di Reggio Calabria dei « Fasci di Combat-  timento », che aveva allora sede in una baracchetta per i  bagni di mare, in disuso.   Perché questo sedicenne studente del Liceo aveva  ascoltato e risposto ad un richiamo politico certamente  pericoloso? A mio avviso, furono determinanti, l’amore  per la Patria, nato dentro durante fa guerra sull’esempio  di un avo materno che ne aveva avuto, forse, di troppo;  l'entusiasmo per la vittoria e la conseguente indignazione  per quanto accadde subito dopo con l’attività dei cosid-  detti progressisti del momento, ostili ai reduci, in con-  trasto con la spavalderia ed intraprendenza di questi ul-  timi.   Il mio apptoccio con il Futurismo avvenne, invece,  due anni dopo, con la scoperta di Zang iumb tuumm e  l’incontro con F.T. Marinetti    Questo essere prima fascista e poi futurista, mi sem-  brò una particolarità personale e la confessai un giotno —  dopo tantissimi anni -— a Mario Dessy, e lui mi disse che  gli era accaduto lo stesso benché avesse cinque anni più  di me. Comunque è chiaro che nel periodo fra il 1919 ed  il 1922 vi fu un rapporto di identità ideale fra queste  due forze, anche se vi furono dissensi spesso di carattere  costruttivo, E’ difficile — infatti — che possano andare  in tandem per lungo tempo movimenti di carattere poli-  tico e movimenti di carattere intellettuale o culturale. Le  ragioni mi sembrano evidenti: un movimento culturale,  anche se basa la propria forza nelle realtà della vita (come  il futurismo), ha il suo fulcro nella idea-base che difende  con ortodossia e non è disponibile per transazioni ideolo-  giche. Il movimento politico, invece, pet propria natura,  specie quando atrivi alla gestione del potere, diviene dut-  tile e transigente al fine di mantenere è consolidare la  proptia forza concreta, allargando la base dei consensi.    Il Futurismo prima della guerra mondiale si caratteriz-  za artisticamente con l'invenzione dei grandi temi di rin-  novamento nei settori di tutte le arti e, in veste politico-sociale, nell’esaltazione dell’Italia, fantasticando per que-  sta, una nuova organizzazione anti-demo-liberale ed anti-  clericale. Un nuovo mado di vivere. Uno Stato industriale  ed agricolo tecnicamente progredito, che si progettava  astrattamente, certamente irrealizzabile. Qui i tentativi di  un’azione politica che non aveva, però, un valido autonoma  sviluppo organizzativo. Come pretenderlo da poeti ed ar-  tisti?   Nel tempo in cui Marinetti iniziò il « Movimento »,  le forze che affermavano di voler realizzare un nuovo svi-  luppo sociale al fine di un miglioramento della situazione  economica delle classi più disagiate e trascurate, trovava-  no una sede formalmente appropriata nelle spinte del sa-  cialismo deamicisiano; ma tale situazione ebbe durata bre-  ve perché questo socialismo si sviluppò in senso interna-  zionalista apatriottico collettivista antindividualista e fu  sconfitto dagli eventi della prima guetra mondiale. Tanto  è vero che dal suo seno, a guerra conclusa, prosperarono  il comunismo ed altre scissioni e nacque il fascismo.    Sono noti e possono essere facilmente consultati i do-  cumenti delle manifestazioni spiccatamente politiche del  movimento futurista che precedettero la Fondazione dei  « Fasci di Combattimento ». Intendo rifetirmi al « Pro-  gramma Politico Futurista » dell'11 ottobre 1913, firma-  to da Marinetti Boccioni Carrà Russolo, all'azione politi-  ca svolta da La Balza Futurista fondata da Di Giacomo  Jannelli e Nicastro del 1915, e dei «Fasci Interventisti  Siciliani », di Roma Futurista e dei relativi gruppi, nati  nel 1917-18, del Partito Politico Futurista sempre del 1918  che concretizzava un suo programma nel libro Democrazia  Futurista di Marinetti, eccetera eccetera. Tutte queste for-  ze si concentrarono nel movimento fascista nel 1919, sia  aderendo direttamente all'assemblea di fondazione di Piaz-  za San Sepolcro in Milano, sia successivamente anche per  forza d'inerzia.   Il fatto è che — di solito — quando si parla di par-  tecipazione politica dei futuristi, ci si richiama soltanto  al ricordo dell’attività degli artisti che militarono con la  qualificazione di « futuristi ». Vale a dire dei poeti, scrittori, pittori, limitandosi ovviamente ad esaminare il con-  tributo di coloro che hanno raggiunto maggiore notorietà,  trascurando i « minori ». Ma questi ultimi erano in nu-  mero stragrande e molto attivi. Senza tenere inoltre conto  che i maggiori spesso presi del tutto da altre attività, non  erano altrettanto validi e disponibili in campo politico. In  verità, il « Futurismo » di quel tempo è stato un movi-  mento a larga partecipazione di giovani, di tantissimi gio-  vani. Non tutti poterono — ovviamente militare nel  campo dell'Arte e maturare tanta notorietà da essere ri-  cordati anche oggi. Ma tutti furono politicamente attivi e  furono a migliaia i militanti di futurismo che partecipa-  rono ad episodi fascisti negli anni precedenti, o appena suc-  cessivi, alla marcia su Roma.    Non credo di sbagliare se affermo che nelle cosiddet-  te schiere dello « squadrismo » molte furono le partecipa-  zioni futuriste. Azione lotta e coraggio erano proposizioni  futuriste. Basta ricordare la prima azione di Marinetti e  Ferruccio Vecchi nel 1919 (16 aprile: Piazza Mercanti Mi-  lano) e ricordare i tanti nomi dei militanti futuristi che  ebbero più spicco in campo politico che in quello dell’arte.    Alla fondazione dei Fasci, confluirono nel fiume che  diventò principale, molteplici rivoli di pensiero (come ho  già accennato) movimenti di ogni genere che avevano un  minimo comune denominatore nella volontà di rinnovare  in qualche modo l’Italia che, pur vittoriosa nella guerra,  si dimenava in serie difficoltà ed era incapace ad affron-  tare la svolta storica che la vittoria aveva aperto. Anche  i Fasci Interventisti Futuristi Siciliani, che avevano preso  forza dalla volontà di Jannelli e Nicastro (il prima con  capacità ed intendimenti politici ed il secondo come lette-  rato e poeta), ma dei quali non si è ancora scritta la  storia, né accertato la reale efficienza, vi aderirono. Come  aderì Marinetti con tanti altri futuristi che risultano elen-  cati nella schiera dei cosiddetti « sansepolcristi ».    In seguito, quando il fascismo andò al potere, ai futu-  risti sembrò che finalmente sarebbero stati realizzati nel-  l’arte gran parte dei propositi del futurismo. In questa  illusione fummo cullati da alcuni elementi: la impostazio-       160    ne altamente patriottica dei propositi, la valorizzazione del  combattentismo e del volontarismo, l'amore per il nuovo  ed il rischio, il pragmatismo attivo dimostrato immedia-  tamente con i primi atti di governo, eccetera. Va anche  rammentato ai giovani di oggi, frastornati da affermazioni  non rispondenti alla realtà di allora, che la personalità  di Mussolini era molto al di sopra non solo di quella dei  suoi collaboratori politici, ma sovrastava la media dei cer-  velli politici di quel periodo. Tanto è vero che furono ap-  punto gli avversari a votargli subito i « pieni poteri » che  gli consentirono l'avvio della prima gestione governativa.  Questo fatto rilevante, gli consentì di attrarre dapprima  le simpatie collettive ed — in seguito — a conquistare  una enorme fiducia, non solo da parte dei suoi sostenitori  di un tempo, ma anche da parte di ex avversari e simpa.  tizzanti e — nei periodi più floridi — perfino dai nemici  del sistema politico che egli cercava di sviluppare.   Quando il fascismo s’insediò al governo per realizzare  la rivoluzione {a dire dei fascisti), o perché chiamato dalla  debole monarchia (come dicono gli altri), subì dapprima  una sosta di aggiornamento dovuta alla urgenza de) pro-  blemi immediati dalla cui soluzione dipendeva il recupe-  ro dell'ordine econamico e politico. Per questo, Mussolini  non si sbarazzò immediatamente degli avversari che erano  troppi e in gran parte si erano dichiarati disponibili a  collaborare per il meglio, pur costituendo nello stessa  tempo zone di resistenza alle innovazioni    Così anche nei fatti dell’Arte ovviamente meno pres-  santi, ove non comparvero personalità « nuove » che aves-  sero seri propositi di rinnovamento e disponibili a rivolu-  zionare tutto, come i futuristi. I quali con a capo Mari.  netti e nella quasi totalità si convinsero che la « rivolu-  zione » potesse realizzarsi per pradi anche in Arte. Che  la forza del nuovo potesse penetrare per gradi nelle isti-  tuzioni d’Arte e trasfarmarle. Pura illusione. Illusione giu-  stificata sul momento non solo dal fascino personale di  Mussolini al quale ho già accennato, ma anche da certe  sue caratteristiche gestuali (come la particolare sintetica  e precisa oratotia che andava direttamente allo scopo in    161    modo esplicito) che lo presentavano come un congeniale  capo futurista. Se si aggiunge inoltre l'amicizia personale  fra Mussolini e Marinetti, vicini anche in altre precedenti  azioni politiche, si comprende come il movimento rivolu-  zionario rappresentato in arte dal Futurismo, rimase a fian-  co del Fascismo (esso stesso ancora tivoluzionario alla ba-  sel, anche se in via di adattamento, questo, alle esigenze  immediate dell'esercizio del potere su una nazione che di  rivoluzionari di qualsiasi tipo ne ha avuto — per la veri-  tà — sempre pochi, anche se gonfiati ad oltranza quando  occorre, in tutti i testi di storia antica e recente.   I futuristi costituirono una avanguardia nelle fila del  fascismo e vi rimasero nella quasi totalità. Basta citare i]  messaggio che concluse il Congresso futurista di Milano  (L'Impero, 27 novembre 1924):    « L'ultima riunione del congresso futurista è stata de-  dicata all'esame dell'attuale momento politico. Marinetti  espose alla numerosa assemblea una dichiarazione prece-  dentemente elaborata in accordo con i maggiori futuristi  politici, la lettura della dichiarazione fu entusiasticamente  approvata ed acclamata in ogni suo punto. Ecco Ja dichia  razione:    «“I futuristi italiani, primi fra i primi interventisti nella  piazza e sui campi di battaglia e primi fra i primi dician-  novisti più che mai devoti alle idee ed all'arte lontani dal  politicantismo, dicono al loro vecchio compagno Benito  Mussolini: Primo: con un gesto di forza ormai indispen-  sabile liberati del parlamento. Secondo: restituisci al fa-  scismo ed all'Italia la meravigliosa anima diciannovista di-  sinteressata ardita antisocialista anticlericale  antimonar-  chica. Tetzo: Concedi alla monarchia soltanto la sua prov-  visoria funzione unitaria, rifiutale quella di soffocare e  morfinizzare la più grande, più geniale, più giusta Italia  di domani. Quarto:- non imitare l’inimitabile Giolitti, imi-  ta il grande Mussolini del ’19. Quinto: Pensa sempre al-  l'Italia immortale ed al Carso divino. Sesto: Schiaccia la  opposizione socialista antitaliana di Turati e l'opposizione  mediocrista di Albertini con una ferrea dinamica aristocra-  zia di pensiero.«“Tu puoi e devi far ciò. Noi dobbiamo volerlo e lo vo-  gliamo. F.T. Marinetti - Capo del Movimento Futurista  Italiano”».   Sono inoltre innumerevoli le manifestazioni dei futu-  risti in tanie occasioni, con opere scritti ed anche con  la partecipazione concreta alle guerre di quel periodo. Vo-  glio ricordare, però, un solo scritto di Fillia (morto nel  1930 e che adesso cercano di passare per antifascista) il  quale nel 19527 in occasione della Quadriennale di Tori-  no, così scriveva sulla sua rivista Vetrina Futurista:    «... Bisogna, però, giungere a “convincere” il grosso  pubblico, ingannato a nostro riguardo dalle false inter  pretazioni. Perché il favore organizzativo che oggi ci cir-  conda, non basta: è assurdo riconoscere il futurismo come  manifestazione d'Arte ed ammettere contemporaneamente  le antiche manifestazioni. La vita può avere individual  mente, diverse interpretazioni, ma tutte devono essere in-  quadrate in una sola atmsofera sensibile, corrispondente  alla vita stessa. Non voglio con questo negare il diritto di  esistenza a intere categorie di pittori rimasti spititualmen-  te arretrati: ma è necessario preparare il pubblico alla loro  graduale eliminazione dalla vita artistica ufficiale, fino al  riconoscimento del Futurismo “arte di Stato” massimo ri-  conascimento che lo caratterizzerà nella sua importanza... ».   Purtroppo però le autorità artistiche avevano il so-  pravvento favorendo a vele spiegate l’architettura di Pia-  centini e gli enormi pupazzi della scultura e pittura no-  vecentista, effettivamente arte del regime. E noi futuristi  interpretavamo le isianze di rinnovamento dell’arte senza  alcun riconoscimento dal Regime che ritrovava sé stesso  nelle manifestazioni novecentiste.   Questo, non mi stanco di ripeterlo, negli Anni Venti.  E poi?   Poi nulla. Le vicende, le difficoltà personali, gli entu-  siasmi e le depressioni, gli alti e i bassi, il lavoro e la mag-  giore maturità. Ma non creda di sbagliare se affermo che  noi futuristi vivemmo quel tempo con spirito indipendente  e piena libertà fiduciosi che in fondo avremmo avuto ragione. Anche se spesso sopportati e negletti dalle autorità  artistiche e subiti obiorto collo quando necessario.   Poi andammo all'ultima guerra, che fu sconvolgente per  tutti. To ne vissi scrupolosamente la mia parte con coeren-  za. Fui costretto fuori a lungo. Pet un anno di guerra, ne  subii sei di prigionia e non conosco nei particolari ciò che  è avvenuto qui mentre ho già scritto delle mie esperienze.   AI ritorno, nel Natale del 1946, mi sembrò di sbarcare  in un altro mondo al quale non mi sono ancora completa-  mente assuefatto. Ma ripresi a vivere da zero e nell’aprile  del ‘47 cominciai la mia nuova personale battaglia per il  futurismo con la mostra alla « Galleria di Roma » inaugu-  rata da Benedetta c dedicata a F.T. Marinetti.   Continuai ancora e vado avanti con i futuristi soprav-  vissuti e con l'appoggio dei giovani che comprendono e non  disdegnano l’idea del futurismo che continua e si rinnova  attraverso le spiccate personalità dei suoi artisti. Crali, lei è pittore ed è futurista Uno dei pochis.  simi, oggi. Crede che il futurismo sia ancora attuale?  SÌ, ma non per merito dei futuristi. Ma ha una sua  attualità perché si è espresso, si è mosso, e ci parla ancora.  Ma non certo per chi ci ha mangiato sopra, per chi non è  mai stato futurista, ed ha espresso solamente « necrofilia »,  vera e propria « necrofilia ».Il futurismo di prima, quello per cui lei aderì  al movimento, o vi st convertì, come la investì per così  dire, o come la ispirò?    R. — Non mi sono affatto « convertito », perché non  c'era niente da convertite. Mi sono trovato di fronte al    164    futurismo come un’anima candida, che non sa e non è con-  sapevole di nulla. Mi sono ritrovato una simpatia incon-  scia per alcuni quadri riprodotti su Il Mazzino illustrato di  Napoli. Mi sono piaciuti, mentre ad un amico mio, che  la pensava diversamente da me, non piacevano. Cominciam-  mo a litigare, e per litigare ad approfondite l’argomenta  ecc. ecc. Così ho cominciato ad essere interessata al futu-  rismo. E sono partito senza avere una preparazione di me-  stiere. Ho fatto rutto da solo, senza imparare a dipingere  o disegnare, anche se poi una specie di grillo della coscienza  mi ha suggerito che dovevo imparare a dipingere, sia pure  da solo (anatomia, prospettive, ecc ). L’astratto e il figu-  rativo erano | temi o le prospettive dominanti. Ho cercato  una « terza via », che fosse tutta mia, tutta personale: una  ia di mezzo fra il figurativo e l'astratto. Poi ho lasciato il  figurativo per la mia pittura futurista. Credevo di dover  dire ciò che altri non avevano detto. Così mi sono accostata  a Marinetti nel '29, quando gli scrissi per aderire al movi.  mento. L'aeroplano era una macchina nuova, un congegno  del futuro, o, per allora, del « futuribile ». E fu una delle  realtà che mi diedero più spunti, più ispirazione (l'Idrovo-  lante italiano, D’'Annunzia e il volo su Vienna, e il campo  di atterraggio vicino a Zara, dove io sono nato, ecc.). Così  sono diventato acropittore. E lo sono rimasto, ancora oggi.  Marinetti, invece, per quello che lo frequentò  o poté essergli vicino, come lo considera? Forse l’unico vero  futurista, © forse solo un grande « maestro »?    R. — No, non lo considero un maestra, perché non ha  mai voluto essere un « maestro ». Ci ha sempre stimolato  e spinto a lare, senza mai dire però come dovevamo fare  Era contrario ad ogni gerarchia nel movimento del futuri.  smo. E si opponeva sempre a Boccioni e Prampolini, che  volevano imporre la loro pittura. Voleva che ognuno di  noi fosse libero e indipendente. Prampolini invece voleva  fare il caposcuola. Marinetti voleva solo che ognuno fosse  se stesso e non ha creato nessuna scuola. Amava la sua  libertà e la sua indipendenza a tal punto che non poteva  imporre insegnamenti. Fotse D'Annunzio lo aveva influen-  zato in questo senso, nella vita mandana libera, giovane e spregiudicata. Io lo ricordo e lo ricorderò sempre con rico-  noscenza. Quasi come un padre. O come un fratello map-  giore. E come l’unico vero futurista, come ho sempre de!  resto pensato. Gli altri hanno tutti « mollato ». Lui è an-  dato avanti fino all'ultimo. L'unico che può personificare  il futurismo è fui, l’unico che non ha rivestito patine di cul:  turame intellettvalistico, come hanno fatto invece molti al-  tri (Soffici, Conti, Palazzeschi, Papini, ecc.). Amava essere  futurista sempre e comunque, anche nel gusto del contra-  sto. Amava la luna, e scrisse un manifesto « contro il chia-  ro di Juna ». « Uccidiamo il chiaro di luna », vi si diceva,  forse contro i poeti. Ma non era poeta? Predicava la guer-  ra, anche se non avrebbe fatto male a nessuno. Amava la  madre e la donna in assoluto, e ciecamente. Ma combatté  la donna sul piano ideologico. In questo è veramente futu-  rista. E lo è solo lui. Gli altri non lo sono mai stati.  Il futurismo di Marinetti che accento o che an-  golazione aveva particolarmente: letteraria, artistica, filoso-  fica 0 piuttosto politica?    R. — Politica no, assolutamente e mai. Filosofica nean-  che, se non forse in senso attivo, ma allora « senza pen-  siero ». « Il futurismo entra in politica soltanto quando la  patria entra in pericolo », aveva detto Marinetti in un  momento cruciale della nostra storia nazionale. Il manifesto  politico del fuuttismo è conseguenza del fatto che esso sta  movimento d'arte e di vita, e come tale anche di vita poli-  tica, tout court. Il manifesto politico è del ’13. Dopo Ja  fine della guerra l'accostamento agli arditi o al fenomeno  dell’« arditismo » era inevitabile, e Marinetti si unisce in  vincolo d'amicizia, anche politica, con Mario Carli per esem-  pio (ardito) e con Mussolini. All’avvento del fascismo e allo  accostamento di Mussolini alla monarchia e alla chiesa Ma-  rinetti si stacca. Abbandona il partito e si ritrova pressoché  in miseria, con moglie e figli. Aveva grande ammirazione  ed amicizia per Mussolini, che non credo fosse ricambiata  per una certa forma di invidia-gelosia mussoliniana nei con-  fronti di Marinetti. Il regime gli offriva incarichi 0 preben-  de, che continuò a rifiutare. Mussolini arrivò ad offrirgli la  presidenza dell’Associazione dei grandi alberghi italiani, pro-    166    prio a lui che disprezzava l’industria del forestiero. Accer-  tò solamente, e sollecitato, la segreteria dell'Associazione  Italiana Autori ed Editori, altrimenti forse destinata al  solito « arraffone » di turno. Tuttavia si tenne sempre in  disparte e non fece mai politica attiva, non partecipò mai  direttamente al regime, che anzi forse osservava contrariato,  a parte solo qualche onesta e sincera manifestazione di sim-  patia per Mussolini.   Nel ’35 si oppose alla presa di posizione politica di Hit-  ler contro l’arte moderna e d'avanguardia, che si manifestò  e sfociò nella censura e nella repressione dell'arte. E nella  stesso momento organizzò a Berlino una mostra di aero-  pittura futurista che creò non pochi problemi e suscitò non  poche difficoltà anche diplomatiche fra i due governi ira  liano e tedesco. Oltre che produrre una situazione difficile  e imbarazzante per le posizioni o i movimenti artistici e in-  tellettuali della Germania dell’epoca. In Italia fu l’unico  in questa occasione a prendere posizione ed esprimersi con-  tra l’ingerenza politica e l'intervento del regime di Hitler  nella cultura e nell'arte.   Nel ‘43 ero da Marinetti a Roma: arrivava Marinotui  (presidente della Snia Viscosa) che era stato da Mussolini  insieme ad altri « consiglieri regionali » del regime. Ma-  rinotti si era accinto a raccontate a Marinetti che tutti i  consiglieri avevano « relazionato » Mussolini e che nessu-  no aveva avuto il coraggio di dirgli che le cose andavano  male, tranne uno, il consigliere sardo, che aveva sostenuto  la stanchezza della gente, la maldicenza, il tradimento...  Marinetti osservava che non era possibile che non si sa-  pesse... È Marinotti ribatté che lo si sapeva, ma che non  era possibile dirlo a Mussolini... Il giorno dopo ritornai da  lui e mi comunicò che il consigliere sardo era stato nomi-  nato da Mussolini ispettore generale per tutta l'Italia.   Nel ‘44 poi si mosse da Venezia e risalì verso la Lam-  bardia, perché non se la sentiva di starsene in disparte a  « far l’antifascista »... L'ultimo suo poemetto in versi, l'ul-  tima sua espressione letteraria s'intitola appunto: Musica  di sentimenti per la X Mas. E vi si dice: « Io sono fato    167    di aeropoesia fuori tempo e spazio ». E' già definizione  sintomatica e totale dell'opera.    D. — Ailora, Marinetti fu fascista? E se lo fu, lo fu  fino a che punto? O non lo fu, e fino a che punto non lo  fu per essere futurista?  Marinetti è stato sempre e comunque e saprattutto futurista. Questa è la mia impressione. Perché ha se-  guito la sua natura e la sua volontà. E nel suo essere futu-  rista non è mai entrata la faziosità di un genere che « entra  in politica ». Non fu mai fazioso. Una volta eravamo a  casa sua, in un gruppo di amici, a parlar di Majakowski  e di futurismo russo. Qualcuno obiettò: « Ma Majakowski  è un comunista ». Ed egli allora ribatté immediatamente:  « Non ha nessuna importanza. Perché Majakowski è prima  di tutto un grande poeta ». Nei suoi rapporti cal fasci-  smo si può considerare forse il fatto che fosse nato al  l’estero, che fosse educato in Egitto alla cultura francese,  spesso pesantemente sprezzante verso l'Italia. Sentì quindi  una specie di aspirazione all’Italia 0, più ancora, di nostal-  gia della patria. Poi, volle rivendicare il futurismo come  fatto classicamente e squisitamente italiano. Così s'inimicò  tutta la cricca culturale parigina, ma volle sprovincializzare  e dare un certo orgoglio e una certa autonomia alla cultu-  ra italiana. E pensò o vide che Mussolini potesse essere  l'uomo adatto per rifarla, l’Italia, e per darle una sua nuo-  va base, culturale ed artistica. Senza sapere, alle origini o  senza conoscere, quando era all’estero, ed anche a Parigi,  la furbizia, anche culturale degli Italiani. Lui fu in buona  fede. Dal fascismo ebbe l’Accademia d’Italia (con appan-  naggio onorario in un momento in cui era anche in disagi  economici), ed ebbe la Biennale di Venezia {come « una  riserva indiana »). Il suo è un fascismo di speranza o di  desiderio, nella speranza di poter vedere realizzato il suo  futurismo. E' contrario al « Novecento » e al classicismo  « romano » alla Piacentini, che Mussolini invece appoggia-  va. Forse tutti i regimi, quando si affermano, cercano di  eliminare le avanguardie. Il fascismo non le appoggiò, men-  tre il nazismo e il comunismo le stroncarono. Sta di fatto  che Marinetti appoggiava Terragni a Como, e non appoggiò mai Piacentini. Alla Biennale, a Venezia, il futurismo  è stato accettato sì, ma mon con la considerazione che  Marinetti si sarebbe aspettato, e che sarebbe davuta spet-  tare all'unico movimento d'avanguardia esistente allora in  Italia. E invece è stato accolto sì il futurismo, ma quasi  messo in disparte.    Nel ’26, all'inaugurazione della mostra, durante il di-  scorso di presentazione, Marinetti si alzò ed intervenne ad  alta voce, presente il Ministro dell'Educazione Nazionale,  lamentando l'ingiustizia per l'esclusione dell'unico  movi-  mento d'avanguardia dell'arte italiana. L'anno dopo Mus-  solini stesso gli concesse un padiglione di riserva, che do-  veva rimanere, ogni anno, a disposizione dei futuristi (la  « riserva indiana », già summenzionata).    D. — Mussolini invece, secondo lei, fu futurista?    R. — E' stato un politico ed ha appoggiato Marinetti  per avere il futurismo dalla sua parte. Anche se il futu-  rismo aveva contribuito, pure, alla sua formazione. Che  avesse jspirato un regime al ritorno verso l'antica Roma  nei suoi simboli e nei suoi modelli, vuol dire tuttavia che  era rimasto fuori dal futurismo.    D.— E allora il fascismo di Mussolini ed il futurismo  di Marinetti non hanno nessun punto in comune? O si  possono, secondo lei, mettere in relazione o in collega  mento, e fino a che punto ciò è possibile? Per Mussolini il fascismo è politica, per Mari-  netti il futurismo è poesia. Sono due posizioni completa-  mente diverse.    D. — Non si può quindi parlare di futurismo fascista,  nemmeno del primo, quello delle origini?    R. — Finché un movimento politico è in fase rivo-  luzionaria, le posizioni della « rivoluzione » culturale con  quelle politiche coincidono; poi però quando il movimento  politico diventa regime si burocratizza, e allora non può  non scontrarsi con la cultura che rimane sempre rivoluzio-  naria e che non può assimilare come tale le esigenze politi-  che di un «partito». Ecco perché esistono punti di contatro    169    o momenti di simbiosi tra affermazioni marinettiane e fa-  scismo politico dei primi anni, poi rallentati o rilasciati  quando si afferma l’« ordine romano », utile al regime, ma  speculare di un passatismo senza mezzi termini, e totale.  Marinetti tollera questa esigenza politica di Mussolini, ma  non la condivide od ammette in campo artistico e cultu-  rale. Tuttavia Marinetti era uomo che non confondeva ami-  cizia ed ideologia: poteva combattere con un amico per  principi ideologici, anche violentemente, senza però in-  taccare l'amicizia, che rimaneva sempre e comunque.    D. — Resta oggi il futurismo? E resta come realtà  artistica solamente, o anche politica, nella sua dimensione  d’espressione artistica? Senza fascismo, che è finito ovvia-  mente, e da tempo. Forse resta il futurismo, come ten-  sione di rinnovamento?    R. — Sì, il futurismo resta, credo, nella sua posizione  di rinnovamento, o di indicazione nella creazione di nuove  forme, e di nuove idee, o di valori nuovi. Oggi si contesta  per distruggere senza dire quello che si vuole proporre in  sostituzione. Il futurismo aveva invece dato i suoi mani-  festi. Volle distruggere, ma propose ciò che voleva rico-  struire. Anche oggi, per quel che resta, il futurismo cerca  un suo rinnovamento che si superi continuamente. Oggi  c'è molta saggistica, ma si vede poca poesia. Forse manca  l’entusiasmo, nonostante la grinta. Penso che esista an-  cora futurismo oggi, perché esiste ancora temperamento di  novità, e di rinnovamento. Perché esiste ancora una spinta  vitale di « ossigeno ». E l'opera deve avere un suo sangue,  se si tratta d’opera d’arte. Un sangue di cui deve vivere,  o un sangue per cui possa vivere. É l’ossigeno è un valore  assoluto che resta, non si toglie, perché è ineliminabile.  Anche in bottiglia, nella plastica, rarefatto 0 alla luce del  sole. Il futurismo è un po’ come l'ossigeno, o l'anima  o lo spirito del lavoro e dell’opera, o della vita: è un po'  il suo « entusiasmo ».  [Intervista u cura di Alberto Schiavo]    Per quanto riguarda lo svisceramento dei collegamenti  fra Je correnti del futurismo indipendente come movimen-  ro artistico e culturale ed il fascismo come movimento po-  litico e sociale, particolarmente per quel che si riferisce  al carattere autonomo del futurismo torinese e al fascismo  delle origini, è ovvio che i tapporti intercotsi fra di loro  furono lungi dall’essere quelli di un matrimonio d'amore.  Consistettero specificamente in taciti e necessari accordi  immaginati per pater dare vita a creazioni autentiche che  abbisognavano di un ambiente rispettoso dei motivi di una  vera rivoluzione (quella artistica e spirituale scatenata dal  futurismo), in un clima fascista che di rivoluzionario non  ebbe in seguito che la sola etichetta.   Il futurismo torinese, nel tentativo di operare in pie-  na italianità, condivise nelia sua giusta misura taluni prin  cipî che il primo fascismo stabili quando provò a inte-  grarsi nel campo difficile della moderna civiltà europea.  Alla stessa stregua e per raggiungere gli stessi fini il futu-  rismo piemontese trattò anche con l’anarchismo e il co-  munismo idealitario di Gramsci, sui quali ebbe una consi-  derevole influenza negli sviluppi dell’architettura.   Il senso altamente novatore di Fillia e la sua molte.  plice attività (stupefacente in una esistenza così breve) per:  sonificano le forme coerenti e concrete dei concetti più  originali e più saldi delle imprese del futurismo torinese.   Figura rappresentativa dell’essere istantaneo, Fillia non  temporeggiava mai, viveva come una ruota, partiva come  una freccia. Propugnatore di quel futurismo mistico che  per ordinarie ragioni razionali ed estetiche militava in  margine della Chiesa cattolica apostolica e romana di quel  l'epoca, egli affermava con rigare di logica e con argomen-  tazioni arditissime che la religione ha relazione di somi-  glianza con la geometria interna dell’arte. Misteri dottri.  nali da ricrearsi plastiicamente per dare forma concreta ai  nuovi concetti della pittura sacra erano per lui la Trinità,    171    la Redenzione e la Vergine. L’apostolato di Fillia s'imme-  desimava con quello del futurismo in cui si cercava una  forza di liberazione, e la trovava in quel movimento, cie-  camente.    Originati da una geometria astratta superiore, i suoi  dipinti possiedono quella qualità rara di non essere visà,  e perciò non ricavati dal vero, ma di sorgere senza sha-  vatura alcuna dal proprio io, e come se l'artista non vi  fosse per nulla, per cui aspettavamo ogni sua scoperta con  un senso di impazienza, di ansietà, perché Fillia non ces-  sava di inventare e di portare sempre più avanti i perfe-  zionamenti pittorici del futurismo. Tuttavia, una continui-  tà è discernibile nella sua arte che è, innanzitutto, di una  grande purezza, di una grande acconcezza, di una grande  serenità.    T colori si oppongono l'uno all'altro e si sovrappon-  gono con curve e frangie di corallo, macchie di cielo, fan-  tasticherie metafisiche, sogni astrusi. Opera di contempla-  tivo che accomuna sempre iutto e sempre con estrema  dolcezza, e dalla quale si spande una pace angelica che  sembra invalidare, apparentemente, taluni assiomi violen-  ti della dottrina futurista. Ma è invece la prova Iampante  che il dinamismo di questa scuola italiana non esclude  quello stato di grazia dove i conflitti diventano preghiere.  Si tratta di fermare il nemico per ritrovare Ja quiete, di  combattere ferocemente per amare di un più grande amo-  re. Tale atteggiamento è proprio l’antitesi del sentimenta-  lismo romantico, dell’ebetismo della debolezza: esso con-  voglia l’arte verso quell'alta sfera mitica e visionaria che  invade la mistica futurista.    Gli errori di pensiero che possono insinuarsi nella men-  te di un poeta come Fillia, che non può sempre ridurre  tutto al controllo della logica, non vanno interpretati nel  lo stretto senso letterale. Il movimento è irrefrenabile,  talvolta irresistibile, porta oltre la matura e si perde in  un mondo di realtà fantasmagoriche.    Nessuna amarezza, nessuna amarezza siatene cetti si  nascondeva in questa libertà concettuale e della riflessione:  vi era troppa gentilezza in questo cuore di pittore e di poeta, troppa felicità per i suoi amici, perché si possa at-  tribuire un significato ironico alle sue composizioni sacre  come non hanno mancato di fare borghesi indirozzabili e  bolsi dalle maniche troppo lunghe, dalla mente inceppata.   Ho buona speranza per Fillia, per questo artista pen-  satore che fu anche un provetto artigiano; non mi rat-  trista la sua morte prematura. Un suo misterioso paesag-  gio dell'ex raccolta Ferrari di Ginevra mi scopre un ci-  mitero e la scala rossa che lo vincolò in eterno con gli  eroi: quello stesso cimitero e quella stessa scala di Sant'E-  lia. Distinguo la luna bianca della sua grande dolcezza, e le  cose della terra non reggono, sono rovesciate su loro stesse.   Le pitture religiose di Fillia sono un richiamo allo  spirituale puro, degli abbozzi di Paradiso. S’intende che  un tentativo di tal fatta non deve giungere al disprezzo  della cosa creata, dell’Incarmazione: ma non è il caso di  Fillia le cui forme della sua arte si disegnano, si creano e  si distaccano dalla loro causa prima.   Tutto il lavoro dell’opera si riporta ad una giornata  ben definita della creazione dove gli uomini non sono  ancora che allo stato di abbozzo, ma dove la macchina  respira già, dove i fantasmi girano secondo una traietto-  ria circolare, dove l'arcobaleno annuncia la riconciliazione.   Una siffatta pittura è infinitamente rispettosa, il suo  pudore è un perpetuo tremita davanti alla bellezza; essa  sprigiona cdelicatezze insospettate, scrupoli inauditi e non-  dimeno una audacia che le viene soffiata dallo spirito.   Nonostante il suo atto di fede nella macchina, Fillia è  certamente un pittore spirituale. La bellezza intrinseca del.  le macchine corrispande ad un suo bisogno di esattezza  sovrumana, di perfezione nelle linee e negli spazi. E’ una  dimostrazione pratica che consente all'uomo di disinca-  gliare la vera vita, di ricercare quegli elementi universali  dell’arte che scaturiscono nei momenti fecondi ed imperiali  delle Nazioni e ne rendono lo spirito eierno.   Per non spappolarsi nella struttura, per non sgreto-  larsi alla radice, il futurismo è lui stesso alla ricerca del-  l'eterno. E’ ben vero che questa eternità non è sotto i  nostri passi, non è dietro di noi, ma davanti a noi, In  questo senso tutti i cristiani dovrebbero essere futuristi,  diceva Fillia, perché meno legati degli altri uomini al  passato e al presente, e più ferventi dell'avvenire. Questo  richiamo ad una tradizione spirituale, questo allenamento  {secondo la felice definizione di Marinetti) non ha nulla  di necroforo, non intralcia lo sviluppo dell'arte ma stimo-  la, spinge in avanti, crea. Non si dimentichi perciò il con-  tributo molto importante di quella autentica tradizione che  serve a ristabilire l'equilibrio normale. Infatti, all’inizio Je  forze novattici distruggono talvolta, svelano uno sprezzo  irragionevole del passato e di ciò che la vera tradizione  conserva pertanto di eternamente vivo. Un rifiuto non  controllato potrebbe anche andare a scapito del progresso  stesso e insabbiare per sempre l'incitamento che motiva  nuove conquiste. Non si negano gli elementi universali  dell’arte passata perché non si possono negare quelli del-  l’arte nuova.    L’opera di Fillia rivela una tendenza perpetua verso  il progresso nel senso più alto della definizione. Trasfor-  mandosi da una pitiura all’altra svolge senza contraddi-  zioni la sua sincerità primitiva. Un futurista non può  dunque negare la storia della sua opeta e tanto meno quel  la del suo movimento: egli porta il peso di un passato  inventato che non può rinnegare senza distruggersi.    Questo passato inventato risale certamente al di là  del futurismo — che costituisce una specie di dialettica  dello spirito — e affre l’unica possibilità capace di abbat-  tere gli ostacoli. Il fiume precipita giù dalla cascata come  se vi prendesse nascita; in realtà la sorgente è al ghiacciaio.  Il futurismo ha radici italiane ed europee: il tempo aiuta  a farle scoprire senza remissione.    Fillia è l'uomo intuitivo di una nuova era. Dalla sua  opera e dai suoi tentativi, come da quelli di Balla, di  Boccioni, di Prampolini, di Diulgheroff e di Benedetto,  si stacca un’arte pubblica universale che l'architettura fun-  zionale rivela, contribuendo efficacemente alla diffusione  delle idee futuriste di Antonio Sant'Elia e degli slanci del  purismo di Le Corbusier.   Nell’intento di realizzare ad ogni costo, Fillia si ap-  poggiò al Regime attraverso gli interventi efficaci di Ma-  rinetti. Però, non ho mai visto Fillia in camicia nera,  ne lo sentii mai parlare di politica nostrana. Parlava sol-  ranto dell’Italia che amava. Le due idee rispecchiano gli  scopi e i metodi creativi di quel movimento indipendente  di buona lega che fu il futurismo torinese.  SARTORIS   per conto dell'Editore Volpe   dalle Arti Grafiche Pedanesi Roma, Via Fontanesi, Luciano De Maria e Mauro Pedroni, Aggiornamenti bibliografici sul  futurismo, in Il Verri,  Maria Drudi Gambillo e Teresa Fiori, Archivi del futurismo, De Lu-  ca, Roma 1959-1962, due volumi.   Enrico Falqui, Bibliografia e iconografia del futurismo, Sansoni, Firenze,Futurismo, a cura di Umbro Apollonio, Mazzotta, Milano, I futuristi, a cura di Giuseppe Ravegnani, Nuova Accademia, Mi.  lano  I manifesti del futurismo, Edizioni di « Lacerha », Firenze.  I manifesti del futurismo, Istituto Editoriale Italiano, Milano s.d.  {1919), quattro volumi.   I nuovi poeti futuristi, Edizioni Futuriste di « Poesia », Roma  I poeti futuristi, Edizioni Futuriste di « Poesia », Milano Noi futuristi, Riccardo Quinteri Editore, Milano Per conoscere Marinetti e il futurismo, a cura di Luciano De Matia,  Oscar Mondadori, Milano 1973.   Piccola antologia di poeti futuristi, a cura di Vanni Scheiwiller, Al-  l'Insegna del Pesce d'Oro, Milano Poesia futurista italiana, a cura di Ruggero Jacobbi, Guarda, Parma  Sintesi del futurismo: storia e documsenti, a cura di Luigi Scrivo,  Bulzoni, Roma 1968,   Teatro italiano d'avanguardia: drammi e sintesi futuriste, a cura di  Mario Verdone, Officina Edizioni, Roma 1970.  L'arte nella società. Il futurismo, Fabbri, Milano ARIA Le avanguardie letterarie in Europa, Feltrinelli, Milano Lucini e il futurismo, in Il Verri, Milano Alfieri e Luigi Freddi, Catalogo della Mostra della Rivoluzione  Fascista, P.N.F., Roma Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia, Marzorati,  Milano Belli, Kx, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano Fortune Bellonzi, Saggio sulla poesia di Marinetti, Argalia, Urbino  Bertolucci, I/ gesto futurista, Bulzoni, Roma Birolli, Enrico Crispolti, Bernhard Heinz, Arte e fascismo in  Italia e Germania, Feltrinelli, Milano Bo, La rivoluzione mancata del futurismo, in AA. VV., Staria  della letteratura italiana, Garzanti, Milano 1969, vol. IX.  Massimo Bontempelli, L'avventura novecentista, Vallecchi, Firenze  Brenner, La politica culturale del nazismo, Laterza, Bari Briosi, Marinetti, La Nuova Italia, Firenze Calvesi, Le due avanguardie, Lerici, Milano Il futuristio, Fabbri, Milano Fabrizio Carli, Architettura e fascismo, Volpe, Roma 1980.   Raffaele Carrieri, Il futurismo, Il Milione, Milano Castelfranco, Il futurismo, De Luca, Roma Casucci, Il fascismo. Antologia di scritti critici, Il Mulino, Bo-  logna Crispolti, Il mito della macchina e altri temi del futurismo,  Celebes, Trapani Cuomo, Alberto Sartoris e l'architettura italiana tra tragedia  e forme, Edizioni Kappa, Roma Felice, Mussolini il rivolazionario, Einaudi, Torino Mussolini il fascista, Einaudi, Torino Intervista sul fascismo, Laterza, Bati Noce, Il problema storico del fascismo, Vallecchi, Fi-  renze Maria, Marinetti e il futurismo letterario, in Evento, Palazzeschi e l'avanguardia, Mondadori, Milano  Introduzione a Teoria e invenzione futurista di F.T. Marinetti,  Mondadori, Milano  Le chiavi e i simboli di Re Baldoria, in ll Dramma Micheli, Le avanguardie critiche del Novecento, Feltrinelli,  Milano. Cesare G. De Michelis, Il futurismo italiano in Russia, De Donato,  Bari Erra, L'interpretazione del fascismo nel problema storico ita-  liana, Volpe, Roma Eruli, Preistoria francese del futurismo, in Rivista di letterature moderne e comparate EVOLA Arte Astratta, « Collection Dada », Maglione & Strini,  Roma Quaderno n. 3 della Fondazione Julius  Evola, Roma Falqui, Futuristzo e Novecentismmo, Edizioni Radio Italiana,    Torino 1La poesia futurista, in Un po' di poesia, Vallecchi, Firenze Ferrari, Poesia futurista e naarxismo, Editoriale Contra, Milano Flota, Dal romanticismo al futurismo, Parta, Piacenza Gentile, Le origini dell'ideologia del fascismo, Laterza, Bari    Giovanni Gentile, Origini e dottrina del fascismo, Sansoni. Firenze  Gregor, Il fascismo. Interpretazioni e giudizi, Volpe, Roma  Isnenghi, I{ mito della grande guerra da Marinetti a Mala  parte, Laterza, Bari Leeden, D'Annunzio a Fiume, Laterza, Bari Lista, Marinetti et Tzara, in Les Lettres Nouvelles, Maltese, Storia dell’arte in Italia Einaudi, Torino Marangoni, L'interventismo nella cultura. Intellettuali e rivi  ste del fascismo, Laterza, Bari  Mariani, Il primo Marinetti, Le Monnier, Firenze Martin, Fuzurist Art and Theory, Clarendon Press,    Oxford Ojetti, In Italia, Parte ha da essere italiana?, Mondadori, Milano Pavolini, Cubismo, futurisma, espressionismo, Zanichelli, Bo-  logna Pinottini, L'estetica del futurismo. Revisioni storiografiche,  Bulzoni, Roma Paggioli, Teoria dell’arte d'avanguardia, 11 Mulino, Bologna,  Prezzolini, Amici, Vallecchi, Firenze Sanguinetti, Introduzione a Poesia del Novecento, Einaudi,  TorinoLa guerra futurista, in Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano Romani, Del simbolismo al futurismo, Sandron, Firenze Sapori, I) fascismo e l’arte, Mondadori, Milano Scalia, Introduzione a La cultura del Novecento attraversa  le riviste, Eniaudi, Torino Siciliano, La tradizione futurista, in Autobiografia letteraria,    Garzanti, Milano Silva, Ideologia e arte del fascismo, Mazzotta, Milano Spagnoletti, Dal « Leonardo » al futurismo, in Ulisse, feb-  braio Poalazzeschi, Longanesi, Milano Tallarico, Verifica del futurismo, Volpe, Roma Le «cento anime» di F.T. Marinetti, Cartia, Roma  Per una ideologia del futuristzo, Volpe, Roma Avanguardia e tradizione, Volpe, Roma Tempesti, L'arte dell'Italia fascista, Feltrinelli, Milano Claough. Futuris:, Philosophical Library, New York  Artemisia Zimei, Marinetti, Ed. Le Stanze del Libro, Roma Vaccari, Vita e tumulti di Marinetti, Editrice Omnia, Milano  Verdone, Cinema e letteratura del futurismo, Edizioni di Bian-  co e nero, Roma Teatro del tempo futurista, Lerici, Roma Che cosa è il futurismo, Astrolabio-Ubaldini, Roma Acquaviva, Le colonne d'Ercole della modernità. Futurismo, Gastaldi, Milano Altomare, Incontri con Marinetti e il futurismo, Corso, Roma  Apollinaire, Lettere a Marinetti, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano Benedetto, Futzrismo 100 x 100, Edizioni Arte Viva, Roma  Buccafusca, Studenti fascisti cantano così, Casella, Napoli    Paolo Buzzi, n e la Spirale, Edizioni fututiste di « Poesia »,  Ilano. Francesco Cangiullo, Le serate futuriste, Ceschina, Milano, Carli, Fascismo intransigente, Edizioni dell'Impero, Roma Corra, Sar; Dunn è morto, Einaudi, Torino 1970.   Fillia (Luigi Colombo), Il futurismo: ideologie, realizzazioni e polemiche del Movimento Futurista Ttaliano, Sonzogno, Milano Marinetti, Mafarka il futurista, Milano 1910.   — Uccidiamo il chiaro di luna, Milano  La Battaglia di Tripoli, vissuta e cantata, Milano Ll’aeroplano del papa, Milano. Guerra, sola igiene del mondo, Milano. Otto anime in una bomba, Milano Democrazia futurista, Milano Al di lè del comunitmo, Milano Lussuria velocità, Milano N tamburo di fuoco, Milano. Gli indomabili, Piacenza. Futurismo e fascismo, Foligno  Primo dizionario aereo, Milano Marinetti e il futurismo, Roma Spagna veloce e toro futurista, Milano Il paesaggio e Vestetica futurista della macchina, Firenze. Poemi simultanei futuristi, La Spezia. L'aeropoema del golfo della Spezia, Milano. Il poema africano della Divisione «28 ottobre », Milano. Mario Carli, proflo, Milano  Il poema di Torre Viscosa, Milano Patriottismo insetticida, Milano. ll poema non umano dei tecnicismi, Roma L'esercito italiano, Roma. Cento uomini e macchine della querra mussoliniana, Roma Quario d'ora di poesia della X Mas, Milano  Teoria e invenzione futurista, Milano. La grande Milano tradizionale e futurista, Milano. Lettere ruggenti a F. Balilla Pratella, Milano. Poesie a Beny, Torino. Gir RA l'esperienza futurista Vallecchi, Firen-  ze,Sanzin, fo e il futurismo, Istituto di Propaganda Libraria,  Milano 1976.   Emilio Settimelli, Come combatto, Edizioni d'arte e critica, Roma    Ardengo Soffici, Primi principi di un'estetica futurista, Vallecchi, Firenze Somenzi, Difendo il futurismo, Edizioni A.R.T.E., Roma Tato raccontato da Tato, Zucchi, Milano. Futurismo con e senza fascismo (A. Schiavo) 5  Soffici, Marinetti, Boccioni, Russolo, Sant'Elia, Si-  roni, Piatti, Futurismo e «guerra sola igiene del  mondo » 59  Carli, Bottai, Futurismo e socialismo 71  Tavolato, Volt, Marinetti, Futurismo e democrazia 87  Settimelli, Marinetti, Futurismo e primo fascismo 97  Marinetti, Carli, Somenzi, « Secondo futurismo » e fa-  scismo-regime ili  Corra, Govoni, Buzzi, Chiti, Folgore, Futurismo di  destra e di sinistra 131  Belloli, Benedetto, Crali, Sartoris, Testizzonianze 145    Bibliografia 177 Armando Carlini. Keywords: filosofia fascista, Bovio, Locke, senso, esperienza, il mito del realismo, la categoria dello spirito, animus e spiritus, filosofia italiana, storia della filosofia romana, l’ambasciata di Carneade a Roma, la antichissima sapienza degl’italici, la scuola di pitagora, sicilia e la magna grecia, geist, ghost, spirito, animo, spirito oggetivo, Bosanquet, testi di filosofia ad uso dei licei, aristotele, il principio logico, Cartesio, il problema di cartesio, senso ed esperienza, storia della filosofia, avvivamento alla filosofia, i grandi filosofi – mondatori – the great and the minor -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carlini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carmando – Roma – filosofia italiana (Roma). Charmander -- According to Seneca, Carmando wrote a book on comets.

 

Grice e Caro: l’implicatura conversazionale dell’interpretare -- interpretante, interpretato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Caro likes ‘interpretant,’ I spent various tutorials going through Aquino’s Commentarium’ on the ‘peri hermeneias’ – my tutees were fascinated by the fact that while the Grecian hermeneias is figurative – after Hermes, some say – ‘inter-pretatio’ is not!” -- “I love Caro – he has philosophised on Davidson’s philosophising, notably Davidson’s idea of the interpretant, an idea Davidson borrowed – but never returned – from Peirce!” Insegna a Roma.  Si occupa di filosofia morale, di libero arbitrio, teoria dell'azione e storia della scienza. Ha difeso la teoria detta " naturalismo liberale", già oggetto di discussione nelle letteratura specialistica sull’argomento. È membro dei comitati scientifici delle riviste Rivista di Estetica  e Filosofia e questioni pubbliche. Collabora con Il Sole 24 Ore, e ha scritto per The Times, La Repubblica, La Stampa e il manifesto.  È stato Presidente della Società Italiana di Filosofia Analitica (SIFA) dal  al. È vicepresidente della Consulta Nazionale di Filosofia. Ha condotto ZettelFilosofia in movimento, programma televisivo RAI dedicato alla filosofia.  L'asteroide 5329 Decaro è chiamato così in suo onore; “Dal punto di vista dell'interprete. La filosofia di Donald Davidson, Roma, Carocci); Il libero arbitrio, Roma-Bari, Laterza); Azione, Bologna, Il Mulino); La logica della libertà, Roma, Meltemi); Normatività, Fatti, Valori” (Macerata, Quodlibet); Scetticismo. Storia di una vicenda filosofica” (Roma, Carocci). Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio (Torino, Codice). La filosofia analitica e le altre tradizioni (Roma, Carocci).  Bentornata Realtà: Il nuovo realismo (Torino, Einaudi,. Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze e società” (Torino, Codice,. Biografie convergenti: venti ircocervi filosofici, disegni di Guido Scarabottolo, Milano-Udine, Mimesis).  Cos’è il nuovo realismo [“What is the new realism”], Mimesis, Milano, forthcoming.2)    Azione [“Action”] , Il Mulino, Bologna,  Il libero arbitrio. Un ’  introduzione [ “ Free Will. An Introduction ” ], Laterza, Roma-Bari,2004; second edition 2006; Third edition 2009; Fourth edition 2011.4)    Dal punto di vista de ll’int  erprete. Il pensiero di Donald Davidson [ “ From theInterpreter  s  Point of View. Donald Davidson  s Thoug ht”],  Carocci, Roma  Interpretazioni e cause [“Interpretations and Causes”] , Doctoral dissertation, Università diRoma. Editor (with M. Mori - E. Spinelli) of  La libertà umana: storia di un’id  ea, Carocci,Roma, forthcoming.2)   Editor (with A. Lavazza  –   G. Sartori) of Quanto siamo responsabili? Filosofia,neuroscienze e società,  Codice, Torino M. Marraffa) of  La filosofia di Ernesto De Martino, special issue of  Paradigmi, Editor (with L. Illetterati) of a special issue of Verifiche  on “ Classical German Philosophy. New Research Perspectives between Analytic Philosophy and the Pragmatist Tradition”,46, 2013.5)   Editor (with S. Gozzano) of a special issue of  Rivista di filosofia   on “The philosophy ofconsciousness, ”  Editor (with M. Ferraris) of  Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Einaudi,Torino, 2012.7)   Editor (with S. Poggi),  La filosofia analitica e le altre tradizioni, Carocci, Roma,2011.8)   Guest editor,  Naturalismo, special issue of  Rivista di Estetica, 44, 2010 (with C. Barberoand A. Voltolini).9)   Editor of The Architecture of Reason. Epistemology, Agency, and Science, Carocci,Roma 2 (with R. Egidi).10)   Editor of Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio,Codice, Torino 2010 (second edition 2010; third edition 2011) (with A. Lavazza and G.Sartori).11)   Guest editor of  E’ naturale essere naturalisti?, special issue of  Etica e politica, 9,2010 (with C. Barbero - A. Voltolini).12)   Editor of Scetticismo. Storia di una vicenda filosofia, Carocci, Roma  ( E. Spinelli).13)   Editor of  La mente e la natura, Fazi, Roma 2005 (Italian version of  Naturalismin Question ) (with D. Macarthur).14)   Editor of the Italian version of H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy, Fazi, Roma,2004.15)   Editor of  Normatività, fatti, valori, Quodlibet, Macerata, 2003 (essays by G.H. vonWright, J. Hornsby, R. Fogelin, et alii ) (with Rosaria Egidi and Massimo De ll‟ Utri).16)   Editor of  Logica della libertà [ “ The Logic of Free dom”],  Meltemi, Roma, 2002(contains the Italian translation of essays by A. Ayer, R. Chisholm, P.F. Strawson, P. vanInwagen, H. Frankfurt).17)   Guest editor of “ Libertà e Deter  minismo”  [ “ Freedom and Determinism ” ], specialissue of  Paradigmi, Presentazione” del numero speciale di  Paradigmi  (25, 2013) dedicato a  La filosofia di Ernesto De Martino,  “Machiavelli e Lucrezio ”,  postface to A. Brown,  Machiavelli e Lucrezio. Fortuna elibertà nella Firenze del Rinascimento, Carocci, Roma, 2  “Metafisica e naturalism o: una entente cordiale? ”, Sistemi intelligenti, “Galileo e il platonismo fisico - matematico”, in R. Chiaradonna (ed),  Il platonismo e le scienze, Carocci, Roma “Introduzione” (with R. Chiaradonna) to R. Chiaradonna (ed.),  Il platonismo e le scienze,Carocci, Roma Naturalismo nel mirino: ma quale intendiamo? ”, Vita e pensiero, Autonomia della filosofia e neuroscienze,”  Rivista di Filosofia, “ Libero arbitrio e neuroscienze,” in A. Lavazza, G. Sartori (a cura di),  Neuroetica,Il Mulino, Bologna “ Filosofia della mente,”  in  Dizionario della mente Treccani, Istituto de ll EnciclopediaItaliana Italiana, Roma “Ne uro-mania e natura lismo”  (commento, su invito, a ll articolo target di CristianoCastelfranchi e Fabio Paglieri) (con A. Lavazza), Giornale italiano di psicologia, “ Il migliore dei naturalismi possibili  Etica & Politica / Ethics & Politics, (with A. Voltolini).14)   “ Psicologia, intenzionalità, scopi: un punto di vista filosofic o,”  (invited commentary to atarget article by C. Castelfranchi and F. Paglieri), Giornale italiano di psicologia, “ Libertà e responsabilità mora le,”  in  Enciclopedia del Terzo Millenio, Istitutode ll Enciclopedia Italiana, Roma   “ Le neuroscienze cognitive e l'enigma del libero a rbitrio,”  in M. Di Francesco  –   M.Marraffa (a cura di),  Il soggetto. Scienze della mente e natura dell  ’  io, Bruno Mondadori, Milano “  Neuroetica e libero a rbitrio,”  in S. Bacin (a cura di),  Etiche antiche e moderne, Il Mulino,Bologna Introduction to the Italian translation of John Dupré,  Human Nature and the Limits ofScience, Laterza, Roma-Bari, 2007 (with Telmo Pievani).12   ) “ Temi scotistici nella discussione contemporanea sul libero a rbitrio,”   Quaestio “ Gazzaniga, Hauser e la fallacia dei cromosomi mora li,”  Micromega  (“ Almanacco di scienz e” ) “ Filosofia, musica e asc olto,”    Rivista di storia della filosofia, “ Il ritorno dello scientismo,”  in M. Failla (a cura di) “B ene navigavi ”. Studi in onore di Franco Bianco, Quodlibet, Macerata “ Il naturalismo scientifico contemporaneo: caratteri e pr  oblemi,”  in P. Costa - F. Michelini(eds.),  Natura senza fine, EDB, Bologna  Causazione mentale e plura lismo,”    Iride, (with MassimoMarraffa).18   ) “ Due concetti di libero arbitr  io,”  in R. Calcaterra (ed.),  Le ragioni del conoscere ede ll’agire. Scritti in onore di Rosaria Egidi, Franco Angeli, Milano “ Scienza e libertà: due comuni fraintendimenti, SISSA NEWS,  Quattro tesi su filosofia e scienza,”   Sistemi intelligenti, “ Frankfurt, Harry Gor  don”  “ Teoria de ll az ione”  “ Scetticismo moderno e contemporane o” (vol. 10, pp. 10115- 10119), in  Enciclopedia filosofica di Gallarate, Bompiani, Milano Nozick, Strawson e lillusione  della libertà,”  in G. Pellegrino - I. Salvatore (eds.),  Nozick .  Identità personale, libertà e realismo morale, LUISS University Press, Roma  “ Questioni metafisiche: Dio e la libertà,”  in A. Coliva (ed.),  Filosofia analitica. Temi e problemi, Carocci, Roma with G. De Anna).24   ) “ Davidson sulla libertà umana,”  Iride, “ L'inscindibilità di fatti e valori in etica, in economia e nelle scienze natura li,” in troductionto  Fatto valore. Fine di una dicotomia (Italian translation of H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy ), Fazi, Roma “  Naturalismo e scetticismo: il caso del libero a rbitrio,”  in R. Lanfredini (ed.),  Il problemamente-corpo, Guerini, Milano, “ Responsabilità e sce tticismo” in Egidi - De ll Utri - De Caro (eds.),  Normatività, fatti, valori, Quodlibet, Macerata “ Olismo e interpretazione radica le,”  in M. De ll Utri (a cura di), Olismo, Quodlibet,Macerata 2002, pp. 17-36.29   ) “ Il naturalismo fisicalistico: un dogma filosofico?,” in P. Parrini (ed.), Conoscenzae cognizione, Guerini, Milano “ Teorie de l’int erpretazione e criteri di correttezza,”  in C. Montaleone (ed.),  Parole fuorilegge.  L’idiotismo  linguistico tra filosofia e letteratura, Cortina, Milano  “ Liber  tà,”    Paradigmi, 58, 2002, pp. 67-84.32   ) “ Forme dello scetticismo e interpre tazione,”    Fenomenologia e società,  “ Contro la centralità delle regole: l esternalismo di Donald Da vidson,”  in  Atti della Società Italiana di Filosofia del Linguaggio, Novecento, Palermo, Sui presupposti sociali della responsabilità, «Filosofia e questioni pubbliche, “ Per un connessionismo non eliminazionista, ”   Sistemi Intelligenti, “ Varianti de llolismo. Aspetti della teoria analitica della traduz ione,”   Colloquium Philosophicum, “ Libertà metafisica e responsabilità mora le,”    Paradigmi, “ Prese ntazione,”    Paradigmi,  “ Determinismo e filosofia della mente contemporanea,”  in M. Cini (ed.), Caso, necessità, libertà, Cuen, Napoli “ Monismo anomalo ed epife nomenismo,”    Il Cannocchiale, “ Il lungo viaggio di Hilary Putnam,”    Lingua e Stile, XXXI, “ Epistemologia e interpretazione: l esternalismo di Donald Da vidson,”    Rivista di filosofia, “ Il platonismo di Ga lileo,”  Rivista di filosofia, “ La discriminazione tra la scienza e l'arte: un problema per il relativismo epistemic o,”    Paradigmi, Review of S. Nannini,  Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente,in  Iride, Review of L. Fonnesu, Storia dell'etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica,in  Iride, Review of A. Massarenti,  Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima, in  Bollettino della Società filosofica italiana, Review of M. De ll Utri,  L’inganno  assurdo, in  Epistemologia, Review of Carlo Montaleone,  Don Chisciotte o la logica della follia, in  Bollettino della Società filosofica italiana, Review of Mario Ricciardi - Corrado Del B o (a  cura di),  Pluralismo e libertà fondamentali, in  Iride, Review of Giacomo Marramao,  Minima temporalia,  Iride, in  Iride Review of Donald Davidson, Subjective, Intersubjective, Objective, in  Iride, Review of Massimo Marraffa,  Filosofia e psicologia, in  Epistemologia, Review of Nicla Vassallo, Teoria della conoscenza, in  Epistemologia “ Wittgenstein su mente e linguagg io”  [Review of R. Egidi (ed.) Wittgenstein: Mind and Language ], in  Rivista di filosofia, Review of Mark Pickering (ed.), Science as Practice and Culture, in  Archives Internationale  s d’   Histoire Des Sciences, Review of Marc De Mey, The Cognitive Paradigm. An Integrated Understanding ofScientific Development, in  Archives Internationales d  ’   Histoire Des Sciences, 1Review of M. 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Paper: “ The Philosophical Mystery of Free W ill”.  Roma, Auditorium “ Parco della Musica,”  Festival of Science. Lecture on: “ Gödel Theorems and Free will”  (with Rebecca Goldstein).: Reggio Emilia, Istituto Banfi. Conference “  Nature and Free dom”; invited spekaer for the section “ The naturalization of free dom” (commentators A. Benini eS.F. Magni). Nature and Free dom”.  December 2, 2005: University “ Ca   Fosca ri,”  Venice. International Conference, “ DonaldDavidson: Language - Meaning - Mind - Action ”; invited speaker. Paper: “F reedom andInference to the Best Explanation ”.Sassari, Sassari Association of Philosophy and Science. Lecture on “ Freedom and Scien ce”.  Vita  –   Salute “ San Raffae le”  University, Cesano Maderno (Milano),  First Meeting of the Italian Association of Philosophy of Mind ; organizer and chairperson. University of Genoa, International conference, “ Mental Processes ”;relatore invitato per la sezione “ Action and Rationality ”   Hornsby).September 29-30, 2005: SISSA, Trieste. Conference “  Neurophysiology and Free W ill”;  invited speaker. Paper: “ Etica e libero arbitrio ”. University of Trento, International Conference, “ Agency and Causation in theHuman Sciences ”. Invited speaker (paper: “F reedom and the Social Sciences ” ).June 1, 2005: “ Vita e Salute - San Raffae le”  University, Milano. International Conference, “ ADay for Freedom? An International Conference on Free W ill”. Discussant di Hughes.May 12, 2005: University of Florence, International Conference “ Philosophy, Neurophysiology and Free will”  On the compatibility of philosophy and scienc e”.Istituto di studi americani, Roma, International Conference, “ Pragmatismand Analytic Philosophy: Differences and Interac tions”  (invited speaker). Paper: “B eyondScientific Natura lism”.  University of Piemonte orientale, Department of HumanisticStudies. Three lectures on  Freedom and Nature.   November 26, 2004: University of Florence - Department of Philosophy. Lecture on TheConcept of Naturalism. November 16, 2005: University of Pavia  –   Giason del Maino College. Lecture on TheContemporary Debate on Free Will . University "Vita e Salute  –   San Raffae le,”  Milano. Lecture on  Freedomand Nature. University of Piemonte Orientale, Vercelli, Department ofHumanistic Studies, conference on “ Scientists and Philosophers and the Study ofComplex Sy stems”.  September 23-25: Genova, VI International Conference of the Italian Society of AnalyticPhilosophy (member of the scientific committee).   Rome. International Symposium "Questions on Naturalism"  Rome. “ Davidson on Human Free dom”.  Conference on DonaldDavidson, Department of Philosophy, Università Roma Tre (Rome. Discussant of Akeel Bilgrami. Workshop at LUISS University.September 29, 2003, Florence. Paper: “ Metaphysical Libertarianism ”. Conference on Robert Nozick   s philosophy, Department at the University of Florence (speaker).September 15, 2003, Sassari. Lecture on “ Logica e retorica ”  [Logic and Rhetoric].Department of Foreign Languages and Literatures, University of Sassari (invited lecturer). May7, 2003, Siena. Paper on “  Naturalism and Free dom”.  Workshop on The Free   Will problem. Department of Philosophy, Università di Siena Sassari. Workshop on Skepticism and the Reemergence and the Self ,” Department of Philoosophy, Università di Sassari, (discussant).October 12, 2002, Messina. Paper on “  Naturalism and Intentionality ”. Annual Meeting of theItalian Society of Philosophy of Language (speaker).May 14, 2002, Cosenza. Lecture:  Memoria e identità [Memory and Identity].Department of Philosophy, Università di Cosenza.May 6, 2002, Florence. Paper: “ Freedom and Moral Responsibility: Mysteries orIllusions? ”. Florence Rome. Lecture  La teoria della conoscenza nel Novecento [TheTheory of Knowledge in the Twentieth Century]. Italian Society of Philosophy (invitedspeaker)February 5, 2002, Rome. Paper on  Il fondamento filosofico dei diritti umani [ThePhilosophical Foundation of Human Rights]. Conference “ The Question of HumanRights Today,”  Università di Roma “ La Sapienza ” (sp eaker).January 16, 2002, Pavia. Lecture on  Responsabilità e causalità: critiche a Strawson e Frankfurt [ “ Responsability and Causality: Some Criticisms of Strawson and Frankfur  t”]. Department of Philosophy, Università di Pavia (invited speaker).October 30, 2001, Cosenza. Lecture on “ Ragioni e ca use”  [ “ Reasons and causes ” Calabria ( Padua. Lecture on “  Freedom and Naturalism,”  Department of Philosophy,Università di Padova (invited speaker).May 8, 2001, Milan. Paper on “ Interpretations and Criteria of Correctness ”.Conference:  Interpretation and Correcteness, Università Statale di Milano (Bologna. Paper on Causality and Naturalism. Annual Meeting of the ItalianSociety of Analytic Philosophy, Università di Bologna (invited speaker).April 10, 2001, Rome. Paper on  Forms of Causation. Annual Meeting of the Italian Societyof Philosophy, Università Roma Tre  Siena. What P.F. Strawson Hasn’ t Proved . Annual Conference ofthe Italian Society of Analytic Philosophy (Rome. Paper on “ Freedom and the Self  ”. Conference: The Nature of theSelf, between Philosophy and Psychology, Università Roma Tre Rome. Paper on “ Van Inwagen  s Consequence Argument ”.Workshop:  Freedom and Necessity, Università Roma Tre Florence. Paper on “ What we should mean with the Word Pe r  son”   (withS. Maffettone). Conference  Le ragioni del corpo [The Reasons of the Body]. Istituto Gramsci Rome. Paper on “ Davidson on the Conceptual Schemes ”.Workshop: Talking with Donald Davidson, Università Roma Tre (organizer and speaker).December 20, 1999, Rome. Speaker with D. Donald Davidson at the presentation of the book M. De Caro (ed.),  Interpretations and Causes. New Perspectives on Donald Dav idson’s P  hilosophy, Università Roma Tre Rome. Paper on “ Against an Alleged Refutation of Kripke  sSkeptical Argument ”. Conference:  Facts and Norms, IV National Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy, Università Roma Tre Palermo. Paper on “ Davidson on Following a Rule ”.Conference: The Linguistic Rule. Conference of the Italian Society of Philosophy ofLanguage Rome. Paper on  Is Libertarianism About Free Will Scientifically Acceptable?. Conference:  Determinism and Freedom, Università Roma Tre(organizer and speaker).September 23-26, 1998, Bologna. Paper on “ The Roots of Epistemic Skepticism ”.Conference: Science, Philosophy, and Common Sense, III National Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy, Bologna (Rome. Lecture on  Freedom and Necessity. Seminar of theInterdipartimental Reasearch Center on Scientific Methodology (invited speaker).October 17-19, 1996, Rome. Paper on “ G.H. von Wright on the Mind-Body Proble m”.  Conference The Study of Mankind in George Henrik von Wright , Università RomaTre Rome. Paper on “ Davidson on Holism and SemanticExterna lism”.  Conference:  Perspectives on Holism, CNR Roma (organizer andspeaker).October 24-26, 1994, Rome. Paper on “ Galileo  s method ”. Conference:  Philosophies of Nature from the Renaissance to the Twentieth Century, Università Roma “ LaSapienza ” Rome. Paper on “ Davidson on skepticism”.   Davidson’s   philosophy, Università di Roma “ La Sapienza ” Lucca. Paper on  Logic and Philosophy of Science: Problems and Perspectives. Triennal Meeting of Italian Society of Logic and Philosophy ofScience (speaker). November 30, 1991, Rome. Paper on “ Perspectives of Rea lism”. Lecture at the Departmentof Philosophy, Università di Roma “ La Sapienza ”Rome. Paper on “W ittgenstein and the Philosophy of Mind ”.Conference: Wittgenstein on Mind and Language, Università Roma Tre (speaker). Grice: “When we taught De Interpretation with Austin, a tutee would ask ‘hermeneias’? Austin thought that Heidegger’s attempt to link hermeneia (to interpret) with Hermes was far fetched, so we left it at that!” Mario De Caro. Caro. Keywords: interpretare, Davidson, Putnam, “derivative Old-World philosopher focusing on New-World philosophers like Putnam or Davidson!”, interpretatione, peri hermeneias, Davidson on Grice – Grice on Putnam on Grice ‘too forma’ – Davidson on Grice – ‘a nice derangement of epitaphs’ Grice on Davidson on intending: conversational implicature theory too social to be true: ‘intending’ ENTAILS belief, does not IMPLICATE it! Pears, D. F. Pears. – P. F. Strawson and H. P. Grice on ‘free’ – Actions and Events --.-  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caro” – The Swimming-Pool Library.  

 

Grice e Caronda: all’isola -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean, one of those who studied with Pythagoras himself. He achieved a repulation as a legislator. It is said that when he found out he had accidentally broken one of his own laws, he committed suicide. Whether he was ever a Pythagorean at all is now widely questioned. Substantial portions of a work on laws attributed to him survive.

 

Grice e Carravetta: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lappano). Filosofo italiano. Moved to the New World. Note  Peter Carravetta, Del postmoderno., by Alessandro Carrera  iawa-West welcomes Peter Carravetta and Marisa Frasca on Saturday, February 14,  at Sidewalk Cafe NYC  IAWA’s Open Reading Series Featuring Peter Carravetta & Marisa Frasca February 14,  Filosofia Letteratura  Letteratura Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secolo Poeti italiani del XX secolo Poeti italiani del XXI secoloTraduttori italiani 1951 10 maggio. Grice: “Carravetta has been stealing the Italian voice of Italian philosophers, or rather silencing it!” -- Pietro Carravetta. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carravetta” – The Swimming-Pool Library. Tractatus semeiotico-philosophicus – the opus magnum, almost, of Grice – or Speranza. – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carulli: l’implicatura conversazionale di GIANO -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bari). Filosofo italiano. Grice: “I like Carulli – he philosophises on things we do not philosophy at Oxford, such as menstruation – or piegaturi, as Speranza prefers, since this is plural – ‘delle mestruazioni’.” Grice: “But Carulli has also philosophised on some anti-Griceian themes: my ‘fiducia’ becomes his ‘sfiducia;’ my ‘ragione’ becomes his ‘sragione’! Delightful!” – Grice: “When I philosophised on “Not,” or “Not I!” alla Beckett – I wouldn’t realise these are negative implicatures – ‘negative implicatures of ‘not’ – Carulli speaks of ‘negative reflections on unaffirmation’!” “Genius!” – Grice: “Carulli can play with word: ‘il ‘mito’ della inatualitta ‘ di X’ – is this equivalent or, as I prefer, a mere vehicle for the cancellable implicature: ‘la attualita’ di X’?!” – Grice: “Carulli knows how to subtitle: his ‘sfiducia e sragione’ is not just that but a Spinozian double treatise, like Witters’s abhandlung – cfr. Speranza’s “Tractatus semeiotico-philosophicus”. Studia a Bari, una città tradizionalmente soggetta allo storiografismo, all'impegno cattolico e al marxismo. Produce una filosofia aliena ai grandi inganni e refrattaria alla celebrazione dei suoi miti -- la democrazia, i diritti, la socialità, il debolismo -- con un'inconsueta attenzione alla forma, seguendo la scuola della cosiddetta critica della cultura, da Nietzsche in poi, unendo gli epigoni di quello ai moralisti. Partito da posizioni di anti-storicismo puro, culminato in un Benjamin schiacciato sulla im-politicità di ritorno della sua filosofia in “Oggettività dell'impolitico: riflessioni negative a partire da Benjamin” (Genova, Il Melangolo). Così come da un'analisi eterodossa dell'ultimo Schelling, De contemptu, Dello Schelling tardo (Genova, Il Melangelo) è giunto ad esiti originali con “Metafisica delle mestruazioni” (Genova, Il Melangolo), dove si sottrae il fenomeno femminile alle analisi socio-antropologiche per riconsegnarlo alla sua radice metafisica. Il discorso sul cristianesimo ritorna in “Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico” (Napoli, La Scuola di Pitagora), dove si riprende inoltre la critica della democrazia. Il cristianesimo è visto come una forma culturale stanca e abitudinaria, ma in grado di reggere con la sua apatia allo scontro con l'Islam. Si affaccia la verità ontologica del “ente” in diminuzione che non giungono mai all'annullamento definitivo; una verità che lo distanzia dall'eternità dell’ “essente” come pure dai cultori dell'annientamento.  La sua filosofia, centrata ossessivamente sugli stessi temi, può essere idealmente divisa secondo un'altra direttrice, volta alla ri-costruzione critica pionieristica di su amico Sgalambro. In quest'ambito pubblica “Caro misantropo. Saggi e testimonianze per Sgalambro” (Napoli, La Scuola di Pitagora); Introduzione a Sgalambro” (Genova, Il Melangolo), e “La piccola verità. Quattro saggi su Sgalambro” (Milano, Mimesis). Altre opere:“Lettera in La felicità? Prove didattiche di studenti “tieffini” in formazione, Chiara Gemma, Barletta, Cafagna. Gianluca Veneziani, Storia, verità e politica. Perché Benjamin non è un marxista, in Libero, De contemptu, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Alighieri, Harry Potter e le mestruazioni: l'idea bellicosa di editoria di Regazzoni, su il foglio Alessio Cantarella, Sfiducia e sragione, su alessiocantarella, Davide D'Alessandro, Ratzinger, Bergoglio e l'Abitudine al Cristianesimo, su il foglio. Pier Francesco Corvino,  Religio Medici. Andrea Comincini, Per una interpretazione di Dio e del Contemporaneo, su scena illustrata.com. alessio cantarella. Sgalambro, un metafisico distruttore,  in La Sicilia. Corriere del Mezzogiorno, Sgalambro, “impiegato di filosofia” contro i luoghi comuni, in Il Mattino, Sgalambro, filosofo pessimista che sape come godersi la vita, in Libero, Luca Farruggio, Una preziosa “Introduzione a Sgalambro” -- Davide D'Alessandro, Cara “Italian Theory”, ricordati di Sgalambro, su il foglio, Introduzione a Sgalambro su rai playradio. Alessio Cantarella, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Uno Sgalambro non isolato, tra Cacciari e Severino, su il foglio, convenzionali.wordpress.com, Sgalambro e le piccole verità, su lgiornale. Sgalambro, l’esistenza e il peso di dio, su scena illustrata.com. Sgalambro, il filosofo che ama la canzone, in La Gazzetta del Mezzogiorno.  Giano (latino: Ianus) è il dio degli inizi, materiali e immateriali, ed è una delle divinità più antiche e più importanti della religione romana, latina e italica. Solitamente è raffigurato con due volti (il cosiddetto Giano Bifronte), poiché il dio può guardare il futuro e il passato. Nel caso del Giano quadrifronte, le quattro facce sono rivolte ai quattro punti cardinali.   Busto di Giano conservato presso i Musei Vaticani. Caratteristiche della divinità Modifica Etimologia Modifica  Quadrigato romano recante l'effigie di Giano. Circa 220 a.C. Già gli antichi mettevano il nome del dio in relazione al movimento: Macrobio e Cicerone lo facevano derivare dal verbo ire "andare", perché secondo Macrobio il mondo va sempre, muovendosi in cerchio e partendo da sé stesso a sé stesso ritorna[1]. Gli studiosi moderni hanno confermato questa relazione stabilendo una derivazione dal termine ianua, "porta"[2], ma è con Georges Dumézil che il senso si precisa: il nome Ianus deriverebbe dalla radice indoeuropea *ei-, ampliata in *y-aa- con il significato di "passaggio" che, attraverso una forma *yaa-tu, ha prodotto anche l'irlandese ath, "guado"[3]. In passato non sono mancate tuttavia ipotesi alternative, come quella che voleva il nome derivato da una più antica forma *Dianus, da mettere in relazione con la dea Diana e quindi derivato anch'esso dalla stessa radice del termine latino dies, "giorno"[4]. Dumezil nota anche l'appellativo di 'mattutino' con cui Orazio si rivolge al dio in modo semiserio (Serm.). Tale appellativo tuttavia deporrebbe indifferentemente a favore di entrambe le ipotesi etimologiche esposte. Il suo nome in greco è Ιανός (Ianós).  È il primo a portare il naso con profilo romano (il classico naso a becco d'uccello).  Origini Modifica La figura del Dio Giano, come appena accennato, è prettamente romana e la sua origine non si può far risalire alla mitologia greca. Nella mitologia etrusca la divinità più prossima a Ianus è Culsans[5], dio delle porte e dei passaggi[6][7], anch’esso bifronte, con un nome simile ("ianua" significa porta in latino, come "culs" in etrusco) e legato al concetto di passato e futuro, ma con caratteristiche non del tutto sovrapponibili. Essendo pochissime le informazioni in nostro possesso sui culti dell'Italia preromana non possiamo far risalire con certezza Giano a qualche divinità italica.  Una possibilità da tenere in considerazione è che la figura di Giano sia stata ispirata da quella di Ušmu, un dio sumero a due facce, altrimenti chiamato Isimud o, in piena età babilonese, Ansar.  Epiteti Modifica  Asse con l'effigie di Giano e la prora di una nave. Circa 240-225 a.C. Come tutte le divinità romane, Giano era chiamato con diversi epiteti, che testimoniano la sua particolare rilevanza all'interno del pantheon:  Divum Deus (Dio degli Dei) Divum Claviger (Dio Clavigero) Divum Pater (Padre degli Dei) Ianus Bifrons (Giano bifronte) Ianus Cerus (Giano creatore) Ianus Consivius (Giano procreatore) Ianus Pater (Giano padre) Pater matutinae (Padre del mattino) Ianus Vicilinus (Giano Vigilante) Natura del dio Modifica Giano è una divinità esclusivamente romano-italica, la più antica tra gli Dei nazionali, gli Di indigetes, invocata spesso insieme a Iuppiter. Fu, insieme a Quirino, l'unico dio romano a non essere assimilato a divinità ellenistiche.  Il suo culto è probabilmente antichissimo e risale ad un'epoca arcaica, in cui i culti dei popoli italici erano in gran parte ancora legati ai cicli naturali della raccolta e della semina. È stato sottolineato da più autori, fin dal secolo XIX (Vedi Il ramo d'oro), come Giano fosse probabilmente la divinità principale del pantheon romano in epoca arcaica ed anche Sant'Agostino nel suo De Civitate Dei (VII, 9) ricorda che “ad Ianum pertinent initia factorum” e come perciò al Dio competa “omnium initiorum potestatem”. In particolare rimarrebbe traccia di questo fatto nell'appellativo Ianus Pater che permase anche in epoca classica.  Giano nell'epoca arcaica era semplicemente il dio legato ai cicli naturali, poi con il passare del tempo il suo mito divenne sempre più complesso.  Nei frammenti superstiti del Carmen Saliare Giano è salutato con particolare enfasi come padre e dio degli dei stessi:  «divum +empta+ cante, divum deo supplicate»  (IT)  «cantate lui, il padre degli dei, supplicate il dio degli dei»  (fragmentum 1) Tale dato è confermato dal fatto che per i romani Giano non era figlio di alcun'altra divinità (ad esempio Giove è figlio di Saturno), ma, proprio per la sua qualità di pater divorum, egli era sempre stato, immanente, fin dall'origine di ogni cosa. Così è che Giano, come lo stesso ci racconta per bocca di Ovidione i Fasti (I, 103 e s.s.), era presente allorché i quattro elementi si separarono tra di loro dando forma ad ogni cosa.  A tal proposito Varrone riporta nel carmen anche l'epiteto di Cerus cioè "creatore", perché come iniziatore del mondo Giano è il creatore per eccellenza[8]. Il console e augure Marco Valerio Messalla Rufo scrive nel libro sugli Auspici che Giano è colui che plasma e governa ogni cosa e unì, circondandole con il cielo, l'essenza dell'acqua e della terra, pesante e tendente a scendere in basso, e quella del fuoco e dell'aria, leggera e tendente a sfuggire verso l'alto, e che fu l'immane forza del cielo a tenere legate le due forze contrastanti[9]. Settimio Sereno lo chiama "principio degli dèi e acuto seminatore di cose".  Giano presiede infatti a tutti gli inizi e i passaggi e le soglie, materiali e immateriali, come le soglie delle case, le porte, i passaggi coperti e quelli sovrastati da un arco, ma anche l'inizio di una nuova impresa, della vita umana, della vita economica, del tempo storico e di quello mitico, della religione, degli dèi stessi, del mondo, dell'umanità (viene infatti chiamato Consivio, cioè propagatore del genere umano, che viene seminato per opera sua[10]), della civiltà, delle istituzioni.  Nella sua riforma del calendario romano, Numa Pompilio dedicò a Giano il primo mese successivo al solstizio d'inverno, gennaio, che con la riforma giulianadel 46 a.C. passò ad essere il primo dell'anno.  Una delle caratteristiche più singolari di Giano sta nella sua rappresentazione come di un dio bicefalo, da cui l'appellativodi Giano bifronte. Questa particolarità era connessa all'area di influenza divina che Giano assunse in maniera specifica in epoca classica, dopo l'ascesa degli dei romani "canonici": Giano era preposto alle porte (ianuae), ai passaggi (iani) e ai ponti: ne custodiva l'entrata e l'uscita e portava in mano, come i portinai, gli ianitores, una chiave e un bastone, mentre le due facce vegliavano nelle due direzioni, a custodire entrata e uscita.  Anche in quest'epoca, comunque, Giano continuò a rappresentare il custode di ogni forma di passaggio e mutamento, protettore di tutto ciò che riguardava un inizio ed una fine.  Miti Modifica  Paolo Farinati, Giano bifronte con una ninfa, 1590 circa, affresco, Villa Nichesola-Conforti, Ponton di Sant'Ambrogio di Valpolicella (Verona). Nel mito Giano avrebbe regnato come primo Re del Latium, fondando una città sul monte Gianicolo e donando la civiltà agli Aborigeni, suoi originari abitanti. Con la ninfa Camese avrebbe generato inoltre numerosi figli, tra i quali il dio Tiberino, signore del Tevere. È lui ad accogliere il dio dell'agricolturaSaturno, spodestato dal figlio Giove, condividendo con lui la regalità e consentendogli di portare l'età dell'oro. Per l'ospitalità ricevuta, Giano ricevette dal dio Saturno il dono di vedere sia il passato che il futuro, all'origine della sua rappresentazione bifronte.  Numerose sono le ninfe indicate come mogli o compagne di Giano:  Camese, dalla quale il dio ebbe tre figli: Tiberino, il dio del Tevere; Camasena, Clistene; Venilia, citata da Ovidio, dalla quale avrebbe generato: Canente; Carna, dalla quale avrebbe ricevuto il potere sulle porte; Giuturna, dalla quale sarebbe nato: Fons, dio delle sorgenti, venerato ai piedi del Gianicolo. Culto Modifica Al culto di Giano, a differenza delle altre divinità maggiori, non era preposto uno specifico flamen. Le cerimonie a lui dedicate venivano invece amministrate dallo stesso Rex e, in età repubblicana dal particolare sacerdote che suppliva alle antiche prerogative regie, il Rex Sacrorum. Egli apriva dunque per primo le processioni e le cerimonie religiose, antecedendo anche lo stesso flamen Dialis, sacerdote di Giove.  Nel suo tempio si sacrificava spesso per avere vaticinisulla riuscita delle imprese militari.  Santuari Modifica  Arco di Giano o Ianus Quadrifrons. A Roma i principali luoghi consacrati a Giano erano:  lo Ianus geminus, un passaggio coperto consacrato secondo la tradizione da Numa Pompilio nel Foro e precisamente nella parte più bassa dell'Argileto secondo Tito Livio, o ai piedi del Viminale secondo Macrobio, e che veniva aperto in occasione di guerre e chiuso in tempo di pace[11]; lo Ianus quadrifrons, un arco a quattro aperture situato nel Foro Boario; il Tempio di Giano situato nel Foro Olitorio e consacrato da Gaio Duilio nel 260 a.C. dopo la vittoria di Milazzo. Giano come simbolo di città Modifica  Scultura lignea di Giano ad Avezzano Secondo la leggenda, Giano fondò la città di Gianicola, e fu proprio lui ad accogliere Saturno nel Lazio. Esisteva una frazione della città di Roma denominata Gianicolo e secondo alcuni mitologi Giano sarebbe il fondatore di uno dei villaggi di Roma. Da notare che il Gianicolo affaccia su un lato del Tevere ove è presente un guado naturale, quindi un passaggio.  Giano viene assunto dal Medioevo a simbolo di Genova, in relazione al suo nome antico di Ianua[12]. Come tale viene spesso accostato al Grifone, altro simbolo di questa città. Troviamo effigi di Giano bifronte nel pozzo sacro di piazza Sarzano (l'ermabifronte sulla cupoletta, proveniente da una fontana cinquecentesca opera della bottega in Genova di Giacomo e Guglielmo della Porta); rappresentazioni dei grifoni come ornamento dei pinnacoli delle volte vetrate di Galleria Mazzini e nei lampadari ottocenteschi della stessa. Una rappresentazione indubbiamente più moderna ed essenziale la troviamo nel palazzo azzurro sito in Fiumara. Bisogna considerare Giano come dio adatto a sostituire i riti celtici dediti alla venerazione del torrente, considerato come luogo ove convergono le acque da affluenti che stanno a destra e a sinistra dello stesso corso d'acqua, in quanto Giano aveva due facce ed era il dio dei passaggi, oltre ad avere rapporti con le divinità delle acque.  Oltre a Genova, Giano è il simbolo di Tiggiano(provincia di Lecce), Subbiano (provincia di Arezzo), Selvazzano Dentro (provincia di Padova) e Centro Giano (provincia di Roma), San Giovanni Rotondo(Provincia di Foggia). L'immagine di Giano è presente nel gonfalone di Tiggiano (provincia di Lecce)[13]perché secondo un'etimologia popolare il nome del paese potrebbe derivare dal nome del dio Giano[14] (in realtà il toponimo è un prediale costruito sul gentilizioromano Tidius[15].).  In Basilicata, presso Muro Lucano (PZ) è presente il toponimo Capo di Giano e Varaggiano, mentre presso Melfi c'è Foggiano. A Pescopagano, in una nicchia sotto l'arco di Porta Sibilla vi è una statuetta raffigurante Giano bifronte.  L'immagine di Giano è presente nel gonfalone di Subbiano (provincia di Arezzo)[16] perché secondo un'etimologia popolare il nome del paese deriverebbe dal latino Sub Janum condita ("fondata sotto [il segno di] Giano")[17], ma in realtà il toponimo è un predialecostruito sul gentilizio romano Sevius[18].  Il nome della città di Avezzano in Abruzzo stando ad un'ipotesi giudicata inverosimile da storici ed archeologi deriverebbe da "Ave Jane", un'invocazione posta sul portale di un tempio consacrato al dio Giano. Secondo la leggenda attorno al tempio ebbe origine la borgata formata dai primi agricoltori stanziati nell'area che originariamente circondava il lago del Fucino[19].  Il monte Giano nell'Appennino centrale è situato nel comune di Antrodoco, in provincia di Rieti.  Il toponimo di Selvazzano Dentro di origine romana parrebbe riportare alla presenza di un boschetto sacro al dio Giano (selva di Giano), l'attuale stemma comunale riporta infatti un altare dedicato al dio.  Secondo delle supposizioni i toponimi di Vezzano, come Vezzano Ligure in provincia della Spezia, deriverebbero dalla divinità romana.  Il nome del dio è invece all'origine dei due toponimi Giano dell'Umbria e Giano Vetusto, non direttamente ma attraverso un nome di persona latino Ianus (al quale sarà originariamente appartenuto il fondo sul quale è sorto il centro abitato)[20].  A Reggio Emilia c'è un Giano su uno spigolo di Palazzo Magnani in Corso Garibaldi. Nel comune di Maddaloni, in Provincia di Caserta, esattamente dinanzi l'ospedale cittadino, sono ancora visibili i resti di un tempio con l'iscrizione "Iano Pacifero".  A Trieste vi è una fontana con il volto bifronte del dio, posta all'inizio del Viale XX Settembre. In quanto alla scelta del sito, va notato che nei primi anni dell'Ottocento in quel punto si trovava un recinto con cancello, che segnava l'uscita dalla città.[21].  Il toponimo di Camposano, in provincia di Napoli, tra le tante interpretazioni, parrebbe derivare da un tempio dedicato al dio Giano denominato Campus Iani.  Nel pesarese, a pochi chilometri dalla città di Fano, vi è la frazione di Monte Giano.  Nei pressi del comune di Montieri, tra Siena e Volterra, Alta Maremma, si trova una località chiamata Prategiano, tradizionalmente legata alla divinità. Qui oggi si trova un prato collinare, circondato da boschi. Vi ha sede un centro ippico di rilievo, dal quale partono escursioni per numerose località naturali e storiche. La zona è ricca di vestigia, tra le quali la Rotonda di Montesiepi, con la Spada nella Roccia, ivi conficcata dal misterioso San Galgano nel XII secolo, oggi ancora visibile sotto la cupola della rotonda.  Note Modifica ^ Macrobio, Saturnalia, I, 9, 11 ^ ad esempio Herbert Jennings Rose in Dizionario di antichità classiche, s.v. Giano. Milano, Edizioni San Paolo, Dumézil, La religione romana arcaica,  Milano, Rizzoli, Ferrari, Dizionario di mitologia greca e latina, s.v. Giano. Torino, UTET, Simon "Culsu, Culsans e Ianus" in: Atti Secondo congresso internazionale - Tomo III - 1985 pag. 1271-81. ^ de Grummond, N.T. & Simon, E. (eds.) (2006). The Religion of the Etruscans. University of Texas, Austin.. ^ Daniele F.Maras, Monografie - La Religione Etrusca p.22, in Archeo Monografie, 27 ottobre/novembre 2018. ^ Marco Terenzio Varrone, Della lingua latina, VII, 26-27 ^ Macrobio, Saturnalia, I, 9, 14 ^ Macrobio, Saturnalia, I, 9, 16 ^ Tito Livio, Storia di Roma, I, 19, 2 ^ Teofilo Ossian De Negri. Storia di Genova. Firenze, Giunti, 2Stemma Comune di Tiggiano, su comuni-italiani.it. Notizie generali sul Comune di Tiggiano, su japigia.com. URL consultato Marcato. Tiggiano, in AA. VV. Dizionario di toponomastica. Torino, UTET, Subbiano (Tuscany, Italy), su crwflags Subbiano in breve, su comune.subbiano.Marcato. Subbiano, in AA.VV. Dizionario di toponomastica. ^ Giovanni Pagani, Il nome Avezzano, su avezzano.terremarsicane.it, Terre Marsicane. Marcato. Giano dell'Umbria e Giano Vetusto, in AA. VV. Dizionario di toponomastica. ^ In Viale una fontana con due mascheroni - Cronaca - Il Piccolo, in Il Piccolo, 19 novembre Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Mitologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di mitologia. Falacer Saturno (divinità) divinità romanaell'agricoltura  Carna Wikipedia Il contenutoAntonio Carulli. Keywords: Giano, critica della cultura, Nietzsche, De Contemptu, Schelling, impolitico, Benjamin, menstruazione, Aligheri sulla mestruazione, ente, essente. Giano, e la religione, paganesimo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carulli” – The Swimming-Pool Library.

 

 

Grice e Casalegno: l’implicatura conversazionale -- il concetto d’implicatura nella filosofia linguistica del Novecento – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano Grice: “I like, indeed love, Casalegno; but then, he loves me! Translating Griice, or me, is tricky – as Mommsen says of Garet translating Cassiodoro,, “more than a translation, he provided a correction – and he tried to prove that Cassiodoro was a Benedictine monk.’” Grice: “Casalegno does not try to ‘translate’ Grice – let THAT to the technicians! As a philosopher, he tries to ‘re-interpret’ Grice, if a re-interpretation is needed!”  Si laurea a Pisa sotto Sainati con “Aspetti della logica modernista”. Insegna a Milano, chiamato da Bonomi. Approfondizza diversi temi all'interno della filosofia analitica, quali il concetto di verità, la teoria degli insiemi, l'epistemologia della testimonianza, la teoria della ricorsività. Altre opere: “Alle origini della semantica formale,” Cuem; “Filosofia del linguaggio: un'introduzione,” Carocci, “Teoria degli insiemi, un'introduzione, Carocci); “Brevissima introduzione alla filosofia del linguaggio, Carocci,  Verità e significato. Scritti di filosofia del linguaggio, Carocci,  (P. Frascolla, D. Marconi ed E. Paganini). Il puzzle di Kripke, in Teoria, Sulla logica dei plurali, in Teoria; Tre osservazioni su verità e riferimento, in Iride; Come interpretare l'argomento antirealista di Dummett?, in Lingua e stile; Le proprietà modali della verità: problemi e punti di vista, in Logica e teologia (Pisa, ETS). Un problema concernente le condizioni di asseribilità, in Modi dell'oggettività, Milano, Bompiani, Normatività e riferimento, in  Politeia. Chomsky sul riferimento, Monza, Polimetrica. Casalegno, il maestro della filosofia del linguaggio, di Franco Manzoni, Corriere della Sera, Archivio storico. Grice Logica e conversazione. In P. Casalegno, P. Frascolla, A. Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio (a cura di). Filosofia del linguaggio, Milano, Raffaello Cortina. Il libro che vi presento oggi appartiene alla collana “Bibliotheca” della casa editrice Raffaello Cortina. Il titolo è Filosofia del linguaggio (come spesso accade tra i libri di cui ho parlato in questo blog) e si tratta di una interessante e utile antologia di testi, appartenenti alla tradizione novecentesca della filosofia analitica del linguaggio.  I curatori sono importanti docenti italiani, tra cui Paolo Casalegno, Pasquale Frascolla, Andrea Iacona, Elisa Paganini e Marco Santambrogio.  I testi antologizzati consentono al lettore di farsi un’idea (e non poco approfondita) sulle principali questioni e problematiche inerenti al linguaggio umano, su cui si è dibattuto negli ultimi decenni in ambito analitico. Ogni testo è preceduto da una introduzione dei curatori, in cui è presentato il pensiero dell’autore, il contesto culturale e i concetti chiave che emergono dalla sua opera.  Apre il classico Senso e significato di Frege (di cui avevo già parlato qui), seguono quindi  Le descrizioni di Bertrand Russell (testo che tratta delle descrizioni definite), Significato, uso, comprensione di Ludwig Wittgenstein (tratto dalle sue Ricerche filosofiche), Due dogmi dell’empirismo e Relatività ontologica di Quine, Nomi e riferimento di Kripke, Significato, riferimento e stereotipi di Putnam, Interpretazione radicale di Davidson, “Logica e conversazione” di Grice, Dispute metafisiche intorno al realismo, di Michael Dummett, e si conclude con l’interessante Linguaggio e natura, di Noam Chomsky. versazione – afferma Grice - è un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine, bisogna che ciascuno si attenga a quattro “ massime ” che possono...  Introduzione alla filosofia del linguaggio  Paolo Casalegno. Significato e condizioni di verità. Prendiamo in considerazione un’idea del primo Wittgenstein:  “Comprendere una proposizione vuole dire sapere che accada se essa è vera” (Tractatus, 4.024). Poiché comprendere una proposizione equivale a conoscerne il significato, molti hanno concluso che alla base di una teoria del significato si deve porre la nozione di verità. Come sostenere la tesi wittgensteiniana?  Un  modo  può  essere  questo:  usiamo  il  linguaggio  per  descrivere  la  realtà.  Una proposizione singola fornisce una descrizione appropriata, anche se parziale, della realtà se le cose stanno in un certo modo, una descrizione inappropriata altrimenti. Per comprendere una proposi-zione dobbiamo sapere quali sono le circostante in cui la descrizione della realtà che essa offre è ap-propriata, dobbiamo sapere come deve essere fatto il mondo affinché essa sia vera. Possiamo anche esprimerci così: per comprendere una proposizione dobbiamo conoscere le sue ‘condizioni di veri-tà’.  Evitiamo di fraintendere. Conoscere le condizioni di verità di una proposizione è molto diverso dal sapere se essa sia, di fatto, vera o falsa, e non bisogna dunque confondere le due cose. Inoltre, non bisogna assumere  che  il conoscere  le condizioni di  verità di  una  proposizione equivalga  a  sapere come si fa, in pratica, per stabilire se essa è vera.  La tesi wittgensteiniana sembra essere ragionevole, e così anche la sua conseguenza più immediata: una teoria del significato, ammesso che la si possa elaborare, deve essere imperniata sulla nozione di verità. Le obiezioni che si possono però muovere a un siffatto modo di vedere le cose sono moltepli-ci, concentriamoci su alcune di queste.  Le obiezioni possono essere, principalmente, di due tipi. Da un lato si può concedere che compren-dere una proposizione equivalga a conoscerne le condizioni di verità, ma respingere l’idea che la nozione di verità sia la nozione centrale di una teoria del significato (ci sono espressioni per le quali parlare di condizioni di verità sembra essere assurdo). Dall’altro lato, si può più radicalmente soste-nere che il significato delle proposizioni non può essere ridotto a un insieme determinato di condi-zioni di verità.  Al termine ‘proposizione’ preferiamo contrapporre un gergo leggermente più tecnico, facciamo quindi uso del termine ‘enunciato’; ciò per riferirci a quelle che talvolta si chia-mano ‘frasi dichiarative’: le frasi per mezzo delle quali si può fare un’asserzione e delle quali ha sen-so chiedersi se siano vere o false. La prima obiezione  si basa sull’ovvia  constatazione che esistono  espressione le quali, pur essendo dotate di significato, non sono enunciati, e alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente attribuibili condizioni  di  verità.  Ci  sono  espressioni  sintatticamente  ben  formate  che  non  sono  frasi complete, parole singole  o espressioni come  ‘valigia  pesante’. Che  queste  espressioni abbiano  un significato è indubbio, ma che si possa parlare di condizioni di verità sembra essere un’evidente for-zatura. In  secondo luogo,  ci sono frasi  complete come  le interrogative  e le  imperative. Inevitabil-mente, una teoria che voglia analizzare il significato di queste due sorte di espressioni deve ricorre a nozioni  diverse  da quella di verità.  Sembra  dunque  impossibile  che  proprio  su  questa  nozione  si fondi tutta quanta una teoria del significato. Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si può voler dire che la nozione di verità, sebbene non possa essere considerata l’unica nozione di una teoria del significato, rimane in ogni caso la nozione centrale. Si può sostenere che anche il significato delle espressioni che non sono enunciati ha a che fare con la verità.  Consideriamo il caso delle parole singole: queste servono a costruire frasi complete, è di queste in-fatti che ci serviamo per parlare, non di parole isolate (a meno che le parole singole non fungano esse stesse da frasi complete). Ci interessa che le parole abbiano un significato perché ci interessa che abbiano un significato le frasi complete in cui esse figurano. Conoscere il significato di una pa- 1 rola, comprenderla, equivale in definitiva a sapere qual è il suo contributo al significato delle frasi: in particolare alle condizioni di verità degli enunciati. Non è possibile spiegare in che cosa consista per una parola essere nome di qualcosa — e, più in generale, che cosa sia il significato di una parola qualsiasi — se non presupponendo la nozione di verità. Una teoria del significato deve fare appello alla nozione di verità anche nell’analisi delle parole singole (questo vale anche per frasi più complesse che tuttavia non sono frasi complete) (MAH).  Vediamo ora il caso delle frasi complete che non sono enunciati. Se ci si riflette un po’ su, ci si rende conto che la nostra capacità di capire e di usare correttamente frasi interrogative e imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo, il che comporta che si sappia quando una descrizione è appropriata e quando non lo è, il che ci riporta, ancora una volta, alle condizioni di verità. Nel caso di domande molto semplici, domande che esigono come risposta un ‘Sì’ o un ‘No’, ciò è evidente: queste domande (come ‘E partito il treno per Udine’) corrispondono in modo ovvio a un enunciato, ora è ovvio che ciò che vuole sapere chi formula la domanda è sapere se questo enunciato sia vero o falso. É anche chiaro che il rispondere ‘Sì’ alla domanda equivale al dire che è vero, e rispondere ‘No’ al dire che è falso. A conclusioni analoghe si perviene riflettendo sui casi delle interrogative che non richiedono una risposta nei termini di una negazione o un’affermazione,  e  delle  frasi  imperative.  La  centralità  della  nozione  di  verità  sembra  così  essere confermata.  Della  seconda  obiezioni  esistono  più  varianti,  potremmo  perciò  formularla  come  segue.  Concentrando l’attenzione sulle condizioni di verità, si privilegia solo uno degli scopi cui il linguaggio può essere adibito: la descrizione della realtà, la trasmissione di informazioni su come è fatto il mondo. E questa è una mossa evidentemente arbitraria. Se si decide di ignorare la straordinaria varietà degli usi cui gli enunciati possono essere adibiti nelle circostanze concrete delle vita per concentrarsi in modo esclusivo sul  loro ruolo di  veicoli di informazione, ci si condanna ad offrire del linguaggio un’immagine desolantemente impoverita. Del resto anche se si è interessati al linguaggio come mez-zo per descrivere la realtà, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono assai più complicate. In primo luogo, il fornire informazione non può mai ridursi al proferire enunciati in modo casuale e sconnesso: parlando dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci tro-viamo,  delle  informazioni  di  cui  i  nostri  interlocutori  già  dispongono,  delle  loro  aspettative  ecc.; inoltre, ci sono regole precise di costruzione del discorso, violando le quali ciò che diciamo potreb-be non esser compreso o risultare folle. Per tutto questo le condizioni di verità non bastano. In se-condo luogo, le condizioni di verità degli enunciati sono concepite di solito come qualcosa di relati-vamente fisso e stabile. Di conseguenza, se il contenuto informativo degli enunciati dipendesse per intero dalle loro condizioni di verità, dovrebbe essere a sua volta stabile. Ma solo fintanto che si con-templano gli enunciati prescindendo da ogni loro impiego effettivo si può avere l’impressione che sia così. Ciò  che si può comunicare con un dato  enunciato varia enormemente con il variare dei contesti. La risposta abituale a questa obiezione consiste nell’evocare la distinzione tra semantica e pragmati-ca, una distinzione che risale a un saggio di Charles Morris, secondo il quale lo studio di una lingua, o di un qualsiasi altro sistema di segni, si compone di tre parti: sintassi, semantica e pragmatica. La sintassi si occuperebbe dei segni in quanto tali, prescindendo dalla loro interpretazione e dal loro uso, la semantica del significato dei segni, e la pragmatica di ciò che con i segni si può fare, dei loro impieghi concreti. Un’obiezione come sopra, si può dire, confonde semantica e pragmatica.  Qualcuno potrebbe però voler dire che questa risposta si riduce, nei fatti, ad una mera stipulazione definitoria. Il problema è se un tale modo di circoscrivere la semantica disgiungendola dalla prag-matica sia giustificato o meno: se cioè la decisione di isolare le condizioni di verità da altre dimen-sione del linguaggio rispecchi un’articolazione intrinseca della nostra competenza di parlanti, iden-tifichi un livello realmente fondamentale, e possa costituir una scelta metodica feconda.  Due punti: né il filosofo del linguaggio né il linguista sono tenuti a rendere conto di tutti gli usi pos-sibili del linguaggio. Si è tenuti a rendere conto solo di quelli che potremmo chiamare gli usi “lin-guistici” del linguaggio (MAH). Se focalizziamo la nostra attenzione su questi usi, possiamo convin-cerci che l’idea di partenza mantiene la propria plausibilità: sembra che la conoscenza delle condi-zioni di  verità degli enunciati  svolga un  ruolo essenziale anche  quando sono  coinvolti fattori  che non sono riducibili alle condizioni di verità pure e semplici. Non solo è legittimo distinguere seman-tica e pragmatica nel modo che si è detto, ma la pragmatica presuppone la semantica (MAH). Ad esempio si è rilevato come gli enunciati siano usati spesso per trasmettere un contenuto informativo  2 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! stato di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da parte di studiosi.  Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui elementi  sono  “costituenti  psichici”.  Usando  le  parole  di  Wittgenstein  si  può  continuare  a  dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?).  Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori notizie.  Una proposizione che rispecchi fedelmente  la struttura del  pensiero espresso è  detta da Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia resterà per lo più immutata.  I nomi che figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso comune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso comune  è il requisito  della  semplicità.  L’oggetto  deve  essere  semplice,  ma  di questa semplicità  il Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del Tractatus,  si scopre che una preoccupazione ricorrente di  Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza non perché  ne avesse in mente esempi specifici, bensì  sulla base di considerazioni logiche astratte e generali.  In effetti un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che le proposizione elementari siano immagini. Se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad un  dato nome corrisponda davvero  qualcosa. Un’entità complessa  consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto contingente.  5 stato di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui elementi sono “costituenti  psichici”. Usando  le  parole  di  Wittgenstein  si  può  continuare  a  dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?).  Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio traveste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagine vera e propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori notizie.  Una proposizione che rispecchi fedelmente  la struttura del  pensiero espresso è  detta da Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia resterà per lo più immutata.  I nomi che figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso co-mune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso comune  è il requisito  della  semplicità.  L’oggetto  deve  essere  semplice,  ma  di questa semplicità  il Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del Tractatus,  si scopre che una preoccupazione ricorrente di  Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza non perché  ne avesse in mente esempi specifici, bensì  sulla base di considerazioni logiche astratte e generali.  In effetti un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che le proposizione elementari siano immagini.  (II) Se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad un  dato nome corrisponda davvero  qualcosa. Un’entità complessa  consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto contingente. Pertanto, se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che una data proposizione abbia un senso. Supponiamo che nella proposizione P figuri il nome N: se a N potesse corrispondere un’entità complessa C, saremmo sicuri che a N corri-sponde davvero qualcosa,  e quindi che P  ha senso, solo se fossimo sicuri che  C esiste: in altri termini, solo se sapessimo già che è vera la proposizione P’ la quale asserisce che gli elementi costituitivi di C sono correlati in quel certo modo. Come dice Wittgenstein, “l’avere una proposi-zione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”. (IV) Ma questo sarebbe assurdo. Se una proposizione abbia senso oppure no deve essere chiaro a priori. É inconcepibile che la sensatezza o l’insensatezza di una proposizione possa essere “sco-perta”. Se, per essere sicuri che una proposizione è sensata, dovessimo sempre aver stabilito pri-ma la verità di un’altra proposizione, si genererebbe un regresso all’infinito, e noi non potrem-mo mai sapere se, parlando, stiamo dicendo alcunché di determinato. Non saremmo mai in gra-do di “progettare un’immagine del mondo vera o falsa”.  Devono esserci oggetti semplici e sono gli oggetti semplici che devono corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio.  NB. In questo ragionamento, la corrispondenza tra entità complesse e oggetti semplici viene fatta coincidere con quella tra entità la cui esistenza è un fatto contingente ed entità la cui esistenza è in-vece necessaria e nota a priori. “É manifesto che un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale, pure deve avere in comune con il mondo reale qualcosa — una forma —”; “Questa forma fissa consta appunto degli oggetti”.  La proposizione (I) non è dunque un’immagine vera e propria: la sua struttura non rispecchia la struttura di uno stato di cose perché i costituenti ultimi di uno stato di cose sono sempre oggetti semplici, mentre Piero e Marco sono entità complesse. I termini ‘Piero’ e ‘Marco’ non sono nomi del tipo che a Wittgenstein interessa. Questo però non implica che (I) sia priva di senso. Grazie alla mediazione del pensiero un senso ce l’ha (?), ma per esplicitarlo adeguatamente bisognerebbe ri-correre a proposizioni con una struttura del tutto diversa: a proposizioni completamente analizzate.  Si può finalmente comprendere perché ai nomi non si possa attribuire, a suo avviso, un senso di tipo descrittivo come quello cui pensava Frege. Identificare un oggetto attraverso una descrizione vuole dire identificarlo riferendosi ad uno stato di cose di cui esso fa parte. Ma il sussistere di uno stato di cose è sempre un fatto contingente, mentre la correlazione di un nome con l’oggetto che ne costi-tuisce il significato deve essere garantita a priori. Pertanto, ciò che istituisce la correlazione nome/oggetto non può essere una descrizione dell’oggetto stesso.  Vediamo  ora cosa Wittgenstein  sostiene  riguardo  le  proposizioni complesse. La  sua  idea  è  che  le proposizioni  complesse  siano  funzioni  di  verità  delle  proposizioni  elementari  che  figurano  come loro costituenti. Supponiamo che le proposizioni elementari che figurano nella proposizione com-plessa P siano P1, …, Pn. Allora dire che P è una funzione di verità di P1, …, Pn equivale a dire che il valore di verità di P dipende esclusivamente dai valori di verità di P1, …, Pn (negazione, congiun-zione, disgiunzione, condizionale…).  Per visualizzare il modo in cui il valore di verità di una proposizione costruita per mezzo di un dato connettivo dipende dai valori di verità delle proposizioni costituenti, Wittgenstein propone un artificio grafico: le cosiddette ‘tavole di verità’. Tavola di verità della negazione:  P¬ PT (1)F (0)F (0)T (1). Tavola di verità della congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione (inclusiva):  Wittgenstein osserva che le tavole di verità, così come sono, potrebbero addirittura fungere da pro-posizioni complesse di un linguaggio artificiale: ad esempio, le tre tavole di verità sopra riportate potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,(P ^ Q),(P Q). Se si seguisse questo suggerimento si di-sporrebbe di un simbolismo autoesplicativo ma anche enormemente ingombrante. Notiamo ora una grossa differenza tra Frege e Wittgenstein nel modo di concepire i connettivi logici. Per Frege ogni connettivo denota una certa funzione che associa valori di verità a valori di verità (dove i valori di verità vanno pensati come oggetti). Frege avrebbe dunque interpretato la tavola di verità per un connettivo come un modo per descrivere la funzione da esso denotata. Per Wittgenstein, invece, i connettivi non denotano nulla. Tutto quel che c’è da dire circa un connettivo è che esso consente di costruire proposizioni complesse il cui essere vere o false dipende, secondo certe modalità determinate, dall’essere vere o false le proposizioni costituenti. Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per Wittgenstein, come chiedersi che cosa denotino le parentesi.  A queste considerazioni circa le proposizioni complesse è strettamente collegata la concezione wittgensteiniana della logica.  Né Frege né Russell avevano saputo spiegare  che cosa contraddistingue una proposizione logica da una proposizione di altro tipo, e questo era proprio uno degli obbiettivi di Wittgenstein nella stesura del Tractatus. Se si pensa ancora una volta al valore di verità di una pro-posizione  complessa  come  determinato  dai valori di verità dei  suoi  costituenti  elementari,  si  può constare che ci sono due casi limite: quello in cui una proposizione complessa risulta vera, e quello in cui una proposizione complessa risulta essere falsa, per tutte le possibili combinazioni di verità dei costituenti elementari. Una proposizione del primo tipo Wittgenstein la chiama ‘tautologia’, una del secondo tipo ‘contraddizione’.  Ciò che Wittgenstein sostiene circa la natura della logica è che essa consta per intero di tautologie. É l’essere una tautologia ciò che contraddistingue una proposizione logica da qualsiasi altra. Una pro-posizione logica non è tale per via del suo contenuto ma, piuttosto, perché non ha contenuto, per-ché non dice nulla. Le tautologie non possono fornirci alcuna informazione sulla realtà. Il loro inte-ressa sta nel fatto che, essendo vere in virtù delle sole regole del linguaggio, esse ci mostrano come questo funzioni.  Avevamo detto che il senso di una proposizione elementare è lo stato di cose che la proposizione rappresenta. Alle  proposizioni complesse questa nozione di  senso non  può essere  applicata senza modifiche. Il motivo è che, se P è una proposizione complessa, non c’è uno stato di cose di cui si possa ragionevolmente dire che è rappresentato da P. Tuttavia, se Wittgenstein ha ragione nel dire che tutte le proposizioni complesse sono funzioni di  verità dei loro costituenti proposizionali ele-mentari, l’essere P vera o falsa dipende pur sempre dal sussistere o non sussistere di certi stati di cose. Ciò che Wittgenstein dunque propone è di identificare il senso di P con quelle combinazioni del sussistere e non sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per le quali P risulta vero. “Il senso della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP QTTTTFTFTTFFF 7  Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti!  Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! è un'attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine bisogna che ciascuno si attenga a quattro “massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E CONDIZIONI DI VERITA’:-“TRATTATO LOGICO-FILOSOFICO” di Wittgenstein: CAPIRE UNA PROPOSIZIONE SIGNIFICA SAPERE COSA ACCADE SE ESSA E’VERA(alla base deve esserci la nozione di verità)-LINGUAGGIO: usato x descrivere la realtà, attraverso la PROPORZIONE che fornisce una descrizione della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO SAPERE QUALI SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO CONOSCERE LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’(circostanze in cui essa è vera) FRA INTENDIMENTI POSSIBILI: CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE E’ DIVERSO DAL SAPERE SE E’ V O F Es: l’uomo + alto del mondo è bruno = NON SO SE E’ VERA MA CONOSCO LE CONDIZIONI DI VERITA’ES: Napoleon was defeated by Nelson = E’ VERA,MA NON CONOSCO L’INGLESE E NON CONOSCO LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’ CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE EQUIVALE A SAPERE COME SI FA X STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La luna ha un diametro superiore ai tremila km= CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI VERITA’,MA NON CONOSCO IL METRO X VALUTARE IL DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO COME SI FA A STABILIRE SE ESSA E’ VERA- PROPOSIZIONE=FRASE DICHIARATIVA(x mezzo della quale si può fare un asserzione e ha senso chiedersi se è v o f) = ENUNCIATO*tesi è plausibile ma può essere soggetta a critiche,2 obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE DI SIGNIFICATO,MA NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI DI VERITA’: espressioni sintatticamente ben formate che non sono frasi complete-PAROLE SINGOLE, ESPRESSIONI COME “VALIGIA PESANTE”, FRASI INTERROGATIVE ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il conto!*LA NOZIONE DI VERITA’ NON E’ L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL SIGNIFICATO: anche nell’analisi delle PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E FRASI COMPLETE CHE NON SONO ENUNCIATI, LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON E’ SUFFICIENTE X UN’ANALISI ADEGUATA DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI - concentrando l’attenzione sulle condizioni di verità si privilegia la descrizione della realtà, ma questo atteggiamento è arbitrario: UN INDIVIDUO PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X + FINI E IN TUTTI I CASI  NON HA MOLTA IMP SE GLI ENUNCIATI SONO V O F parlando dobbiamo tenere conto della situazione in cui ci troviamo, delle info che possiedono i nostri interlocutori, delle loro aspettative e delle regole della costruzione del discorso -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI  AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO. Morri s= lo studio della lingua si divide in 3 parti: SINTASSI: studia segni in quanto tali. SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE:  - conversazione = ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime:1.QUANTITA’ = giusta via di mezzo   2. QUALITA’= non dire cs false    3. RELAZIONE = cose pertinenti   4. MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE. FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna  -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico generale 1. SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato= riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna + alta al mondo = SIGNIFICATO è il Monte Everest TERMINI SINGOLARI nomi propri E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE  D. es: Totò, Grazia, New York descrizioni definite= ARTICOLO DET SING + NOME SINGOLARE  es: IL marito di Luisa- UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale -le espressioni hanno un significato in virtù del loro senso senso diverso da rappresentazione =  E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI  AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO. Morris= lo studio della lingua si divide in 3 parti:1.SINTASSI: studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE:  -conversazione = ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime. QUANTITA’=giusta via di mezzo   QUALITA’= non dire cs false    3. RELAZIONE = cose pertinenti    .MODO = parlare in modo chiaro e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE 2. FREGE: primo filosofo analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna  -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo crea l’ideografia- LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico generale1.SINN: senso (OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA) BEDETUNG: significato = riferimento Es: Aristotole = SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna + alta al mondo= SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York  *descrizioni definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE  es: IL marito di Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato in virtù del loro senso-senso diverso da rappresentazione=  E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti!  FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO + DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone, Socrate, Medioevo PREMESSA PARADIGMA CLASSICOFrege Russell Wittgenstein Tarski Quine Putnam FREGE, “SENSO E SIGNIFICATO”; ENUNCIATI DI IDENTITÀ (A=A/A=B) TERMINI SINGOLARI (NOMI PROPRI e DESCRIZIONI DEFINITE) ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del CONTESTO, di COMPOSIZIONALITÀ e di SOSTITUIBILITÀ) QUANTIFICATORI RUSSELLLE DESCRIZIONIDESCRIZIONI INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALI TAUTOLOGIE CONTRADDIZIONI TAVOLE DI VERITÀ LA NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA. TARSKI LINGUAGGIO OGGETTO e METALINGUAGGIO DEFINIRE LA VERITÀ CONVENZIONE V COSTANTI (INDIVIDUALI, PREDICATIVE e LOGICHE) SIMBOLI AUSILIARI SODDISFACIMENTO PARADOSSI VERITÀ RELATIVA AD UN MODELLO CARNAP DESCRIZIONI DI STATO ESTENSIONE e INTENSIONE POSSIBILITÀ e NECESSITÀ LOGICHE KRIPKE VERITÀ LOGICA MODELLO K VERBI DI CREDENZA DEISSI (o INDICALI) QUINE DUE DOGMI DELL’EMPIRISMOANALITICO / SINTETICO RIDUZIONISMO REGOLE SEMANTICHE TEORIA DELLA VERIFICAZIONE. il significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV. OBIEZIONE. Essa si basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato, non sono enunciati e quindi non gli si possono attribuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni student che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti il conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomentativa risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettedoci, ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative ed imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi adeguata del significato degli enunciati. Concentrando l’attenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati possono essere adibiti per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono molto più complicate, per due motivi:- parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informativo degli enunciati dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abbiano CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la distinzione tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribattre che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti. Non si è tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio - il significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato, non sono enunciate  quindi non gli si possono attrbuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni student che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti l conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomenativa risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Riflettendoci, ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogative ed imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno. OBIEZIONE #2. Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi adeguata del significato degli enunciate. Concentrando l’attenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enunciati ossono essere adibiti per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono molto più complicate, per due motivi. Parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informativo degli enunciatti dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contesto. Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammettere che gli enunciate abiano CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALE RISPOSTA = evocate la distinzione tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS. Secondo Morris, lo studio di una lingua si compone di: SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali; SEMANTICA che riguarda il significato dei segni; PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribattere che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti. Non si è tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio è legittima la distinzione tra semantica e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la semantica, Questo secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si avvnga a massime sotto quattro categorie conversazionali (alla funzioni di Kant): CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA RELAZIONE: dire cose perttnenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo -- parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità - è legittima la distinzione tra semantica e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la semantica. Questo secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si attenga a 4 massime. CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento. QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI: dire cose pertinenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo. parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità. Paolo Stefano Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords: filosofia linguistica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casalegno” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Casanova: l’implicatura conversazionale del desiderio omoerotico – filosofia veneziana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “It is fascinating to analyse what Casanova calls ‘piegadura’, or ‘piegadure,’ in the plural – bendings – my implicatura is a bit like his piegadura, only less acute!” -- Grice: “I would hardly call Casanova a philosopher, but my wife hardly would not!” -- Giacomo Casanova ritratto dal fratello Francesco Giacomo Girolamo Casanova (Venezia) avventuriero, scrittore, poeta, alchimista, esoterista, diplomatico, finanziere, scienziato, filosofo e agente segreto della Serenissima italiano, cittadino della Repubblica di Venezia.  Benché di lui resti una produzione letterariatra trattati e testi saggistici d'argomento vario (s'occupò, nell'ampia gamma dei suoi interessi, perfino di matematica) e opere letterarie in prosa come in versivastissima, viene a tutt'oggi ricordato principalmente come un avventuriero e, per via della sua vita amorosa a dir poco movimentata, come colui che fece del proprio nome l'antonomasia del soave e raffinato seduttore e libertino. A tutt'oggi un playboy viene spesso chiamato "casanova".  A questa sua fama di grande conquistatore di donne contribuì verosimilmente la sua opera più importante e celebre: Histoire de ma vie (Storia della mia vita), in cui l'autore descrive, con la massima franchezza (pur non per questo privandosi d'anedotti romanzeschi e alcuni abbellimenti), le sue avventure, i suoi viaggi e, soprattutto, i suoi innumerevolissimi incontri galanti. L'Histoire è scritta in francese: tale scelta linguistica fu dettata principalmente da motivi di diffusione dell'opera, in quanto all'epoca il francese era la lingua più conosciuta e parlata dalle élite d'Europa.  Fra corti e salotti vari, si ritrovò a vivere, quasi senza rendersene conto, un momento di svolta epocale della storia, non comprendendo affatto lo spirito di fortissimo rinnovamento che avrebbe fatto virare la storia in direzioni mai percorse prima; rimase infatti ancorato fino alla fine dei propri giorni ai valori, precetti e credenze dell'ancien régime e della sua rispettiva classe dominante, l'aristocrazia, alla quale era stato escluso per nascita e della quale cercò disperatamente di far parte, anche quando essa era ormai irrimediabilmente avviata al crepuscolo, per tutta la propria vita. Tra le personalità eccelse dell'epoca che ebbe modo di conoscere personalmente, e di cui ci ha lasciato testimonianza diretta, si possono citare Jean-Jacques Rousseau, Voltaire, Madame de Pompadour, Wolfgang Amadeus Mozart, Benjamin Franklin, Caterina II di Russia e Federico II di Prussia. Dalla nascita alla fuga dai Piombi. Venezia, Calle della Commedia (ora Malipiero) Giacomo Girolamo Casanova nacque a Venezia, in Calle della Commedia (ora Calle Malipiero), nei pressi della chiesa di San Samuele, dove fu anche battezzato, il 2 aprile del 1725. Molte  opere enciclopediche o letterarie recano erroneamente i nomi di battesimo Giovanni Giacomo, la cui origine è sicuramente da ricercarsi nella pubblicazione dell'opera del 1835 Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII e de' contemporanei, Emilio De Tipaldo, in cui l'autore della voce relativa al Casanova, Bartolomeo Gamba, intestò erroneamente la voce a un certo Giovanni Giacomo Casanova. Successivamente, l'errore fu ripetuto nel 1931 nella voce su Casanova dell'Enciclopedia Treccani e da allora è spesso riapparso.  Si può leggere il nome corretto nel documento relativo al battesimo del Casanova.  «Addì 5 aprile 1725  Giacomo Girolamo fig.o di D. Gaietano Giuseppe Casanova del q.(uondam) Giac.o Parmegiano comico, et di Giovanna Maria, giogali, nato il 2 corr. battezzato daGio. Batta Tosello sacerd. di chiesa de licentiaComp. il signor Angelo Filosi q.(uondam) Bartolomeo stà a S. Salvador. Lev. Regina Salvi.»  (Storia della mia vita, Mondadori) Il padre, Gaetano Casanova, era un attore e ballerino parmigiano di remote origini spagnole (almeno stando alla dubbia genealogia tracciata dal Casanova all'inizio dell'Histoire, gli avi paterni sarebbero stati originari di Saragozza, nell'Aragona[E 3]), mentre la madre, Zanetta Farussi, era un'attrice veneziana che, nella sua professione, ebbe di gran lunga maggior successo del marito, dato che la troviamo menzionata persino da Carlo Goldoni nelle sue Memorie, ove la definì: "...una vedova bellissima e assai valente". La voce popolare lo considerava frutto di una relazione adulterina della madre con il patrizio veneziano Michele Grimani[E 4] e Casanova stesso affermò, seppur in maniera criptica nel suo libello Né amori né donne, di essere figlio naturale del patrizio. Ma ulteriori indizi a suffragio della tesi potrebbero derivare dal fatto che, dopo la morte del padre, i Grimani si presero cura di lui con un'assiduità che appare andasse oltre i normali rapporti di protezione e liberalità che le famiglie patrizie veneziane praticavano nei confronti delle persone che, a qualche titolo, avevano servito la casata. Il che troverebbe conferma anche nel fatto che la giustizia della Repubblica, solitamente piuttosto severa, non infierì mai particolarmente nei suoi confronti. Dopo la sua nascita, la coppia ebbe altri cinque figli: Francesco, Giovanni Battista, Faustina Maddalena, Maria Maddalena Antonia Stella e Gaetano Alvise.   Chiesa di San Samuele, Venezia Rimasto orfano di padre a soli otto anni d'età ed essendo la madre costantemente in viaggio a causa della sua professione, Giacomo fu allevato dalla nonna materna Marzia Baldissera in Farussi. Da piccolo era di salute cagionevole e per questo motivo la nonna lo condusse da una fattucchiera che, eseguendo un complicato rituale, riuscì a guarirlo dai disturbi da cui era affetto. Dopo quell'esperienza infantile, l'interesse per le pratiche magiche lo accompagnerà per tutta la vita, ma lui stesso era il primo a ridere della credulità che tanti manifestavano nei confronti dell'esoterismo.  All'età di nove anni fu mandato a Padova, dove rimase fino al termine degli studi; nel 1737 s'iscrisse all'università dove, come ricorda nelle Memorie, si sarebbe laureato in diritto; la questione dell'effettivo conseguimento del titolo accademico è molto controversa: infatti Casanova descrive nelle Memorie gli anni passati all'Padova, sostenendo di essersi laureato. Analoga affermazione risulta anche dalla dedica dell'opera del 1797 a Leonard Snetlage, il cui frontespizio reca scritto A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue. Inoltre da documenti risulta che il Casanova abbia lavorato nello studio dell'avvocato Marco Da Lezze, dal che si era presunto che, compiuti gli studi e conseguita la laurea, fosse andato a compiere il praticantato presso il Da Lezze. Nonostante queste fonti, il primo a dubitare del titolo conseguito dal Casanova fu Pompeo Molmenti, ma ben presto gli studi del Brunelli, il quale aveva reperito documenti che dimostravano in modo certo l'avvenuta immatricolazione al primo anno e le successive iscrizioni, convinsero tutti gli autori dell'effettivo conseguimento del titolo accademico; in tal senso, tra i tanti, anche James Rives Childs (Casanova). Successivamente Enzo Grossato pose nuovamente in dubbio il conseguimento del titolo rifacendosi ai registri di laurea, i quali non menzionano il nome del veneziano. Dello stesso avviso Piero Del Negro, il quale rilevò che, oltre ai registri consultati dal Grossato, anche un ulteriore codice, il Registro dottorati 1737 usque ad 1747, non riportava il nome del Casanova; inoltre egli constatò che il Casanova non aveva mai parlato del titolo se non in epoca tarda, quando ormai ricostruire la circostanza sarebbe stato difficile per chiunque.  Terminati gli studi, Giacomo Casanova viaggiò a Corfù e a Costantinopoli, per poi rientrare a Venezia nel 1742. Nella sua città natale ottenne un impiego presso lo studio dell'avvocato Marco da Lezze. La nonna Marzia Baldissera morì. Con la morte della nonna, alla quale era legatissimo, si chiuse un capitolo importante della sua vita: la madre decise di lasciare la bella e costosa casa in Calle della Commedia[E 7] e di sistemare i figli in modo economicamente più sostenibile. Questo evento segnò profondamente Giacomo, togliendogli un importante punto di riferimento. Nello stesso anno fu rinchiuso, a causa della sua condotta piuttosto turbolenta, nel Forte di Sant'Andrea dalla fine di marzo alla fine di luglio. Più che l'applicazione di una pena, fu un avvertimento tendente a cercare di correggerne il carattere.  Messo in libertà, partì, grazie ai buoni uffici materni, per la Calabria, al seguito del vescovo di Martirano che si recava ad assumere la diocesi. Una volta giunto a destinazione, spaventato per le condizioni di povertà del luogo, chiese e ottenne congedo. Viaggiò a Napoli e a Roma, dove nel 1744 prese servizio presso il cardinal Acquaviva, ambasciatore della Spagna presso la Santa Sede. L'esperienza si concluse presto, a causa della sua condotta imprudente: infatti aveva nascosto nel Palazzo di Spagna, residenza ufficiale del cardinale, una ragazza fuggita di casa.   Targa commemorativa su Palazzo Malipiero Nel febbraio del 1744 arrivò ad Ancona, dove era già stato sette mesi prima. Durante il primo soggiorno nella città era stato costretto a passare la quarantena nel lazzaretto, dove aveva intessuto una relazione con una schiava greca, alloggiata nella camera superiore alla sua.[E 9]  Fu però durante il suo secondo soggiorno ad Ancona che Casanova ebbe una delle sue più strane avventure: si innamorò di un seducente cantante castrato, Bellino, convinto che si trattasse in realtà di una donna. Fu solo dopo una corte serrata che Casanova riuscì a scoprire ciò che sperava: il castrato era in realtà una ragazza, Teresa (con cui avrà il figlio illegittimo Cesarino Lanti), che, per sopravvivere dopo essere rimasta orfana, si faceva passare per un castrato in modo da poter cantare nei teatri dello Stato della Chiesa, dove era vietata la presenza di donne sul palcoscenico. Il nome di Teresa ricorre spesso nel testo dell'Histoire, a testimonianza dei molti incontri avvenuti, negli anni, nelle capitali europee dove Teresa mieteva successi con le sue interpretazioni. Ritornò quindi a Venezia e, per un certo periodo, si guadagnò da vivere suonando il violino nel teatro di San Samuele, di proprietà dei nobili Grimani che, alla morte del padre, avvenuta prematuramente (1733), avevano assunto ufficialmente la tutela del ragazzo, avvalorando la voce popolare secondo la quale uno dei Grimani, Michele, fosse il vero padre di Giacomo.  Nel 1746 avvenne l'incontro con il patrizio veneziano Matteo Bragadin, che avrebbe migliorato sostanzialmente le sue condizioni. Colpito da un malore, il nobiluomo fu soccorso da Casanova e si convinse che, grazie a quel tempestivo intervento, aveva potuto salvarsi la vita. Di conseguenza prese a considerarlo quasi come un figlio, contribuendo, finché visse, al suo mantenimento. Nelle ore concitate in cui assisteva Bragadin, Casanova venne in contatto con i due più fraterni amici del senatore, Marco Barbaro[E 11] e Marco Dandolo; anch'essi gli si affezionarono profondamente e, finché vissero, lo tennero sotto la loro protezione. La frequentazione con i nobili attirò l'interesse degli Inquisitori di Stato e Casanova, su consiglio di Bragadin, lasciò Venezia in attesa di tempi migliori.  Nel 1749 incontrò Henriette, che sarebbe stata forse il più grande amore della sua vita. Lo pseudonimo nascondeva probabilmente l'identità di una nobildonna di Aix-en-Provence, forse Adelaide de Gueidan. Su questa e su altre identificazioni, i "casanovisti" si sono accapigliati per decenni. In linea di massima, come è stato sostenuto da molti studiosi, i personaggi citati nelle Memorie sono reali. Al più, l'autore potrebbe essersi cautelato con qualche piccola accortezza: spesso, trattandosi di donne sposate, alcune sono citate con le iniziali o con nomi di fantasia, talvolta l'età viene un po' modificata per galanteria o per vanità dell'autore che non amava riferire di avventure con donne considerate, con i criteri di allora, in età matura, ma in generale le persone sono identificabili e anche i fatti riferiti sono risultati corretti e riscontrabili. Innumerevoli identificazioni e notizie documentali hanno confermato il racconto.  Se qualche errore c'è stato, lo si deve anche al fatto che, all'epoca in cui furono scritte le Memorie (dal 1789 in poi), erano passati molti anni dai fatti e, per quanto l'autore si possa essere aiutato con diari o appunti, non era facile incasellare cronologicamente gli eventi. Ogni tanto l'autore si faceva però trascinare dalla sua visione teatrale delle cose e non rinunciava a qualche "colpo di teatro", il che peraltro contribuisce a rendere la lettura più piacevole. Il problema dell'attendibilità del racconto casanoviano è tuttavia molto complesso: ciò che è difficile o, in molti casi, impossibile da valutare è se i rapporti che Casanova riferisce di aver intrattenuto con i personaggi siano rispondenti alla realtà dei fatti. Taluni studiosi hanno ritenuto che nel corpus delle Memorie siano stati inseriti dei passaggi totalmente romanzati e di pura invenzione, basati comunque su personaggi storicamente esistiti ed effettivamente presenti nel luogo e nel tempo della descrizione.  Il caso più clamoroso è quello che riguarda la relazione di Casanova con suor M.M.e i conseguenti rapporti con l'ambasciatore di Francia De Bernis. Si tratta di una delle parti più valide dell'opera dal punto di vista letterario e stilistico. Il ritmo del racconto è serratissimo e la tensione emotiva dei personaggi di straordinario realismo. Secondo alcuni studiosi il racconto è assolutamente veritiero e si è ripetutamente tentata l'identificazione della donna, secondo altri il racconto è di pura fantasia e basato sulle confidenze del cuoco dell'ambasciatore (tale Rosier), che effettivamente Casanova conosceva molto bene. La diatriba tra le varie tesi continuerà ma, comunque stiano le cose, il valore dell'opera non cambia, perché ciò che perde il Casanova memorialista lo guadagna il Casanova romanziere.[E 15]  Rientrato a Venezia nella primavera del 1750, nel giugno successivo decise di partire per Parigi. A Milano si incontrò con l'amico Antonio Stefano Balletti, figlio della celebre attrice Silvia, e con lui proseguì alla volta della capitale francese. Durante il viaggio, a Lione, Casanova aderì alla Massoneria.[E 17] Non sembra che la decisione fosse ascrivibile a inclinazioni ideologiche, ma piuttosto alla pratica esigenza di procurarsi utili appoggi.  «Ogni giovane che viaggia, che vuol conoscere il mondo, che non vuol essere inferiore agli altri e escluso dalla compagnia dei suoi coetanei, deve farsi iniziare alla Massoneria, non fosse altro per sapere superficialmente cos'è. Deve tuttavia fare attenzione a scegliere bene la loggia nella quale entrare, perché, anche se nella loggia i cattivi soggetti non possono far nulla, possono tuttavia sempre esserci e l'aspirante deve guardarsi dalle amicizie pericolose.»  (Giacomo Casanova, Memorie) Ottenne qualche risultato: infatti molti personaggi incontrati nel corso della sua vita, come Mozart[E 18] e Franklin erano massoni e alcune facilitazioni ricevute in varie occasioni sembrerebbero dovute ai benefici derivanti dal far parte di un'organizzazione ben radicata in quasi tutti i paesi europei. Giunti a Parigi, Balletti presentò Casanova alla madre, che lo accolse con familiarità; la generosa ospitalità della famiglia Balletti si protrasse per i due anni in cui visse nella capitale francese. Durante la permanenza si applicò allo studio del francese, che sarebbe divenuto la sua lingua letteraria oltre che, in molti casi, epistolare.[E 20]  Ritornato a Venezia dopo il lungo soggiorno parigino e altri viaggi a Dresda, Praga e Vienna, il 26 luglio 1755, all'alba, fu arrestato e ristretto nei Piombi. Come d'uso all'epoca, al condannato non venne notificato il capo d'accusa, né la durata della detenzione cui era stato condannato. Ciò, come in seguito scrisse, si rivelò dannoso, poiché se avesse saputo che la pena era di durata tutto sommato sopportabile, si sarebbe ben guardato dall'affrontare il rischio mortale dell'evasione e soprattutto il pericolo della possibile successiva eliminazione da parte degli inquisitori, i quali, spesso, arrivavano a operare anche molto lontano dai confini della Repubblica. Questi magistrati erano l'espressione più evidente dell'arbitrarietà del potere oligarchico che governava Venezia. Erano insieme tribunale speciale e centrale di spionaggio.  Sui motivi reali dell'arresto si è discusso parecchio. Certo è che il comportamento di Casanova era tenuto d'occhio dagli inquisitori e rimangono molte riferte (rapporti delle spie al soldo degli Inquisitori) che ne descrivevano minutamente i comportamenti, soprattutto quelli considerati socialmente sconvenienti. In definitiva l'accusa era quella di "libertinaggio" compiuto con donne sposate, di spregio della religione, di circonvenzione di alcuni patrizi e in generale di un comportamento pericoloso per il buon nome e la stabilità del regime aristocratico. Di fatto, Casanova conduceva una vita alquanto disordinata, ma né più né meno di tanti rampolli delle casate illustri: come questi giocava, barava e aveva anche delle idee abbastanza personali in materia di religione e, quel che è peggio, non ne faceva mistero.   L'arresto di Casanova (illustrazione per Storia della mia fuga) Anche la sua adesione alla Massoneria, che era nota agli Inquisitori, non gli giovava, così come la scandalosa relazione intrattenuta con "suor M.M.", certamente appartenente al patriziato, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in Murano e amante dell'ambasciatore di Francia, abate De Bernis. Insomma, l'oligarchia al potere non poteva tollerare oltre che un individuo ritenuto socialmente pericoloso restasse in circolazione.  Tuttavia gli appoggi, di cui certamente poteva disporre nell'ambito del patriziato, lo aiutarono notevolmente, sia nell'ottenere una condanna "leggera" sia durante la reclusione, e forse addirittura ne agevolarono l'evasione. La contraddizione è solo apparente, perché Casanova fu sempre un personaggio ambivalente: per estrazione e mezzi faceva parte di una classe subalterna, anche se contigua alla nobiltà, ma per frequentazioni e protezioni poteva sembrare far parte, a qualche titolo, della classe al potere. A questo riguardo va anche considerato che il suo presunto padre naturale, Michele Grimani, apparteneva a una delle famiglie più illustri dell'aristocrazia veneziana, annoverando ben tre dogi e altrettanti cardinali. Questa paternità fu rivendicata da Casanova stesso nel libello Né amori né donne e sembra che anche la somiglianza di aspetto e di corporatura dei due avvalorasse parecchio la tesi.  Dalla fuga dai Piombi al ritorno a Venezia (17561774)  Presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo allievo Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo) Appena riavutosi dallo shock dell'arresto, Casanova cominciò a organizzare la fuga. Un primo tentativo fu vanificato da uno spostamento di cella. Nella notte fra il 31 ottobre e il 1º novembre 1756 mise in atto il suo piano: passando dalla cella alle soffitte, attraverso un foro nel soffitto praticato da un compagno di reclusione, il frate Marino Balbi, uscì sul tetto e successivamente si calò di nuovo all'interno del palazzo da un abbaino. Passò quindi, in compagnia del complice, attraverso varie stanze e fu infine notato da un passante, che pensò fosse un visitatore rimasto chiuso all'interno e chiamò uno degli addetti al palazzo il quale aprì il portone, consentendo ai due di uscire e di allontanarsi fulmineamente con una gondola.  Si diressero velocemente verso nord. Il problema era seminare gli inseguitori: infatti la fuga gettava un'ombra sull'amministrazione della giustizia di Venezia ed era chiaro che gli Inquisitori avrebbero tentato di tutto per riacciuffare gli evasi. Dopo brevi soggiorni a Bolzano (dove i banchieri Menz lo ospitarono e aiutarono economicamente), Monaco di iera (dove Casanova finalmente si liberò della scomoda presenza del frate), Augusta e Strasburgo, il 5 gennaio 1757 arrivò a Parigi, dove nel frattempo il suo amico De Bernis era divenuto ministro e quindi gli appoggi non gli mancavano.   Illustrazione da Storia della mia fuga Rinfrancato e trovata una sistemazione, iniziò a dedicarsi alla sua specialità: brillare in società, frequentando quanto di meglio la capitale potesse offrire. Conobbe tra gli altri la marchesa d'Urfé nobildonna ricchissima e stravagante, con la quale intrattenne una lunga relazione, dilapidando cospicue somme di denaro che lei gli metteva a disposizione, soggiogata dal suo fascino e dal consueto corredo di rituali magici.  Il 28 marzo 1757 assistette, come accompagnatore di alcune dame «incuriosite da quell'orrendo spettacolo» (mentre lui distolse lo sguardo) e di un conte trevigiano, alla cruenta esecuzione (tramite squartamento) di Robert François Damiens, che aveva attentato alla vita di Luigi XV.  Molto fantasioso, come al solito, si fece promotore di una lotteria nazionale, allo scopo di rinsaldare le finanze dello stato. Osservava che questo era l'unico modo di far contribuire di buon grado i cittadini alla finanza pubblica. L'intuizione era talmente valida che ancora adesso il sistema è molto praticato. L'iniziativa venne autorizzata ufficialmente e Casanova venne nominato "Ricevitore" il 27 gennaio 1758. Nel settembre dello stesso anno, De Bernis fu nominato cardinale; un mese dopo Casanova fu incaricato dal governo francese di una missione segreta nei Paesi Bassi.[26]  Al suo ritorno fu coinvolto in un'intricata faccenda riguardante una gravidanza indesiderata di un'amica, la scrittrice veneziana Giustiniana Wynne. Di madre italiana e padre inglese, Giustiniana era stata al centro dell'attenzione per la sua rovente relazione con il patrizio veneziano Andrea Memmo. Questi aveva cercato in tutti i modi di sposarla, ma la ragion di stato (lui era membro di una delle dodici famigliecosiddette apostolichepiù nobili di Venezia) glielo aveva impedito, a causa di alcuni oscuri trascorsi della madre di lei, e, in seguito allo scandalo che ne era sortito, i Wynne avevano lasciato Venezia.[27] Giunta a Parigi, trovandosi in stato interessante e di conseguenza in grosse difficoltà, la ragazza si rivolse per aiuto a Casanova, che aveva conosciuto a Venezia e che era anche ottimo amico del suo amante. La lettera con cui implorava aiuto è stata ritrovata[28] ed è singolare la schiettezza con cui la ragazza si rivolge a Casanova, dimostrando una fiducia totale in quest'ultimo,[29] tenuto conto dell'enorme rischio a cui si esponeva (e lo esponeva) nel caso in cui il messaggio fosse caduto nelle mani sbagliate.  Casanova si prodigò per darle aiuto, ma incorse in una denuncia per concorso in pratiche abortive, presentata dall'ostetrica Reine Demay in combutta con un losco personaggio, Louis Castel-Bajac, per estorcere denaro in cambio di una ritrattazione. Benché l'accusa fosse molto grave, Casanova riuscì a cavarsela con la consueta presenza di spirito e fu prosciolto, mentre la sua accusatrice finì in carcere. L'amica abbandonò l'idea di interrompere la gravidanza e in seguito partorì nel convento in cui si era rifugiata. Ceduti i suoi interessi nella lotteria, Casanova si imbarcò in una fallimentare operazione imprenditoriale, una manifattura di tessuti, che naufragò anche a causa di una forte restrizione delle esportazioni derivante dalla guerra in corso. I debiti che ne derivarono lo condussero per un po' in carcere (agosto 1759). Come al solito, il provvidenziale intervento della ricca e potente marchesa d'Urfé lo tolse dall'incomoda situazione.[30]  Gli anni successivi furono un intenso continuo peregrinare per l'Europa. Si recò nei Paesi Bassi, poi in Svizzera, dove incontrò Voltaire nel castello di Ferney. L'incontro con Voltaire, il maggior intellettuale vivente all'epoca, occupa parecchie pagine dell'Histoire ed è riferito nei minimi particolari; Casanova esordì dicendo che era il giorno più felice della sua vita e che per vent'anni aveva aspettato di incontrarsi con il suo "maestro"; Voltaire gli rispose che sarebbe stato ancora più onorato se, dopo quell'incontro, lo avesse aspettato per altri vent'anni.[31] Un riscontro obiettivo si trova in una lettera di Voltaire a Nicolas-Claude Thieriot, datata 7 luglio 1760, in cui la figura del visitatore viene tratteggiata con ironia. Lo stesso Casanova non era d'accordo con molte idee di Voltaire («Voltaire [...] doveva capire che il popolo per la pace generale della nazione ha bisogno di vivere nell'ignoranza», dirà in seguito), e quindi rimase insoddisfatto, anche se scrisse poi delle parole di stima per il patriarca dell'illuminismo: «Partii assai contento di aver messo quel grande atleta alle corde l'ultimo giorno. Ma di lui mi rimase un brutto ricordo che mi spinse per dieci anni di seguito a criticare tutto ciò che quel grand'uomo dava al pubblico di vecchio o di nuovo. Oggi me ne pento, anche se, quando leggo ciò che pubblicai contro di lui, mi sembra di aver ragionato giustamente nelle mie critiche. Comunque avrei dovuto tacere, rispettarlo e dubitare dei miei giudizi. Dovevo riflettere che senza i sarcasmi che mi dispiacquero il terzo giorno, avrei trovato tutti i suoi scritti sublimi. Questa sola riflessione avrebbe dovuto impormi il silenzio, ma un uomo in collera crede sempre di aver ragione.[31]»  In seguito andò in Italia, a Genova, Firenze e Roma.[33] Qui viveva il fratello Giovanni, pittore, allievo di Mengs. Durante il soggiorno presso il fratello fu ricevuto dal papa Clemente XIII.  Nel 1762 ritornò a Parigi, dove riprese a esercitare pratiche esoteriche insieme alla marchesa d'Urfé, fino a che quest'ultima, resasi conto di essere stata per anni presa in giro con l'illusione di rinascere giovane e bella per mezzo di pratiche magiche, troncò ogni rapporto con l'improvvisato stregone che, dopo poco tempo, lasciò Parigi, dove il clima che si era creato non gli era più favorevole, per Londra, dove fu presentato a corte.[34]  Nella capitale inglese conobbe la funesta Charpillon, con la quale cercò di intessere una relazione. In questa circostanza anche il grande seduttore mostrò il suo lato debole e questa scaltra ragazza lo portò fin sull'orlo del suicidio. Non che fosse un grande amore, ma evidentemente Casanova non poteva accettare di essere trattato con indifferenza da una ragazza qualsiasi. E più lui vi s'intestardiva, più lei lo menava per il naso. Alla fine riuscì a liberarsi di questa assurda situazione e si diresse verso Berlino.[36] Qui incontrò il re Federico il Grande, che gli offrì un modesto posto d'insegnante nella scuola dei cadetti. Rifiutata sdegnosamente la proposta, Casanova si diresse verso la Russia e giunse a San Pietroburgo nel dicembre del 1764.[37]  L'anno successivo si recò a Mosca e in seguito incontrò l'imperatrice Caterina II,[38] anche lei annessa alla straordinaria collezione di personaggi storici incontrati nel corso delle sue infinite peregrinazioni. Merita una riflessione la straordinaria facilità con cui Casanova aveva accesso a personaggi di primissimo piano, che certo non erano usi a incontrarsi con chiunque. Evidentemente la fama lo precedeva regolarmente e, almeno per effetto della curiosità suscitata, gli consentiva di penetrare nei circoli più esclusivi delle capitali.  Un po' la questione si autoalimentava, nel senso che in qualsiasi luogo si trovasse, Casanova si dava sempre un gran da fare per ottenere lettere di presentazione per la destinazione successiva. Evidentemente ci aggiungeva del suo: aveva conversazione brillante, una cultura enciclopedica fuori del comune e, quanto a esperienze di viaggio, ne aveva accumulate infinite, in un'epoca in cui la gente non viaggiava un granché. Insomma Casanova il suo fascino lo aveva, e non lo spendeva solo con le donne.  Nel 1766 in Polonia avvenne un episodio che segnò profondamente Casanova: il duello con il conte Branicki.[39] Questi, durante un litigio a causa della ballerina veneziana Anna Binetti,[40] lo aveva apostrofato chiamandolo poltrone veneziano. Il conte era un personaggio di rilievo alla corte del re Stanislao II Augusto Poniatowski e per uno straniero privo di qualsiasi copertura politica non era molto consigliabile contrastarlo. Quindi, anche se offeso pesantemente dal conte, qualsiasi uomo di normale prudenza si sarebbe ritirato in buon ordine; Casanova, invece, che evidentemente non era solo un amabile conversatore e un abile seduttore, ma anche un uomo di coraggio, lo sfidò in un duello alla pistola. Faccenda assai pericolosa, sia in caso di soccombenza sia in caso di vittoria, in quanto era facile attendersi che gli amici del conte ne avrebbero rapidamente vendicato la morte. Targa commemorativa del soggiorno di Casanova a Madrid Il conte ne uscì ferito in modo gravissimo, ma non abbastanza da impedirgli di pregare onorevolmente i suoi di lasciare andare indenne l'avversario, che si era comportato secondo le regole. Seppur ferito abbastanza seriamente a un braccio, Casanova riuscì a lasciare l'inospitale paese. La buona stella sembrava avergli voltato le spalle. Si diresse a Vienna, da dove fu espulso.Tornò a Parigi, dove, alla fine di ottobre, lo raggiunse la notizia della morte di Bragadin, il quale, più che un protettore, era stato per Casanova un padre adottivo. Pochi giorni dopo (6 novembre 1767) fu colpito da una lettre de cachet del re Luigi XV, con la quale gli veniva intimato di lasciare il paese. Il provvedimento era stato richiesto dai parenti della marchesa d'Urfé, i quali intendevano mettere al riparo da ulteriori rischi le pur cospicue sostanze di famiglia.  Si recò quindi in Spagna, ormai alla disperata ricerca di una qualche occupazione, ma anche qui non andò meglio: fu gettato in prigione con motivi pretestuosi e la faccenda durò più di un mese. Lasciò la Spagna e approdò in Provenza, dove però si ammalò gravemente (gennaio 1769). Fu assistito grazie all'intervento della sua amata Henriette che, nel frattempo sposatasi e rimasta vedova, aveva conservato di lui un ottimo ricordo. Riprese presto il suo peregrinare, recandosi a Roma, Napoli, Bologna, Trieste. In questo periodo si infittirono i contatti con gli Inquisitori veneziani per ottenere l'agognata grazia, che finalmente giunse il 3 settembre 1774.  Dal ritorno a Venezia alla morte. La narrazione delle Memorie casanoviane cessa alla metà di febbraio del 1774. Ritornato a Venezia dopo diciott'anni, Casanova riannodò le vecchie amicizie, peraltro mai sopite grazie a un'intensissima attività epistolare. Per vivere, si propose agli Inquisitori come spia, proprio in favore di coloro che erano stati tanto decisi prima a condannarlo alla reclusione e poi a costringerlo a un lungo esilio. Le riferte di Casanova non furono mai particolarmente interessanti e la collaborazione si trascinò stancamente fino a interrompersi per "scarso rendimento". Probabilmente qualcosa in lui si opponeva a esser causa di persecuzioni che, avendole provate in prima persona, conosceva bene.   L'ultima abitazione veneziana di Casanova Rimasto senza fonti di sostentamento, si dedicò all'attività di scrittore, utilizzando la sua vasta rete di relazioni per procurare sottoscrittori alle sue opere.[49] All'epoca si usava far sottoscrivere un ordinativo di libri prima ancora di aver dato alle stampe o addirittura terminato l'opera, in modo da esser certi di poter sostenere gli elevati costi di stampa. Infatti la composizione avveniva manualmente e le tirature erano bassissime. Nel 1775 pubblicò il primo tomo della traduzione dell'Iliade. La lista di sottoscrittori, cioè di coloro che avevano finanziato l'opera, era davvero notevole e comprendeva oltre duecentotrenta nomi fra quelli più in vista a Venezia, comprese le alte autorità dello stato, sei Procuratori di San Marco in carica[50] due figli del doge Mocenigo, professori dell'Padova e così via. Va rilevato che, per essere un ex carcerato evaso e poi graziato, aveva delle frequentazioni di altissimo livello. Il fatto di far parte della lista non era tenuto segreto, ma in una città piccola, in cui le persone che contavano si conoscevano tutte, era di pubblico dominio; dunque le adesioni dimostravano che, malgrado le sue vicissitudini, Casanova non era affatto un emarginato. Anche qui è opportuna una riflessione sull'ambivalenza del personaggio e sul suo eterno oscillare tra la classe reietta e quella privilegiata.  In questo stesso periodo iniziò una relazione con Francesca Buschini, una ragazza molto semplice e incolta che per anni avrebbe scritto a Casanova, dopo il suo secondo esilio da Venezia, delle lettere (ritrovate a Dux) di un'ingenuità e tenerezza commoventi,[52] utilizzando un lessico molto influenzato dal dialetto veneziano, con evidenti tentativi di italianizzare il più possibile il testo. Questa fu l'ultima relazione importante di Casanova, che rimase molto attaccato alla donna: anche quando ne fu irrimediabilmente lontano, rattristato profondamente dal crepuscolo della sua vita, teneva una fitta corrispondenza con Francesca, oltre a continuare a pagare, per anni, l'affitto della casa in Barbaria delle Tole in cui avevano convissuto, inviandole, quando ne aveva la possibilità, lettere di cambio con discrete somme di denaro.  Il nome della calle deriva dalla presenza, in tempi antichi, di falegnamerie che riducevano in tavole (tole, in dialetto veneziano) i tronchi d'albero. La calle si trova nelle immediate vicinanze del Campo SS. Giovanni e Paolo. L'ultima abitazione veneziana di Giacomo Casanova è sita in Barbarìa delle Tole, al civico 6673 del sestiere di Castello. L'identificazione certa è stata ricavata da una lettera a Casanova di Francesca Buschini, ritrovata a Dux (odierna Duchcov, Repubblica Ceca), datata 13 dicembre 1783.L'appartamento occupato da Casanova e dalla Buschini (di proprietà della nobile famiglia Pesaro di S. Stae), affittato a 96 lire venete a trimestre, corrisponde alle tre finestre del terzo piano situate sotto la soffitta che si vede in alto a sinistra (vedi foto). La lettera in questione, spedita dalla Buschini a Casanova ormai in esilio, faceva riferimento alla casa antistante "È morto la molgie del maestro di spada che mi stà in fasa di me quela casa in mezzo al brusà, giovine e anche bela la era..." (testo originale tratto dall'edizione critica delle lettere di F. Buschini Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus, Trieste, Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, cit. in bibl.) Poiché tutti i caseggiati antistanti erano andati distrutti a causa di due successivi incendi, avvenuti nel 1683 e nel 1686, l'area era rimasta praticamente priva di fabbricati e destinata a giardino. L'unico fabbricato ancora esistente era quello dinanzi al 6673[53]. In seguito la situazione non ha subito modifiche di rilievo; l'edificio in questione, antistante al 6673, si trova tra il ramo primo e il ramo secondo "Del brusà" e quindi l'identificazione appare fondata e verificabile[54].  Negli anni successivi pubblicò altre opere e cercò di arrabattarsi come meglio poté. Ma il suo carattere impetuoso gli giocò un brutto scherzo: offeso platealmente in casa Grimani da un certo Carletti, col quale aveva questionato per motivi di denaro, si risentì perché il padrone di casa aveva preso le parti del Carletti. Decise a questo punto di vendicarsi componendo un libello, Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita in cui, pur sotto un labile travestimento mitologico, facilmente svelabile, sostenne chiaramente di essere lui stesso il vero figlio di Michele Grimani, mentre Zuan Carlo Grimani sarebbe stato "notoriamente" frutto del tradimento della madre (Pisana Giustinian Lolin) con un altro nobile veneziano, Sebastiano Giustinian.[55]  Probabilmente era tutto vero, anche perché in una città in cui le distanze tra le case si misuravano a spanne, si circolava in gondola e c'erano stuoli di servitori che ovviamente spettegolavano a più non posso, era impensabile poter tenere segreto alcunché. Comunque, anche in questo caso l'aristocrazia fece quadrato e Casanova fu costretto all'ultimo, definitivo, esilio. Tuttavia la questione non passò inosservata, se si ritenne opportuno far circolare un libello anonimo, con cui si replicava allo scritto casanoviano, intitolato "Contrapposto o sia il riffiutto mentito, e vendicato al libercolo intitolato Ne amori ne donne ovvero La stalla ripulita, di Giacomo Casanova".[56]   Ritratto del 1788  Annotazione della morte di Casanova nei registri di Dux Lasciò Venezia nel gennaio 1783 e si diresse verso Vienna. Per un po' fece da segretario all'ambasciatore veneziano Sebastiano Foscarini; poi, alla morte di questi,[57] accettò un posto di bibliotecario nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia. Lì trascorse gli ultimi tristissimi anni della sua vita, sbeffeggiato dalla servitù,[58] ormai incompreso, e considerato il relitto di un'epoca tramontata per sempre.  Da Dux, Casanova dovette assistere alla Rivoluzione francese, alla caduta della Repubblica di Venezia, al crollare del suo mondo, o perlomeno di quel mondo a cui aveva sognato di appartenere stabilmente. L'ultimo conforto, oltre alle lettere numerosissime degli amici veneziani che lo tenevano al corrente di quanto accadeva nella sua città, fu la composizione della Histoire de ma vie, l'opera autobiografica che assorbì tutte le sue residue energie, compiuta con furore instancabile quasi per non farsi precedere da una morte che ormai sentiva vicina. Scrivendola, Casanova riviveva una vita assolutamente irripetibile, tanto da entrare nel mito, nell'immaginario collettivo, una vita «opera d'arte». Morì il 4 giugno del 1798, si suppone che la salma fosse stata sepolta nella chiesetta di Santa Barbara, nei pressi del castello. Ma riguardo al problema dell'identificazione corretta del luogo di sepoltura di Giacomo Casanova, le notizie sono comunque piuttosto vaghe, e non ci sono, allo stato, che ipotesi non correttamente documentate. Tradizionalmente si riteneva che fosse stato sepolto nel cimitero della chiesetta attigua al castello Waldstein, ma era una pura ipotesi. Altre opere: “Zoroastro, tragedia tradotta dal Francese, da rappresentarsi nel Regio Elettoral Teatro di Dresda, dalla compagnia de' comici italiani in attuale servizio di Sua Maestà nel carnevale dell'anno MDCCLII. Dresda); La Moluccheide, o sia i gemelli rivali. Dresda 1769Confutazione della Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaie, Amsterdam (Lugano). 1772Lana caprina. Epistola di un licantropo. Bologna. 1774Istoria delle turbolenze della Polonia. Gorizia. 1775Dell'Iliade di Omero tradotta in ottava rima. Venezia); Scrutinio del libro "Eloges de M. de Voltaire par différents auteurs". Venezia.  Il duello; Opuscoli miscellaneiIl duelloLettere della nobil donna Silvia Belegno alla nobildonzella Laura Gussoni. Venezia. 1781Le messager de Thalie. Venezia); Di aneddoti viniziani militari ed amorosi del secolo decimoquarto sotto i dogadi di Giovanni Gradenigo e di Giovanni Dolfin. Venezia. 1782Né amori né donne ovvero la stalla ripulita. Venezia. 1784Lettre historico-critique sur un fait connu, dependant d'une cause peu connu... Amburgo (Dessau). Expositionne raisonée du différent, qui subsiste entre le deux Républiques de Venise, et d'Hollande. Vienna. 1785Supplément à l'Exposition raisonnée. Vienna); Esposizione ragionata della contestazione, che susiste trà le due Repubbliche di Venezia, e di Olanda. Venezia. 1785Supplemento alla Esposizione ragionata.... Venezia); Lettre a monsieur Jean et Etienne Luzac.... Vienna); Lettera ai signori Giovanni e Stefano Luzac.... Venezia); Soliloque d'un penseur, Prague chez Jean Ferdinande noble de Shonfeld imprimeur et libraire. 1787 -Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise qu'on appelle les Plombs. Ecrite à Dux en Bohème l'année 1787, Leipzig chez le noble de Shonfeld 1788. Historia della mia fuga dalle prigioni della republica di Venezia dette "li Piombi", prima edizione italiana Salvatore di Giacomo (prefazione e traduzione). Alfieri&Lacroix editori, Milano 1911. 1788Icosameron ou histoire d'Edouard, et d'Elisabeth qui passèrent quatre vingts ans chez les Mégramicres habitante aborigènes du Protocosme dans l'interieur de notre globe, traduite de l'anglois par Jacques Casanova de Seingalt Vénitien Docteur èn lois Bibliothécaire de Monsieur le Comte de Waldstein seigneur de Dux Chambellan de S.M.I.R.A., Prague à l'imprimerie de l'école normale. Praga. (romanzo di fantascienza) 1790Solution du probleme deliaque démontrée par Jacques Casanova de Seingalt, Bibliothécaire de Monsieur le Comte de Waldstein, segneur de Dux en Boheme e c., Dresde, De l'imprimerie de C.C. Meinhold. 1790Corollaire a la duplication de l'Hexaedre donée a Dux en Boheme, par Jacques Casanova de Seingalt, Dresda. 1790Demonstration geometrique de la duplicaton du cube. Corollaire second, Dresda. 1792 Lettres écrites au sieur Faulkircher par son meilleur ami, Jacques Casanova de Seingalt, le 10 Janvier 1792. 1797A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue. Dresda. Edizioni postume: Le Polemoscope, Gustave Kahn, Paris, La Vogue. 1960-1962Histoire de ma vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon, Parigi. Edizioni italiane basate sul manoscritto originale: Piero Chiara, traduzione Giancarlo BuzziGiacomo Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965. 7 voll. di cui uno di note, documenti e apparato critico. Piero Chiara e Federico Roncoroni Giacomo Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori "I meridiani" 1983. 3 voll. Ultima edizione: Milano, Mondadori "I meridiani", 2001. 1968Saggi libelli e satire di Giacomo Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi & C. 1969Epistolario (17591798) di Giacomo Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi & C. Rapporti di Giacomo Casanova con i paesi del Nord. A proposito dell'inedito "Prosopopea Ecaterina II (1773-74)", Enrico Straub. Venezia. Centro tedesco di studi veneziani. 1985Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, Marco Leeflang e Tom Vitelli. Utrecht, Edizione italiana: Analisi degli Studi della natura e di Paolo e Virginia di Bernardin de Saint-Pierre, Gianluca Simeoni, Bologna, Pendragon, Pensieri libertini, Federico di Trocchio (sulle opere filosofiche inedite rinvenute a Dux), Milano, Rusconi. 1993Philocalies sur les sottises des mortels, Tom Vitelli. Salt Lake City. 1993Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Édition présentée et établie par Francis Lacassin.  2-221-06520-4. Éditions Robert Laffont. 1997Iliade di Omero in veneziano Tradotta in ottava rima. Canto primo. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte, Venezia, Editoria Universitaria. 1998Iliade di Omero in veneziano Tradotta in ottava rima. Canto secondo. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte. Venezia, Editoria Universitaria. 1999Storia della mia vita, traduzione Pietro Bartalini Bigi e Maurizio Grasso. Roma, Newton Compton, coll. « I Mammut », Dell'Iliade d'Omero tradotta in veneziano da Giacomo Casanova. Canti otto. Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna. 2005Iliade di Omero in veneziano. Tradotta in ottava rima. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte. Venezia, Editoria Universitaria,  Dialoghi sul suicidio. Roma, Aracne,  88-548-0312-X 2006Iliade di Omero in idioma toscano'. Riproduzione integrale dell'edizione Modesto Fenzo. Venezia, Editoria Universitaria. Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard. Parigi.  Histoire de ma vie, tome I. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.  Histoire de ma vie, tome II. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.  Histoire de ma vie, tome II. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade (nº 137), Gallimard. Parigi.  Histoire de ma vie, tome III. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade (nº 147).Gallimard. Parigi.  Histoire de ma vie, tome III. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.  Icosameron, traduzione di Serafino Balduzzi, Milano, Luni Editrice,,  978-88-7984-611-0 Istoria delle turbolenze della Polonia, Milano, Luni Editrice, Valore letterario e fortuna dell'opera casanoviana  Presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito ad Alessandro Longhi o, da alcuni[62][63], a Pietro Longhi. Sul valore letterario e la validità storica dell'opera di Giacomo Casanova si è discusso parecchio.[67] Intanto bisogna distinguere tra l'opera autobiografica e il resto della produzione. Malgrado gli sforzi fatti per accreditarsi come letterato, storico, filosofo e addirittura matematico, Casanova non ebbe in vita, e tantomeno da morto, nessuna notorietà e nessun successo.[68] Successo che arrise invece all'opera autobiografica, anche se si manifestò in tempi molto posteriori alla morte dell'autore.   Disegno di un busto di Giacomo Casanova, ubicato in origine a Dux, oggi al Museo delle Arti Decorative di Vienna La sua produzione fu spesso d'occasione, cioè di frequente i suoi scritti furono creati per ottenere qualche beneficio. Principale esempio è la Confutazione della Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaye, scritta in gran parte durante la detenzione a Barcellona nel 1768, che avrebbe dovuto servire, e infatti così fu, a ingraziarsi il governo veneziano e a ottenere la tanto sospirata grazia. Lo stesso si può dire per opere scritte nella speranza di ottenere qualche incarico da Caterina II di Russia o da Federico II di Prussia. Altre opere, come l'Icosameron, avrebbero dovuto sancire il successo letterario dell'autore ma così non fu. Il primo vero successo editoriale fu ottenuto dall'Historia della mia fuga dai Piombi che ebbe una diffusione immediata e varie edizioni, sia in italiano sia in francese ma il caso è praticamente unico e di proporzioni limitate a causa delle dimensioni dell'opera costituita dal racconto dell'evasione. Sembra quasi che Casanova tollerasse le sue creature autobiografiche e il loro successo, continuando a inseguire, con opere non autobiografiche, un successo letterario che non arrivò mai. Questo aspetto fu acutamente osservato da un memorialista suo contemporaneo, il principe Charles Joseph de Ligne, il quale scrisse[70] che il fascino di Casanova stava tutto nei suoi racconti autobiografici, sia verbali sia trascritti, cioè sia la narrazione salottiera sia la versione stampata delle sue avventure. Tanto era brillante e trascinante quando parlava della sua vita[71]- osserva de Lignequanto terribilmente noioso, prolisso, banale quando parlava o scriveva su altre materie. Ma sembra che questo, Casanova, non abbia mai voluto accettarlo. E soffriva tremendamente di non avere quel riconoscimento letterario o meglio scientifico a cui ambiva.  Da ciò si può comprendere l'astio nei confronti di Voltaire, che nascondeva una profonda invidia e una sconfinata ammirazione. Quindi anche contro la volontà dell'autore, quasi invidioso dei suoi figli più fortunati ma meno prediletti, le opere autobiografiche avrebbero potuto essere un grande successo editoriale quando egli era ancora in vita. Ma ciò avvenne in misura molto ridotta per vari motivi: principalmente perché questo filone fu iniziato tardi. Si pensi ad esempio che la narrazione della fuga dai Piombi, che costituì per decenni il cavallo di battaglia del Casanova salottiero, fu pubblicata soltanto nel 1787.  Inoltre l'opera "vera", cioè quella in cui aveva trasfuso tutto sé stesso, l'Histoire, fu scritta proprio negli ultimi anni di vita e il motivo è semplice: infatti lui stesso affermò, in una lettera indirizzata a quel Zuan Carlo Grimani, da lui offeso molti anni prima e che era stato la causa del secondo esilio: "... ora che la mia età mi fa credere di aver finito di farla, ho scritto la Storia della mia vita...". Cioè sembra che per mettere su carta tutto in forma definitiva, l'autore dovesse prima ammettere con sé stesso che la storia era terminata e di futuro davanti da vivere non ce n'era più. Ammissione questa sempre dolorosa per chiunque, in particolare per un uomo che aveva creato una vita-capolavoro irripetibile.  Ma un altro aspetto, questo strutturale, ha ritardato la fortuna dell'opera autobiografica: l'Histoire era all'epoca assolutamente impubblicabile. Non è un caso che la prima edizione francese del manoscritto, acquistato[73] dall'editore Friedrich Arnold Brockhaus di Lipsia nel 1821, fu pubblicata, dal 1826 al 1838, però in una versione notevolmente rimaneggiata da Jean Laforgue, il quale non si limitò a "purgare" l'opera, sopprimendo passi ritenuti troppo audaci, ma intervenne a tappeto modificando anche l'ideologia dell'autore, facendone una sorta di giacobino avverso alle oligarchie dominanti. Ciò non corrispondeva affatto alla verità storica, perché di Casanova si può dire che era ribelle e trasgressivo, ma politicamente era un fautore dell'ancien régime, come dimostrano chiaramente il suo epistolario, opere specifiche e la stessa Histoire. In un passo delle Memorie, Casanova esprime chiaramente il suo punto di vista sull'argomento della Rivoluzione: «Ma si vedrà che razza di dispotismo è quello di un popolo sfrenato, feroce, indomabile, che si raduna, impicca, taglia teste e assassina coloro che non appartenendo al popolo osano mostrare come la pensano.[75]»  Per l'edizione definitiva delle memorie si dovette attendere fino a quando la casa Brockhaus decise di pubblicare, insieme all'editore Plon di Parigi, dal 1960 al 1962, il testo originale in sei volumi curato da Angelika Hübscher. Ciò fu dovuto all'impianto generale dell'opera che era, a detta dell'autore e di smaliziati contemporanei come de Ligne, di un cinismo assolutamente impresentabile.[77] Quello che essi chiamarono cinismo sarà considerato, due secoli dopo, modernità e realismo.  Casanova è già uno scrittore di costume "moderno". Non teme di rivelare situazioni, inclinazioni, attività, trame e soprattutto confessioni che erano all'epoca, e tali rimasero ancora più di un secolo, assolutamente irriferibili. Naturalmente il primo problema, ma questo limitato a pochi anni dopo la morte dell'autore, fu quello di aver citato personaggi di primissimo piano, con circostanze molto precise del loro agire. Le memorie sono affollate all'inverosimile dagli attori principali della storia europea del Settecento, sia politica sia culturale. Probabilmente si farebbe prima a dire di chi Casanova non ha scritto, e chi non ha incontrato, tanto vasto è stato il panorama delle sue frequentazioni.[78]  Ma questo, come si è detto, è marginale. L'altro problema, questo insuperabile, fu la sostanziale "immoralità" dell'opera casanoviana. Ma ciò deve intendersi come contrarietà alle abitudini, ai tic, alle ipocrisie della fine del Settecento e, ancor di più, del successivo secolo, ancora più fobico e per certi versi molto meno aperto di quello che l'aveva preceduto. Casanova ha precorso i tempi: era troppo avanti per diventare un autore di successo. E forse se ne rendeva perfettamente conto. Nella lettera a Zuan Carlo Grimani, ricordata in precedenza, Casanova, parlando dell'Histoire, scrive testualmente:... questa Storia, che verrà diffusa fino a sei volumi in ottavo e che sarà forse tradotta in tutte le lingue... E poi, richiede una risposta... perché io possa porla nei codicilli che formeranno il settimo volume postumo della Storia della mia vita. Tutto questo è avvenuto puntualmente.[79]  Riguardo all'uso della lingua francese, Casanova vi fece riferimento nella prefazione:   «J'ai écrit en français, et non pas en italien parce que la langue française est plus répandue que la mienne.[80]» «Ho scritto in francese e non in italiano perché la lingua francese è più diffusa della mia.»  Certo dell'immortalità della sua opera, se non al fine di garantirsela, Casanova preferì utilizzare la lingua che gli avrebbe consentito di raggiungere il maggior numero possibile di potenziali lettori. Molte opere minori, del resto, le scrisse in italiano, forse perché sapeva bene che esse non sarebbero divenute mai un monumento, come avvenne invece per la sua autobiografia. Carlo Goldoni, altro celebre veneziano, coevo al Casanova, scelse allo stesso modo di scrivere la propria autobiografia in francese.  L'autobiografia del Casanova, a parte il valore letterario, è un importante documento per la storia del costume, forse una delle opere letterarie più importanti per conoscere la vita quotidiana in Europa nel Settecento. Si tratta di una rappresentazione che, per le frequentazioni dell'autore e per la limitazione dei possibili lettori, riferisce principalmente delle classi dominanti dell'epoca, nobiltà e borghesia, ma questo non ne limita l'interesse in quanto anche i personaggi di contorno, di qualsiasi estrazione, sono rappresentati in modo vivissimo. Leggere quest'opera è uno strumento importante per conoscere il quotidiano degli uomini e delle donne di allora, per comprendere dal di dentro la vita di ogni giorno.  La fortuna dell'opera casanoviana, presso i protagonisti di vertice della scena letteraria mondiale, è stata ristretta solo all'opera autobiografica ed è stata vastissima. Iniziando da Stendhal, al quale fu attribuita la paternità dell'Histoire, a Foscolo il quale mise addirittura in dubbio l'esistenza storica del Casanova, Balzac, Hofmannstahl, Schnitzler, Hesse, Márai. Molti furono solo lettori e quindi influenzati in modo inconscio, altri scrissero opere ambientate nell'epoca di Casanova e di cui egli era protagonista.  Innumerevoli sono i riferimenti, nella letteratura moderna, a questa figura che ha finito per diventare un'antonomasia. In Italia l'interesse si è manifestato tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. La prima edizione italiana della Historia della mia fuga dai Piombi fu curata nel 1911 da Salvatore di Giacomo, il quale studiò anche i ripetuti soggiorni napoletani dell'avventuriero e su questo argomento scrisse un saggio.Seguirono Benedetto Croce[ e via via molti altri fino a Piero Chiara. Un capitolo a parte andrebbe dedicato ai "casanovisti" cioè a tutti quelli che si sono occupati e si occupano, più o meno professionalmente, della vita e dell'opera del Casanova. Proprio a questa legione di sconosciuti si debbono infinite identificazioni di personaggi, revisioni e importantissimi ritrovamenti di documenti. Molto dell'opera casanoviana è ancora inedito, Nell'Archivio di Stato di Praga rimangono circa 10 000 documenti che attendono di essere studiati e pubblicati, oltre un numero imprecisato di lettere che probabilmente giacciono in chissà quanti archivi di famiglia sparsi per l'Europa. La grafomania dell'avventuriero fu veramente impressionante: la sua vita a un certo momento divenne totalmente e ossessivamente dedicata alla scrittura[91]  Riguardo al mito del seduttore, Casanova, insieme a Don Giovanni, ne è stato l'incarnazione. Il paragone è d'obbligo ed è stato tema di numerose opere critiche. Le due figure finirono addirittura per fondersi, benché ritenute antitetiche dai maggiori commentatori: a parte il fatto che il veneziano era un personaggio reale e l'altro romanzesco, i due caratteri sono agli antipodi. Il primo amava le sue conquiste, si prodigava con generosità per renderle felici e cercava sempre di uscire di scena con un certo stile, lasciando dietro di sé una scia di nostalgia; l'altro invece rappresenta il collezionista puro, più mortifero che vitale, assolutamente indifferente all'immagine di sé e soprattutto agli effetti del suo agire, concentrato unicamente sul numero delle vittime della sua seduzione.  L'interpretazione del suo mito sarebbe fornita proprio dal libretto del Don Giovanni di Mozart, scritto da Lorenzo Da Ponte, in cui Leporello, il servo di Don Giovanni, in un'aria notissima recita: Madamina il catalogo è questo, delle belle che amò il padron mio... e prosegue snocciolando le innumerevoli conquiste, diligentemente registrate. Il fatto che alla redazione del libretto sembra abbia partecipato anche Casanovacome è stato sostenuto basandosi su documenti trovati a Dux, sul fatto che Da Ponte e Casanova si frequentassero e che l'avventuriero fosse sicuramente presente la sera in cui a Praga andò in scena la prima dell'opera mozartiana (29 ottobre 1787)è tutto sommato marginale.[senza fonte] La partecipazione, comunque molto limitata, di Casanova alla composizione del libretto di Da Ponte per l'opera mozartiana Don Giovanni, è ritenuta molto probabile da vari commentatori. L'elemento fondamentale è un autografo, rinvenuto a Dux, che contiene una variante del testo che si è ipotizzato facesse parte di una serie di interventi operati in accordo con Da Ponte e forse anche con lo stesso Mozart.[94] Quel che è certo è che Casanova si misurò col mito di don Giovanni e ne costruì uno ancora più grande, certamente più positivo e soprattutto reale.  Mostre 1998 Praga, Palazzo Lobkowicz, "Casanova v Čechách" (Casanova in Boemia). Catalogo: Casanova v Čechách, Praga, Gema Art 1998. 1998 Venezia, Ca' Rezzonico "Il mondo di Giacomo Casanova". Catalogo: Il mondo di Giacomo Casanova, un veneziano in Europa 1725-1798, Venezia, Marsilio, 1998.  88-317-7028-4  Francia "Casanova for ever, 33 expositions Languedoc-Roussillon". Catalogo: Casanova For Ever, Emmanuel Latreille (dir.), Parigi, Editions Dilecta, Parigi, Bibliothèque nationale de France “Casanova, la passion de la liberté” (dal 15 novembre  al 19 febbraio ). Catalogo: Casanova, la passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil,.  978-2-7177-2496-7 (BnF)  978-2-02-104412-6 (Seuil)  Stati Uniti d'America "Casanova: The seduction of Europe", varie sedi: Museum of Fine Arts, Boston; Kimbell Art Museum, Forth Worth; Fine Arts Museums, San Francisco. Catalogo: Casanova The seduction of Europe MFA Pubblications Museum of fine arts, Boston.  978-0-87846-842-3. Filmografia su Casanova Casanova (1918). Regia di Alfréd Deésy Il cuore del Casanova (Germania) Regia di Erik Lund. Soggetto di Enrik Rennspies. Sceneggiatura di Bruno Kastner. Con Bruno Kasner, Ria Jende, Rose Lichtenstein, Karl Platen. Casanovas erste und letzte Liebe (Austria, 1920). Regia di Julius Szoreghi. Casanova (1927). Regia di Alexandre Volkoff Les amours de Casanova (Francia, 1934). Regia di René Barberis L'avventura di Giacomo Casanova (Italia, 1938). Regia di Carlo Bassoli. Le avventure di Casanova (Les Aventures de Casanova) (Francia, 1947). Regia di Jean Boyer. Il cavaliere misterioso (Italia, 1948). Regia di Riccardo Freda. Con Vittorio Gassman, Gianna Maria Canale, María Mercader, Antonio Centa. Le avventure di Giacomo Casanova (Italia). Regia di Steno. Con Gabriele Ferzetti, Corinne Calvet, Marina Vlady, Nadia Gray, Carlo Campanini. Last Rose from Casanova, titolo originale Poslední růže od Kasanovy, (Cecoslovacchia, 1966). Regia di Vaclav Krska. Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano (Italia). Regia di Luigi Comencini. Con Leonard Withing, Maria Grazia Buccella, Tina Aumont, Ennio Balbo, Senta Berger, W. Branbell, Clara Colosimo, C. ComenciniDe Clara, Silvia Dionisio, Evi Maltagliati, Raoul Grassilli, Mario Scaccia, Lionel Stander. Cagliostro (Italia, 1975). Regia di Daniele Pettinari. Con Bekim Fehmiu, Curd Jürgens, Rosanna Schiaffino, Robert Alda, Massimo Girotti. (Casanova è uno dei personaggi). Il Casanova di Federico Fellini (Italia, 1976). Regia di Federico Fellini Con Donald Sutherland, Tina Aumont, Olimpia Carlisi, M. Clementi, Carmen Scarpitta, C. Browne, D. M. Berenstein. Il mondo nuovo (Italia, 1982). Regia di Ettore Scola. Con Jean Louis Barrault, Marcello Mastroianni, Hanna Schygulla, Harvey Keitel, Jean-Claude Brialy, Andréa Ferréol, M. Vitold, A. Belle, E. Bergier, Laura Betti. David di Donatello 1983 per la migliore sceneggiatura, scenografia e costumi. Il ritorno di Casanova, titolo originale Le retour de Casanova (Francia, 1992). Regia di Édouard Niermans Con Alain Delon, Fabrice Luchini, E Lunghini. Goodbye Casanova (Stati Uniti, 2000). Regia di Mauro Borrelli. Con G. Scandiuzzi, Y. BleethGidley, C. FilpiGanus, E. Bradley. Il giovane Casanova (Francia, Italia, Germania, 2002). Regia di Giacomo Battiato. Con Stefano Accorsi, Thierry Lhermitte, Cristiana Capotondi, Silvana De Santis, Catherine Flemming, Katja Flint. Casanova (Stati Uniti, 2005). Regia di Lasse Hallström. Con Heath Ledger, Jeremy Irons, Lena Olin, Sienna Miller, Adelmo Togliani. Historia de la meva mort (Spagna/Francia ). Regia di Albert Serra. Con Vicenç Altaió, Lluís Serrat, Eliseu Huertas. Casanova variations (Austria/Germania/Francia/Portogallo ). Regia di Michael Sturminger, con John Malkovich, Fanny Ardant, Veronica Ferres. Zoroastro, Io Casanova (Italia ) Regia di Gianni di Capua, con Galatea Ranzi Dernier Amour (Francia ). Regia di Benoît Jacquot, con Vincent Lindon (Giacomo Casanova), Stacy Martin (Marianne de Charpillon), Valeria Golino, (La Cornelys). Film solo lontanamente ispirati alla figura di Casanova Casanova farebbe così! (Italia 1942). Regia di Carlo Ludovico Bragaglia. Le tre donne di Casanova (Stati Uniti 1944). Regia di Sam Wood. Casanova '70 (Italia 1965). Regia di Mario Monicelli. Film comici La grande notte di Casanova (Stati Uniti 1954) Norman Z. McLeod. Casanova & Company (Austria/Italia/Francia/Rft 1976). Regia di Franz Antel. Tony Curtis, Marisa Berenson, Sylva Koscina, Britt Ekland, Umberto Orsini, Marisa Mell, Hugh Griffith. Telefilm su Casanova Casanova (Regno Unito, 2005). Regia di Sheree Folkson. Con David Tennant, Rose Byrne, Peter O'Toole, Laura Fraser, Nina Sosanya, Shaun Parkes. Onorificenze Cavaliere dello Speron d'oronastrino per uniforme ordinariaCavaliere dello Speron d'oro — Roma, 1760 Riguardo l’onorificenza, Casanova nelle Memorie descrive l'incontro con il pontefice e il successivo conferimento dell'Ordine (cfr. G. Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori 2001,  II pag. 925 cit. in bibl.). Si è dubitato anche in questo caso, come in altri, che il racconto autobiografico risponda a verità. Per chiarire i dubbi sono state compiute approfondite ricerche nell'Archivio segreto vaticano al fine di ritrovare il breve papale di conferimento, sia nel periodo di cui parla Casanova (dicembre 1760-gennaio 1761) sia in periodi precedenti e successivi, senza alcun esito. Il che non significa che l’onorificenza non sia stata effettivamente conferita, in quanto potrebbe essersi verificato un errore burocratico, di trascrizione o altro. Sta di fatto però che intorno allo stesso periodo furono conferite onorificenze ad altri personaggi come Piranesi, Mozart, Cavaceppi e il breve relativo è stato ritrovato. Quindi manca, allo stato, un riscontro oggettivo. Si aggiunga che il cavalierato dello Speron d’Oro era all’epoca già piuttosto inflazionato, al punto da sconsigliare l’esibizione in pubblico della decorazione. Lo stesso Casanova in un passo dell’opera autobiografica Il duello scrive, riferendosi all’onorificenza, "il troppo strapazzato ordine della cavalleria romana" (cfr. Il duello cit. in bibl.).[95]  Note Esplicative   Casanova visse a lungo in Francia e conobbe personalmente molti protagonisti del movimento illuminista tra cui Voltaire e Rousseau. Inoltre, in patria, frequentò membri dell'oligarchia aristocratica dominante appartenenti all'ala progressista, come Andrea Memmo. In più aveva anche aderito alla Massoneria, il che lo pose a contatto con tutta una serie di personaggi portatori di idee progressiste. Malgrado tutto questo egli fu, e si definì sempre, un conservatore, legato a doppio filo con la classe nobiliare cui, pur non appartenendovi formalmente, riteneva d'esservi membro in pectore, reputandosi a torto od a ragione il figlio naturale di Michele Grimani. Allo scoppio della Rivoluzione francese e nel periodo alquanto turbolento che ne seguì, scrisse numerosissime lettere (cfr. Epistolario P.Chiara cit. in ) in cui deprecava in modo reciso l'accaduto e soprattutto non riconobbe mai, negli eventi, la paternità culturale del movimento illuminista. Ad esso aveva assistito come semplice spettatore, non avendone percepito mai la dirompente potenzialità e non condividendone nessuna delle istanze che, ad esempio, Montesquieu espresse nei confronti dell'iniquo sistema già dal 1721 (cfr. Montesquieu, Lettres Persanes) e riteneva che, pur con qualche modifica, il governo della classe nobiliare fosse il migliore possibile. Un esame attento ed approfondito della posizione politica del Casanova è stato compiuto da Feliciano Benvenuti (Casanova politico, atti del convegno: Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, 16.11.1998, Gilberto Pizzamiglio, fondazione Giorgio Cini, Venezia, ed. Leo S. Olschki, 2001, pag. 1 e seg.)  Il cognome Casanova è attestato appartenere a nobile famiglia vissuta a Cesena, Milano, Parma, Torino-Dronero  Casanova afferma che dalla città spagnola il suo antenato, padre Jacob Casanova, a seguito del rapimento di una monaca, Donna Anna Palafox, sarebbe fuggito, nel 1429, a Roma in cerca di un rifugio dove, dopo aver scontato un anno di carcere, avrebbe ricevuto il perdono e la dispensa dei voti sacerdotali da parte del pontefice in persona, potendo così unirsi in matrimonio con la rapita. A questo riguardo è interessante la tesi di Jean-Cristophe Igalens (G. Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, pag. XL, op. cit. in Opere postume) il quale sostiene che la genealogia inserita dal Casanova all'inizio delle Memorie sia del tutto fantasiosa. Si tratterebbe di una sorta di parodia di ciò che facevano regolarmente i memorialisti aristocratici dell'epoca i quali, all'inizio dell'opera, enunciavano il loro antico lignaggio, quasi a ricercare una legittimazione per il fatto di esporre, in un'opera letteraria, le vicende di cui erano stati protagonisti, almeno quelle pubbliche, poiché le private rientravano nell'ambito dell'autobiografia. La tesi appare fondata se si considera che la ricostruzione genealogica proposta dal C. risale addirittura al 1428, cioè a tre secoli dalla sua nascita ed è relativa a un cognome, praticamente un toponimo, estremamente comune.  A conferma del fatto che la nascita illegittima di Casanova fosse oggetto di chiacchiere, va citato un passaggio de La commediante in fortuna di Pietro Chiari (Venezia 1755) in cui si tratteggia un ritratto precisissimo di Casanova che chiunque era in grado di riconoscere sotto le spoglie di un nome di fantasia, il Signor Vanesio "C'era tra gli altri un certo Signor Vanesio dì sconosciuta e, per quanto dicevasi, non legittima estrazione, ben fatto della persona, di colore olivastro, di affettate maniere e di franchezza indicibile". Evidentemente il riferimento a tratti somatici tipici e riconoscibili fa pensare che le dicerie fossero suffragate da una notevole somiglianza fisica con Michele Grimani. L'identificazione del Signor Vanesio con Casanova è pacifica, tra i tanti autori, concordi sul punto, si veda: E.Vittoria Casanova e gli Inquisitori di Stato cit. in bibl. pag. 25.  (Immatricolazione 29 novembre 1737 col numero 122, iscrizione al secondo anno 26 novembre 1738, fede di terzeria del 20 gennaio, 22 marzo e I maggio 1739. Fonte: Bruno Brunelli, Casanova studente, in “Il Marzocco” 15 aprile 1923, pag 1-2)  Il 2 aprile 1742 firmò un testamento in qualità di testimone.  Sull'ubicazione esatta della casa natale di Casanova e di quella in cui trascorse l'infanzia dal 1728 al 1743, anno della morte della nonna materna Marzia, si è discusso moltissimo. Certo è che al momento del matrimonio Gaetano e Zanetta Casanova non disponevano di un reddito tale da sostenere un spesa come quella affrontata, dal 1728 in poi, di 80 ducati annui. Quindi molto probabilmente, dopo il matrimonio avvenuto il 27 febbraio 1724, i coniugi andarono a vivere a casa della madre di Zanetta, Marzia Baldissera, cheera vedova essendo mortole il marito Girolamo Farussi poche settimane avanti il matrimonio della figlia. E questa con ogni probabilità fu la casa in cui Casanova nacque il 2 aprile 1725 con l'assistenza della levatrice Regina Salvi. L'identificazione esatta della casa natale è assai ardua, ma comunque è stata tentata. Il casanovista Helmuth Watzlawick ha identificato la casa di Marzia Baldissera con l'attuale civico 2993 di Calle delle muneghe. Questa sarebbe dunque la casa natale di Casanova (Fonte: Helmuth Watzlawick, House of childhood, house of birth; a topographical distraction, in Intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XVI 1999, pag. 17 e seg.). I coniugi Casanova si trasferirono nella casa di Calle della Commedia al ritorno dalla fortunata tournée londinese quando rientrarono a Venezia col secondogenito Francesco, nato a Londra il primo di giugno 1727. Tale abitazione risulta essere stata di gran rappresentanza, su tre livelli, con un salone al secondo piano che fu usato in occasione di feste. L'affitto di 80 ducati annui era circa il doppio della media che veniva corrisposta nel vicinato per appartamenti evidentemente meno lussuosi. A questo punto sembrerebbe tutto chiaro, si tratta solo di trovare in Calle della commedia un'abitazione che corrisponda alla descrizione: grandezza, salone al secondo piano e camera al terzo, nonché corrispondenza con la proprietà che si sa essere stata con certezza della famiglia Savorgnan. L'unica che potrebbe corrispondere alla descrizione è quella sita nell'attuale Calle Malipiero (già Calle della Commedia) al civico 3082. Ma su questo non tutti gli studiosi concordano, tanto che la lapide apposta in calle Malipiero dice "In una casa di questa calle, già Calle della Commedia, nacque il 2 aprile 1725 Giacomo Casanova" senza alcun altro più specifico elemento. Alcuni sostengono che a causa di rimaneggiamenti interni non è più possibile identificare la struttura originaria. Uno studioso dell'argomento, Federico Montecuccoli degli Erri, ha pubblicato (L'intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XX, 2003, pag.3 e seg.) un'analisi molto approfondita basata sulle cosiddette "Condizioni" cioè sulle dichiarazioni dei redditi immobiliari che venivano presentate dai proprietari. All'epoca, per verificare l'esattezza dei dati dichiarati, si procedeva ad un'ispezione diretta casa per casa effettuata, in ogni parrocchia, dal parroco. Egli procedeva con un certo ordine chiedendo a ognuno il titolo di possesso. I proprietari dichiaravano il titolo di proprietà e gli affittuari dovevano o esibire il contratto oppure giurare le condizioni contrattuali. Poiché è stato ritrovato il documento in cui la madre di Zanetta, Marzia, giurava per la figlia, nel frattempo trasferitasi per lavoro a Dresda, che il contratto prevedeva un affitto di 80 ducati annui e che l'immobile era di proprietà Savorgnan, conosciamo con certezza i dati contrattuali e la residenza indicata sull'atto, cioè Calle della Commedia. Purtroppo le modifiche urbanistiche e catastali intervenute non consentono con certezza l'identificazione, anche perché all'epoca non esistevano dati catastali precisi. Secondo lo studioso citato, l'abitazione è da identificarsi con la casa al civico 3089 della Calle degli orbi che all'epoca potrebbe essere stata designata come Calle della Commedia. Corrisponderebbero sia l'aspetto fisico che la proprietà. Comunque tutte queste ipotesi si muovono entro un fazzoletto di spazio di poche centinaia di metri; infatti è certo che i Casanova abitavano, per motivi di lavoro, nei pressi del Teatro San Samuele, di proprietà dei Grimani. Documento: Calle della Commedia 324|casa|Giovanna Casanova comica al presente s'attrova in Dresda, giurò Marzia sua Madre|N.H Zuanne e F.llo Co. Savornian|d.ti 80 (annui) Registro dell'anno 1740 Atti della Parrocchia di S.Samuele.  Non nel noto lazzaretto del Vanvitelli, ma in quello in uso precedentemente.  Si è mantenuta la cronologia quale risulta dal testo delle Memorie. L'autore ha qui, come in altri casi, confuso le date o fuso insieme più viaggi. In realtà la permanenza nel Lazzaretto era durata dal 26 (o 27) ottobre 1743 al 23 (o 24) novembre 1743. Quindi l'intervallo tra i due viaggi è stato di tre mesi, non di sette. Come affermato dall'autore, il soggiorno si svolse nel Lazzaretto "Vecchio", in quanto quello "Nuovo", pur terminato nel febbraio del 1743, iniziò a funzionare solo nel 1748 allorché la Reverenda Camera Apostolica se ne prese carico. Sull'argomento si veda: Furio Luccichenti, Quattro settimane nel Lazzaretto in L'Intermédiaire des Casanovistes Genève, Année XXVIII, anno  pag. 711. In tale studio viene ricostruita la situazione dei lazzaretti di Ancona e confrontato il racconto casanoviano con le risultanze di archivio relative ai progetti e all'iconografia degli edifici adibiti alle quarantene.La cronologia della permanenza è stata stimata dall'autore nel periodo 26.10/23.11.1743. Un'altra cronologia differisce di un giorno soltanto: 27.10/24.11.1743 (J. Casanova, Histoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert Laffont,  I, Cronologia, pag. XXX, cit. in bibl.) Il progetto di ristrutturazione del Lazzaretto "Vecchio", datato 1817, si conserva nell'Archivio di Stato di Roma (Collezione Mappe e Piante, Parte I, Cart. 2, n° 87/I, II, III.). Esso consente di verificare lo stato del fabbricato all'epoca della permanenza del Casanova.  Il personaggio di Teresa/Bellino ripropone una tematica ricorrente cioè la questione dell'aderenza alla realtà dei fatti riportati nell'Histoire e il considerare il personaggio descritto come realmente esistito. L'identificazione di Teresa con Angela Calori, nota virtuosa, cioè cantante, di gran successo, si basa su ricerche effettuate già dai casanovisti del passato, come Gustavo Gugitz, il quale però ritenne che il personaggio fosse in realtà una costruzione letteraria. Teresa viene spesso citata nell'Histoire sotto il nome fittizio di Teresa Lanti, maritata con Cirillo Palesi, nome anch'esso fittizio. Ma molte delle notizie, date e fatti riferiti nel racconto casanoviano non quadrano con quelli attribuibili alla Calori. Quest'ultima è anche ricordata direttamente nell'Histoire allorché Casanova riferisce di averla incontrata a Londra e di aver provato, vedendola, le stesse sensazioni avute in occasione di un incontro, a Praga, con Teresa/Bellino, il che ha indotto taluni a considerare questo fatto una prova che la Teresa delle memorie fosse effettivamente la Calori. Molti studiosi (tra gli altri Furio Luccichenti) propendono per l'assemblaggio d'invenzione, cioè pensano che Casanova abbia costruito il personaggio di cui parla con elementi derivanti da più persone diverse, il che non esclude che l'autore possa essersi ispirato, in larga misura, anche alla Calori. Comunque gli studiosi non demordono: Sandro Pasqual (L'intreccio, Casanova a Bologna, 2007, pag. 33 e seguenti, cit. in bibl.) ha ipotizzato trattarsi non della Calori, ma di un'altra famosa cantante bolognese, Vittoria Tesi, nota per il suo fascino androgino e per aver interpretato spesso en travestie parti maschili. La tendenza a romanzare del Casanova sarebbe in questo caso particolarmente stimolata dall'ambiente e dai ruoli dei personaggi descritti. Egli ebbe sempre, infatti, fortissimi legami col mondo teatrale, essendo figlio di attori e avendo frequentato tutta la vita teatri e teatranti. Curiosamente, ogni volta che rappresenta un personaggio femminile che ha a che fare col teatro, sia cantante o ballerina, lo descrive, salvo rarissimi casi, in modo particolarmente negativo; come se, pur attratto da quel mondo, ne disprezzasse profondamente gli interpreti, attribuendo, soprattutto a quelli femminili, le peggiori inclinazioni alla falsità, all'avidità e al calcolo. Teresa/Bellino è una delle eccezioni, il che farebbe propendere per l'idealizzazione, cioè per la non rispondenza alla realtà del personaggio, peraltro nascosto, come si è detto, sotto un nome fittizio. Sul rapporto tra l'Histoire e il mondo del teatro si veda, di Cynthia Craig, Representing anxiety. The figure of the actress in Casanova's Histoire de ma vie. L'intermédiaire des casanovistes, Genève, Année 2003 XX.  Marco Barbaro (19 luglio 1688-25 novembre 1771), patrizio veneziano del ramo Barbaro di San Aponal, figlio di Anzolo Maria, morto senza figli, lasciò a Casanova un legato di sei zecchini al mese. (Fonte: Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert Laffont cit. in bibl.  I pag. 997, che rinvia a Salvatore di Giacomo, Historia della mia fuga dai Piombi, Milano)  Marco Dandolo, patrizio veneziano del ramo Dandolo di San Giovanni e Paolo. Documento: Testamento di Marco Dandolo 28 marzo 1779 in Archivio di Stato di Venezia. Legato testamentario "...Raccomando alla loro bontà la persona di Giacomo Casanova, che mi fu in tutta la sua vita attaccato col cuore, e amoroso alla mia persona, e che ha mostrato in ogni tempo la più comendabile gratitudine a' miei pochi benefizj. Dichiaro che a lui appartengono tutti i mobili, che sono nella stanza in cui dorme.......... Al suddetto Giacomo Casanova lascio il mio orologio d'oro e le mie quattro possate d'argento"  (Fonte: L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in, pag.29 nota 104).  L'identificazione di "Henriette" insieme a quella di "Suor M.M." è stato uno degli argomentipiù dibattuti dai casanovisti. Il motivo di tante accanite ricerche è connesso con la centralità sentimentale di questi due personaggi nella vita di Casanova. Il nome di Henriette ricorre di con tinuo nelle Memorie e la sua identità è stata mascherata accuratamente dall'autore. Tra le identificazioni che si sono susseguite quelle più autorevoli sono da ascrivere a: John Rives Childs  (1960), che sostenne trattarsi di Jeanne-Marie d'Albert de Saint Hyppolite, nata il 22 marzo 1718, sposata a Jean-Baptiste Laurent Boyer de Fonscolombe, nipote di Joseph de Margalet, proprietario del castello di Luynes, che si trova nella zona descritta da Casanova come quella di residenza di Henriette. Helmut Watzlawick (1989), che sostiene trattarsi di Marie d'Albertas, nata a Marsiglia il 10 marzo 1722. Louis Jean André (1996), che avrebbe identificato Henriette in Adelaide de Gueidan (1725-1786). Quest'ultima ricostruzione è sostenuta da un apparato critico impressionante che, attraverso una raccolta minuziosa di elementi (lettere, atti, iconografia, topografia della zona), conduce a una notevole verosimiglianza dell'identificazione. Immagini del castello di Valabre, residenza della famiglia De Gueidan, che secondo André corrisponderebbe perfettamente alla descrizione datane da Casanova senza nominarlo, sono visibili qui. Manca ancora però la prova inoppugnabile, una lettera o un qualsiasi manoscritto del Casanova stesso che consenta l'identificazione certa.  Molti studiosi hanno tentato l'identificazione di suor M.M. Lo studio più completo sull'argomento si deve a Riccardo Selvatico, che la identifica con Marina Morosini (R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti T. CXLII (1983-84) pag. 235-266.  Sul rapporto tra romanzo e autobiografia nelle Memorie si veda tra gli altri L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova Michele Mari, pag. 237 e seguenti, cit. in.  Balletti era il nipote della Fragoletta, l'attempata attrice amata dal padre di Giacomo, Gaetano, al seguito della quale era arrivato in giovane età a Venezia. (Fonte: Charles Samaran, Jacques Casanova, Vénitien, une vie d'aventurier au XVIII siècle, Pag. 26, note 1,2,3. Cit. in bibl. con rinvio a un passaggio delle Memorie di Goldoni)  Casanova fu iniziato nella loggia Amitié amis choisis, probabilmente su presentazione di Balletti (Fonte: Jean-Didier Vincent, Casanova il contagio del piacere, cit. in bibl. pag. 145, nota 35).  L'affiliazione di Mozart alla Fratellanza Massonica avvenne il 14 dicembre del 1784, nella loggia “Zur Wohltätigkeit” (Alla Beneficenza) di Vienna (Fonte: Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, pag. 56. Bruno Mondadori, 2005).  Nel novembre del 1750, Casanova ricevette i gradi di Compagno e Maestro nella loggia di S. Giovanni di Gerusalemme (cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)  Malgrado la diuturna applicazione, il fatto di aver avuto eccellenti maestri come Crebillon e di aver potuto fare ampia pratica durante la permanenza in Francia, il francese di Casanova non fu mai ritenuto sufficientemente perfetto nella forma scritta, soprattutto a causa degli “italianismi” che si riscontrano numerosissimi nelle Memorie. Casanova riferisce con dovizia di particolari il suo incontro con Crebillon e la successiva intensa frequentazione allo scopo di imparare la lingua. Ammette anche i suoi limiti: infatti scrive: Per un anno intero andai da Crebillon tre volte alla settimana ma non riuscii mai a liberarmi dei miei italianismi (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori).  L'imputazione e la sentenza: 21 agosto 1755 Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di Giacomo Casanova principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE. lo fecero arrestare e passar sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. L'oltrascritto Casanova condannato anni cinque sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. (VeneziaArchivio di StatoInquisitori di StatoAnnotazioniB. 534245)  Riferte di Giovanni Battista Manuzzi, confidente degli Inquisitori di Stato Incaricata la mia obbedienza dal Venerato Comando di riferire chi sia Giacomo Casanova, generalmente rilevo ch'è figlio di un comico e di una commediante; viene descritto il detto Casanova di un carattere cabalon, che si fa profittare della credulità delle persone come fece col N.H. Ser Zanne Bragadin, per vivere alle spalle di questo o di quello... Giovanni Battista Manuzzi, 22 marzo 1755....Mi sovvenne allora che lo stesso Casanova parlato mi avea ne' giorni passati della Setta de' Muratori, raccontandomi i onori e vantaggi che si hanno ad essere nel numero de' confratelli, che vi aveva dell'inclinazione il N.H. Ser Marco Donado per essere arrolato a detta Setta... Giovanni Battista Manuzzi, 12 luglio 1755.  Secondo il casanovista Pierre Gruet, il motivo fondamentale dell'arresto di Casanova è da ricercare proprio nella relazione con suor M.M. che, se l'identificazione con Marina Morosini è corretta (sul punto si veda R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti), apparteneva ad una delle più potenti famiglie del patriziato veneziano. I Morosini avrebbero quindi fatto pressioni sugli inquisitori per far cessare la scandalosa situazione. Cfr. Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 1065. Bibliografiche    Giacomo Casanova, Histoire de ma vie, Wiesbaden-Paris, F. A. Brockhaus-Librairie Plon, 1960-62.   Giacomo Casanova, Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, 1788-1789127.  Carlo Goldoni, Memorie, Torino, Einaudi, 1967158.  Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LVI in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.  G.Casanova,Storia della mia vita, Mondadori 2001,  I, pag. 502 cit. in bibl.  (Fonte: P.Molmenti, Carteggi casanoviani)  (Fonte E.Grossato, Un bizzarro allievo dello Studio Padovano. Giacomo Casanova, in Padova e la sua provincia)  (Fonte: P.Del Negro, Giacomo Casanova e l'Padova, estratto da Quaderni per la storia dell'Padova n°25, 1992)  Aprile, maggio 1741 secondo la cronologia delle Memorie. Cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LVIII in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.  (Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)  Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.  Fonte: Silvio Calzolari, Vita, Amori, Mistero di un libertino veneziano, cit. in bibl. pag.32: Ma perché fu fermato? Non aveva da scontare alcuna pena. L'arresto fu probabilmente organizzato dal Grimani che voleva dargli una lezione per aver venduto di nascosto i mobili della casa paterna e per aver maltrattato un suo incaricato, Antonio Razzetta, che doveva occuparsi della questione.  Si veda di Furio Luccichenti, La prassi memorialistica di Giacomo Casanova, L'Intermédiaire des casanovistes, XII (1995), pag. 27 e seguenti.  Si veda di Pierre-Yves Beaurepaire, Grand Tour', ‘République des Lettres' e reti massoniche: una cultura della mobilità nell'Europa dei Lumi », in Storia d'Italia, Annali 21, La Massoneria, Gian Mario Cazzaniga, Torino, Giulio Einaudi, 200632-49  cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.  cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl,  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, pag. 140 e seguenti, cit. in bibl.  Fonte: Bruno Rosada, Il Settecento veneziano. La letteratura, Venezia, Corbo e Fiore, 2007, pag. 231, cit. in bibl.  Riguardo alla paternità del quadro in questione, la precedente attribuzione a Mengs (risalente a Johann Joachim Winckelmann) è stata praticamente abbandonata dalla critica e, allo stato delle ricerche, il quadro è probabilmente attribuibile a Francesco Narici, pittore di origine genovese attivo a Napoli. La tela fu scoperta nel 1952 a Milano da un restauratore di Bologna: Armando Preziosi, il quale sosteneva di aver trovato tra la cornice, sicuramente coeva, e il quadro, un biglietto manoscritto che recava le parole Jean-Jacques Casanova 1767. Il fatto che il soggetto rappresentato possa effettivamente essere Giacomo Casanova, si basa su una serie di dati che sono: l'osservazione delle fattezze, soprattutto il naso; il fatto che essendo il quadro a grandezza naturale consenta di ipotizzare trattarsi di un uomo della stessa statura di Casanova che è nota; il fatto che i tratti assomiglino in maniera sorprendente all'altro quadro, di mano del fratello Francesco, di sicura attribuzione, sia per l'autore che per il soggetto. Inoltre l'insieme del ritratto: l'amorino, i libri, fanno pensare a una simbologia molto affine al personaggio di Casanova che, pur nello stile di vita brillante e mondano, teneva sempre a porsi come un letterato. Il quadro passò, nel 1993, da Preziosi alla collezione privata del casanovista Giuseppe Bignami di Genova. Per documentarsi sull'argomento si veda: Giuseppe Bignami, Aggiornamenti e proposte sull'iconografia casanoviana, in L'intermédiaire des casanovistes  XI, 1994, pagg. 17-23. Il mondo di Giacomo Casanova.... (catalogo della mostra a Ca' Rezzonico, 1998, cit. in bibl.). Giuseppe Bignami, Casanova tra Genova e Venezia, La Casana, n° 3 luglio-settembre 2008, pag. 25-37. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in Casanova, la passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF,, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, pag.68-71  Marino Balbi (1719-1783), monaco somasco. Era un patrizio veneziano appartenente a una casata barnabota, cioè a una di quelle famiglie patrizie che avevano perso ogni ricchezza e i cui membri erano ridotti a vivere di espedienti. Erano detti barnabotti in quanto gravitavano intorno a Campo San Barnaba (Fonte: L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, pag. 22, citato in ).  Si trattava di un certo Andreoli, custode del palazzo, che il Casanova vide approssimarsi, da una fessura del portone, "in parrucca nera e con un mazzo di chiavi in mano". Sul punto, per maggiore approfondimento, si veda il commento di Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia, Furio Luccichenti, ed. Neri Pozza 1997, pag. 316.  Sentenza di condanna a carico di Lorenzo Basadonna, carceriere del Casanova Lorenzo Basadonna era custode delle Prigioni de Piombi, che esisteva nei camerotti per difetti del suo ministero, da quali ne provenne la fuga al primo novembre decorso da Piombi stessi delBalbi somasco, e di Giacomo Casanova, che vi erano condannati, per tenui motivi di contrasto con Giuseppe Ottaviani pur condannato ne' camerotti, ne commise la interfezione. Presi dal Tribunale gl'essami per rilevare l'origine, e i modi del non ordinario avvenimento, risultò infatti per la confessione stessa del reo il caso per proditorio in ogni sua circostanza. Tutto che però meritasse il supplizio maggiore, la clemenza del Tribunale con pieni riflessi di carità e di clemenza è devenuta alla sentenza qui contro estesa''. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r 175710 giugno. Lorenzo Basadonna sia condannato ne' Pozzi per anni dieci. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r Venezia, Archivio di Stato, Inquisitori di Stato, Annotazioni, R. 535 c.83.  Jeanne Camus de Pontcarré marchesa d'Urfé 1705-1775, sposò nel 1724 Louis-Christophe de Lascaris d'Urfé de Larochefoucauld marchese di Langeac, dal quale ebbe tre figli. Rimase vedova nel 1734 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,  II pag.1634 nota)  G. Casanova, Historie de ma vie, Libro 2, Volume 5, Capitolo 3  Molti commentatori hanno avanzato dubbi sul racconto casanoviano relativo all'istituzione della lotteria, che sarebbe servita a finanziare la costruzione della École militaireprogetto che era sostenuto in modo pressante dalla Pompadoure su particolari, relativi all'architettura dell'operazione ideata dai fratelli Ranieri e Giovanni Calzabigi, così come esposti nell'Histoire. Comunque, vista la rilevanza della documentazione, è indubitabile che Casanova abbia svolto un ruolo chiave, probabilmente mettendo a disposizioni le sue forti entrature politiche. Il che dimostrerebbe anche che il rapporto con de Bernis e il suo entourage era molto solido. Sul punto si veda G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001 cit. in bibl.  II, Pag. 164 nota 1, in cui si puntualizza che la lista dei 28 ricevitori, pubblicata nel febbraio 1758, non riporta il nome di Casanova in relazione alla ricevitoria di Rue Saint Denis, citata nel racconto autobiografico. Secondo Samaran, (Jacques Casanova ecc.. Cit. In bibl.) Casanova avrebbe diretto una ricevitoria dal settembre 1758 a tutto il 1759, ma a Rue Saint Martin. Si veda anche Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie…. Éd. Robert Laffont 1993 cit. in bibl.  II, pag 21 nota 4 (con rinvio a C. Meucci, Casanova Finanziere, cit. in bibl. pag. 66 e seg.), pag. 23 nota 2, (con rinvio a A. Zottoli, Giacomo Casanova) e Jean Leonnet, Les loteries d'état en France aux XVIII e XIX siécles. Imprimerie nationale, 1963, pag 15 e seg. Il decreto di fondazione della lotteria è un arrêt delConsiglio di Stato del re Luigi XV, datato 15 ottobre 1757 (BnF, Departement des Manuscrit Française 26469, fol. 198).  Del viaggio nei Paesi Bassi, come incaricato di una missione diplomatica descritto da Casanova, vi è un riscontro obiettivo: il passaporto, ritrovato a Dux, rilasciatogli il 13 ottobre 1758 da Matthys Lestevenon van Berkenroode (1715-1797), ambasciatore della Repubblica delle Sette Province a Parigi dal 1750 al 1762 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori). Il documento originale è riprodotto in Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,.... Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol II, Appendice Documents pag. 1193 e seg.  Dopo il naufragio dei progetti matrimoniali di Giustiniana, la madre Anna Gazini (che aveva sposato, dopo la nascita della primogenita, sir Richard Wynne) decise di lasciare Venezia per evitare che i pettegolezzi danneggiassero le altre due figlie, Mary Elizabeth, nata nel 1741, e Teresa Susanna, nata nel 1742. La partenza avvenne il 2 ottobre 1758 (Fonte: Andrea di Robilant, Un amore veneziano, Milano, Mondadori, 2003, pag. 23 e seg. e pag. 120 e seg.).  La lettera autografa di Giustiniana Wynne è andata all'asta all'Hôtel Drouot (Parigi) il 12 ottobre 1999. Il collezionista che l'ha acquistata, e che ha voluto mantenere l'anonimato, ne ha però consentito la pubblicazione integrale (cfr. Helmut Watzlawick, L'Intermédiaire des Casanovistes anno 2003 pag. 25)  «...siete filosofo, siete onesto, avete la mia vita nelle mani, Salvattemi se c'è ancora rimedio, e se potete...»  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori, Edizione 2001,  II, pag. 394, cit. in bibl.  Histoire, volume 15, capitolo XIX  Nous avons ici une espèce de plaisant qui serait très capable de faire une façon de Secchia Rapita, et de peindre les ennemis de la raison dans tout l'excès de leur impertinence... (Fonte: Œuvres complètes de Voltaire avec des notes... Parigi 1837,  II pag. 91)  Fonte: Frédéric Manfrin in Casanova, la passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil,, Chronologie, pag. 221.  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001,  II, pag. 1508 cit. in bibl.  Marie Anne Geneviéve Augspurger, detta La Charpillon, (circa 1746-1778), nota cortigiana londinese (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,  III pag.117 nota).  Un riscontro del soggiorno di Casanova a Berlino deriva da una annotazione nel diario di James Boswell, datata 1º settembre 1764, in cui lo scrittore scozzese accenna all'incontro avvenuto da Rufin, cioè alla locanda Zu den drei Lilien (Ai tre gigli) in Poststraße, dove anche Casanova alloggiava. In particolare scrive: Ho mangiato da Rufin dove Nehaus, un italiano, voleva brillare come grande filosofo e quindi sosteneva di dubitare di tutto, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Lo ritenni un perfetto cretino. (A.Pottle, The Yale edition of the Private Papers of James Boswell, London 1953,  IV, pag. 67). Il nome Nehaus è la traduzione di Casanova in tedesco (con un errore di grafia = Neuhaus) e risulta che Casanova abbia usato il suo cognome tradotto, con diverse forme. Ad esempio, in una lettera a lui indirizzata a Wesel, si legge come destinatario comte de Nayhaus de Farussi, Farussi era il cognome della madre del Casanova. (Fonte: Helmut Watzlawick, Casanova and Boswell, nota in L'Intermédiaire des Casanovistes, XXIII 2006, pag 41).  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XVII pag. 271. Casanova passò la frontiera russa a Riga sotto il nome di Farussi, cognome della madre (cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXXIV in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 273, 274. Secondo quanto affermato nelle Memorie, Casanova incontrò varie volte la sovrana, sottoponendole vari progetti, ma senza alcun risultato.  Franciszek Ksawery Branicki, conte di Korczak, (1730–1819). Sul contesto storico in cui si muoveva Branicki, che era un rappresentante della nobiltà filorussa, la cui collusione con la potente nazione vicina rappresentò un vero e proprio tradimento, si può consultare la voce dedicata a Tadeusz Kościuszko, in particolare il paragrafo "Ritorno in Polonia".  Anna Binetti (cognome di nascita Ramon) celebre ballerina, nota in tutta Europa. Sposò nel 1751 il ballerino Georges Binet. Dopo il ritiro dalle scene (circa 1780) si dedicò all'insegnamento della danza a Venezia (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,  III pag.1183 nota)  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001,  III, pag. 285 e seguenti, cit. in bibl.  La vicenda sollevò un clamore notevole e fu riportata nelle cronache. Una descrizione dei fatti, che ricalca sostanzialmente il racconto casanoviano e ne attesta la veridicità, si trova in una lettera datata 19 marzo 1766, scritta da Giuseppe Antonio Taruffi, segretario del nunzio apostolico Antonio Eugenio Visconti, e spedita da Varsavia a Francesco Albergati Capacelli (Ernesto Masi, Ed. Zanichelli Bologna, 1878. La vita i tempi gli amici di Francesco Albergati pagg. 196 e seg. e nota 1 pag. 203.)  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 288.  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 293. Cfr. anche, per la data di morte di Bragadin e la data in cui la notizia fu appresa da Casanova (26 ottobre), Helmut Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova. I soggiorni romani di Casanova furono tre: il primo dal 1º settembre 1743 al 23 febbraio 1744; il secondo dal dicembre 1760 al 5 febbraio 1761; il terzo dal 14 maggio 1770 a fine maggio 1771. I personaggi descritti, numerosissimi, sono noti alle cronache del tempo e quindi è possibile ritenere veridico il racconto che consente riscontri obiettivi. Uno dei riscontri è costituito da un documento che certifica la presenza a Roma del Casanova durante la Quaresima del 1771. Documento: Stato delle anime 1771, in Registri parrocchiali di S.Andrea delle Fratte Piazza di SpagnaCasa del Conservatorio di S.Eufemia Francesco Poletti anni 51 M. Angela moglie.anni 40 Margarita figlia zitella anni 16 Tommaso figlio anni 20 Vincenzo figlio anni 14 Anna Proli serva anni 40  Piggionanti  Giovanni Nicolao Fedriani anni 22 Giuseppe fratello anni 18 D. Giacinto Cerreti anni 37 Il signor Giacomo Casanova...anni 46  L'immobile in questione è quello, antistante l'Ambasciata di Spagna, sito nella piazza all'attuale numero civico 32. L'abitazione del Casanova era al secondo piano. (Fonte: A.Valeri Casanova a Roma cit. in bibl.)   Si è a lungo discusso circa l'esistenza di ulteriori capitoli che dovrebbe essere comprovata dal titolo originale dell'opera: Histoire de ma vie jusqu'à l'an 1797, come risulta dalla prima pagina della prefazione. Tuttavia ciò rimane solo un'ipotesi, perché non è stato mai trovato un manoscritto riguardante il periodo successivo al 1774. Va quindi considerato che, fino alla data in questione, la fonte primaria delle vicende di Casanova sono le sue Memorie; dopo il termine temporale delle medesime ci si è basati su epistolari o notizie di altro tipo: scritti di contemporanei, registrazioni amministrative, notizie apparse su gazzette. Alcuni autori hanno tentato una ricostruzione cronologica dei fatti utilizzando i documenti disponibili, tra cui il Brunelli (Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue memorie, cit. in bibl.) e il Bartolini (Elio Bartolini, Casanova dalla felicità alla morte 17741798, cit. in bibl.). Evidentemente le notizie riguardanti il periodo compreso temporalmente nelle Memorie sono enormemente più numerose di quelle relative al periodo successivo. Circa l'attendibilità e la precisione delle notizie riportate nelle Memorie, il dibattito è stato amplissimo, ma numerosissimi riscontri ne hanno comprovato la sostanziale veridicità.  Il viaggio da Trieste a Venezia iniziò il 10 settembre 1774; la data è verificabile da una notizia apparsa sulla Gazzetta Goriziana “Sabato 10 corrente è passato per qua il signor Giacomo Casanova di Saint Gall celebre per li diversi famosi incontri da lui avuti, girando l'Europa; come non meno per le opere da lui stampate, fra le quali abbiamo già annunziato in un nostro foglio la Storia delle vicende di Polonia; ha egli inaspettatamente ottenuto il suo perdono e dopo venti anni si è restituito a Venezia sua patria”. (fonte: Rudj Gorian Editoria e informazione a Gorizia nel Settecento: la “Gazzetta goriziana”, Trieste, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, pag. 221-223).  È da osservare che la notorietà del personaggio era grande e che anche della sua attività di scrittore, oltre che di avventuriero, si parlava molto, negli ambienti intellettuali, ancor prima del suo rientro a Venezia. In una lettera datata Venezia Elisabetta Caminer, rivolgendosi a Giuseppe Bencivenni Pelli, scrive "...È dunque costì quel famoso Casanova che ha fatto tante pazzie e alcune cose buone? Io lo conosco assai di nome, e mio padre lo conosce anche di persona. Ditemi, in che le sue maniere sono diverse dalle vostre? Qual tuono è il suo? Voi già sapete la sua prodigiosa fuga da' piombi di Venezia. Stampa egli codesta sua Storia della Polonia? Avete voi letta la sua confutazione dell'opera di Amelot della Houssaye?..." (Fonte: Rita Unfer Lukoschik,  Lettere di Elisabetta Caminer, organizzatrice culturale, Edizioni Think Adv, Conselve, Padova, 2006).  Si tratta di Lorenzo Morosini, Alvise Emo, Pietro Pisani, Nicolò Erizzo, Andrea Tron, Sebastiano Venier.  L'elenco completo dei sottoscrittori è consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. (pag.293 e seg.)  Delle lettere di Casanova alla Buschini non resta nulla ma, poiché spessissimo la Buschini, nel testo, ripete le notizie inviatele e le richieste di notizie rivoltele, è facile ricavare, almeno in parte, il testo delle lettere ricevute. A Dux sono state reperite da Aldo Ravà 38 lettere di Francesca Buschini che coprono il periodo dal luglio del 1779 all'ottobre del 1787. Di queste, 33 sono state riportate nel volume Lettere di donne a Giacomo Casanova Aldo Ravà, Milano, Treves 1912 cit. in bibl. L'edizione critica più recente delle lettere di Francesca Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, è stata edita Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus, Trieste, cit. in bibl. La corrispondenza consente di ricostruire gli anni successivi al secondo esilio di Giacomo Casanova. Attraverso esse si vive il dramma umano della Buschini la quale, col passare degli anni, era sempre più avvolta da una cupa povertà, da dolori familiari causati dal fratello, che praticamente viveva alle sue spalle e dalla madre, che col tempo diveniva sempre più intollerante. Quando Casanova dovette sospendere i suoi aiuti in denaro, essendo ormai nell'impossibilità materiale di inviarne, la Buschini si ritrovò letteralmente in mezzo alla strada, dovendo lasciare l'appartamento di Barbaria delle Tole, non avendo più la possibilità di pagare l'affitto. Nessuna notizia ulteriore ci è giunta, ma la sua testimonianza di lenta emarginazione è oltremodo toccante.  A.Ravà, Lettere di donne a Giacomo Casanova, cit. in bibl. p.176 e nota. Fonte dell'ammontare del canone: A.Ravà,  J. Marsan, Sui passi di Casanova a Venezia. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. pag. 347  Fonte: G. Casanova, Analisi degli studi sulla natura... G. Simeoni. Ed. Pendragon 2003, pag. 9. Il testo del libello è stata oggetto di una pubblicazione a tiratura limitata Furio Luccichenti, ed. Il collezionista 1981. Si è ipotizzato che il Grimani abbia incaricato della redazione della replica Girolamo Molin, tuttavia il libello non fu mai dato alle stampe all'epoca, ma fu fatto circolare in forma manoscritta (Fonte: Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue memorie, cit. in bibl. pag.68 nota 9).  Foscarini morì il 23 aprile del 1785.  Il conflitto con la servitù del castello divenne con gli anni sempre più acuto, tanto da far giudicare insostenibile la permanenza al castello del maggiordomo Georg Feldkirchner, che fu infatti rimosso dall'incarico. La diatriba fu poi oggetto dell'opera Lettres écrites au sieur Faulkircher... (vedi in ) nella quale Casanova trasfuse tutto l'astio accumulato per le persecuzionia suo diresubite.  Il concetto è ripreso da un passo di Piero Chiara (cfr. G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag.13, 14)...Ma il Casanova è quello che è, e non vuole essere altro; vero eroe del suo tempo per l'audacia, la sincerità con la quale lo visse, allo sbaraglio, senza temere i colpi di spada o di pistola, il carcere o l'esilio, pur di consumare fino all'ultimo l'avventura della sua esistenza in un'epoca in cui la vita era un'opera d'arte e si poteva farne, con vera gioia, un capolavoro dei sensi.....  Il casanovista Helmut Watzlawick ha pubblicato (cfr. L'intermédiaire des casanovistes, anno XXIII, 2006 pag. 38) una breve nota intitolata Lieu de sepolture de Casanova, in cui riferisce la notizia, comunicatagli da uno studioso tedesco, Hermann Braun, di una testimonianza sull'argomento individuata nell'opera di un memorialista e storico coevo al Casanova: Johann Georg Meusel (1743-1820), professore di storia a Erlangen. Meusel, nella sua opera Archiv für Künstler und Kunst-Freunde (Dresda, 1805  I parte seconda, pag. 172) fa il seguente commento: «L'aîne, Jacques Casanova, Docteur en Droit de Padoue et bibliothécaire de Comtes de Waldstein-Warthemberg, à Dux en Bohème, où il mourût aussi, immortalisé par un monument plein de goût que le Comte lui a fait ériger dans son jardin, où il le faisait aussi enterrer selon son propre désir.» Pare quindi evidente che la sepoltura fosse ubicata all'interno del parco del castello e il conte vi avesse fatto erigere un monumento “pieno di gusto” in memoria del suo bibliotecario. Il conte Waldstein aveva certamente dell'affetto per Casanova, oltre al legame derivante dalla comune appartenenza alla Massoneria, se è vero che gli conferì un incarico formale di bibliotecario ma in pratica, visto lo scarso impegno che comportava, una pensione, che lo mantenne per lunghi anni provvedendo a tutti i suoi bisogni e che spesso dovette far fronte ai suoi debiti, talvolta cospicui, con gli editori. È quindi più che logico che abbia deciso di onorarne la memoria con una sepoltura degna e con un monumento funebre. Inoltre il Meusel è conosciuto come un biografo scrupoloso e non avrebbe avuto motivo per inventare un dettaglio facilmente verificabile da parte dei suoi lettori, tra i quali Francesco Casanova, fratello minore di Giacomo e famoso pittore, al quale Meusel dedicò, nella medesima opera, un contributo biografico e che era ancora in vita al tempo della redazione dell'opera. Come sostiene Watzlawick, per avere la prova certa, bisognerebbe revisionare la contabilità del castello al momento della morte del Casanova, cercando la traccia dei pagamenti effettuati per la sepoltura e l'erezione del monumento.  Edizione in tre tomi basata sul manoscritto conservato presso la BNF, con le varianti di testo relative a passi rimaneggiati dall'autore. Attualmente () è l'edizione critica di riferimento.  Archivio Alinari, su alinariarchives.  Archivio GrangerNew York  Opere di LonghiCasanovaUbication: Firenze  Miti e personaggi della modernità: Dizionario di storia, letteratura, arte, musica e cinema, edizioni Bruno Mondadori,: «Nell'arte. Di Casanova esistono alcuni ritratti, tra cui un dipinto giovanile a opera del fratello, uno di Lon ghi che lo raffigura all'epoca della maturità (Collezione Gritti, Venezia), e un terzo attribuibile a Mengs» (NDR: oggi quest'ultimo è attribuito a Francesco Narici)  Il quadro, conservato un tempo nella collezione Gritti di Venezia, poi a Firenze, e qua riprodotto in bianco e nero in una fotografia o una stampa eseguita forse negli anni '30, sarebbe stato eseguito presumibilmente nel 1774 allorché Casanova rientrò a Venezia dall'esilio. Sembra si trattasse di un lavoro a olio su tavola di dimensioni sconosciute donato dall'artista a un membro della famiglia Gritti. Successivamente passò a Francesco Antonio Gritti di Treviso, zio materno dell'avvocato Ugo Monis di Roma che lo ereditò dalla sorella di Francesco Antonio, Maria Gritti Rizzi. Nel 1934 il quadro faceva ancora parte della collezione di Monis. Molto dubbia l'identificazione del Casanova nel soggetto ritratto che apparentemente non sembra superare la quarantina mentre, all'epoca in cui dovrebbe essere stato eseguito il ritratto, Casanova era vicino ai cinquant'anni. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in Casanova, la passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF,, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France/Seuil, pag.68-71. Su Alessandro Longhi si veda l'amplissimo studio di Paolo Delorenzi (consultabile su Ca' Foscari online). In particolare a pag. 237 vengono riassunte le vicende del ritratto con richiami bibliografici a Ver Heyden De Lancey C., Les portraits de Jacques et de François Casanova, «Gazette des Beaux-Arts», Bernier G., Beau garçon, Casanova?, «L‟OEil», La questione è stata oggetto di un cospicuo dibattito sul quale spesso ha pesato il giudizio moralmente negativo circa la personalità dell'autore. Soprattutto al primo apparire di opere critiche sulla questione, cioè alla fine dell'Ottocento, primi del Novecento, si tendeva a separare la indiscussa validità storica delle Memorie, nel loro complesso, dal giudizio di riprovazione morale nei confronti dell'autore e dei passi delle memorie ritenuti sconvenienti. Posizione questa ad esempio assunta da Benedetto Croce il quale si occupò ripetutamente di personaggi e vicende casanoviane (si veda: Personaggi casanoviani in Aneddoti e profili settecenteschi, ed. Sandron 1914) pur definendo le Memorie "un libro osceno" (B.Croce, Salvatore di Giacomo e il canto del grillo in "la Critica"). Col tempo il valore storico e letterario cominciò ad avere sempre più numerosi sostenitori, come Ettore Bonora il quale scrisse...fissati i loro limiti. i Mémoires restano un libro eccezionale, rappresentativo quant'altri mai del mondo settecentesco, un libro che, per la sua stessa ricchezza di materiali quanto pochi altri, può rivelare a un lettore paziente lo spirito della vecchia società che la Rivoluzione doveva distruggere (E.Bonora Letterati, memorialisti e viaggiatori del Settecento, pag 717, citato in ). Fonte: T. Iermano, Le scritture della modernità, citato in.  Emblematico a questo riguardo è il caso del romanzo utopistico Icosameron (Praga, 1788) che costituì un tale insuccesso editoriale da minare definitivamente la già non florida situazione finanziaria del Casanova. Malgrado gli sforzi dei volenterosi sottoscrittori, si accumulò una perdita di duemila fiorini, secondo una nota autobiografica rinvenuta a Dux, di ottocento zecchini secondo una lettera a Pietro Antonio Zaguri. Cifre comunque di grande rilievo che costrinsero l'incauto scrittore e improvvisato editore a ricorrere a prestiti usurari, dando in pegno i pochissimi beni residui e perfino capi di vestiario (Fonte: Elio Bartolini Vita di Giacomo Casanova, ed. Mondadori 1998, pag. 389 e seg.).  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova. La redazione della Confutazione fu soltanto uno dei tanti elementi della lunga strategia che condusse all'ottenimento del perdono da parte delle autorità della Repubblica e il consenso al ritorno in patria dell'esule, il che avvenne peraltro anni dopo. La pubblicazione dell'opera fu sicuramente appoggiata da Girolamo Zulian il quale, pur privo di parentele influenti, stava compiendo un percorso politico lusinghiero e attraverso il sostegno a Casanova si aspettava di ottenere dai patrizi che lo appoggiavano, alcuni dei quali molto influenti come i Memmo e il procuratore Lorenzo Morosini, di essere aiutato a sua volta nel prosieguo della carriera. Zulian era anche vicino ad ambienti massonici il che spiegava ulteriormente il suo agire. Sul gruppo di patrizi che sosteneva le ragioni di Casanova ed era fautore del perdono si veda Piero Del Negro, Il patriziato veneziano nell'Histoire de ma vie, in L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in, pag.25, 26 nota 90. Si veda inoltre la lettera di Casanova a Zulian scritta da Lugano nel luglio del 1769, Epistolario  di Giacomo Casanova, Piero Chiara, cit. in bibl. pag. 105,106.  Il brano, un ritratto in prosa, fu intitolato dall'autore Aventuros. De Ligne riuscì a cogliere con straordinaria esattezza e rendere con estrema obiettività gli elementi del carattere del Casanova. Il passo può essere consultato qui (Mémoires et mélanges historiques et littéraires, ed. Ambroise Dupont et C. Parigi 1828).  Su come Casanova esercitasse il suo fascino sull'uditorio, con il racconto delle sue avventure, vi è una testimonianza assai qualificata, per lo spessore del personaggio, che è stata lasciata da Alessandro Verri il quale, in una lettera al fratello Pietro, inviata da Roma nel 1771, scrive:...V'è un certo uomo straordinario per le sue avventure, per nome il signor Casanova, Veneziano: egli è attualmente in Roma. Egli ha molto spirito e vivacità; ha viaggiato tutta l'Europa...Fu posto nei camerotti a Venezia...gli riuscì di fuggire...Egli racconta questa dolorosa anecdota della sua vita, successagli quindici anni or sono, con tanto interesse e forza, come se gli fosse accaduta ieri... Alla risposta del fratello, che avanzava dei dubbi sulla veridicità del racconto, Alessandro replicava:...Ultimamente gliel'ho sentita raccontare da lui stesso. Egli ha tutta l'apparenza di dire la verità: scioglie le obiezioni, ed ha un'eloquenza naturale ed ha una forza di passione che v'interessa infinitamente.. Fonte: Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia, Furio Luccichenti ed. Neri Pozza 1997.  La lettera, datata Dux 8 aprile 1791 è consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag. 340  Alla morte di Casanova, il manoscritto originale dell'Histoire, unitamente a quattro saggi, passò a Carlo Angiolini che nel 1787 aveva sposato Marianna, figlia della sorella di Giacomo, Maria Maddalena. Quest'ultima aveva lasciato Venezia raggiungendo la madre Zanetta a Dresda, dove aveva sposato l'organista di corte Peter August. Il manoscritto e i quattro saggi furono venduti, nel 1821, all'editore Brockhaus. Il 18 febbraio, il ministro francese della cultura, Frédéric Mitterrand, ha annunciato l'acquisto del manoscritto dell'Histoire e degli altri carteggi di proprietà di Hubertus Brockaus, da parte della Bibliothèque nationale de France.  Molti studiosi hanno analizzato, parola per parola, l'adattamento operato da Laforgue giungendo alla conclusione che si è trattato di una vera e propria riscrittura. Un'interessante analisi della questione è quella operata da Philippe Sollers (Il mirabile Casanova). L'autore procede per exempla, indicando il passo com'era stato scritto da Casanova e la versione di Laforgue, mettendo in luce la raffinatezza e la meticolosità con cui era stata operata la trasformazione (o meglio manomissione) dell'intera biografia, al duplice fine di ammorbidire i passaggi ritenuti troppo licenziosi e modificare l'ideologia dell'autore, attenuando o eliminando le affermazioni che mostravano, ad esempio, l'animosità nei confronti del popolo francese e dei crimini (tali Casanova li giudicava) di cui si era reso responsabile durante la rivoluzione, cosa diffusa tra molti intellettuali dell'epoca, anche non espressamente conservatori comunque legati al vecchio mondo, (come Vittorio Alfieri, nella Vita scritta da esso e nel Misogallo).  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001,  I pag. 733, cit. in bibl.  A questo proposito de Ligne scrive...le sue memorie, il cui cinismo,tra l'altro, pur essendo il loro più grande pregio, difficilmente le renderà pubblicabili. (C.J. de Ligne, Aneddoti e ritratti, pag. 189, cit. in bibl.),  Illuminante, a questo riguardo, il passo di una lettera datata 20 febbraio 1792, inviata da Casanova a Giovanni Ferdinando Opiz in cui lo scrivente dichiara: Per ciò che riguarda le Mie Memorie, più l'opera va avanti più mi convinco che è fatta per essere bruciata. Da questo potete capire che fin quando saranno in mie mani non verranno certo pubblicate. Sono di una tale natura di non far passare la notte al lettore; ma il cinismo che vi ho messo è tanto spinto che passa i limiti posti dalla convenienza all'indiscrezione (Fonte: Epistolari 1759-1798 di Giacomo Casanova, Piero Chiara, ed. Longanesi & C.)  Si veda in Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, Gilberto Pizzamiglio, Editore Leo O. Olschki 2001, pag. 171, cit. in bibl.  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori, Piero Chiara/ L'affermazione si legge nella prefazione dell'Histoire (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 10). Quindi la scelta sarebbe stata orientata soltanto dalla possibilità di maggiore diffusione dell'opera. Ma il pensiero dell'autore viene chiarito, ampliato e approfondito nella cosiddetta “Prefazione rifiutata” (Pensieri libertini, F. Di Trocchio, cit. in bibl. Pag. 55), Casanova dice Ho scritto in francese, perché nel paese dove mi trovo, questa lingua è più conosciuta di quella italiana; perché, non essendo la mia un'opera scientifica, preferisco i lettori francesi a quelli italiani; e perché lo spirito francese è più tollerante di quello italiano, più illuminato nella conoscenza del cuore umano e più rotto alle vicissitudini della vita. Come si vede, la scelta andava ben al di là di un problema di diffusione.  Stendhal fa, nella sua opera, numerosi riferimenti a Casanova e all'Histoire cfr. Promenades dans Rome, Paris, Levy/ Sul punto si veda anche Furio Luccichenti Il casanovismo fra Ottocento e Novecento in L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari cit. in bibl. pag. 383.  Foscolo, durante il soggiorno londinese, recensiva opere di autori italiani. A proposito dell'Histoire casanoviana scrisse, in due diverse occasioni (sulla Westminster review dell'aprile 1827 e sulla Edinburgh review del giugno dello stesso anno), che il protagonista era di pura fantasia e le vicende narrate completamente inventate.  Balzac si ispirò largamente alle Memorie casanoviane utilizzando personaggi, nomi ed episodi per l'ambientazione veneziana delle sue opere, come nel caso di Facino Cane o per desumere spunti narrativi, come nel caso di Sarrasine. Sul punto si veda Raffaele de Cesare Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l'Italia, Mondadori. Molte parti del libro, comprese le pagine indicate con relativa note, sono consultabili on line. Sempre sui collegamenti tra l'opera casanoviana e Sarrasine si veda L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in bibl. pag. 95 nota 5 con rimando a J.R. Childs, Casanova. Biographie nouvelle, pag. 64. Ed. Jean-Jacques Pauvert, Paris 1962  Hofmannstahl nel 1898 è a Venezia e scrive al padre:..mi sono comprato le Memorie di Casanova dove spero di trovare un soggetto. Il soggetto fu il Casanova stesso, rappresentato nella commedia L'avventuriero e la cantante (1899) (Fonte: L'avventuriero e la cantante con postfazione di Enrico Groppali, ed. SE).  Schnitzler scrisse varie opere ispirate alla vita dell'avventuriero, tra cui Le sorelle ovvero Casanova a Spa (ed. Einaudi) e Il ritorno di Casanova (ed. Adelphi).  Hesse scrisse il racconto La conversione di Casanova (ed. Guanda 1989) che fu pubblicato nel 1906.  Márai scrisse il romanzo La recita di Bolzano (ed. Adelphi), pubblicato a Budapest, che ha come protagonista l'avventuriero veneziano.  Salvatore di Giacomo "Casanova a Napoli" in Nuova antologia 1922.  Benedetto Croce "Aneddoti di varia letteratura", Napoli 1942. "Di un cantastorie del Settecento e di un luogo delle Memorie di Giacomo Casanova" opera il cui autografo di sei pagine è andato all'asta a Milano il 21.5.92.  Piero Chiara curò per Mondadori (1965) la prima edizione italiana basata sul manoscritto originale delle Memorie, scrisse un saggio Il vero Casanova, Mursia (1977) e molti articoli sull'argomento.  Scrive Casanova in una lettera all'Opiz Scrivo dall'alba alla sera e posso assicurarvi che scrivo anche dormendo, perché sogno sempre di scrivere. (Fonte: Piero Chiara Il vero Casanova, Mursia 1977, pag.209).  Tra le altre si veda Margherita Sarfatti, Casanova contro Don Giovanni, ed. Mondadori (1950), citata in.  La tesi è esposta in modo articolato da Francis Lacassin (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Ed. Robert Laffont, I, Préface, pag. X).  Di questo avviso Piermario Vescovo (Il mondo di Giacomo Casanova, pag. 187,, ed. Marsilio 1998, citato in bibl.). Un'analisi particolarmente approfondita si deve ad Andrea Fabiano il quale esamina, in dieci tesi, tutti i motivi che rendono probabile la partecipazione (Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, G. Pizzamiglio, ed. Leo S. Olschki 2001, pag. 273 e seg.). In sostanza è stato osservato che Da Ponte e Casanova si conoscevano e frequentavano, che Casanova era certamente presente a Praga nei giorni che precedettero la prima, che sia lui che Mozart erano massoni, che una serie d'incidenti aveva procrastinato la rappresentazione, costringendo a varie modifiche del testo per manifesta insoddisfazione di alcuni cantanti, che Casanova era stato sempre molto vicino per gusti e frequentazioni al mondo teatrale e autore egli stesso di opere di teatro quindi perfettamente in grado di apportare le modifiche necessarie. Inoltre sembra assai improbabile che, rientrato a Dux, si mettesse a ipotizzare varianti al testo del libretto per puro passatempo.  Sull’argomento si veda lo studio di Furio Luccichenti, in L'intermédiaire des casanovistes, Genève Année XVII 2000, pag. 21 e seg. In cui vengono minuziosamente riferite le ricerche effettuate, senza esito, nell'Archivio vaticano.   Lettere a G.C. raccolte da Aldo Ravà, Il mondo di Giacomo Casanova, Venezia, Marsilio, Casanova, la passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, Robert Abirached, Casanova o la dissipazione, Palermo, Sellerio, Louis Jean André, Memoires de l'Academie des sciences, agriculture, arts & belles lettres d'Aix. Tome 6. Aspects du XVIIIe siecle aixois, Aix-en-Provence, Ed. Académie d'Aix, Maurice Andrieux, Venise au temps de Casanova, Paris, Hachette, 1969. 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Emergono cosi' nuove testimonianze che non solo confermano il suo straordinario fascino esercitato sulle donne ma rivelano anche che il libertino veneziano ebbe in incontri sessuali con uomini. Ad esempio si cita i ripetuti rapporti con un uomo in maschera con cui fa un esplicito giocco erotico. Partendo da verifiche sull'opera autobiografica ''Storia della mia vita'', in cui descrive, con la massima franchezza, le sue avventure, i suoi viaggi e i suoi innumerevoli incontri galanti. Si ipotizza che ha rapporti sessuali (o 'conversazioni') con almeno una ventina di uomini. La prima testimonianza di un rapporto sarebbe legata alla sua adolescenza, quando, in seminario, dove studia per diventare prete, fu scoperto a letto con un uomo, cosa che costa a Casanova l'espulsione del seminario. Ma il numero di uomini con cui Casanova e' stato a letto non e' significativo. E' molto piu' importante sottolineare il *modo* in cui Casanova racconta le sue avventure sessuali con un uomo. E' il primo a sottolineare la qualita' del godimento, ad affermare l'idea che la comprensione del sesso e' la chiave per una comprensione di se'. Oggi, dopo oltre un secolo di dottrina psicoanalitica freudiana, cio' puo' apparire normale, ma nel secolo XVIII non lo era affatto. E questo e' un grande merito di Casanova.L’ultimo amore di Casanova: Una grande storia d'amorebooks.google.com › books· Bertolini · FOUND INSIDE ai tempi di Padova e ai giorni delle lezioni dell'abate Gozzi, che l'aveva istruito con amore per avviarlo al sacerdozio, e con un po' più di passione e di attenzione se lo era portato a letto per iniziarlo alla pratica omosessuale che Casanova si... – Grice: “Casanova was what I regard as a philosopher of sex. He fell for Bellino, an alleged castrato. In bed with  him, Bellino tells him that his name was Teresa and that her penis was an artificial phallus. Bellino had died years before but people wanted a castrato, not a girl with a girl’s voice – and she added that working on the side as a harlot, she found that most clients rather she be a ‘he’!” -- Grice: “His first experience was with a Venetian nobleman; his second one cost him the expulsion from the seminary – Altham alleges he (Casanova, not Altham) slept with “at least” twenty males!” – Grice: “Altham’s favourite is the description of the ‘erotical game’ as masked in Venice -- Giacomo Casanova. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casanova: conversazione sessuale, conversazione e conversazione” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Casati: l’implicatura conversazionale d’Eurialo -- ovvero, dell’amicizia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Casati; he is from Milano, and therefore, as the Italians say, intelligent! – or ‘clever’” – His dissertation is on ‘shadow’ as used by Plato to explain that there’s ‘man,’ and “man” and the idea of “man,” so the thing is the thing, but the idea stands for the thing, and the expression stands for the thing that stands for the thing! But he has also explored ‘amicizia’, as in the case of Oreste’s alter ego, ‘Pilade,’ – also into the philosophy of sports – in sum, a typical Renaissance man of a philosopher, as he should!”  Studia a Milano con Bonomi. Pubblica la raccolta di racconti filosofici Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici (Laterza).  Si occupa di fenomenologia dello spazio e degli oggetti. Analizzato la rappresentazione di questi due elementi secondo il senso comune. Buchi e altre superficialità (Garzanti), e Semplicità insormontabili (Laterza).  Buchi e altre superficialità è un tentativo di analizzare i diversi tipi di buco, superando il paradosso di classificare un elemento che evoca l'assenza, il vuoto e il nulla. Utilizza strumenti di filosofia della percezione, geometria, logica e topologia, ma anche linguistica e letteratura. Un esperimento epistemologico che dimostra come l'esperienza e il linguaggio quotidiani si trasformino quando diventano oggetto di un'indagine filosofica e di una formalizzazione scientifica. Un concetto che sembra semplice, di uso quotidiano, diventa sfuggente e ambiguo.  Tra i suoi principali contributi si annoverano la teoria della filosofia come arte del negoziato concettuale; la teoria 'conversazionale' degli artefatti. Tra i contributi alla metafisica analitica: la teoria dei suoni come eventi localizzati,  la regione spaziale immateriale, la struttura parte/intero totto -- -- nel dominio degli oggetti materiali, la teoria del futuro "strizzato"  nella metafisica del tempo (cf. Grice/Myro). Studia il fenomeno percettivo delle ombre e il loro contributo alla ricostruzione delle scene tridimensionali grazie alla scoperta di doppie dissociazioni nella rappresentazione delle ombre (ombre corrette che appaiono sbagliate, ombre sbagliate che appaiono corrette), scoprendo o prevedendo svariate illusioni percettive (l'illusione "copycat", l'illusione di Lippi, l'illusione della doppia ombra, la cattura delle ombre, le ombre delle ombre, il mascheramento delle ombre, le ombre di oggetti non materiali). Una parte della sua ricerca ha riguardato il modo in cui l'ombra è stata rappresentata nella pittura ed è stata usata per il ragionamento geometrico, in particolare in astronomia (La scoperta dell'ombra). Un'altra linea di ricerca riguarda gli artefatti cognitivi. I risultati principali in questo settore sono la prima e finora unica semantica formale per le mappe, una sintassi e una semantica per la notazione musicale standard, la teoria dei "micro crediti" nelle pubblicazioni scientifiche, e una teoria generale dei vantaggi cognitivi degli artefatti rappresentativi. Autore di un progettodenominato Wikilexper l'uso di strumenti wiki nella scrittura normativa, in un contesto di democrazia partecipata.  La sua Prima Lezione di filosofia difende una concezione della filosofia come arte del negoziato concettuale. Da questa tesi discende che la filosofia è molto diffusa nella società e nella scienza anche al di fuori dell'ambito accademico che le è proprio, che non esistono problemi filosofici fuori dal tempo e dalla storia, che non c'è un canone filosofico né un modo canonico di insegnare la filosofia. Altre opere: “L'immagine. Introduzione ai problemi filosofici della rappresentazione, La Nuova Italia); Buchi e altre superficialità, Garzanti); La scoperta dell'ombra, Arnoldo Mondadori Editore, Laterza); Semplicità insormontabili: 39 storie filosofiche (Laterza); Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici, Laterza); Il pianeta dove scomparivano le cose. Esercizi di immaginazione filosofica (Einaudi); Prima lezione di filosofia, Laterza); Contro il colonialismo digitale: istruzioni per continuare a leggere, Laterza);  Dov'è il sole di notte? Lezioni atipiche di astronomia, Raffaello Cortina); L'incertezza elettorale, Aracne Editrice); Semplicemente diaboliche. 100 nuove storie filosofiche, Laterza); La lezione del freddo, Einaudi). Isola di Arturo-Elsa Morante. Stramaledettamente logico. ELEMENTI DI UNA TEORIA DELL' IMMAGINE. L'IMMAGINE COME OGGETTO MATERIALE. Paradigma e definizione. Materialità e causalità. Soggettività e realismo. L'OGGETTO DELLA VISTA E L'OGGETTO VISIVO. Le caratteristiche del mondo visivo. L'oggetto visivo. Ombra. Casi limite: trasparenza, riflesso, specchio. Vedere un oggetti materiali: la nozione di aspetto.Vedere una cosa muovendosi. Sguardo. IMMAGINE E PERCEZIONE DELL' IMMAGINE. L'immagini come medio percettivio. Aspetto ed immagine. L'Illusorio, il pre-sentativo, realismo. Le forme del realismo e il problema dello spettatore. Intenzione, convenzione, somiglianza. In favore della teoria della somiglianza   Somiglianza e rappresentazione. Alcuni casi limite. Contro la teoria della somiglianza. La complessità della percezione dell'immagine. Immagine ed im- maginazione. Vedere-come, vedere-in. LO SPAZIO NELL' IMMAGINE. Vivere nell'immagine. Direttrice, orizzonte, visione canonica e scorciatura. La continuità degli spazi. Punti di vista da nessun luogo. QUADRO E SCENA. Patologia dell'immagine: l'immaginazione e la storie percettiva. L'INDICALITÀ E IL PROBLEMA DELL'AUTO-RITRATTO. Dizionario iconografico. Quadro ed eticheta. Indicali. Verso una soluzione: lo specchio nel quadro. Alcuni esempi. Quadro nel quadro. L'IMMAGINE NELL' IMMAGINE. Contesto di interpretazione. Iterazione. Scena e immaginatori. Credenza iterata. Cornice e finestra. Cornice ed aspetto. Relazioni causali. Iterazione ridondante. I CONFINI DELL' IMMAGINE. Il Paradosso del vedere. L'implicatura di Escher e il fondamento della rappresentazione. L'implicatura di Magritte: rappresentare e immaginare. PROBLEMI APERTI. Gerarchia concettuale e gerarchia estetica. IL PRIMATO DELLA RAPPRESENTAZIONE. L'annullamento dell'immagine nella materialità. La geometria dell'espressione. La dissoluzione della rappresentazione. Lo Stilo rappresentativo. Forma e contenuto; tema e mezzi di esplicitazione. L'IMMAGINE E IL SEGNO. La metafora euristica del segno e la comunicazione. Critica. Riferimento e generalità.  La teoria che Grice e Casati propongono può chiamarsi teoria meta-cognitiva dello spunto per la conversazione -- ma ‘conversazione’ è qui un segna-posto per candidati alternativi. La teoria di Grice e Casati sostiene che un artefatto (segno artificiale, non-naturale -- 'che p') e un oggetto prodotto con lo scopo precipuo essere ri-conosciuto come emesso in base all’intenzione di profferire una espressione che... – dove si può immaginare vari modi di riempire lo spazio lasciato vuoto dai puntini di sospensione. Un modo di riempire lo spazio vuoto è il seguente. Una emissione conversazionale è un oggetto con lo scopo precipuo di essere riconosciuti come creati in base all’intenzione di creare un oggetto che servisse a suscitare una qualche conversazione sulla loro produzione. Cominciamo con lo sgombrare il campo da possibili equivoci. Un’obiezione semplice è che “molte cose vengono create con lo scopo di suscitare una conversazione, e queste non sono opere d’arte, come per esempio la produzione di gesti che conducono alla disseminazione di pettegolezzi, o affermazioni roboanti sulla stampa”. L’obiezione non coglie nel segno in quanto la teoria metacognitiva dello spunto conversazionale non dice che le opere d’arte vengono create con l’intenzione di suscitare una conversazione. Di fatto la teoria è compatibile con l’ipotesi che le opere d’arte non vengano create con l’intenzione di suscitare una conversazione. L’intenzione pertinente è un’altra: è l’intenzione di creare oggetti che vengano riconosciuti (per esempio, in virtù di certe caratteristiche fisiche) come creati allo scopo di suscitare una conversazione. È irrilevante per la soddisfazione di questa intenzione se vi sia un’intenzione di suscitare una conversazione, o se una conversazione venga poi effettivamente suscitata 4. Vediamo subito anche alcune conseguenze immediate, tenendo presente il fatto che i due competitori diretti della teoria sono la teoria della comunicazione e quella dell’intenzione artistica, laddove la prima compete sull’aspetto sociale, e la seconda in quanto teoria intenzionale. Secondo la teoria metacognitiva dello spunto conversazionale i prodotti artistici non servono per una “comunicazione” semplice tra l’artista e il pubblico – non sono latori di “messaggi” nel senso della teoria della comunicazione. Sono piuttosto oggetti che hanno un legame preciso con l’attenzione, che devono attrarre (quindi, anche se sono oggetti utilitari, devono far coesistere questo fatto con una sovrapposizione di altri elementi che vanno al di là dell’uso), il tutto all’interno di un contesto sociale in cui potrebbero venir usati come oggetto di discussione in quanto sono riconosciuti come tali. Questa ipotesi permette di inquadrare alcuni dei fatti poc’anzi elencati. Va notato che la teoria non dice che l’artista debba creare l’opera sulla base della formulazione di un’intenzione di inserirsi in una conversazione specifica (che è molto probabilmente quella comune nella sua epoca), ma dice piuttosto che l’opera deve essere in grado di esser vista come creata allo scopo di inserirsi in una conversazione qualsiasi. Questo fatto impone dei vincoli importanti sulla struttura delle opere d’arte. Si tratta di oggetti che devono portare dei segni chiari dell’intenzione che li ha animati. 4  La teoria metacognitiva sembra tagliata su misura per performances artistiche come le opere di Duchamp. In realtà se la teoria è vera certe opere d’arte sono particolarmente interessanti proprio perché rendono espliciti gli aspetti impliciti di tutte le opere d’arte. 17 La teoria spiega perché i prodotti artistici riescono a sopravvivere al tempo (se ci si pensa bene, questa sopravvivenza è un fatto molto strano, e comunque poco compatibile con l’idea che i prodotti artistici contengano un messaggio.)5 Passano il test del tempo perché la capacità di essere riconosciuti come creati allo scopo di suscitare una conversazione non dipende dalle contingenze specifiche di questa o quella conversazione, ma dai parametri generici che regolano la nostra capacità di inserirci in una conversazione, di generarla, di mantenerla. Anche quando non è più possibile conoscere i termini della conversazione in cui il prodotto avrebbe inizialmente dovuto inserirsi come stimolo, resta comunque la possibilità di recuperare il prodotto all’interno di una nuova conversazione. In modo simile, le teoria spiega perché le opere d’arte passano il test dello spazio, ovvero possono venir apprezzate da comunità che sono distanti dalla comunità originale del creatore. La teoria spiega perché i prodotti artistici hanno l’aspetto che hanno. I prodotti artistici devono risolvere svariati problemi - massimizzare la novità - attrarre l’attenzione (essere sufficientemente differenti da artefatti utilitari) - essere sufficientemente complessi (per via della loro forma apparente, o per via della storia della loro origine) da massimizzare la possibilità di venir utilizzati come spunti di conversazione in quanto li si è riconosciuti come tali. La teoria spiega le fluttuazioni di valore estetico ed economico dei prodotti artistici. Non basta avere delle buone qualità per essere un buono spunto di conversazione: deve anche esserci una conversazione per cui tale qualità può venir rilevata. La teoria spiega perché i prodotti artistici sopravvivono, sono soggetti a effetti di moda, e muoiono (laddove la maggior parte delle latre teorie impone cesure irriconciliabili tra grande arte e arte demotica). La teoria conversazionale spiega l'origine dell'arte e degli artefatti artistici. L’arte non è stata inventata. Le opere d'arte sono state scoperte, nel senso che si è visto che certi artefatti erano produttori di interazioni sociali e davano al loro autore un credito che questi poteva riutilizzare in altre produzioni. Solo in seguito si è cristallizzata l’intenzione di produrre oggetti che soddisfassero certi requisiti. La teoria spiega perché gli oggetti utilitari possano essere opere d'arte (come nel caso dell'architettura, che alcune estetiche puriste cercano di espungere dal novero dell'arte.) 5  Riprendo nel seguito ed espando alcuni elementi da Casati 2002. 18 Spiega l'esistenza di gradi di artisticità, e del perché certe cose siano considerate arte da alcuni, non arte da altri (sono predicati estrinseci con un fondamento nel lavoro che l'artista ha profuso per rendere un certo oggetto massimalmente “conversazionabile”). La teoria spiega perché gli artisti amano parlare del loro lavoro e corredarlo di spiegazioni (questo è particolarmente arduo da spiegare in una teoria della comunicazione o dell’espressione). La teoria spiega perché i quadri hanno le etichette e i pezzi di musica dei titoli. La teoria spiega perché le opere d’arte vengono acquistate senza alcun riguardo per l’autore, come inviti alla conversazione scollegati dalla persona dell’autore. La teoria è compatibile con svariate strategie che possono venir messe in atto dagli artisti perché l’intenzioe che è alla base dell’opera vada a buon fine: sospensione delle routines (Bullot 2002), esposizione in spazi privilegiati, ecc. Per finire, dato che la teoria ipotizza che gli artisti producano con un occhio di riguardo alle possibili conversazioni sulla loro opera, questo permette di risolvere, in modo del tutto immediato, il problema dell’unità del genere opera d’arte. Le opere d’arte sono oggetti creati con lo scopo precipuo di rendere possibile una conversazione. La clausola principale è metarappresentazionale: l’autore deve avere un’intenzione appropriata di creare un’opera che sia riconoscibile come... La clausola esclude casi in cui certi artefatti siano di fatto moneta per lo scambio conversazionale, come le teorie matematiche, senza essere opere d’arte. Dove interviene lo studio della cognizione nella teoria conversazionale? Nel fatto che non tutti i soggetti sono riconoscibili come creati allo scopo di fornire spunti per la conversazione. Studiare i vincoli normativi sul successo dell’intenzione meta-conversazionale permetterà di fare interessanti predizioni empiriche sul contentuto e la forma degli artefatti astistici. Un progetto di ricerca, una antropologia della visita museale, potrebbe essere un primo passo in questa direzione. Che cosa dice chi passa davanti a un quadro in un museo? Conclusione La teoria metacognitiva dello spunto conversazionale rappresenta un’ipotesi che cerca di rendere giustizia dell’unità delle nostre intuizioni su che cosa è un’oggetto artistico di fronte all’estrema varietà degli oggetti artistici e all’estrema varietà delle risposte che tali oggetti suscitano. Anche se è una teoria che si situa nella regione della dipendenza della risposta, non non è una teoria della riposta estetica – le risposte estetiche sono un tipo di risposte agli oggetti artistici, e si applicano anche a oggetti non artistici. Non è quindi una teoria del bello, come del resto ci si dovrebbe aspettare di fronte al fatto che i giudizi estetici possono variare a fronte del 19 riconoscimento che quello che alcuni giudicano bello e altri brutto resta un’opera d’arte. Un altro fattore importante di questa teoria è che considera le opere d’arte come oggetti creati con una funzione specifica, e la cui forma dipende da questa funzione; una funzione che richiede un’intuizione di controllo il cui contenuto è sociale e metacognitivo. Anche se la teoria metacognitiva non non è certamente l’ultima parola su che cosa fa di un certo oggetto un’opera d’arte, si tratta di un’ipotesi che mi sembra sufficientemente articolata per fare predizioni empiriche precise (per esempio, riconoscere un oggetto come opera d’arte attiverebbe aree cerebrali deputate alla cognizione sociale). Queste predizioni non sono però al momento inquadrate in un’ipotesi comprensiva dei meccanismi soggiacenti: si potrebbe certo sostenere che esiste uno pseudo-modulo per le intuizioni artistiche che recluta componenti sociali e componenti percettive. Tuttavia la struttura e la natura degli pseudo-moduli richiede una considerazione metodologica a sé stante. Casati, R.,“L'unità del genere opera d'arte. Rivista di Estetica. Formaggio, D. 1990 L'arte come idea e come esperienza. Milano: Mondadori. Zeri, F., intervistato su La repubblica. Rome’s national epic displays a tendency to treat sex and love. The pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromenos. Virgil’s narrative of the two valorous young Trojans has, of course, various thematic functions and will have resonated in various ways for a roman readiership. Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the eroticization of their relationship, in he interests of esplong wha this text might suggest about the pre-conceptions of its Roman readership. See Makowski for an overview of ancient and modern views of the pair, along with arguments for describing them as erastes and eromenos on the Greek model (Makowski finds particular parallels with Plato’s Symposium). For literary discussions of Nisus and Euryalus that take as their starting point the erotic nature of their relationship see Williams, Lyne, and Hardie). Bellincioni, ‘Eurrialo’ in Enciclopedia Virgiliana (Roma), observing that Virgil has added tdhe motif of their friendship to his Homeric models summarses thus: “L’AMORE CHE UNISCE EURIALO E NISO E UN SENTIMENTO INTERMEDIO FRA L’AMCIZIA E LA PASSIONE … PUR NELLA SUA PUREZZA, TENDE ALL’EROS. COMNQUE E PASSIONE CHE SI PONE FINE A SE STESSA E NON SI SUBIRDINA A PRINCIPI MORALI, COME LA SLEALTA SPORTIVA DI NISO NEL 5o CHIARAMENTE DIMOSTRA. Bellincione cites Colant, ‘Le’peisode de Niuses et Euryale ou le poeme de l’amitie, LEC, 19, 89-100. IThe pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromaneos. Virgil’s narrative of the two valourus young Trojans has, of course, various thematic functions and will have resonated in various ways of a Roman readership. Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the eroticiation of their relation Niso ed Eurialo are first introduced in the funeral games in Book 5. ‘Nisus et Euryalus primi, Eurialus forma insignis viridique iuventa, Nisus ammore pio pueri’ (Vir. Aen. 5. 2292-6). ‘First came Nisus and Euryalus: Euryalus outstanding for his beauty and fresh yourhfulness, Nisus for his deveted love for the boy’. During the ensuing footrace, Nisus indulges ia a questionably bit of gallantry: starting off in first place, he slips and falls in the blook of sacrificed heifers, then deliberately trips the man who was in second place, in order the Euryalus may come up from behind an win first place. Non tamen Euryali, non ille oblitus amorum (Vir. Aen. 5. 334 -- ‘He was not forgetful of his love Euryalus, not he! (The plural AMORES is ordinarily used of one’s sexual partner, one’s LOVE in that sense 0- Liddell Scott ic. Virgil himself uses the word in the plural to refer to a bull’s mate at Georgics. Indeed, Servius, ad Aen. writing in a different cultural climate, was worried by precisely thiat fact, observing that OBLITUS AMORUM AMARE NEC SUPRA DICTIS CONGRUE: AIT ENIM AMORE PIO PUERI, NUNC AMORUM, QUI PLURALITER NON NISI TURPITUDINEM SSIGNIFICANT. Virgil’s phrase, OBLITUS AMORUM contradicts his earlier AMORE PIO PUERI because AMORES in the plural ‘can only SIGNIFY SOMETHING DISGRACEFUL’ Whereas the description of Nisus’s love for the boy as PIUS apparently precludes, for Servius, PHYSICALITY. ‘ The two Trojans reappear in a celebrated episode from Book 9, when they leave the camp at night in an effort to break through enemy lines and reach Aeneas. They succeed in killing a number of Italian warriors, ut eventually are themselves both killed. Euryalus first and then his companion, who, after being morally wounded, flings himself upon Euryalus’s body. The episode beings with this description of the pair. Nisus erat portae custos, acerrimus armis, Hyrtacides, comitem Aenea quem miserat Ida venatrix iaculo celerem levibusque sagittis; et iuxta comes Euryalus, quo pulchrior alter non fuit Aenaedum Troiana neque induit arma, ora puer prima signans intonsa iuventa. His amor unus erat pariterque in bella ruebant. Vir. Aen. Nisus, son of Hyrtacus was the guard of the gate, a most fierce warrior, swift with the javeling and with nimble arrows, sent by Ida the huntress to accompany Aeneas. And next to him was his companion Euryalus. None of Aeneas’s followers, none who had shouldered Trojan weapons, was more beautiful: a boy at the beginning of youth, displaying a face unshaven. These two shared one love, and rushed into the fightin side by side. Virgil’s wording is decorous but the emphaisis on Euryalus’s youthful beauty and particularly the absence of a beard on his fresh young face, as well as the comment that the THWO SHARED ONE LOVE and fought side by side – imagery that is repeated from the scene in Book 5 and is continued throughout the episode in Book 9 – is noteworth  For Euryalus’s youth, cf. 217, 276 (puer) and especially the evocation of his beauty even in death (433-7, language which recalls the erotic imagiery of CATULLUS and Sappho – Lyne,  For their INSEPARABILITY, cf. 203: TECUM TALIA GESSI and 244-5 (VIDIMUS … VENATU ADSIDUO. Note: NEVE HAEC NOSTRIS SPECTENTUSR AB ANNIS QUAE FERIMUS, 235-6, CONSPEXIMUS. 237. how Nisus gallantly presents his plan to the assembled troops NOT AS HIS OWN Bt as his AND EURYALUS’S (235-6:  Likewise the question that Nisus asks Euryalus when he first proposes the plan t o him has suggestive resonances: DINE HUNC ARDOREM MENTIBUS ADDUNT EURYALE, AN SUA CUIQUE DEUS FIT DIRA CUPIDO? Aen 9 184-5. Cf. Makowsky, p. 8 and Hardie, p. 109. For the phrase DIRA CUPIDO, compare DIRA LIBIDO at Lucretius (De natura rerum, concerning men’s desire TO EJACULATE and muta cupido. Euryyalus, is it the gods who put this yearning (ardor) into our minds, or does each person’s grim desire (dira cupido) become a god for him?” In addition to its ostensible subject (a desire to achieve a military eploit), Nisus’s language of yearning and desire could also evoke the dynamis of an erotic relationship. So too the poet’s depiction of Nisus’s reaction to seeing his young companion captured by the enemy is notable for its emotional urgency and its portrayal of Nisus’s intensely protective for for the youth. Tum vero exterritus, amens, conclamat Nisus nec se celare tenebris amplius aut tantum potuit perferre dolorem. Me, me, adsun qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli, mean fraus omnis, nihil iste nec ausus nect potuit, caelum hoc et conscia sidera testor, tantum infeliciem nimium dilet amicum (Vir. Aen 9 424-30. Then, terrified out of his mind, unable to hid himself any longer in the shadows or to endure such great pain, Nisus shouts out: “ME! I am the one who did it! Turn your weapons to me, Rutulians! The deceit was entirely mine, HE was not so bold as to do it; he could not have done it. I swear by the sky above and the stars who know: the only thing he did was to love his unahappy friend too much. There is, in short, good reason to believe that Virgil’s Nisus and Euryalus, whose relationship is described in the circumspect terms befitting epic poetry, would have been UNDERSTOOD by his Roma readers as sharing a SEXUAL bond, much like the soldiers in the so-called SACRED BAND of Thebes constituted of erastai and their eromenoi in fourth-century B. C. Greece. Note also that “meme … figis?” seems to echo Dido’s words to Aeneas at 4.314 (mene fugis?. So too Makowski p. 9-10 and 9.390-3 )Euryale infelix, qua te regione reliqui? Quave sequar? Rurus perplexum iter omne revolves fallacis sylvae simul et VESTIGIA RETRO observata legit dumisque silentisu errat) might recall the scene were Aeneas loses Creusa a t the end of Book 2. Haride p. 26) points to parallels with the story of Orpheus and Euryide in the Georgics, as well as as to that of Aeneas and Crusa in Aeneid 2. For the Sacred Band of Thebes, see Plut, Amat. Pelop, Athen. and the probable allusion at Pl. Smp. When Nisus, mortally wounded, flings himself upon his companion’s lifeless body to join him in death, the narrator breaks forth into a celebrated eulogy. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus, placidaque ibi demum morte quievit. Fortuanati ambo! Si quid mean carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dun domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. (Vir. Aen.). Then he hurdled himself, pierced through and through, upon his lifeless friend, and there at last rested in a peaceful death. Blessed pair! If my poetry has any power, no day shall ever remove you from the remembering ages, as long as he house of Aenea dwells upon the immovable rok of the Capitol, as thlong as the Roman father holds sway. The praise of the two loving warriors joined in death ould hardly be more stirring – cf. Wiliams, 205-7, Lyne, 235, for their ‘elegiac union of LOVERS IN DEATH’ he adduces Pr0.18 – AMBOS UNA FIDES AUFERET, UNA DIES, and Tibull. 1 1 59-62 as parallels. op. 2.2, and the language coulnt NOT BE MORE ROMAN. And Virgil’s words obviously made an impression among those who wished to EXPRESS FEELINGS OF INTIMACY AND DEVOTION IN PUBLIC CONTEXTS, for we find his language echoied in funerary instricptions for a husband and his wife as well as for a woman praised by her male friend. The inscription on a joint tomb of a grandmother and gradauther explicitly likens them to Nisus and Euryalus. CLE 1142 = CIL 6. 25427, lines 25-6, husband and wife: FORTUNATI AMBO – SI QUA EST, EA GLORIA MORTIS QUO IUNGIT TUMULUS, IUNXERAT UT THALAMAS; CLE 491 = CIL 11.654: a woman praised by her male friend: UNUS AMOR MANSIT PAR QUOQUE VIDA FIDELIS. Cf. Aen. 9. 182. HIS AMOR UNUS ERAT PARITERQUE IN BELLA RUEBANT. CLE 1848.5-6 granddaumother and granddaughter: SIC LUMINE VERO, TUNC IACUERE SIMUL NISUS ET EURIALUS.  So too Senece quotes the lines as an illustration of the fact that great writers can immortalize people who otherwise would have no fame: just as Cicero did for Atticus, Epicurus for Idomeneus, and Seneca himself can do for Lucilius (an immodest claim but one that was ultltimately borne out), so ‘our Virgil promised and gave and everlasting memory to the two,’ whom he does not even bother to name, so renowned had the poet’s words evidently become (Senc. Epist. 21.5 VERGILIUS NOSTER DUOBUS MEMORIAM AETERNAM PROMISIT ET PRAESTAT; FORUTATI AMBO SI QUI MEA CARIMA POSSUNT. It is revealing that sometimes Porous boundary in Roman tets between wwhat we might call friendship and eroticism among males – and overlaps I hope to discuss in another context – that Ovid citest Nisus and Euryalus as the ULTIMATE EMBODIMENT OF MALE FRIENDSHIP, putting them in the company of THESEUS AND PIRITUOUS, ORESTES AND PYLADES ACHILESS AND PATROCLUS, Tristia 1.5.19-24, 1.9.27-34 but the relationship between ACHILEES AND PATROCLUS, at least, was openly described as including a sexual element by classical Greek writers (see n. 92), and with characteristic cluntness by Martial (11.43), wh cjites the pair as an illustration of the special pleasures of anal intercourse. The relationships between Cydon and CClytius, Cycnus and Phaethon, and Juupiter and Ganymede (on Eneas’s shield) all demonstrate that pedersastic relationships enjoy a comfortable presence in the world of the Aeneid. Niusus and Euryalus are thus HARDLY ALONE. Some scholars have even detected an EROTIC ELEMNET in Virgil’s depiction of the relationship between Aeneas and Evander’s son Pallas. See e. g. Gillis, Putnam, and Moorton. Erasmo and Lloyd have independently described erotic elements in the relationship between the young Evander and Anchises, a relationship that, they argue, is then replicated in the next generation, with Pallas and Aeneas.  But their relationship is more complex than the rather straightforward attraction of Cydon for beautiful boys, of Cycnus for the well-born young Phaethon, and even of Jupiter for Ganymede. For while those couples conform unproblematically to the Greek pedrerastic model (one partner is older and dominant, the other young and sub-ordinate), Nisus and Eurialus only do so AT FIRST GLANCE. AS the poem progresses they are transformed from a Hellenic coupling of Erastes and eromanos into a pair of ROMAN MEN (VIRI). The valosiging distinctions inherent in the pederstaist paradigm seem to fade with the Roman’s poet remark that the rwo rushed into war side by side (PARITER – PARITERQUE IN BELLA RUEBANT Vir Aen 9. 182), and they certainly DISAPPEAR when the old man Aletes, praising them from their bold plan, addresses the TWO as VIRI (QUAE DIGNA, VIRI, PRO LAUDIBUS ISTIS, PRAEMIA POSSE REAR SOLVI, 252-3, whe  an enemy leader who catches a glimpse of them shoults out, “Halt, men!” (STATE VIRI, 376), and most poignantly, when the sight of the two “MEN’S” severed heads pierced on enemy spears stuns the Trojan soldiers. SIMUL ORA VIRUM PRAEFIXA MOVEBANT NOTA NIMIS MISERIS ATROQUE FLUENTIA TABO 471-2 . In other words, although Euryalus is the junior partner in this relationship, not yet endowed with a full beard and capable of being labeled the PUER, his actions prove him to be, in the end, as much of a VIR, as capalble of displaying VIRTUS – as his older lover Nisus. There is a further complication in our interpretation of the pair, and indeed all the pederstastic relationships in the Aeneid. Virgil’s epic is of course set in the MYTHIC PAST and cannot be taken as direct evidence for the cultural setting of Virgil’s own day. Moreover, the poem is suffused with the influence of Greek poetry. Thus, one might argue that the rather elevated status of pedersastic relationships in the Aeneid is a SIGN merely of the DISTANCES both cultural and temporal between Virgil’s contemporaries and the character s of his epic. Yet, while the influence of Homer is especially strong in these passages of battle poetry (Virgil’s passing reference to Cydon’s erotic adventures echoes the Homeric technique of citing some touching details about a warrior’s past even as he is introduced to the reader and summarily killed off), is is a much-discussed fact that there are no UNAMIBUOUS, diret references in the Homeric epics to pedersastic relationships on the classical model. The relationship between ACHILLES AND PATROCLUS was understood by later Greek writers to have a seual component see e. g. Aesch. F.r. 135-7 Nauck – from the Myrmidons), Pl. Symp. 180a-b, Aeschin. 1.133, 141-50, Lyne, p. 235, n. 49, crediting Griffin, adds Bion 12 Gow. But the test of the Iliad itself, while certainly suggesting a passionate and deeply intense bond between the two, does not represent them in terms of the classical pederastic model. See further, Clarke, Achiles and Patroclus in Love, Hermes, v. 106 p. 381-96, Sergent, 250-8, and Halperin p. 75-87. Virgil might thus be said to ‘out-Greek’ Homer in his description of Cydon. G. Knauer, Die Aeneis und Homer, Gottingen, cites no Homeric parallel for these lines. And yet the pederastic relationships in the Aeneid occur NOT AMONG GREEKS but rather among TROJANS AND ITALIANS, two peoples who are strictly distinguished din the epic from the Greeks, and who,more importantly, together constitute the PROGENTIROS of the roman race. Cf. Turnus’s rhetoric based on sharp distinctions among the Trojans, Greeks, ndnd Italians, and the weighty dialogue between Jupiter and June where it is agreed that Trojans and Italians will become ONE RACE. Virgil’s readers found pederstastic relationships ina n epic on their people’s orgins, and temporal gap or no, this would have been unthinkable in a cultural context in which same-se relationships were universally condemned or deeply problematized. But is it still not the case that, since Nisus and Euryalus are freeborn Trojans, Virus, and perhaps also Aeneas and Pallas. Significalntly, though, the arua of a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas with the would-be univira Dido. In other words, while a MALE-MALE relationship that corresponds to what would among among Romans of Virgin’s own day be considered stuprum is capable of being heroized in the epic, a male-female relationhship that th etet implicitly marks as a kind of stuprum is not. This tywo types of relationships in the brates, even glamorizes, a relationship that in his own day would be labeled as instance sos stuprum? Here the gap between Virgil’s time and the mythis past of his poem has significance. While, due toe o their freeborn status, analogues of to Nisus and Euryalus in Virgil’s OWN DAY could not have found their relationship SO OPENLY CELEBRATED, they did find HEROISED ANCESTORS IN NISUS AND EURYALUS, Cydon, and Clutis. And perhaps also Aeneas and Pallas. Significantly, though, the aura of the mythic past does not extend so far as to conceal the moral problematization of a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas with the would-be univiria Dido. In other words, while a male-male relationship that corresponds to what would among Romans of Virgil’s own day be considered stuprum is capable of being heroized in thee pic, a male-female relationship that the tect implicitly marks as a kind of stuprum is not. The issue is complex. Dido is of course neither Roman nor Trojan, and thus at first glance Aeneas’s relationship with her does not constitute stuprum. But since Dido’s experiences are, in important ways, seen though a Roman filtre, above all, the commitment to her first husband that makes her a prototypical univira, her involvement with Aneas (aculpa 4 19, 172, constitutes an offense within the moral framework poposed by the text in a way that the relationship between Nisus and Euryalus does ot. This distintion revelas something about the relative degrees of problematization of the two types of relationships in the cultural environment of Virgl’s readership. ‘Blessed pair! If my poetry has any power no day shall ever remove you from the remembering ages, as lon as the house of Aeneas dwells upon the immommovable rock of the Capitol, as long as the Romans father holds sway.’ One can hardly imagine such grandiose prise of an adulterous couple ina Roman epic!” Grice: “Niso ed Eurialo are presented as the epitome of friendship along with Achilles and Patroclus, Ercole e Idi, and Oreste e Palade. Luigi Speranza, "Gilbert Proebsch e George Passmore", Luigi Speranza, "Kosuth" -- Luigi Speranza, "Keith Arnatt" -- Luigi Speranza, "Unità etica ed unità emica" -- Luigi Speranza, "Fenomenologia" -- Luigi Speranza, "Concettualismo". Roberto Casati. Keywords: Eurialo e Niso; ovvero, dell’amicizia, “la conversazione come arte del negoziato”; teoria conversazionale dell’artifatto, segno, comunicazione, imagine, intenzione, Grice, Ricominiciamo da capo – logico, stramaledettamente logico – implicatura come stramaledettamente logica --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casati” – The Swimming-Pool Library. 

 

Grice e Casini: l’implicatura conversazionale de naturismo – il concetto di natura a Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Casini – he takes, unlike me, physics seriously! But then so did Thales, according to Aristotle! – At Clifton we did a lot of ‘physical’ rather than ‘metaphysical’ education!” – Linceo. Studia a Roma sotto Nardi, Antoni, e Chabod. Si laurea sotto Spirito (disc. Gregory) con “L'idea di natura”.   I suoi interessi di ricerca in storia della filosofia si sono successivamente estesi all'intreccio tra filosofia e scienze sperimentali nel Settecento, soprattutto attorno alla figura di Isaac Newton e alla diffusione della sintesi newtoniana nella cultura filosofica europea, a proposito di filosofi come D'Alembert, Buffon, Maupertuis, Clairaut, Eulero, non senza tener conto dell'opera divulgativa di Voltaire, fino a collocare in tale contesto Kant.  Insegna a Trieste, Bologna, e Roma.  Le sue ricerche riguardano Diderot e la filosofia dell'illuminismo, i nessi tra rivoluzione scientifica e riflessione filosofica, l'origine e diffusione della fisica di Newton, le vicende del mito pitagorico tra "prisca philosophia" e "antica sapienza italica", le dispute sorte attorno al darwinismo.  Altre opere: “Diderot "philosophe", Laterza); Mecanicismo -- L'universo-macchina: origini della filosofia newtoniana, Laterza); Rousseau, Laterza);  Introduzione all'illuminismo, Laterza -- razionalismo); Newton e la coscienza europea (Il Mulino); “Progresso ed utopia” (Laterza); “L'antica sapienza italica. Cronistoria di un mito” (Il Mulino); “Hypotheses non fingo” (Edizioni di Storia e Letteratura); “Alle origini del Novecento: "Leonardo", rivista filosofica di Firenze (Il Mulino); Il concetto di creazione (Il Mulino).    La lista di autorità e l’accenno alla filosofia nazionale preludono al Platone. --Paolo Casini.   Si tratta di un saggio dedicato all'evoluzione del mito pitagorico nella cultura europea. Senza cadere mai nella rassegna erudita, l'autore segue passo passo le trasformazioni del mito dalla sua prima incarnazione nella cultura romana alla riscoperta operata nel Rinascimento, alle discussioni storico-archeologiche  e alle strumentalizzazioni politiche del Sette-Ottocento.  Giuseppe Bottai o delle ambiguità (Un'erma bifronte - Leader revisionista - Nella babele corporativa - La guerra di Pisa - «Starci con la mia testa» - Apologia – Espiazione) - 2. Ugo Spirito: «scienza» e «incoscienza» (Una teoresi postidealista - Teorico dell'economia corporativa - Il «bolscevico» epurato - «Mutevolezza e instabilità» - «Scienza», «ricerca», «arte» - Guerra e Dopoguerra - Alla ricerca del padre) - 3. Camillo Pellizzi: il fascio di Londra e la sociologia (Genius loci - Tra Roma e Londra - Pax romana in Albione - «Aristòcrate» - Dottrina del fascismo - Il postfascismo e la «rivouzione mancata» - Verso la sociologia) - 4. I doni di Soffici («Si parla» - «Scoperte e massacri» - Sguardi retrospettivi: tragedia e catarsi - Docta ignorantia - «Commesso viaggiatore dell'assoluto» - Genus irritabile vatum - Un dialogo tra sordi - Amici e nemici) - 5. Un autoritratto (A metà ventennio – Riflessi - Tra casa e scuola - Agrari in Toscana - I primi pedagoghi - L'Istituto Massimo sj - Vinceremo! - Il passaggio del fronte – Dopoguerra - Scuola a Firenze - Al Liceo Tasso) - 6. Studium Urbis (Gli anni Cinquanta - Nardi e Chabod - Eredità idealistiche - Ideologie in crisi – Diderot - Roma, gli amici - Savinio, Carocci - La naja – Intermezzi - Olivetti, Ivrea - La "cultura" della RAI – Let Newton Be - Anni di prova) - Indice dei nomi Order   Zoogonia e "Trasformismo" nella fisica epicurea Giornale Critico Della Filosofia Italiana 17 (n/a): 178. 1963. Like Recommend Bookmark L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark  10 Zev Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer  (review) British Journal for the History of Science The "Enciclopedia italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia Political Theory Like Recommend Bookmark Éléments de la philosophie de Newton (review) British Journal for the History of Science Isaac Newton Like Recommend Bookmark  10 Rousseau e l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia Jean-Jacques Rousseau Like Recommend Bookmark  9 Il momento newtoniano in Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 2. 2006. Like Recommend Bookmark  5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia Newton 1 citation of this work Like Recommend Bookmark  27 François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor Institution, British Journal for the History of Science 17th/18th Century French Philosophy Like Recommend Bookmark Lo spettro del materialismo e la "Sacra famiglia" Rivista di Filosofia Lumi e utopie in uno studio di Bronislaw Baczko Rivista di Filosofia The New World and the Intelligent Design Rivista di Filosofia Anti-Darwinist ApproachesDesign Arguments for Theism Like Recommend Bookmark Scienziati italiani del Seicento e del Settecento Rivista di Filosofia Kant e la rivoluzione newtoniana Rivista di Filosofia Kant: Philosophy of Science Like Recommend Bookmark » Ottica, astronomia, relatività: Boscovich a Roma (1738-1748).« Rivista di Filosofia Introduzione All'illuminismo da Newton a Rousseau Laterza. 1973. Like Recommend Bookmark Newton e i suoi biografi Rivista di Filosofia Diderot e Shaftesbury Giornale Critico Della Filosofia Italiana L'iniziazione Pitagorica Di Vico Rivista di Storia Della Filosofia 4. 1996. Like Recommend Bookmark Per Conoscere Rousseau with Jean-Jacques Rousseau Mondadori. 1976. Jean-Jacques Rousseau Toland e l'attività della materia Rivista di Storia Della Filosofia British Philosophy, Misc L'eclissi della scienza' Rivista di Filosofia Rousseau, il popolo sovrano e la Repubblica di Ginevra Studi Filosofici Il mito pitagorico e la rivoluzione astronomica Rivista di Filosofia Newton, Leibniz e l'analisi: la vera storia Rivista di Filosofia 24 397. 1982. Like Recommend Bookmark  13 Francesco Bianchini (1662-1729) und die europäische gelehrte Welt um 1700 Early Science and Medicine History of Science Like Recommend Bookmark L'antica Sapienza Italica Cronistoria di Un Mito. 1998. Pythagoreans Like Recommend Bookmark  16 Candide, Theodicy and the «Philosophie de l'Histoire» Rivista di Filosofia La filosofia a Roma Rivista di Filosofia Vico's initiation into the study of Pythagoras Rivista di Storia Della Filosofia Pythagoreans Topic   Order   Teoria e storia delle rivoluzioni scientifiche secondo Thomas Kuhn Rivista di Filosofia  Il problema D'Alembert Rivista di Filosofia Semantica dell'Illuminismo Rivista di Filosofia Cheyne e la religione naturale newtoniana Giornale Critico Della Filosofia Italiana  Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific Revolution (review) British Journal for the History of Science Isaac Newton Like Recommend Bookmark  1 Diderot and the portrait of eclectic philosophy Revue Internationale de Philosophie Diderot Like Recommend Bookmark  6 "Magis amica veritas": Newton e Descartes Rivista di Filosofia Isaac Newton Like Recommend Bookmark La Natura Isedi. 1975. Like Recommend Bookmark Voltaire, la geometria della visione e la metafisica Rivista di Filosofia Leopardi apprendista: scienza e filosofia Rivista di Filosofia Studi stranieri sulla filosofia dei Lumi in Italia Rivista di Filosofia  Il metodo di Foucault e le origini della rivoluzione francese Rivista di Filosofia Rousseau e Diderot Rivista di Storia Della Filosofia Diderot « philosophe » Revue Philosophique de la France Et de l'Etranger Continental Philosophy 1 citation of this work Like Recommend Bookmark Newton: gli scolii classici Giornale Critico Della Filosofia Italiana La ricerca embriologica in Italia da Malpighi a Spallanzani Rivista di Filosofia  L'empirismo e la vera filosofia: il caso Scinà Rivista di Filosofia 8The Newtonian moment in Italy: A post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia Classical Mechanics Like Recommend Bookmark  6 James, Freud e il determinismo della psiche Rivista di Filosofia Freud Grean: Shaftesbury's philosophy of religion and ethics. A study in enthusiasm (review) Studia Leibnitiana  Herschel, Whewell, Stuart Mill e l'«analogia della natura» Rivista di Filosofia Newton: the classical scholia History of Science 22 (1): 1-58. 1984. 1 reference in this work 15 citations of this work Like Recommend Bookmark Diderot et le portrait du philosophe éclectique Revue Internationale de Philosophie Morte e trasfigurazione del testo Rivista di Filosofia L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer (review) British Journal for the History of Science Éléments de la philosophie de Newton (review) British Journal for the History of Science 2Isaac Newton Like Recommend Bookmark  6 The "Enciclopedia italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia Political Theory Il momento newtoniano in Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia Rousseau e l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia  Jean-Jacques Rousseau Topic   Order    5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia saac Newton 1 citation of this work Like Recommend Bookmark  27 François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor Institution,  (review) British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. 17th/18th Century French Philosophy. Grice: “An assumption generally shared by those who wrote and read the tests surveyed in Latin is that male desire can normally and normatively be directed at either male of female objects. If this configuration is held to be NORMAL or NORMATIVE, we might expect that it would also be represented as NAATURAL, and it is thus worthwhile to consider the role played by the discourse of NATURE in ancient representations of sexual behaviour. This question is both hughe and complex.Important discussions include Boswell, 1Foucault, 1986, 150-7, 189-227, and Winkler, 20-1 36-7 114 8. but one thing is clear: the ancient rhetoric of nature, as it relates to sexual practices, displays significant differenct from more recent discourses. Boswell, for example, observes that while “what is supposed to have been the major contribution of Stoicism to Christian sexual morality – the idea that the sole ‘natural’ and hence moral use of sexuality is procreation, is in fact a common belief of amny philosophies of the day’ at the same time, ‘the term UNNATURAL was applied eto everything from POSTNATAL CHILD SUPPORT to legal contracts between friends (Boswell, 129, 149 cf. 15: ‘The objection that homsosexuality is ‘unnatural’ appears, in short, to be neither scientifically nor morally cogent and probably represents mnothing more than a derogatory epithet of unusual emotiona impact due to a confluence of historically sanctioned prejudiced and ill-formed ideas about ‘nature.’”Thus, as Winkler notes, the contrast between nature and non-nature, when deployed in ancient writings simply ‘does not posess the same valence that it does today’ Winkler, p. 20 Moreover, nearly all of the texts that offer opinions on whether specific secual practice is in accordance with nature are works of philosophy. The guestion does NOT seem to have seriously engaged the writers of texts that directly spoke to and reflected popular moral conceptions (e. g. graffiti, comedies, epigram, love poetry, oratory). For this important distinction between the morallyity espoused by a philosopher and what we might call popular morality, see the introduction and chapter 1.  In short, as Richinlin warns us, the question I ‘something of a red herring, since the concept of nature takes a larger and more ominous form in our Christian culture than it did in AAncient Rome, whetere itw as a matter for philosophers’.Richlin, p. 533. But it may nonetheless be worthwhile to attempt a preliminary exploration of how the rhetoric of NATURE was applied by some ROMAN PHILOSOPHERS to sexual practices, particularly those between males.In other words. I would like to go a step or two beyond that ‘nature’ is generally used by Roman moralists to justify what they approve of’ (Edwards 88 n. 87). always bearing in mind, however, that to the extent that it was mostly taken up by philsoeophers, the question of ‘natural’ sexual practice seems not to have played a significant role in most public discourse among Romans. Nonphilosophical texts sometimes do deploy the rhetoric of NATURE in conjunction with sexual practices, at least insofras they as they offer representations of ANIMAL bheaviour, one possible component in arguments about what is natural.2-6, and Win3, on Philo’s description of crocodiles mating. kler, 2See for example Boswell, 137-43, 15 It will come as no surprise that Roman writers images of animals’ sexual practices are transparetntly influenced by their own cultural traditions. Thus in no Roman text do we find an explicit appeal to animal bhehaviour in order to condemn sexual practices between males as unnatural.Such an argument does occasionally appear in Greek texts, such as Plato, Laws 836c (martua parag Omenos en ton therios phusin kai deiknos pros ta toitauta oux aptomenon arena arrenos dia to me phusei touto einai – and Lucian Amores 36. To Be sure, Musonius Ruffus’s condemnation of sexual practices between males as para phusin might imply a reference to animal practices, and it is possible that in some work now lost to us the Roman Stoic followed in Plato’s footsteps in being explicit on the point. A Juvenalian satire does make reference to animal behaviour in orer to condemn cannibalism (claiming that no animas eat member s of their own species Juv. 15 159-68. And in a passage discussed later in this appendix, Ovid has a character argue that NO FEMALE ANIMAL experiences SEXUAL DESIRE for other females. These claims are as unsupportable as the claim that sexual practices between males do not occur anong nonhuman animals.This is obvious to anyone who has spent time with dogs. With regard to the academic-study of the question, the remarks of Wolfe, Evolution and Female Primate Sexual Behaviour, in Understanding behaviour: what primate studies tell us about human behaviour Oxford, p. 130 are as illuminating as they are depressing. ‘I have taked with several (anonymous at their request) primatologists who have told me that they have observed both male and female homosexual bheaviour during field studies. They seemed reluctant t publish their data,  however, either because THEY FEARED HOMOPHOBIC REEACTIONS (‘my ccolleagues might thank that I am gay’) or because they lack a framework for analysis (‘I don’t know what it means’). On the latter point Wolfe insightfully comments that the same problem affects our attempts to understand ANY sexual interactions among primates. ‘Because the alloprimates do not possess language, it is impossible to inquir into their sexual eroticism. In other words, homosexual and heterosexual behaviours can be observed, recorded, and analysed, but we cannot infer either homoeroticism or heteroeroticism from such behaviours (p. 131). But the fact that we do find animal behaviour cited by Roman authors to CONDEMN such phenomena as cannibalism and same-sec desire among females, but not SAME-SEX desire among males, merely proves the point. These rhetorical strategies reveal more about ROMAN cultural concerns than about actual animal behaviour. A poem in the Appendix Vergiliana introduces us to a lover hhappyly separated from his beloved Lydia. In the throes of his grief he cries out that this miserable fate NEVER BEFALLS ANIMALS: A bull is never without his cor, nor a he-goat without his mate. In fact, sighs, the lover: ET MAS QUACUMEQUE EST ILLA SUA FEMINA IUNCAT INTERPELLATOS SUMPAUQM PLORAVIT AMORES CUR NON ET NOBIS FACILIS NAUTRA FUISTI CUR EGO CRUDELEM PATIOR TAM SAEPE DOLOREM? (Lydia 35-8). The lover is melodramatically weepy and that consideration partially accounts of his ridiculous claim that male animals are never to be seen without their mates. Still, amatory hyperbole aside the verses nicely illustrate the tendency to shape both natura and animal bheaviour into whatever form is convenient for the argument at hand. Thus, Ovid,s suggesting that the best way to appease one’s angry mistress is in bed, portrays sexual behaviour among early human beings and animals s as the primary force that effects RECONCILIATION (Ars 2 461-92. The poet offers a lovely panorama in which animal behaviour is invoked as a POSTIIVE paradigm for specific human practices: unting otherwise scattered groups (2. 473-80) and mollifying an angry lover (2. 481-90). Less than two hundred lines later, the same poet invokes animalas as A NEGATIVE PARADIGM, again in support of a characteristically human concern: discretion in sexual matters. IN MEDIO PASSIMQUE COIT PECUS HOC QUOQUE VISO AVETIT VULTUS NEMPE PUELLA SUOUS CONVENIUNS THALAMI FURTIS ET IANUA NOSTRIS PARSQUE SUB INJIECAT VESTE PUDDAN LATET ET SI NON TENEBRAS AT QUIDDAM NUBIS OPACAE QUAERIMUS ATQUE ALIQUID LUCE PATENTE MINUS (Ovid, Ars, 2 615-20). Drawing his objets lesson to a close, Ovid holds up his own behaviour as a pattern to follow. NOS ETIAM VEROS PARCE PROFITEMUR AMORES TECTAQUE SUNT SOLIDA MYSTIFCA FURTA FIDE 639-40. And we are reminded of the strategies of this pasage’s broader context. If you want to keep your girlfriend happy, do not kiss and tell: that is the argument in service of which animal behaviour is invoked as NEGATIVE paradigm. These to Ovidian passages illustrate the utilyt of arguments from the animal world. Just look ant the animals and see how much we resemble them; just look at the51-5.  animals and see how far we have come.An epigram by theGreek poet Strato gives the later poin an dineresting twist. We huam beings, he writes, are SUPERIOR to animals in that, in addition to vaginal intercourse, we have discovered ANAL INTERCOURSE, thus men who are dominated by women are really no better than mere animals (A P 12 245 PAN ALOGON soon bivei monon oi ligkoi de ton allon zoon tout exkomen to pleon pugizein eurotntes hosoi de guanxi kratountai ton alogon zoon ouden exousi kleon. It all depends on the eye – and rhetorical needs – of the beholder. OS it is that Roman writers show how Roman they are through the picture they paint of sexual practices among animals of the same sex. Ovid himself, in his Metamorphoses, imagines the plight of young girl named Iphis who has fallen in love with another girl. In a torrent of self-pity and self-abuse, she expostulates on her passion, making a simultaneous appeal to NATURA and to the animals that is reminiscent of Ovid’s sweeping review of animal bheaviour in the Ars amatorial just cited. But this time the paradigm is an emphatically negative one. SI DI MIHI PARCERE VELLENT PARCERE DEBUERANT SI NON ET PERDERE VELLENT NAUTRALE MALUM SALTEM ET DE MORE DEDISSENT NEC CACCAM VACCA NEC EQUAS AMOR URIT EQUARUM: URIT OVES ARIES SEQUITUR SUA FEMINA CERVUM SIC ET AVES COEUNT INTERQUE ANIMALIA UNCTA FEMINA FEMINEO ONREPTA CUPIDINE NULLA EST (Ov. Met. 9. 728-34) As with Lydia’s lover, so here we have the melodramatic expostulations of an unah[py lover, and similarly her view of animal behaviour does not correspond to the realities of that behaviour. Still, these arguments are pitched in such a way as to invite a Roman reader’s agreement, and the sexual practices invoked as natural and occurring among the animals demonstrate a SUSPICIOUS SIMILARTY to the sexual practices and desired SEMMED ACCEPTABLE BY ROMAN CULTURE (the female never leaves the male, heterosexual intercourse is a convenient and pleasurable way of unting different social groups, and females never lust after females), or to specifically HUMAN EROTIC STRATEGIES: we do not copulate in public, and we should not kiss and tell if we want our to keep our partners happy. It cannot be coincidental that, whereas Ovid invokes animal behaviour in the context of a girl’s tortured rejection of her own passionalte yearnings for another girl, the mythic compendium in which this natrratie is found is peppered with stories involves passion and sexual relations between males. Both Orfeo (after losing his wife Euridice) and the gods themselves (whether married or not) are represented as ‘giving over their love to TENDER MALES, harvesting the BRIEF springtime and its first flowers before maturaity sets in” Ov. Met. 10. 83-5 ORPHEUS ETIAM THRACUM POPULIS FUIT AUCTOR AMORET IN TENEROS TRANSFERRE MARES CITRAQUE IUVENTAM AETATIS BREVE VER ET PRIMOS CARPERE FLORES. The stories that Orfeo proceeds ts to relate include those of the young CYPARISSUS once loved by Apollo Met 10.106-42 and the tales of Zeus and Ganumede, Apollo and Hyacinth (Met 10 155-219 Consider also the beautiful sixteen yer old Indian boy Athis and his Assyrian lover Lycabas (Met. 5 47-72. A passage which echoes of Virgil’s lines on NISUS AND EURIALO discussed in chapter 2. And the remark that the stunning but haughty young Narcissus, also in his sixteenth year, had many admireers of both sexses (Met 3 351-5.None of Ovid’s characters arever questions the NATURAL status of that kind of erotic experience or invokes the animals in order to reject it. Aulus Gellius preserves for us some anecdotes that further demonstrate the manner in which animal bheaviour could be made to conform to human paradigms. Writing of (IMPLICITLY MALE) dolfns who fell in love with beautiful boys (one oft them even died of a broek heart after losing his beloved) Gellius exclaims that they were acing “in amazing human ways” 606C-D and Plin N H 8 25-8 for this and other tales of male dolphins falling in love with human boys. Gell 6 8 3 NEQUE HI AMAVERUNT QUOD SUNT IPSI GENUS SED PUEROS FORMA LIBERALI IN NAVICULIS FORE AUT IN VADIS LITORUM CONSPECTOS MIRIS ET HUMANIS MODIS ARSERUNS. Cf. Athen 13 Once again, the comment tells us more about ‘human ways’ than about dolphins. The elder Plini, who alo relates this story regarding the dolphin, introduces his encyclopeic discussion of elephants by observing that they are nonly the largest land animals but the ones closest to human beings in their intelligence and sense of morality. In particular, they take pleasure in love and pride (AMORIS ET GLORIAE VOLUPTAS), and by way of illustration of the ‘power of love’ (AMORIS VIS) among elephants he cites two examples: ONE MALE FELL IN LOVE WITH A FEMALE FLOWER_SELLER, another with a young Syractusan man named MENANDER who was in Ptolemy’s army. Likehise he tells of a MALE GOOSE who fell in love with a beautiful young Greek MAN, and of another who loved a female musician whose beauty as such that she alstro attracted the attention of a ram. -4. NEC QUIA DESIT ILLIS AMORIS VIS, NAMQUE TRADITUR UNUS AMASSE QUANDAM IN AEGYPTO COROLLAS VENDENTEM ALLUS MENANDRUM SYRACUSANUM INCIPIENTIS IUVENTAE IN EERCITU PTOLEMACI DESIDERIUM EIUS QUOTIENS NON VIDERET INEDIA TESTATUS 10.51 QUIN EST FAMA AMORS AEGII DILECTA FORMA PUERI NOMINE OLENII AMPHILOCHI, ET GLAUCES PTOLOMAEO REGI CITHARA CANENTIS QUAM EODEM TEMPORE ET ARIES AMASSE PRODITUR. Plin N H 8 1. MAXIMUM EST EPLEPHANS PROXIMUMQUE HUMANIS SENSIBUS QUIPPE INTELLECTUS ILLIS SERMONIS PATRII ET IMPERIORUM OBEDIENTIA, OFFICIOURM QUAE DIDICERE MEMORIA, AMORIS ET GLORIAE VOLUPTAS 8 13Turing to the concept of NATURA as it applied to sexual pracyices by ancient writers, we being with basica basic problem. The very term NATURA has various referents in those texts. Sometimes NATURA seems simply to refer to the way things are or to the INHERENT nature OF something, sometimes to the way things SHOULD be according to the intention ordictates of some transcendent imperative. Thus Foucault speaks of ‘the ‘three axes of nature’ in philosophical discourse. The general order of the world, the orgginal state of mankind, and a behaviour that is reasonably adapted to natural ends.Fouctault, p. 215-6. See also the discussions in Boswell, p. 11-5, where he distinguishes between ‘realistic’ and ‘ideal’ notions of nature, Beagon, and Levy, “Le concept de nature a Rome: la physique, Paris). The first two of these axes are evident in a wife-variety of Roman texts. Departures from what is observably the usual PHYSICAL constitution of various thbeings could be called NONNATURAL or UNNATURAL even by nonphilosophical authors. The Minotuar, centaurs, a snake with feet, a bird with four wings, and a sexual union between a woman (the muthis Pasiphae) and a bull.snAnon De Differentiis 520 23 MONSTRUM EST CONTRA NATURAM UT EST MINOTAURUS. Serv. Aen 6. 286 (centaurs) Suet Prata fr. 176.113-5  snakes with feet, birds with four wings. Serv. Aen. 1. 235.11. Pasiphae and the bull. Te elder Plinty claims that breech births are ‘against nature’ since it is ‘nature’s way’ that we should be born head first.n N H 7 45 -6. IN PEDES PROCIDERE NASCENTEM CONTRA NATURAM EST RITUS NATURAE CAPITE HOMINEM GIGNI MOST EST PEDIBUS EFFERRI. PLiQuintilian argues that to push one’s hair back from the forehead in order to achieve some dramatic effect is to act ‘against nature’.Quint I O 11 3 160 CAPILLOS A FRONTE CONTRA NATURAM RETRO AGERE. and Seneca himself opines that being carried about in a litter is ‘contra natural’a, since nature has gives us feet and we should use them.Sen. Epist 55 ` LABOR EST ENIM ET DIU FERI AC NESCIO AN EO MAIOR QUIA CONTRA NATURAM EST QUAE PEDES DEDIT UT PER NOS AMBULAREMUS. Finally, the belief that physical disabilities and disease are UNNAUTARAL, and thus, implicitly, that a healthy body displaying no marked derivations from the form illustrates what nature designed or intended, surfaces in a number of texts, arnign from Celusus’ mdical treatise to Ciceroo’s philosophical works to declamations attributed to Quintilian, to a moral epistle fo Seneca to the, to the Digest.2 1. 60 pr. MOTUS CORPORIS CONTRA NATURAM QUAM FEBREM APPELLANT. Quint. Decld. Min. 298.12 WEAK AND MALFORMED BODIES ARE IMPLICITLY CCONTRA NATURAM. Celsus Medic 3 21 15. On fluids that are retained in the body contra naturam. Cic Off 3 30 MORBUS EST CONTRA NATURAM. Gell. 4 2 3 Labeo defines morbus asHABITUS CUIUSQUE CORPORIS CONTRA NATURAM QUI USUUM ETIUS FACIT DETERIOREM. Cf. D. 21 1 1 7. D. 4Along the same lines, some ancient writers also suggest that to harm a healthy body with poisons and the like is unnatural.Quint Decl. Min. 246.3 the plaintiff refers to a substance as a venenum QUONIAM MEDICAMENTUM SIT ET EFFICIAT ALIQUID CONTRA NATURAM. Sen Epist 5. 4. To torment one’s body and to eat unhealthy food is CONTRA NATURAM. As for the third of the axes described by Foucault, anthropologists and others have long observed that proclamations concerning practices that are in acoordance with nature often turn out to reflect specific cultural traditions. As Winkler puts it, for nature we may often read culture.Winkler p. 17. In the same way Edwards p. 87-8 discusses a passage from Seneca (Epist 95.20=1) discussed in chapter 5, having to do with women who violate their ‘nature.’ She concludes that ‘Seneca was not reacting to naturally anomalous bheaviour. He was taking part in the reproduction of a a cultural system.’ So too Veyne , p. 26. ‘When an ancient says that something is unnatural, he does not mean that it is disgraceful (monstrueuse) that that it does not conform with the rules of society, or that it is perverted OR ARTIFICIAL”. Roman sources of various types certainly support that contention. Thus, for example, violations of traditional PRINCIPLELS OF LANGUAGE AND RHETORIC which are surely among the most intensely cutlrual of human phenomeno are SOMETIMES SAID TO BE UNNATURAL.Serv. Comm. Art Don. 4 4 4 PLINIUS AUTEM DICIT BARBARISMUM ESSE SERMOVEM UNUM IN QUO VIS SUA EST CONTRA NATURAM – Serv Aen. 4. 427. REVELLI NON REVULSI. NAM VELLI ET REVELLI DICIMUS. VULSUS VERO ET REVULSUS USURPATUM EST TANTUM IN PARTICIPIIS CONTRA NATURAM cf. Sen. Contr. 10, pr. 9 – tof the rhetorician Musa. OMNIA USQUE AD ULTIMUM TUMOREM PERDUCTA UT NON EXTRA SANITATEM SED EXTRA NATURAM ESSENT. One legal writer invokes the rhetoric of NATURA to justify the principle of individual ownership (joint possession of a single object is said to be CONTRA NATURAL.D. 41 2 3 5 CONTRA NATURAM QUIPPE EST UT CUM EGO ALIQUID TENEAM TU QUOTE ID TENERE VIDEARIS. Interestingly, another jurist argues that the principle underlying the institution of slavery – that one person can be owned by another – is actually ‘unnatural’ (D. 1. 5. 4. 1. SERVITUS EST CONSTITUTIO IURIS GENTIUM QUA QUIS DOMINIO ALIENO CONTRA NATURAM SUBICITUR. In a Horatioan satire we read that NATURA sees it that no one is every truly the ‘master’ of the land that he legally owns, and Natura puts a limit on how much one can inherit (Hor. Sat. 2. 2. 129-30, 2.3.178). Sallust describes the violation of the cultural and more specifically philosophical tradition priviliengy the SOUL over the BODY as UNNATRUAL.Sall. Cat. 2. 8. QUIVUS PROFECT CONTRA NATURAM CORPUS VOLUPTATI, ANIMA OVERI FUIT. SALLUST. Likewise, practices violating Roan ideologies of MASCULINITY are represented as INFRACTIONS NOT of cultural tranditions s but of the natural order. Cicero’s philosophical tratise DE FINIBUS includes a discussion of the parts and with some clarity functions of the BODY that illustrates the relation between NATURE and MSASCULINITY with some clarity Our bodily parts, Cicero argues, are PERFECTLY DESIGNED to fulfil their functions, and in doing so they are in conformance with nature. But there are certain bodily movesmesns NOT in accord with nature (NATURAE CONGRUENTES> If a man were to walk on his hand or to walk backwyasds, he would manifestbly be rejecgting his identity as a human and thuswould thus be displayeing a ‘hattred of nature’ (NAUTRAM ODISSE). Cic Fin 5 35. CORPORIS IGITUR NOSTRI PARTES TOTAQUE FIGURA ET FORMA ET STATURA QUAM APTA AD NATURAM SIT APPARET. The claim that walking on one’s hand is unnatural nicely illustrates the gap between ancient and more recent uses of the rhetoric of nature – cfr. Dodgson). The next illustration Cicer o offers of bodily moveents not in accord with natura concerns correctly masculine ways of deporing oneself. QUAMOBREM ETIAM SESSIONES QUAEDAM ET FLEXI FRACTIQUE MOTUS, QQUALES PROTERVORUM HOMINUM AUT MOLLIUM ESSE SOLENT, CONTRA NATURAM SUNT, UT ETIAMSI ANIMI VITIO ID EVENIANT TAMEN IN CORPOMUTRAR MUTARI HOMINIS NATURA VIDEATUR ITAQUE A CONTRARIO MODERATI AEQUABILESQUE HABITUS AFFECTIONS USUSQUE CORPORIS APTI ESSE AD NAUTRAM VIDENTUR (Cic. Fin 5. 35-6. Deemed ‘agaist natture’ are certain ways of carrying oneself that are ‘wanton’ and ‘soft,’ movements lthat, like walking on one’s hand or stepping backwards, clasi the with thvident purporse of the body’s various parts. Implicitly then, nature wills men’s bodies to move and to function in certain ways. Men who violate these principles of masculine comportment are acting BOTH EFFEMINATELY (as we saw in chapter 4, militia is a standard metaphor for effeminacy) AND UNNATURALLLY. Cultural traditions regarding masculinity – here, appropriate bodily gestures – are identified with the natural order.Similar conddemnations of inappropriate bodily comportment, marked as EFFEMINATE, abound: walking daintily, scratching the hair delicately wih onefinger, and so on (see chapter 4 in general and see Gleason for a general discussion of physiognomy and masculinity in antiquity. How, then is the rheotirc of nature applied to same-sex practices? One scholar has recently suggested that the elder Pliny describes men’s desires to be anally penetrated as occurring ‘by crime against nature’ Taylor, p. 325. But that is probably a misinterpretation of Pliny’s language. IN HOMINUM GENERE MARIBUS DEVERTICULA VENERIS EXCOGIGATA OMNIA, SCLERE (or CCCELERE naturae FEMINIS VERO AOBRTUS Plin N H 10 172. The phrase DEVERTICULA VENERIS which one might translate (by-ways of sex’ or ‘sexual deviations’ is vague. There is no reason to think that it refers to specifically, let alone exclusively, to the practice of being anally penetrated. Moreover, the phrase SCELERA NATURA or SCELERE NATURAE, rather than ‘crime against nature,’ is most obviously transated as ‘crime OF NATURE,’ that is, a crime perpetrated BY NATURE.This is indeed the way Plinio uses the phrase elsewhere, noting that we ought to call earthquakes ‘moracles of the eart rather than crimes of nature’ (NH 2 206 – UT TERRAE MIRACULA POTIUS DICAMU QUAM SCLEREA NATURAE. See Beagon, p. 29. In other words (pace Taylor and Rackham Loeb Classical Library translation, I take the genitive NATURAE to be subjective rather than objective. I have not found any parallels for such an objective use of a genitive noun dependent upon scelus. In any case, Pliny is not implying that all sexual desires or practices between males are unnatural: in this same treatise, significantly called the HISTORIA NAUTRALIS or Natural Investigations’ he reports the story of a male elephant who fell passionately in love with a young man from Syractuse as an illustration of the obviously natural power of love of love (amoris vis) among elephants; likewise, he reports the story of a gosse who loved a beautiful young man.Plin N H 8 13-4, 10.51More explicitly referring to those men who take pleasure in being penetrated, the speaker in Juvenal’s second satire riducules menwho have wilfully abandoned their claim on masculine status by weaking makeup, participating in women’s religious festivals, and even taking husbands, and notes with gratitude, that nature does not allow them gto give birth.Juv. 2 139 40. SED MELIUS QUOD NIL ANIMIS IN CORPORI IURIS NATURA INDULGET STERILES MORTUNTUR. For Further discussion see Appendix 2. The orator Labienus decries wealthy men who castrate their male prostitutes (EXOLETI, see chapter 2) in order to render them more suitable for playing the receptice role in intercourse. These men use their rinces in UNNATURAL WAYS (contra natural), and the natural standard they they violate is apparently the principle that mature males both should make use of the PENISES and should be IMPENETRABLE.Sen Contr. 10. 4 17. PRINCIPES VIRI CONTRA NATURAM DIVITIAS SUAS EXERCENT CASTRATORUM GREGES HABENT EXOLETOS SUOS AD LONGIOREM PATIENTIALM IMPUDICITIAE IDONEI SINT AMPUTANT. Firmicus Maternus refers to men’s desires to be penetrated as CONTRA NATURAL (5. 2. 11), and Caelius Aurelianus’s medical wirtings also reveal the assumption that men’s ‘natural’ sexual function is TO PENETRATE and not to be penetrated.9 137. NATURALIA VENERIS OFFICIA. Cael. Aurel. Morb. Chron. 4 In short, nature’s ditactes conveniently accorded with cultural traditions, such as those discouraging men from seeking to be penetrated, or those deterring them from engaging in sexual relations with other men’s wives: in a poem that urges on its male readers the principle that NATURA places a limit of their desires, Horace remocommends, as implicitly being in line with the requirement of nature, that men avoid potentially dangerous affaris with married women and stick to their own slaves, bh male and female.Hor. Sat. 1 2 111. NONNE CUPIDINIBUS STATUAT NATURA MODUM QUEM … Se chapter 1 for further discussion of this poem. Cf. Sat. 1. 4. 113-4: NE SEQUERER MOECHAS CONCESSA CUM VENERE UTI POSEEM. In one of his Episles (122) Seneca provides a lengthy and revealing discussion of ‘unnatural’ behavours that include a reference to sexual practices among males. He beings, however, by despairing of ‘those who have perverted the roles of daytime and nightime, not opening their eyes, weighed down by the preceding day’s hangover, until night begins its approach. Sen Epist 122 2 SUNT QUI OFFICIA LUCIS NOTISQUE PERVERTERINT NEC ANTE DIDUCANT OCULOS HESTERNA GRAVES CRAPULA QUAM ADPETERE NOX COEPIT. These people are objectionably not simply because of their overindulgence in goof and drink but because they do not respect the proper function of night and day.Comparing them to the Antipodes, mythincal beings who live n the opposite side of the globe, he asks. Do you think these people know HOW to live when they don’t even know WHEN to live? 122.3 HOS TU EXISTIMAS SCIRE QUEMADMODUM VIVENDUM SIT QUI NESCIUNT QUANDO?and this pervesion of night and say, is, in the end, ‘unnatural’. INTERROGAS QUOMODO HAEC ANIMAO PRAVITAS FIAT AVERSANDI DIEM ET TOTAM VITAM IN NOCTEM TRANSFERENDI? OMNIA VITA CONTRA NAUTRAM PUGNANT, OMNIA DEBITUM ORDINEM DESERUNT (Sen Epist. 122.5). He then proceeds to tick off a serioes of bheaviour that are similarly CONTRA NATURAM. First, people who drink on an empty stomach ‘live contrary to nature’ Sen. 122 6 NON VIDENTUR TIBI CONTRA NATURAM VIVERE QUI IEIUNI BIBUNT QUI VINUM RECIPIUNT INANIBUS VENIS ET AD CIBUM EBRII TRANSEUNT. Young men nowadsays, Seneca continues, go to the baths before a meal and work up a sewat by drinking heavily; according to them, only hopelessly philistine hicks (patres familiae rustici … et verae volupatigs ignari) save their drinking for after the meal.Sen Epist 122 6. ATQUI FREQUENS HOC ADULESCENTIUM VITIUM EST QUI VIRES EXCOLUNT UT IN IPSO PAENE BALINEI LIMINE INTER NUDOS BIBANT IMMO POTENT ET SUDOREM QUEM MOVERUNT POTIONIBUS CREBRIS AC FERVENTIBUS SUBINDE DESTRINGAT POST PRANDIUM AUT CENAM BIBERE VULGARE ETS HOC PATRIS FAMILIAE RUSTICI FACIUT ET VERA VOLUPTATIS IGNARI. The latter comment, with its contrast between URBAN AND RUSTIC life, austerity and luxyry , is a valuable reminder of us. The standard violated by those who drank betweofre eating was what we would call a cultural norm. But for Seneca they were violating the dicates of NATURE, abandoning the proper order (debitum ordinem) of things. This important point bust be borne in mind as we turn to the next practices that come under Seneca’s fire: NON VIDENTUR TIBI CONTRA NATURAM VIVERE QUI OMMUTANT CUM FEMINIS VESTEM? NON VIVUNT CONTRA NAUTRA QUI SPECTANT UT PUERITIA SPENDEAT TEMPORE ALIENO? QUID FIERI CRUDELIS VEL VISERIOUS POTEST? NUMQUAM VIR ERIT, UT DIU VIRUM PATI POSSIT? ET CUM ILLUM CONTUMELIAE SEXUS ERIPUISSE DEBUERANT NON NE AETAS QUIDEM ERIPIET (Sen. Epist 122. 7). The concept of the proper order is very much in evidence here, and here again the order shows unmistakable signs of cultural influence. Just as those who turn night into day or drink wine before they eat a meal are engaging in unnatural activities, so men who wear women’s clothes live contrary to nature – yet what could be more cultural than the designation of certain kinds of clothing as appropriate only for men and others as appropriate only for women? Moving on to his next point, Senceca continues to focus on extermal appearance. Men who attempt to give the appearance of the boyhood that is in fact no longer theirs also ‘live contrary to nature’. Again the order of things has been disrputed. Boys should be boys, men should be men. But these particular men want to LOOK like boys in order to find older male sexual partners to penetrate them. Such is the thenor of Seneca’s decorous but blunt phrase, ‘so that he may submit to a man for a long time’ (ut diu virum pati possit’). If we filter out Seneca’s moralizing overlay, this detail gives us a fascinating fglimpse oat Roman realities. These MEN scorned by Seneca acted upon the awareness that MEN would be more likely to find them desirable if their bodies seemed like those of BOYS (not men): young, smooth, irless. Moreover, the very fact that these men made the effort suggests that th actual age of the beautiful ‘boys’ we always hear of may not have mattered to their loveers so much as their youthful APPEARANCE.Cf. Boswell, p. 29, 81. All of this is very much a matter of CONVENTION, of CULtURAL traditions concerning the ‘proper order’ of things, but Seneca insistently pays homage to NATURA.Cf. Winkler, p. 21. “Contrary to nature means to Senea not ‘outside the order of the kosmos’ but ‘unwilling to conform to the simplicity of the unadorned life’ and, in the case of sex, ‘going AWOL rom one’s assigned place in the social hierarchy’”. The importance of this order is especially clear in the climactic illustrations of those who live ‘contrary to nature’. These are people who wish to see see roses in winter and employ artificial means to grow lilies in the cold season; who grow orchards at the tops of towers and trees under the roofs of their homes (this latter proving Seneca to a veritable outburst ofm moral indignation)., and those who construct their bathhouses over the waters of the sea Sen. Epist 122 21 NON VIVUNT CONTRA NATURAM QUI FUNDAMENTA THERMARUM IN MARI IACIUNT ET DELICATE NATARE IPSI SIBI NON VIDENTUR NISI CALENTIA STAGNA FLUCT AC TEMPESTATE FERIANTUR.  Finally Seneca returns to the example of unnatural practices that sparked the whole discussion: those who pervert the function of night and day aengage in the ultimate form of unnatural behaviour (Sen Epist 122 9 CUM INSTITUERUNT OMNIA CONTRA NATURAE CONSUETUDINEM VELLE NOVISSIME IN TOTUM AB ILLA DESCISCUNT LUCET SOMNI TEMPUS EST QUIES EST NUNC EXERCEAMUR NUNC GESTEMUR NUNC PRANDEAMUS. That the practice ofs of growing trees indoors, of building bathhouses over the sea, and of sleeping by day and partying by night should be considered unnatural makes some sense in relation to notions of the ‘proper order’ of things. Plants should e outdoors, buldings should be on dray land, and people should sleep at night. But that thes practices should be cited as the most egregious examples of unnatural bheaviour – they constitute the climax of Seneca’s argument – demontrastes just how wide the gap is between ancient moralists and their modern counterparts on the question of what is natural. With regard to mature men who seek to be penetrated by men, the third of Seneca’s examples of unnatural behaviour, Seneca makes in passing a surprising remark. CUM ILLUM CONTUMELIAE SEXUS ERIPUISSE DEBUERAT NON NE AETAS QUIDEM ERIPIET? 122.7. The clear implication is that a nature man certainly ought to be safe from ‘indignity’ (here a moralizing euphemism for penetration), but ultimately the very fact that he is MALE, REGARDLESS OF HIS AGE, ought to protect him. With with one pointed sentence, then, Seneca is suggesting that MALENESS IN ITSELF IS IDEALLY INCOMPATIBLE WITH BEING PENETRATED, and since sexual acts were almost without exception conceptualized as REQUIRING penetration, this amounts to positing the exclusion of sexual practices BETWEEN MALES from the ‘proper order’. This is a fairly radical suggestion FOR A ROAM MAN TO MAKE, and Seneca was no doubt aware of that fact. He slips the comment quietly into his discussion, makes the point rather subtly (it makight ake a second reading even to REALISE IT IS THERE), and then instantly moves on to other, less controversial arguments. FOR as opposed to Seneca’s suggestion that EVERY MALE, even a boy, should somehow be ‘rescued’ from ‘indignity,’ the usual Roman system of protocols governing men’s sexual behaviour required the understanding that A BOY is different from A MAN precisely because they COULD BE penetrated without necessarily forfeiting EVERY CLAIM to masculine or male status (see especially chapter 5 on this last point). But Seneca, waxing Stoic, here voices a dissenting opinion, as does the first century A. D. Stoic philosopher MUSONIUS RUFUS, in one of twhose treatises we find the remark that sexual practices BETWEEN MALES are ‘against nature’ (‘para-physical’) Muson, Ruf. 86. 10 Lutz para phusin. The remark needs to be be put in the context of Musonius’s philosophy of nature. According to Musonious, every  createure has its own TELOS beyond the goal of simply being aalive En a horse would not b e fully living up to its telos if all it did was to eat, drink, and copulate (106.25-7 Lutz)., while the TELOS or goal of a human being is to live the life or arete or VIRTUS. Thus, “each one’s nature (phusis) leads him to his particular virtuous quality (arete), so that it is is a reasonable conclusion that a human being is living in accordance WITH nature NOT when he lives in pleasure, but rather when he lives in virtue” 108.1-3 Lutz). Elsewhere he opines that human nature (phusis – anthropine phusis, natura humana, Hume, Human Nature) is not aimed at pleasure (hedone, 106.21.3 Lutz). Consequently, luxury (truphe) is to be avoided in EVERY way, as being the cause of INJUSTICE (126.30-1 Lutz). By implication, then, eating, drinking, and aopulating are not in themselves evil, but they can easily become sgns of a life of luxury, and if those activities aconstitute the goals of our existence, we are FAILING TO FULFIL OUR POTENTIAL AS A HUMAN BEING, namely, the practice of virtue, or reason, and consequently, not living IN ACCORDANCE WITH NATURE, but against her (paa phusin). Thus, as part of a regime of SELF-CONTROL (MALENESS OR MASCULINITY AS SELF-CONTROL, not addictive behaviour or weakness of the will) Musonius argues that a man should engage in a sexual practice only within the context of marriage for the purpose of begetting children. Any other sexual relation, even within marriage should be avoided. T”Those who do not live licentiously, or who are not evil, must think that only those sexual practices are justified which are consummated within marriage and for the creation of children, since these pratcttices are licit (NOMIMA). But such people must think that those sexual practices which hunt for mere pleasure are unjust and illicit, even if they take place within marriage. Of Other forms of intercourse, those committed in moikheia (I e. a sexual relation with a freeborn woman under another man;s control) are the most illicit. No more moderate than this is the INTERCOURSE OF MALES WITH MALES, since it is a DARING ACT CONTRARY TO NATURE. As for those forms of intercourse with with females apart from moikheia which are not licit (kaTa nomon) all of these are too shameful, because done on account of a lack of self-control. If one utside  to behave temperately (TEMPERANTIA, CONTINENTIA) one would not dare to have relations with a courtesan, nor with a free woman outside of marriage, nor, by Zeus, with one’s own slave woman (Musonius Rufus, 86.4-14 Lutz). As I argued in chapter 1, Musonius’s final remark reveals the extent to which the sexual morality that he is preaching is at odds with mainstream Roman traditions. Nor is his suggestion that men should keep their hans off prostitutes and their own slaves the only surprising statement to be found in the treatises attributed to Musonius. He elsewhere aargues against the obviously widespread practices of giving up for adoption or even exposing unwanted children (96-97 Lutz), of EATING MEANT (here he explicitly contrasts himself with the many hoi polloi who live to eat rather than the other way around (118-18-20 Lutz) or SHAVING THE BEARD (128.4-6 Lutz), of using wet nurses (42.5-9 Lutz), and most appositely, of allowing husbands sexual freedoms not granted to wives (96-8 Lutz). Thus his condemnation of sexual practices between MALES is issued in the context of a condemnation of ALL SEXUAL PRATICES other than those between husband and wife aimed at procreation (strictly speaking, vaginal intercourse when the wife is ovulating) and also in the context of a a suspicion of all luxury oand of pleasures beyond those relating to the bare necessities of life. Thus he condemns sexual relations between males as contrary to nature (the implication being that the two sexes ARE DESIGNED TO UNITE WICH EACH OTHER IN THE CONTEXT OF MARRIAGE), while sexual relations between malesand female outside of marriage are criticized as ‘illicit (para-noma) and as signs of lack of self-control. Here Musonius is obviously manipulating the ancient contrast between law or convention (nomos) and nature (phusis) and interprestingly procreative relations within marriage are ultimately given his seal of approval not because they are more ‘natural’ than tother sexual practices, but because they are ‘licit’ or ‘conventional’ (nomima), just as adulterious relations are most ‘illicit’ of unconventional (paranomotatai). In other words, Musonius invokes the rhetoric of nature only by way of secondary support.. A male-male relation is no more ‘moderate’ than a adulterious relationa dn anyway, he adds, they are ‘unnatural’. But a relation between a man and another man’s wife, while implicitly ‘natural’,is in the end more ‘illicit’ than a male-male relation. Even for the Stoic Musonious, NATURA may NOT be the ultimate arbiter. Interestingly, when he describes sexual practices between males as being against nature, Musonius does not appeal to animal bheaviour as does Plato in his Laws (836c). Indeed, such an argument sould have ill-suited Musonius’s argument elsewhere that humans are different from other animals and should not takem them as a MODEL FOR BHEAVIOUR. Thus he argues that wise men ill not attack in return if attacked – such revenge is the province of MERE ANIMALS – 78.26-7 Lutz) – and that, while among animals an act of copulation suffices to procude offspring, human beings should aim for the lifelong union that is marriage (88.16-17 Lutz). Finally, there is an important distinction to observe between Musonius’s remark concerning sexual practices between males and later Christian fulminations against ‘the unnatural vice’ which came to be a code term for ‘sodomy’. On the one hand, Musonius did not go so far as to condemn such relations as THE unnatural vice. Indeed, if we think about the implications of his words, relations between MALES do not even constitute the ULTIAMTE sexual crime. He declare that ADULTEROUS relations are ‘the most illicit of all’ (paranomotatai) and thus clearly more ‘illicit’ than relations between males which are howevery ‘equally immoderate’. Furthermore Musonius’s approach to the problem of sexual behaviour differs from later Christian moralists in a fundamental respect. As Foucault puts it, according to Musonius, ‘to withdraw pleasure from this form (sc. Of marriage, to detach pleasure from the conjugal relation in order to propoeseother ends for it, is in fact to debase the ESSENTIAL composition of the human being. The defilement is not in the sexual act itself, but in the ‘debauchery’ that would dissociate it from marriage, where it has its natural form and its rational purpose” Foucault p. 170. Cicero ro in a passage from one of this major philosophical works, the Tusculan disputations, approaches the ascetic stance advocated by Seneca and Musonius Rufus, although he nowhere makes an explicit commitment to the extreme suggested by Seneca and preached by Musonius. Speaking in the Tusculan Disputations of the detrimental effects of erotic passion, Cicero observes that the works of Greek poets are filled with images of love. Focusing on those who describe LOVE FOR BOYS (he mentions Alcaeus, Anacreon, and Ibycus), Cicero notes thain an aside that ‘NATURE HAS GRANTED A GREATER PERMISSIVENESS (maiorem liicnetial)” to men’s affairs with women. Cic. Tusc. 4. 71. ATQUE UT MULIEBRIS AMORES OMITTAM QUIVUS MAIOREM LICENTIAL NATURA CONCESSIT QUIS AUT DE GANYMEDI RAPTU DUBITAT QUID POETAE VELINT AUT NON INTELLEGIT QUID APUD EURIPIDEM ET LOQUATUR ET CUPIAT LAIUS. The comparative (MAIOREM LICENTIAL is noteworthy. NATURE has granted ‘greater’, not exclusive license to affais with women than to affairs with BOYS. The Latter are evidently NOT FORBIDDEN BY NATURE. Discouraged perhaps, but not outlawed. This is a BEGRUDGING ADMISSION, in perfect agreement with the tenor of the whole discussion of sexual passion which had opened thus. ET UT TURPES SUNT QUI ECFERUNT SE LAETITIA TUM CUM FRUUNTUR VENERIIS VOLUPTATIBUS SIC FLAGITIOSI QUI EAS INFLAMAMATO ANIMO CONCPISCUNT TOTUS VERO ISTE QUI VOLGO APPELATUR AMOR – NEC HERCULE INVNEIO QUO NOMINE ALIO POSSIT APPELARI  TANTAE LEVITATIS EST UT NIHIL VIDEAM QUOD PUTEM CONFERENDUM. (Cic. Tusc. 4. 68). These words disparage sexual passion as a whole – particularly a hot, inflamed desire (QUI EAST INFLAMMATO ANIMO CONCUSPICUNT) whether indulged in with women or with boys. NATURA, according to Cicero, makes it easier to indulge in this passion with women, so that when  men DO INDULGE IN IT WITH BOYS, they show just who DEEPLY THEY HAVE FALLEN VICTIM TO LOVE – that treacherous and destructive power, ‘te originator of disgraveful behaviour and inconstanty (FLAGITTI ET LEVITATIS AUCTOREM (4. 68), as G. Williams notes. In fact, remarkably enough, Cicero later claims that love itself is not natural. Cic. Tusc. 4 76. If love were natural, everyone would love, they would always love, and would love the same thing: one person would not be deterred from loving by a sense of shame, another by rational thought, another by his satiety – ETENIM SI NAUTRALIS AMOR ESSET ET AMARENT OMNES ET SEMPER AMARENT ET IDEM AMARENT NEQUE ALIUM PUDOR ALIUM COGITATIO ALIUM SATIETAS DETERRERET. Cicero’s remark on NATURA and sexual relations with women is in fact fact little more than a a passing comment. Still, its implications deserve some consideration. In what whays does NATURE grant ‘greater permisiveness’ to a relation with aa woma than with a boy? Why does Seneca suggest that men’s MALENESS ought to preclude them from being PENETRATED, and why does Musonius Rufus condemn ALL SEXUAL PRACTICES BETWEEN MALES as unnatural? These philosophers’ comments seem to rest on certain assumptions about the function of sexual organs. Certainly Seneca emphasixes the notion of the proper order or debitus ordon, according to which men should not drink wine before eating, grow roses in the winter, build buildings over the sea, or PENETRATE MALES. In short, some kind of ARGUMENT FROM DESIGN seems to lruk in the backgrounf of Cicero’s Seneca’s and Musoniu’s claism. The penis is ‘designed’ to PENETRATE a vagina. TA vagina is deigned to be penetrated by a penis. Similarly the passage from Phaedrus Fables 4 16 discussed in chapter 5 implies, whitout actually using the word NATURA, that males who desire to be penetrated (molles mares) and females who desire to penetrate (tribades) have A FLAWED DESIGN. When Prometheus was assuming these people’s bodies from CLAY, he attached the genial organs of the opposite sex in a drunken slip-up. But his more popularizing account only specifies that those males who DESIRE to be penetrated are anomalous. It does not designate those men who seek to penetrate other males as unnatural. On this model, a sexual act in which a master penetrated his UNWILLING MALE slave  is NOT UNNATURAL. By contrast, according the philosophers discussed here (Musonius most expliclty) this act would be unnatural.  But on the whole very few Roman writers seem to have taken this kind of argument to heart. In general, ROMAN MEN’S BEHAVIOURAL codes reflect an AWARENESS that the PENIS IS SUITED for purposes OTHER than penetrating avagina, and that the vagina is NOT the only organ suited for being penetrated. Such is the implication of a witty comment in an epigram of Martial’s addressed to a man who, instead of doing the USUAL WITHIN with his BOY and analyy penetrating him, has been STIMULATING THIS GENITALS. This is objectionable because it will speed up the process of his maturation and thus hasten THE ADVENT OF HIS BEARD (11.22.1-8). Martial tries to talk some sense into his friend and the epigram ends with an APPEAL TO NATURE. DIVISIT NATURA MAREM PARS UNA PUELLIS UNA VIRIS GENITA EST UTERE PARTE TUA Mart 1 22.9-10. The comment is of course a witticigm. Note the logical contradiction that this playful invocation of nature creates. If the penis is designed by nature for girls and the anus for mmen,how can a man use a boy’s anus in the way nature intended (i. e. to be penetrated by men) and at the same time use his own penis in the way nature intended (i. e. by penetrating a girl? See chapters 1 and 5 for further fsucssion of this epigram together with Martial’s humorous invocation of the paradigm of nature with regard to masturbation. but if the humour was to succeed, the notion that a boy’s anus is designed by nature for a man to penetrate cannot have seemed outrageous to Martial’s readership. After all, the rhetorical goal of the epigram is to steer tha man onto the path of right behaviour, the path which Martial’s won persona, dutifully, even proudly, followed. This sort of comment – rather than the passing remarks of such philosophers as Cicero, Seneca and Musonius Rufus, reflects the mainstreat Roman understanding of what constitutes NORMATIVE and NATURAL sexual beavhiour for a boy and for a man. It is significant, moreover, that neither CCicero nor Seneca nor Musonius Rufus nor any other survinving Roman text, philosophical or not, argues that a MAN’s *DESIRE* to penetrate a boy is ‘contrary to nature’. Musonius, for one, speaks ony of the sexual act (SUMPLOKAI). We return to the Epicurean perspective offered by Lucretius cited in chapter i. SIC IGITUR VENERIS QUI TELIS ACCIPIT ICTUS SIVE PUER MEMBRIS MULIEBRIBUS HUNC IACULATUR SEU MULIEUR TOTO IACTANS E CORPORE AMOREM UNDE FERITUR EO TENDIT GESTITQUE COIR ET IACERE UMOREM IN CORPUS DE CORPRE DUCTUM. Lucr. 4. 1052-6. This are lines from a poem dedicated to teaching its Roman readers about ‘the nature of things’ (de rerum natura 1.25). cf. Boswell p. 149 “Lucretius’s De rerum natura dealt with the whole of ‘natura’ but it was the ‘rerum’ of things – which suggested to Latin readers what modern speakers mean by ‘nature’”. Obviously the SUSCEPTIBILITY OF MEN to THE ALLURE of boys and women is a PART OF THE NATURAL ORDER for Lucretius. The beams of atomic particles that EMANATE from the bodies of boys and women and attract men to them are an integral part of the nature of things. It is the mentalitly evident in such diverse textsa Lucretius’s poetic treatise On the nature of Things, Martial’s epigrams, and graffiti scrawled on ancient walls that we need to keep in mind when we evaluate the comments of Musonius Rufus, Seneca, and Cicero. These are the words of three philosophers. Cicero expounding on the danger s of love, Senceca inveighing against the corrputions of the world around him, and Musonius arguing that men should engage only in certain kind of sexual relations and only with their wives, the goal being the production of legitimate offspring and not the pursuit of pleasure. These pronouncements tell u something about the world in which these three philosophers who made them lived, and about what men and women in that world were actually doing. Seneca for example is hardly fulminating about imaginary fices) but they tells us even more about Cicero, Seneca, and Musoiuns, and their own philosophical allegiances We have every reason to believe that comments like their rpersented a minoriy opinion. Indeed, the men AGAINST whom Musonius argues, who believed that A MASTER has absolute power to do ANYTHING HE WANTS to his slave, is precisel that man shoes VOICE dominated the public discourse on sexual practice. Moreover, as Winkler (p. 21) trenchangly observers, Seneca’s condemnation of such ‘unnatural’ behaviour as growing hothouse flowers or throwing nightime parties, ‘though articulated as universal, is OBVIOUSLY DIRECTED AT A VERY SMALL AND WEALTHY ELITE – THOSE WHO CAN AFFORD THE SORT OF LUXURIES Seneca wants ‘ALL MANKIND’ to do without”, It is telling, too, that Cicero himself never makes this kind of APPEAL TO NATURA in the SEXUAL INVECTIVE sscattered throughout the speeches he delivered in the public arenas of the courtroom, Senate, or popular assembly (see chapter 5), and that the argument appears NOWEHERE ELSE IN the considerable corpus of Seneca’s moral treatises. Likewise, it is worth noting that Musonius Rufus’s who makes the most extreme case, not only wrote his treatise in GREEK rather than Latin, as if to underscore its distance from he everyday beliefs and practices of Romans, but as a philosopher omitted to stoicis in a way that Cicero and and Seneca are not. As Haexter reminds us, Cicero proposes manydifferent rhetorical and philosophical positions in his speeches, letters, and dialogues, and Seneca’s epistles to Lucilius offer a tentative and experimental mixture of Stoicism and other philosophical schools (many of his earlier letters end with quotations from Epicurus, for example). In any case, Boswell, cp. 130 citing ancient sources claiming that the very founder of stoicism, Zeno, engaged in sexual practices with males (perhaps even exclusively) tnote that many ancient stoics actually seem to have considered the question of sexual praticess between males to e ETHICALLY NEUTRAL. Finally, It is worth noting that both Seneca and Cicero were thought not to have practiced what they prached. In a discussion of how Seneca’s behaviour often stood in contracition to his own teachings, the historian DIO CASSIUS observes that although he married well, Seneca also “takes pleasure in older lads, and teachers Nero do to the same thing, too”. Dio 61 10 4. Tas te aselgeias has praton gamon te epiphanestaton egme kai meikarious exorois exaire kai tauto kai ton Nerona poietin edidaxe. The historian goes on to insutate that Seneca fellated his partners, speculating on the reason why refused to kiss Nero. One might imagine, Dio notes, that this was  because he was gisuted by Nero’s penchant for oral sex. But that makes no sense given Seneca’s own relations with his boyfriends (61  10 5 o gar toi monon an tis hupopteuseien hoti ouk ethele toiouto stoma philein elegxketai ek ton paidikon autou pseudos on).  The younger Pliny (Epist. 7.4) informs us that Cicero addresses a love poem to his faithful slave and companion Tiro. Of course neither of these pieces of information tells us anything about Cicero’s or Seneca’s actual experiences. Cicero’s poem could have been a literary game and the stories a out Seneca that constituted Dio’s source may well have been unfounded gossip (For Cicero and Tiro, see McDermott and Richlin. P. 223, Canatarella p. 103 assumes that they actually ENJOYED A sexual relationship)). On the other hand, is it not impossible that Cicero actually DID experience DESIRE for Tiro and that Seneca DID enjoy the company of MATURE MALE SEXUAL PARTNERS. And abovre all it is important to recognize that later generations of Romans (the younger Pliny and Dio) were willing to IMAGINE THOSE THINGS HAPPENING. Dio’s gossipy remarks and Pliny’s comments on Cicero remind  us of the cultural context in which a philosopher’s allusion to NATURA must be placed.  ( Paolo Casini. Keywords: naturismo, naturalismo, natura, nazione, patto sociale, la legge naturale, l’uomo, contra natura. “antica sapienza italica” razionalismo, la metafora della lume, illuminismo, Bruno, il patto sociale --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casini” – The Swimming-Pool Library. 

 

Grice e Casotti: l’implicatura conversazionale del volere – filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Casotti; of course, he reminds me of my master at Clifton! Casotti is into the teaching of philosophy: did Socrates teach Alcibiade or did Alcibiade learn from Socrate? On top, Casotti tried to systematise WHAT you have to teach: his first volume is telling: ‘l’essere’, which of course reminds me of my explorations on the multiplicity of being in Aristtotle – a human being in an ‘essere,’ but my tutee A. G. N. Flew    would scorn philosophers who use a verb with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word meaning ‘same’ – “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello. Studia s Pisa sotto Amendola e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La concezione idealistica della storia” in cui esprimeva la propria entusiasta adesione alla dottrina gentiliana dell'attualismo.  Dopo aver aderito all'appello Per un Fascio di Educazione Nazionale in vista di un rinnovamento della scuola italiana, indirizza il proprio percorso professionale in direzione della pedagogia, orientata alle teorie idealiste di Gentile, da lui riprese e rielaborate anche nelle prime esperienze a Pisa e Torino. Collabora nella redazione delle riviste Levana e La nuova scuola Italiana.  Motivazioni personali, unite all'esigenza di approccio più realista all'educazione, lo portano il ad allontanarsi in maniera piuttosto repentina dalle posizioni idealistiche precedenti e ad aderire all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando una filosofia ispirata a Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis philosophia” dell'aristotelismo aquinista.  Egli avversa da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando l'importanza della «lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di insegnamento rivolta all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro reinterpreta il rapporto tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate. Contesta la pretesa dell'attualismo gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee) in unità, concependolo piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di crescita, incentrato su una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come un'arte, che consente il passaggio dalla potenza all'atto.  Fonda la rivista Supplemento pedagogico a Scuola italiana moderna, rinominata in Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi una sintesi della sua filosofia, che vede la filosofia contraddistinta, «come arte» e “come disciplina” -- sia da un aspetto etico, finalizzato a un ideale, sia da uno speculativo basato sulla sperimentazione del metodo più oppurtuno da seguire e adattare alle difficoltà del contesto.  Altre opere: “La concezione idealistica della storia” (Firenze, Vallecchi); Introduzione alla pedagogia, Firenze, Vallecchi, La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione, Firenze, Vallecchi, Lettere sulla religione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini, Milano, Vita e Pensiero); Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee pedagogiche e morali di Rousseau, Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro. Saggio di filosofia dell'educazione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino. Saggi di pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia, La Scuola, Scuola attiva, Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue basi filosofiche, Milano, Vita e Pensiero,  Didattica, Brescia, La Scuola, Pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, La pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà, Brescia, La Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte e l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia, La Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani.  Appello per un "Fascio di educazione Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica,  Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea: il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico», Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica»,  Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni»,  Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica»,  Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni»,  Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. 40 L’Appello per un Fascio di Educazione Nazionale, in « L ' Educazione Nazionale », L ' Idea Nazionale », 18, 20, 21 e 22 aprile 1920 ) vedere M. Casotti, Dopo il Congresso Nazionale, in « La Nostra Scuola », 1920, nn.   1 - È costituito un Fascio di educazione nazionale fra gli insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori dei problemi concernenti la... Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi Mario Casotti, il quale riconosceva l'opportunità di abbandonare...  Casotti Mario, La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione moderna, Vallecchi, Firenze, 1923. Mazzoni Elda, L ' idealismo... GENTILE Il Fascismo al governo della Scuola, Sandron, Palermo, Casotti makes a dramatic break with actualism early in his career. A tutee of Gentile, he nevertheless underwent a conversion in the 1920's and was called to teach pedagogy at Milan in 1924. There he worked with Neo-Thomist scholars and produced works on education with a distinct orientation. He is particularly remembered as the founder and director of the review Pedagogia e vita, a journal that took on new importance in the postwar years. A spiritualist who came out of the idealist tradition, he is considered a pioneer in neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin; he underwent a conversion, and was called to the chair of pedagogy a Milan. He produced critiques of idealism from a neoscholastic point of view. Eventually, he began a systematic study of divided into three parts: teleology (the aim or end); anthropology (study of the philosophical tutee); and methodology. In his "anthropological" writings, he defends personalism against idealism and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that later became more widespread among Italian philosophers.  AQUINOSaggi di filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di S. Aquino, L'educazione naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi  più noti o non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano  lavorare dopo di noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine «autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione», che conviene solo a Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore Angelico  AQUINO BRESCIA, Editrice “La Scuola”, La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: San Tommaso d'Aquino.  Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo.  Inutile stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano  lavorare dopo di noi.  Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno.  Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école active!  Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera di S. Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine «autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione», che conviene solo a Dio. Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital bergsoniano.  La pedagogia di San Tommaso d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore Angelico. Da  quelle teorie, anche così come le abbiamo prese e tentato di rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri avversari vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un passato morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo pieno di speranze e di promesse.  A coloro che nel riprendere il pensiero di S. Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà e l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e « filosofie » nelle scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la pedagogia cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno nuovo illumina delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna educazione: basta menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche come teorico e pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose opere della pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le faccia conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri mettono nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o rinnovate. Anche questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed intelligenti dei figli di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore (Piacenza) Convento di S. Francesco, 4 Gennaio 1931, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. - I saggi che si raccolgono in questo volume furono tutti pubblicati, a vario intervallo di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna. Eccezion fatta pei seguenti: L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima della pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia cattolica (Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino  Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a tutto l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato, anche nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo ingegno che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina al quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi a testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge colla fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di sorta. Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in quanto dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in ordine a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma c'è anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso problema, colle medesime esigenze.  Il problema, infatti, che San Tommaso affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la chiarezza  desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici e didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità, della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna, quel posto di prim'ordine che debbono avere.  Questo breve preambolo occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo «De magistro», è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con tutto quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno studioso.  Non si tratta neppure della domanda: «che cosa è l'educazione?» domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: «come è possibile l'educazione?». Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che cosa valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo rendono intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna cominciare dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi tanto malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è offerto dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte quelle particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi, nella pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre l'educazione stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente essenziale e caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è possibile, davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente l'educazione medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto fra un soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che possiede determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve queste stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro, cioè, e lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non significa altro che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti pensanti, in virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate cognizioni ed attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la ricerca del De Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua rigorosa impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più moderne e scaltrite filosofie dell'educazione. * * *  Posto così, il problema dell' educazione ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche pensatore l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il formulare precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno sforzo non indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni ed attitudini sembra implicare, se non addirittura una contraddizione, certo una difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine «trasmettere» o «comunicare» o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione del maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò che si trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la scienza e la virtù. E questi valori tanto poco si lasciano «trasmettere», nel significato materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto interno del pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto impossibile trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è impossibile che un soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade. E allora, al pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia spontanea una ipotesi che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato problema, troncando alla radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la difficoltà prima nasce dall'aver concepito educatore ed educando come due soggetti distinti, perché non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa, e concepire l'educazione come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di ricevere il sapere dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo meno quanto la correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la maieutica socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su salde basi, Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza (mentovata, appunto, nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava interrogato da Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a dimostrare, indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello stimolare o nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando, cavi fuori la scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al discepolo una scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più tardi in tutta la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la dottrina dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione: dottrina, cioè, che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la concezione filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che immagina il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo via via scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al soggettivismo estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la sua scienza nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall' insegnamento e dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir meglio, alla chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua essenza, e della quale non può mai spogliarsi. II  Ora, di dottrine che potevano concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne aveva presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto diverse, anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una profonda verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma inconsistenti sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella interpretazione di Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita attraverso il commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in un sistema panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava anticipare in pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto soffrire il pensiero moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere subito il diverso atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e verso l'altra delle due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a ravvicinarle nel corso di quella discussione dalla quale dovevano limpidamente scaturire i concetti fondamentali della pedagogia tomistica.  Il De Magistro di Agostino è a sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto conto, si capisce, d'ogni differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un modello nel suo genere. Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa, come non si arresterà poi l'indagine di Tommaso, ai particolari problemi della pedagogia e della didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui s'appoggia la filosofia dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S. Agostino, né più né meno di S. Tommaso, incomincia da questa domanda. “Come è possibile, cioè che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni?” L'indagine del De Magistro agostiniano prende in esame il mezzo principale e più appariscente, che sembra appunto garantire tale comunicazione tra il maestro e lo scolaro, non meno che tra gli uomini in genere: il linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la parola, parlata o scritta, con tutto il corteggio di altre espressioni grafiche, foniche, mimiche ond'è accompagnata, debba essere per eccellenza il veicolo attraverso il quale, se così può dirsi, la scienza passa dal docente al discente; talché chi mette la mano su questo problema ha, di necessità, la strada aperta ad una esauriente critica delle forme nelle quali si costituisce e si svolge normalmente l'espressione didattica.  Sennonché la vigorosa e geniale ricerca sul linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla quale non si può rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche sottigliezza eccessiva (spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera che, piuttosto che una esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una magnifica realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo col dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione della scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta, tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere più concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa, per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo «intuitivo» od «oggettivo», ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento molto forte, del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non ci dice, per sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi accidentali della cosa stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia il camminare, gli spettatori potranno forse prendere per essenza della mia deambulazione l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere che il camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare l'equivoco  devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché, effettivamente, anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non sono identici alla cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete la indico col dito tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un segno della parete: né più né meno della parola trisillaba «parete» [Cfr. S. agostino: De Magistro Cap. III, 5 e 6].  Segni sensibili: ecco la natura del linguaggio, parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno appunto questo inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo già oppure non conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo, allora i segni ci servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se non le conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La parola latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente, proprio perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di copricapi. Bisogna, dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non col mezzo di altre parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i copricapi, per aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola «capo» la prima volta che la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in relazione con quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri, per intendere il suo significato [Op. cit. Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i segni che fanno intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere i segni; e il linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben lungi dal procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può significargli qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il che vuol dire ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva: la possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal maestro allo scolaro.  Ed ecco la conclusione. Le parole non possono essere veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni sensibili, invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto interno della mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che le vengono date «Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose che sentiamo attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo... per le cose intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore». E che cos'è questa verità? «...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu detto abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza di Dio; chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si apre, quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o buona volontà» [Op. cit. cap. XI, 38 e XII, 39]. Che significa, appunto, concludere a una vera e propria autoeducazione nella quale non il maestro, ma solo Dio infonde direttamente il sapere allo spirito umano, ch'è precisamente, come abbiamo notato altra volta, una delle possibili giustificazioni, in sede filosofica, dell'autodidattica, e si trova, un pò come tutta la filosofia agostiniana, sulla stessa linea del platonismo e, in questo caso, della sua celebre teoria della reminiscenza.  Dio, dunque, è l'unico maestro dell'uomo: l'unico maestro al quale non faccia ostacolo quella tale difficoltà della comunicazione fra soggetto docente e soggetto discente. Affermazione giustissima certo, sotto l'aspetto positivo, in quanto non solo si deve riconoscere che Dio può insegnare imprimendo senz'altro nella mente il lume intellettuale e la verità, ma appare evidente che il magistero divino debba essere la causa prima e il fine ultimo di ogni magistero umano. Ma affermazione insufficiente sotto l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a negare addirittura la possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il problema, dal quale ha preso le mosse, dei rapporti fra maestro e  scolaro. Nonostante gli spunti geniali della sua ricerca, Agostino non riesce che a far sentire più acute e tormentose le difficoltà del problema stesso, cioè, in ultima analisi, a farci desiderare con maggiore intensità una soluzione veramente razionale, che è infatti il grandissimo merito del De Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà precisare, dovrà, talora, rettificare dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma la sua pedagogia non potrebbe poggiare così in alto, se l'opera di Agostino non le offrisse già una base sicura: l'impostazione rigorosamente critica del problema, che il De Magistro tomistico riprenderà tale e quale. III  L'altra corrente filosofica alla quale guardava San Tommaso nell'impostare il problema del suo De Magistro è, certo, ben lungi dall'avere la chiarezza o, meglio la molteplicità di documenti e di manifestazioni che oggi permettono a noi di accostarci con tanto profitto al pensiero agostiniano. Poiché, ancora, il Renan nella sua opera su Averroé e l'averroismo era costretto a considerare l'averroismo piuttosto come una tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso le confutazioni che ne avevano fatto gli avversari, che come un insieme di teorie positivamente sostenute negli scritti di determinati autori. Studi più recenti hanno cambiato questo stato di cose: dopo il notissimo saggio del Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi conosciamo non soltanto i nomi di alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi di notevole interesse, i quali ci permettono, in ogni caso, di asserire che l'averroismo latino fu, almeno dopo il 1230, qualcosa di ben più reale e concreto che una semplice tendenza. Il che, del resto, appare chiaramente, per non dir altro, dalla differenza che passa già, in questo ordine di idee, fra il trattato di Alberto Magno De unitate intellectus, e l'omonimo trattato di S. Tommaso d'Aquino, scritto quindici anni dopo: dove l'uno è costretto in certo modo a escogitare lui le tesi averroiste fondandosi sugli scritti dei peripatetici, l'altro mostra di polemizzare contro una dottrina avversaria ben costituita ed effettivamente insegnata. In ogni modo, però, la conoscenza che abbiamo oggi dell'averroismo è ancora ben lungi dall'essere soddisfacente, sia pur solo in ordine ai numerosi problemi che fa sorgere in noi l’interpretazione di San Tommaso, ed è certo da augurare e da sperare che nuovi testi averroistici possano essere dati alla luce in un prossimo avvenire. Cosa che permetterebbe di studiare con maggior esattezza la stessa filosofia dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella questione disputata De Veritate (della quale fa parte il De Magistro) e nella questione 117 della Summa Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell' altra San Tommaso attacca l'averroismo intorno al problema dei rapporti fra maestro e scolaro, e della possibilità che un uomo riceva scienza da un altro uomo. Ora, l'averroismo aveva effettivamente prodotto qualche opera nella quale quel problema fosse, di proposito, esaminato, oppure, come adesso sembra più probabile, si trattava di conseguenze implicite in tutta la dottrina averroistica? Evidentemente, solo i progressi futuri della storiografia filosofica intorno all'averroismo potranno permettere una risposta definitiva a questa domanda.  Comunque, se circa questo problema della possibilità dell’educazione, i precedenti storici del pensiero tomistico in ordine all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun dubbio vi può essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo, cioè, non solo che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda all'averroismo come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole, benché con intenti nei due  casi molto diversi, trattarlo insieme alla dottrina agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma incompleta, dove la tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto da quella incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a questa falsità, non solo per la ragione generica del pericolo che presentano sempre le teorie incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive che possiamo benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del De Magistro, e che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i principi fondamentali dell'averroismo.  L'averroismo, infatti, qualunque possa essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e dell'io trascendentale. «Quod intellectus omnium hominum est unus et idem numero» [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1° pag. 111 n.. - Si cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate dallo stesso Arcivescovo nel 1277: «Quod scientia magistri et discipuli est una numero...» Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro, all'Art. 1° (ad sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270 dall'Arcivescovo di Parigi contro l'averroismo definiva la prima proposizione riprovata. Noi non possiamo, ora, addentrarci nelle sottili questioni di interpretazione aristotelica che questa dottrina coinvolge: basti notare, adesso, la soluzione del problema della conoscenza ch'essa richiede. In sostanza, come pure è chiarito sia dalla polemica di San Tommaso sia da un'altra delle proposizioni condannate, qualunque fosse la maniera colla quale interpretava Aristotele, l'averroismo intendeva fondarsi su ragioni speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto del pensiero sembra non potersi attribuire in proprio a questo o a quel soggetto pensante particolare, ma doversi attribuire invece a un intelletto unico che si rifrange, sì variamente attraverso le singole anime e i singoli corpi da esse informati, ma che, ciò nonostante, resta unico, come la luce che illumina in diverso modo i vari oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le differenze fra i singoli soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale sembravano, cioè, agli averroisti differenze che cadessero, se così ci si può esprimere, su un piano diverso da quello nel quale si svolge la funzione del pensiero vera e propria: differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto che il pensiero [O, al massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima sensitiva. V. quanto diciamo a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in quanto forma dell'uomo, qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno del corpo.  Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale l'averroismo ben merita di essere chiamato, pur colle debite differenze d'ambienti e di problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte, ben si potrebbe chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più evoluto e raffinato del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono trarre da questa tesi dell'intelletto unico in ordine al problema dell'educazione? È chiaro: se l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è uno solo anche nel maestro e nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due soggetti, ma un soggetto solo, almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma allora ecco risolta quella tal difficoltà  della «comunicazione» fra maestro e scolaro che tanto aveva tormentato Agostino. Il maestro non ha più bisogno di comunicare dall'esterno collo scolaro, per la semplice ragione che l'uno e l'altro già comunicano nella maniera più intima possibile, attraverso lo stesso intelletto, che è unico in ambedue. E perciò l'opera esteriore del maestro si riduce, non già al trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo scolaro perché disponga la fantasia e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa theol. I, 117 art. I (nel corpo)] in modo da attuare convenientemente quella scienza che già possiede - allo stesso titolo del maestro - nell'intelletto unico.  Così la teoria averroistica accresce la sua autorità con tutto il peso degli argomenti fra i quali si era dibattuto il pensiero agostiniano, anzi, ci si presenta come la sola teoria capace di spiegare in maniera rigorosamente scientifica il problema dell'educazione. Né l’avere ammesso, come Agostino, Dio come solo maestro, costituisce un ostacolo: poiché quell'intelletto unico di Averroé e degli averroisti si trova già, filosoficamente, in una posizione equivoca, nella quale non è difficile riconoscergli attributi divini, quali la capacità di creare o, almeno, di infondere immediatamente le forme nella materia. E non basta: la teoria averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze circa l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli abbisogna. Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro, finiscono col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle difficoltà già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e fornirci, anzi, quel completamento e quella rielaborazione critica che la pedagogia agostiniana attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al principio di questo studio: il difficile problema di intendere come un soggetto pensante (il maestro) possa trasmettere il suo sapere a un altro soggetto pensante (lo scolaro) è risolto appunto col toglier di mezzo la dualità, riducendo l'educazione all'atto di un soggetto unico. Non resta che tracciare una linea ideale attraverso il tempo, la quale congiunga Aristotele e Averroé con Cartesio, Kant ed Hegel, fino all'idealismo contemporaneo, e avremo rintracciato, nel bel mezzo delle dispute medioevali, le origini almeno di una fra le più cospicue correnti della pedagogia moderna.  Ma la teoria dell'intelletto unico prendeva un significato ancor più deciso, quando la si considerava insieme a quell'altro gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si riscontrano non solo in Averroè e negli averroisti, anche in altri commentatori arabi di Aristotele, come Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche condannate nel 1270 affermano, aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio non conoscere nulla fuori di se stesso e tutto ciò che accade nel mondo, compresi gli atti della volontà umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina, ma alla necessità e all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i commentatori di Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa affermazione: che Dio non ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare di «creazione» da questo punto di vista - tutti gli esseri, ma solo l'intelligenza prima, o l'intelletto separato, il quale, a sua volta, ha dato la forma a tutti gli esseri, magari attraverso una gerarchia d'intelligenze, le superiori delle quali agiscono sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità, se si può dire, metafisica di Dio come causa prima, mentre sembra aumentata riesce, invece, stranamente diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto diretto colla materia e cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol perché si  sono dati alle cause seconde degli attributi che dovrebbero spettare solo alla causa prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà d'imprimere immediatamente le forme nella materia, il dominio sulle intelligenze. La stessa materia e il mondo materiale diventano qualche cosa che sta e si svolge per sé indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e indifferenza di Dio per quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre, anziché aumentare, l'importanza della causa prima, tanto da ammettere addirittura, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause prime. C'è insomma, e nei commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo, questa interessante posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta insieme a un non meno ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce in un vero e proprio naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il De Magistro di S. Tommaso. IV  Il quale S. Tommaso due volte, nelle due diverse trattazioni che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere la dottrina averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la teoria dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle teorie metafisico-cosmologiche.  Nella Summa Theologica, I, q. 117, art. 1, l'averroismo è, infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze circa i rapporti fra maestro e discepolo che riguardano la teoria della conoscenza. Averroè, dice S. Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti gli uomini e perciò ammise che il maestro non può causare allo scolaro una scienza diversa da quella che quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad ordinare i fantasmi nella sua immaginazione in modo che siano ben disposti a riflettere la luce dell'unico intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione della scienza. “ Et secundum hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat scientiam in altero aliam ab ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem scientiam quam ipse habet, per hoc quod movet eum ad ordinandum phantasmata in anima sua, ad hoc quod sint disposita convenienter ad intelligibilem apprehensionem”. Dove bisogna tener presente che, secondo l'averroismo, l'anima sensitiva, alla quale appartengono la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo, e, quindi, a differenza dell'anima intellettiva, è propria di ciascun singolo soggetto e molteplice secondo la molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del pensare si può attribuire all'uno o all'altro singolo soggetto, al maestro o allo scolaro, non in quanto puro atto del pensare (nel qual senso va attribuito solo all'intelletto unico) ma in quanto pensiero che si riflette e, per così dire, s'incorpora nei fantasmi, i quali appartengono in proprio all'uno o all'altro individuo o soggetto particolare. La differenza fra il maestro e lo scolaro non sta, dunque, nel fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno abbia la scienza e l'altro no, dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e due, per natura, lo stesso intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta, invece, nel fatto che il maestro ha già disposto i fantasmi della sua immaginazione in modo che essi rispecchino e realizzino le forme intellettuali dell'intelletto unico; mentre lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve tuttavia disporli. Il maestro, quindi, non «comunica» né trasmette scienza nel senso vero e proprio della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo scolaro a formare e ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente l'espressione, alla luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima, ma era come adombrata e annuvolata, di passare a  risplendere in tutta la sua chiarezza.  Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura impressionante a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il vantaggio di non formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui giungono, ma le quali, viceversa, ammettono un «Io» unico per tutti i soggetti particolari, e debbono poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare la differenza, almeno apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già faceva, a suo modo, la teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie moderne sono pronte a coprire col divenire e la dialettica ogni loro deficienza; più ingenuo e grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare il passo da questa formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e separato dalle singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste singole anime, e ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del pensare, l'atto, cioè, di un soggetto per definizione affatto diverso da loro? Abbiamo visto, è vero, che gli averroisti tentavano di vincere questa difficoltà amalgamando l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il termine medio dei fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta di una soluzione che non risolve nulla, poiché tale «continuatio vel unio» come la chiama S. Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa attribuire a questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione del vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per avere riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo, Tizio o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)].  Difficoltà, si noti bene, che non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i soggetti particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire, «immanente». Poiché la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità o di contiguità, ma di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si chiede appunto se sia possibile rendere «immanente» un intelletto unico nei singoli soggetti particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile. Non è ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa alla teoria dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie, ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che, nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel 1277] con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da una mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta soltanto che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro: identica per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi mentali distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e sovrapposizione della mente del maestro a quello dello scolaro, «...non si dice che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza - numericamente la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella che è nel maestro...» [De Mag. Art. I ad 6.tum «...docens non dicitur transfundere  scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria dell'intelletto unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema della educazione, colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti pensanti in un soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che se non si sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in rapporto fra loro. V  Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non è considerata per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in generale per ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa prima e le cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è Averroè, come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui che più insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato, considerandolo come l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio, e, in pari tempo, il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di idealismo monistico, dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il problema morale e il problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che le forme degli esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e da esso fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti individuali.  Accanto a questa dottrina S. Tommaso ne ricorda, per criticarla parimente, un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica, se non ci aiutasse il riscontro con la citata questione 117 della Summa. Altri credettero, è detto nel De Magistro, che tutti codesti elementi, forme, scienza, virtù, fossero, anziché in un primo agente, nelle cose stesse, e venissero poi soltanto in luce per opera dell'azione e degli agenti naturali: come se tutte le forme delle cose fossero già immanenti nella materia. «Quidam vero e contrario opinati sunt; scilicet quod omnia ista rebus essent indita, nec ab exteriori causam haberent, sed solummodo quod per exteriorem actionem manifestantur: posuerunt enim quidam, quod omnes formae naturales essent actu in materia latentes» [De Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della Summa è detta opinione dei Platonici "opinio Platonicorum" quella secondo la quale gli agenti naturali preparano soltanto a ricevere le forme che la materia acquista per partecipazione delle Idee. «Sic etiam ponebant, quod agentia naturalia solummodo disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit materia corporalis per participationem specierum separatarum» [S. Theol. I, q. 117, art, 1 (in corp.)]. E il richiamo alla concezione platonica è efficacemente riconfermato dal De Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di questa teoria si menziona appunto il concetto che all'anima individuale sia concreata la scienza e che, perciò, l'insegnare e l'imparare in altro non consista se non nel ricordarsi che fa l'anima della scienza già posseduta fin dall'inizio e poi obliata col suo ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè precisamente la dottrina platonica della anamnesi, che è appunto, come sappiamo, una delle più antiche giustificazioni della autodidattica.  La dottrina platonica, dunque (che è anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la dottrina agostiniana) e la dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto contrapposte, come potrebbe avvenire di una teoria materialistica e di una idealistica, ma anzi poste sulla stessa linea, come due forme diverse di un medesimo idealismo. E,  infatti, quanto all'insegnamento, che differenza ci può essere fra la teoria averroistica che concede al maestro solo di stimolare lo scolaro a disporre i suoi fantasmi in modo che lascino passare la luce dell'unico intelletto la quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e la teoria platonica che vede nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che il corpo e i sensi frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che già possiede, ma ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe aggiungere, fra queste antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno che nel maestro e nello scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi di un Soggetto solo, per cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa scienza e lo stesso pensiero del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza oscuro e involuto e che l'insegnamento avrà per unico compito di render più chiaro ed evoluto? In realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e autodidattica. Nel combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in senso averroistico, S. Tommaso ha effettivamente innanzi a sé già i motivi fondamentali di quella che sarà poi pur con altre forme e altra mentalità, la pedagogia idealistica moderna.  E all'autodidattica e all'idealismo che ne è il fondamento, S. Tommaso si sforza con successo, in questi suoi scritti sul magistero, di togliere proprio quella pericolosa arma che derivava loro dal presentarsi come l'unica soluzione capace di rimuovere sul serio tutte le difficoltà inerenti al problema educativo: prima fra le altre, si capisce, quella riguardante la possibile «comunicazione» fra maestro e scolaro. Se lo scolaro non ha già in sé e nel suo interno la scienza, come potrà riceverla dall'esterno? Abbiamo visto che per S. Agostino un argomento fondamentale contro l'efficacia didattica dei «segni» ond'è intessuto il linguaggio era proprio questo: o lo scolaro già conosce le cose da essi significate, o non le conosce: se le conosce, essi non servono a insegnargliele, se non le conosce, non capirà nemmeno i segni.  A ciò S. Tommaso risponde negando senz'altro il dilemma, col richiamarci uno dei più importanti caratteri della conoscenza, che non è un oggetto o una cosa, la quale o c'è o non c'è, ma un processo che si svolge per gradi e si può considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro in sé la scienza, dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo senso, sì, giacché, per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé non solo l'attività conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni concetti primi, alcune «forme» o «categorie» come più modernamente si direbbero (l'essere, l'uno, la sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale offertoci dalla sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri concetti. E se ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi su questa teoria tomistica della conoscenza, che non è affatto un «innatismo» simile a quello, poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio «apriorismo» capace di richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e con una consapevolezza critica assai minore del tomismo doveva costruire più tardi la filosofia moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui, quello che aveva costruito, almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con Kant, l'«a priori» nella conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione fra  «a priori» ed «a posteriori»]. Questa teoria, secondo San Tommaso, che riconosce un «a priori» nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due teorie estreme sopra ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso completo della scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione che per partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si vuole, nell'animo nostro, ma solo «in potenza» ed implicitamente. L'attività dell'intelletto nostro ha in sé alcuni germi di scienza «quaedam  scientiarum semina», cioè alcune, virtualità, o disposizioni a formare immediatamente, appena stimolata dall'esperienza sensibile, i principi primi, o le «categorie». Che contengono già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni scienza possibile, passata, presente o futura, appunto perché sono i concetti primi e più universali dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro concetto e senza i quali nessun altro concetto si forma, né si potrebbe formare. Così come, per servirsi di un paragone grossolano, nelle sette note musicali sono contenute, in potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia escogitato o sia mai per escogitare.  Ma (proprio come, benché nelle sette note musicali sia contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente, esplicitamente non c'è nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto vuole i tasti del pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta tutta la scienza, e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in atto ed esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata o, meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi, poniamo il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro sa o non sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il maestro gli insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in potenza ed implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in quanto possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa cavarne fuori che, al massimo, una scala.  Giacché proprio questo è, secondo San Tommaso uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza umana: essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una «attività sintetica». A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non esplicando per mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente contenute [De Mag. Art. I (ad XII. mum) «...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per officium rationis ea quae in principiis implicite continentur explicando »].  L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi, mediante quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto semplice e immediato pei primi principi, e un processo mediato per tutte le altre cose. Ed è attività unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che conosce, nella scienza, come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai primi principi mediante il processo del ragionamento. Tanto che se «si propongono ad alcuno cose non incluse nei principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse, non si produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede». VI.  Sia concesso prima di procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria di S.  Tommaso riguardante i primi principi, benché più volte abbia dato origine a delle critiche, non è mai stata, né poteva esserlo, veramente contraddetta neppure dalle più audaci e radicali teorie moderne della conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato contro l'immediatezza dei primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un segno di umiliante passività dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai potuto far a meno, per conto loro, né dei primi principi, né della immediatezza relativa. Sì che tutto si è risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome dei primi principi serbandone, più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto dei principi si sono messe le «categorie» di Kant, l' «io» di Fichte o i momenti e gradi dello spirito degli idealisti moderni. Ma anche nella più estrema ipotesi, anche ridotte, cioè, tutte le categorie ad una sola, quella dell'«io», resta sempre vero che esse così si sono credute di poter ridurre, appunto, in quanto è sembrato che l' «io» solo fosse un principio immediatamente per sé noto, e tale che tutte le altre cose potessero esser note solo in quanto da lui si deducono e a lui si riconducono. Che è precisamente, con molte parole diverse e qualche asserzione assai discutibile per di più, la stessa posizione nella quale si trovano i «principi primi» della teoria tomisticoaristotelica, la quale sotto questo aspetto è dunque tanto «moderna» e critica come qualsiasi altra. Nessun filosofo degno di tal nome potrà mai negare il duplice carattere, mediato quanto alle conclusioni e immediato quanto ai principi, della conoscenza intellettuale.  Appunto per questo l'attività intellettuale ha bisogno di un «motore» (indiget... motore) che la faccia passare dalla potenza all'atto. E ne ha bisogno proprio perché il processo della scienza pel quale dai principi si ricavano le conclusioni, non è un processo che si svolga per una necessità meccanica e fatale, cosicché posti da Dio nella mente umana i primi principi debba conseguirne senz'altro la scienza, così come un grave lasciato a se stesso deve fatalmente cadere. L'intelletto umano d'altra parte non è come l'intelletto angelico che scorge immediatamente nei principi le conclusioni e che con un solo e semplice atto coglie la verità: esso, invece, scorge immediatamente la verità dei primi principi, e quella di tutte le altre cognizioni solo in quanto le può ridurre, mediante il ragionamento, ai primi principi stessi. Ora, proprio in questo processo di riduzione ai principi e deduzione da esso, il discepolo ha bisogno d'aiuto; sia perché può sbagliare, sia perché può non avere la forza e la maturità mentale sufficiente per effettuare certe deduzioni e conclusioni. Inconvenienti ai quali rimedia il maestro in quanto gli mostra l'ordine dei principi e delle conclusioni: « inquantum proponit discipulo ordinem principiorum ad conclusione? qui forte per seipsum non haberet tantam virtutem collativam » [S. Theol. loc. cit].  Ma il soggetto pensante non ha in sé come sola fonte di conoscenze, il lume intellettuale e i primi principi, ha anche un'altra maestra: l'esperienza, o, meglio, la conoscenza sensibile. Già i primi principi, i concetti primi e per sé evidenti, abbiamo visto che sono nel nostro animo, forme a priori, disposizioni o virtualità che passano all'atto solo al primo stimolo della esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano essi non producono nuove conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai dati che l'esperienza sensibile ci offre. Coi concetti di «uno», di «essere», ecc. (primi principi) io non posso formare i concetti di «animale», di «vegetale», di «uomo» ecc. se l'esperienza sensibile non mi dà la percezione dei singoli uomini, vegetali, animali ecc. dai quali astraendo certe caratteristiche essenziali comuni io formo appunto il concetto di «animale», «vegetale», «uomo » ecc. Processo che S. Tommaso descrive così: «Cum  autem aliquis hujusmodi universalia principia, applicat ad aliqua particularia, quorum memoriam et experimentum per sensum accipit, per inventionem propriam acquirit scientiam eorum quae nesciebat...» Non basta, cioè, che ci siano i primi principi, occorre che ci siano anche le cognizioni particolari da ridurre ad essi; se no il processo che abbiamo descritto prima, col quale la mente umana conosce la verità, non potrebbe aver luogo. Ora, la conoscenza di queste particolari nozioni manca, o meglio, è scarsa ed imperfetta nello scolaro, che ha esplorato la propria esperienza sensibile molto meno e molto peggio del maestro. Ed ecco un altro modo col quale il maestro aiuta il discepolo: presentandogli, appunto, delle nozioni o proposizioni particolari, la verità delle quali egli possa saggiare da sé al lume dei primi principi, ovvero proponendo alla sua osservazione oggetti ed esempi sensibili da cui possa ricavare direttamente le cognizioni stesse [«...cum proponit ei aliquas propositiones minus universales, quas tamen ex praecognitis discipulus dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua sensibilia exempla, vel similia vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus intellectus addiscentis manuducitur in cognitionem veritatis ignotae». S. Theol. loc. cit. (in corp.)]. Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del maestro: procurare allo scolaro «aliqua auxilia vel instrumenta» aiuti e strumenti di lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro uso è proprio simile, sotto quest'aspetto, agli strumenti materiali, che facilitano il lavoro pur senza diminuire, anzi accrescendo la attività e la solerzia di chi li adopera.  Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria agostiniana, secondo la quale è Dio che, dall'interno, mostra la verità all'anima umana? Questo: che da Dio appunto viene all'anima nostra la facoltà di conoscere, il lume intellettuale, i primi principi, la sensibilità. Ma poi lo sviluppo di questa facoltà e il suo passaggio dalla potenza all'atto avvengono non già per intervento diretto della Causa Prima, sibbene per intervento di una causa seconda, qual è precisamente il maestro umano. Il che non diminuisce affatto la potenza o la dignità della Causa Prima, la quale ha creato appunto le cause seconde, fra le quali i maestri, non perché ottenessero nell'universo solo un effetto decorativo, ma perché davvero «causassero», cioè producessero qualche cosa «...prima causa ex eminentia bonitatis sua? rebus aliis confert non solum quod sint, sed etiam quod causae sint» [De Mag Art. I (in corp.)]. Dio ha conferito alle cause seconde, non solo l'essere, ma anche il causare, l'esser cause. Onde significherebbe non accrescere, ma diminuire la bontà e la potenza di Dio, supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci di causare, quasi sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è appunto l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie, averroistica e platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione dell'Intelletto unico, o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col non vedere più, negli agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa d'illusorio e irreale. Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che ammettono la esistenza del maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e capacità effettiva d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita proprio al cuore: nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la giustificazione. Ma, e quel tale, difficile problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? E quella tale impossibilità che la scienza si trasmettesse, mediante i puri segni sensibili del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto?  Per rispondere a queste domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che saranno, in ogni tempo, i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti all'autodidattica.  E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal maestro allo scolaro è proprio vero che si debba considerare come il passaggio di un oggetto materiale da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa parlare, in genere, di «passaggio» della scienza dal maestro allo scolaro? Un oggetto materiale passa da una mano all'altra sempre restando lo stesso oggetto, uno e identico. La scienza passa anche lei di mente in mente restando sempre una? Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa scienza del maestro, ma se ne forma una simile, la quale benché coincida, e contenga, cioè, le stesse cognizioni, non è numericamente una con quella del maestro. Così, per prendere un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra loro come ciliege, ma sono tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre anche se fossero uguali persino nelle più insignificanti particolarità, come due macchine di una identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto unico di Averroé non ha punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza passi, quasi oggetto materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri come lo scolaro possa formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo animo - una propria scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla scienza del maestro.  In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche oggi) che siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo sostanzialmente identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno dall'altro, almeno nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti, nel maestro? Il processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo della conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza, anzi l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una scienza senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e basta. Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale apprendiamo scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del modo col quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol dire uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né uno di numero. VII  Per esempio, nella medicina, il medico guarisce l'ammalato non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo, il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto è vero che qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di medicine. Allo stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo intellettuale: l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico per guarir l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e fisiologiche, il maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi intellettuali. Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé, tanto è vero che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa questo? Soltanto che «...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo operatur ars, et per eadem media, quibus et natura» [De Mag. Art. I (in corp.)] il che, come è ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o sia identica alla natura.  «Come la natura chi soffrisse per il freddo riscaldandolo lo sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che l'arte imita la natura. Similmente avviene pure  nell'acquisizione della scienza, che, ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose ignote nello stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto» [Ibid. Si cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze].  Dunque, la somiglianza fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell' insegnamento come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte non esista, o si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal problema della «comunicazione»? Com'è possibile che il maestro, imitando la natura, possa, sia pur non «trasmettere» nel senso materiale della parola, ma anche solo provocare o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla sua?  Ecco, come S. Agostino, ancheS. Tommaso non mette in dubbio che lo strumento principale della comunicazione fra maestro e discepolo sia il linguaggio e siano i «segni» ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla difficoltà che S. Agostino aveva creduto insuperabile, di conciliare la materialità e il carattere sensibile dei segni linguistici colla idealità e l'interiorità della scienza. Poiché il «segno» del linguaggio ha, per S. Tommaso, una fisionomia tutta speciale: è «sensibile», sì, ma d'una, se vogliamo così chiamarla, «sensibilità» affatto diversa da quella che possiamo attribuire alle qualità degli oggetti materiali ed alle vere e proprie sensazioni: sensibile della sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e al suo prodotto, il «fantasma» o l'immagine, che è una sensibilità di un grado più elevato ed immateriale di quello che compete alle sensazioni pure e semplici. Poiché il fantasma linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza delle sensazioni o percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone già l'esistenza dei concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta, perciò, con essi, in una relazione molto più immediata che non sia quella della sensazione coi medesimi concetti.  Facciamo un esempio. Si prende la legge fisica: «il calore dilata i corpi». Che è quella legge? Niente altro che una «forma». Nella natura é la «forma» di quel processo che è, appunto, la dilatazione. Ora una forma, nella natura, può esistere solo come esistono in generale le forme in una materia, come conformazione, cioè, di determinati oggetti o di un determinato accadere. Nella natura la legge della dilatazione dei corpi è, appunto, il dilatarsi dei singoli corpi a, b, c ecc. e la conoscenza che ne abbiamo è appunto la sensazione o percezione dei corpi a, b, c, mentre si dilatano. Potrei, dunque, arrivare a formular la legge della dilatazione partendo dalle sensazioni e percezioni pure e semplici dei corpi? Certo che potrei e posso, in quanto, osservando prima il corpo a, poi il corpo b, poi il corpo c ecc. posso arrivare e arrivo ad estrarre, da queste percezioni particolari, un concetto e una legge universale riguardante la dilatazione. E come posso arrivarci io, posso condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a sua volta i corpi a, b, c, e poi ne tragga, se gli riesce, la legge della dilatazione.  Si noti, però, la difficoltà e la lentezza di questo processo. Quanti uomini hanno osservato sensibilmente il dilatarsi dei singoli corpi, eppure non sono riusciti a formulare la legge della dilatazione! Quanti videro i corpi cadere, e non ne seppero trarre la legge della gravitazione universale! E si capisce: quella «forma» che è la legge della dilatazione esiste nei corpi, ma non come forma pura e come concetto, bensì come forma d'una materia. Come forma pura e come concetto non la troviamo bell'e fatta, ma bisogna che la costruiamo noi, con tutte le difficoltà e incertezze che ne seguono.  Ma si prenda, invece, la stessa legge della dilatazione qual è formulata in un trattato di fisica, o dalla voce del maestro, con queste precise parole: «il calore dilata i corpi». Anche qui essa viene espressa con segni sensibili, all'udito o alla vista, le parole. Segni  tanto sensibili quanto lo è appunto la percezione dei corpi a, b, c. Ma con questa differenza. Che per poter dire o scrivere le parole «il calore dilata i corpi» si è già dovuto formare il concetto della dilatazione colla legge relativa. La legge della dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non più come forma di quell'accadere materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi, ma come forma pura nella mente del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle parole non ha bisogno di tutto un complicato e difficile lavoro per cavarne fuori la pura forma della legge scientifica, ma assume direttamente da esse la legge in quanto pura forma o concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile vedere mille corpi a dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma non è possibile udire dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole «il calore dilata i corpi» (udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far finta) e non ricavarne la legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il processo della visione e della sensazione si compie regolarmente senza essere turbato in alcun modo, e cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima attenzione i singoli corpi, non è detto che per questo io arrivi ad astrarre la legge della gravitazione o della dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto regolarmente le parole colle quali il fisico si spiega, io dovrò necessariamente intendere la legge della gravitazione o della dilatazione, a meno che qualche ragione, diciamo così, patologica non impedisca alla mia lettura o audizione di svolgersi regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma, svolto normalmente il processo, ne ho come necessaria conseguenza l'apprendimento; nell'altro caso, no.  È questa, forse, una delle più originali caratteristiche della pedagogia delineata da S. Tommaso. Per la quale, a differenza di ciò che succede in moltissimi altri sistemi pedagogici, la parola del maestro non è né eguale né, tanto meno, inferiore in valore agli oggetti esterni e, in genere, all'esperienza sensibile dello scolaro, come accadrà poi, tanto spesso, nei vari metodi «intuitivi» od «oggettivi» escogitati dalla pedagogia moderna, da Comenius in poi. Questo non vuol dire certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza - abbiamo visto invece che la valuta moltissimo - né che non le attribuisca tutta l'importanza che deve avere. Ma fra gli oggetti sensibili che possono variamente essere offerti allo scolaro e la parola del maestro c'è, per S. Tommaso, una differenza essenziale che c'impedisce di considerare quest'ultima puramente come uno fra gli altri oggetti di possibile esperienza per lo scolaro. Giacché è vero che in un certo senso "le stesse parole dell'insegnante, udite o viste in iscritto, quanto al causare scienza nell'intelletto si portano come le cose che sono fuori dell'anima: perché e dalle une e dalle altre l'intelletto riceve le intenzioni intelligibili". Ma poi la somiglianza cessa qui, poiché le parole dell'insegnante causano scienza "più da vicino" che non i sensibili che esistono fuori dell'anima, in quanto le parole sono segni delle intenzioni intelligibili [De Mag. Art. I (ad XI.nium) "ipsa verba doctoris audita, vel visa in scripta, hoc modo se habent ad causandum scientiam in intellectu sicut res quae sunt extra animam, quia ex utrisque intellectus intentiones intelligibiles accipit; quamvis verba doctoris propinquius se habeant ad causandum scientiam quam sensibilia extra animam existentia, inquantum sunt signa intelligibilium intentionum "]. E sappiamo già che cosa vuol dire quel "più da vicino", (propinquius) che non è punto indice di vicinanza o lontananza materiale, ma solo del fatto che abbiamo visto, dell'essere cioè presenti nel linguaggio le forme pure già astratte dalla materia ed esistenti nella mente: le "specie" o "intenzioni" intelligibili; le quali invece non sono presenti negli oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro le può assumere senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe assumere dalle  cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non mediatamente, attraverso un complesso e delicato procedimento astrattivo il cui risultato finale resta, in ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle particolari forme e verità che l'insegnante vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo, è ancora la giusta osservazione di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e sviluppa da par suo: nelle cose che facciamo percepire solo sensibilmente allo scolaro, questi non sa, né può sapere, dalla sola percezione, quali siano gli elementi essenziali e quali gli elementi accidentali della cosa, quali gli elementi su cui abbiamo voluto fermare la sua attenzione e quali quelli che può anche trascurare. E da questa incertezza, causa feconda di errori, non si esce se non aggiungendo, alla percezione della cosa, l'insegnamento verbale del maestro, che solo può metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e farci subito distinguere l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al nostro pensiero, da altri oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del maestro, lungi dal sopprimere l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che la spiega, l'ordina, l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e valore.  È risolto, così, quel tal problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? Certo, ed è risolto proprio col rispettare ambedue quei dati del problema che a prima vista parevano inconciliabili: il carattere sensibile del linguaggio, o, in genere, dei «segni» fonici, mimici o grafici di cui si serve il maestro per operare ab estrinseco sulla coscienza dello scolaro e, insieme, il carattere affatto intimo e interno che sempre ha la scienza nell'animo dello scolaro medesimo, poiché vera «causa» di scienza allo scolaro - San Tommaso non si stanca di ripeterlo - sono non già i «segni» del maestro, ma il lume intellettuale e i «primi principi» dello scolaro stesso, il quale scopre la verità (o la falsità) di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già ricevendo soltanto le forme intelligibili, ma riducendo i concetti così formati, sotto i primi principi, mercé quella attività collativa nella quale consiste il raziocinio, attività, senza nessun dubbio, originale e spontanea, che il maestro può stimolare e aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo sostituire. L'opera del maestro — altro errore che San Tommaso combatte continuamente negli argomenti acclusi al primo articolo del De Magistro — non è già un'opera creativa; come se il maestro dovesse dar lui al discepolo il lume intellettuale e i primi principi. Ma ciò non vuol dire che sia un'opera superflua e inesistente: crederlo, è l'illusione di coloro che scambiano l'attività colla creazione, l’operare col trarre dal nulla; e non potendo riconoscere in un uomo qual è il maestro un'attività creativa propria solo di Dio, finiscono col negargli ogni e qualsiasi attività od operazione.  L'arte dell'insegnamento non crea la natura intellettuale; la presuppone. Ma la natura stessa dell'intelletto umano è così fatta che senza l'insegnamento rimarrebbe una vuota potenza non realizzata, o, almeno, realizzata attraverso un processo assai lento e malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi si trova nel secondo articolo del De Magistro, che è una delle critiche più brillanti e spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. Articolo paradossale in apparenza, e che suona stranamente agli orecchi di noi moderni abituati ormai da una lunga tradizione a ritenere l'autodidattica non solo un fatto  evidentissimo e una realtà incontrastabile, ma addirittura il centro e il principio vitale di ogni educazione. Può dirsi qualcuno maestro di se stesso? A noi sembra di sì: sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno, siano, in certo modo almeno, maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde senz'altro di no; e val la pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci, intendiamo bene il principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua dimostrazione; ch'è poi, in ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha fondato la dimostrazione precedente.  E, anzitutto, si faccia bene attenzione alla differenza che c'è fra queste due espressioni, apparentemente simili: «acquistar scienza da sé ed «esser maestro di se stesso». Che cosa vuol dire «acquistar scienza da sé» secondo la dottrina tomistica? Niente altro se non quello che abbiamo già visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i primi principi. Applicando tale sua attività al materiale offertogli dalla esperienza sensibile egli giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad accogliere nella sua mente come pure forme intelligibili quelle stesse forme che, nella natura, esistono solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto, prima, un esempio a proposito della gravitazione e della dilatazione.  È questa, così ottenuta, scienza vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla cui estensione e complessità non ci è dato mettere un limite a priori. Supposta, da parte del soggetto umano, una continua e indefinita esplorazione della esperienza sensibile e una correlativa astrazione di forme, nulla si oppone a che ne risulti una scienza anch'essa in via d'indefinito accrescimento e a che chiunque si possa costruire, per questa via, un sapere teoricamente illimitato. Tale è l'acquisto della scienza che si ha per opera della natura, quando, cioè, la ragione naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose ignorate [De Mag. Art. I (in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce, per evitar confusioni, con un termine suo proprio: trovare, o scoprire: inventio.  Ma se questo processo é, innegabilmente, «acquisto di scienza», è poi anche «insegnamento», o magistero? Qui la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è un'operazione che si svolge mediante il linguaggio e che suppone, perciò, l’esistenza delle forme intelligibili come forme pure. Ora, un'esistenza tale noi sappiamo che quelle forme non possono averla nell'esperienza sensibile e nella natura, dove sono soltanto forme d'una materia: debbono averla nella mente. Ma nella mente di chi? Nella mente di colui che impara e ricerca, no di certo, altrimenti egli non imparerebbe e ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque nella mente di un altro, ossia del maestro. E allora l'insegnamento è un processo che lo stesso soggetto non può esercitare su sé medesimo per la contraddizione che ne consegue: perché dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua mente le forme intelligibili e i concetti, averle, dico, non in potenza e come possibilità di formarli, ma in atto, già formati e come principi positivamente esistenti e operanti. Per potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge della gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei corpi che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e non insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura legge; il che è assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non avrei bisogno di cercarla né di impararla.  Sembra un'oziosa questione di parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina) per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene due concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di estendere a una  vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il naturale acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto l'argomento sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per potersi parlare di vera e propria «azione» (azione «perfetta») é necessario che l'agente il quale fa da causa, contenga in sé in maniera essenziale e non accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)]. Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per colui che soffre di una malattia guaribile col calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché non contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso produce la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto) nell'incendio d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è necessario agli effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento ha da essere una vera e propria «azione» (azione perfetta) occorre che nell’agente sia già contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il che accade soltanto se il soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in sé in atto, esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà poi nel discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio è azione solo imperfetta, cioè non vera e completa azione, poiché in essa la causa, sia l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza sensibile, contiene sì ciò che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme intelligibili come forme pure) ma lo contiene solo implicitamente e potenzialmente, quanto al suo essere di scienza e di forma pura.  E questa non è - si badi bene - un'astratta escogitazione teorica senza nessuna rispondenza alla realtà. Al contrario, S. Tommaso c'invita ad osservare con lui che le cose stanno proprio in tal modo. Noi siamo, è vero, portati a lodare l'autodidatta e, perciò, attribuiamo all'autodidattica un valore superiore, in certo senso, a quello del semplice insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione che dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria a quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e giustamente, l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no non avremmo ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste precisamente nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua cultura, il processo normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina sopra un filo, e merita elogio: ma diremo per questo che il migliore, più sicuro e spedito modo di camminare sia quello d'andar su un filo? No certo, anzi, diremo tutti che l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver scelto, per camminare, uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E, dunque, anche dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi dall'essere il modo migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e il più malsicuro, e che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore difficoltà l'autodidatta merita lode «...sebbene il modo di acquistare scienza mediante la ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in quanto egli si segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la scienza, è più perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento» [De Mag. Art. II (ad 4.tum.) «quanivis modus in acquisitione scientiae per inventionem sit perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur habilior ad sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior per doctrinam»].  Né si creda che quel ridurre a scienza «più speditamente», sia solo una sfumatura:  anzi, c'è sotto una questione di principio, così importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso veramente la differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica e certe filosofie moderne, quali il materialismo positivistico o l'idealismo.  C'è la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda, dirà qualcuno, eppure a questa domanda una corrente, certo rispettabile, e notevolissima della filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza non c'è ma si fa, s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento. Come, poi, si fa o si crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere un atto, secondo la filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai completamente realizzato, ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si svolge all'infinito sempre facendosi altro da quello che era prima.  Ora, un atto di questo genere: un atto che non è tutto realizzato, o tutto realizzantesi, un atto che non è, insomma, tutto quel che può e deve essere, ma aspetta di svolgersi e di completarsi sia pure in un processo infinito, un atto di questo genere, la filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì potenza. Il pensiero nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza passata presente e futura, ma «in potenza» o come pura possibilità di conoscere, non già come atto, o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene, una pura potenza può esser causa reale di un atto? Una pura possibilità può dar origine a una realtà? Lo può, ma in quanto presuppone, a sua volta, un atto antecedente, così come il seme può dar origine alla pianta, ma è, a sua volta, derivato da un'altra pianta. Non è la pura «possibilità» di vivere che genera l’uomo, ma l’opera di un altro essere in cui la vita è già in atto: il padre, la madre. E dunque il supporre che la scienza, nello scolaro e nel maestro, derivi solo dal pensiero in quanto è una pura potenza o possibilità di conoscere, è così assurdo come supporre che il figlio nasca, non dal padre e dalla madre, ma dalla «possibilità» di vivere. Perché ci sia la scienza in potenza, ci deve essere già stata, la scienza in atto: perché ci sia il seme, già ci vuol la pianta completa.  Ecco la differenza fra la scolastica e l'idealismo o il materialismo moderni. Secondo questi sistemi, tutta la realtà procede, in fondo, da una pura potenza, da un germe, un X spirituale o materiale che non è nulla al principio, ma tutto si fa o diviene: l'essere, insomma, deriva dal non essere. Secondo la scolastica, la realtà procede da un Atto assolutamente puro, senza mistura di potenza, nel quale sussistono eminentemente e perfettamente realizzati e realizzantisi ab aeterno, tutti quei valori che, nella realtà stessa, la nostra mente poi rintraccia: Dio, principio primo e fine ultimo d'ogni cosa.  Ed ecco, quindi, la diversità fra la doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e l'autodidattica, fra lo «scoprire» e l'imparare. Si capisce che per coloro i quali seguono certe teorie filosofiche moderne, la doctrina presupponga l'inventio: se prima non abbiamo «scoperto» o tratto dal nulla la scienza, che cosa potremo mai insegnare? Ma in realtà, per San Tommaso e la scolastica, è vero il contrario: l’inventio presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè, scoprire una scienza solo in quanto essa c'è già, ed è già in atto, se no, che cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme stesse realizzate nella materia che ci dà la natura, non potrebbero ivi esistere, se prima non esistessero come pure forme nella mente di Dio, alla quale ogni scienza deve necessariamente risalire come a sua causa prima: sistema di idee, o rationes aeternae, come anche la scolastica le chiama, cioè archetipi e modelli di tutte le cose. Di qui il valore insostituibile della doctrina, cioè del vero e proprio insegnamento, poiché, nella mente del maestro, la scienza ha un'esistenza d'ordine superiore a quello che ha nella natura e nell'esperienza: una esistenza, se così ci si potesse esprimere, più lontana dalla materia e più vicina a quella  delle rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il genialissimo concetto tomistico dell'insegnamento, fondato proprio al polo opposto dell'autodidattismo moderno, non sull'imperfezione e sul divenire, ma sulla perfezione intrinseca della scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra irraggiare ed effondere, nel suo atto, dalla mente del maestro alla mente dello scolaro. Andare più oltre vorrebbe dire superare i limiti della presente trattazione, addentrandosi in una esposizione analitica del De Magistro, che, nella abituale densità e concisione del pensiero tomistico, presenta quasi ad ogni passo dovizie di dottrina, il cui adeguato svolgimento produrrebbe tutta una organica teoria della educazione da esporsi in un vero e proprio trattato, e non in un breve saggio [Chi desidera approfondire l'argomento può confrontare il nostro volume Maestro e Scolaro. - Soc. Ed. «Vita e Pensiero», Milano, 1930]. Basti qui ricordare, per concludere, che a questo punto il pensiero di S. Tommaso si ricongiunge a quello di S. Agostino, dando origine a una concezione della scienza e dell'insegnamento che si può considerare caratteristica dell'età in cui il sapere umano s'impose la più rigida e, insieme, la più feconda disciplina intellettuale: vogliamo dire il Medio Evo. La scienza come doctrina piuttosto che come inventio: non perché l'invenzione non possa e non debba avere la sua funzione legittima, ma perché la doctrina è un organo superiore, il mezzo più elevato e sicuro, del quale Dio stesso si è servito per ammaestrare il genere umano, al quale ha dato non solo la sensibilità, il lume intellettuale e i primi principi, abbandonandolo poi a tutte le incertezze d'una ricerca puramente naturale, ma una vera e propria scienza, rivelata dapprima ai Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai Padri, ai Dottori e a tutta la Ecclesia docens, il cui perenne magistero si estende attraverso i secoli. I geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in questa visione della scienza come procedente da Dio; ma mentre il primo preferisce insistere sull'azione diretta e immediata di Dio nell'anima e sulla operazione dello Spirito che agisce, soprannaturalmente, in ciascuno di noi, l'altro mette in luce, piuttosto, l'azione delle cause seconde e il magistero umano che Iddio medesimo ha voluto stabilire nella Chiesa, come organo della Rivelazione, oltreché nella scuola come strumento della cultura puramente naturale. Ma anche per S. Tommaso, come per S. Agostino, il problema dell'educazione e dell’insegnamento non si vede tutto, se non si considera, oltre che sotto l'aspetto naturale, sotto l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il De Magistro tomistico non s'intende, senza ricorrere a quella triplice analisi della scienza qual è nella mente divina, nell'intelligenza angelica e nell'intelligenza umana, che si trova nella Summa Theologica: analisi alla quale si debbono aggiungere gli articoli che trattano della necessità e possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre il grande metodo della Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la legittimità e l'esistenza della Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione per estendere, disciplinare, consolidare l'opera della ragione.  Taluno, certo, obietterà che questo metodo e questa concezione della scienza riducono a nulla l'attività e la libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a ricevere passivamente un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il Medio Evo, come l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità. Obiezione tanto impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e fondata sull'equivoco.  Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione, anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa, colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e, perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina rivelata. Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella sacra teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un pensiero che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento della cui vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben lungi dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto liberare le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia moderna cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto diversi come quello di attività o libertà e quello di «autodidattica», quasiché per essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così, affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto «medioevalisti», come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo scorso, con tanta efficacia denunciato.  Tra gli sforzi di questa pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa, oggi, l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro caso un antico «più vero» e, perciò, più «moderno» del moderno: l'effetto di una novità addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa come in tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato? Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze, 1927)  In due sensi può parlarsi di educazione naturale o soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato, soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti, normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e, viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi generale alla natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro possibilità sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù, potenzialmente insite nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza dei Sacramenti, mediante un'azione che non è l'ordinaria disciplina o l’ammaestramento che un uomo può esercitare, sugli altri o su se stesso, con l'opera o la parola bensì la misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi s'assimila attraverso le specie eucaristiche.  Prendiamo, invece, un maestro mentre spiega il catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo in tre persone distinte: avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale per la forma e soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché nulla v'ha di più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un libro e commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la nozione del Dio uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile alle sole forze della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una rivelazione divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito attraverso i secoli, e alla quale l'umile maestro attinge quando istruisce nella religione i suoi scolari.  Evidentemente, oltre questi due casi in cui nell'educazione l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e viceversa, v'hanno anche i due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il metodo sono entrambi naturali, o entrambi soprannaturali. Appartengono al primo tutti i più consueti esempi di educazione e d'istruzione che siamo soliti considerare nella scuola, nella famiglia e nel collegio, ove nozioni e attitudini naturali all'uomo, come le arti, le scienze, la morale, la filosofia vengono insegnate con quei metodi che la ragione e l'esperienza suggeriscono agli educatori. Appartengono al secondo caso, invece, tutti quei fatti, così numerosi nella storia del cristianesimo, ove una particolare rivelazione o mozione divina è veicolo, per dir così, di nozioni, atteggiamenti od affetti che l'uomo, secondo la pura possibilità della natura propria non avrebbe, nonché raggiunto, neppure sospettato.  Cito un solo, ma tipico esempio: la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I quali, appunto perché uomini, e quindi abituati a misurare tutto alla stregua della natura umana, avevano fino allora trovato di colore oscuro, benché Cristo medesimo le avesse loro inculcate, tante verità soprannaturali come la preannunziata morte e risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere umano attraverso le lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica legge e la nuova, i rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo, verità che, invece, dopo che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo, s'impressero così profondamente nel loro animo da permetter poi loro d'insegnarle, con quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora conosciuto.  Io non parlerò adesso - poiché non è mio compito - della educazione in quanto soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure soltanto nel contenuto. Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto puramente soprannaturale, e neppure in quanto veicolo di nozioni, o di attitudini soprannaturali. Mi limiterò, dunque, a parlare dell'educazione naturale. II  Sarebbe abbastanza interessante poter esaminare alla luce di queste nozioni oggi molto trascurate, quando non addirittura respinte e derise come assurde dagli studiosi, le più importanti concezioni pedagogiche, nelle quali il pensiero umano si è, attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non potendo arrischiarci in un lavoro di così vasta mole, ci limiteremo ad affermare semplicemente che tutte le più importanti teorie dell'educazione sono, in un certo senso, naturalistiche, perché tutte confidano, anche quando non vogliono riconoscerlo, in una immanente capacità della natura umana, che le permette di svolgersi colle sue proprie forze, verso la verità e la moralità. Capacità che, essa stessa, si può coltivare e aiutare con mezzi puramente umani come l'insegnamento, l'esempio, il governo, la disciplina, dei quali è formata, appunto, l'educazione naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e nelle forze stesse della natura umana e nella possibilità di aiutarle, l'educazione sarebbe un perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la verità e la moralità, egli non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra, come effettivamente non la conoscono né la praticano gli animali, i minerali o le piante. Se, d'altra parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la natura umana non potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto varrebbe chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i maestri, e lasciare che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non si sarebbe trovato mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche nell'educare i propri simili; o, se si fosse trovato, la disperata inutilità del tentativo, lo avrebbe, subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi, libri, maestri, non sarebbero mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa legittima persuasione intorno alla possibilità di educare l'uomo con mezzi naturali, tutte le teorie pedagogiche si debbono trovar concordi: né la pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare eccezione. E lo dimostra la storia del cattolicesimo, il quale, nonostante la grandissima importanza da lui attribuita, nell'educazione, all'elemento soprannaturale, ha sempre rifiutato come eretica, la teoria la quale afferma impossibile all'uomo il conseguimento del vero e del bene senza una positiva rivelazione divina e proclamando «errori» la filosofia e «peccato» le virtù dei pagani, volentieri condannerebbe al rogo come futili sciocchezze, ogni scienza, ogni progresso, ogni civiltà. Così, invece di gettar via la scienza del paganesimo, il cristianesimo poté mantenerne viva la fiaccola nei suoi chiostri, nelle sue scuole, nelle sue Università e, ricongiungendo sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare intatta quella tradizione della civiltà occidentale che ci fa, oggi, giustamente orgogliosi.  Ma, oltre questo «naturalismo» ch'è, in fondo, una ragionevole fiducia nelle forze della natura umana, la quale, se ha in sé delle tendenze al male e all'errore, ha pure in sé delle tendenze altrettanto spontanee al bene e alla verità; oltre questo saggio naturalismo senza cui non è possibile parlare neppure di educazione, molte dottrine pedagogiche, specie moderne, hanno in sé un altro «naturalismo» niente affatto utile o necessario all'educazione. Tale naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha nella sua propria natura le energie necessarie al suo ordinato svolgimento: afferma che ogni educazione si riduce allo spontaneo svolgimento della natura umana secondo le proprie, immanenti leggi costitutive. E non si limita a riconoscere che l'uomo ha nella sua propria natura una tendenza al vero e al bene, cioè che è fatto, in ultima analisi, per la conoscenza dell'uno e l'attuazione dell'altro, ma afferma che l'uomo solo è a sé stesso il vero e il bene, perché appunto nello svolgimento delle sue umane energie, o per sé prese o nei loro rapporti colla circostante natura, consiste il solo vero e il solo bene possibile. E non si limita, quindi, ad affermare la legittimità d'una educazione naturale dell'uomo, ma  respinge come assurda e satireggia come ridicola pur l'idea d'una educazione soprannaturale, o, comunque, di un elemento soprannaturale nell'educazione. III  Distinguiamo, anzitutto, due cose che si sogliono, per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione naturale, e la sua effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi, sia fatto per essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti gli uomini siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli uomini arrivino, in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene, almeno nella misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua esistenza umana, nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui tutti i viziosi e gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra. Si può, è vero, sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo ed ignorante del mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità, che nemmeno il peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo all’animo, qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere umano, fino a un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è facile obiettare che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente, o la verità che regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità e quella bontà di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità delle cose, e non da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé, esse si distruggono e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la delinquenza nel delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante come il tipo dell'uomo «educato»? Una tale ipotesi è così assurda che si confuta da sé. Se ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come lo Spirito di Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato in ogni condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da lungo tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato i fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione dominante, si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo inconsapevole sono come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto dal fango col quale si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva affermazione. Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa possibilità non è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal genere umano per educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole differenza che intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione effettiva.  Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce, almeno, a portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei santi, degli scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini, capaci lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è troppo facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili l'istruzione è obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non dovrebbero esserci delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni dovrebbero chiudersi, gli ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte ordine pace e armonia, non conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita; la corruzione non insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure; dappertutto il lavoro innalzerebbe la sua lieta  canzone, e la gioia e la serenità soltanto tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito incantevole. Ahimè! Basta dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere questo sogno svanire come nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più modesto mestiere, sono in maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o gl'ignoranti? i laboriosi o i fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non sarebbero tanto stimata l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la competenza, l'attitudine al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le cantonate!  Ma poi, badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di maggioranza o minoranza, che la scienza non si fa come i congressi o le elezioni. Quand'anche l'educazione universalmente diffusa avesse reso tutti onesti, tutti bravi, tutti capaci, tutti intelligenti, e di fronte a questi fortunati mortali un uomo - uno solo - fosse uscito dalle nostre scuole vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io dico che quest'uno solo basterebbe colla sua esistenza per dare una solenne smentita a tutti i maestri e i pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si vanta la nostra civiltà. Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo - uno solo - circondato da tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e affidato ai migliori maestri, e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose abitudini, dal quale poi fosse venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia - quand'anche non si potesse citare che un solo esempio di questo genere - l'educazione umana, l'educazione naturale, dovrebbe considerarsi incapace di fatto (benché capace di diritto) a realizzare i propri fini: incapace a far diventare realtà concreta, quella potenzialità, quella tendenza al bene e al vero che esiste nella natura umana. E che importa conquistare il mondo, quando si è persa una - una sola - anima? In quell'anima era tutto un mondo: in lei non è stato sconfitto solo un individuo, ma il pensiero e il volere umano, irreparabile sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere sono appunto la natura stessa che non solo si supponeva educabile, ma si presumeva di fatto educare coi nostri sottili accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e ci si mostra d'un tratto, in quell'unico individuo, chiusa, avversa, inaccessibile a tutti i mezzi coi quali l'abbiamo lavorata; come preda d'un fato misterioso contro cui ogni nostro potere sembra disarmato. IV  Finora abbiamo parlato in generale. Ma le stesse considerazioni particolari e tecniche di cui è piena la storia della pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi. Vediamolo, anzitutto, per il problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più facile, in certo senso, dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta. Le idee, mediante quel loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla mente dell'uno alla mente dell'altro. Se il discepolo è stato «attento», se i ghiribizzi della sua fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non lo ha intorpidito, se il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la chiarezza necessari, la lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro imparato ciò che doveva imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi che nessuno dei piccoli malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare andamento delle cose, e per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha già servito ci può ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle idee, già usato per la lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni, le quali dimostreranno se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il maestro è riuscito, nelle sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando,  sventuratamente, così non fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche il rimedio. Il linguaggio è sempre là per correggere, chiarire, spiegare di nuovo, interrogare di nuovo, e dove non bastasse la parola parlata c'è la parola scritta: libri, quaderni, appunti, riassunti e così via.  Ebbene, la storia della pedagogia, specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una critica a questo semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è sempre servita per istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà servire. La parola, infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che si possa trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal maestro e chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno, atto interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata, come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un «barbaro» che vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche, semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee «semplici», che sono appunto le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a chiarire, spiegare e «semplificare», tanto più diventa impossibile al discepolo ripetere altro che parole.  Per togliere questi inconvenienti, la pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso all'intelletto, dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza la cosa, l'idea senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito: procurare, anzi, che l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea sotto lo stimolo della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo «intuitivo» che innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel prendere il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della sinistra, e poi avvicinarle e far contare: se il ragazzo è «disattento», se si rifiuta di far scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se «non vuole» ascoltare, nessuna  costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di immettere nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima analisi, quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta l'istruzione dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la genialità di un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome i maestri geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non artisti, ricevono una istruzione difettosa.  Ma non facciamo troppo facile la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo «intuitivo» possa, da solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è, poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo, troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche, nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate: sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che «sapere scolastico» è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor oggi, in mezzo a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione dell'istruzione scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in alcuni istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi privilegiati. Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta spiegazioni verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni e parole che gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per ripeterle tal quali agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio scientifico cosi evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare per secoli una parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità pedagogiche più astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon andamento dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano messe in pratica?  Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui l'istruzione s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori possibili; supponiamo tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi; supponiamo rimosse le condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o limitano a taluno la frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità sufficientemente istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo conoscere? Ahimè, non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà che non è in poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un Galileo può formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i più perfetti metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti dalla impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un altro gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno, falliscono con un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita risposta: dipendere il successo dell' educazione o dell' istruzione, da circostanze imponderabili le quali variano caso per caso. Il che significa, in fondo, riconoscere l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i sistemi e i metodi dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più ideali e favorevoli condizioni. V  Questo, per l'istruzione. Che cosa bisognerà dire per l'educazione, intesa come formazione morale e, in genere, formazione della volontà? Se pare tanto difficile la lotta contro l'ignoranza, che sarà della lotta contro la pigrizia, contro la sensualità, contro l'orgoglio, contro l'egoismo, contro tutte le tendenze inferiori della natura umana? Anche qui, la storia della pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta insufficienza e di questa educazione in se stessa, e dei metodi usati per conseguirla. Uomini dotti, pur coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e atenei ne producono abbastanza, ma uomini temperati, casti, umili, pronti al sacrificio, generosi verso il prossimo?  E si capisce. Siccome la volontà non può muoversi alla cieca, senza il lume della conoscenza, le difficoltà dell'educazione morale sono in certo modo doppie: sono, per una parte, quelle stesse dell'istruzione, e per l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già difficile per le ragioni or ora esaminate, che tutti gli uomini possano ricevere una sufficiente istruzione morale: che, cioè, il «non rubare», «non dire il falso testimonio», «non desiderare la donna d'altri» e simili precetti della morale naturale siano appresi da tutti, non come semplici suoni di parole che si ripetono pensando ad altro, ma come nozioni positive che suscitano una vera, interna convinzione. Ma, anche se questo si potesse garantire, quando ciascun uomo vi sapesse dimostrare con eccellenti ragioni filosofiche tutti i precetti della morale, si sarebbe raggiunto appena per metà lo scopo desiderato. Non basta saperli quei precetti: occorre metterli in pratica; non basta pensarli: bisogna volerli e applicarli; e non basta metterli in pratica una volta sola, bisogna farli diventare abitudine di tutta la vita. Saper che non si deve rubare e, ciò nonostante, appropriarsi, quando si può farlo senza pericolo, la roba altrui, predicar la temperanza ed essere intemperanti, esaltare la castità e darsi al vizio, non significa certo essere educati moralmente. Ora, il difetto che la pedagogia moderna ha più criticato nella educazione morale corrente, si è appunto il vecchio pregiudizio che basti predicare e insegnare e far leggere libri o novellette morali, per produrre la virtù: laddove l'insegnamento e la predica e la buona lettura, sono certo necessari ma concludono poco o nulla se la virtù non è praticata e fatta costantemente praticare attraverso le azioni. Il tirocinio effettivo dell'azione deve costituire per la volontà quella medesima base solida che l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee morali debbono, per imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo significato che le idee scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti particolari.  Ma questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione, abbastanza facile ad organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in certo modo, esterne, tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio ginnastico rinvigorisce i muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta d'azioni più specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad un giudizio della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La teoria pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle conseguenze naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per converso, avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia esperimentata dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale teoria, sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei casi dove maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che il fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della  finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo, cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare, pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe peggiore del male.  È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica. In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali.  Ma l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre, nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri, tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni, delle inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina? VI  Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare, emerge una conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato, l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato, quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità.  Eppure, nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto, meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie, l'educazione mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e morale non disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione: e tanto la compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la civiltà, e intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la compiono che, a un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale dalla nascita in poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur difettosa, né dalla madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più che come un selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte merito loro se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più cognizioni che un dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini hanno imparato a camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a mangiare, bere e dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che di questi progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi di peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può mai abusare l'uomo?  In realtà il genere umano quando spende tante fatiche nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono, secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in quanto effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe giustificare, anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo fondamento. Ora, che cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi è che realizza quell'equazione misteriosa?  È la forza stessa delle cose, l'evoluzione stessa dell'universo, risponde il positivista. È  la razionalità del reale, lo sviluppo dello spirito, dell'«io» immanente ed onnipresente, risponde l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle loro pedagogie riconoscono lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue istituzioni, dei suoi procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono ammettere, nella formazione intellettuale e morale del genere umano, una forza sconosciuta, superiore ad ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo della realtà al quale sembra conforme che certe educazioni debbano riuscire nonostante tutti i loro difetti, e certe altre fallire nonostante tutti i loro pregi. Ma per il positivista come per l'idealista questa forza non è superiore alla natura: è la natura stessa, spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la storia che forma l'individuo educato più o meno, come il mare forma onde nell'uno o nell'altro modo senza che di tale sua cangiante irrequietezza si possa addurre un motivo. Il fatto non ha altra ragione dal fatto stesso: è così perché è così. Pure, questa stessa, implicita confessione dei nostri avversari è preziosa, poiché, volendo allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto ridurre a principi naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi è, nei suoi effetti e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la ragione. «Materia», «spirito», «evoluzione o storia» sono tanti nomi del mistero: tanti nomi i quali esprimono una realtà che trascende ogni nostro singolo raziocinio ed ogni nostra esperienza concreta.  Ma sono nomi oscuri e contorti, che non possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col fatto stesso, dire: è così perché è così, significa non spiegare nulla. L'educatore sarebbe come il giocatore che arrischia il suo avere sulla probabilità che i dadi o le carte o la ruota producano una fra le tante possibili combinazioni. L'equazione fra possibilità e realtà si compirebbe a caso. Ora, la fede dell'educatore ha, invece, un significato ben diverso, non riposa su un calcolo di probabilità e nemmeno sull'idea di una vaga razionalità sparsa in giro per l'universo: riposa sull'idea di un potere consapevole ed intelligente che dirige l'umanità nei suoi deboli sforzi per il proprio miglioramento, secondo un preciso disegno di cui a mala pena possiamo, talvolta, intravedere qualche parte. Potere che compie, nonostante tutte le nostre deficienze, l'educazione del genere umano anche là dove parrebbe temerario tentarla. Potere che forma Dante e Galileo nonostante i difetti delle scuole, e al quale si deve se l'ignorante e il delinquente non si moltiplicano in orde barbariche per abbattere la civiltà. Questo potere è il potere di Dio. Dio è l'autore della misteriosa equazione che si compie tutti i giorni, nell'opera educativa, fra possibilità e realtà.  La pedagogia e la filosofia debbono fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe entrare nell'ordine soprannaturale mostrando come il divino Educatore abbia compiuto e compia la Sua missione, sia con una Rivelazione che ha offerto a tutti gli uomini le verità e i precetti morali onde avevano bisogno, senza le incertezze della scienza umana, sia con una assistenza positiva, con la grazia di cui attraverso la vivente azione della Chiesa ciascuno partecipa; sia in quei modi speciali ed imprevisti che alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma la pedagogia e la filosofia possono garantire, come abbiamo visto, almeno questa importante conclusione. Senza ricorrere a un elemento soprannaturale, l'educazione, anche nell'ordine puramente naturale, rimarrebbe indispensabile e, nello stesso tempo, irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire assolutamente necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una educazione naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna contraddizione intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale nell'educazione, necessario di una necessità relativa e morale:  utile nello stesso senso in cui i teologi parlano della «utilità» della rivelazione.  Ecco una sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è d'assurdo all'idea ch'essa debba indefinitamente continuare nel suo moto, anzi, appunto, questo dovrebbe accadere secondo i principi della fisica. Pure la sfera, a un certo punto, arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le resistenze hanno assorbito la forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi della educazione naturale. La natura umana tende spontaneamente al vero e al bene, è indefinitamente educabile e perfettibile, dovrebbe continuare all'infinito il suo progresso. Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze inferiori, dall'interesse, dalle passioni, dalla sensualità, ben presto la fermano in cammino, e ci vogliono tesori d'accorgimento, di sapienza, di genialità per farla progredire, per dare ad un uomo solo, anche la più modesta educazione, così come ci vogliono macchine complicate e delicate per dare ad un solo oggetto una limitata quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale volesse far marciare tutti i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di macchine? Che, perciò, di un pedagogista il quale voglia educare tutto il genere umano colle scuole e i maestri, i collegi ed i libri? L'educazione naturale è, come il moto perpetuo, possibile solamente in teoria. Ma per realizzarla, per realizzarla in modo che tutta l'umanità abbia il suo vero e il suo bene, i suoi giorni laboriosi e i suoi riposi meritati, le sue messi e le sue industrie, il pane del corpo e il pane dello spirito, la sua dignità e la sua fede, è necessario il braccio di Colui che sospese negli spazi, fiammante tappeto ad un trono invisibile, la corona di soli che i nostri occhi intravedono in un lontano luccichio dorato, nella notte. L'Anima della pedagogia.  (Discorso tenuto per l'inaugurazione dell'anno accademico nell'Istituto Superiore di Magistero “ Maria Immacolata » il 17 dicembre 1924. È importante che il lettore tenga presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo studio rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e democratica, che sono — com'è ovvio — assai diverse da quelle dell'Italia d'oggi.)  Domando scusa se sono costretto a incominciare con l'affermazione di una verità così poco peregrina com'è quella secondo cui la scuola non è fatta dall'edificio ove si tengono le lezioni, dalle aule, dai banchi, dagli orari, dai programmi, e nemmeno, rigorosamente parlando, dalle persone discenti e docenti; sebbene da quell'idea, da quello spirito, da quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi capace d'informare di sé tali disjecta membra, le stringa davvero in un organismo vitale. Ma voi sapete pure che le verità, quanto più sono evidenti, tanto più spesso corrono pericolo di esser dimenticate o non avvertite: come l'aria, della quale viviamo senza accorgercene, o come — se mi perdonate il brusco trapasso — la felicità che si va a cercare, talora, in paesi lontani, mentre si avrebbe sotto mano, piena ed intera quanto alla condizione umana è dato raggiungerla, fra le mura di casa propria. In particolare, poi, le verità riguardanti la scuola hanno avuto da noi, in Italia, fino all'altro giorno, la curiosa caratteristica d'esser proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da un notevole numero di persone, ma di esser poi, con un accordo ancor più mirabile, dimenticate e violate nella pratica da un numero ancor più notevole di persone fra le quali, sempre, in primissima linea, coloro che avevano qualche potere in materia di politica scolastica. Ad esempio, per restare  nell'ambito di quel che dicevamo poco prima, qual è il cittadino italiano immischiato comunque, per dovere od elezione, nelle cose scolastiche, che non abbia, semprechè l'occasione e la cultura propria glielo permettessero, fatto dei discorsi sull'«anima della scuola», sulla sacrosanta necessità «di educare oltreché istruire», sull' imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione un saldo indirizzo ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei discorsi, formarsi un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana nell'ultimo trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario. Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti — forse per ironia — «di concetto», nemmeno la parvenza di quella cultura decorosa che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili moderne. Le nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente pletoriche, da rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli individui capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per propria soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si contano sulla punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo troppe e neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire, ma certo non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti pubblici onde traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo imperversa, ma è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che è la noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori spirituali, l'«analfabetismo morale» insomma. Né in questo groviglio d'istituzioni scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più svariati casi o interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a finalità ideali e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti, leggi, regolamenti cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe comunque scoprire, non dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta estrinseca, unità e coerenza d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la proclamazione aperta di non averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica neutra onde siamo stati deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non vale per il nuovo stato di cose prodotto dalla recentissima legislazione della riforma Gentile: i benefici effetti della quale, giova credere, presto si faranno sentire nel loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto naturale e giusto che accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno agito piuttosto spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale che ancora paralizzava il nostro organismo scolastico.  Ma ecco che mi sperdo in un mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico l'oggetto primo del mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio alla non peregrina eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo preso le mosse, come la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero, che s'intitola al Nome tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere solo una di più fra le lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in Italia, che pur trae dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali nessuna sapienza di amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo stesso Istituto nel volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il necessario con una larghezza veramente signorile di cui bisogna render grazie  alle Suore che l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è formata solo dalle aule e dagli edifici e dal materiale, se, prima di tutto, essa ha da rappresentare uno spirito e un pensiero, allora è nostro dovere domandarci qual è lo spirito e il pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto dire in nome di che cosa e con quali idee direttive i cattolici italiani hanno offerto alla loro patria, già, come notavamo un momento prima, anche troppo gravata dall'eccessivo numero degli istituti universitari esistenti fino a ieri, una nuova scuola universitaria?  Problema difficile certo, e tale da render pensosi quanti si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e del quale io non presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è argomento da sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo nel vostro futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo quel duro tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi, per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un differente senso dello «sforzo gioioso» base d'ogni cultura, i primi rudimenti, ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita. Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi, un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra cadranno da sé come vestimenti vuoti.  Che cosa sia in sé un Istituto Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici non possono in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano ormai sancite da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma occorre chi «ponga mano ad esse», ossia chi le realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde non si guarisce in pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi, a guardar bene, di secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che ora sarebbe troppo lungo indagare, non ha da secoli avuto una «cultura» nel senso di attiva partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori dello spirito. Ci sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o della scienza, ma solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione, senza un pubblico  che li seguisse, senza un'anima nazionale che si riconoscesse in loro e si assimilasse i risultati della loro opera, fermandola nella stabilità d'una tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta permise la formazione d'uno Stato moderno, il problema tormentoso si riprodusse: da un lato le grandi personalità solitarie, dall'altro le plebi misere ed ignare, nel mezzo una classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni vera consistenza interiore, costretta a vivere giorno per giorno d'una politica di ripieghi. Ed eccoci a quello che dicevamo prima sull'«analfabetismo morale», ben più pericoloso dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili europee il medico o l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o l'industriale d'una certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e difficili che siano, i doveri della propria professione, ma spesso sentono il bisogno di riempire le proprie ore libere con qualche nobile disciplina spirituale. E il funzionario, uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari, e il medico, lasciati gli ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le sue pratiche legali, va acquistando una vera competenza nella storia politica, e l'industriale, chiusa la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e di conti, ma riempie la casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con passione nella critica d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli anni intraprendere, poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o iniziarsi a qualche difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad apprestare alla prossima vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca d'isterilirsi nell'ozio e di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei propri acciacchi. Quel che accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo ognuno lo sa [Anche qui si tenga presente quanto s'è già osservato, in altra nota: che si parla, cioè, dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe, forse, dire il contrario: la mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti menzogneri e capricciosi, sta facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni vera superiorità culturale. E invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina «romana», le classi dirigenti si sono trasformate con una rapidità che, in altri tempi, sarebbe parsa incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati, avvocati e medici, industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime lodevoli eccezioni — altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non fosse il biliardo o il caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e l'operetta, per tacere il peggio, ma persino alcuni professori e maestri accoglievano l'obbligo di studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una cultura larga, soda, frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione scolastica, con una meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro pedagogici cervelli, fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare non fosse mai esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E quando un simile esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel miglior senso della parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se non disertare la scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il maggior tempo libero e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle agitazioni socialiste del '20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi intellettualmente, sebbene a vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con mentalità pescecanesca, stoffe costose e gioielli. Come vedete la questione intellettuale si trascina dietro, inevitabilmente, la questione morale, e direi anche, se voi non interpretaste la parola in cattivo senso, la questione politica. Sì, perché quel professionista, quel funzionario, quell'impiegato che, finito il proprio lavoro, invece di godere le vere libertà del raccoglimento e della meditazione,  «va a divertirsi» in un modo più o meno discutibile, si forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle, ossia la mentalità adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè, del cinematografo, dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo, l'orrore dei problemi seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del lusso, l'insofferenza d'una vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio «moralmente analfabeta» che nei suoi salari che gli hanno permesso il pescecanismo dei polli arrosto o dei vestiti costosi trova l’incentivo più sicuro all'odio e alla rivolta contro i ricchi, i quali, assoggettandolo al suo duro lavoro quotidiano, hanno voluto escluderlo da quella pantagruelica gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi la vera vita. Ora, mentalità simili, oltre all'anarchia che portano necessariamente alla coscienza morale dell'individuo, oltre alla corruzione e al vizio di cui necessariamente debbono pascersi, sono incompatibili colla esistenza politica d'una nazione, che vuol lavoro e disciplina, serietà e sobrietà, capacità di pensare e spirito di sacrificio. Ed ecco, allora, anche la politica uniformarsi ai superiori dettami del caffè e del cinematografo, della pochade e dell'operetta; ecco le chiacchiere con cui ognuno risolve i più complessi problemi, congiunte alla più massiccia ignoranza delle cose più elementari; ecco il fumo negli occhi al volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco la corsa alle cariche, agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità dell'opinione pubblica ad avere qualsiasi serietà e consistenza. Come meravigliarsi che per imporre il principio d'una disciplina in un ambiente simile non ci sia voluto meno del manganello e della rivoltella con tutti gli annessi inconvenienti? Il buon pubblico liberale e democratico, quello dello «stellone», non fu purtroppo accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla discussione di problemi dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se non aveva il «fattaccio» con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per esempio, a un altro campo ove si è avuta gran copia di quei metaforici morti e feriti che sono i «bocciati» alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri pedagoghi, non avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi pacifici e democratici mezzi dell'articolo, della conferenza, del libro, i padri di famiglia perché degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro figli trascorrevano in gran parte la propria vita? Quante volte non avevamo denunciato a gran voce il vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese fucine del sapere? Quante volte non avevamo avvertito che così non poteva più andare innanzi e che la settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni socialiste del dopoguerra, fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi in primissima linea l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole, erano già indizi sicuri di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse presto messo un riparo alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti? Credete voi che i padri di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come parlare al muro. C'è voluto il «manganello» dell'esame di Stato colle conseguenti bocciature, perché i signori padri di famiglia, toccati nel punto sensibile della borsa, da una pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli articoli e delle conferenze, degnassero finalmente accorgersi della esistenza d'un problema scolastico e finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta per altro scopo che non sia quello di fornire diplomi ai loro figli.  La gravità della situazione che vi ho prospettato dice dunque quanto sia importante il compito al quale siete chiamate voi, future direttrici e ispettrici di scuole elementari; voi, future insegnanti di scuole medie. Da anni ed anni noi andiamo sperperando le migliori riserve morali della nostra razza: quelle magnifiche energie del nostro popolo, fino a ieri provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa incultura, dalle dure necessità del suo  lavoro, dalla primitività rurale delle sue condizioni di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo imperante nelle città: quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la guerra e ci permettono ancora di ignorare il terribile problema dello spopolamento incombente su altre nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a cambiare lo stato di cose che vi ho or ora descritto: se voi poteste diffondere davvero una cultura nel più alto e nobile senso della parola e fra le nostre classi dirigenti e nel nostro popolo: se riusciste a sostituire, almeno in parte, il libro alla bettola, l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere del circolo, avreste già bene meritato della causa che servite. Avreste ottenuto quello che già ottenete in altri campi: e come nell'assistere ammalati, nel sollevare poveri, nel conquistare alla civiltà le più inospiti regioni del mondo conosciuto, gli ordini religiosi hanno fatto sì che il nome cristiano fosse sempre in prima linea anche in quelle opere socialmente utili di cui il mondo laico si vanta come di propria conquista perché non è dato scorgervi, a primo aspetto, alcun carattere religioso, così voi aprendo, anime, dirozzando intelligenze, opponendo ai «divertimenti» dissipatori il gusto d'un nobile lavoro dello spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce del sapere, il Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità, tutte le conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta, ma sa farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo che ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a conoscere nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle zitelle — sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a raggiungere un fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi educativi, un più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro per questa grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi dico che ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere intorno a questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da un'intima comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente nostre. Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale nostro e delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia scuole simili valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci con esse nel contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma anche, secondo la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in tutto un sistema d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i criteri pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli schemi che tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per approfittare delle favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da ogni preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire.  Come vedete, è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle giovani generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio incontentabile se aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui importanza ho cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto che paia, essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto appello alla coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi vi annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura, l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre migliori energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza italiana, ma possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il nostro dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo marciato di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la parola nuova che si aspetta da noi, che è poi la ragione per cui non c'è  parsa inutile, fra i troppi istituti universitari italiani, la fondazione d'un altro Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che il problema pedagogico odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente culturale, noi non crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui si studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini e di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale insegnante colto e conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune discipline formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro funzione di prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie, alle quali noi cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora, secondo noi, il vero fondo della questione. Giacché il Cattolicesimo è vecchio, miei cari, e ha troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato. Quando gli uomini del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri e ai Dottori della Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi tutti, dal precursore Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la cultura avrebbe risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe sparita anche la corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e greche sarebbe stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica formazione spirituale ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre medioevali. Orbene, l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le vecchie scuole, ne crea delle nuove ove il classicismo regna incontrastato... Ahimè, non è passato ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella scuola umanistica i difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella scuola medioevale: rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie, disconoscimento brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man mano che il tempo passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali deformazioni dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che agli uomini del Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana elevazione: la cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario come fine a se stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica, l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica. Allora, mentre le critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge sull'orizzonte e il realismo scientifico s'accampa minaccioso contro l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza, daranno all’ umanità la formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai positivisti del secolo XIX che annegano la scuola addirittura in un'orgia di scienze positive, il realismo entra poco a poco, come già era entrato l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica di tutte le nazioni civili. E se proprio non riesce a detronizzare il rivale, almeno gli impone, attraverso la filologia che va impregnando di sé gl'insegnamenti delle letterature classiche, il suo spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque risolto? L'umanità ha finalmente trovato quella liberazione attraverso la cultura che andava cercando dal medioevo in poi? Mai più: il realismo scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i suoi trionfi, che già un nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte. La pedagogia idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo scientifico, il medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo letterario. Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e scientifica che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei «fatti» e delle «notizie» e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile: pedanteria, superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo scetticismo, oblìo dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore. E l'idealismo contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte della loro opera piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro l'insegnamento “ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non diagnosticare chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so quali principi, onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato; né essi sono mai tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella rivolta è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con cui il realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori umanisti sul “ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i criteri stessi con cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il segno d'una serie d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il realismo aveva consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema pedagogico fosse sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior cultura da diffondere fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo avesse male risolto questo problema imperniando la cultura sulle lingue classiche. A sua volta il neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al realismo il pregio d'aver rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione, della cultura, ma, viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel proporre quel particolar tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui metodi naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale, anche la scuola  neoumanistica?  La ragione? Ma la ragione sta nello stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come “uomo” o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli ideali pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè, dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia, esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito, ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista, cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi ad una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una cultura “egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella letteratura, lo spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso: Narciso contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise attraverso l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure per far ciò egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore: che, dunque, la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della sofferenza e della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri, deve affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno egoista?  No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo decisamente da ogni pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo riduca ad un momento dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una cultura gretta, limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente a comprimere con dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri preformati. E infatti che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare a una realtà superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori; anche quando guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno all'infinito da lei, essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di sé. Ben diverso è il caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non se stessa, ma Dio, tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi, nel suo seno, il più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare. L'enciclopedia laica è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso parte da sé e ritorna in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura scientifica del realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche tutt'e tre insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più caratteristica prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est, vivere non est necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di spezzare ogni limite per tendere sempre più in alto e sempre più oltre. Viceversa l’enciclopedia cristiana è, se ci si consente l'espressione, un circolo che s'apre, colla filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una realtà superiore: infinita via su cui le anime dovranno avanzare colle loro forze sostenute dalla grazia divina. Né la materialità di queste immagini v'inganni, quasiché la differenza fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in un ordine soprannaturale. Poiché il tipo e, direi, l'orientamento di una cultura non può non essere visibile anche in ogni sua minima parte. Ogni frammento della cultura laica deve riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni frammento della cultura cristiana il circolo aperto. Così i singoli fatti del mondo naturale sono, in fondo, nonostante tutte le proteste in contrario, per la cultura laica, niente altro che la ripetizione di un medesimo spettacolo per cui l'umanista è assalito dal terrore e dalla noia innanzi alla monotona infinità dei cieli, e i fatti della storia gli sembrano esauriti quando li ha sussunti sotto una determinata categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana avverte l'infinito che è in ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala infinità” d'una ricerca da proseguirsi indefinitamente, o d'uno spettacolo multicolore illimitatamente prolungato, ma come la positiva inesauribilità d'una esistenza concreta le cui radici si perdono in Dio, ch’è quanto dire, come uno dei modi, sempre originali e imprevedibili, attraverso cui la potenza creativa di Dio si è manifestata. Ecco perché questa nostra civiltà occidentale nutrita dal Cristianesimo ha avuto la grande fioritura di scienze e d'arti di cui oggi va orgogliosa. Ecco perché la vera cultura, ch'è “spirito di libera ricerca”, alieno dall'oppressione e dalla pedanteria, e “socratica maieutica” alle anime che facciano nascere, nel dolore e nello sforzo, la verità, non può andar mai disgiunta dallo spirito  cristiano. Ed ecco, infine, la ragione dell'insuccesso che, dall'umanesimo al realismo e al neoumanesimo, ha sempre reso e renderà sempre sterili i tentativi di fondare, fuori del Cristianesimo, una scuola veramente liberatrice.  Non basta. Il problema della cultura non è soltanto un problema di qualità o di intensità; è anche, sopratutto, un problema di diffusione. Ora, qui è proprio lo scoglio di tutte le pedagogie laiche che, dato il loro punto di partenza, debbono per forza porre nella ragione naturale la forma più alta d'autocoscienza, e perciò nella “consapevolezza” critica e scientifica l'essenza di ogni cultura. Già il mondo pagano aveva detto che i liberi studi, la ragione, la filosofia erano l'unica via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie passioni, celebra veramente in sé l'umanità. E si era trovato innanzi al terribile problema: «che faremo dunque, degli uomini che non hanno, anche volendo, né tempo né modo di studiare? Negheremo loro la qualifica di uomini?» Problema, si noti bene, assai più facile in una società che aveva gli schiavi e che non conosceva ancora le innumerevoli forme d'operosità manuale e materiale ormai indispensabili alla società moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto pensare in linea teorica, che poche ore di lavoro manuale imposte a ciascuno bastassero per soddisfare i bisogni della società, garantendo poi a tutti la libertà di rivolgersi ad occupazioni intellettuali. Oggi non è più così. Il nostro operaio attende molte ore del giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso tecnicamente difficile: e i mille servizi materiali, di trasporti, di comunicazioni, di cure igieniche, di polizia e via dicendo, di cui ha bisogno una città moderna, lasciano, a un intero esercito di persone, proprio il tempo che basta a rinnovare col riposo le proprie energie. Vorremo educare costoro col latino dell'umanesimo, colle scienze del realismo, o colla filosofia del neoumanesimo? O, non potendo, li lasceremo senza alcuna educazione? È il problema della cultura popolare, insolubile per il razionalismo laico moderno non meno che per il paganesimo antico. D'altronde, se i beni dello studio e della contemplazione sono i veri beni umani, con che diritto ne escluderemo la maggior parte dell'umanità ch'è condannata ai lavori manuali? Che se, viceversa, pare inevitabile quei beni dover toccare in sorte a pochi, con qual criterio gli uni saranno preferiti agli altri? Come evitare il sospetto che tutto il nostro sistema sociale sia fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco lo spirito di ribellione che getta i lavoratori in braccio al socialismo e all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo che mina le basi delle nazioni moderne.  Anche qui la storia ci ammaestra. Il problema che la civiltà pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal Cristianesimo. Se la santità è superiore alla scienza e la carità alla giustizia, allora i veri valori spirituali non si attuano nel lavoro intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di lavoro o di attività umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei doveri che rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che esercitiamo è socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo aspettarci ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di sacrificio e di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire abneget semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al lusso, alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno per  fine le attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del lebbroso. Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile tritume di nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da realizzare; concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo numero di studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale sollecitudine, alle moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio della «buona novella» queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare colla rivolta i beni che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che è un ricco interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben sapendo che quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni, interni od esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior ostacolo sulla via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un cammello passar per la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei cieli.  Né questo deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il Cristianesimo, trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo pagano, divenuto fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col quale la Chiesa ha sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e fideistiche, i diritti della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la tradizione dell'antica cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio dei «poveri» e degli «ignoranti», sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo, pur raccomandando in modo specialissimo la povertà come uno fra i principali consigli evangelici, Essa non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo che avrebbero voluto distruggere i beni materiali della società riportando l'uomo alla caverna primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante pari, nella vita cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto filosofo, Essa non ha mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente intesa. Se cultura e ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato, direi, naturale e pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di avere in sé il suo fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate dall'ideale cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte d'elevazione a chi le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio. Ecco perché la Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere aiuti affinché le condizioni materiali della vita umana venissero sempre migliorate, e, nemica del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere per l'elevazione intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio: siccome nel più ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo propone all'uomo ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini naturali, e implicito eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è da meravigliarsi che tutte le soluzioni del problema economico-sociale dibattute oggi dalla scienza (razionale limitazione del lavoro, equa distribuzione della ricchezza, severa disciplina della concorrenza) siano state già da secoli implicite nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da meravigliarsi che tutti i più sottili accorgimenti didattici per la diffusione della cultura consigliati dai grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il presupposto indispensabile d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro manuale abbrutisce l'uomo, impedendogli di attendere la propria elevazione intellettuale e morale? Orbene, da quanto tempo la Chiesa non combatte perché cessi quel gravissimo scandalo ch'è la violazione del riposo festivo, stoltissima empietà non meno che — ecco la vera parola — barbara distruzione della libertà umana,  la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste di precetto del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente osservate, non avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo di tempo da dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei giorni che sono «di Dio» appunto perché Dio vuole che allora l'uomo, dimenticato ogni altro interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a riprender coscienza del proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro di tutti i giorni fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui lo spingono la brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della moderna vita irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone, lascerebbe esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei così detti “divertimenti”?  Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più adeguati alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha sempre messo, con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare come scoperta della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza plastica e suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non potrebbe arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta, senza i grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è stata la prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina, ha affidato alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti architettonici, pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio, dalla sua forma generale di una croce, ai più minuti particolari delle porte e delle colonne su cui i costruttori antichi avevano una dettagliatissima dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le pareti, ove si rappresentano i principali misteri della fede che il sacerdote commenta ad uso degli illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il canto liturgico, nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla esposizione dei più profondi concetti cristiani, e il tutto con una facilità di esecuzione tecnica che rende possibile alle moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da spettatrici, ma da attrici. E la liturgia stessa delle sacre funzioni, considerata nel suo aspetto umano e naturale, che altro è se non la partecipazione delle folle a un grandioso dramma ove la poesia, l'architettura, la pittura, la musica si fanno docili strumenti della verità? — Oggi si raccomanda il «metodo attivo», si biasima il verbalismo della nostra cultura, si riscopre il valore educativo del lavoro manuale. Orbene, non sono nate dal Cristianesimo quelle corporazioni medioevali ove il tirocinio e l'esercizio del lavoro manuale si compenetravano del medesimo senso d'arte e di libertà umana che a mala pena e non sempre oggi si ritrova nei grandi lavoratori del pensiero? Ed è stranissimo che i pedagogisti moderni prendano, di solito, come tipo dell'educazione cristiana e cattolica le congregazioni insegnanti della Controriforma e, anche queste, le considerino in una ristretta parte della loro opera e precisamente in quella parte ove esse hanno dovuto agire collateralmente a metodi e sistemi, non posti da loro, ma forzatamente dovuti accettare dalla società in cui si movevano. Non si capisce, ad esempio, perché i Gesuiti debbano esser presi da tutti i manualetti della pedagogia razionalistica, come unici rappresentanti della educazione cristiana e dei suoi pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza avesse loro assegnato il compito di far da capro espiatorio, attirando sulla propria testa tutte le contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce ancor meno perché mai, dato anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti deplorati dai pedagogisti dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente stati, i Gesuiti debbano venir giudicati  esclusivamente in base all'opera dei loro collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per l'educazione clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur cita lo spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto originale, ottenuto però con una educazione efficace per lo meno quanto quella da lui vantata negli antichi? E che il benedettino, il francescano, il domenicano e via dicendo, per quanti ordini religiosi - e non sono pochi!- la Chiesa racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi” spirituali non meno ben delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere un'idea guardando a qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo completamente se non là dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti alla sua piena realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle congregazioni insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi brillantissimi: ma si consideri che quelle congregazioni, in quanto si proponevano d'esplicare una larga azione sulla società laica circostante, dovevano forzatamente accettare sistemi e metodi consacrati dall'opinione pubblica, sia pur per volgerli, in quanto era possibile, ai propri fini. Così i gesuiti trassero tutto quel bene che si poteva trarre, da un punto di vista cristiano, dall'umanesimo letterario e dalla vita moralmente corrotta che nelle classi sociali dirigenti si accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa loro se la scuola umanistica era, per intima costituzione, una scuola oppressiva, e se, in fatto di morale pubblica e privata, il mondo e la famiglia s'incaricavano di erudire l'alunno uscito dai collegi con una serie di lezioni ben altrimenti significative? Ma si guardi il rovescio della medaglia, si prenda l'educazione gesuita nella formazione del gesuita, così come, risalendo nei tempi, si prende l'educazione francescana nella formazione del francescano e l'educazione benedettina nella formazione del benedettino, si prendano, cioè, tutti quei sistemi educativi in quanto hanno la libertà di foggiare interamente l'educando secondo i propri principi informatori. E poi si dica quale educazione laica, in qualsivoglia condizione, saprebbe, non solo plasmare, nella rigorosa unità d'una dottrina ferma come la cattolica, tanta e così varia ricchezza di spiriti quante sono le diverse famiglie religiose; ma, quel che più conta, indurre in una tal moltitudine di persone un dispregio dei propri comodi e dei propri interessi, un amore della sofferenza e del sacrificio, una devozione al dovere, una infaticabile attività non d'altre ricompense sollecita se non al di là della sfera umana, una umiltà che rifiuta persino quelle legittime soddisfazioni per cui l'uomo guarda con compiacenza l'opera propria spesa in servigio di superiori ideali quali sono quelli che oggi la stessa opinione mondana ammira quando la colpiscono nei tipi, più facilmente visibili, della suora di carità o del missionario. Né bisogna poi credere che, anche nelle difficili condizioni presentate dal dover trattare con gente già imbevuta d'idee e d'abitudini anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che la Chiesa impartisce a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa meno della pedagogia razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle anonime folle che, anche nei tempi più difficili per la religione, si stringono intorno alla Chiesa e ne ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote, la parola, il consiglio, l'ammonimento che trasformano anche la disperazione della più sventurata esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a Dio, nella nobiltà d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore torbide della storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è travolta dal turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla e gli stessi nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare,  quando la burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano dovuta ascoltare, è altamente significativo.  Ma è tempo ormai ch'io concluda questo lungo discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani una conclusione così bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una conclusione che, non ne dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie scarsissime forze hanno dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il nostro futuro lavoro comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e sempre meglio. E questa conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i maggiori problemi della pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi richiama là dove da secoli la vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e, possiamo dire senza tema di smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie. Diffondete pure il sapere fra le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con gl'intenti ch'Essa vi ha insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle tormentose crisi dell'anima moderna; di soddisfare, così, pienamente alle esigenze della pedagogia più raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla quale sarete uscite, potrà veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le altre scuole universitarie, una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente, in quanto ciò è dato ai nostri deboli sforzi umani, non demeritare di raccogliersi sotto l'altissimo nome che oggi invochiamo a guida e conforto: sotto l'altissimo nome di Colei che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia, religione e "filosofie" nelle scuole medie  L'introduzione dell'insegnamento religioso nelle scuole medie e, più, l'esplicita dichiarazione del Concordato secondo la quale la dottrina cattolica deve essere il necessario fondamento e coronamento di ogni istruzione, hanno fatto nascere, strano a dirsi, nell'animo di molti e insegnanti e studiosi un turbamento la cui eco si è sentita nell'ultimo Congresso nazionale di filosofia (1929), e si sente tuttora negli scritti e nelle private conversazioni di quanti, o per elezione o per ufficio, amano discutere i vivi problemi della scuola. E forse non andrebbe molto lontano dal vero chi dicesse che tale discussione, interessante, senza dubbio, quando riguarda la scuola media in genere, offre poi un interesse specialissimo quando tocca l'Istituto magistrale, dal quale (si noti bene) debbono uscire maestri che hanno l'obbligo d'istruire i loro alunni non solo intorno a questa o quella singola materia, ma precisamente intorno alla religione cattolica; cosa che non potrebbero fare certamente, se già non avessero ricevuto dall'Istituto magistrale una salda istruzione e formazione religiosa.  È bene dirlo subito: intendiamo di deliberato proposito trascurare tutti i problemi pratici e contingenti che possono nascere e nascono nelle odierne condizioni della scuola dalla introduzione dell'insegnamento religioso cattolico. E intendiamo trascurarli, non solo per un legittimo desiderio di circoscrivere il nostro discorso, ma perché siamo persuasi che il turbamento di cui si parlava ora deriva, nella maggior parte dei casi, non tanto dal considerare l'uno o l'altro aspetto pratico della questione, sibbene dal non aver impostato con sufficiente chiarezza o dall'aver male risolto il problema filosofico che  della questione stessa sta al fondo. Per convincersene basta aver la pazienza di formulare solamente la difficoltà quale corre, si può dire, sulle bocche di tutti. — Che significa — si domandano molti — questa dottrina cristiana che deve essere d'ora innanzi il coronamento degli studi? Significa forse che si debbano escludere e bandire severamente dalla scuola tutte quelle dottrine e quegli autori non conciliabili colla ortodossia cattolica? Ammettiamolo pure. Ma allora dove andrà a finire la libertà di coscienza dell'insegnante, anzi, dove andrà a finire quella stessa libertà della ricerca scientifica che si svolge, è vero, e si esplica pienamente solo negli studi superiori e nelle Università, ma che non si può neppure escludere del tutto dalle scuole medie, senza ridurre l'istruzione a una semplice trasmissione meccanica di vuote formule, onde ogni vero senso di intima ricerca è esulato? Vedete qual differenza fra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, e non certo a vantaggio del Cattolicesimo! Mentre l'uno esclude assolutamente quella diversità di pareri e di teorie dalla quale nasce la feconda ricerca e la discussione, senza cui non v’è scienza, anzi pretende di ridurre tutti, volenti o nolenti, ad un unico modo di pensare; l'altro ha sì gran braccia che accoglie generosamente, nel suo capace seno, ogni dottrina, poiché in ogni dottrina riconosce un momento e un aspetto necessario della verità. E dunque, mentre, secondo il filosofo moderno, anche il cattolico ha diritto di esprimere il suo parere e di portare nella scuola il suo pensiero, secondo il cattolico, il filosofo moderno, ben lungi dall'avere questo diritto, deve esser cacciato e tenuto fuori dalla scuola come un individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da qual parte stia la libertà e la vera tolleranza: mentre il prevalere della filosofia moderna apre alla scuola tutte le conquiste del pensiero, il prevalere del cattolicesimo implicherebbe il ritorno al più gretto e ristretto oscurantismo, segno di remoti e barbari tempi. che la civiltà moderna ha, e vuole avere, per sempre superato.  E, poste queste premesse, ecco che molta brava gente già si sente venire i brividi addosso. Che, già le par di vedere l'Inquisizione e il Sant'Uffizio armarsi del braccio secolare, ed entrar nelle scuole, e buttar sossopra libri e programmi, e, afferrato per il collo con mano ferrea ciascun insegnante, interrogarlo, e voler sapere per filo e per segno che cosa dice e che cosa opina, e che cosa pensa, e come e perché. E poi, al menomo odoraccio di eresia, giù ammonizioni e sospensioni, e rimozioni dall'impiego, e magari, tanto per essere in armonia col color locale, o meglio, storico, una buona dose di tratti di fune applicati sulla pubblica piazza, e un buon rogo, dove se non le persone, che non li usa più, almeno i libri proibiti formassero un bel falò, a consolazione della gente devota che assisterebbe, fra cantici di gioia e inni sacri, all'edificante spettacolo.  Ora, i timori - più o meno irragionevoli - sono timori, e la filosofia è filosofia, e forse non c'è cosa tanto difficile a questo mondo quanto il persuadere certe brave persone che i timori vanno trattati da timori e la filosofia da filosofia; che le questioni filosofiche non si risolvono coi timori, ma cogli argomenti. Accuse di oscurantismo alla religione cattolica se ne sono fatte da che mondo è mondo, e sempre se ne faranno, fino alla fine dei secoli; sarebbe dunque puerile meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma giustizia vuole che di queste accuse si esamini spassionatamente il fondamento e il valore, prima di sentenziare. Giacché le affermazioni sono una bellissima cosa, ma finché non vengono dimostrate si riducono ad essere semplicemente parole: segni, o suoni, siano poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta avvinca a sé i cuori, o gli stonati rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi stordiscono, sulle piazze, la moltitudine.  Sia dunque lecito porre, al presente studio, questo fine: domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e su quali argomenti poggino quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si vorrebbe sequestrare il cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per relegarlo nei musei d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe inonoratamente seppellire. Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi quali si cerca di carpire il consenso attraverso la mozione degli affetti e guardiamo, se ci riesce, di non arrenderci che alla forza dell'evidenza e della ragione. Cerchiamo, se è possibile, di ridurre la questione a un tale stato di chiarezza che chiunque ci segue, amico o avversario, possa senza disperati sforzi d'ingegno o di dottrina, comprendere le ragioni sulle quali poggia la nostra tesi, od, occorrendo, scoprire anche il più piccolo errore nel quale ci sia avvenuto d'incappare. I.  Cominciamo con l'osservare subito che la questione che ora c'interessa non riguarda tanto i rapporti, o i conflitti che possono nascere, nella scuola media, fra l'insegnamento religioso in quanto puramente tale, e l'insegnamento della filosofia. Che se il problema fosse questo, molti amerebbero risolverlo, almeno in pratica, con una pacifica e cortese reciproca neutralità: l'insegnante di religione insegni la sua religione; l'insegnante di filosofia insegni la sua filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda, invece che l'insegnamento della religione e quello della filosofia, due modi diversi di concepire l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse concezioni della filosofia, o, meglio, due diverse concezioni della verità, diverse tanto, che non possono convivere pacificamente fra loro, né stare insieme senza distruggersi a vicenda. E se poi anche l'insegnamento della religione finisce con l'essere implicato in questo conflitto, ciò accade pei diversi effetti che quelle due concezioni producono, e non possono fare a meno di produrre, nel modo stesso di concepire la religione.  Ma quali sono queste due diverse concezioni in conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e lo ripetono a sazietà coloro che formulano, contro la filosofia ispirata al cattolicesimo, quelle obiezioni che or ora abbiamo sentito. Possibile mai che la verità debba essere qualcosa di fisso, di statico, d'immobile, definibile una volta per tutte e racchiusa, per tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di una determinata dottrina? Ma la verità è invece, progresso, sviluppo, divenire: e, anzi, lo stesso sviluppo e divenire del pensiero che incessantemente si accresce su sé medesimo, creando sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna delle quali è un momento e un aspetto immortale del vero, ma nessuna delle quali può aspirare ad esaurire in sé la verità tutta quanta.  Ecco dunque le cose singolarmente semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte; verità in continuo sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte, verità immanente, e identica col divenire stesso del pensiero dall'altra; verità oggettiva, che il pensiero filosofico può soltanto scoprire e riconoscere qual è, da una parte; verità soggettiva, eternamente creata dal pensiero, dall'altra. Per rendere, se non più semplice, più chiara questa antitesi, molti amano ricorrere alla storia della filosofia e impersonare in alcuni nomi di filosofi celebri quelle due diverse concezioni. Kant ed Hegel da una parte e San Tommaso dall'altra, quasi due mondi l'un contro l'altro armati, la filosofia moderna contro il medioevo e la filosofia scolastica. Contro, si capisce, per modo di dire poiché,  chi crede tutti i sistemi filosofici veri, non può, senza contraddizione, dar l'ostracismo a San Tommaso e alla scolastica, ma deve considerarli essi stessi come un “momento” della immortale verità. E pure Kant ed Hegel per modo di dire, poiché chi pensa la verità come un continuo sviluppo non può poi, senza darsi la zappa sui piedi, offrirci a modello un sistema filosofico, sia pure il kantiano o l'hegeliano, a preferenza di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li pensiamo e li ricostruiamo noi. Kant ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo, compreso colui che adesso parla o scrive nel loro venerando nome. Comunque, questo appello alla storia della filosofia, se anche non riesce molto a chiarire - e, anzi, vedremo che intorbida - la questione riesce tuttavia ad ottenere un altro effetto di maggior vantaggio immediato. Quello di far apparire manifestamente vera la concezione della verità alla quale si vuol dare il nome di “moderna”, e, per necessaria conseguenza, manifestamente falsa la concezione opposta, quella tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre filosofie, da San Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni soltanto della più lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si proclamasse oggi scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che quella di ripetere alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo nelle sacre pagine delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto, colonne d'Ercole oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano della verità. Di modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa imbarazzante condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della filosofia, diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non è una storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa scientifica nel campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo “moderno” non ha pregiudizi quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire appieno appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più opposti, persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura può dar sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando liberamente quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se così gli paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per le magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi delle platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e gl'improperi ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo sconsigliato ardire di voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o “scolastico”, “tomista” e filosofo.  Ci sia permessa, prima di procedere oltre, una semplice osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o di questa piccola commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i personaggi del filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che le parole sono parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”, di “libera ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un grande effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e ciò accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere, in questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove  della sua asserzione, e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di ambire a quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser progredita e libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere ciecamente, ma dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di progresso e di spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II.  Il procedimento adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la filosofia dei cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica, come retriva e non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed artificioso che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra filosofia non scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di vituperi. E se queste parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa da quella che vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese, diremmo che tale procedimento è assai simile a quella “illusione cinematografica” del pensiero per la quale si pensa d'aver afferrato e ricostruito un organismo vivente quando se ne sono raccostate alcune immagini parziali e frammentarie.  E, infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo: quando alcuno dice di ritener vera una filosofia, sia essa scolastica o antiscolastica, religiosa o irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica o scettica e così via, è costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci danno, per forza, di essa soltanto un'immagine approssimativa e inadeguata. E tanto più approssimativa ed inadeguata, quanto meno è possibile condensare in una breve formula verbale, qual è quella per cui uno si dichiara scolastico, materialista, idealista o naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale nella filosofia: gli argomenti coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie tesi. E questo stesso carattere di approssimazione e di inadeguatezza si estende, in un certo senso, a tutte le parole, e a tutte le frasi, e a tutti i libri che sono stati scritti per esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per importante che sia, non si può mai dire che esaurisca in sé tutta quella dottrina che pure insegna, o possa considerarsene un equivalente materialmente completo. Tanto è vero che da che mondo è mondo si continua a scriver libri per esporre e difendere le varie dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né si può finire. Poiché una dottrina filosofica è un insieme di concetti e di ragionamenti: e benché concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole e con libri, e si possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule, pure, non i libri e le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti costituiscono l'essenza della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire, non deve fermarsi alle parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire ai concetti e ai ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto pel quale si costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è, evidentemente, lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o s'impara a memoria un libro.  Segue da ciò che quando un filosofo vi dice “siate idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e vi scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della filosofia quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele o San Tommaso, come quelli coi quali il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere davvero così sciocco ed insensato da volervi indurre solo a ripetere pappagallescamente “siamo  scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere tal quali le sue parole, e ad imparare a memoria i libri di Hegel o di Sesto Empirico, di Aristotele e di San Tommaso. Ma pretende, invece, che i suoi uditori o lettori, da quelle formule e da quei libri risalgano ai ragionamenti in essi contenuti, e, mediante u n positivo lavoro del loro intelletto, li riscontrino veri e se li approprino, facendo così un'opera di ricerca che è certamente originale, benché riesca (nihil sub sole novi!) a conclusioni già scoperte da altri pensatori, siano essi Hegel o Sesto Empirico, Kant o San Tommaso. Né questo riuscire a conclusioni già scoperte da altri menoma in nulla l'originalità e la libertà della ricerca; giacché la libertà del pensiero non consiste punto nel non aver nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare nulla che non sia dimostrato vero. E quando una dottrina è dimostrata vera, la libertà dell'intelletto è garantita, in altro non consistendo tale libertà se non nell'esser fatto l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser libero e attivo sol quando il vero effettivamente conosce.  Ma che cosa fanno, rispetto alla scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici poco esperti, o male intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i filosofi scolastici siano, essi soli, così insensati da far consistere la loro filosofia, non nel pensiero ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici esser “scolastici” significhi non già compiere quell'effettivo e originale processo di pensiero pel quale ognuno può riscontrare col proprio intelletto la verità della filosofia scolastica, ma solo mandare a memoria e ripetere, senza mutare una virgola, l'una e l'altra Summa di San Tommaso. Onde, la facile accusa agli scolastici d'esser ripetitori pedissequi e di voler, perciò, diseducare il pensiero umano, riducendo ogni ricerca scientifica alla meccanica fatica di ripetere frasi, o libri altrui, con quelle pessime conseguenze per l'educazione e per la scuola che già abbiamo udito deplorare.  Accusa alla quale, evidentemente, non si può rispondere altro che negando l'arbitraria e cervellotica supposizione dalla quale è partita. Nessun filosofo scolastico, infatti, s'è mai sognato di voler indicare col termine “scolastica” soltanto la parola e non la cosa, i libri, e siano pur di San Tommaso, e non la dottrina in essi contenuta, le conclusioni, e non il concreto processo di pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo scolastico, quando dice agli altri “siate scolastici” vuol loro imporre la irragionevole schiavitù di una dottrina senza dimostrazione e senza ricerca. Nessun filosofo scolastico, infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse altro che un concreto processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano vere alla luce della ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale di colui che studia. Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non d'un pezzo di legno, non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così com'è, ma dovrà bene arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e ripensando, e non smettendo mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo, sillogizzando, dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non c'inganniamo, i modi e le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma la propria attività e originalità, garantendosi di conoscere il vero, e respingendo da sé il falso. Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la dottrina scolastica differisca dalle altre dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche. Che se appare diversamente, è sempre per quel tale equivoco fra il pensiero e le parole, sul quale gli avversari della scolastica si compiacciono d'insistere.  Infatti, una dottrina, come or ora s'è visto, la si formula in parole e in libri che, naturalmente, in un primo tempo, e a chi li guardi dall'esterno, debbono per forza apparire un puro dato, esterno anch'esso; esterno, ben inteso, finché colui che esamina la dottrina  proposta non sia in condizione di passare all'interno, cioè di riscontrare vera, mediante la propria ricerca, la dottrina medesima, persuadendosi così anche della bontà ed esattezza di quelle espressioni, di quelle formule, di quei libri che prima gli erano apparsi qualcosa di arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così vogliamo dirla, imperfezione e limitazione del pensiero umano che non può afferrar la verità immediatamente e tutto in una volta, ma è costretto a raggiungerla per gradi, non ricade certo sulla sola filosofia scolastica, bensì appartiene a tutte le dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche che siano. Le quali, debbono pure anch'esse formularsi in parole e in libri che, in un primo tempo appaiono, per forza, un puro e indimostrato dato esterno, finchè colui che le esamina non è in condizione di dimostrar vera la rispettiva teoria idealistica o positivistica, materialistica o scettica.  Il che è ancor più manifesto quando si tratta della scuola e dello scolaro; che, appunto perché scolaro non è ancora in tali condizioni da poter riscontrare da sé e colle sue sole forze la verità della dottrina insegnata e deve, ancora per un pezzo seguitare a imparar libri e definizioni e formule delle quali non scorge, o scorge solo imperfettamente la ragione. Che se in questo fatto cosi semplice si vuol trovare a tutti i costi una oppressione e un vincolo alla libertà del pensiero umano, allora non soltanto la scolastica, ma anche ogni altra dottrina, idealistica o positivistica, materialistica o scettica e, magari, eclettica, si dovrà dire oppressiva e restrittiva per la libertà del pensiero, e perciò, in quanto tale, oscurantista e retriva, di fatto, anche se a parole si dichiara svisceratamente amica della libertà e del progresso. Non si vede infatti perché il proporsi come testo di studio San Tommaso debba esser più oppressivo, o restrittivo che proporsi Kant, Hegel o Ardigò, e perché l'imparare definizioni e formule scolastiche debba esser più avvilente che imparare definizioni o formule positivistiche o idealistiche, vero essendo che in ogni caso ci s'imbatte nel solito dilemma dal quale non è dato trovare una via d'uscita. O il presentare una dottrina restringendola in alcune formule e in alcuni libri ed autori, che in un primo tempo appaiono, necessariamente, allo studioso come puri dati esterni da accettarsi solo sull'autorità altrui (salvo a ottenerne, in un secondo tempo, una compiuta dimostrazione) è ammissibile, oppure non lo è. Se è ammissibile, nulla ci vieta d' insegnare la scolastica, così come altri insegna l'idealismo o il positivismo o di prendere per testo San Tommaso così come altri può prendere Hegel o Spencer. Se non è ammissibile, la scolastica diventa, certo, una dottrina oppressiva, incompatibile con l'attività e la libertà del pensiero umano, ma anche l'idealismo, il positivismo, lo scetticismo e persino l'eclettismo diventano dottrine altrettanto retrive e incompatibili con l’attività e la libertà del pensiero umano.  Ciò è tanto vero, che, in ogni tempo, ci sono stati autori e scrittori più coerenti degli altri, i quali, per essere imparziali e non far danno a nessuno, hanno addirittura dichiarato oppressiva, antiquata e insopportabile la filosofia stessa, a qualsivoglia tendenza o dottrina appartenente, e si sono vantati di condurre liberamente la loro vita intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie delle dottrine e dei sistemi. Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a tutti, anche il dire di non credere nella filosofia è fare della filosofia, e anche il dire di non avere un sistema è un sistema, come lo scetticismo, l'eclettismo o qualche altro tipo simile. Ma pretesa coerente, anzi coerentissima con l'assurdo medesimo dal quale è partita, poiché se insegnare una qualsiasi dottrina rigorosamente definita e formulata vuol dire opprimere il pensiero, il miglior modo, anzi, l'unico modo di non opprimere il pensiero  sarà addirittura quello di non formulare né insegnare mai nessuna dottrina, né idealistica, né scolastica, né materialistica né di altro indirizzo. Soluzione che sarebbe l'ideale dell'economia e della semplicità per filosofi, scienziati, legislatori, maestri e scolari, se solo non avesse, come or ora s'è chiarito, il difetto d'essere inattuabile. Colla pura e semplice denunzia di un equivoco verbale cadono, dunque gran parte delle irragionevoli e ingiustificate antipatie contro la filosofia scolastica. La quale non è un insieme di frasi o di formule da ripetere meccanicamente, ma è un vivente organismo di pensieri da pensare; così come appunto sono, o vogliono essere, tutti gli altri sistemi filosofici. Una dottrina che, lungi dal pretendere d'imporsi irragionevolmente o arbitrariamente al pensiero umano, non vuole essere accettata altro che mediante argomenti e dimostrazioni. È bene ricordarlo, poiché oggi certe nozioni sono grandemente obliate anche da coloro che per professione ed ufficio avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La filosofia scolastica pretende di essere accettata unicamente perché vera e dimostrabile tale con argomenti filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a chi non creda punto in una rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure se una rivelazione religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni che si possono trattare dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia saldamente stabilito e dimostrato vera una certa concezione della realtà. Questo spiega perché sia molto meglio e più conforme alla precisione scientifica parlare di filosofia “scolastica” che di filosofia “cristiana” o “cattolica”, contenendo questi ultimi termini un riferimento alla rivelazione religiosa e alla teologia che non è ancora ammissibile, né dimostrabile, durante la pura ricerca filosofica, laddove il termine “scolastica” ha il vantaggio di definire direttamente la filosofia dal suo stesso contenuto dottrinale o speculativo, senza introdurre altri elementi. Che se, ciò nonostante, è gloria della scolastica aver adoperato e adoperare tuttavia anche l'altro metodo, ed essersi servita della Rivelazione cattolica e della teologia per controllare le sue tesi, l'uso di questo secondo metodo non ha mai infirmato l'uso del primo, che vale durante la ricerca filosofica e prima di aver saputo se c'è ed è possibile una rivelazione religiosa, così come l'altro vale dopo averlo saputo ed essersi persuasi, cogli argomenti e della filosofia e della teologia ”fondamentale” o apologetica, che una rivelazione è possibile, e c'è, ed è proprio la rivelazione cattolica. Risulta, dunque, evidente da quel che si è detto fin qui che per insegnare filosofia scolastica da parte del maestro, come per apprenderla da parte del discepolo occorre precisamente tanto spirito inventivo ed originalità quanta ne occorre per insegnare od apprendere qualunque altro sistema filosofico, e che, perciò il meccanicismo, il mnemonismo, il dogmatismo irragionevole e l'oscurantismo sono da temersi nell'insegnamento della filosofia scolastica appunto quanto sono da temersi nell'insegnamento di ogni altra filosofia, né più, né meno. Questo significa che non c'è un criterio estrinseco col quale si possa decidere su due piedi quali filosofie siano per riuscire, nell'insegnamento, oppressive, e quali liberatrici; ma che un tale criterio è soltanto interno, in altro non consistendo che nella maggiore o minore verità delle  filosofie stesse. Fra le quali, secondo quanto già abbiamo avvertito prima, solo una dottrina vera sarà sul serio liberatrice, e le altre riusciranno sempre e per forza oppressive, dogmatiche e oscurantiste; poiché solo il vero può imporsi all'intelletto dello scolaro con l'intima forza della persuasione, senza ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne, alle quali, invece, debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che riescono, dunque, sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò, nella scuola le cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica, qualunque sia la loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di libertà colle quali si presentano al pubblico.  Ma con ciò eccoci ritornati - sembra - al punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche col massimo buon volere, e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro la scolastica, è certo che proprio in questa diversa concezione del quando e a quali condizioni debba ritenersi vera una filosofia sta la differenza più notevole fra il sistema scolastico e il sistema moderno, e il conseguente pericolo che la scolastica introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di oppressione e di scarso spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già detto: per la scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori del pensiero che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre debbono per forza esser false.  Per il pensiero moderno, invece, la verità e la realtà medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano, si svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una sola dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre un atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora, a quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo scolastico non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua, il filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia della filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il discepolo a “crearne” delle nuove.  E va benissimo. Sennonché, a un esame più attento, questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si rivela almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo, esso cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il gran numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge previsioni. I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno malinconico - non sono già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da mille, che più se ne ha meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte dottrine filosofiche coincida per lo scolaro con l'originalità, col progresso e colla libertà dello spirito, mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto diverse come il “progresso” e il “mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto diffuso ai giorni nostri, e che nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra loro due ordini di realtà così diversi come il materiale e l'ideale. Se, infatti, una dottrina filosofica, poniamo la scolastica, fosse un campo o un orto, si avrebbe ragione di dire che chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto lo spazio ch'è al di là dei suoi confini, come il misantropo che se ne sta dietro i cancelli di casa sua e non vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina non è un campo o un orto, bensì un atto  immateriale del pensiero, e in quanto tale non ha altri confini che il suo riuscire o meno a colpir la verità. E se riesce a coglierla, essa non si lascia fuori più niente, né ha bisogno di cercare altrove che in se stessa i motivi d'un infinito progresso e sviluppo: ché essendo la verità per sua natura infinita, non c'è mai un momento nel quale si possa dire d'averne esaurito la conoscenza; ed essendo la filosofia un atto immateriale, non viene mai il momento in cui si possa metter da parte in un cassetto per riprenderla meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè pensarla davvero, con una attività la cui originalità e spontaneità è inesauribile. Approfondire la verità, questo è il progresso. Per contro, è proprio l'errore che ci presenta una indefinita molteplicità e un continuo cambiamento di sistemi; poiché, dove la mente non può acquietarsi nel tranquillo ritmo progressivo d'una dottrina vera, è costretta a cercare un simulacro di progresso nel mutamento, e a ripagarsi colla illusoria ricchezza dei molti sistemi, della effettiva miseria inerente alla loro falsità. Per cui dal momento che la verità è una e gli errori sono molti, le parti vanno invertite e quei filosofi che si vantano di permettere, anzi, di introdurre nella scuola molte dottrine, o non sanno quel che si dicono, o si vantano d'una cosa assurda com'è insegnare l'errore e mettere al bando la verità. E viceversa, quei filosofi che vogliono nella scuola una sola dottrina, non solo fanno onore alla loro intelligenza di filosofi, ma sono, essi, gli unici fautori d'uno spirito sanamente progressivo e inventivo qual è quello che può aversi dalla conoscenza della verità.  Ma qualcuno può ancora obbiettarci: il vostro ragionamento ha il solito difetto: presuppone arbitrariamente la vostra concezione della verità ed esclude la nostra. Si capisce che se la verità è tale che possa esser colta da una sola dottrina ad esclusione di tutte le altre, voi avete ragione nel voler che quella sola dottrina venga insegnata. Ma, e se la verità non fosse tale che potesse coglierla una sola dottrina, ma si trovasse in tutte le dottrine, come appunto sosteniamo noi? Non avremmo, allora, ragione noi di sostenere che la presenza, nella scuola, di tutti i principali sistemi filosofici, sia utile e necessaria?  La risposta a questa obiezione non può essere che una sola: non esistono due concetti differenti della verità, benché esistano le parole colle quali ci si illude di esprimere un concetto della verità diverso dal nostro. Ma sono vuote parole; e la dimostrazione ce la forniscono gli avversari stessi. Quando essi dicono, infatti, di non creder vera una teoria filosofica ad esclusione delle altre, ma di tener vere tutte le teorie che la storia della filosofia registra, che cosa fanno essi mai se non sostenere e difendere come vera una loro teoria filosofica particolare? Dire che la verità è in tutti i sistemi filosofici, non è forse sostenere una teoria filosofica? È il solito argomento contro lo scetticismo e l'eclettismo: filosofie che proclamano, sia di non creder vera alcuna teoria filosofica, sia di ammetterle tutte, e intanto cominciano, sotto mano, col creder vere se stesse e solo se stesse. Ora, la contraddizione è evidente. Ritener vere tutte le filosofie vorrebbe dire ritener vere anche quelle filosofie che affermano esserci una sola filosofia vera e tutte le altre esser false. Ma ammetter queste filosofie vorrebbe dire distruggere appunto quella nozione della verità alla quale tanto si tiene, e che esclude assolutamente potersi sostenere la verità di una sola filosofia, cioè distruggere lo stesso principio eclettico, o idealistico. Onde, una delle due: o l'idealismo, l'eclettismo e gli altri sistemi dello stesso tipo restano fedeli al loro programma di ammetter vere senza esclusione alcuna tutte le filosofie, e si uccidono colle proprie mani, perché debbono tener vero anche il concetto della verità opposto al loro. Oppure ammettono tutte le filosofie, ma eccettuate quelle che sostengono un concetto della verità opposto al loro, e allora la loro famosa tolleranza e larghezza di  vedute è finita, ed essi sono liquidati come idealismo od eclettismo, avendo dimostrato col fatto che la verità non sta punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in alcuni, e precisamente in quelli che s'accordano con l'idealismo o con l'eclettismo, cioè, in ultima analisi, in un sistema solo.  La libertà, dunque, che la filosofia moderna pensa di garantire in fatto di sistemi, è molto simile alla libertà di certe democrazie, ove ognuno è libero di pensarla a suo modo purché, però, non dissenta in nulla dal pensiero dei governanti. Libero ognuno di scegliersi il sistema filosofico che vuole, purché questo sistema sia l'idealistico, o almeno s'accordi in tutto col criterio fondamentale dell'idealismo: essere la verità in divenire continuo ed essere, perciò, vere tutte le filosofie che lo spirito umano ha escogitato. Ché fuori di questo concetto non v'è salvezza possibile, e le filosofie che non lo ammettono, non sono filosofie, ma aborti del pensiero, non vanno neppure presi in considerazione, anzi, vanno seppelliti sotto l'unanime disprezzo della gente ben pensante. Ora, quando si è stabilito ciò che in un sistema filosofico è più importante, cioè il concetto della verità, tutto il resto ne viene di necessaria conseguenza, e si può ben lasciar libero lo studioso di dedurlo in un modo piuttosto che nell'altro, di fregiarlo con un titolo piuttosto che con l'altro, e di compiacersi, così, della propria intelligenza ed originalità inventiva. Allo stesso modo, per ripigliar l'esempio di prima, poco importa che in quelle tali democrazie la gente voti in un modo o nell'altro ed abbia l'una o l'altra costituzione - tutte cose intorno alle quali, anzi, è bene che ciascuno si diverta a discutere a perdifiato, ricavandone un gran senso della propria dignità e importanza - purché, alla resa dei conti, siano sempre gli stessi uomini politici che detengono effettivamente il potere.  Così la storia della filosofia che i pensatori moderni si vantano d'insegnare con tanta larghezza e liberalità, si risolve in una illusione. Poiché, sotto l’apparenza di tutti i sistemi filosofici che la mente umana ha escogitato, da Talete ai giorni nostri, la dottrina insegnata è sempre una sola: l'idealismo, il concetto della verità come coincidente collo sviluppo stesso del pensiero umano, e come escludente qualsiasi altra realtà che il pensiero umano non sia. Ed è ben vero che si parla di Talete e di Platone, di Aristotele e di S. Tommaso, di Kant e di Hegel, di Stuart Mill e di Spencer, e che ognuno vi può spaziare entro i confini del materialismo e del platonismo, della scolastica e del kantismo, del positivismo e dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta di un dramma dove i personaggi si riducono ad uno solo, benché volta a volta variamente travestito, e dove Talete e Platone, Aristotele e San Tommaso, Kant ed Hegel, Stuart Mill e Spencer, sono, volenti o nolenti, costretti a rappresentare un'unica parte, quella del filosofo idealista; ora dell'idealista in germe, più tardi dell'idealista consapevole fino a metà, poi dell'idealista evoluto e progredito, dopo ancora, dell'idealista che nega se stesso, ma prepara così la strada a un nuovo e più moderno idealismo, ma in ogni caso, sempre e soltanto, la parte del filosofo idealista. Poco importano le forme, circa le quali, anzi, si può concedere la massima libertà, purché la sostanza sia sempre quella.  Ma che volete farci? - sembra di sentire rispondere un filosofo idealista - Dal momento che la dottrina idealistica è la vera e che l'intelletto umano non può, per quanti sforzi faccia, appagarsi se non del vero, necessariamente in tutti i sistemi escogitati dalla mente umana per risolvere i nostri problemi si ritroverà, per forza, qualche cosa dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro che metterlo in luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi credete una dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà (e sia pur questa realtà la sola storia) e  mediante essa vi assumete il diritto di giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di diverso la più intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che cosa, se non precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte le altre? Che cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in quanto sono davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e fantasmi dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici, sono, parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non configurare tutta la storia della filosofia, in quanto storia della scienza filosofica, e non delle aberrazioni o dei bisogni fantastici, passionali e pratici dello spirito umano, come preparazione, svolgimento, decadenza, rifioritura ecc. della filosofia scolastica?  Ciò posto, non si vede in che cosa, anche per questa parte, la posizione della scolastica sia inferiore a quella dell'idealismo, o a quella di qualsiasi altro sistema filosofico che si affermi vero e voglia sostenere la propria verità coi mezzi consentiti dalla ragione. Né si vede in che cosa la scolastica meriti più di qualsiasi altro sistema l'accusa d'intolleranza, di dogmatismo o di oscurantismo, dato che una tale accusa, fallitole il concetto d'una verità omnibus, è costretta a poggiarsi su elementi puramente accidentali. Quali sarebbero, ad esempio, il fatto che i sistemi filosofici riconosciuti vicini alla verità sono in maggior numero per l'idealismo che per la scolastica, o che sono nati in epoche cronologicamente diverse, poniamo nel secolo XIII o XIV anziché nel XVIII o nel XIX. Circostanze che non fanno né caldo né freddo, poiché la verità non ha nulla da spartire colla quantità o colla cronologia, né si vede perché debba appartenere al secolo XIX anziché al XIII, o perché debba esser posseduta, in forma scientificamente adeguata, da molti sistemi anziché da pochi o perché un professore tedesco in parrucca e codino debba averla vista meglio d'un frate domenicano colla sua brava tonaca e cintola. E ciò anche a prescindere da apprezzamenti di fatto, i quali ci mostrerebbero che la scolastica ha i suoi rappresentanti nel secolo XIX non meno che nel secolo XIII; e grandi - usiamo espressioni volutamente moderatissime - non meno di qualsiasi altro rappresentante di qualsiasi altra modernissima “novità” filosofica idealistica, materialistica, pragmatistica e così via.  Supponiamo che qualcheduno dicesse: Signori, io vi dimostro che l'arte di G. D'Annunzio, o di F. T. Marinetti è superiore a quella d'Omero e di Pindaro. Infatti quest'ultima è arte antica e quell'altra è arte moderna: ora, dai tempi antichi, dei Greci, ad oggi si sono effettuati innegabilmente dei progressi; dunque, anche l'arte d'oggi deve essere in progresso su quella d'una volta. Un tale ragionamento ci farebbe, certo, assai ridere né vi sarebbe scolaretto che non ne sapesse scoprire l'errore pel quale, dal fatto che un'opera d'arte è venuta dopo un'altra, si vorrebbe dedurre ch'essa è anche migliore dell'altra, e dai progressi dell'umanità, poniamo nelle scienze naturali, nella vita civile e nella produzione economica, si vorrebbero inferire i suoi progressi in un campo del tutto diverso qual è l'artistico. Ora, lo stesso errore che è derisibile applicato alla storia dell'arte, non è meno derisibile se applicato alla storia della filosofia ove il professore X od Y, autore di un novissimo sistema, dovrebbe saperne più di Aristotele o di San Tommaso, sol perché è nato tanti secoli dopo. Si crede di negare tale analogia fra la storia della filosofia e quella dell'arte con l'osservare che l'arte è l'espressione del temperamento individuale dell'artista, che è, appunto come temperamento individuale, non trasmissibile, e perciò esclude il progresso da uomo a uomo e da tempo a tempo, mentre la filosofia è la conoscenza d'una verità universale ed astratta, che può e deve, quindi, essere trasmessa e  progredire. Ma si dimentica che progresso possibile non vuol dire progresso reale, e che anzi il progresso filosofico, il quale sarebbe necessario e ineluttabile se l'uomo fosse solo puro intelletto come gli angeli, ha da fare i conti, nelle attuali condizioni umane, proprio colle attitudini, coi bisogni, colle tendenze, colle passioni, cioè, in una parola, col “temperamento” del filosofo, che è tanto personale, intrasmissibile, e perciò non suscettibile di passare, progredendo, da individuo a individuo, quanto il temperamento dell'artista e che influisce sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto il temperamento dell'artista sulla produzione dell'opera d'arte. E con conseguenze assai più gravi, poiché se all'arte basta riuscire sincera espressione d'un temperamento per essere arte, e se anche temperamenti mediocri possono riuscire artisti, senza bisogno d'arrivare all'altezza di Omero o di Dante; alla filosofia non basta essere espressione anche sincera d'un temperamento personale per riuscir vera, anzi, il più delle volte la mediocrità, la povertà, le scarse doti del temperamento individuale d'un filosofo avranno per conseguenza il non fargli trovare la verità e il fargli produrre un sistema sincero e personale sì, ma falso; onde segue che il filosofo, se vuol esser certo di non sbagliare deve sempre batter l'ala vicino alle altezze di Platone, d'Aristotele o di San Tommaso, poiché, nel suo caso la mediocrità è la morte. E la diversità notata sopra tra l'arte e la filosofia vale solo in questo: mentre l'artista deve esser grande lui e non ammette sostituzioni, il filosofo, se non è grande lui, può andare a scuola dai grandi e ricevere da loro quella verità che colle sole sue forze non avrebbe saputo scoprire.  In ogni caso, non c'è da meravigliarsi che i grandi filosofi, come i grandi poeti, siano pochi, e nascano nelle più diverse epoche che la Provvidenza ha stabilito, senza darsi pensiero della successione cronologica né del progresso. E dunque è chiaro che la scolastica può aver le sue buone ragioni nel concedere relativamente a pochi l'ambìto titolo di filosofi, come la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto titolo di poeti, e che l'opposto criterio, il quale vorrebbe che ogni momento nascesse un filosofo capace di “creare” una “nuova” filosofia è lungi dal parere soddisfacente. E può essere anche indizio d'un inadeguato e troppo largo concetto della filosofia, così come sarebbe segno d'un insufficiente concetto dell'arte lo scovare i poeti a decine e centinaia per ogni lustro, quando è risaputo che la vera arte e la vera filosofia sono cose difficili e che, perciò, in ogni tempo la grande maggioranza di coloro che si qualificano poeti o filosofi è composta, invece, di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. Possiamo dunque riconfermare, senza tema di smentite, la nostra conclusione. Ogni sistema filosofico, idealistico o scolastico, scettico o materialistico, non può, nonostante ogni sforzo contrario, insegnare mai più di una dottrina e di una verità, la quale necessariamente esclude la verità di altre dottrine diverse od opposte. E il sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé tutte le altre dottrine si rivela presto per quello che è, un puro e semplice sogno, sfornito di qualsiasi consistenza scientifica, l'eterno sogno irrealizzabile, perché contraddittorio, dello scetticismo e dell'eclettismo.  La verità di questa proposizione risulta manifesta dallo stesso ingenuo sofisma col quale gli avversari pensano di poter mettere la scolastica e il cattolicesimo al bando dalla scuola moderna. La nostra filosofia ammette e giustifica, tanto la scolastica e il  cattolicesimo quanto il pensiero moderno, la vostra, invece, nega il pensiero moderno, e ammette soltanto la scolastica, dunque voi siete più ristretti ed intolleranti di noi. Sofisma la cui apparente consistenza è data dal duplice significato che s'attribuisce al termine “ammettere” o “giustificare”, che una volta si prende nel senso di “condividere” una dottrina e accettarne la verità, e un'altra volta si prende nel senso di “giustificarla” storicamente, cioè di indagare le condizioni storiche nelle quali nacque, i bisogni ai quali rispose e così via. Poiché, se si tratta di “giustificare” nel primo senso, allora è certo che la scolastica non può ammettere e insegnare come vero l’idealismo, il positivismo o qualsiasi altro sistema del genere, ma è altrettanto certo che neppure l'idealismo, il materialismo o un altro sistema simile possono ammettere e insegnar come vera la scolastica, tanta essendo l'opposizione della scolastica a quegli altri sistemi, quanta è per l'appunto l'opposizione degli altri sistemi alla scolastica. Ma se si tratta di “giustificare” nel secondo senso, allora anche la scolastica si può prendere il gusto di fare una elegante rassegna di tutti i sistemi filosofici che ci sono stati da che mondo è mondo, metterli in bell'ordine, studiarne i corsi e ricorsi, assegnarne le condizioni, enumerare le cause che li hanno fatti nascere e ne hanno garantito il successo, corredando il tutto con un grande apparato di erudizione critica e una sesquipedale bibliografia. Può prendersi il gusto, diciamo, poiché in realtà la scolastica, possedendo un concetto della verità molto più severo ed elevato di quello che mostrano d'avere tanti sistemi moderni, è sollecita più della formazione mentale, che della brillante informazione ed erudizione dei suoi scolari, e teme sempre non accada loro questa disgrazia: «necessaria non norunt, quia superflua didicerunt»: il che la conduce a limitare, nella scuola, più che sia possibile questa parte storico-erudita, nella quale tanto si compiacciono i sistemi moderni, perché tanto bene si accorda col loro intimo scetticismo ed eclettismo. E allora la discussione sarà, non più sulla necessità di tener per veri o meno questi o quei sistemi filosofici, quanto sulla opportunità di fare, nella scuola media, un posto più o meno ampio alla storia della filosofia, e, specialmente, alla sua parte informativa ed erudita. Questione di metodo, della quale adesso non intendiamo occuparci.  Ma l'accusa del pensiero moderno, o del sedicente pensiero moderno, alla scolastica, di essere limitata ed oscurantista, può facilmente essere ritorta. Si scandalizzano, i nostri avversari perché la scolastica accusa di falsità la maggior parte dei sistemi che hanno avuto fortuna nel mondo della cultura filosofica, e domandano indignati: l'umanità ha dunque vissuto sempre nelle tenebre della barbarie? E come allora ha potuto svolgersi e progredire fino a raggiungere una civiltà per tanti rispetti superiore a quella dei tempi antichi? Dimenticano, costoro, nel far questa domanda tendenziosa, di richiamare i reali rapporti che intercedono fra i sistemi filosofici ora ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della civiltà, poiché la filosofia è una scienza difficile e, come tale, aristocratica sì che solo un piccolo gruppo di dotti, che in confronto dell'umanità è una trascurabile minoranza, può in ogni tempo coltivarla e dedicarvisi. Quanti, fra i contemporanei di Spinoza, di Rousseau, di Kant, o di Hegel, poterono effettivamente leggere quei filosofi, formarsi un'adeguata idea del loro sistema, e ad esso ispirare la propria vita? Quanti, oggi, nonostante l'accresciuta cultura e la maggior facilità di studiare, possono far lo stesso coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico dai sistemi filosofici prende, per opera di compiacenti divulgatori, solo qualche idea così vaga e generale che in tale vaghezza e generalità ogni carattere filosofico ha perduto, come sarebbe l'idea che Dio non c'è e che l'uomo è tutto, o che la società è organizzata male e bisogna rifarla, o che ciascuno è  libero di seguire le proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità avrebbe certo trovato anche senza i sistemi filosofici, tanto sono comode e larghe. Sì che si può dire, senza tema d'errare, che le varie dottrine filosofiche, in quello che hanno di specificatamente filosofico, passano senza toccare la vita dell'umanità nella sua grandissima maggioranza, onde, nulla v’ha di impossibile a che l'umanità progredisca e costruisca una civiltà anche se i sistemi filosofici dei suoi dotti sono errati, potendo la verità farsi strada da sé ugualmente, benché in forma imperfetta, per altre vie, nell’etica, nei costumi e nelle scienze stesse.  Ben più difficile e ben più intollerante è, invece, la posizione degli avversari, quando, sforzati dalla logica, sono costretti a condannare non solo la scolastica, ma, addirittura il cattolicesimo il quale non soltanto è un sistema che vanta per sé il possesso esclusivo della verità, ma afferma questa verità di averla ricevuta, per rivelazione, da Dio. E il cattolicesimo non è una dottrina filosofica che vada solo per le mani di alcuni dotti, e la cui verità o falsità non interessi la maggior parte del genere umano, ma è una religione, attraverso l'insegnamento della Chiesa, chiaramente conosciuta, seguita e praticata da milioni di uomini, i quali costituiscono certamente la maggioranza del mondo civile; una religione che non ha mai cessato d'avere una azione importantissima su tutti i prodotti dello spirito umano, sull'arte e sulla filosofia non meno che sulla morale e sulla politica, sui costumi non meno che sulle industrie e i commerci, sulle scienze non meno che sull'economia. Il cristianesimo ha agito, perciò, anche sulla formazione del mondo moderno e della civiltà moderna, infinitamente di più che le dottrine di Kant, di Hegel, di Spencer, coi piccoli gruppetti di intellettuali che le hanno conosciute e seguite. Se, dunque, esso è una dottrina falsa, fondata sull'illusoria affermazione di un Dio trascendente, come si spiega la sua vitalità, estensione e fecondità? come si spiega la civiltà moderna stessa che in sì gran parte deriva da lui? È vero che gli avversari rispondono di non aver affatto questa malvagia intenzione, ma di voler anzi, ammettere e spiegare il cristianesimo e il cattolicesimo così come qualunque altra dottrina o sistema. Ma è proprio qui il punto: ammettere il cristianesimo così come qualunque altro sistema filosofico umano significa, in realtà, non ammettere affatto il cristianesimo, bensì sostituirgli una deforme immagine di esso, che prescinde precisamente da ciò che in esso è fondamentale: l'idea di una Rivelazione divina effettuatasi in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il cristianesimo che si pensi solo come frutto della ragione umana e dei suoi sforzi filosofici, non è più cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che già sfuma nell'idealismo. Non è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur con diverse parole, gli avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo il cristianesimo vivo ed operante come religione del mondo moderno, la quale tanto poco può allontanarsi dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove solo attenua e addomestica un po', quell'idea, come ad esempio nel protestantesimo, sparisce come religione cristiana per ridiventare simile a tutte le altre filosofie di “cenacoli” intellettuali, quasi a darci una riprova della costituzionale incapacità del pensiero che pur si dice moderno ad afferrare ed assimilarsi il principio fondamentale del cristianesimo e del cattolicesimo.  E dunque la difficoltà resta, per gli avversari, in tutta la sua estensione. Se il cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per opera sua quella civiltà che pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad esistere, dato che anche oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione e un'importanza infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico? Condannare il cattolicesimo significa davvero ridurre tutta la storia a  “storia d'errori”, ben più che non lo fosse, o potesse parerlo, per la filosofia scolastica; significa spezzare in due la grande tradizione cristiana della civiltà moderna; significa ammettere, irragionevolmente, che prima di Kant o di Hegel tutti i filosofi bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle tenebre dell'errore; significa, infine, negare o misconoscere i maggiori bisogni dell'umanità stessa, che ha sempre cercato, prescindendo anche dal cristianesimo, di risolvere i suoi problemi, piuttosto che colla filosofia, soggetta alle discussioni e agli errori di pochi dotti, colle religioni, che tutte si presentano come rivelate da Dio, qualunque poi sia il modo col quale concepiscono tale rivelazione.  Giacché la differenza fra il pensiero della scolastica e il pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di “moderna” è, si potrebbe dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non ammettere quella, la possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel non ammettere quella, l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua rivelazione. Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia moderna parte, in realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica quanto mai settaria e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al pensiero: purché, però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e la possibilità della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si accorge che, con tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in sostanza, alla propria, tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa entro un circolo ove non è più possibile alcun reale progresso e sviluppo del pensiero. Lo hanno osservato anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva simpatia per la scolastica, che il pensiero umano ha in sé una brama irresistibile di infinito che domanda, come suo adeguato oggetto, un Oggetto parimente infinito ed assoluto: Dio. La filosofia moderna gli toglie questo oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la brama dell'Infinito resta egualmente, ad esso sostituisce una falsa immagine, il mutamento indefinito del pensiero medesimo, nella sua irrequietezza e insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo storico e il divenire di questa insoddisfazione stessa. Senza por mente che l'Assoluto non può consistere in una negazione o in una privazione, e che il semplice mutamento non è progresso o sviluppo. In tal modo il pensiero umano, lungi dal progredire, resta perennemente immobile, nella sua scontentezza, volubilità e insoddisfazione che è sempre identica; un apparente progredire che è, in effetti, un ritornare sempre sulle stesse posizioni, come la storia di certa filosofia malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la scolastica, concludendo col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione apre all'anima umana i vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile, ove il pensiero può innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare, per quanto si sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine, niente altro che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e progredire: «Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus est »: ecco l'unico programma - il programma della santità cristiana - che consente anche al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso infinito.  Nonostante ogni dichiarazione in contrario, la filosofia moderna non è affatto disposta ad aprire la scuola a tutte le più diverse e disparate dottrine. Che, anzi, essa persegue tenacemente la realizzazione di un suo ideale, e si propone - né potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola alla sua propria fede. Fede intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più intollerante ed esclusiva delle altre, perché non sa di essere una fede e una dottrina anch'essa, e con tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le altre dottrine quanto più si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante autorizzata della verità e  della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e soffocante, affatto inconciliabile colla sana libertà della ricerca scientifica, e addirittura contraria ad ogni effettivo progresso e svolgimento dell'anima umana, nella sua educazione e nella scuola. Poiché l'anima del giovane e del fanciullo, ha, se così si potesse dire, più ancora che non l'anima dell'adulto, bisogno dell'Infinito, e la scuola che non può darle Dio, non può darle che vani trastulli e giocattoli intellettuali, destinati ad essere infranti subito dopo che una curiosità irrequieta ne ha scoperto il meccanismo. Pedagogia cattolica  Credo che a parlare di un'opera come questa Rinnovamento dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano 1921) di Filippo Crispolti, possa valere quale sufficiente giustificazione non soltanto la ben intesa libertà che va tenuta nell'occuparsi dei libri recenti, bensì anche un fatto di più immediato interesse. E, cioè, che le lettere pedagogiche del Crispolti non hanno finora avuto, nonostante i loro innegabili pregi, il bene d'una discussione, d'una recensione o d'un cenno fra coloro che pur si occupano o dovrebbero occuparsi di problemi educativi. Strani effetti della modestia! Il Crispolti onestamente dichiara nella prefazione di non essere pedagogista e nemmeno professore; anzi, di non avere in vita sua addirittura frequentato mai alcuna scuola fuori dell' Università; rassomiglia il proprio stupore, nell'aver appreso da altri che certi suoi concetti erano pedagogia, a quello del bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero che, senza saperlo, aveva fatto della prosa e non invoca per sé altro diritto che l'esperienza della vita. Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno preso queste dichiarazioni alla lettera e hanno creduto, quindi di poter condannare il libro del Crispolti alla congiura del silenzio!  Noi, per conto nostro, diciamo subito di non credere a quelle dichiarazioni: o, meglio, di credervi quanto basta per annettere all'opera del Crispolti un pregio anche maggiore.  L'esperienza in materia educativa è certo - chi lo nega?- una bellissima e necessaria cosa; ma quando è vera esperienza, non filtrata attraverso gli schemi di un miope professionalismo, quale purtroppo affligge in educazione assai spesso la gente del mestiere, proclive molto spesso a dimenticare che, se l'opera educativa si celebra e acquista esplicita consapevolezza di sé nella scuola, essa presuppone poi tutte le manifestazioni della vita spirituale nel più largo senso intesa, talché l'esperienza scolastica val meno che nulla quando non sia sorretta da una intensa partecipazione alla vita dello spirito in tutte le sue molteplici forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale alla politica, alla scienza, all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che uomini come il Crispolti, ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione alla vita, riescano a ricostruire idealmente anche l’esperienza scolastica che loro manca e finiscano col portare nel campo educativo un occhio tanto più acuto e spregiudicato quanto meno è irretito dai pregiudizi professionali e quanto meno si preoccupa di abbracciare tutto un “sistema” pedagogico, per trascorrere, invece, con piena libertà, su quanto un sano senso critico spontaneamente gli scopre. Se così non fosse, l'agricoltore Pestalozzi o il mineralogista Froebel sarebbero riusciti inferiori, non pure al filosofo e pedagogista accademico Herbart, bensì anche ad un qualsiasi mediocre cattedratico autore di manuali pedagogici. Il segreto di quei grandi educatori sta precisamente nella loro “irregolarità”, nel loro irrequieto vagare più o meno attraverso tutti i campi della vita, prima di fermarsi nell'educazione, alla quale portarono così il possente lievito d'una personalità vivissima,  aperta a tutte le voci dello spirito, sensibile a tutti i problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze che maturavano nei nuovi tempi.  Tanto basta, e ne avanza, a giustificare il Crispolti di aver raccolto in una serie di lettere le sue dottrine sull'educazione. Il Crispolti è, del resto, figura così nota, e nel campo cattolico e nel campo degli studiosi, da non aver certo bisogno d'una presentazione. Ed era quasi, direi, in tono col suo cattolicesimo, il quale è manzoniano nel miglior senso della parola, ch'egli dovesse dar questo segno tangibile d'interesse per le questioni educative, ove si pensi che quel sano lievito di modernità ond'è reso così giovane il cattolicesimo manzoniano, risulta proprio dall'aver il Manzoni intensamente vissuto il cattolicesimo stesso, affiatandolo con tutti i problemi della vita e della storia, quali il secolo XIX li impose alla coscienza europea, in una forma in cui il problema morale e il problema - in lato senso - pedagogico tendevano sempre più a penetrare di sé la letteratura. Salutiamo dunque, anzitutto, la bandiera sotto la quale il Crispolti entra nel nuovo agone. Del Manzoni pensatore fu detto che egli, pur riuscendo spesso ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto filosofo per una certa sua incapacità a mettere in questione i “primi principi” e per una certa sua continua tendenza a presupporre dimostrata la dottrina religiosa, anche se al fine di far vedere come partendo da essa diventino volta a volta chiare le singole questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se con ciò s'intende negare ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto metodo largamente deduttivo (quale dimostrazione più soddisfacente d'una dottrina che lo spiegare in base ad essa i singoli concreti problemi della storia e della filosofia?) ma è esattissimo come caratteristica del procedimento prediletto in siffatte materie dal Manzoni e - cosa che qui c'importa soprattutto - anche dal Crispolti. Le sue lettere pedagogiche s'ispirano infatti, come egli stesso ci dice, al “programma di far toccare con mano in quale amplissima misura il Cristianesimo debba contribuire alla formazione dell'intero carattere morale e a certe necessità dello sviluppo intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non s'ingegnano prima di dimostrarci perché sia un bene morale e una necessità di ragione che il cristianesimo debba avere un siffatto influsso, o perché non si possa concepire, poniamo, una educazione che dal cristianesimo prescinda interamente o al massimo ne tenga conto solo come uno fra altri fattori, uno fra gli altri prodotti dello spirito umano, alla stessa stregua, p. es., dell'arte, della scienza, della filosofia, delle antichità classiche e via discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui nella sfera dei “primi principi”, delle grandi affermazioni e negazioni: il Crispolti, benché uomo di vasta cultura e non solamente letteraria, non ha affrontato in pieno la tormenta del pensiero filosofico moderno nel suo duplice aspetto immanentistico dell'idealismo e del positivismo. La religione non è quindi per lui qualcosa che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro e insieme nella scienza moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far fruttificare. Onde, il tono fondamentale di tutta la sua indagine, che è rivolta a quelli di casa prima che quelli di fuori, ai cattolici prima che ai “laici”, filosofi o pedagogisti, anche se, nello stesso tempo, tiene l'occhio vigile su tutto il mondo circostante della cultura e della vita.  Si direbbe anzi, più precisamente, che il Crispolti avesse voluto con queste sue lettere parlare a quelli che trascorrono nell'altro estremo, soffrendo d'una malattia opposta al filosofismo laico, a quei cattolici cioè che, per eccessiva sollecitudine di mantener la loro fede, in tutta la sua purezza, salva dalle concessioni snaturatrici alla mondanità, non annettono, nel campo educativo, grande importanza a tutto il complesso delle doti  spirituali che, pur non interessando apparentemente la religione, fanno dell'uomo un uomo colto o rispettabile nel significato mondano della parola, poniamo al coraggio, al senso della responsabilità sociale, alla cultura dell'intelletto. Frutto di siffatta timidezza che, per timore di mal fare si appaga del non fare, è, secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra l'educazione dell'uomo e la religione, di cui non pur l'uomo ma la religione stessa finisce, in ultima analisi, con l'essere vittima nella comune estimazione dei buoni. Ecco degli esempi: quando noi vedremo il probo commerciante tener fede alla sua firma, il coraggioso nuotatore salvare uno che annegava, la brava popolazione d'un villaggio distrutto dall'incendio accingersi con virile rassegnazione a ricostruirlo da sé, noi applaudiremo tutti costoro in quanto coraggiosi, probi, o virilmente rassegnati in faccia alla sventura: non ci verrà mai fatto di applaudirli in quanto cristiani, di attribuire, cioè, lo splendore di queste loro qualità ad una educazione religiosa e, più specificamente, cristiana o cattolica. Altrettanto avviene nella coscienza del cattolico stesso, il quale, pur apprezzando certo in cuor suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una conseguenza imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è disposto con facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche senza lavorare a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta di doti che, come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto, condurre facilmente alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad esempio di quelli contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane troppo curate dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o quanto meno finir col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non essere, a lungo andare, proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché così si crea in tutti la persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo delle fondamentali attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel cristianesimo, anziché un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né l'uno né l'altro; ch’è quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna, dopo un non lungo giro, se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al laicismo educativo. Contro i quali al Crispolti sembra aperta come unica via quella che «l'educazione cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna abitudine o inclinazione deplorevole che non debba venir combattuta a titolo religioso; nessuna abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia cagione e valore» (p. 14).  Ora, in qual modo realizzare siffatto programma? Il Crispolti, sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla morale cattolica rammenta che il Vangelo contiene qualsiasi ideale di perfezione umana e che i sentimenti naturali retti non possono mai essere in contraddizione colla legge di Dio, e tanto gli basta per dimostrare come la religione cattolica abbia l'attitudine a informare di sé qualsiasi magari raffinatissimo ed esigentissimo sistema educativo. Che fu, in sostanza, la grande preoccupazione del romanticismo neocattolico successo all'illuminismo rivoluzionario, da Chateaubriand in poi il cui famosissimo libro vuol essere appunto una descrizione di tutti i vantaggi arrecati in ogni suo campo d'attività allo spirito umano dalla religione cattolica. Ma il Crispolti ha anche una preoccupazione nuova che certo, direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente, dev'essergli derivata dall'influsso dell'etica moderna in uno dei suoi fondamentali problemi. “Politica della virtù”, definì or non è molto il Croce il concetto sostituito dalla più recente speculazione al vecchio rigorismo kantiano; “politica”, ossia non impossibile sterminio di tutte le umane passioni  e tendenze sulle cui rovine si erga la legge morale, ma loro sapiente organizzazione a beneficio della moralità stessa. Sarebbe troppo domandare a un cattolico, per cui la legge morale deve sempre rimanere, in ultima analisi, trascendente, né può comunque risolversi nella sintesi delle passioni, il chiedergli di condividere senz'altro questo concetto. Dal punto di vista cattolico vi ha sempre una soluzione superiore del problema, la santità che non ha bisogno d'una politica della virtù poiché «non raggiunge le virtù e la conseguente eliminazione di ciò che loro contrasta, correndo loro dietro una per una e poi tenendole tra loro serrate con un'agitazione scrupolosa e a fatica, ma le coglie tutte insieme, per un ardore che tutte le supera e le fonde» (p. 16). La carità, l'amore di Dio possono, nelle anime educate alla santità ed elaborate dalla grazia divina stessa, essere motivo sufficiente dell'azione virtuosa senza che per ciò si richieda il sussidio di speciali abilità o l'esca di determinate passioni e sentimenti umani. Ma, giustamente ammonisce il Crispolti, la santità eminente non è da tutti. «Molti educatori sentono, sia pure talvolta in confuso, questa complicazione dell'economia della vita cristiana; sanno che l'ardente carità, dalla quale può venirle la maggiore semplificazione pratica, non è dato ad essi d'infonderla negli alunni, poiché è un raro e diretto dono di Dio alle creature chiamate a santità e allora, senza che formulino a sé e agli altri il proprio timore, temono che il voler trarre dal cristianesimo anche l'addestramento alle qualità naturali, belle per sé ma che non sono ancora virtù, come il coraggio, l'amabilità nel convivere, la coltura della mente, e via discorrendo, accresca la difficoltà dell'educazione cristiana, costringendo gli animi ad accogliere tante più cose, quindi a tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a rischio di più frequenti discordanze» (p. 19). Timore, secondo il Nostro, ingiustificato e pericoloso, poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a mancare - e impossibile è all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla puntualmente nell'educando - verranno d'un subito a mancare anche tutti gli altri motivi (che non si sono coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di solito gli uomini si garantiscono pur imperfettamente dal male. «Eppure ogni metodo di educazione è condannato a prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché i sommi oltrepassano per lo più le sue speranze e i suoi poteri» (ibid.) e questi mediocri sono la gran maggioranza degli uomini non chiamati a santità, ma non per questo da abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali. Prendiamo, secondo l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella di Don Abbondio, che per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don Rodrigo a obliare uno dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso di un uomo al quale manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile l'adempimento di qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli umani con cui il “laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata educazione del coraggio materiale. Poniamo «che Don Abbondio fosse stato un ragazzo e che i maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in cui il dovere parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero voluto insegnare l'arte di non farsi vincere da quelle minacce»: che cosa avrebbero dovuto fare? Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il calore dell'amor divino, avrebbero dovuto coltivare in lui «una qualità terrena che poteva in certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli esercizi convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più facilmente a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura». E allora Don Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più alti motivi che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato innanzi alle minacce di Don  Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria coscienza dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello di esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro l'educazione cristiana stessa la necessità d'una «politica della virtù». Poiché il Crispolti rammenta certo che «sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo» e che, confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili vie della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e la saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla ben intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di difese contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico, l'educatore dovrà dire: “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser preparati perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale di questa preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori, con tanto ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche improvviso. Ma v'è una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser battuta anche perché a mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in questa che in quella: e consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei rischi e quei disagi, seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla” (p. 49-50). La «strada più modesta» è appunto la politica della virtù, sebbene concepita in un senso diverso da quello consentito nell'economia d'un'etica immanentistica come quella del Croce. Poiché qui è successa una inversione per cui ciò che là era fine morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova gradazione di valori richiesta dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel significato umano della parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che sorgono sul vero e proprio terreno praticomorale, come il coraggio o l'abnegazione od altro, ma altresì quelle che sono immanenti in qualsiasi altra funzione dello spirito, come poniamo la genialità estetica o il vigore speculativo, debbono necessariamente avere alcunché di imperfetto, frutto appunto del loro carattere umano: allegarsi, cioè, con una certa dose di orgoglio, compiacenza di sé, soddisfazione, che le rende tutte «più o meno passionali» perché presentano all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli ch'esse offrono, il loro esercizio sempre come un allargamento e una esaltazione del proprio io. Di contro ad esse sta la vera, perfetta, suprema virtù: la santità, l'unica che non si fondi per sussistere sopra siffatto stimolo, ma sopra una diretta ispirazione di Dio. Talché, appellarsi alle une per rendere possibile o, comunque, preparare, facilitare, supplire l'altra, significa da un punto di vista religioso ricorrere già ad una «politica della virtù»: non perché si sia facilitata la virtù ricorrendo alla dialettica delle passioni come nell'etica immanentistica, ma perché, esorbitando la virtù «pura» dai mezzi di educazione umana, si è ricorso per garantire l'uomo dal male ad un sistema di virtù «umane» e perciò già in sé stesse «passionali».  Conclusione di tutto ciò è dunque per il Crispolti che l'educazione cristiana, ben lungi dal disinteressarsi delle doti umane, deve e può servirsene come di mezzi atti a facilitare potentemente quell'economia delle virtù che solo anime eccezionalmente ispirate da Dio possono raggiungere d'uno slancio. Deve, cioè, in ultima analisi, prendere anch'essa in considerazione il curriculum della consueta pedagogia, evitando due errori egualmente pericolosi come la dissociazione delle attività umane dal fine religioso e, insieme, la incauta persuasione che l'uomo pio sol perché pio riesca eccellente in tutti i campi del pensiero e della vita. Incominciamo dall'educazione fisica, di cui il Nostro si occupa nella lettera su l'educazione cristiana del coraggio materiale per riprendere acutamente, dal proprio punto di vista, quel concetto della pedagogia moderna secondo cui il  rinvigorimento del corpo non è già la formazione del «robusto ed agile animale», bensì quella del robusto ed agile uomo, che ha l'obbligo di preparare il proprio organismo fisico a tutti gli sforzi necessari all'adempimento dei propri doveri di essere spirituale. Al qual proposito bene osserva il Crispolti, parlando delle società cattoliche di educazione fisica, il loro carattere religioso dover consistere, non tanto nel titolo di cattoliche o nel compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel tener sempre presente alle menti giovanili «lo scopo di far servire le membra fortificate all'adempimento degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù sopravanza l'obbligo... cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i giusti limiti la loro progressiva vigoria» (p. 48). E quindi ai troppo facili satireggiatori della «ginnastica cattolica», il Nostro può con ragione rispondere che, oltre a una ginnastica, ben vi può essere anche una «cucina» cattolica, da quando in alcuni giorni della settimana si preparano nelle case dei cristiani i cibi di magro. E se la Chiesa non sdegnò di porre il suggello religioso su un'operazione umile come il mangiare, perché la pedagogia cristiana sdegnerà di porre la stessa impronta su qualsiasi attività umana? «Non si andrà incontro così ad un pericolo nuovo, che, sviluppando per mezzo della stessa educazione religiosa il pieno valore della persona umana, questa diventi superba?» (p. 72). No certo, se teniamo presente che la pedagogia cristiana ha in mano il più potente dei mezzi, per combattere quella superbia ingiustificata, nella cultura dell'opposto sentimento dell'umiltà; cultura che e insieme, ancora, un dovere religioso ed un ottimo espediente pedagogico. L'opinione che ai giorni nostri si ha dell'umiltà cristiana, ben osserva il Crispolti, è spesso quella ch'essa consista soltanto nell'«ansia costante e smaniosa di stornar gli occhi dal proprio io, per il pericolo di potervi scoprire dei pregi e provarne compiacenza» (p. 74). È un concetto negativo dell'umiltà ben diverso da quel concetto positivo che si ritrova nella tradizione cristiana e medioevale (si ricordi il titolo di donna umile dato a Beatrice), secondo cui invece «l'umiltà è concepita in forma positiva, come un avanzare non come un fuggire, come una confidenza, non come un viluppo di precauzioni » (p. 74) e consiste nel dimenticarsi di sé stesso a tal punto da non aver tempo di starsi a considerare, ma insieme nel sapere che il proprio valore e la propria bellezza accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a Dio. Sentimento che, fatta la solita riserva dell'ardente amor divino il quale assorbe d'un subito in sé la creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio, si può raggiungere pedagogicamente in grado meno splendido «col solo riverire la verità, quella verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la difficoltà di misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di qualsiasi maggior pregio che ci elevi sopra di essi» (p. 77). Ogni cosa nel mondo dello spirito è frutto di umiltà, le grandi opere «sorsero sempre in un'ora di umiltà, ossia d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa che era fuori di noi. Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata umiltà verso la scienza, l'arte, la patria, l'umanità o che so io» (p. 81). La filosofia qui rincalza la religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di sottoscrivere queste parole. Il concetto pagano della immortalità come gloria è tramontato irrevocabilmente appunto dopo il sorgere del concetto cristiano della umiltà.  Questa introduzione dell'umiltà come principio fondamentale nel sistema della pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già abbiamo accennato, che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista il dovere di preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle sue immanenti leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa a rendere automaticamente l'uomo eccellente in tutti i  campi della scienza, dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del curriculum pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà cristiana sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto e a renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza di fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di avvicinarsi quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del carbonaio. Non fa nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio e delle discipline umane; al solito, noi non possiamo «tentare Iddio» pretendendo ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che solo in casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché, tratte le somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di addottrinare l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di rivolgere la sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una cultura religiosa quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto acume il Crispolti, la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani alla fede, fra l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita intellettuale. «Le quali sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure non valgono a salvarla da tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in cui fu di moda la formula stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola che si apre è un carcere che si chiude "; ci salvano... dai gusti bassamente viziosi; moltiplicano i nostri rapporti con le cose, ossia il nostro senso del vivere; procurano all'uomo una esplicazione dell'attività ed un interessamento che unico dura oltre la giovinezza e la maturità degli anni » (p. 137). Ch'è, in fondo, lo stesso principio della cultura come disciplina dello spirito su cui si fonda la pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto con una osservazione che meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede pedagogica. Il sapere è certo un potentissimo esercizio di superamento dei propri impulsi particolari a beneficio d'una legge superiore, ma può esso bastare da solo alla formazione del carattere morale? Il cattolicesimo e la Chiesa hanno da molto tempo risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema di pratiche dirette precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli esercizi spirituali di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve parentesi, il Crispolti ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei grandi pedagogisti che, cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad esempio, di Froebel o della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza d'una elaborazione dottrinale, filosofica della religione, che insegni all'uomo a credere «secondo spirito e verità» è certo ch'essa va preceduta dalla conoscenza immediata della religione stessa in tutto il suo complesso di riti, culti, precetti e loro applicazioni; così come lo studio della filologia non può nascere se non dalla diretta conoscenza e dall'uso delle lingue. La religione deve, per usare un'espressione cara a quei grandi pedagogisti, crescere con l'uomo stesso: essere sentimento, pratica, culto, prima che filosofia o teologia. Argomento sempre importante per quanti, come noi, vogliono nella scuola un insegnamento religioso vero e proprio che cominci col catechismo e credono un assurdo sogno illuministico quello di assicurare l'educazione religiosa a una vaga religiosità circolante un pò dappertutto nella vita spirituale.  Qualcosa di simile al già detto per la cultura intellettuale, ripetasi per la cultura estetica ove il principio dell'umiltà riceve un'altra importante applicazione pedagogica nella lettera su i pericoli della letteratura apologetica nuova. Ove il Crispolti ha avuto sott'occhio i gravi pericoli cui può andare incontro oggi una letteratura o una poesia che dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai propri motivi d'ispirazione, anche una presunzione della propria superiorità su l'altra letteratura o poesia non cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui il cattolicesimo non ha, oggi, poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un D'Annunzio o ad un Pascoli? La ragione è sempre la stessa: pretendono gli artisti cattolici «di poter ricevere o tradurre nelle opere le ispirazioni artistiche (della fede), senza nessuno sforzo da parte loro». Tutta la fatica, secondo loro, dovrebbe farla Iddio. Pretendono quindi che ogni opera di soggetto religioso, purché lastricata di buone intenzioni, ottenga il favore della critica a preferenza di opere anche elaboratissime di autori profani od avversi. Quando poi debbono essi stessi confessare che i Canti di Leopardi così lontani dal Cristianesimo, valgono più dei canti loro, non sanno come raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede abbia fatto torto a se stessa. Non si rassegnano a riconoscere di non aver fatto verso la fede tutti gli sforzi di dottrina e di meditazione, necessari a rendersi i degni interpreti di lei. Non si piegano a confessare che non è colpa della luce ma della deficienza o pigrizia loro, se anche questa volta «i figli delle tenebre» sono stati più prudenti dei figli della luce (p. 163). Ciò è quanto dire che, dal punto di vista pedagogico, anche l'attività estetica ha bisogno d'un apposito tirocinio dal quale nessuna fede religiosa può dispensarci. Ma la seconda applicazione dello stesso principio che nel campo estetico fa il Crispolti, viene esplicitamente incontro a quanto il pensiero moderno in sede filosofica e pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si pensi che la degenerazione dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente ridurre la cultura estetica a una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte a far colpo sul lettore o di esempi di “bello scrivere” contro cui la critica moderna ha tanto combattuto, è sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto opposto all'umiltà cristiana: della vanità che ai pensieri veri e alle convinzioni sincere, preferisce i pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti. Umili perché casti «parchi e lontani da tutti quegli artifici che, piacendo ad un gusto passeggero, fanno così facilmente il nido alla vanità» gli scrittori classici: umili tutti coloro che non pensarono a scriver bene, ma «presi da alti pensieri, da alti affari o da alti scopi morali, ossia tanto assorbiti dalla gravità del proprio tema che la parola si facesse umile innanzi a quello» (p. 158) riuscirono, perciò solo, necessariamente grandi scrittori. E inversamente, grandi scrittori sono non soltanto quelli che fecero professione di letterati, bensì «uomini in qualunque campo grandi, cioè tali, che a qualche cosa di superiore la loro parola abbia dovuto umilmente ubbidire» (ibid.): talché, per esempio, i Francesi bene hanno fatto a far rientrare fra i classici della loro letteratura anche San Francesco di Sales e Napoleone. Una siffatta riforma della storia letteraria sulle basi dell'estetica moderna quale si è affermata dal Croce in poi avrebbe in più per il Crispolti questo di interessante nel senso cattolico: che giustificherebbe l'introduzione dei grandi santi a maestri d'espressione letteraria oltrechè di vita.  Ma sopratutto interessante in queste osservazioni che il Crispolti viene con tanta finezza facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli molto spesso arriva a toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal pensiero pedagogico e filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero una conoscenza diretta ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera su Le precauzioni intellettuali contro gli errori religiosi, in cui  nel parlare delle ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il positivismo e lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico postkantiano). Ciò riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento se anche qua e là porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone degli esempi, scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere pedagogiche. Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la morale, il Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina il fine della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i mezzi per attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile incertezza data dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini, delle situazioni spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In linguaggio più propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre sospesa a una concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato quello che il nostro chiama appunto «il fine». Ma ciò non implica soltanto superiorità gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia. Poiché il legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica e con tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e la filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da preoccuparsi, cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere possibile la educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe mai accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente predestinazionista del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da lui dato ai problemi pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da quel punto di vista non è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare di educazione. È questo proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle questioni recentemente dibattute nel campo filosofico sui rapporti della pedagogia colle scienze filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente altrove, nella lettera tredicesima ove, a ragione, combattendo la falsificazione delle idee intorno al fanciullo che una grossolana psicologia ha introdotto nei metodi educativi moderni, egli pone la mano su una questione importantissima, e vi sorvola su senza approfondirla. Si deve sfruttare la capacità intuitiva e immaginativa del fanciullo per introdurlo al più presto nel mondo spirituale degli adulti, oppure val meglio cominciare con l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo fanciullesco? Sia il caso del linguaggio: «voi vedrete — dice il Nostro — che in tutti i luoghi e in tutti i tempi, i genitori, invece di valersi immediatamente di questa disposizione meravigliosa per abituarlo a pronunziare le parole esattamente conversano con lui ripetendogli le parole storpiate ch'egli incomincia a pronunziare» (p. 132). È il principio del “punto di partenza” da trovare nell'animo dell'alunno. Ma il Crispolti, con queste sue parole, viene a dubitare che esatta conseguenza di quel principio sia l'identificazione assoluta del mondo spirituale del fanciullo con quello dell'adulto, come vorrebbe la pedagogia idealistica moderna, per la quale il mezzo più sicuro di educare il fanciullo è quello di imporgli decisamente - sia pur con le debite precauzioni - il mondo spirituale dell'adulto. Il Crispolti giustifica qui, in certa guisa, l'idea di un mondo fanciullesco, d'una letteratura per ragazzi e di altre simili cose respinte da alcune correnti della pedagogia moderna. Valeva la pena che egli approfondisse questo suo dissenso e ne sviscerasse bene le ragioni.  Ma queste piccolezze sono poi un niente, in confronto alla piacevole urbanità con cui il Crispolti profonde il suo ingegno intorno ad una quantità di problemi importanti, che il tirannico spazio ci vieta di discutere, come pur ci piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima di finire, di esprimere ancora un consenso e un dissenso. Un consenso per quanto egli scrive nella sua lettera ventunesima sulla cultura femminile. La quale, perciò che il  pensiero moderno ha proclamato, dopo il cristianesimo, al di là di tutti i preconcetti naturalistici, l'eguaglianza spirituale dell'uomo e della donna, non per questo ha cessato di essere un problema, per il complesso di funzioni e d'abitudini diverse da quelle maschili che fa della donna un essere, pur pari di natura e di valore all'uomo, ma che si presenta tuttavia fornito d'una sua specifica fisionomia di cui l'educatore non può non tener conto. L'aver dimenticato questo ha portato come effetto nella società moderna una duplice piaga che il Crispolti ben analizza: quella delle donne ignoranti da un lato, e quella delle donne pedantescamente saccenti dall'altro. Il che si deve appunto, secondo il Crispolti stesso, all'aver preteso di istruire, quando si è istruita, la donna, cogli stessi procedimenti scolastici che si erano mostrati efficaci per l'uomo, «come se tra i licei femminili e l'ignoranza non ci fosse nessuna via di mezzo». E invece non si è pensato alla differenza di abitudini mentali per cui l'uomo, presto distratto nella vita da un tumulto di nuovi interessi è più spregiudicato, reagisce con un salutare oblio all'eccessivo pedantismo del sapere scolastico, conservandone solo il nocciolo vitale, mentre la donna, più docile e più rinchiusa nei doveri domestici, si assimila dalla scuola il sapere con tutto l'apparato pedantesco con cui fu impartito. A questo inconveniente c'è, per il nostro un rimedio: dare alla donna nella scuola solo i primi indispensabili elementi, e lasciare all'educazione familiare e sociale la cura di fare il resto. «La più elevata e piacevole erudizione delle donne è quella acquistata involontariamente nella conversazione colla gente eletta. Per un padre colto che desideri le figlie colte non v'è miglior via; farle partecipare in modo insensibile e continuo alle sue alte occupazioni, svegliare in loro non soltanto l'intelligenza delle cose serie, ciò che è agevole; ma l'interesse verso di esse, ciò che è più difficile» (p. 200). Non importa se per questa via la donna non otterrà delle idee precise e collegate sistematicamente fra loro: per chi non debba proprio compiere un lavoro determinato in un certo campo dello scibile come l'uomo, il beneficio della cultura sta non nelle singole idee che dà, ma nella elevazione spirituale che procura all'animo; elevazione per cui la donna «non pretenda di scoprire né di classificare, ma giunga a compiacersi nella visione delle cose alte; non s'affanni a far camminare il mondo, ma possa accompagnarlo nel suo cammino, ad ocelli aperti e con amore» (p. 202). Giacché la difficoltà della cultura femminile è tutta qui, non nel far assimilare alla donna un certo contenuto, cosa di cui essa è tanto capace quanto l'uomo, bensì nel suscitare in essa il senso dell'importanza e del valore di ciò che studia; cosa assai più difficile. Istruire la donna «è una difficoltà non intellettuale ma morale; è una coltivazione non dell'ingegno ma dell'animo» (pp. 200 - 201). Osservazioni tutte giustissime e sulle quali con qualche ben intesa riserva, siamo d'accordo col Crispolti. La riserva, se mai, sarà questa: che vi sono donne nelle quali una eccezionale formazione interiore ha suscitato il bisogno di studi più alti, e alle quali perciò non è possibile rifiutare la stessa cultura dell'uomo, anche se esse siano per far valere in quella interessi tutti propri diversi da quelli dell'uomo e per occupare, nella repubblica delle lettere, un posto a sé. La stessa necessità di collaborare con l'uomo per fondare l'unità spirituale della famiglia, può render talora necessaria alla donna anche una completa cultura scolastica, giacché pur fra gli uomini ci sono in tal senso differenze, e ciò che basta magari alla moglie di un colto professionista avvocato, ingegnere ecc., può non bastare alla moglie d'un grande poeta, d'un celebre filosofo, d'un illustre scienziato, i quali di necessità richiedono alle loro donne una più robusta formazione mentale e una ben più vasta cultura per esserne anche soltanto accompagnati, seguiti, intesi nell'esercizio delle loro attività.  Ed eccoci ora al dissenso. Parlando della cultura e dell' arte pratica della vita, il Crispolti torna a proporsi indirettamente, per conto suo, la vexata quaestio dei rapporti fra teoria e pratica, pensiero e vita. E, naturalmente, vede da par suo la diversa formazione mentale richiesta agli uomini d'azione e agli uomini di pensiero, nonché la diversità di funzioni a cui gli uni e gli altri sono chiamati. Ma appunto questo poi gli suscita un dubbio: non sarebbe, per caso, la troppo intensa cultura intellettuale un grave ostacolo allo sviluppo del senso pratico? «Mi sto domandando se il guardarsi attorno intelligentemente senza posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto ciò che ci ferisce la vista, ossia il menare una vita intellettuale intensa, che debitamente frenata dalla ponderazione può darci frutti copiosi, originali e buoni nelle lettere e nelle scienze, non ci renda più inetti all'alta vita pratica, di quel che facesse la vecchia abitudine degli studi accademici e degli sfoghi retorici, nei quali la mente non osservava e si può dire non pensava, ossia non acquistava nessuna verità intorno al mondo e agli uomini, ma si contentava di baloccarsi colle parole. Probabilmente questa vuotaggine, funestissima alle scienze e alle lettere, lasciando in riposo e come da parte la capacità quasi istintiva di sapersi regolare cogli uomini e di saperli regolare, la conservava intatta» (pp. 191 - 192). E che ciò possa essere e sia, nel fatto, stato, anzi, che tutto ciò rappresenti la soluzione più spiccia del problema della cultura pratica, che nella maggior parte dei casi viene appunto risolto lasciando inaridire nell'uomo le opposte tendenze alla speculazione, va bene. Ma che possa diventare, sia pur a titolo d'ipotesi, un ideale pedagogico, no: le soluzioni più spicce non sono sempre, in educazione, né le più efficaci né le migliori. Il Crispolti qui si è fatto prender la mano, mi sembra, dalla natura stessa degli esempi che arreca a conforto della sua tesi: d'un Cavour, d'un Bismark, d'un Napoleone che, pur forniti di mediocri attitudini alla scienza e d'un mediocre sapere in materia di dottrine politiche, riuscirono più vastamente pratici ed efficaci nel governo degli uomini, di altri magari più di loro valenti nel campo dottrinale, sia pur della cultura politica stessa. Dove giusta è l'osservazione, ma ingiusta la conseguenza pedagogica che il Crispolti sospetta se ne possa trarre. Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima questione se davvero quegli uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se, invece, la vera cultura politica non fosse proprio da parte loro e da parte degli altri soltanto l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione. Limitandoci, invece, solo agli aspetti del problema che possono offrire qualche maggior interesse di novità, il Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo un criterio per scoprire il punto di vista sotto cui la innegabile grandezza di quegli uomini ci si rivela inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX infatti (per restringere solo ad esso il discorso) produsse queste grandi personalità tutte assorbite dal fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o addirittura diffidenti ed ostili verso ciò che non interessasse la loro opera pratica (si pensi allo spregio di Napoleone verso gli « ideologues »!). E che siffatte personalità dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione storica, non è dubbio. Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi stessi, prima o poi, rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi barbarica e pagana consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del dominio, dell'imperio divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che innanzi alla morte di Napoleone si domanda: «fu vera gloria?» e non sa rispondere se non col rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra fra due secoli, due volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in fine, là, «dove è silenzio e tenebre la gloria che passò»: lo sgomento del Manzoni temperamento insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove si pensi che cristianesimo e modernità bene intesa  sono in ultima analisi concordi nel richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di ricordarsi anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo e volontà di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e raccoglimento interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio del pensiero, che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie aeternitatis, potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e sugli altri, ma finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il senso dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire ad una realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere restano edificate sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre unilateralità e unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un limite, sia pur ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di grandezza è andato, del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è consueto lamento, innanzi alle situazioni storiche intricate, che ahimè non nasca più un Napoleone per districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta parte all'esagerazione e tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o poi, i suoi grandi uomini, c'è questo di vero, che la qualità di grandezza politica richiesta nel complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma di grandezza più umile, meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per questo meno reale. È grandezza più, nel buon senso della parola, democratica, che aspetta meno dalle personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di ciascuno, dalla illuminata dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità per ciascun uomo di scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio per sobbarcarsi a compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica gl'impone; è la necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di fare gli sforzi richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui bisogna operare. Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la democrazia e l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno attraversato le grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura e semplice capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli ricorderò che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche con un opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il suo normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un subito in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della retorica accademica sembra al Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero e lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito altri pedagogisti - ad esempio il Gabelli - abbiano attribuito al genio italiano carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica come eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle doti pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia difficile raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si sono venuti formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma ciò dimostra anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir delle grandi personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un singolare  incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi personalità sono spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente individualiste: la loro attività politica si consuma in sé stessa come un sogno, o come - fu già notato a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte che non ha risultati fuori della sua bellezza; raramente si inquadrano nell'armonico insieme d'un sistema che le perpetui e le fecondi. E in quanto esse ci offrono siffatte deficienze, dimostrano appunto che l'abitudine della retorica fu, in ogni campo, teoretico e pratico, un difetto dello spirito europeo e non solo italiano. Giacché v'è una retorica della pratica, consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per sé sola, finisce col non esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima una religione e una filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio dell'eroismo, della Realpolitik, dell'astratto machiavellismo, che noi moderni ben conosciamo sotto tutte le possibili forme e ch'è una concezione unilaterale della realtà in servigio dei puri fini pratici, la quale deforma coi suoi schemi ciò che lo stesso sano istinto pratico (che non è mai praticistico) ispirerebbe. Significa ciò, forse, che bisogna trascurare una cultura specifica delle attitudini pratiche? No certo: significa solamente che l'educazione ha da formar tutto l'uomo, e che attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono essere e sono, distinte, ma non è possibile, né desiderabile, che diventino opposte.  Non è ancora spenta l'eco delle discussioni suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione dell'Istituto fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi autorevolissimi (come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato il loro contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel quale è meglio che le competenti autorità politiche e religiose siano lasciate libere di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni altra minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che «I Diritti della Scuola» hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in materia, sia pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la scuola, e la scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi aggiungiamo, sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se così può dirsi, a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto garbo e molta cortesia - dalla Rivista romana.  Notano, dunque, «I Diritti della Scuola» che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende ancora la sua definizione precisa. A norma del decreto 1 Ottobre 1923, doveva trattarsi, come pare ovvio, d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica. Ma i programmi didattici, e la circolare dell'on. Gentile del gennaio 1924 sembrano invece, al redattore de «I Diritti», ispirati a una ben diversa concezione. Non «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo» ma «poesia e quasi canto della fede», doveva essere l'insegnamento religioso; e non più la Chiesa, ma l'opera religiosa del Manzoni e le figure più edificanti del suo romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E il significato di quelle espressioni è, sempre secondo i «Diritti della Scuola», molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: «La tendenza era dunque sempre più verso una educazione religiosa che parlasse  al cuore del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua dei sentimenti più puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé e per gli altri. Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella sua veste letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il proiettare la luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il fanciullo dovrà percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a poco l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia, nei dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo catechistico, anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal sacerdote; e poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre il giudice del maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come la religione si impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e forse non deve) dalla lettera dei sacri testi».  Noi non vogliamo rivolgere a «I Diritti della Scuola» alcun rimprovero: le stesse cose sono state dette tante altre volte, e con intonazione assai meno cortese, che, quanto alla forma, noi, e con noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da eccepire. Ma è impossibile trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro forma deferente e garbata, quelle parole celano una sostanza ben amara per la religione Cattolica e per i suoi ministri. L'argomentazione de «I Diritti » si basa tutta su un presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso come incontrovertibile verità, della quale nessun uomo, sano di cervello, potrebbe minimamente dubitare. Ecco il presupposto: la «teologia», la «liturgia», i «dogmi» e i «misteri» costituiscono, non già la religione ma un suo «irrigidimento»: il catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della fede cattolica, ma un «arido dialogo», e l'uno e gli altri sono poi assolutamente incompatibili con l'«anima ingenua», le «aspirazioni sante», i «sentimenti puri» del fanciullo e dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui egli è ministro non possono portare nella scuola che «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo»: se volete la «poesia» e il «canto» della fede, dovete rivolgervi altrove. Non c'è, dunque, che prendere o lasciare. Se tenete il decreto Gentile 1 Ottobre 1923, insegnerete la religione secondo la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, cioè con tutto il bagaglio del Catechismo, della Liturgia, della Teologia, ecc. - ma avrete l'«arido dottrinarismo» che si voleva evitare. Se v'appigliate, invece, ai programmi didattici o alla circolare del Gennaio 1924, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e l'anima ingenua, ma vi converrà gettare a mare la Chiesa, i sacerdoti, la teoria, la prassi e l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni così diverse ed avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con molto rispetto ma con molta fermezza, «I Diritti della scuola».  Ripetiamolo ancora: sarebbe ingiusto addossare a «I Diritti» la responsabilità d'un cuore così largamente diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a un pregiudizio che, duole il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi cattolici. La liturgia, arido formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al canto! La teologia opposta ai sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma brava gente - verrebbe voglia di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai sfogliato un breviario? Avete mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo, assistito non come vi assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone davvero, intimamente, tutte le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale è fatto delle sacre scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre scritture sono i libri biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli apostoli, le epistole di San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più begli inni cristiani e via discorrendo? E non vi pare che come «poesia» e come «canto» ce ne sia abbastanza da scegliere, anche per le  persone di più difficile contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua opera; ciò nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano a loro modo «poeti» non certo inferiori al grande nostro italiano: il quale, del resto, appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta cultura profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione dei suoi Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre scritture è accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è evidente che nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una volta, o tutta collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è solo nelle parole: è nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e degli assistenti, nel colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del tempio, elementi organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che riescono quanto mai plastici, sensibili ed «intuitivi» e parlano all'animo anche delle persone più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli elementi sono proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato d'animo cui si riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia, quelle della Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste, colla loro trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro pensoso raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa serenità costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la natura medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione. Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo «intuitivo» e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei suoi templi e il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi illetterate quando ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali e poeti erano di là da venire!  Certo, la conoscenza assidua e amorosa della liturgia non è, neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe desiderare. Ma il movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile zelo e delle autorità ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va facendo ogni giorno progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società francese di San Giovanni Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele Caronti per la volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei molti, ottimi testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto opportunamente, una parte notevole. Per gli amatori di «curiosità» pedagogiche ricorderemo gli esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo Montessori; la partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa, mediante un'offerta che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il grano e la vite coltivati, pure dai fanciulli, come materia delle specie sacramentali, e via dicendo. Tutti espedienti, senza dubbio, utili e giovevolissimi, ma che sono ben lungi dal costituire, come forse taluno potrebbe credere, una novità rispetto alla teoria e alla prassi della Chiesa, che ha sempre chiamato i fanciulli al servizio degli altari, come si può vedere persino nelle più remote parrocchie dei più remoti villaggi: anche senza le panchettine, le pilettine, gli inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario a scala ridotta del metodo montessoriano.  E passo all'altro, apparentemente più scabroso argomento della «teologia» o del «catechismo», che sarebbe, in fondo, una teologia elementare per fanciulli, come la teologia è un catechismo degli adulti. Ora, la teologia è il pensiero di cui la liturgia è la esterna e multiforme espressione, è l'anima di cui la liturgia è il corpo. Evidentemente, chi ignora l'una non può afferrar bene  l'altra, a meno di non essere un filosofo o uno scienziato così abituato a muoversi fra i concetti puri, da potervisi collocare stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e anche allora l'ignoranza della liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei mezzi che la Chiesa ha messo a nostra disposizione appunto per comprendere e praticare la sua dottrina) produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in fine l'uomo, anche scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di anima e corpo, di senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di sorreggere il proprio pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque, facilmente, che presso coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o comunque hanno trascurato di completare la propria cultura religiosa con una buona cultura liturgica, il catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia, cioè, quell'impressione di arido formalismo e di dottrinario schematismo che tanto dispiace, e nella scuola e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze dell'anima infantile. Ma ricostituite quella unità che avete spezzato: ricongiungete la teologia alla liturgia, secondo, appunto, la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, e le verità del catechismo, aride in apparenza, si vestiranno dei più smaglianti colori: diverranno verità, non solo, apprese o ripetute a parole, ma vissute, sentite, amate, alle quali neppure l'anima del più rozzo analfabeta saprà rimanere insensibile. È difficile il concetto della transustanziazione? Eppure anche il fanciullo e la donnicciola cantano e sentono il Pange lingua. È difficile l'idea della resurrezione della carne? Eppure nessuno, che non sia un idiota o un deficiente, può ascoltare senza fremere le parole del vangelo giovanneo, dette dal sacerdote: Ego sum resurrectio et vita.  Questo non vuol dire, d'altra parte, che anche il catechismo puro e semplice non possa dì per se stesso costituire la base d'un insegnamento vivo, agile, plastico, "intuitivo" ed "attivo" condotto secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta nel modo con cui viene insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla carta, costituito da tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità l'aritmetica perché, nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi o le definizioni nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto dell'insegnamento, il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo, la via, o il punto di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica odierna ha una quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni inerenti al metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state discusse e trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani, le interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa la didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con imparzialità e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione catechistica impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero attendere, la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi una società come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza di qualsiasi didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del maestro troveranno sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in abbondanza anche per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che le massime, gli esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo spesso indifferenti o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le definizioni catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il segreto per avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di poesia, e perciò armonica ai  fondamentali bisogni dell'animo infantile, sta non nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento genuino della Chiesa.  Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione fra il decreto Gentile del 1 Ottobre 1923 e la circolare del Gennaio 1924 dello stesso ministro, o i programmi didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto dare al fanciullo la "poesia", il "canto" e tutte le altre belle cose annesse e connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del Manzoni, il laico così geloso della propria ortodossia, da riuscir più ortodosso di molti sacerdoti suoi contemporanei, quali, poniamo, il Lambruschini o il Gioberti. Che se contraddizione c'è stata fra il decreto e la circolare, o il decreto e i programmi, essa è stata piuttosto nella mente del loro autore che nella realtà delle cose e appartiene, dunque, alla storia della cultura o della filosofia italiana e non a quella della legislazione scolastica. Il cattolicesimo, non è il protestantesimo, e perciò sarà sempre un osso troppo duro pei denti dei filosofi volenterosi che si proveranno a maciullarlo e a convertirlo in poltiglia per uso delle loro costruzioni metafisiche. Sotto questo aspetto, la nota de "I Diritti" è, per noi, molto significativa e confortante: è il sintomo d'un grandioso insuccesso, da parte di chi aveva creduto poter introdurre il cattolicesimo nella scuola, come veste mitologica inferiore d'una verità filosofica che, più tardi, lo avrebbe superato e divorato. Dal 1923 sono passati cinque anni e il cattolicesimo, ben lungi dall'essere “superato” è lì, colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi dogmi e i suoi misteri, che minaccia gravemente di "superare" gli altri e di mangiarsi in due bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali sta contendendo energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che pure s'erano riservate. Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti " hanno tutte le ragioni d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore davvero, la sorte delle filosofie "evolute": il che, sinceramente, non auguriamo. La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary. Il problema della dialettica oxoniense suscita una difficoltà. Il chiedere soltanto come è possibile che il tutore (Socrate) comunichi al tutee (Alcebiade) una determinate cattitudine psicologica sembra implicare, se non addirittura una contraddizione, certo un paradosso quasi insormontabile, dato che il termine "tra-smettere" o "co-municare" o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione di Socrate su Alcebiade ("conversare") non sembra possa riflettere, se non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo filosofico. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale o corporale, o fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse "co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense *ciò che* si "tras-mette" è essenzialmente un valore ideale, immateriale, non-fisico, spirituale, come la scienza, la cognoscenza, la virtù, un contenuto proposizionale, un complesso proposizionale non-naturalistico. E questo complesso proposizionale (in parte sensibile) tanto poco si lascia «tras-mettere», nel significato explicito dell'espressione (Latino, mettere trans), poiché il complesso proposizionale ha la sua base percetuale, come Peacocke nota, in un atto interno della mente del soggetto Socrate. E un atto di tal genere è tanto impossibile "tras-portarlo" dall'anima del soggetto Socrate all'anima dell'altro soggetto Alcebiade, quanto è impossibile che il soggetto Socrate trasmetta ad Alcebiade ciò che costituisce la sua intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade!  XI suo soggiorno in Italia*    Terminata la sua opera, Schopenhauer non si decise a tornare nel  Nirvana, come torse si sarebbe potuto credere; al contrario senza nem¬  meno aspettare le prove di stampa, egli partì pel paese più bello e più  ottimista che vi sia sotto il sole, per la. véna terra promessa, per il  paese dei paesi, per la bella Italia, Con ragione si è detto che ! abitu¬  dine di vedere la vita in nero, sparisce e sembra innaturale sotto il cielo  splendido d’im paese meridionale. Dintorni poco graziosi spesso di¬  ventano Ja causa d’un falso pessimismo; ma de v ? esser genuino il pes¬  simismo che persiste anche in un ambiente bello ed incantevole. Il fatto  che Schopenhauer non ismani il suo pessimismo è una prova convin¬  cente, se prova ci vuole, che il suo pessimismo era sincero. Questo  pessimismo era piuttosto comprensibile nel freddo settentrione; ma é  un altro conto ritenerla in mi paese ove tutto sorride, ove la natura  stessa c* invita a prendere con leggerezza resistenza ed a gettare lon¬  tano da noi ogni cura, ove Paria stessa respira la leggerezza di cuore,  ove il dolce far niente è il programma di vita degPindigeni,   T resoconti del suo viaggio in Italia sono tutt ? altro che blandi.  Schopenhauer, più si faceva vecchio, pili si rinchiudeva in se stesso,  e non vi sono nè giornali nè lettere che possano colmare questa lacuna  nella sua biografia. D’ora innanzi era il suo espresso desiderio di sfug¬  gire alla pubblicità. Non voglio che la mia vita privata formi mPesea  « per la curiosità fredda e maliziosa del pubblico », così rispose molti  anni più tardi a coloro che lo esortavano a fornire maggiori informa’  zioni su se stesso ai dizionari biografici. I suoi notiziari presero il posto  del giornale, ma siccome contengono piuttosto riflessioni suggerite  dagli avvenimenti senza raccontare .questi, non spargono sugl 5 incidenti  del suo viaggio che poca luce.   Schopenhauer attraversò le Alpi persuaso d 3 avere scritto una gran¬  d'oliera per Pumanftàp stava ora ad aspettarne il risultato. Non era  tanto indifferente in quanto alla accoglienza della sua opera quanto  voleva far credere.   Il trattato sulla Quadruplice Radice era stato ben accolto dai critiei, -ed. aveva chiamato all 5 autore l’attenzione generale più di quanto  sogliono farlo le dissertazioni universitarie; era giustificabile che spe¬  rasse che la sua opera maggiore dovesse suscitare almeno lo stesso in¬  teresse. Egli corresse le prove di stampa che gii furono mandate ed  a petto k pubblicazione, sfogando intanto i suoi sentimenti in linguag¬  gio poetico.   Unv er schami e Vers e.   A us ] anggehegten, tiefgefuhlten Schmerzen  Wand sich’s einpor aus meinetn innern Herzen,   Es festzuhaHen haMch lang gemngen,   I>och weiss ich, dasz zuletzt es mir gelungen.   Mogi Euch drtim irnrner, wie Ilir wollt, gebar cleri,   Des Werkes Le ben kòimt ihr nìcht gefahrden;   Àufh&ffieii kònnt Ilir's, mirini ermehr vernichterq  Ein Denkrnrj! wird die Nachwelt mir ernchten.   Nel frattempo visitava le principali città <MP Italia settentrionale;  frequentava i musei ed il teatro, continuando a studiare la lingua ita¬  liana die egli già sapeva assai bene. E* in Italia die egli s 5 invaghì cosi  profondamente della musica di Rossini, di cui andava spesso a sentire  le opere. Degli autori italiani egli predilìgeva, -— ed è questo un fatto  abbastanza curioso, — il Petrarca, il poeta di Laura e dell 5 amore.   « Fra tutti gli scrittori italiani, preferisco il mio caro Petrarca.  « Non vi e in tutto il mondo un poeta che lo abbia mai superato nella  « profondità e nell’ardore del sentimento; le sue parole vi vanno dritto  a al cuore. Per' ciò in preferisco i suoi sonetti, i suoi trionfi e le sue can-  a zoili alle follie fantastiche dell 5 Ariosto ed alle orrende contorsioni di  « Dante. Trovo il fiume naturale delle parole, che sgorgano dal cuore,  « molto più opportuno del linguaggio ricercato ed affettato di Dante,  a Petrarca è sempre stato e rimarrà per sempre il poeta del mio cuore.  « Quello che concorre a confermarmi nella mia opinione è il tempo  a presente, a quanto pare, tanto perfetto che osa parlare con disprezzo  a di Petrarca. T T na prova sufficiente sarebbe il confronto di Dante e  « Petrarca nel loro costume intimo e non ricercato, cioè in prosa, eon-  K frontando per esempio i bei libri di Petrarca, ricchi di pensieri e di  « verità, De \ ita solittì-rui, De Coafemptu mundi, De rimediu ufrius-  z que fortume eoe., colla scolastica sterile ed asciutta di Dante ».   Dante coi suoi modi didattici non corrispondeva al gusto rii Scho¬  penhauer che considerava tutto Pinfenio come un’apoteosi della cru¬  deltà. ed il penultimo canto come una glorificazione della mancanza del  sentimento d’onore e di coscienza. Non aveva neppure alcun affetto per  Ariosto e Boccaccio; anzi più volte espresse la sua meraviglia in quanto  alla fama europea di quest’ultimo, il quale dopo tutto non aveva scritto  che Delle ehtonique.s scandaleuse*. Gli piacevano PAlfieri ed il Tasso, ma li considerava come autori tli seeoncVordine; egli non riteneva il  Tasso degno d'essere posto come quarto in una linea coi tre grandi poeti  italiani.   Per quanto riguardava Parte, egli si sentiva maggiormente attirato  dalla scultura e dall'arekitettura che dalla pittura. Ciò non potrebbe  sorprendere e non sarebbe in contraddizione coll 1 indole generale della  sua mente* se la sua intimità con Goethe non lo avesse fatto entrare  nello studio dei colori.   Schopenhauer non volle mai ammettere che i due anni possati in  Italia fossero stati per lui due anni felici, sosteneva, che mentre gli altri  viaggiavano per divertimento, egli lo faceva per raccogliere nuovi ma¬  teriali in appoggio del suo sistema, e nel suo notiziario scrisse has-  stoma di Aristotile :   6 TQ aAuTCtfO orò TU fiSìl.   Però ricordava con piacere questi due anni, dico con piacere e s'in¬  tende fin dove Schopenhauer ammetteva il piacere; negli ultimi giorni  della sua vita non poteva mai menzionare Venezia senza che la sua voce  tremasse, il che prova che Pamore che ivi lo tenne stretto, non era inte¬  ramente dimenticato, sebbene fosse morto. Senza dubbio, la seguente  nota scritta a Bologna in data del 19 novembre 1818 tradisce qualche  contentezza.   « Appunto perchè ogni felicità è negativa, accade che non ce ne  « avvertiamo affatto, quando ci troviamo in uno stato di benessere; la¬  ti sciamo tutto passare dinanzi a noi liscio, e con dolcezza fino a che  tf questo stato è passato. La perdita soltanto* che ci si fa sentire con  « chiarezza, pone in rilievo la felicità, svanita; è allora soltanto che ci  a accorgiamo di ciò che abbiamo trascurato di assicurarci, ed il rimorso  « si aggiunge alla privazione, b   Schopenhauer fece il soggiorno piu lungo a Venezia- In quel tempo vi  era anche Byron, ritenuto esso pure da vezzi femminili. E J strano che essi  non s'incontrarono mai. Schopenhauer nutriva pel genio di Byron la  più grande ammirazione ed intelletti al mente entrambi sarebbero an¬  dati d f accordo. Egli non incontrò neppure Schelley, nè Leopardi. Un  dialogo secondo il modo di Leopardi in nni egli ed il giovane conte era¬  no confrontati, fu pubblicato nella rivista contemporanea del 1858, e  Schopenhauer non si diede pace prima che non sì fosse assicurato di  averne una copia. Gli procurò una vivissima soddisf azione il trovarsi asso¬  ciato col giovane che egli ammirava così profondamente (ed a cui, dicia¬  molo tra parentesi, Io scrittore De Sanctis, non ha reso giustizia); gran  parte della sua soddisfazione, proveniva vinche dal fatto die egli vedeva  elio la sua filosofia si era fatto strada fino in Italia. Non avveniva spes¬  so che egli fosse contento di quanto sì scriveva sulle sue opere, non tro¬  vava mai che lo avessero letto con sufficiente attenzione; ma quest 1 uo¬  mo, così diceva, lo aveva assorbito in sucóurn et tangm nem .Quando -Schopenhauer arrivò a Venezia per la prima Tolta, e pii  scrisse : « chiunque si trova repenti nani ente trasferito in un contrada  « totalmente straniera, ove prevale un modo di vivere e di parlare dif-  « ferente da quello a cui e pii è abituato, ha il sentimento di chi ina-  « spettata mente ha messo il piede nel F acqua fredda. Egli avverte su-  « bito la differenza di tempera tura, sente una forte influenza che agi-  « sce dal di fuori e che lo rende infelice; egli si trova in un elemento  « estraneo in cui non sa muoversi comodamente, A questo si aggiunga  « che egli si accorge come ogni cosa attira la sua attenzione e che teme  « di essere a ne Ir e gl i osservato da tutti. Ma dal momento che si è eal-  « maio, che ha incominciato ad assorbire la. nuova temperatura e ad  « abituarsi al nuovo ambiente, egli si trova bene come difatti si trova  « un uomo nell* a equa fresca. Egli si è assimilato a!1 J elemento, ed averir  « do perciò cessato di occuparsi della propria persona, rivolge la sua  a attenzione esclusivamente a ciò che lo circonda: ed ora, appunto per-  « che lo contempla con oggettività neutrale, egli si sente superiore al  « suo ambiente come prima se ne sentiva schiacciato,   « Viaggiando le impressioni dlogni genere abbondano, ed il nutria  s mento intellettuale ci viene in tale quantità che non ci rimane tempo  c per la digestione. Ci rincresce che le impressioni le quali si succedono  a rapidamente non possano lasciare una impronta permanente. In real-  tà però avviene qui quello che ci accade quando leggiamo. Quante  «* volte ci lamentiamo di non essere capaci di ritenere la millesima par-  «te di quanto abbiamo letto! W confortante però in ognuno dei due  « casi il sapere che ciò che abbiamo visto e letto, ha fatto sulla nostra  « mente un'impressione, prima d'essere dimenticato, impressione che  « concorre a formare e nutrire la mente, mentre ciò che riteniamo a  « memoria serve soltanto a riempire i vuoti della testa con materie che  « ci rimangono sempre estranee, perchè non le abbiamo mai assorbite;  « il recipiente dunque potrebbe anche essere rimasto vuoto come prima. »   Schopenhauer era d’opinione elle, viaggiando, possiamo riconosce-  re quanto areno radicate le opinioni pubbliche e nazionali., e quanto  sia difficile di cambiare il modo di pensare d T un popolo,   « Mentre cerchiamo d'evitare uno scoglio, ne incontriamo un altro;  « mentre fuggiamo i pensieri nazionali di un paese, in un secondo ne  « troviamo degli altri, ma non dei migliori. Il cielo ci liberi da questa  « valle di miseria!   « \ i a gg ian do veci i a m o 1 a v ita u ma n a s ot t o ni olle fori n e dive rs e :  « ed è questo appunto che rende i viaggi così interessanti. Ma, ving-  « g i a n d o, non v e d i a m o c he il lato esteriore del la v if a u ni a n a ; cioè ne  « scorgiamo soltanto quello che se ne vede generalmente. D'altra parte  « non vediamo mai la vita interiore del popolo, il suo cuore ed il suo  « centro, cioè il campo in cui Vazione del popolo si svolge, in cui il  «suo carattere si manifesta,,., quindi,, viaggiando, vediamo il mondo a come un paesaggio dipinto con un orizzonte vasto che abbraccia molte  <i cose, ma che non li a personaggi spiccati. Di lì, nasce pure la stan¬  tìi ehezza del viaggio. »   Schopenhauer studiò profondamente gl’Italiani, i loro costumi e  la loro religione. Di quest’ultima dice:   La religione cattolica è un ordine per ottenere il cielo mendicando,  giacche sarebbe troppo disturbo doverlo guadagnare. I preti sono i me¬  diatori di questa transazione.   « Ogni religione positiva dopo tutto non fa che usurpare il trono  « che per diritto spetta alla filosofia ; i filosofi quindi la coniti attera uno  a sempre, anche se dovessero considerarla come un male neccessario ed  « inevitabile, un appoggio per la debolezza morbosa della maggior pur-  « te degli uomini.   a La nuda verità non ha la forza di frenare le menti rozze e di co¬  te stringerle ad astenersi dal male e dalla crudeltà giacche esse non san¬  ti no afferrare queste verità. Di lì il bisogno di storne, di parabole e di  « dottrine positive. «   In dicembre ièlS la sua grande opera vide la luce per la prima  volta. Schopenhauer ne mandò una copia a Goethe. Poi nella prima¬  vera del 1819, egli si trasferì a Napoli; Goethe accusò ricevuta del do¬  no per mezzo di Adele Schopenhauer, una delle predilette del vecchio  poeta.   « Goethe ha ricevuto il tuo libro con grande piacere, scrive Adele,  a Egli immediata mente divise V opera voluminosa in due parti e cornili-  « ciò a leggerla. Un’ora dopo egli mi mandò il biglietto qui unito, di-  « eendomi che egli ti ringraziava molto e credeva che tutto il libro .do-  « vesso esser buono, giacche aveva sempre la fortuna di aprire i libri  « nei posti più notevoli; così egli mi disse d'avere letto le pagine indi-  « caie (pag. 22 e pag. 340 della prima edizione,) ed egli spera di po-  « ferii scrivere quanto prima la sua opinione completa. Intanto egli  « desiderava che io ti dicessi questo. Alcuni giorni dopo Ottilia mi dis-  « se che il di lei padre leggeva il tuo libro con un interesse che lessa  « fino allora non aveva mai osservato in lui. Egli le Ka detto che ora ave-  « va. un divertimento per tutto ranno, giacché intendeva leggere il tuo  libro da capo in fondo e credeva che ciò lo avrebbe occupato per un  « anno. Disse a me ch’egli si sentiva proprio felice di saperti sempre  « a lui devoto, nonostante il vostro disaccordo sulla teoria dei colori.  « Disse pure che nel tuo libro gli piaceva sopra tutto la chiarezza della  « rappresentazione e del linguaggio, sebbene la tua lingua differisce  da quella degli altri e che occorresse prima avvezzarsi a chiamare le  « cose come tu lo vuoi.   « ila, continuò, quando una volta si é pervenuto a queste, allora  « la lettura procede con facilità e comodo. Anche la disposizione della  « materia gli piaceva ; solfante la forma immaneggiabile del libro non  a gli dava pace, e si convinse che F opera dovesse consìstere di due vo-  a fumi* Spero di rivederlo solo ed allora egli mi dirà iorse qualche cosa  « di più soddisfacente ; ad ogni mudo tu sei il solo autore che Goethe  « legga in questo modo e con tanta serietà* »   Nondimeno Schopenhauer ritenne F opinione che Goethe non lo  legasse con sufficiente attenzione ; che il poeta avesse già speso il po~  co interesse che aveva per le questioni filosofiche*   A Napoli Schopenhauer fu principalmente in rapporto con giovani  inglesi. L’elemento inglese aveva per lui, durante tutta la sua vita, un  fascino speciale; credeva che gl"Inglesi erano quasi giunti ad esse)e  il più gran popolo del mondo, e che soltanto alcuni loro pregiudizi si  opponevano, acciocché infatti lo fossero. La sua cognizione della loro  lingua ed il suo accento erano tanto perfetti che anche gl T Inglesi stessi  per- qualche tempo lo prendevano per un loro cOmpatriftta, un errore  die sempre lo esaltava*   Tutto quanto vide, concorse a confermare ed a sviluppare il suo  sistema filosofico * Rimase specialmente colpito dal quadro di un gio¬  vane artista veneziano, Hayez, esposto a Capo di Monte ; di questo quadro  illustrava la sua dottrina per quanto riguarda le lagrime che, secondo  il nostro filosofo, si spargono sempre per compassione di sé stesso* Il  quadro rappresentava, il passo dell 1 Odissea, ove Ulisse piange alla Cor¬  te di re Alcinoo, il feaco, sentendo cantare le proprie sventure, « Questa  « è Fespressione più alta idi e possa avere la compassione di se stesso. »  Schopenhauer aveva oramai raggiunto la piena maturità e forza  dell’uomo. Secondò lui il genio dell’uomo non dura più della bellezza  delle donne, cioè quindici anni, dal ventesimo al trentesimo quinto*  & La ventina e la prima parte della trentina sono per Fintelletto quello  « che è il 'uose di maggio per gii alberi, questi durante la stagione prh  <t maverile emettono soltanto dei bottoni che poi diventano frutti* »  L’esteriore, di Schopenhauer doveva essere caratteristico, ma la sua bel¬  lezza stava nell 9 animo e non nella faccia; i suoi occhi vivaci, ed ardenti  anche nella vecchiaia, nella gioventù rischiaravano quella testa poten¬  te col loro sguardo acuto e limpido. Verso quel tempo un vecchio si¬  gnore* a lui perfettamente estraneo, gli si accosto in istrada per dirgli  che egli, Schopenhauer, sarebbe stato un giorno un grand’uomo* An¬  che un Italiano, che pure non lo conosceva, venne da lui e gli disse:  € Signore, lei deve aver fatto qualche grande opera; non so cosa sia,  a ma lo vedo nel suo viso* » Un Francese che alla tal)le cVhote, gli sede¬  va dirimpetto, ad un tratto esclamò: « Je ooudrais savori- ce qu il penr-  « se de nous autres j nous devom par altre hien ■ petit s à ses yeiux ! ?> Un  giovane Inglese rifiutò assolutamente di cambiare posto con le parole:  « Yoglio stare qui, perchè mi piace vedere la sua faccia intelligente. »  Nel riposo egli rassomiglia va a Beethoven; entrambi avevano la  stessa testa quadrata, ma il cranio di Schopenhauer dev’essere stato piu grande come lo prova la misura elle ne fu presa dopo la sua morie  e che recai un’idea delle prò pozioni straordinarie eli questa testa, E no¬  tevole la distanza che correva tra un occhio e V altro; egli non poteva  portare occhiali ordinari. Era di statura media, tarchiata e muscolosa ,  aveva le spalle larghe ; In sua bella testa era portata da un collo troppo  breve per esser bello* Capelli biondi e ricci Liti circondavano la sua fron¬  te e cadevano sulle sue spalle; quando era giovane, mustacchi biondi  coprivano la sua bocca ben formata, che coll'accrescersi degli anni  perdette la sua bellezza a misura che perdeva i denti. Il suo naso era  di bellezza speciale e cosi pure le sue piccole mani* Egli stesso faceva  una distinzione fra la fisionomia, intelletuale e morale à- un uomo; cer¬  cava la prima nelPocchio e nella fronte, la seconda nelle forme della  bocca e del mento. Era soddisfatto della sua fisionomia intellettuale,  ma non della sua fisionomia morale* Vestiva sempre bene e con elegan¬  za, il.suo contegno era aristocratico e leggermente altero. Portava Seni¬  li re V abito, cravatta bianca e scarpe; i suoi abiti erano sempre dello  stesso taglio senza riguardo alla moda, eppure egli non pareva mai stra¬  no, talmente aveva adattato il vestito alla persona. He il popolo in istra¬  da spesso lo seguiva collo sguardo, ne era causa il suo esteriore animato  dal fuoco dei genio, e non il suo vestito. Più tardi fu fatto il suo ri¬  tratto con la fotografia e colla pittura; la tradizione soltanto ci parla  dèi suo esteriore, quando era nel fiore degli anni virili.   Velia biografia, del laborioso antiquario e storico I. E. Bolline! tro¬  viamo runica menzione fatta del viaggio di Schopenhauer a Roma.  Allora era un'epoca di misticismo per Parte e per la religione della  Germania, epoca che produsse nella storia un Biniseli, nell’arte un  Cornelius ed un Qverbeck. I giovani artisti tedeschi, chiamati dal loro  console ad ornare la di lui villa sul monte Pine io, avevano l'abitudine  di riunirsi quotidianamente con certi poeti e giornalisti nel caffè Greco,  diventato il punto d'incontro per tutti i Tedeschi di Bontà. Il poeta  Ruekert ed il novelliere L, Schefer, ottimisti per professione, frequentavano allora quella casa. Molti degli uomini più importanti della Ger¬  mania allora viventi, si trovavano nella eterna città. Schopenhauer,  come gli altri, frequentava il caffè Greco, ma pare che il suo spirito  mefistofelico fosse un elemento disturbatore per i visitatori ordinari  che desideravano che egli si allontanasse* Un giorno egli annunciò alla  società che la nazione tedesca era la più stupida di tutte, ma che era  in un punto a tutte superiore, cioè che era arrivata al pùnto di poter  fare a meno della religione. Questa osservazione suscitò una tempesta  ili disapprovazioni, ed alcune voci gridarono: fuori! alla porta met¬  tetelo fuori ! Dà quel giorno in poi il filosofo evitò il caffè Greco, ina  le sue opinioni sui Tedeschi rimasero inalterate. « La patria tedesca  * in me non si è allevato un patriota », disse un giorno ; e spesso anda dicendo ai suoi compatì lotti a francesi ed a inglesi che egli si vergoigmva di essere tedesco, piaceli è questo popolo era tanto stupido, a Se  « io pensassi così della mia nazione », rispose un Francese, « almeno  « non lo direi. »   « Questo Schopenhauer è un sala miste) (N&rr) insopportabile »,  scrive Bòhmer. « Questi filosofi antitedeschi ed irreligiosi, dovrebbero  « essere tutti quanti rinchiusi pei bene comune, »   Schopenhauer non menava una vita santa ed ascetica, uè pretese  die gli altri lo credessero. Egli sprezzava le donne; considerava ibi more  sessuale come una delle manifestazioni più caratteristiche della volon¬  tà; tuttavia non era dissoluto. Sospirava con Byron : «Più che vedo  « gli uomini meno mi piacciono; tutto sarebbe bene se potessi dire lo  « stesso delle donne. » Egli differiva dagli uomini ordinari, parlando  di ciò che gli altri sopprimono. I suoi discepoli troppo zelanti die cre¬  devano vedere qualcosa di divino in tutte le sue azioni, trassero alla  luce del giorno anche questi suoi discorsi e quindi attirarono sul maestro un’imputazione che egli non ha mai meritata. Le idee di Schopenhaner coincidevano con questa osservazione di Buddha ; « Non v ? è pas-  « sione più potente di quella dei sessi : di fronte a. questa nessun’ultra  «merita d’essere menzionata; se ve ne fosse un'altra di questa forza,  « per la carne non vi sarebbe più salute! » E di lì nacque senza dubbio il timore di Sdì operili auer « di non poter raggiungere il Nirvana »,  come egli disse con rincrescimento al dottor Grwinner.   In mezzo a questi trastulli leggeri colla bellezza femminile gli  giunse ad un tratto la notizia che V antica ditta di Danzi e a, in cui era  implicata gran parte della sua sostanza e tutta quella di sua madre, era  minacciata di bancarotta. Senza indugio si trasferì in Germania; ia  perdita del suo avere era il male che Schopenhauer temeva maggior-  mente., il male che egli sapeva di poter sopportare più difficilmente,  tenuto calcolo del suo temperamento. Egli non era adatto a guada'  gnarsi il. pane; la sua intelligenza non era di quelle che si possono dare  in affitto. L’indipendenza materiale che egli aveva ereditata gli parve  sempre uno dei più grandi beni della sua vita, dacché s ! era tutto dedicato a suoi studi. Nei Par erga, sotto il titolo V on (lem was Einer hai , egli scrive : Non. istimo indegno della mia penna di raccomandare hi cura  « della fortuna che si è acquistata per lavoro o per eredità. E 5 un van-  « faggio inapprezzabile il possedere fin da principio quanto occorre per  « vivere, sia anche solo e senza famiglia, comodamente ed in vera im.1L  « pendenza, c 1 o è se iiz a 1 avocar e ; quèsto stato rende huomn esente ed  « immune dalla privazione e quindi dalla servitù universale, sorte caie ninne dei mortali. Colui soltanto che dal destino fu favorito in questo  « modo è veramente nato uomo libero, giacché soltanto egli è vwr j.arix,  « padrone del suo tempo e delle sue facoltà e può dire ogni mattina ; il  « giorno è mio. Per questa ragione la differenza tra colui che hn mille ai    a scudi d’entrata e colui clie ne La centomila- è molto minore di quella  « che corre tra il primo e colui che non La nulla. La fortuna ereditari si  « acquista un sommo valore, quando cade in mano ad un uomo il quale,   « dotato di capacità intellettuali d’ordine elevato, segue tendenze in-  « compatibili col lavoro pel pane quotidiano. Tale uomo ricevette da!   « destino un doppio corredo e può vivere pel suo genio; ma egli coni¬  ti pensa cento volte il debito contratto verso- V umanità, effettuando cosa  « che nessun altro potrebbe effettuare, e producendo qualcosa pel bene  « ed anzi per V onore comuni, TTn altro in questa condizione privile-  « gìata con tendenze filantropi eh e saprà meritarsi la gratitudine d elee l’umanità. D’altra parte sarà un pigro spregevole colui che si tro¬  te va in possesso d’ una fortuna ereditaria e non cerca in nessun modo,   « neppure acquistando a fondo qualche scienza, di rendersi utile all’umanità, »   a Questo ora- è riservato al più alto grado di perfezione iute Ilei-  ft tuale che noi al solito chiamiamo genio; il genio solo si occupa escili-  sivamente dell’esistenza e della natura delle cose, per poi esprimere  a i suoi concetti profondi, secondo la propria inclinazione, per mezzo  <* dell’arte, della poesia e della filosofia. Pei uno spirito di questo ge-  « nere il commercio non interrotto con sé stesso, co’ suoi pensieri e colle  « sue opere è un bisogno urgente. Ad esso è cara la. solitudine, e l’ozio è il suo bene maggiore; il resto non gli è indispensabile, anzi talvolta gli è gravoso. Di tal uomo soltanto possiamo dire con ragione che  « abbia in sé stesso il suo punto di gravità. Cosi si spiega perchè queste  « persone tanto rare, anche se hanno il miglior carattere del mondo,  « non mostrano per gli amici, per la famiglia e pel bene comune quella  a -simpatia ardente ed illimitata, di cui dispongono tanti altri; giacche  « dopo tutto possono consolarsi d’ogin cosa finché hanno sé stessi* In  « loro vive un elemento d'isolazione tanto più attivo quanto meno gli  «altri possano dar loro soddisfazione; questi altri uomini, essi non li  « considerano interamente come loro pan; e dal momento che corniti-  « ciano a vedere che tutto a loro è eterogeneo, prendono l’abitudine di  « camminare in mezzo agli nomi ni, come se questi fossero esseri da loro  « diversi; nei loro pensieri ne parlano come di terze persone, dicendo:  « essi, loro , e mai noi. « Tln uomo munito di questa ricchezza interiore non chiede al mondo esterno nulla, all* infuori d'un dono negativo, cioè la libertà di svilappare e di migliorare le sue facoltà intellettuali, di godere la sua  « ricchezza interiore, vale a dire di essere interamente a sé in ogni gioì « no. in ogni ora e durante tutta la sua vita. Quando un uomo è desti-  « nato a lasciare l’impronta del suo intelletto all’intera razza umana,  « egli non può conoscere che una sola gioia, cioè quella di vedere le  « sue facolt-a riconosciute e di trovarsi in grado di compiere l’opera  e sua; oppure un rammarico e cioè d J esserne impedito. Ogni altra, cosa  « è insignificante ; e intatti troviamo clic in tutti i tempi le menti più  *; elevate abbiano pregiato sopra ogni altra cosa E ozio, ed il valore di  « quest'ozio equivale appunto al valore deli-uomo stesso. Volentieri Schopenhauer cita questa massima di Mienstone: la  libertà è un cordiale più fortificante del Tokay,   Pieno dei più cupi presentimenti egli si portò con fretta in  Germania, (tra zi e alla sua energia e alla siili diffidenza d ogni prò Fessio-  nej riuscì a salvare la maggior parte della propria sostanza. Sua in mire  non volle prendere consiglio,, e quando venne la catastrofe finale essa  ed Adele rimasero quasi senza un centesimo,   Questo incidente dimostra die Schopenhauer non era filosofo (/truche  e poco pratico; egli certamente non avrebbe inciampalo, guardando cri  ammirando le stelle ; al genio egli univa il senso pratico, una combina¬  zione molto rara, la cui origine egli faceva risalire a suo padre nego¬  ziante. Ed è questa qualità che fa di Schopenhauer il vero filosofo pei  bisogni d’ogrii giorno, lasciando da parte il -suo pessimismo. Egli aveva  vissuto nel mondo e non era uno di quegli studiosi che vivono rinchiusi nel loro studio ; egli conosceva i bisogni e le richieste del mondo i  suoi aforismi ed assiomi non sono troppo elevati per essere messi in  pratica s oltreché sono esposti in linguaggio chiaro ed intelligibile ed  esprimono spesso le percezioni d’ogni mente che pensa.   Though man a tlilnkmg being is ci e fine d,   Few use thè great prerogative oi minti;   How few thiiik jusUy oì thè tliiriking few;   II ow manv n e ver inmk, who think they do.   Sfortunata incute il loro numero è infinito ed a loro non occorre  nè filosofo, nè poeta, uè artista; ginstinti sono per loro nella vita una  guida sufficiente. Mario Casotti. Keywords: volere, sì che Socrate si tramuti in Alcibiade! Grice: “And perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” die welt as will –volere – filosofia fascista  -- la volonta di potere, un invento della sorella di Nietzsche che piaceva a Hitler ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casotti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Castelli   

 

 

Grice e Castrucci: l’implicatura conversazionale del guerriero indo-germanico -- sul conferimento di valore – filosofia italiana – Luigi Speranza (Monterosso al Mare). Filosofo italiano. Grice: “Castrucci is wrong.” Frequenta il liceo classico di La Spezia, iscrivendosi quindi all'Firenze, dove si è formato negli studi filosofico-giuridici e storico-giuridici alla scuola di Vallauri e di Grossi, laureandosi in giurisprudenza. Ha ricoperto in quell'ateneo il ruolo di ricercatore universitario di filosofia del diritto. A Firenze è entrato in contatto per un breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area di Autonomia Operaia espressa all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha scritto la sua tesi di laurea (Tra Stato di diritto e pianificazione, Firenze). Insegna a Genova e Siena.  I suoi studi riguardano principalmente la filosofia politica e la storia delle idee giuridiche, avendo come oggetto alcuni aspetti costitutivi della dimensione contemporanea, tra i quali si possono ricordare: i presupposti antropologici del politico; i fondamenti dello jus publicum europaeum, la critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua ricerca riguarda inoltre le origini e le forme del pensiero giuridico europeo moderno, la ricostruzione delle linee fondamentali della teoria dello Stato tedesca del primo XX secolo, le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell'Occidente. Castrucci ne ha sviluppato autonomamente la concezione del manierismo politico nei propri scritti sulla filosofia politica convenzionalista del XVII secolo. Nel corso della sua ricerca  ha approfondito in particolar modo filoni di pensiero riconducibili alla rivoluzione conservatrice europea, contribuendo inoltre alla diffusione nella giurisprudenza italiana del nomos della terra, con cura editoriale dello storico della filosofia di Volpi e di Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”, “forma”, “potenza” sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica europea di cui, nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo storico-genealogico e vengono indagate le implicazioni teoriche. La convenzione, o per meglio dire l’ordine giuridico convenzionale, è il concetto che corrisponde al modo in cui la razionalità giuridica affronta il problema di un ordine giuridico tecnico, artificiale, positivista, svincolato da quelle premesse di valore di tipo teologico o metafisico o naturale che avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea in questo senso la storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale e non naturale) nel quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco procede fino alla crisi della cultura del primo Novecento.  Accade in questo quadro che il primato classico dell'idea filosofica di forma venga sostituito da quello, tipicamente moderno, dell'idea di decisione. La decisione si contrappone così alla forma. Confrontandosi con i campi diversi della filosofia politica, dell'etica e della letteratura, l'analisi incontra figure significative di filosofi e scrittori come Benjamin, Musil, Valéry. Il complesso apparentemente discorde delle loro voci, che Castrucci analizza, porta all'idea di una forma elaborata su basi rinnovate rispetto all'impostazione “formalista” e “normativista” di ascendenza kantiana, a lungo prevalente nel campo dell'estetica e della teoria del diritto.  Nello sviluppo storico e genealogico dell'idea metafisica di potenza si possono infine riconoscere, secondo Castrucci, le linee di un'antropologia politica fondata su basi individualistiche (potenza come acquisizione di spazio, ossia affermazione individuale nella spazialità: Selbstbehauptung), che però non trascura il serio problemaposto nel corso del Novecento dalla migliore dottrina costituzionale tedescadel radicamento materiale e simbolico del singolo individuo nella comunità politica di appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia radicamento individuale e comunitario nella spazialità). Risulta evidente in tutto ciò il riferimento all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o radicamento, elaborata da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea di potenza già rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di Nietzsche.  L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di riconsiderare, seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica della cultura, una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea aveva concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi distoglierla "nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra questi problemi particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso filosofico di Castrucci, la ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche convenzionaliste, l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel pensiero di autori classici della filosofia tedesca come Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger e Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più recenti come Habermas, nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali di costruzione di un mito politico nell'età del nichilismo compiuto.  Hanno suscitato polemiche alcuni suoi tweet, a partire da uno pubblicato il 30 novembre  col quale si riferiva a figure storiche naziste come Adolf Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento di Castrucci "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo" e Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo la diffusione di questo tweet, ne sono stati portati in evidenza altri, ritenuti di matrice filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti nei riguardi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex Presidente della Camera Laura Boldrini. Replica affermando di aver semplicemente espresso un giudizio storico personale avvalendosi, al di fuori della sua attività didattica, del principio di libertà di pensiero e successivamente, in una memoria difensiva dei suoi avvocati, di non aver mai aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere un libero pensatore, sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente provocatoria e paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la grande speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena Francesco Frati ha preso le distanze da Castrucci, annunciando di aver "dato mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla gravità del caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in procura dopo aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole del docente, ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di negazionismo. Dopo la sospensione, Castrucci non si è presentato alla Commissione disciplinare dell'ateneo dichiarandola non legittimata a giudicare sul suo caso[33], mentre l'iter procedurale che avrebbe potuto condurre al licenziamento è stato bloccato in seguito alla richiesta di pensionamento presentata dal professore stesso. L'inchiesta penale è stata affidata per motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine convenzionale e pensiero decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e "Rechtsidee". Il pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè Editore); La forma e la decisione, Milano, Giuffrè Editore); Considerazioni epistemologiche sul conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione alla filosofia del diritto pubblico di Carl Schmitt, Torino, G. Giappichelli Editore); Hume e la proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto, Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli 101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo, Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni in Georges Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma giuridica: Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La scuola di Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria politica europea prima di Thomas Hobbes (1600-1640), Emanuele Castrucci, Milano, Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos della terra, Franco Volpi, traduzione di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il nomos della terra, Franco Volpi; Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale, Emanuele Castrucci, Milano, Giuffre). Le radici antropologiche del 'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del Nomos, in Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi, Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas, in Filosofia politica, Mulino); Dai diritti individuali ai diritti umani: un totalitarismo in costruzione. Alcuni spunti in margine ad un recente scritto di Castrucci, in Il Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari della forma giuridica. Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo Novecento, Milano, Giuffrè);  Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la decisione” (Milano, Giuffrè); Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno; La forma e la decisione; Convenzione, forma, potenza: storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffrè).  HOMO ABSCONDITUS  L’IDEOLOGIA TRI PARTITA  DEGLI INDOEUROPEI  il Cerchio   Iniziative editoriali L'IDEOLOGIA TRIPARTITA DEGLI  INDOEUROPEI costituisce una sintesi completa ed accessibile degli studi  di Dumézil. che hanno rivoluzionato la nostra conosceza delle anti¬  che civiltà euro-asiatiche.   La struttura fondamentale del pensiero religioso e sociale delle popolazioni  uscite dalla comune radice indoeuro¬  pea. dallTrlanda allTndia, la tripartizione sociale in Sacerdoti. Guerrieri e  Contadini che è presente nelle origini  di Roma così come nei miti iranici,  germanici e celti, si rivela essere lo  specchio di un'armonia divina, in cui  gli stessi dèi sono così suddivisi, clas¬  sificati e diversamente adorati.   È la dimostrazione di come, nelle ci¬  viltà tradizionali, anche l'aspetto sociale e politico dipenda radicalmente  dalla dimensione mitico-religiosa. e il  mondo del divino diviene l’archetipo  che dà forma a tutta la società degli    uomini.  DUMÉZIL è  una figura fondamentale nel panorama  culturale europeo.   Filologo e storico, nel ‘900 ha riav¬  viato gli studi attorno alla civiltà indoeuropea nelle grandi civiltà precristiane: Roma. l'India. l'Iran, la Grecia,  le popolazioni celtiche e germaniche.  Ha lasciato una bibliografia sterminata,  solo parzialmente tradotta in italiano, fra  cui ricordiamo almeno La religione ro¬  mana arcaica, Gli Dèi dei Germani,  Mito ed Epopea e Gli Dèi sovrani degli Indoeuropei.  HOMO ABSCONDITUS  Dumézil   L’ideologia tripartita  degli Indoeuropei   Con un saggio introduttivo di  RlES il Cerchio Iniziative editoriali  L'idéologie tripartie des Indo-Européens, Bruxelles Sigillo del re ittita Tarkummuwa, re di Mera.  Walters Art Museum, Baltimora.  II Cerchio Srl    La riscoperta del pensiero religioso indoeuropeo  L’opera magistrale di Dumézil. Calmette rinvenne i primi due  Li bri dei Veda, u n documento coni p letamente sco nosciuto i n occidente, e i preziosi manoscritti giunsero nella Biblioteca Reale di  Parigi. Davanti all’Asiatic Society of Bengala, Jones pronuncia un dotto discorso in cui dimostrò l’esistenza  di una lingua comune, madre del sanscrito e del greco. Eccoci alle soglie della riscoperta del pensiero indoeuropeo.  Il primo dossier indoeuropeo   Il XIX secolo riprese i lavori di questi pionieri e cercò di com¬  piere nuove scoperte sul pensiero asiatico. Ricercando i documenti  dell’antica mitologia germanica caduti nell’oblio dopo la conversione  dei Germani al Cristianesimo, gli storici tedeschi tentarono di tornare  alle origini spingendosi nei dominii dell’India e dell’Iran. Particolar¬  mente due pubblicazioni provocarono grande risonanza: la prima è la  celebre opera di  Creuzer Simbolik undMvlhologie  der altea Vòfker , tradotto in francese nel 1825; infine nel 1810 J.J.  Gòrres pubblicò il suo Mythengeschichle der asiatischen Welt, in cui questo precursore del romanticismo religioso cercò di d imostrare che i  miti dell’India, dell’Iran e della Grecia veicolavano una dottrina co¬  mune su Dio, l’Anima e l’immortalità.   Sulla scia dei loro maestri i mitografi romantici si lanciarono  alla ricerca delle prime idee religiose dell’infanzia umana. Oltre a ciò  questa corrente si occupò dell’espressione e delle modalità di trasmis¬  sione del messaggio religioso sin dalle origini dell’umanità.   A questa corrente romantica si oppose la ricerca storica e filolo¬  gica, rappresentata da Karl Otfried Miiller (1797-1840), da Franz  Bopp (1791-1867), da Antoine de Chézy e da tutta la linea degli specialisti in filologia comparata che studiarono scientificamente i testi  dei Veda e dell’Avesta per familiarizzarsi col pensiero dell’India e  dell’Iran antichi. Tra questi ricercatori Miiller occupa un posto di primaria importanza. Specializzatosi in sanscrito, in  grammatica comparata ed in filosofia del mito ad Oxford, istituì una  Cattedra divenuta celebre: egli credette che la filologia comparata fos se la chiave che avrebbe permesso di aprire le porte della storia delle  religioni. Ai suoi occhi la lingua è un testimone autentico del pensiero.  Miiller sostenne che in origine l’uomo ha agito, e per descrivere i suoi  atti inventò il linguaggio. Da allora i miti non sono altro che la personi¬  ficazione degli oggetti e delle azioni che 1 ’uomo ha dovuto esprimere e  descrivere.   Continuando le sue ricerche in direzione delle origini, Miiller  tradusse i Veda, testo in cui credeva di trovare il primo pensiero indo-europeo e la chiave della religione degli antichi Ariani. Così secon¬  do il nostro Autore i poemi vedici sarebbero la fonte del pensiero reli¬  gioso dei Persiani, dei Greci e dei Romani. La gemma tra le ricerche di  Miiller è rappresentata dalla pubblicazione dei Sacred Books of thè  Easl (che potè terminare prima della propria morte, la¬  sciando così agli studiosi occidentali una vera summa dei libri sacri  dell’antica Asia.  Il dossier indoeuropeo del XIX secolo è già abbastanza ricco:  scoperta della corrispondenze all’interno del vocabolario delle lingue  indoeuropee; presentimento dell’esistenza di una cultura arcaica ariana come pure di una civiltà comune alle diverse popolazioni. Frazer tentò d’intraprendere un vasto studio comparato at¬  torno al mito romano della morte rituale ed al mito nordico del dio  Balder. Tutta la sua opera, The Golden Bough cerca di delineare una sintesi di questa mitologia, ma le sue conclusio¬  ni sono deludenti.   Dopo una prima esplorazione, condotta secondo il metodo frazeriano, Dumézil abbandonò questa via della regalità sacra per volgersi verso la linguistica e la filologia comparata. Le sue guide furono A.  Meillet e J. Vendryes. In un articolo intitolato Les correspondances de  vocabulaire enlre l ’indo-iranien et Titalo-celtique (in «Mémoires de  la Société Linguistique»), Vendryes ha sottoli¬  neato le corrispondenze esistenti tra parole indo-iraniche da una parte  ed italo-celtiche dall’altra. Si tratta di termini relativi al culto, al sacrificio ed alla religione, c vi sono anche parole mistiche relative all’effi¬  cacia degli atti sacri, alla purezza rituale, all’esattezza dei riti, all’of¬  ferta fatta agli dèi, all’accettazione di questa da patte degli dèi, alla  protezione divina ed alla santità. Questa scoperta fu molto importante,  poiché dimostra l’esistenza di una comunanza di termini religiosi  presso i popoli che in seguito sarebbero divenuti gli Indiani, gli Iranici,  gli Italici ed i Celti. La permanenza di questo vocabolario religioso  alle due estremità del mondo indoeuropeo, in India ed in Iran, nella  Gallia ed in Italia, è un dato molto significativo, benché la scomparsa  di questo vocabolario presso popoli come i Germani e gli Scandinavi  non abbia mancato di incuriosire Vendryes. Riflettendo, egli ha consta¬  tato che questi termini religiosi si sono mantenuti presso quei popoli clic  disponevano di collegi sacerdotali influenti: i brahmani, i sacerdoti avestici, i druidi, il Pontìfex romano. E dunque il sacerdozio a conservare e  trasmettere questo vocabolario grazie ai rituali ed alla liturgia, ai testi  sacri ed alle preghiere. Siamo in presenza di una testimonianza preziosa  c di una fonte importante clic ci conduce ad una conclusione decisiva: il  mondo indoeuropeo arcaico disponeva di concetti religiosi identici clic  veicolava grazie ad un linguaggio comune.   3. La scoperta dell’eredità indoeuropea   Alla luce delle ricerche dì Vendryes, G. Dumézil ha compreso  quale orientamento imprimere ai propri lavori. Al termine di vent’anni di studio egli doveva trovare la chiave che gli permise di penetrare  gli arcani del pensiero religioso indoeuropeo arcaico. La pubblicazio¬  ne de L'idéologie tripartie des Indo-Européens nel 1958 è il compi¬  mento di una lunga marcia ed il punto di partenza per tutte le scoperte  .successive. L’esame del problema flamen-brahman c dei flamini  maggiori a Roma condusse Dumézil ad una conclusione decisiva:   «/ più antichi Romani, gli Umbri, avevano portato con toro in  Italia la stessa concezione conosciuta dagli Indo-Iranici e su cui noto¬  riamente gli Indiani avevano fondato il loro ordine sociale »'   Era la scoperta e la messa a fuoco di un’eredità indoeuropea, di  una ideologia funzionale e gerarchizzata, alla sommità della quale si  trova la sovranità religiosa c giuridica, seguita dalla forza fisica che  s’incama nella guerra, mentre al terzo livello si situa la fecondi-  tà-fertil ità, sottomessa alla sovranità ed alla forza ma indispensabile al  loro mantenimento c sviluppo. Munito di questa griglia di lettura lo  studioso francese si c avventurato nello studio di tutta la documenta¬  zione disponibile. Si tratta di uno studio comparativo il cui oggetto c il  dato indoeuropeo.   Durante il III c II millennio a.C. delle bande di conquistatori si  spostarono verso l’Atlantico, il Mediterraneo c l’Asia. Le loro parlate  erano fatte di diversi dialetti provenienti da una lingua comune, il che  suppone un fondo intellettuale e morale identico, ed un minimo di ci¬  viltà comune. Popoli senza scrittura, gli Indoeuropei hanno lasciato  pochi documenti. Solo gli Hittiti, stabilitisi in Anatolia all’inizio del II  millennio a.C., hanno adottato una scrittura cuneiforme che consentì  loro di conservare degli archivi. Ma ciò che c notevole c la persistenza  del vocabolario religioso legato all’organizzazione sociale, alle prati¬  che cultuali ed ai comportamenti religiosi. Parecchi fatti presuppon¬  gono l’esistenza di una religione che rappresenta una dottrina coerente, una spiegazione del cosmo, una concezione dell’origine, del  presente c del futuro. DUMÉZIL, Mythe et epopèe I. L 'idéologie des troisfunctions dans les  épopees despeuple indo-européens, Gallimard, Paris 1968, p. 15 (Trad.  italiana, Einaudi, Torino 1982 - NdT)   Volendo spiegare quest’eredità e la sua struttura, Dumézil ha  elaborato il proprio metodo comparativo, che lui stesso chiama «gene¬  tico)} 2 . La prima fase del lavoro consiste nel mettere in evidenza delle  corrispondenze precise e sistematiche, che permettano di tracciare  uno schema del rituale: miti, riti, significati logici ed articolazioni es¬  senziali. Questo schema viene proiettato nella preistoria, al fine di  comprendere la curva dell’evoluzione religiosa. Possedendo delle  corrispondenze precise, sistematiche e numerose, lo storico delle ci¬  viltà e lo storico delle religioni procedono per induzione in direzione  delle origini. Utilizzando i dati dell’archeologia, della mitologia, della  filologia, della sociologia, della liturgia e della teologia arcaica, lo storico giunge a comprendere le grandi linee del pensiero di questi popoli  e la loro evoluzione, sino alle soglie della storia. Grazie a questo lavo¬  ro lungo ed arduo si è riusciti a stabilire un’archeologia del comporta¬  mento e delle rappresentazioni.   Dumézil non ha preteso di resuscitare la religione degli  Indoeuropei come venne vissuta nei tempi preistorici. Si è accontentato  piuttosto di delineare lo schema concettuale delle società collegate tra  loro nello sviluppo della storia, e si è servito di questi schemi per giun¬  gere a spiegare i testi ed i fatti che resistevano ad ogni spiegazione.   Nelle civiltà indoeuropee il nostro autore trova una struttura sociale articolata in tre funzioni. Sono queste i tre varna dell’India: i  brdhmana, sacerdoti incaricati del sacrificio e custodi della scienza  sacra; gli ksatriya, guerrieri incaricati della protezione del popolo; i  vaisya, produttori dei beni materiali, del nutrimento. Secondo il  Rg-Vecla (Vili, 35) queste tre «caste» sono molto antiche. In Iran  l 'Avesta menziona tre gruppi di uomini: sacerdoti o àQaitrvan; guer¬  rieri, i radaci.star montatori di carri; gli agricoltori-allevatori, chiama¬  ti vàstryò.fsuycmt. Una struttura identica ha lasciato tracce presso gli  Sciti ed i loro discendenti, gli Osseti del Caucaso, e presso i Celti ed i  loro druidi, la loro aristocrazia militare ed i loro boairig, gli allevatori  DUMÉZIL, L ’heritage des indo-curopéens à Rome, Gallimard, Paris  di buoi. L’analisi delle origini di Roma condotta da Dumézil si è rive¬  lata particolarmente illuminante.   Queste tre funzioni sono attività fondamentali e indispensabili  per la vita normale della comunità. La prima funzione, quella del sa¬  cro, regola i rapporti degli uomini fra loro e sotto la garanzia degli dèi,  determina il potere del re e traccia i limiti della scienza, inseparabile  dalla manipolazione delle cose sacre. La seconda funzione, quella re¬  lativa alla forza fisica, interviene nella conquista, nell’organizzazione  della società e nella sua difesa. La terza ricopre un vasto ambito, quel¬  lo della sussistenza degli uomini e della conservazione della società:  fecondità animale ed umana, nutrimento, ricchezza e salute. Dumézil  ha dimostrato che la società indoeuropea era governata in profondità  grazie ad una mentalità fondata su una struttura trifunzionale.  La teologia si trova al centro del mondo indoeuropeo. Una delle  grandi prove di ciò è la lista degli dèi ariani di Mitanni trovata su una  tavoletta a Bogazkòy, l’antica Hattusa, capitale dell’impero hittita.  Scoperta nel 1907, questa tavoletta contiene il testo di un trattato con¬  cluso nel 1380 a.C. tra il re hittita Supilulliuma ed il redi Mitanni chia¬ mato Matiwaza. Come garanti della loro alleanza ognuno dei re invo¬  ca i propri dèi: il re di Mitanni invoca gli dèi considerati i protettori  della società ariana: Mithra-Varuna, India e i Nasatya. Sono gli dèi  delle tre funzioni che ritroviamo in India ed in Iran. In quest’ultimo  paese è la riforma di Zarathustra e la formulazione delle sei entità divi¬  ne - gli Immortali Benefici - che illustra in maniera illuminante questa  teologia strutturata su tre piani ed articolata in tre funzioni.   Dai Mitanni, dall’India e dall’Iran Dumézil è pervenuto all’Ita¬  lia ove ha rilevato la triade Jun-Lart-Vofiono a Iguvium (Gubbio) in  Umbria ed a Roma la triade precapitolina Juppiter-Mars-Quirinus.   Questi dati indicano chiaramente che l’ideologia è correlata ad  una teologia delle tre funzioni. Nell’India vedica ciò comporta  un’associazione di tre coppie di dèi stabiliti su tre livelli: gli dèi Mitra  e Varuna, signori del primo livello, si dividono la sovranità di questo  mondo e dell’altro: Indra, scortato dai Marut, un battaglione di giova¬  ni guerrieri, proclama l’esuberanza e la vittoria; i NàsaLya o Asvin  sono distributori di salute, fecondità, abbondanza in uomini ed armen¬  ti; si tratta dunque di una teologia tripartita.   Il documento di Hattusadel 1380 a.C. ci mostra che questa teo¬  logia è anteriore alla redazione dei Veda e che fa parte della tradizione  ariana arcaica; d’altra parte, la presenza dello schema trifunzionale  nella teologia di Zarathustra ed il suo riflesso sugli «Arcangeli» raggruppati intomo al dio supremo Ahura Mazda conferma l’attacca¬  mento ad una struttura di pensiero ariano sia presso i sacerdoti che i  popoli dell’Iran antico. La stessa eredità teologica si rinviene anche in  Italia, presso i Celti, i Germani e gli Scandinavi.   Conclusioni   E stato necessario tutto il XIX secolo per costituire il dossier indoeuropeo. Il merito di Georges Dumézil c stato quello di aver consa¬  crato un 'intera vita all’interpretazione di questa documentazione. Egli  ha iniziato il suo cammino sulla scia di Max Miillcr c di James Frazer:  una ricerca di equazioni nell’onomastica relativa al dominio del culto  e delle divinità. Le corrispondenze all’interno del vocabolario del sa¬  cro, dei popoli indo-iranici da una parte c di quelli italo-ccltici dall’al¬  tra, hanno fornito allo studioso l’idea di studiare più a fondo i paralleli  attorno alle divinità ed ai sacerdoti, poiché questi popoli sono i soli tra  gli indoeuropei ad aver conservato per molti secoli i loro collegi sacer¬  dotali.   Questa nuova via fu illuminante, poiché ha condotto alla sco¬  perta di un’eredità indoeuropea ancora visibile agli inizi della storia  dei popoli italici, celtici, iranici cd indiani. L’assenza di vestigia ar¬  cheologiche concrete ha costretto Dumézil a mettere a punto un meto¬  do comparativo genetico fondato sull’archeologia delle rappresenta¬  zioni c del comportamento: servendosi dei miti, dei riti, delle tracce  dell’organizzazione sociale, delle vestigia del sacro c del sacerdozio  egli ha potuto individuare i meccanismi - c gli equilibri costitutivi -  della società e della religione indoeuropea: una teologia trifunzionale  che divide il mondo divino in dèi della sovranità, dèi della forza e dei  della fecondità. A questa teologia corrisponde la tripartizione sociale:  classe sacerdotale, guerrieri, agricoltori-allevatori.     Mezzo secolo di ricerche hanno permesso di delineare questa  visione nuova del mondo ariano arcaico, di realizzare una sintesi delle  vestigia della civiltà e della religione indoeuropea e di far indietreg¬  giare di più d’un millennio i lempora ignota.   Julien Ries  Università di Louvaìn-la-Neuve  Nelle pagine che seguono non una sola volta si farà menzione  de\V habitat degli Indoeuropei, delle vie delle loro migrazioni, della  loro civiltà materiale. Su questi punti così dibattuti il metodo qui im¬  piegato non ha presa e d’altra parte la loro soluzione non interessa  molto i problemi qui posti. La «civiltà indoeuropea» che noi conside¬  reremo è quella dello spirito.   Al pari degli Indiani vedici, come ci vengono presentati dai loro  inni, gli Indoeuropei non furono uomini senza riflessione e senza im¬  maginazione, tutt’altro. Esattamente da vent’anni ormai la compara¬  zione delle più antiche tradizioni, dei diversi popoli parlanti lingue in¬  doeuropee, ha rivelato un fondo considerevole di elementi comuni,  elementi non isolati ma organizzati in strutture complesse delle quali  non ci è offerto un equivalente in altri popoli del mondo antico.  L'esposizione, che ci si appresta a leggere, è consacrata alla più im¬  portante di queste strutture.   L’obiettivo essenziale è quello di guidare lo studente, tramite  una serie di riassunti ordinati e consequenziali, attraverso una mole di  argomenti poco agevoli a causa della loro eterogeneità e del loro fra¬  zionamento.   Nello stesso tempo si vorrebbe fornire ai lettori già informati  una prima e provvisoria sintesi, si vorrebbe dare non solo un ordine ma  una messa a fuoco alla correlazione generale che solo uno sguardo  d’insieme può imporre ai risultati parziali.   Un problema che per anni è stato capitale e in primo piano - pen¬  so al valore trifunzionale delle tre tribù romane primitive - si trova qui  limitato in un secondo livello; al contrario, le numerose applicazioni ideologiche delle tre funzioni, le cui segnalazioni si trovano disperse  nelle pubblicazioni più svariate, acquisteranno ora, io spero, potenza  grazie ad un parallelismo che farà risaltare il loro semplice riavvicina¬  mento.   Questo doppio disegno non prevederànote a piè di pagina: si è  preferito costruire una sorta di commentario bibliografico distribuito  secondo i paragrafi del libro, indicando i testi affinché ognuno riepilo¬  ghi o perfezioni a proprio piacimento; oppure segnando c datando su  ogni punto importante i progressi o le svolte della ricerca; o ancora,  rinviando ad altri paragrafi per segnalare correlazioni che non avreb¬  bero potuto ingombrare l’esposizione discorsiva iniziale.   Non si è tenuto conto che dell’opera principale dell’autore e di  un certo numero di colleghi francesi e stranieri che, pur senza voler  formare una scuola, si dedicano da più o meno tempo alle stesse mate¬  rie con metodi simili e che si tengono costantemente in contatto tra  loro.   Altre visioni sul pensiero degli indoeuropei, incompatibili con  questa, non saranno qui esaminate, non per disprezzo ma perché le di¬  mensioni del presente libro sono ristrette e l’intento è costruttivo e non  critico.   Tuttavia, nelle note finali si troveranno riferimenti a numerose  discussioni.   Il mio caro collega Renard mi ha permesso di presentare  nella collezione Latomus, poco tempo dopo Les Déesses latines , que¬  sta nuova esposizione in cui il popolo romano non interviene che prò  virili parte. Egli ha così voluto confermare, sensibilmente ai nostri  studi, cd io lo ringrazio, la necessaria alleanza tra studi classici e indoeuropei, tra metodi filologici e comparativi, che ho sempre invocato  con augurio.   Uppsala. Parigi. Le tre funzioni sociali e cosmiche    1. Le classi sociali in India   Uno dei tratti più sorprendenti delle società indiane post-rgve-  diche è la loro divisione sistematica in quattro «classi», dette in san¬  scrito i quattro «colori», varna, le prime tre delle quali benché diverse  sono pure perché propriamente arya, mentre la quarta, formala indub¬  biamente dai vinti della conquista arya, è sottomessa alle altre tre ed è  quindi irrimediabilmente impura. Di quesl’ultima classe eterogenea  non si Lralterà qui ulteriormente.   I doveri di ognuna delle tre classi arya servono per definirle: i  brdhmana, sacerdoti, studiano ed insegnano la scienza sacra e cele¬  brano i sacrifici; gli ksatriya (o rdjanya), i guerrieri, proteggono il po¬  polo con la loro forza e con le loro armi; ai vaisya è affidato l’alle¬  vamento e l’aratura, il commercio e più in generale la produzione dei  beni materiali.   Si costituisce così una società completa e armonica presieduta  da un personaggio a parte, il re, rdjan, generalmente nato e qualitativa¬  mente estratto dal secondo livello.   Questi gruppi funzionali e gerarchizzati sono conchiusi tutti su  loro stessi in base all’ereditarietà, all’endogamia e a un codice rigoro¬  so d’interdizioni. Sotto questa forma classica non vi è dubbio che il sistema non sia una creazione propriamente indiana posteriore alla maggior parte del Riveda-, i nomi delle classi non sono menzionati  chiaramente che nell’inno del sacrificio deH’Uomo Primordiale, nel X  libro della raccolta, così differente da tutti gli altri. Ma una tale crea¬  zione non è nata dal nulla, bensì da un irrigidimento di una dottrina e di  una pratica sociale preesistente. Nel 1940 uno studioso indiano, V.M.  Apte, fece una collezione dimostrativa dei lesti dei primi nove libri del  Riveda (principalmente Vili, 35, 16-18) che provano come sin dai  tempi della redazione di questi inni la società fosse pensata composta  da sacerdoti, guerrieri e allevatori e che se questi gruppi non erano an¬  cora designati dai nomi di brdhmunu, di ksatriya o di vaisya (sostanti¬  vi astratti, nomi di nozioni di cui i nomi di questi uomini non sono che i  derivati) erano già composti in un sistema gerarchico che definiva di¬  stributivamente i principi delle tre attività. Brc'ihmun (al neutro)  «scienza e utilizzazione delle correlazioni mistiche tra le parti del rea¬  le visibile o invisibile», kyatrei «potenza», vis «contadinanza» o «habi¬  tat organizzalo» (la parola c apparentala al latino vTcus e al greco  (w)oùco<;), al plurale visuh «insieme del popolo nel suo raggruppa¬  mento sociale e locale».   È impossibile determinare in quale misura la pratica si confor¬  masse a questa struttura teorica: vi era forse una parte più o meno con¬  siderevole della società che indifferenziata o altrimenti classificata  sfuggiva a questa tripartizione? L’ereditarietà all’interno di ciascuna  classe non era forse corretta nei suoi effetti da un regime matrimoniale  più flessibile c con delle possibilità di promozione? Sfortunatamente  ci è accessibile solo la teoria.   2. Le classi sociali avestiche   Da un quarto di secolo, confermando le osservazioni di F. Spie-  gel, di E. Benvenisle e di me stesso, abbiamo sostenuto che almeno  nella sua forma ideologica la tripartizione sociale era una concezione  già acquisita prima della divisione degli «Indo-Iranici» in Indiani da  una parte ed Iranici dall’altra.   In diversi passaggi VA vesta menziona i componenti della socie¬  tà come gruppi di uomini o di classi (designate da una parola che si ri¬  ferisce al colore, pistra): i sacerdoti, àBuurvan o uBravun (cf. uno dei  sacerdoti vedici, Vdtharvan), i guerrieri, luBciè.star («guidatori di carri», cf. il vedico rathe-sthà epiteto del dio guerriero Indra) e gli agri¬  coltori-allevatori, vàstryó.fsuyant.   Un solo passaggio avestico e più notoriamente i testi palliavi,  pongono come quarto termine alla base di questa gerarchia, gli artigia¬  ni, huiti, altri indizi (come il fatto che raggruppamenti triplici di nozio¬  ni sono talvolta messi maldestramente in rapporto con le quattro clas¬  si, cf. SBE, V, p. 357) ci portano a considerarla una aggiunta a un  antico sistema ternario.   Nel X secolo della nostra èra il poeta persiano Ferdusi, fedele  testimone della tradizione, racconta come il favoloso re Jamsed (lo  Yima Xsaéla dell’A vesta) istituì gerarchicamente queste classi: se¬  parò inizialmente dal resto del popolo gli *asravctn «assegnando loro  le montagne per celebrarvi il loro culto, per consacrarsi al servizio di¬  vino e restare nella luminosa dimora »; gli *artesfar, posti dall’altra  parte, «combattono come dei leoni, brillano alla testa delle armate e  delle province, grazie a loro il trono regale è protetto e la gloria del  valore è mantenuta »; quanto ai *vùstryós, la terza classe, « loro stessi  arano, piantano e raccolgono; di ciò che mangiano nessuno li rimpro¬  vera, non sono servi benché vestiti di stracci e il loro orecchio è sordo  alla calunnia».   A differenza dell’India le società iraniche non hanno irrigidito  questa concezione in un regime castale: esso sembra essere rimasto un  modello, un ideale e un comodo mezzo per analizzare ed enunciare  l’essenzialità dell’argomento sociale. Dal punto di vista della ideolo¬  gia in cui noi ci poniamo, questo è sufficiente. Un ramo aberrante della famiglia iranica, molto importante poi¬  ché si è sviluppato non in Iran ma a nord del Mar Nero, fuori dalla mor¬  sa degli imperi, iranici o altri, che si sono succeduti nel Vicino Orien¬  te, testimonianello stesso senso: sono gli Sciti - i cui costumi insieme a  molte leggende ci sono noli grazie ad Erodoto e a qualche altro autore  antico - la cui lingua e tradizione si è mantenuta sino ai nostri giorni  grazie a un piccolo popolo del Caucaso centrale, originale e pieno di  vitalità, gli Osseti.   Secondo Erodoto (IV, 5-6) ecco come gli Sciti raccontano  l’origine della loro nazione:    17     «Il primo uomo che comparve nel loro paese, prima di allora  deserto, si chiamava Targitaos, che si diceva figlio di Zeus e di una fi¬  glia del fiume Boriysthene (il Dniepr attuale)... Lui stesso ebbe tre fi¬  gli, Lipoxais (variante Nitoxais), Arpoxais e in ultimo Kolaxais.  Quando erano in vita caddero dal cielo sulla terra Scizia degli oggetti  d’oro: un carro, un giogo, un’ascia e una coppa (apoxpóv xe mi  t/uyòv mi cràyapiv mi (piàÀT|v). A questa vista il più anziano si af¬  frettò a prenderli ma quando arrivò l ’oro si mise a bruciare. Così si ri¬  tirò e il secondo si fece avanti ma senza migliore successo. Avendo i  primi due rinunciato all 'oro bruciante, sopraggiunse il terzo e l ’oro si  spense. Lo prese con sé e i suoi due fratelli, davanti a questo segno,  abbandonarono la regalità interamente all'ultimogenito. Da Lipoxa¬  is sono nati quegli Sciti che sono chiamati la tribù (yévoq) degli Aukh-  atai; da Arpoxais quelle dette Katiaroi e Traspies (variante: Trapies,  Trapioi) e in ultimo, dal re, quelle dette Paralatai; ma tutte insieme si  chiamano Skolotoi, dal nome del loro re »   Mi sembra certo che bisogna, al pari di E. Benveniste, rendere  yévoq con «tribù». Gli Sciti contano quattro tribù, una delle quali è la  tribù capo. Ma tutte hanno realmente o idealmente la stessa struttura: è  chiaro infatti che questi quattro oggetti si riferiscono alle tre attività  sociali degli Indiani e degli «Iranici deH’Iran»; il carro e il giogo (E.  Benveniste ha analizzato un composto avestico che associa queste due  parti della meccanica dell’aratura) evocano l’agricoltura; l’ascia era  con l’arco l’arma nazionale degli Sciti; altre tradizioni scitiche conser¬  vate da Erodoto, come pure l’analogia coi dati indo-iranici conosciuti,  incoraggiano a vedere nella coppa lo strumento e il simbolo delle of¬  ferte cultuali e delle bevande sacre.   La forma ben distinta che Quinto Curzio (VII, 8, 18-19) dà alla  tradizione, conferma questa esegesi funzionale; egli fa dire agli amba¬  sciatori degli Sciti che cercavano di convincere Alessandro Magno a  non attaccarli:   «Sappi che abbiamo ricevuto dei doni: un giogo per buoi, un  carro, una lancia, una freccia e una coppa (iugum bovum, aratrum,  hasta, sagitta et patera). Ce ne serviamo con i nostri amici e contro i  nostri nemici. Ai nostri amici doniamo i frutti della terra che ci procu-    18     ra il lavoro dei buoi; con essi offriamo agli dèi libagioni di vino; quan¬  to ai nostri nemici, li attacchiamo da lontano con la freccia e da vicino  con la lancia».   4. La famiglia degli eroi Narti   È interessante vedere sopravvivere questa struttura ideologica  della società nell’epopea popolare dei moderni Osseti, che ci è nota i n  frammenti ma in numerose varianti da circa un secolo e che una gran¬  de impresa folklorica russo-osseta, da circa quindici anni, ha sistema¬  ticamente raccolto. Gli Osseti sanno che i loro eroi dei tempi antichi, i  Narti, erano divisi essenzialmente in tre famiglie.   «/ Boriatee - dice una tradizione pubblicata da S. Tuganov nel  1925 - erano ricchi in armenti; gli Alcegatce erano forti per intelligen¬  za; gli /Exscertcegkatce si distinguevano per eroismo e vigore ed erano  forti per i loro uomini».   I dettagli del racconto che giustappongono od oppongono a due  a due queste famiglie, soprattutto nella grande collezione degli anni  ’40, confermano pienamente queste definizioni.   II carattere «intellettuale» degli Alaegatae riveste una forma ar¬  caica, non appaiono che in circostanze uniche ma frequenti: c nella  loro casa che hanno luogo le solenni bevute dei Narti in cui si produco¬  no le meraviglie di una Coppa magica detta la «Rivelatrice dei Narti».   Quanto agli vExsscrtaegkata;, grandi smargiassi ad effetto, è ri¬  marchevole che il loro nome sia un derivato del sostantivo cexsur(t)  «bravura», che è, con le alterazioni fonetiche previste nelle parlate sci¬  tiche, la stessa parola del sanscrito ksatrà, nome tecnico, come abbia¬  mo visto, del fondamento della classe guerriera.   I Boriala; e il principale tra essi, Burafscrnyg, sono costante-  mente e caricaturalmente i ricchi, con tutti i rischi e i difetti della ric¬  chezza e in più, in opposizione ai poco numerosi vExsaertaegkatae, sono  una moltitudine di uomini.   5. Gli Indoeuropei e la tripartizione sociale   Riconosciuta così come retaggio comune indo-iranico, questa  dottrina tripartita della vita sociale è stata il punto di partenza di  un'inchiesta che prosegue da più di vent’anni e che ha portato a due risultati complementari che possono riassumersi in questi termini: 1) al  di fuori degli Indo-Iranici i popoli indoeuropei conosciuti in età antica  o praticavano realmente una divisione di questo tipo oppure, nelle leg¬  gende in cui spiegano le proprie origini, ripartivano i loro cosiddetti  «componenti» iniziali fra le tre categorie di questa stessa divisione: 2)  nel mondo antico, dal paese dei Seres alle Colonne d’Èrcole, dalla Li¬  bia e dall’Arabia agli Iper borei, nessun popolo non indoeuropeo ha  esplicitato praticamente o idealmente una tale struttura o se l’ha fatto è  stalo dopo un contatto preciso, localizzabile c databile, che ha avuto  con un popolo indoeuropeo. Ecco qualche esempio a sostegno di que¬  sta proposizione. Il caso più completo è quello dei più occidentali tra gli Indoeu¬  ropei, i Celti e gli Italici, il che non è sorprendente una volta che si c  prestata attenzione (J. Vendryes, 1918) alle numerose corrispondenze  che esistono nel vocabolario della religione, dell’amministrazione e  del diritto, tra le lingue indo-iraniche da una parte e quelle ilalo-celli-  che dall’altra.   Se si ordinano i documenti che descrivono lo stato sociale della  Gallia pagana decadente conquistala da Cesare, insieme ai testi che ci  informano sull’Irlanda pocoprima della sua conversione al cristiane¬  simo, ci appare sotto il *rig (l’esalto equivalente fonetico del sanscrito  rcij- o del latino réf*-), un tipo di società così costituita:   1) Al di sopra di tulli c forte oltre ogni limile, quasi super-nazio¬  nale come la classe dei brahmani, vi c la classe dei clruicli (*dru-uid),  cioè dei sapienti, sacerdoti, giuristi, depositari della tradizione.   2) Segue poi l’aristocrazia militare, unica proprietaria del suo¬  lo, \a flciith irlandese (cf. il gallico vlata- c il tedesco Gewcdt), propria¬  mente la «potenza», esatto equivalente semantico del sanscrito ksatrà,  essenza della funzione guerriera.   3) Infine, gli allevatori, i bóairig irlandesi, uomini liberi ( ciirif.;)  che si definiscono solamente come possessori di vacche ( bó). Non è  sicuro ne probabile, come c stalo proposto, (A. Mcillet c R. Thurney-  scn hanno preferito un’etimologia puramente irlandese) che questa ul¬  tima parola, aire (genitivo ctirech, plurale airig) che designa lutti i  membri dell’insieme degli uomini liberi (che sono protetti dalla legge, concorrono all’elezione del re, partecipano alle assemblee - airecht - e  ai grandi banchetti stagionali) sia un derivato in -k di una parola impa¬  rentata con l’indo-iranico * city a (sanscrito city a, àrya\ antico-persiano  ariya, avestico airya; osseto Iceg «uomo», da *arya-ka-). Ma poco im¬  porta: il quadro tripartito celtico ricopre esattamente lo schema reale o  ideale delle società indo-iraniche. La Roma storica, benché risalga ad epoca remota, non ha divisioni funzionali: l’opposizione tra patrizi e plebei è di un altro tipo. Senza dubbio è l’effetto di un’evoluzione precoce e la divisione in tre tribù - anteriore agl’etruschi benché rivestila di nomi d’origine apparentemente etnisca come Ramnes, Luceres, Titienses - e ancora in  qualche modo del tipo che studiamo: è ciò che ci suggerisce chiaramente la leggenda delle origini. Secondo la variante più diffusa, Roma si e costituita da  tre elementi etnici: i compagni latini di Romolo e Remo, gli alleati  etruschi condotti a Romolo da Lucumone e i nemici sabini di Romolo  comandati da Tito Tazio. I primi avrebbero dato nascita a la TRIBU I -- Ramnes, i  secondi alla TRIBU II – i Luceres c i terzi alla TRIBU III – i Titienses. Ora, la tradizione annalistica colora costantemente ognuno di questi componenti etnici di tratti funzionali. LA TRIBU III: I Sabini di Tazio sono essenzialmente ricchi di armenti. LA TRIBU II. Lucumone c la sua banda sono i primi  specialisti dell’arte militare arruolati come tali da Romolo. LA TRIBU I: Romolo è  il semi-dio, il rex-augur beneficiario della promessa iniziale di Jupiter, il creatore <le\Y urbs e il fondatore istituzionale della respublica. Talvolta la componente etnisca è eliminala, ma l’analisi «tri-funzionale» non viene meno poiché Romolo c i suoi Latini accumulano su loro stessi la doppia specificazione di capi sacri e di guerrieri  esemplari ed hanno in loro stessi, come dice Tito Livio (1,9; 2-4), “deos  et virtutem” e non gli mancano temporaneamente che opes (e le donne)  che saranno loro fornite dai Sabini (cf. Floro, 1,1) i Sabini riconciliati  che si trasferiscono a Roma c cum generis suis a vitas opes prò dote socicint.   Eliminando così gli’etruschi, il dio Marte in persona, nei “Fasti” di Ovidio mette a nudo il movente ideologico dell’impresa che ha portalo all’unione dei Romani con i Sabini: « La  ricca vicinanza – “viciniadives” -- non voleva questi generi senza ricchezza – “inopes” -- e non aveva riguardo del fatto che io ero (un dio) la fonte  del loro sangue – “sanguinis auctor”. Io ho risentito di questa pena e ho  messo nel tuo cuore, Romolo, una disposizione conforme alla natura  di tuo padre -- “patriam mentem”, cioè marziale -- Io ti dico, tregua di sollecitazione, ciò che domandi, saranno le armi a donartelo – “arma dabunt”.   Dionigi di Alicarnasso che segue la tradizione delle tre razze,  ripartisce tra quelli gli stessi tre vantaggi: le città vicine, sabine o altre,  sollecitate da Romolo per mezzo di matrimoni, rifiutano (II, 30) di  unirsi a questi nuovi venuti « Che non sono da considerarsi neper ricchezza (xpTipaoi) né per altre imprese (taupnpòv Èpyov)». A Romolo, relegato così alla sua qualità di figlio di dio e di depositario dei primi auspici, non resta che affidarsi (II, 37) ai militari di professione  come l’etrusco Lucumone di Solone, «Uomo di azione e illustre in  materia di guerra» (xà rcoX.é|iia 8ux<pavnq).   8. Properzio iv, i, 9-32   Ma è Properzio, nella prima elegia romana che da a  questa dottrina delle origini, e nella forma delle tre razze, l’espressione più complete. Nel momento in cui nomina, con Romolo, le tre tribù primitive mettendo in risalto le loro etimologie tramite le correlazioni tradizionali coi nomi dei loro eponimi, comincia ad esprimere i  caratteri funzionali distintivi, 1’«essenza», potremmo dire, della materia prima di ogni tribù. TRIBU I: i compagni di Remo e di suo fratello (il nome  di Romolo è riservato per coprire la sintesi finale); TRIBU II: Lygmon (Lucu-  mo); TRIBU III. Tito Tazio.   Il testo di Properzio merita di essere esaminato più da vicino. L’intenzione di Properzio all’inizio di questa elegia è di opporre (c un  luogo comune dell’epoca) l’umiltà delle origini all’opulenza della  Roma d’Ottaviano. Dopo qualche verso che introduce il tema applicandolo al luogo, ecco gl’abitanti, presentati in tre parti ineguali, seguite da una conclusione:   -- sul pendio dove si elevava un tempo la povera casa di REMO. I due fratelli avevano un solo focolare, immenso reame.  La Curia, il cui splendore copre oggi un'assemblea di toghe preteste,  non conteneva che senatori vestiti di pelle e dalle anime rustiche.  Era la tromba che convoca, per i colloqui, gli antichi cittadini; cento uomini in un prato, tale era spesso il loro senato. Nessuna tela ondulante sulle profondità di un teatro, nessuna scena che esalasse l'odore solenne dello zafferano. Nessuno si cura di andare a cercare dèi stranieri. La folla trema, attaccata al  culto ancestrale. E, ogni anno, le feste di Pale non sono celebrate che con  fuochi di fieno i quali valevano bene te lustrazioni che si fanno oggi  giorno grazie a un cavallo mutilato.   Vesta era povera e trovava il suo piacere in asinelli coronati di  Fiori. Delle vacche scarnite portavano in processione degli oggetti  senza valore.  Dei maiali ingrassati bastavano per purificare gli stretti crocicchi e il pastore, al suono della cennamella, offre in sacrificio le  interiora di una pecora.  Vestito di pelli, l'agricoltore brandiva delle correggie villose: è allora che tengono i loro riti i Fabii, Luperci scatenati. Ancora primitivo, il soldato non sfavillava sotto delle armi terribili. Ci si batteva nudi con dei pali induriti dal fuoco. Il primo campo  e stabilito (pretorio: quartiere del campo intorno alla tenda del generale) da un comandante con un berretto di pelle, LYGMON.  E la ricchezza di TATIUS era essenzialmente nelle sue pecore: è da là che si formarono i T1TIES, i RAMNES e i LU CERES, originari di Solonio; è da là che Romolo Lancia la sua quadriga di cavalli  Bianchi. Il percorso di questo sviluppo è ben chiaro. Cme una favola verso la sua breve morale, tende verso l’ultimo distico che prima di  menzionare il «radunatore» Romolo, nell’apparato dei suoi trionfi,  enumera sotto i loro nomi le tre tribù riunite. Al verso 31, hinc indica che queste tre tribù provengono da uomini che sono stati precedentemente descritti e in effetti, in accordo con la tradizione erudita, Properzio mette i Tities (v. 31) in correlazione con il Tatius del verso 30 e i  Luceres (v. 31) con Lygmon-Lucumo (v. 29). Quanto ai Ramnes (v.    23, e 31), conformemente all’uso dovrebbero essere annunciati simmetricamente alla menzione di Romolo, ma a Romolo è qui riservato il posto di comando di questa società composita (v. 31 e 32) ed è RIMPIAZZATO DA REMUS al verso 9, o insieme a lui in frotres al verso 10.  In altre parole, prima di mostrarli trasformati (hinc...) sotto Romolo, nei tre terzi della città unificata, Properzio comincia col presentare successivamente, sotto i loro eponimi e nella loro esistenza ancora  separata, le tre componenti della futura Roma, nell’ordine. TRIBU I: Le genti di  Remo e di suo fratello. TRIBU II. L’etrusco Lucumone e – TRIBU III: il sabinoTazio. Si spiega  così come le feste dei versi 15-26, appartenenti ai futuri Ramnes, siano  quelle che la tradizione considera anteriori al sinecismo e praticate già, nel loro isolamento, dai due fratelli. Ma non è tutto. Non è meno lampante che le tre successive presentazioni delle future tribù siano caratterizzate secondo tre funzioni. Dal verso 9 («Remo») al verso 26, Properzio non evoca che il carattere primitivo di un’AMMINISTRAZIONE POLITICA (v. 9-14;  semplicità dei «re», di ciò che rappresentava allora il senato e  l’assemblea popolare) e di un CULTO (v. 15-26; mancanza di solennità e di dèi stranieri; nell 'ordine del calendario mstico - da aprile a febbraio - dei Parilia, Vestalia, Compitalia e Lupercalia, senza alcuno  sfarzo).  TRIBU II: Dal verso 27 al verso 29 (« Lygmon») il poeta evoca le forme  primitive della GUERRA che rimangono elementari («un berretto di  pelle») anche col primo tecnico militare.   TRIBU III: Nel solo verso 30 (« Tatius ») Properzio evoca la forma puramente pastorale della RICCHEZZA primitiva.   La nettezza delle articolazioni del testo e, in conseguenza, delle  intenzioni classificatorie di Properzio, il confronto nel distico 29-30 di  Lucumo come generale e di Tazio come ricco proprietario di armenti,  mettono in risalto il fatto che, benché concepite come componenti etniche, le tre tribù nel pensiero degli eruditi di epoca d’Ottaviano sono caratterizzate funzionalmente.  TRIBU I: I Ramnes, raggruppati intorno ai «fratelli», dediti soprattutto al  governo e al culto. TRIBU II: Lucumoneei Luceres come guerrieri. TRIBU III: Tito Tazio e  i Tities (più spesso Titienses) come ricchi allevatori.  Le divisioni degli Ioni   Fra i Greci, almeno gli Ioni e i più antichi ateniesi erano stati ini¬  zialmente divisi in quattro tribù definite dal ruolo nell’organizzazione  sociale. I nomi tradizionali delle tribù non sono molto chiari, al pari  della ripartizione dei nomi nelle quattro funzioni o, come dice Plutar¬  co, nei quattro |3ioi «(tipi di) vite», ma questi tipi sono molto probabil¬  mente sacerdoti o funzionari religiosi, guerrieri o «guardiani», agricol¬  tori, artigiani (Strabone Vili, 7, 1; cf. Platone, Timeo, 24 A). Plutarco  0 Solone 23), per una falsa etimologia del nome ordinario ricollegato ai  sacerdoti, omette i sacerdoti e sdoppia agricoltori e pastori.   È probabile che le tre classi della Repubblica ideale di Platone -  filosofi che governano, guerrieri che difendono e il terzo stato che pro¬  duce ricchezza - con ogni loro armonizzazione morale o filosofica,  così prossima talvolta alle speculazioni indiane, siano state ispirate in  parte dalle tradizioni ioniche, in parte da ciò che si sapeva allora in  GreciadelledottrinedeH’Iraneinpartedaquegli insegnamenti dei pi¬  tagorici che risalgono senza dubbio al remoto passato ellenico o pre¬  ellenico.   10. La tripartizione sociale nel mondo antico   A questi schemi concordanti si è cercata invano una replica in¬  dipendente nella pratica o nelle tradizioni delle società ugrofinniche o  siberiane, presso i Cinesi o gli Ebrei biblici, in Fenicia o nella Mesopo-  tamia sumerica o accadica, o nelle vaste zone continentali adiacenti  agli Indoeuropei o penetrate da essi. Ciò che salta agli occhi sono delle  organizzazioni indifferenziate di nomadi in cui ognuno è sia combat¬  tente che pastore; delle organizzazioni teocratiche di sedentari in cui  un re-sacerdote o un imperatore divino è contrapposto ad una massa  spezzettata aH’infinito ma omogenea nella sua umiltà; oppure ancora  delle società in cui lo stregone non è che uno specialista fra tanti altri  senza preminenza, malgrado il timore che la sua competenza suscita.   Niente di tutto questo ricorda né da vicino né da lontano la strut¬  tura delle tre classi funzionali gerarchizzate e non vi sono delle eccezioni.   Quando un popolo non indoeuropeo del mondo antico, ad  esempio del Vicino Oriente, sembra conformarsi a questa struttura è perché l’ha acquisita sotto l’influenza di uno nuovo arrivato vicino a  lui, da una di quelle pericolose bande di Indoeuropei - Luviti, Hittiti,  Arya - che nel secondo millennio si sono arditamente sparse lungo diversi percorsi.   E il caso ad esempio dell’Egitto «castale» in cui i Greci del V  secolo credevano di aver trovato il prototipo, l’origine delle più vec¬  chie classi funzionali ateniesi che sono state menzionate poco fa. In re¬  altà questa struttura si è formata sul Nilo grazie al contatto con gli  Indoeuropei, che apparendo in Asia Minore e in Siria nella metà del  secondo millennio prima della nostra èra, rivelarono agli Egiziani il  cavallo e tutti i suoi usi.   Solamente dopo questa data il vecchio impero dei Faraoni si  riorganizza per poter sopravvivere, formandosi ciò che non aveva mai  avuto: un’armata permanente e una classe militare. Il più antico testo  «multifunzionale» del tipo di quello che sarà conosciuto da Erodoto  (Timeo) o da Diodoro, è l’iscrizione in cui Thaneni si vanta di aver fat¬  to un vasto censimento per conto dei suo Faraone Thutmosis IV (J.H.  Breasted, Ancient Records ofEgypt, II, thè XVIlIth Dynasty, 1906, p.  165):   «M uste ring ofthe whole land before his Majesty making an in-  spection ofevery body, knowing thè soldiers, priests, royal serfs and  all thè craftsmen ofthe whole land, all thè cattle, fo wl and small cattle,  by thè military scribe, beloved of his lord Thaneni »   Ora, Thutmosis IV (1415-1405) è giusto il primo Faraone che  abbia mai sposato una principessa arya dei Mitanni, la figlia di un re  dal nome caratteristico di Artatama. Sembra che la differenziazione di  una classe di guerrieri col suo statuto «morale» particolare, unito ad  una sorta di alleanza flessibile a una classe ugualmente differenziata  di sacerdoti, sia stata la novità degli Indoeuropei e il cavallo e il carro  la ragione e il mezzo della loro espansione. Le iscrizioni geroglifiche e  cuneiformi ci hanno trasmesso il ricordo del terrore che causarono alle  vecchie civiltà questi specialisti della guerra, così arditi e impietosi  come quei conquistadores che tremila anni più tardi nel Nuovo Mon¬  do comparvero ai capi e ai popoli degli imperi che schiacciarono.   Essi li designavano con un nome - marianni - che in effetti gli  Indoeuropei usavano: i mdriya, incuiStig Wikander seppe riconosce-    26     re nel 1938 i membri dei «Mcitinerblinde» dello stesso tipo studiato da  Otto Hofler presso i Germani.   11. Teoria e pratica   La comparazione dei più antichi documenti indoiranici, celtici,  italici e greci, se da una parte permette di affermare che gli Indoeuro¬  pei avevano una concezione della struttura sociale fondata sulla di¬  stinzione e sulla gerarchizzazione delle tre funzioni, dall’altra parte  non può insegnare grandi cose sulla forma concreta - o sulle diverse  forme - in cui si sarebbero realizzate queste concezioni. Bisogna ora  generalizzare ciò che è stato detto più sopra a proposito degli Arya ve¬  dici.   È possibile che la società sia stata interamente ed esausti vamen-  te ripartita tra sacerdoti, guerrieri e pastori. Si può anche pensare che la  distinzione avesse solamente portato a mettere in risalto qualche clan  o qualche famiglia «specializzata», depositaria nell’un caso dei segreti efficaci del culto, nel secondo delle iniziazioni e delle tecniche guer¬  riere e nell’ultimo, infine, dei rimedi e delle magie deH’allevamento,  mentre il grosso della società, indifferenziata o meno differenziata, si  affidava alla direzione degli uni o degli altri, secondo le necessità o le  occasioni.   Si è infine liberi di immaginare moltissime forme intermedie,  ma queste non saranno che punti di vista dello spirito.   Certi raffronti di cifre sembrano tuttavia rivelare la sopravvi¬  venza di formule molto precise: così, nel Rgveda i «33 dèi» riassumo¬  no una società divina concepita ad immagine della società aryae sono  talvolta scomposti in 3 gruppi di 10, completati da 3 supplementari;  oppure, a Roma, le 33 comparse dei comitia curiata dei quali 30 (cioè  3 per 10) riassumono le 3 tribù primitive funzionali dei Ramnes, Luce-  res e Titienses, completate da 3 àuguri.   12. Le tre funzioni fondamentali   Così, non è il dettaglio autentico e storico dell’organizzazione  sociale tripartita degli Indoeuropei che interessa di più il comparatista,  ma il principio di classificazione, il tipo di ideologia che essa ha susci¬  tato, realizzato o formulato, e di cui non sembra essere più rimasta che  un’espressione tra tante altre. Diverse volte nell’esposizione che si è letta è stata incontrata  una parola importante: quella di funzione, di tre funzioni, e bisogna  così intendere certamente le tre attività fondamentali assicurate da  gruppi di uomini - sacerdoti, guerrieri, produttori - per il sostentamen¬  to e la prosperità della collettività.   Ma il dominio delle «funzioni» non si limita a questa prospetti¬  va sociale. Alla riflessione filosofica degli Indoeuropei esse avevano  già fornito - come sostantivi astratti, bnihman, ksutrù, vis, principi  delle tre classi nella riflessione filosofica degli Indiani vedici e  posl-vedici - ciò che può essere considerato, secondo il punto di vista,  come un mezzo per esplorare la realtà materiale e morale o come un  mezzo per mettere ordine nel patrimonio delle nozioni ammesse dalla  società.   L’inventario di queste applicazioni non propriamente sociali  della struttura trifunzionale, è stato intrapreso e continuato, dal 1938,  da E. Benveniste e da me stesso. Ora, è facile porre sulla prima e sulla  seconda «funzione» un’etichetta che copra tutte le sfumature: da una  parte il sacro e i rapporti dell 'uomo col sacro (culto, magia) c degli uo¬  mini tra di loro, sotto lo sguardo c la garanzia degli dèi (diritto, ammi¬  nistrazione), e così pure il potere sovrano esercitato dal re o dai suoi  delegati in conformità con la volontà o il favore divino e infine, più ge¬  neralmente, la scienza c l’intelligenza, allora inseparabili dalla medi¬  tazione e dalla manipolazione delle cose sacre; dall’altra parte la forza  fisica brutale e l’impiego della forza, uso principalmente ma non uni¬  camente guerriero.   È meno facile delincare in poche parole l’essenza della terza  funzione, che ricopre delle province numerose fra le quali intercorro¬  no dei legami evidenti ma la cui unità non comporta un centro ben de¬  finito: fecondità umana, animale e vegetale, ma, nello stesso tempo,  nutrimento e ricchezza, santità e pace (con le gioie c i vantaggi della  pace) e anche voluttà, bellezza c l’importante idea del «gran numero»,  applicata non solo ai beni (abbondanza) ma anche agli uomini che  compongono il corpo sociale (massa). Non sono queste delle defini¬  zioni a priori ma insegnamenti convergenti di molte applicazioni  dell’ideologia tripartita.   Gli indologi hanno familiarità con questo uso straripante della  classificazione tripartita sin dai tempi vedici: per un impulso che ricorda, nel suo vigore e nei suoi effetti, la tendenza classificatoria del  pensiero cinese - che ha distribuito tra lo yang e lo yin sia coppie di no¬  zioni solidali che antitetiche -1’India ha messo le tre classi della socie¬  tà, coi loro principi, in rapporto con numerose triadi di nozioni preesi¬  stenti o create per la circostanza. Queste armonie, queste correlazioni  importanti per l’azione simpatetica a cui tende il culto, hanno talvolta  un senso molto profondo, talvolta artificiale e altre volte puerile.   Così, ad esempio, le tre «funzioni» sono distributivamente con¬  nesse ai tre guna (propriamente, «figli») o «qualità» - Bontà, Passione,  Oscurità - delle quali la filosofia sùrìikhyu dice che gli intrecci variabili  formano la trama di tutto ciò che esiste; o ancora, nei tre stadi superiori  dell’universo, le si vede non meno imperiosamente collegate ai diver¬  si metri e melodie dei Veda o ai diversi tipi di bestiame o a comandare  minuziosamente la scelta dei diversi tipi di legno con cui saranno fatte  le scodelle o i bastoni.   Senza arrivare a questi eccessi di sistematizzazione, la maggior  parte degli altri popoli della famiglia presentano aspetti di questo ge¬  nere che, ritrovandosi molto simili su diverse altre parti del globo,  hanno la fortuna di risalire ad antenati comuni, agli Indoeuropei. Non  si potrà presentare in questa sede che qualche inventario.   13. Triadi di calamità f.triadi di delitti   Da circa vent’anni E. Benveniste ha individualo presso gli Ira¬  nici c gli Indiani delle formule molto simili in cui un dio è pregalo di  allontanare, da una collettività o da un individuo, tre flagelli, ognuno  dei quali si riconnettc a una delle tre funzioni.   Per esempio, in una iscrizione di Pcrscpoli (Persep. d 3) Dario  domanda ad Ahuramazdà di proteggere il suo impero «r/a// ’esercito  nemico, dal cattivo anno e dall'inganno» (quest’ultima parola, drau-  ga, nel vocabolario del Gran Re designava sopralutto la ribellione po¬  litica, il misconoscimento dei suoi diritti sovrani; ma si riferiva anche  al peccalo maggiore delle religioni iraniche, la menzogna). Parallela¬  mente, al momento delle cerimonie vcdichc del plenilunio c del novi¬  lunio, una preghiera è dedicala ad Agni, con delle formule che, diver¬  samente allungate dagli autori dei vari libri liturgici (per esempio  Tditt.Sariìh., I, 1, 13, 3; Sut.Bràhm., I, 9, 2, 20) hanno questo nucleo  comune:  «Conservami dalla soggezione, conservami dal cattivo sacrifi¬  cio, conservami dal cattivo nutrimento».   L’enunciato indiano è parallelo a quello iranico, con la riserva  che, al primo livello, il re achemenide parla di inganno e il ritualista  vedico di sacrificio malfatto: questo scarto nei timori corrisponde ad  evoluzioni divergenti - da una parte più moraliste e dall’altra più for-  maliste - delle religioni delle due società.   Mi è stato possibile dimostrare in seguito che i più occidentali  tra gli Indoeuropei, i Celti, i cui usi sono talvolta così sorprendente¬  mente simili a quelli vedici, utilizzavano la stessa classificazione tri¬  partita delle maggiori calamità.   La principale compilazione giuridica dell’Irlanda, il Senchus  Mór, comincia con questa dichiarazione ( Ancient Laws oflreland, IV  1873, p. 12): « Vi sono tre tempi in cui si produce il deperimento del  mondo: il periodo della morte degli uomini (morte per epidemia o per  carestia, precisa la glossa), la produzione accresciuta di guerra e la  dissoluzione dei contratti verbali». I malanni sono così ripartiti fra le  tre zone della salute o del nutrimento, della forza violenta e del diritto.   I Galli non hanno inserito nei loro libri giuridici delle tali for¬  mulazioni astratte, ma un testo che parrebbe essere la trasposizione ro¬  manzesca di un vecchio mito, il Cyvranc Lludd a Llevelis è consacrato  all’esposizione delle tre «oppressioni» dell’isola di Bretagna e al  modo in cui il re Lludd vi mise fine.   Queste calamità sono: 1) una razza di uomini «saggi» il cui «sa¬  pere» è tale che essi intendono per tutta l’isola ogni conversazione,  fosse anche a bassa voce, e interferiscono così nel governo e nei rap¬  porti umani; 2) ogni primo maggio ha luogo un terribile duello tra due  draghi, il drago dell’isola e il drago straniero che viene a «battersi» col  primo, cercando di «vincerlo», e le urla del drago dell’isola sono tali da  paralizzare e sterilizzare ogni essere vivente; 3) ogni volta che il re ac¬  cumula in uno dei suoi palazzi una «provvista di cibarie e di vivande»,  fosse anche per un anno, u n mago ladro giunge la notte seguente e porta  via tutto il suo paniere. Si osserva ancora una volta come le tre oppres¬  sioni si sviluppino qui negli ambiti della vita intellettuale, dell’ammi¬  nistrazione della forza e infine del nutrimento; in più, considerate in    30     base ai loro agenti e non in base alle vittime, esse definiscono tre delit¬  ti: abuso di un sapere magico, aggressione violenta e furto di beni.   Sembra che il più antico diritto romano ugualmente consideras¬  se i delitti privati come incantesimi maligni ( malum Carmen, occentu-  tio), violenza fisica ( membrum ruptum e osfractum, iniuriu) e in furto  {furtum)\ Platone utilizzava, in un contesto inerente alla tripartizione  C Repubblica, 413b-414a) e in un modo evidentemente artificiale,  prendendolo in prestito senza dubbio da qualche poeta tragico, una di¬  stinzione sistematica ed esauriente dei delitti molto simile, in «furto,  violenza fisica e incantesimo» (kXotcti, pila, yor|TEÌa). Benveniste ha raffrontato la classificazione avestica dei me¬  dicamenti ( Vidèvdàt , VII, 44: medicine del coltello, delle piante e del¬  le formule d’incantesimo) con l’analisi che fa un inno del Riveda sui  poteri medici degli dei Nàsatya-Asvin (X, 39, 3) «.guaritori di chi è  cieco (male misterioso, magico), di chi è smagrito (male alimentare) e  di chi ha una frattura (violenza)».   È lo stesso procedimento che nella III Pythica di Pindaro il cen¬  tauro Chirone insegna ad Asclepio per guarire « le dolorose malattie  degli uomini» (versi 40-55: incantesimi, pozioni o droghe, incisioni)  ed è stato sospettato che dietro questi fatti paralleli si celi l’esistenza di  una «dottrina medica» tripartita ereditata dagli Indoeuropei. Se i vec¬  chi testi germanici non applicano questo schema classificatorio ai ma¬  lanni, ai delitti o ai rimedi, è vero che l’utilizzano in altre circostanze:  il Canto di Skirnir nell 'Edda è un piccolo dramma in cui il servitore  del dio Freyr costringe, malgrado la sua volontà, la gigantessa Gerdr a  cedere ai desideri amorosi del suo maestro.   Inizialmente tenta invano di comprare ( kaupu ) il suo amore con  dei regali d’oro (strofe 19-22); poi, non meno inutilmente, minaccia di  decapitarla (str. 23-25) con la sua spada {ma.’.ki)\ infine al suo terzo ten¬  tativo non gli rimane che minacciarla con gli strumenti della sua ma¬  gia, bacchette ( gambantein ) c rune (str. 26-37).   15. Elogi tripartiti   Quando un poeta indiano vuole fare brevemente l’elogio totale  di un re, passa in rassegna le tre funzioni in tre parole: così, all’inizio del Raghuvamsa (I, 24) il re Dilàpa merita di essere chiamato padre  dei suoi sudditi « perché assicura loro buona condotta, li protegge e li  nutre». Con delle formule generalmente meno concise, l’epopea irlan¬  dese procede allo stesso modo. In un bel lesto, il Paese dei Viventi,  cioè l’altro mondo, la dimora dei morti divenuti immortali, è caratte¬  rizzalo dall’assenza di morte in base ai tre aspetti seguenti: «.non vi è  né peccato né errore...] vi si mangiano pasti eterni senza servizio; l'in¬  tesa regna senza lotte ».   L’originalità del paese meraviglioso consiste nel fatto che tutto  è buono e facile, ma questa idea si analizza e si esprime nel pensiero  dell’autore soprattutto secondo le tre funzioni (virtù, guerra, abbon¬  danza alimentare); la seconda funzione, di tipo violento, considerata  come un male c rifiutata, mentre le altre due sono sviluppale al massi¬  mo grado (J. POKÒRNY, «Conio’s abcnteucrliche Fahrt» ZCP XVII,  1928, p. 195).   In un a simile analisi, per fare 1 ’ elogio del re Conchobar, u n lesto  del ciclo degli Ulati dice che sotto il suo regno vi erano «pace e tran¬  quillità, saluti cordiali», «ghiande, grasso e prodotti del mare», «con¬  trollo, diritto e buona regalità» (K. MEYER, «Milleil. aus irischen  Handschriflen» ZCP, III, 1901, p. 229): cioè il contrario della guerra,  della carestia c dell’anarchia, il contrario dei tre flagelli contro i quali  il re Dario a Persepoli domanda al gran dio di conservare il suo impero.   16. Le tre funzioni e la «natura delle cose»   Si può obiettare talvolta che queste formule non siano troppo  naturali, così troppo ben modellale sull’uniforme e inevitabile dispo¬  sizione delle cose perché il loro accumulo e la loro somiglianza provi¬  no un’origine comune c resistenza di una dottrina caratteristica degli  Indoeuropei.   Una riflessione anche elementare sulla condizione umana e sul¬  le risorse della vita collettiva non dovrebbe forse mettere in evidenza,  in ogni tempo c in ogni luogo, tre necessità, cioè una religione che ga¬  rantisse un’amministrazione, un diritto c una morale stabile, una forza  protettrice c conquistatrice, infine dei mezzi di produzione, di alimen¬  tazione e di gioia? E quando l’uomo riflette sui pericoli che incontrac  sulle vie che si aprono alla sua azione, non è ancora a una qualche va¬  rietà di questo schema che si riporta? Basta uscire dal mondo indoeuropeo, in cui queste formule sono così numerose, per constatare che,  malgrado il carattere necessario e universale dei tre bisogni ai quali si  riferiscono, esse non hanno la generalità o la spontaneità chesi suppo¬  ne: al pari della di visione sociale corrispondente, non le si ritrova in al¬  cun testo egizio, sumerico, accadico, fenicio e biblico, né nella lettera¬  tura dei popoli siberiani, nè presso i pensatori confuciani o taoisti così  inventivi ed esperti di classificazioni.   La ragione è semplice ed elimina l’obiezione: per una civiltà,  sentire vivamente e soddisfare dei bisogni impellenti è una cosa; por¬  tarli alla chiarezza della coscienza e riflettere su di essi, farne una  struttura intellettuale e uno schema di pensiero è tutta un’altra. Nel  mondo antico solo gli Indoeuropei hanno fatto questo cammino filo¬  sofico e così si percepisce nelle speculazioni e nelle produzioni lette¬  rarie di tanti popoli di questa famiglia, che la spiegazione più econo¬  mica, come per la divisione sociale propriamente detta, è ammettere  che il percorso non è stato fatto e rifatto indipendentemente in ogni  provincia indoeuropea dopo la dispersione, ma che è anteriore alla di¬  visione ed è opera di pensatori dei quali i brahmani, i druidi e i collegi  sacerdotali romani sono in parte i diretti eredi.   17. Meccanismi giuridici triplici   Una delle applicazioni più interessanti ma più delicate è quella  che in riferimento alla concezione indoeuropea chiarifica presso i di¬  versi popoli (India, Roma, Lacedemoni) i quadri e le regole giuridi¬  che. Lucien Gerschel, ricordando il diritto romano, ha dimostrato che  questo, così originale nei suoi fondamenti e nel suo spirito, conserva  nelle sue forme un gran numero di procedure in tre varianti a effetti  equivalenti (che si spiegano solitamente, ma senza prove, come crea¬  zioni successive dell’ uso e del pretore) che almeno qualcuna di queste  sorprendenti «tripartita» si modella sul sistema delle tre funzioni qui  considerate. Citerò unodei migliori esempi: un testamento può essere  fatto con lo stesso valore sia nell’assemblea strettamente religiosa dei  Comitia Curiata, presieduti dal gran pontefice; sia sul fronte di una  battaglia davanti ai soldati; sia tramite una vendita fittizia a un «emp-  torfamiliae» (Aulo-Gellio, XV, 27; Gaius, II; Ulpiano, Reg. XX, 1).  Gerschel non pretende che sia esistito a Roma un «diritto sacerdota¬  le», un «diritto guerriero» e un «diritto economico», o che i tre tipi di testamento abbiano avuto delle assisi sociali o degli effetti differenti,  non più dei tre tipi di affrancamento o delle altre tricotomie giuridiche  che si possono interpretare in questo senso.   Questo quadro così incredibilmente frequente, questa triade di  possibilità a effetti equivalenti e l’omologia delle distinzioni che si di¬  stribuiscono, sembrerebbe attestare, dice Gerschel, che «i creatori del  diritto romano hanno da molto tempo pensato i grandi atti della vita  collettiva secondo l’ideologia delle tre funzioni e giustapposto volen¬  tieri tre processi, tre decorsi o tre casi di applicazione provenienti cia¬  scuno dal principio (religioso; attualmente o potenzialmente milita¬  re; economico) di una delle tre funzioni ».   18. Le tre funzioni e la psicologia   La stessa psicologia non sfugge a questo schema. I sistemi filo¬  sofici indiani dosano nelle anime, come nella società, dei principi  come la legge morale, la passione, l’interesse economico (dharma,  kCimu, artha) \ Platone attribuisce alle tre classi della sua Repubblica  ideale - filosofi governanti, guerrieri, produttori di ricchezze - delle  formule di virtù che distribuiscono e combinano la Saggezza, il Co¬  raggio e la Temperanza; in un’espressione apparentemente tradizio¬  nale e legala all’intronizzazione dei Re Supremi di Irlanda, la mitica  regina Medb, depositaria e donatrice della Sovranità, pone come tripli¬  ce condizione a chiunque vuole diventare suo marito, cioè re, di «essere  senza gelosia, senza paura, senza avarizia» (Tdin Bó Cualnge ed. Win-  disch, 1905, pp. 6-7); infine, anche lo zoroastrismo, nei testi brillante-  mente interpretati da K. Barr, spiega che la nascila dell’uomo per eccel¬  lenza, Zoroastro, è stata accuratamente preparata con la combinazione  di tre principi, l’uno regale, l’altro guerriero e il terzo carnale.   Si tratta forse di un’applicazione mitica di una credenza anti¬  chissima; nei trattati rituali domestici dell’India ( Sànkh. G. S, I, 17, 9;  Pdrask. G. S, 1,9, 5) si consiglia infatti alla donna che vuole concepire  un bambino maschio di rivolgersi a Mitra, a Varuna, agli Asvin e a  Indra (quest’ultimo accompagnato da Agni o Sùrya, secondo le va¬  rianti) e a nessun altro, cioè, come sarà dimostrato nel capitolo seguen¬  te, alla lista arcaica indo-iranica degli dèi che incarnano e patrocinano  la prima, la terza e la seconda funzione. Un’altra via di sviluppo per il pensiero trifunzionale è stata  quella del simbolismo: tanto i tre gruppi sociali quanto i loro tre princi¬  pi sono stati legati figurativamente e solidalmente a degli oggetti ma¬  teriali semplici, il cui raggruppamento li evocava e li rappresentava.  Sembra che dai tempi indoeuropei questa via abbia principalmente  portato a due insiemi: una collezione di oggetti talismani e un venta¬  glio di colori.   Ci si ricordi della leggenda tramite cui gli Sciti, secondo Erodo¬  to, spiegavano le loro origini: gli oggetti d’oro caduti dal cielo - carro e  giogo per l’agricoltore, ascia (o lancia o arco) come arma guerriera,  coppa cultuale - hanno dei valori nettamente classificatori secondo le  tre funzioni.   Ora, questi oggetti non erano solamente mitici: erano conserva¬  ti lutti insieme dal re e ogni anno venivano solennemente portati attra¬  verso le terre scitiche. Anche la leggenda irlandese attribuisce alla pe¬  nultima razza che avrebbe occupato l’isola, e che in realtà è costituita  dagli antichi dèi della mitologia (i Tuatha dé Danann, «Le tribù della  dea Dana»), un gruppo di oggetti talismani: il «calderone di Dagda»  che conteneva e donava un nutrimento meraviglioso; due armi terribi¬  li, la lancia di Lug che rendeva il suo possessore invincibile e la spada  di Nuada, al cui colpo niente sopravviveva; la pietra di Fai infine, sede  della sovranità, il cui grido rivelava quale dei candidati doveva essere  scelto come re (V. HULL«Thefourjewels oftheT.D.D» ZCP, XVIII,  1930, pp. 73-89). Le mitologie vediche e scandinave collegano allo  stesso modo dei gruppi di tre oggetti caratteristici a degli dèi che ve¬  dremo ben presto e che sono distribuiti secondo le tre funzioni.   20. Colori simbolici delle funzioni presso gli Indo-Iranici   Quanto ai colori simbolici, l’importanza e l’antichità sono già  segnalate, per il mondo indo-iranico, dal fatto che i tre (o quattro)  gruppi sociali funzionali sono designati in base alla parola sanscrita  varna e alla parola avestica pìstra (cf. il greco 7touciXoq «screziato»,  russo pisat' «scrivere»), che con sfumature diverse designano il colo¬  re. Di fallo è un insegnamento costante nell’India che brdhmunu,  ksatriya, vaisya e sùclru siano rispettivamente caratterizzati (e le spie¬  gazioni non mancano) dal bianco, il rosso, il giallo e il nero.    35     Di certo che vi è stata un’alterazione in seguilo alla creazione  delle caste inferiori ed eterogenee degli sùdra, di un antico sistema di  cui rimangono tracce nei rituali (Gobh. G. S., IV, 7, 5-7; Khucl. G. S.  IV, 2, 6) e senza dubbio anche uno nel Riveda («nero, bianco e rosso è  il suo cammino » dice X, 20,9 di Agni, il più triplice e trifunzionale de¬  gli dèi), sistema formato semplicemente da tre colori senza il giallo e  dove vi era il nero (o blu scuro) a caratterizzare i vaisya, gli allevato¬  ri-agricoltori.   In effetti anche l’Iran ha mantenuto questa ripartizione: una tra¬  dizione «mazdeo-zurvanita» che è stata progressivamente stabilita e  interpretata da H. S. Nybcrg (1929), G. Widengren, S. Wikan-  der (1938) c R. C. Zaehner (1938, 1955) descrive nella cosmogonia  l’uniforme dei sacerdoti come bianca, quella dei guerrieri come rossa  o variopinta e quella degli agricoltori-allevatori come blu scura. Altri  Indoeuropei praticavano lo stesso simbolismo. V. Basanoff ha intelli¬  gentemente i nterpretato in questo senso un rituale hiltita di evocatio in  cui i diversi dèi della città nemica assediata sono pregali di lasciarla e  di giungere presso gli assedianti attraverso tre cammini - il che suppo¬  ne tre diverse categorie di dèi - avvolti uno in una stoffa bianca, il se¬  condo in una stoffa rossa e il terzo in una stoffa blu ( Keilischrifturk aus  Bof’azkbi, VII, 60; FRIEDERICK, Deralte Orient, XXV, 2,1925, pp.  22-23).   21. Colori simbolici delle funzioni presso Celti e Romani   Tra i Celti della Gallia e dellTrlanda il bianco è il colore dei dm-  idi e il rosso, nell’epopea irlandese, è quello dei guerrieri; a Roma un  Albogalerus caratterizza il più sacerdote tra i sacerdoti, il flamen diu-  lis, mentre il paludumentum militare è rosso come il drappo sulla testa  del generale o come la trabea dei cavalieri o dei sacerdoti armati che  sono i Salii.   Un sistema completo a tre termini del simbolismo coloralo  s’incontra due volte nelle istituzioni romane. Il caso più interessante è  quello dei colori delle fazioni del circo che assunsero grande impor¬  tanza sotto l’impero e nella nuova Roma del Bosforo, ma che sono si¬  curamente anteriori all’impero c che gli studiosi di antichità romane  ricollegano del resto alle origini stesse di Romolo.    36     Le speculazioni esplicative di questi antichisti sono molteplici  e intrise di pseudo-filosol'ia e di astrologia, ma una di queste, conser¬  vata da Giovanni il Lido, De mens. IV, 30, si riferisce a delle realtà ro¬  mane e afferma che questi colori, che sono quattro, in epoca storica  erano inizialmente tre ( albati , russati, viricles) in rapporto non solo  con le divinità Jupiler, Mars e Venus (quest’ultima solo apparente¬  mente sostituita a Flora) i cui valori funzionali sono evidenti (sovrani¬  tà, guerra, fecondità), ma anche con le tre tribù primitive dei Ramnes,  Lucercs e Titienses.   A proposito di questi ultimi si è ricordalo più sopra che erano,  nella leggenda delle origini, sia componenti etnici (Latini, Etruschi,  Sabini) che funzionali (derivati da uomini sacri c governanti, da guer¬  rieri professionisti e da ricchi pastori) e che in un altro passaggio {De  magistrut. 1, 47) Giovanni il Lido interpreta come paralleli alle tribù  funzionali degli Egiziani e degli antichi Ateniesi.   Nel 1942 Jan de Vries raccolse un gran numero di esempi anti¬  chi e moderni (religiosi, l'olklorici c letterari) di questa triade di colori:  quasi lutti provenivano dall’area di espansione indoeuropea o dai suoi  confini, o dalle regioni che furono esposte all'influenza degli Indoeu¬  ropei e alcuni hanno chiaramente un valore classificatorio del tipo qui  considerato.   22. Le scelti- dei tigli di Feridùn   Infine, dei racconti epici, delle leggende o delle narrazioni mol¬  to diverse utilizzano ugualmente il quadro trifunzionale. Eccone qual¬  che esempio. La leggenda scitica dei tre figli di Targilaos, il cui ulti¬  mogenito raccoglie insieme alla regalità i meravigliosi oggetti d’oro  simboli delle tre Finzioni, è stata paragonala da M. Molé a una tradi¬  zione dell’Iran propriamente detto, relativa ai figli del l’eroe che V Ave¬  sta chiama ©hraétaona, i testi pahlavi Frètòn e i testi persiani Feridùn.  Eccola nella traduzione data da M. Molé a un passaggio dell 'Àyàtkar i  JàmcispTk:   «Da Frètòn nacquero tre figli; Salm, Tòz ed Eric erano i loro  nomi. Egli li convocò tutti e tre per dire ad ognuno di essi: «Io sto per  dividere il mondo tra di voi, che ciascuno di voi mi dica ciò che gli  sembra bello affinché io glielo doni». Salm chiese grandi ricchezze, Toz il valore ed Eric, su cui era la gloria dei Kavi (cioè il segno mira¬  coloso che distingue il sovrano scelto da Dio) la legge e la religione.  Frètón disse: «Che a ciascuno di voi giunga ciò che ha chiesto». Ed  egli donò infatti la terra di Rum a Salm, il Turkestan e il deserto a Toz  e l’Iran e la sovranità sui suoi fratelli a Eric».   Un’interessante variante di Ferdusi giustifica la stessa divisio¬  ne geografica con un altro criterio, anche se col medesimo senso.  Esposti a titolo di prova a uno stesso pericolo (un dragone minaccio¬  so), ognuno dei tre fratelli si rivela in accordo con la propria natura e  col proprio «livello funzionale»: Salm fugge, Tòz si precipita cieca¬  mente all’assalto e Iraj evita il pericolo senza combattere, con  l’intelligenza e il nobile sentimento che ha della dignità regale della  sua famiglia.   23. La scelta del pastore Paride   È un tema simile, presente fra i Greci d’Asia Minore e forse in¬  fluenzato dagli Indoeuropei di Frigia, che ha fornito la materia del  «giudizio di Paride», piacevole racconto dalle pesanti conseguenze  poiché è destinato a spiegare come, malgrado la sua ricchezza e il suo  valore, Troia finisca per soccombere ai Greci.   Paride, il bel principe pastore, vede giungere presso di sé tre dee  (che simboleggiano le tre funzioni) che gli chiedono un giudizio emi¬  nente; secondo un tipo di variante (Euripide, Iphig. Aul, V. 1300-  1307) ognuna si presenta nel l’aspetto del proprio rango e della propria  attività: Era, « fiera del letto regale del sovrano Zeus », Atena con  l’elmo sul capo e la lancia in mano, Afrodite senza altre armi che la  «potenza del desiderio». Secondo un’altra variante (Euripide, Troia¬  ne, v. 925-931) ogni dea tenta di accattivarsi il giudizio promettendo  un dono: Era promette la sovranità sull’Asia e l’Europa, Atene la vit¬  toria e Afrodite la donna più bella.   Paride sceglie male e assegna il premio ad Afrodite, scelta che  causerà ben presto il rapimento dell’incomparabile Elena e, malgrado  dieci anni di combattimento, la fine di Troia, distrutta da una coalizio¬  ne di uomini e divinità tra le quali Era ed Atena non saranno le meno  accanite.    38     Questo tipo di racconto ha prosperato sino ai tempi moderni. L.  Gerschel ha studiato delle tradizioni svizzere, tedesche ed austriache  raccolte nell 'ultimo secolo, evidentemente indipendenti dalla leggen¬  da greca, che presentano un giovane uomo che deve scegliere (ma ge¬  neralmente «bene») fra tre offerte nettamente funzionali; oppure tre  fratelli che si spartiscono tre doni funzionali dei quali solo uno, quello  della «prima funzione» assicura a chi lo possiede un destino piena¬  mente «buono». Ecco per esempio la forma originale rigorosamente  ricostruita da Gerschel, delle leggende tedesche sull’origine dello  «Jodeln» (Johlen).   «Res, il vaccaro di Bahilsalp, trova una notte nella capanna tre  esseri sovrannaturali in procinto di fare il formaggio: a un certo pun¬  to il latticello è versato in tre secchi e nel primo è rosso, nel secondo  secchio è verde e nel terzo è bianco. Res apprende che deve scegliere  un secchio e berne il latticello; allora uno dei vaccari fantasmi ag¬  giunge: «Se scegli il rosso sarai talmente forte che nessuno potrà  combattere con te». Il secondo vaccaro disse a sua volta: «Se tu bevi il  latticello di colore verde possiederai molto oro e sarai ricchissimo».  Il terzo infine spiegò: «Bevi il latticello bianco e tu sarai Jodeln mera¬  vigliosamente». Res rifiutò i due primi doni e si decise per il latticello  bianco, diventando un perfetto Jodler ».   Gerschel rileva che questa tecnica vocale ha nelle diverse va¬  rianti un effetto magico (tutte le bestie vengono incontro allo jodler e.  l'accompagnano; tavole e panche danzano nella sua capanna: le vac¬  che si alzano sulle loro zampe posteriori e danzano; la vacca più selva¬  tica si addolcisce e si lascia mungere facilmente, etc.).   24. Talismani di Roma e di Cartagine   Verso la fine delle guerre puniche Roma ha senza dubbio orga¬  nizzato su un tale tipo di schema la garanzia della sua vittoria finale:  una testa di bue, poi una testa di cavallo (trovate dagli scavatori di Di-  done sul sito in cui si ergeva, con Cartagine, il tempio della «sua» Giu¬  none) avevano, a detta di loro, garantito alla città africana l’ opulenza e  la gloria militare. Ma in virtù della testa d’uomo che gli spalatori di  Tarquinio avevano un tempo trovato sul Campidoglio, nel sito del fu-    39     turo tempio di Jupiter O. M, è Roma che detiene la più alta promessa,  quella della sovranità. L. Gerschel, a cui si deve ancora questa sor¬  prendente interpretazione, ha ricordato che presso gli Indiani vedici  uomo, cavallo e bue sono teoricamente i tre tipi superiori delle vittime  ammesse per il sacrificio, quelli le cui teste (assieme alle teste delle  due vittime inferiori, montone e capro) devono, almeno in apparenza,  essere interrate nel luogo in cui si vuole elevare l’importante altare del  fuoco, in mancanza del santuario permanente che non esiste i n India. Come ultimo esempio, riallacciando all’ambito epico la tripar¬  tizione dei flagelli e dei delitti ricordati più sopra, citerò un tema di  grande estensione letteraria che è stato diversamente spiegato in India,  in Scandinavia, in Grecia e in Iran: quello dei peccati di un dio o di un  uomo, generalmente (per delle ragioni che analizzeremo nel III capi¬  tolo) un personaggio della «seconda funzione», un guerriero.   Indra, il dio guerriero dell’India vedica, è un peccatore. Nei  Brahmano e nelle epopee la lista dei suoi errori e dei suoi eccessi è lun¬  ga e varia. Ma il quinto canto del Màrkandeya Purànu li ha ridotti allo  schema delle tre funzioni: Indra uccide prima il mostro Tricefalo,  morte necessaria poiché il Tricefalo c un flagello che minaccia il mon¬  do, ma tuttavia morte sacrilega poiché il Tricefalo ha il rango di brah¬  mano e non vi è crimine peggiore del brahmanicidio e di conseguenza  Indra perde la sua maestà, la sua forza spirituale, tejas (1-2). Poi, es¬  sendo stato generato il mostro Vrtra per vendicare il Tricefalo, Indra  s’impaurisce e contravvenendo alla vocazione propria del guerriero  conclude con Vrtra un patto infido che viola, sostituendo alla forza  l’inganno; di conseguenza perde il suo vigore fisico, baia (3-11). Infi¬  ne, tramite un’astuzia vergognosa, assumendo la forma del marito,  adesca una donna onesta in adulterio e perde così la sua bellezza, rùpa  (12-13).   L’epopea nordica - Saxo Grammalicus è l’unico a rintracciarne  la storia completa, ma lo fa secondo fonti perdute in lingua scandinava  - conosce un eroe di tipo molto particolare, Starkadr (Starcatherus),  guerriero modello in ogni punto, servitore fedele e devoto ai re che  1’accolgono, salvo che in tre circostanze. Egli è infatti stato dotato di tre vite successive, cioè di una vita  prolungata sino alla misura di tre vite normali, a condizione che in  ognuna di esse egli commetta una penalità.   Ora, il quadro di queste tre penalità si distribuisce chiaramente  secondo le tre funzioni. Essendo al servizio di un re norvegese l’eroe  aiuta criminalmente il dio Othinus (Ódinn) a uccidere il suo signore in  un sacrifìcio umano (VII, V, 1-2).   Trovandosi poi al servizio di un re svedese /ugge vergognosa¬  mente dal campo di battaglia dopo la morte del suo signore abbando¬  nandosi, in quest’unica occasione delle sue tre vite, alla paura panica  (Vili, V). Servendo infine un re danese, assassina il suo signore procu¬  randosi per mediazione centoventi libbre d’oro, cedendo eccezional¬  mente per qualche ora all’appetito di questa ricchezza di cui fece altro¬  ve, in atti e discorsi, professione di disprezzo (VII, VI, 14).   Essendosi così estinta 1 a sua triplice carriera non gli rimane che  cercare la morte ed è ciò che compie in uno scenario grandioso (Vili,  Vili). Il carattere e le gesta di Starkadr ricordano in molti punti quelle  di Eracle. Nelle esposizioni sistematiche che sono fatte - relativamen¬  te tarde ma non inventate - la vita intera dell’eroe greco (concepito da  Zeus e Alcmene durante tre notti) è scandita da tre mancanze che han¬  no un effetto grave sull 'essere dell’ eroe e ognuna di questecomporta il  ricorso all’oracolo di Delfi (Diodoro, IV, 10-38). 1) Euristeo re di  Argo comanda ad Eracle di compiere dei lavori e ne ha il diritto in virtù  di una promessa imprudente di Zeus e di un’astuzia di Era: Eracle  commette tuttavia l’errore di rifiutare, malgrado l’invito formale di  Zeus e l’ordine dell’oracolo. Approfittando di questo stato di disubbi¬  dienza agli dèi, Era lo colpisce nel suo spirito: egli è così preso dalla  demenza ed uccide i suoi bambini, dopo di che ritorna penosamente  alla ragione, si sottomette e compie così le Dodici Fatiche, aggravate  da altre fatiche (cap. 10-30). 2) Volendosi vendicare di Erito, Eracle  attira suo figlio Iphitos in un tranello e lo uccide non in duello ma con  l 'inganno (Sofocle nelle Trachinie 269-280 sottolinea il carattere for¬  temente antieroico di questo sbaglio). Eracle, punito, cade in una ma¬  lattia psichica da cui non si libera: viene così informato dall’oracolo  che deve vendersi come schiavo e rimettere ai figli di Iphitos il prezzo  di questa vendetta (cap. 31). 3) Benché infine legittimamente sposato  aDeianira, Eracle cerca di sposare un’altra principessa, poi ne rapisce una terza e la preferisce alla sua donna, dal che ne deriva il terribile di¬  sprezzo di Deianira, la tunica avvelenata dal sangue di Nesso e i terri¬  bili e irrimediabili dolori dai quali l’eroe non può liberarsi, dietro un  terzo ordine di Apollo, che con la propria apoteosi, col rogo (cap.  37-38).   Oltraggio a Zeus e disobbedienza agli dèi; morte vile e perfida di  un nemico senz’ armi; concupiscenza sessuale e oblio della propria don¬  na: i tre errori fatali di questa gloriosa carriera si distribuiscono sulle tre  zone funzionali esattamente come i tre peccali di Indra e con la stessa  specificazione (concupiscenza sessuale) della terza, alterando l’essere  stesso dell’eroe. Ma queste alterazioni, progressive e cumulative nel  caso di Indra, sono invece successive nel caso di Eracle: le prime due  possono essere riparate mentre la terza trascina alla morte.   In una tradizione avestica, senza dubbio ripensala e ri-orientata  dallo zoroastrismo, un eroe di tufi’altro tipo, Yima, è punito per un  unico grande peccalo (menzogna o, più lardi, orgoglio c rivolta contro  Dio e usurpazione degli onori divini) e viene privato in tre tempi dello  x' arvnah , di quel segno visibile e miracoloso della sovranità che Ahu-  ra Mazda pone sul capo di coloro destinati ad essere re. I tre terzi di  questo x v arvnah successivamente sfuggono per collocarsi nei tre per¬  sonaggi corrispondenti ai tre tipi sociali dell’ agricoltore-guaritore,  del guerriero e d c\V intelligente ministro di un sovrano (Dènkart , VII,  1, 25-32-36; molto più soddisfacente dello Yasl XIX, 34-38).   26. Il problema del re   Questo rapido excursus è sufficiente per mostrare le direzioni e  i diversi ambili in cui l’immaginazione dei popoli indoeuropei ha uti¬  lizzato la struttura tripartita; ancora una volta dobbiamo ora volgerci,  come per le altre applicazioni di questa struttura, verso i popoli non  indoeuropei del mondo antico per ricercare se intorno a un eroe si è  prodotto un tema epico o leggendario, la messa in scena di una lezione  morale o politica, la giustificazione colorita immaginifica di una prati¬  ca o di uno stato di fatto.   Al momento i risultali dell’inchiesta sono negativi. Da Gilga-  mesh a Sansone, dai grandi Faraoni agli imperatori favolosi della  Cina, dalla saggezza araba agli apologhi confuciani, nessun personag¬  gio storico o mitico ha rivestito in alcun modo l’uniforme trifunzionale in cui si trovano al contrario molte figure degli Indoeuropei. È dun¬  que probabile che questa divisa sia solo indoeuropea e che solo in  questa vasta partedel mondo, e prima della loro dislocazione, gli Indo¬  europei abbiano intellettualmente scandagliato, meditato e applicato  all’analisi e all’interpretazione della loro esperienza, e infine utilizza¬  to nei quadri della loro letteratura, nobile o popolare, le tre necessità  fondamentali e solidali che gli altri popoli si accontentavano di soddi¬  sfare.   Terminando quest’esposizione molto generale vorrei sottoline¬  are ancora che il riconoscimento di questo fatto così importante non ci  fornisce il mezzo per rappresentare lo stato sociale effetti voo le istitu¬  zioni (senza dubbio variabili da provincia a provincia) degli «Indoeu¬  ropei comuni».   Noi non possediamo che un principio, uno dei princìpi e dei  quadri essenziali. Una delle questioni più oscure rimane ad esempio il  rapporto fra le tre funzioni e il «re», del quale ci è assicurala l'esistenza  antichissima nella parte senza dubbio più conservatrice degli Indoeu¬  ropei, cioè presso gli indiani vedici (/•«/-), i latini (/ <?#-) c i celti (n#-).   Questi rapporti sono diversi sui tre domini c su ognuno vi è stata  una variazione nei luoghi e nei tempi. Risulta così qualche fluttuazio¬  ne nella rappresentazione e definizione delle tre funzioni c notoria¬  mente della prima: o il re è superiore, o per lo meno esterno alla strut¬  tura trifunzionale, e allora la prima funzione è centrala sulla pura  amministrazione del sacro, sul sacerdote piuttosto che sul potere, sul  sovrano e i suoi ministri; oppure il re (re-sacerdote più che governato¬  re) è al contrario il più eminente rappresentante di queste funzioni.   Oppure si presenta una mescolanza variabile di clementi presi  dalle tre funzioni e in special modo dalla seconda, dalla funzione e dal¬  la classe guerriera da cui solitamente proviene: il nome differenziale  dei guerrieri indiani, ksutriyu, non ha forse per sinonimo quello di  ràjanya, derivato dalla parola ràjanl   Queste difficoltà, insieme ad altre, potranno essere meglio for¬  mulale, se non risolte, quando avremo indirizzato lo studio su ciò che  fu l’armatura più solida del pensiero di questa società arcaiche: il siste¬  ma divino, la teologia e i suoi prolungamenti mitologici ed epici. § 1. V.M. AFTE, «Were castes formulateci in thè age of thè Rig Veda?»,  Bull, of thè Decenti College Research Institute, II, pp. 34-36. Per brahman  vedi L. RENOU, «Sur la nolion de bràhman», JA, CCXXXVII, 1949, pp.  1 -46. Questa interpretazione, facile da conciliare con i fatti iranici segnalali  da W.B. HENNTNG,' «Brahman», TPS, 1944, pp. 108-118, rende caduco il  senso ammesso nel mio Flamen-Brahmnti (1935). Il «Brahman» di P. THIE-  ME, ZDMG, 102, 1952, non ha fatto avanzare l’analisi e non altera il risultato  dello studio di Renou. Circa i rapporti del brahman e del flamen, vedi la mia  discussione con J. GONDA ( Notes on Brahman, 1950) in RHR, CXXXVIII,  1950, pp. 255-258 eCXXXIX 1951,pp. 122-127; riprenderò prossimamente  la questione di questi rapporti. Come xsaQra in avestico, ksatrd è ambiguo in  vedico e appartiene per certi impieghi al vocabolario del «primo livello»; ma  la concordanza dell’uso classificatorio del sanscrito ksatriya per designare  l’uomo del secondo livello, di X5a0ra come nome dell’arcangelo sostituito  nello zoroastrismo a Indra, dio del secondo livello (vedi qui sotto II § 8) e infi¬  ne di /Exscert-ieg come nome della famiglia degli uomini differenzialmente  “forti” nell’epopea degli Osseli (vedi sotto, 4), garantisce che fin dai tempi  indo-iranici questo termine fosse una designazione tecnica dell’essenza del  secondo livello.   § 2. DUMÉZIL, «La préhistoire indo-iranienne des castes», JA, CCXVI,  1930, pp. 109-130. B ENVENISTE, «Les classes sociales dans la tradilion ave-  stique», JA, CCXXI, 1932, pp. 117-134; «Les mages dans l’ancien Iran»,  Pubi, ile la Soc. cles Étuiles Iraniennes, n. 15,1938, pp. 6-13; «Tradilions in-  do-iraniennes su les classes sociales», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-550; H.S.  NYBERG, Die Religione/} cles alteri Iran, 1938, pp. 89-91; DUMÉZIL, JMQ,  pp. 41-68 (= JMQ it. pp. 24-45).   § 3. L’interpretazione è stata progressivamente costituita negli articoli e  nei libri citati al § 2, partendo da una suggestione di A. CHRISTENSEN, Le pre¬  mier homme... I, 1918, pp. 137-140.   § 4. JMQ, pp. 55-56 (= JMQ il., p. 35). Sulle tradizioni degli Osseti vedi il  mio Légemis sur les Nartes, 1930, c il risultato delle grandi inchieste degli  anni ‘40 pubblicale in Osetinskije Nartskije Skazanija (Dzauzikau), 1948 (in  osseto: Narty kailcliitce ibid. 1946). Il testo citalo di Turganov è nell’articolo  «Klo takie Narty?»,/zv. Oset. histit. Kraeveilenija, I (Vladikavzak), 1925, p.  373.   § 5. Vedi la mia Lezione Inaugurale al Collège de Franco (1949), pp.  15-19 e BGDSL, 78, 1956, p. 175-178.   § 6. JMQ, pp. 110-123 (=JMQ il. pp. 77-87). Sette anni più tardi, dopo la  guerra, T.G.E. POWELL ha ripreso la mia dimostrazione, «Ccltic Origins; a  Stage in thè Hnquiry», J. ofthe R. Anthropol. Institute, 78, 1948, pp. 71-79:   « Of greatest interest is thè recognition of a three folci clivision o f society    44     among thepeoples concerned [Indiani, Italici, Celti ],providing in thehighest  rank a class oflearned and sacred men, in tlie second warriors, and in thè lo-  west thè ordinary people » etc. Circa il nome di aire apparentato ad aiya, io  credo che bisogna rinunciare all’etimologia che accosta il nome dell’eroe ir¬  landese Eremon al dio indo-iranico Aryaman (vedi sotto III § 6) e in conse¬  guenza sopprimere l’ultimo capitolo del mio Troisième Souverain, 1949.   § 7-8. Questa analisi è stata fatta progressivamente in JMQ, pp. 129-1 54  (= JMQ it., pp. 90-107); NR, pp. 86-127 (= JMQ it. pp. 230-263); JMQ IV,  pp. I 13-134. In parte qui riproduco il riassuntode L'heritage... pp. 127-130 e  190-209. Gli Umbri distinguevano nella società i rappresentanti delle tre fun¬  zioni: «Ner - et uiro - dans les sociétés italiques», REL, XXXI, 1953, pp.  183-189.   § 8. Delle obiezioni a questa analisi sono state lungamente esaminate in  NR, cap. II (= JMQ it. pp. 230-262), riassunto in L’heritage... pp. 196-201 e  229-23 1. Ho anche fatto notare che se Ranmes è utilizzato - «superbum  Rhamnetem» -come nomeproprioda Virgilio (Aen., IX. 327) è perdesignare  un re jce un augur ; che Lucer- sembrerebbe essere all’origine del nome della  gens Lucretia, una delle più militari delle leggende dei primi tempi della Re¬  pubblica (e proprietaria del cognome Tricipitinus, che senza dubbio allude a  un mito del Tricefalo); che il radicale di Titienses (F. BUCHELER, Kl. Sdir.,  Ili, 1930, pp. 75-80) si trova in altre parole in rapporti diversi ma convergenti  con la fecondità, l’amore, la voluttà: questo conferma l’orientamento diffe¬  renziale di ognuna delle tribù verso una delle tre funzioni. Ho infine ricercato  delle allusioni letterarie alle «tre funzioni» e ai loro rappresentanti, come  componenti di Roma o di altre società concepite a sua immagine: JMQ IV,  pp. 121-136; REL, XXIX, 1951, pp. 3 18-329; ma i testi degli storici e quello  di Properzio sono sufficienti. La questione dell’autenticità della fusione dei  Latini e dei Sabini alle origini di Roma è connessa a questa ma differente,  vedi sotto, II i? 17, nota.   § 9. JMQ, pp. 252-253 (=JMQ it., pp. 269-270); in compenso le classi do¬  riche sono di un altro tipo, malgrado JMQ, pp. 254-257 (soppresso in JMQ  it.). Un recente studio di MARTIN P. NlLSSON sulle Phylae ioniche ( Cults,  myths, oracles andpolitics in ancient Greece, 1951, pp. 143-149) presenta  delle difficoltà che esaminerò altrove. L.R. PALMER ha brillantemente pro¬  posto di riconoscere la tripartizione sociale indoeuropea nei testi micenei:  TPS, 1954, pp. 18-53; Acliaeans and Indoeuropeans, an Inaugurai Lecture,  Oxford 1954, pp. 1 -22. Quanto ai «tre stati» della Repubblica di Platone, vedi  JMQ, pp. 257-261 (= JMQ it. pp. 170-171 ): « Se le più antiche tradizioni degli  Ioni conservano il ricordo di una divisione funzionale quadripartita della so¬  cietà (sacerdoti, guerrieri, agricoltori, artigiani), la città ideale di Platone  non potrebbe forse essere, nel senso più stretto, una reminiscenza indoeuro¬  pea? Essa è costituita dalla concatenazione armoniosa di tre funzioni, tò  (pu7.CXKlKÓV O (3oi)A.EV>TlKÓV, TÒ ÈKlKO'UpiKÓV, TÒ XpimOtTlCTTUCÓV «CUStO-    45     dum genus, uuxiliarii, questuarti», come traduce Marsilio Ficino, cioè i filo¬  sofi che governano, i guerrieri che combattono e il terzo-stato, agricoltori e  artigiani riuniti, che crea la ricchezza. La solidarietà dei primi due gruppi al  di sopra del terzo è fortemente marcata, ma soprattutto l’originalità di ciascuno: ogni stato agisce conformemente alla sua definizione, oìtceiojtpa/yia,  evita la confusione , 7toA.U7cpaynpoa'ùvE, e la Giustizia, fine ultimo della vita  politica, è assicurata. A ognuno degli stati corrisponde infine una «formula  di virtù» particolare: il terzo stato deve essere temperante, acótppcov; alla  temperanza i guerrieri devono aggiungere il coraggio, àvSpeia; i «guardia¬  ni» saranno inoltre saggi, aotpoi. Tutto questo fa immaginare, per quel po ’  che li si è praticati, i trattati politico-religiosi dell’India: stessa definizione  dei tre stati sociali; stessa solidarietà dei primi due, ubhe vlrye; stesso anate¬  ma contro la confusione, varnanàm samkaram,- stessa esortazione ad atte¬  nersi al modo di azione a cui si appartiene, stessa distribuzione dei doveri e  delle virtù dello stato. I legislatori indiani e la Repubblica si fanno eco: none  forse perché essi recitano la medesima canzone ancestrale?... Che si pensi a  tutte le vie per le quali questa «filosofia indoeuropea» tripartita ha potuto di¬  scendere fino a Platone: non solo le tradizioni sulle origini degli Ioni, ma i  contatti molteplici con quel conservatore di dottrine, non ariane, ma anche  ariane, che fu l'impero degli Ac he me nidi; l'orfismo, in cui deiframmenti del¬  la scienza dei sacerdoti traci e frigi si sono depositati e in cui non mancavano  le triadi; il pitagorismo, su cui Henri Hubert ci invitava, vent’anni or sono, a  non trascurare le componenti «iperboree»; infine il folklore...» Cf. qui sotto  § 18, per le applicazioni psicologiche della divisione tripartita nell’India e in  Platone.   § 10. Cf. i riferimenti al § 5. Sui marianni (egiziano ma-ra-ya-na\ cunei¬  forme mar-ya-an-nu ; forse come l’ha proposto Albrighl, dall’accusativo plu¬  rale arya mdrycin + la terminazione hurrita -ni), vedi R.T. O’CALLAGHAN,  «New light on thè Maryannu as chariot-warrior», Jb. f kleinas. Forschung,  1951, pp. 308-324. I libri fondamentali quelli di S. WtKANDER, Der arische  Mannerbund, 1938 e H. LOMMEL, Der arische Kriegsgott, 1939, da confron¬  tare con O. HÒFLER, Kultische Geheimbùnde der Germanen, I, 1934. Una  delle grosse differenze tra il «Mannerbund» degli Indiani e quello dei Germa¬  ni consiste nel fatto che il primo appartiene a Indra (non a Varuna), mentre il  secondo a Ódinn (e non a Pórr): effetto dell’evoluzione della «funzione guer¬  riera» presso i Germani (cf. II § 22); vedi MDG, p. 92, n. 1 e più specificata-  mente, J. De VRIES, Altgerman. Rei. - Gesch., II, 1957, §§ 405-412.   § 11. Un’interpretazione delle corrispondenze del tipo «33» fra Roma e  l’India vedica è proposta in JMQ IV, pp. 156-170 (= JMQ it., pp. 389-405),  L'heritage..., pp. 213-227.1 «33 dèi» vedici sono ripartiti frai tre piani del  mondo (JMQ IV, pp. 30-33; riassunto in DIE, pp. 7-9) essi stessi in rapporto  con le tre funzioni (JMQ, p. 65 = JMQ it. pp. 42-43 ). Il carattere indo-iranico  dei «33 dèi» è garantito dalla concezione avestica dei «33 ratu» (spiriti pro-    46     tettori o prototipi delle diverse specie di esseri): JMQIV, pp. 158-159(=JMQ  it., pp. 294-395), secondo J. Darmesteter e S. Wikander.   § 12. È nel suo articolo «Traditions indo-iraniennes sur les classes socia -  les», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-549, che E. BENVENISTE ha per la prima  volta mostrato, al di fuori dell’India vera e propria in cui il fatto era ben cono¬  sciuto, che l’ideologia tripartita supera largamente l’organizzazione sociale  che finalmente non appare più se non come un’applicazione particolare.  Come disse all’inizio di un altro articolo, per riassumere l’insegnamento di  questo («Symbolisme social dans les cultes gréco-italiques» RHR,  CXXXIX, 1945, p. 5): «La elivisione della societe'i in tre classi, sacerdoti,  guerrieri, agricoltori, è un principio di cui gli Indo-Iranici avevano piena co¬  scienza e che presentava ai loro occhi l’autorità e la necessità di un fatto na¬  turale. Questa classificazione regge così profondamente l’universo  indo-iranico che il suo dominio reale supera largamente le enunciazioni  esplìcite degli inni e dei rituali. Si è potuto dimostrare [JA, 1938, p. 529 e  segg.] che varie rappresentazioni sono state con formate e che sono fuori dal¬  la sfera propria del sociale, al punto che ogni de finizione di una totalità con¬  cettuale tende inconsciamente a riflettere il quadro tripartito che organizza  la società degli uomini. Da parte sua, G. Dumézil, in una serie di brillanti stu¬  di ha riportato sino alla comunità indoeuropea l’origine di questa classifica¬  zione, scoprendola nei miti e nelle leggende dell ’Europa occidentale antica e  principalmente -è l'oggetto del suo libro Jupiter, Mars, Quirinus - nella reli¬  gione romana». Le posizioni variabili della «tecnica» in rapporto alla tripar¬  tizione sociale sono esaminate in «Les métiers et les classes fonclionnelles  chez divers peuples indoeuropéens» che sarà pubblicato quest’anno in Anna-  les. Economies, Sociétés, Civilisations.   § 13. BENVENISTE, «Traditions indo-iran. sur les classes sociales», JA  CCXXX, 1938, pp. 543-545; DUMÉZIL, «Triades de calamités et triades de  délits à valeur trifonclionnelle chez divers peuples indoeuropéens», Ltito-  mus, XIV, 1955, pp. 173-185.   § 14. BENVENISTE, «La doctrine médical des Indo-Européens», RHR,  CXXX, 1945, pp. 5-12; Dumézil, art. cit. al paragrafo precedente, p. 184, n.2.   § 15. JMQ, pp. 114-115 (= JMQ it., p. 80)   § 17. «Les trois fonctions et le droit romain selon L. Gerschel», frammenti  di una memoria inedita di L. G., pubblicata in appendice a JMQ IV, pp.  170-176.   § 18. Per Platone e l’India vedi JMQ, pp. 259-260 (=JMQ it., pp. 171 -172)   «Dopo aver scoperto la formula tripartita della società, Platone si volge  sull’individuo, sull'«Uno umano» e in questo microcosmo ritrova gli stessi  elementi in una stessa gerarchia, le stesse condizioni di armonia comandano  le medesime virtù. L'uomo giusto, dal punto di vista della giustizia, non diffe¬  risce in niente dallo Stato giusto; ha in sé l'equivalente dei saggi, dei guerrie¬  ri, degli uomini ricchi: questi sono i principi della conoscenza, della  flussione e dell ’appetito , xò à.oyi0xixóv, xò 0upoEi6éq, xò È7U0'ujìtixikóv,-  che effli subordina in modo tale che il secondo aiuti il primo, in modo che i  due primi dominino insieme questo temibile terzo che è in ogni uomo la parte  più considerevole dell’anima e che è per natura insaziabile di ricchezze; poi¬  ché apre alla saggezza, al coraggio e alta temperanza gli spazi spirituali che  convengono a loro; egli sarà ciò che deve essere. Allo stesso modo l’India,  con l’instabilità delle rappresentazioni e delle formulazioni che le è propria,  compone l’anima o meglio l'involucro dell’anima, di tre guna al pari della  società e dell'universo: queste qualità, che furono inizialmente luce, crepu¬  scolo e tenebra, sattva, rajas e tamas, sia perla loro presenza isolata che per  la loro combinazione, costituiscono gli individui e lo Stato: talvolta il senso  della legge morale, della passione e dell’interesse, dharma, kama e artha, si  uniscono in una triade equivalente a quella dei guna e il loro equilibrio lode¬  vole o biasimevole definisce i tipi umani; talvolta, seguendo uno schema  prettamente indiano, è la conoscenza serena, l’attività inquieta o l’ignoran¬  za fonte di errori, che si disputano il nostro effimero edificio e questa sempli¬  ce enumerazione disegna una terapeutica...» Per l’Irlanda e la regina Medb  vedi JMQ, pp. 115 -116 (= JMQ it., pp. 80-82); è la stessa Medb che commen¬  ta chiaramente la sua seconda e terza esigenza: il suo sposo dovrà essere valo¬  roso in guerra e anche generoso di beni quanto lei; circa la prima si spiega in  questi termini; non bisogna che mio marito sia geloso poiché «non sono mai  stata senza un uomo nell’ombra di un altro » - allusione alle costanti competi¬  zioni intorno alla regalità irlandese che Medb incarna e conferisce. Nella lon¬  tana posterità di Platone, Claudiano, De quarto consul. Hon., espone  magnificamente la teoria della tre parti dell’ anima (o delle tre anime) c ritro¬  va, v. 259, una formula analoga alle tre esigenze di Medb (ma col «timore» al  primo livello: si metuis, sipraua cupis, si duceris ira; seruitiipaliere iugum...   - Per «Zoroastro tripartito» vedi K. Barr, «Irans profet som xéXeioq  avOptonoq», Festkr. tilL.L. Hammerich, 1952, pp. 26-36.   § 19. Perii talismano dei Tualha De Danann, vedi JMQ, cap. VII (soppri¬  mendo le pagine 241-245). Per gli oggetti vedici (la Vacca magica per il  dio-cappellano Brhaspati, due cavalli bai pcrlndra, ilearro a tre ruote che ser¬  ve agli Aévin per portare la loro benevolenza al mondo: p. es. RV, I, 161, 6) e  scandinavi (P anello magico per Odinn, il martello per Pórr, il cinghiale dalle  setole d’oro per Freyr) vedi Tarpeia, IV («Mamurius Veturius»), pp.  205-246.   § 20. Nei rituali vedici vi sono tracce di un’antica assegnazione del nero ai  vaiéya: per costruire la sua casa un indiano sceglie un suolo diversamente co¬  lorato, bianco per un brahmano, rosso per uno ksatrya e per un vaiéya, giallo  secondo certi trattati ( Àsvalàyana G.S., II, 8, 8) e nero secondo altri ( Gobhila  G.S., 7, 7; Khàdira G.S., IV, 2, 12). Per la tradizione iranica vedi in ultimo  luogo ZaEHNER, Zurvan, 1955, pp. 118-125 (testo del Grande Bundahisn c  del Denkart, pp. 321-336 e 374-378). Per il rituale hittita vedi BasaNOFF,  Euocatio, 1947, pp. 141-150.    48     § 21. DUMÉZIL, Rituels cap. Ili («Albati, russati, virides») e IV («Ve-  xillum caeruleum»); J. DE VRIES, «Rood, wit, zwart», Volkskimde, II, 1942,   pp. 1-10.   § 22. MOLE, «Le partage du monde dans la tradition des Iraniens», JA,  CCXL, 1952, pp. 456-458.   § 23. DUMÉZIL, «Les trois fonctions dans quelques traditions grecques»  Eventail de l'histoire vivante (= Mèi. L. Febvre ), I, 1954, pp. 25-32, dove  sono studiate in questo senso il «Kroisos-Logos» di Erodoto e certe forme  dell’apologo di Mida e del Sileno; L. GERSCHEL, «Sur un schème trifon-  ctionnel dans une famille de légendes germaniques», RHR, CL, 1956, pp.  55-92, in cui sono esaminati due tipi imparentati di leggende, una che com¬  porta l’opzione proposta a un individuo fra tre «offerte funzionali» (es.  l’origine di «Jodeln» citata nel testo) e l’altra che presenta tre fratelli che si  spartiscono tre doni funzionali il cui valore si rivela disuguale a vantaggio del  dono della prima funzione (es. il gruppo di leggende di cui Ch. PRÉVOT  D’ARLINCOURT, Le Pélerin, III, 1842, pp. 268-291 ha pubblicato un buon  esempio).   § 24. L. GERSCHEL, «Structures augurales et tripartition fonctionnelle  dans la pensée del’ancienneRome», JP, 1952, pp. 47-77. L’estrema antichità  e il carattere indoeuropeo di certe concezioni e pratiche augurali di Roma (la  parola augur è indoeuropea) sono state stabilite in diversi articoli:  «L’inscription archaique du Forum et Cicéron, De divin., Il, 36», RSR,  XXXIX-XL ( =Mél. J. Lebreton. I), 1951, pp. 17-29, prolungata da «Le iuges  auspicium et les incongruités du taureau attelé de Mugdala», NC, V, 1953,  pp. 249-266; Rituels..., cap. II («Aedes rotunda Vestae»); «Les trois premiè-  res regiones caeli de Martianus Capei la», Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. A  M. Niedermamì), 1956, pp. 102-107. Sulla parola augur e la sua preistoria in¬  doeuropea, vedi «Remarques sur augur, augustus», REL, XXXV, 1957, pp.  126-151.   § 25. Aspects..., p. 63-101 («Les trois péchésdu guerrier»). Citiamo anco¬  ra L. GERSCHEL, «Coriolan», Eventail de l’Histoire vivante (=Mél. L. Feb¬  vre), II, 1954, pp. 33-40: Coriolano, accampatosi davanti a Roma, resiste alle  ambasciate dei suoi compagni d’arme, poi a quella di tutto il corpo sacerdo¬  tale rivestito delle sue insegne sacre e con gli strumenti di culto, ma cede alla  terza, a quella di tutte le donne di Roma che portano i loro bambini - la «parte  germinativa» di Roma - condotte dalla sua propria madre e da sua moglie.   § 26. Sulla diversità delle posizioni del re in rapporto alle tre funzioni,  vedi la mia comunicazione al Vili Congresso Internazionale di Storia delle  Religioni (Roma 1956), «Le rex et les flamines maiores», riassunta negli  Atti..., 1956, pp. 118-120. Sul re germanico nella prospettiva trifunzionale  vedi J. DE VRIES, «Das Kònigtum bei den Germanen», Saeculum, VII, 1956,  pp. 289-309.    49      Capitolo secondo    Le teologie tripartite    1. Espressione teologica dell’ideologia delle tre funzioni   Le teologie dei diversi popoli indoeuropei non sono essenzial¬  mente degli accumuli incoerenti di dèi stratificati dai flussi e riflussi  fortuiti della storia. In ogni luogo su cui siamo sufficientemente infor¬  mati è facile riconoscere un gruppo centrale di divinità solidali che si  definiscono le une con le altre e che si spartiscono le province del sa¬  cro, secondo il piano spiegato nel capitolo precedente. Questi gruppi  sono stati per lungo tempo, a seconda dei casi, trascurati, negati o mal  compresi.   Il loro riconoscimento - e notoriamente quello del gruppo itali¬  co e mitanno di cui si discusse inizialmente (1938, ma soprattutto a  partire dal 1945)-èall’origine dei principali progressi dei nostri studi;  all’origine anche di numerose discussioni spesso gradevoli, talvolta  penose, ma generalmente utili, tra il comparatista e lo specialista dei  diversi ambiti.   2. Gli dèi caratteristici delle tre funzioni negli inni e nei   RITUALI VEDICI   I sacerdoti dell’India vedica, in un certo numero di circostanze  rituali importanti, associano (per delle invocazioni, delle offerte o del¬  le enumerazioni classificatorie) i due sovrani dell’universo, Mitra e Varuna, il dio guerriero per eccellenza, lnd(a)ra, c i due gemelli, quasi  sempre designati al duale con un nome collettivo, i Ncisatya o Asvin,  guaritori, datori di discendenza e di ogni sorta di bene. Talvolta al se¬  condo livello, evidentemente per analogia col raggruppamento bina¬  rio del primo e terzo livello, Indra compare associato a un altro dio,  spesso variabile (Vàyu, Agni, Surya, Visnu). Abbiamo già visto (I §  18) questo insieme divino (Mitra-Varuna, i due ASvin, Indra con Agni  o Sùrya), invocati per ottenere la formazione di un feto maschio, obiet¬  tivo più importante in questi tempi arcaici che non oggi.   L’ordine di numerazione mette gli ASvin al secondo posto, pri¬  ma di Indra poiché si tratladi una nascita, cioè di un avvenimento che è  propriamente del loro ambilo. Con un’alterazione differente dell’ordi¬  ne che mette più in evidenza Indra, questo raggruppamento costituisce  la lista dei principali «dèi in coppia» invocali al momento culminante  della spremitura mattutina del soma (il sacrificio tipico); sono  Indra-Vàyu, Mitra-Varuna c i due ASvin (vedi il Sat. Bruhm., IV, 1,  3-5) ed è lui che comanda il piano di un certo numero di inni del Rive¬  da ispirati da questo rituale.   Il contesto di questi inni è sovente istruttivo, garantisce e illu¬  stra il valore funzionale di ogni livello divino: per esempio in I, 139  Indra-Vàyu sono caratterizzati dalla presenza, vicino a loro c nella  stessa strofa ( 1), della parola sàrdhas, termine tecnico che designa il  battaglione dei giovani guerrieri divini: la strofa di Mitra-Varuna (2) è  riempita dalla nozione di rtù c dnrta, cioè dell’Ordine cosmico e mo¬  rale e dal suo contrario; gli ASvin (3) sono invece presentati come i si¬  gnori delle due varietà di «vitalità», srlyah e prksah.   Nei due inni complementari (I, 2 e 3), Indra-Vàyu sono qualifi¬  cati come nani, «Mànner, eroi» (2, slr. 6); di Mitra-Varuna (2, str. 8) è  detto che «con l'Ordine, curando l'ordine, hanno raggiunto  un’elevata efficienza »; quanto agli Asvin, « donano gioia a molti» (3,  slr. 1).    3. Lis ti-: ascendenti e discenden ti   Più spesso l’ordine canonico sia ascendente che discendente è  rispettato. Ecco inizialmente due casi molto «puri» in cui Indra è solo  al suo livello.    52      Nel rituale arcaico e minuzioso d’erezione dell’importante alta¬  re del fuoco, al momento in cui si tracciano i sacri solchi che devono li¬  mitare l’area, viene fatta un’invocazione alla vacca mitica, Kàmadhuk  («quella che quando la si munge dona ciò che si desidera»).  L’invocazione contiene la sequenza divina che ci riguarda, nel senso  discendente, con un prolungamento che ne garantisce i valori funzio¬  nali: «Produci come latte ciò che desiderano, a Mitra e Varuna, a  Indra, ai due Asvin, a Pùsan (dio del bestiame e talvolta dei sfidra),  alle creature, alle piante!» (cf. Éat. Brdhm., VII, 2, 2, 12). In una tale  numerazione ordinata, al di sopra delle piante, degli animali ed even¬  tualmente degli uomini non-arya, Milra-Varuna, Indra e gli Asvin non  possono patrocinare che tre varietà di uomini arya, quelli che corri¬  spondono rispettivamente e gerarchicamente alle loro tre nature.   In un sacrificio offerto per ottenere certe prosperità, gli stessi  dèi sono invocati nell’ordine ascendente con un complimento colletti¬  vo ed esauriente (Taittir. Sarnh. , II, 3, 10, 1 b): «tu sei il soffio degli dèi  Asvin... tu sei il soffio di Indra... tu sei il soffio di Mitra-Varuna... tusei  il soffio di Tutti gli Dèi!».   Con Agni associato ad Indra, nell’ordine discendente, si osser¬  va la stessa sequenza all’inizio di un lesto speculativo molto interes¬  sante ( RV , X, 125 = A V, IV, 30 con una leggera variante nell’ordine  delle strofe): è il famoso inno panteista, messo nella bocca di un perso¬  naggio che è senza dubbio Vàc, la Parola, c che in ogni caso si presenta  come il supporto e l’essenza comune di tutto ciò che esiste.   La prima strofa è questa: «Io vado con i Rudra, con i Vasu, con  gli Àditya e con Tutti gli Dèi! Sono io che sostengo tutti e due Mi¬  tra-Varuna; sono io che sostengo Indra-Agni, io che sostengo i due  Asvin!». È degno di nota che nelle strofe seguenti, analizzando la pro¬  pria polivalenza o, come ella dice, i « diversi luoghi » c «soggiorni» in  cui «glidèi l’hanno introdotta » (RV, str. 3 =A Vslr. 2), Vàc metta in ri¬  salto, come parti della sua opera in rapporto agli uomini (RV str. 4, 5, 6  =AV str. 4, 3, 5) il nutrimento e la vita, poi la parola «assaporata dagli  dèi e dagli uomini» e il bene che concede ai personaggi sacri (bruh-  man, rsi), infine l’arco «la freccia che uccide il nemico del brahmàn» c  il combattimento.   È chiaro che, qualunque sia l’intenzione dottrinale (si è parlato  in quest’occasione di Logos ncoplalonico), questo poema utilizza nelle sue espressioni il più antico sistema concettuale degli Arya: con la  sua esposizione di nozioni parallele (dèi, azioni) conferma che la se¬  quenza Mitra-Varuna, Indra (solo o accompagnato) e i due Asvin riu¬  nisce i patroni e le espressioni teologiche delle tre funzioni.   4. Gli dei arya dei Mitanni   Talvolta leggermente ritoccata, secondo preoccupazioni che è  spesso possibile comprendere, questa stessa sequenza si ritrova in di¬  versi testi dell’India arcaica, ma ora voglio giungere senza indugio a  un documento molto importante.   È risaputo che tra gli Indo-Iranici un ramo parlante sia il futuro  «indiano-vedico», che un dialetto molto vicino a quelli che si possono  chiamare «para-indiani», invece di emigrare verso Est, verso l’Indo e  il Panjab, deviò verso Ovest, presso l’Eufrate e fino alla Palestina, in¬  correndo in un destino brillante ma effimero e lasciando sue tracce in  molti scritti cuneiformi.   Mentrei loro fratelli orientali, autori degli inni vedici, sfuggono  alla storia, questi, circondali da popoli archivisti e armati di una scrit¬  tura, sono localizzabili e databili con una grande precisione. Sono loro  che hanno fatto tremare e talvolta crollare antichi reami del Vicino  Oriente con le loro bande di guerrieri specialisti, di cui si c parlato più  sopra, quelli che i testi babilonesi ed egiziani chiamano marianni.   Il gruppo più interessante di questi «Para-Indiani» è quello che,  inquadrando e dirigendo un popolo di altra origine, ha fondato nella  metà del secondo millennio, sulle bocche deH’Eufrate, l’impero hurri-  ta dei Mitanni, che per un certo tempo Hittiti ed Egiziani hanno dovuto  trattare da pari a pari.   Nel 1907, a Bogazkòy, negli archivi di un re hittita, gli scavi  hanno scoperto in diversi esemplari il testo di un trattato concluso da  questo principe, verso il 1380, col suo vicino dei Mitanni, il re Mati-  waza. Restaurato sul suo trono dall 'Hittita che gli aveva inoltre donato  sua figlia, il Mitan no stabilì un’alleanza col suo benefattore nella debi¬  ta forma.   Il testo enumera le maledizioni celesti in cui egli accetta di in¬  correre se mancherà alla parola. Secondo l’uso, i due contraenti con¬  vocano come garanti tutti gli dèi che i loro due imperi riconoscono.  Fra gli dèi mitanni, vicino a un gran numero di dei sconosciuti e di altri riconoscibili come divinità locali o babilonesi, s’incontra una sequen¬  za che è stata immediatamente identificata dagli indianisti e su cui i fi¬  lologi hanno lungamente lavorato, esaminando le particolarità grafi¬  che e grammaticali del testo. Oggi renumerazione si può rendere con  sicurezza nel modo seguente:   «Gli dèi Mitra-(V)aruna [variante Uruvcma] in coppia, il dio  Indura [var. Inclar], i due dèi Nàsatyu ...».   Per più di trentanni, senza aver preso in visione i documenti ve¬  dici principali citati, si sono proposte per questa riunione di dèi delle  spiegazioni strane (W. Schulz, 1916-17) o insufficienti (S. Konow,  1921 ). Il danese A. Christensen ( 1926) con un’analisi serrata si è avvi¬  cinato alla verità, riconoscendo che Mitra-Varuna, Indra e i Nàsalya  non compaiono a Bogazkòy come tecnici di atti diplomatici, né come  interessali di questa o quella clausola particolare, ad esempio matri¬  moniale, del trattalo, ma poiché erano «dèi principali» della società  arya. Sfortunatamente egli ha «pensato» questo stato maggiore solo  nel quadro dualista dell’opposizione *asura-daiva preminente nell’I¬  ran, reale ma meno importante nell’India vedica, c l’ha ripartito artifi¬  cialmente, contrariamente alle indicazioni del testo, in due gruppi,  Mitra-Varuna da una parte e Indra-Nàsatya dall'altra.   E solo nel 1940, grazie a un dossierve dico delle tre funzioni e ai  testi vedici che associano gli stessi dèi presenti nel trattalo di Bogaz¬  kòy, che è apparsa l’interpretazione più semplice che io ho riassunto in  questi termini nel 1945:   «A Boguzkòy, sotto Mitra-Varuna, dèi della sovranità che pa¬  trocinano ciò che è sacro e ciò che è giusto, dèi della regalità coi suoi  necessari ausiliari, sacerdoti e giuristi, Indura e i Nàsatyu, rappre¬  sentanti duplici di uno stesso tipo di dèi, non sono sullo stesso piano: a  un secondo livello vi è Indura, dio della funzione guerriera e dell’ari¬  stocrazia militare dei marianni; poi, a un livello ancora inferiore vi  sono i patroni del terzo-stato, i Nàsatyu. Nominando questi dèi insie¬  me e in quest’ordine, il re fa due operazioni precise: vincola con se  stesso tutta la società del suo reame, presentata nella sua forma rego¬  lare, ed evoca le tre grandi province del destino e della provvidenza.  Questo corrisponde del resto alla stesura delle maledizioni che accettu di attirarsi in caso eli spergiuro: tutto passa ampiamente dalla sua  persona al suo popolo e alla sua terra-sterilità, espulsione e oblio,  odio generale da parte degli dèi ».   5. Connotati degli dèi caratteristici delle tre funzioni   NELLA RELIGIONE VEDICA   Non sarà inutile, per agevolare il lettore nelle analisi particolari  che seguiranno, precisare ora in qualche parola, nella prospettiva delle  tre funzioni, gli orientamenti e i limiti di questi diversi dèi che gli ar¬  chivi di Bogazkòy, confermando le formule degli inni e dei rituali in¬  diani, comprovano essere un raggruppamento formulare pre-vedico.  Ecco come questi valori sono stati riassunti nel mio piccolo libro Les  dieux des Indo-Européens (1952).   «Non è un caso se il primo livello è spesso rappresentato da due  dèi: nella sovranità che questi antichi indiani concepivano vi erano  due facce, due metà antitetiche ma complementari e ugualmente ne¬  cessarie, incarnate e patrocinate da due «re», Mitra e Varuna. Se dal  punto di vista dell'uomo Varuna è un signore inquietante, terribile,  possessore della màyà, cioè della magia creatrice delle forme, armato  di nodi e di reti, che opera cioè avvinghiameli immediati e  irresistibili, Mitra, il cui nome significa Contratto, e anche Amico, è  rassicurante e benevolo, protettore degli atti e dei rapporti onesti e  stabiliti, estraneo alla violenza. L'uno, Varuna, dice un testo celebre,  è l’altro mondo; questo mondo è invece Mitra. Varuna è più despota,  più dio stesso se così si può dire; Mitra è quasi un sacerdote divino.  Più che della prima funzione, Varuna sembra avere maggiori affinità  con la seconda, violenta e guerriera; Mitra, per la tranquilla prospe¬  rità che dischiude grazie, alla terza. L'opposizione è così netta che da  tempo si sono potuti sottolineare i tratti quasi demoniaci di Varuna:  non è forse l’àsura per eccellenza ? E nelle forme post-vediche della  religione, come già in molte strofe del Rgveda, gli usura non sono for¬  se dei misteriosi demoni? In Ind(a)ra si riassumono tutte altre cose: i  movimenti, i seni zi, le necessità della forza brutale che applicate alla  battaglia producono vittoria, bottino e potenza. Questo campione vo¬  race, armato di folgore, uccide i demoni e salva l’universo, per com¬  piere le sue imprese si inebria di soma che dona vigore e furore. Egli è il danzatore, nrtti; il suo splendido e ardente seguito è formato dai  Marut, trasposizione atmosferica del battaglione dei giovani guerrie¬  ri, màrya. Per lui e per essi si esprime una morale dell'exploit e  dell'esuberanza che si oppone all'onnipotenza immediata e rigorosa,  come alla benevolente moderazione che si riunisce nel primo livello.  Gli dèi canonici dell'ultimo livello, i Ndsatya o Asvin, non esprimono  che una parte del dominio complesso tipico della terz.a funzione. Sono  soprattutto datori di salute, giovinezza e fecondità, dèi taumaturghi  soccorritori degli infermi, degli amanti, dei figli senza fidanzata o del  bestiame sterile. Ma la terza funzione è molto più di tutto questo, non  solo salute e giovinezza ma nutrimento, abbondanza in uomini e in beni,  cioè massa sociale e ricchezza economica, attaccamento al suolo, a  questa gioia tranquilla e stabile dei beni, che si esprime in sanscrito  con l'importante radice ksi Anche gli Asvin sono spesso rinforzati al  loro livello dagli dèi e dalle dee che garantiscono altri aspetti della  terza funzione, come la vita animale, l’opulenza, la maternità ( Pùsan,  Puramdhi, Dravinodà, il «Signore dei Campi», SarusvatT ed altre dee  madri) o ancora, che presiedono al carattere plurale, collettivo, tota¬  le («Tutti-gli-Dèi», paradossalmente concepiti come una classe parti¬  colare di dei) espresso dal plurale virali, i clan che Rgveda Vili, 35  oppone come etichetta della terza funzione ai singolari neutri bràh-  man e ksatrà, caratteristici delle due funzioni supreme».   Abbiamo qui un buon esempio di struttura, una teologia artico¬  lata difficile da pensare come formata da un assemblaggio di pezzi e  frammenti: l’insieme c il piano condizionano i dettagli; ogni tipo divi¬  no nel suo orientamento proprio esige la presenza di tutti gli altri e non  si definisce che per rapporto agli altri, con la vivacità che solo  l’antitesi produce. Il riconoscimento di questa sequenza divina e del  suo carattere prc-vcdico ha permesso di compiere, nel 1945, un passo  decisivo nell'interpretazione delle religioni iraniche c di rendere con¬  to di un tratto importante della teologia aveslica da tempo osservalo.   6. Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni nella riforma   ZOROASTRIANA   Sotto il nome di Zoroastro si è avuta una profonda riforma che  ha notevolmente alteralo il paganesimo ancestrale, somma di una serie  di riforme progressive nello stesso senso. Tuttavia, considerando il ri¬  sultato storicamente attestato di questo processo riformatoree il punto  di partenza preistorico, determinabile poiché era sicuramente vicino  allo schema vedico e pre-vedico oggi riconosciuto, certe linee direttri¬  ci del movimento appaiono immediatamente.   Nell’Ave.vra nongàthico, dove è mitigato l’intransigente mono¬  teismo delle Gùthà e dove, sotto il gran dio Ahura Mazda - senza dub¬  bio anche lui sublimazione dell’Asura supremo, quello che l’India  chiama Varuna, - ricompaiono delle figure mitiche di alto rango che  portano i nomi dei principali dèi della lista di Bogazkòy (MiGra, Indra,  Nàr|ai0ya). È degno di nota che Mi0ra resti un dio, mentre Indra (al  pari di un altro dio, Saurva, il vedico Sarva, che è in rapporto differen¬  te, ma certo, con la forza e la violenza) e Nàr]ai0ya - enunciati ancora  sempre in quest’ordine come nelle formule indiane in cui i Nàsatya se¬  guono Indra - sono i nomi dei grandi demoni: segno di una riforma che  (operata da sacerdoti, uomini della prima funzione, e destinata a im¬  porre uniformemente a tutta la società mazdaica la morale elevata del  primo livello purificalo) ha rigettato, anatemizzato, demonizzato i pa¬  troni divini che tradizionalmente rappresentavano e giustificavano al¬  tri comportamenti come lo scatenamento guerriero c l’orgia, meno  sanguinante ma certo non meno libera, dei culti della fecondità.   7. Le Entità zoroastriane   Quanto alla nuova teologia monoteista allo stato puro, quella  delle Gùthà, essa riposa, in un’altra maniera, sullo stesso schema. Il  tratto saliente è 1’esistenza di un gruppo di Entità astratte associate al  Gran Dio unico. Queste Entità non hanno ancora un nome collettivo,  ma sono quelle che si vedranno in seguilo costantemente raggruppate  in un ordine fisso, sotto il nome di Amasa Spanta, gli Immortali Bene¬  fìci (o Efficaci). Si è discusso a lungo per sapere se nelle Gùthà queste  Entità siano già delle creature o delle emanazioni separate da Dio - una  sorta di arcangeli - o semplicemente degli aspetti di Dio, ma questo  non cambia niente quanto al problema delle loro origini che qui ci inte¬  ressa. La lingua e lo stile delle Gùthà sono molto oscuri, di un’oscurità  volontaria e raffinata, ma fortunatamente per orientarsi si dispone di  talune considerazioni che non dipendono dalle incertezze di parola per  parola. 1) Il senso e la struttura grammaticale dei nomi che designano  le Entità forniscono qualche insegnamento. 2) Le strofe che contengo¬  no quasi tutti i nomi di una o più Entità sono assai numerose per per¬  mettere delle osservazioni statistiche - frequenza relativa di ogni Enti¬  tà, frequenza delle loro associazioni diverse - che rivelano dei tratti  molto importanti del sistema. Per esempio, se l’intenzione, la forma e  lo stile di questi inni lirici non costringono il poeta a presentare le Enti¬  tà in lista nel loro ordine razionale, come faranno più tardi i testi rituali  in prosa, tuttavia la tavola delle frequenze di menzione delle Entità,  prese separatamente e in conseguenza delle importanze relative che i  poeti le attribuiscono, riproduce esattamente l’ordine gerarchico che  esse avranno in seguito sotto il nome di Amaste Spanta: questa gerar¬  chia dunque esisteva già. 3) Un altro elemento d’interpretazione è for¬  nito dalla lista degli «elementi materiali» che la tradizione associerà,  parola per parola, alla lista delle Entità, gemellaggio a cui gli inni stes¬  si fanno allusioni certe e precise. 4) Infine, nell’À vesta non gàthico, ad  ognuna delle Entità è opposto un arcidemone che in molti casi le chia¬  rifica. Il quadro è il seguente:   Entità astratte Elementi materiali arcidemoni opposti   PATROCINATI   1) VohuManah bue   (Il Buon Pensiero)   2) Asa (l’Ordine) fuoco   3) XsaGra (la Potenza) metallo   4) Àrmaiti (il Pensiero terra   Pio)   5) Haurvatà( acque   (l’Integrità, la Salute)   6) AmarstàJ (la piante   Non-Morte,  l’Immortalità)   8. Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni, trasposti nelle   ENTITÀ   Arcangeli o aspetti di Dio, in qualunque modo si interpretino le  Entità, questo quadro suscita delle domande: perché questi gli eletti e    Il Cattivo Pensiero   Indra   Saurva   NàqaiOya   La Sete   La Fame   non altri che sarebbero più facilmente concepibili? Perché, non dispo¬  nendo che di così poco posto, gli autori del sistema ne hanno in qual¬  che modo sprecato una alla fine, raddoppiando la Salute con  rimmortalità, che quasi senza eccezioni è nominata insieme ad essa?  Perché questi posti precisi - 2, 3, 4 - conferiti ai tre arcidemoni che  sono antichi dèi funzionali condannati dalla riforma?   Un confronto delle Entità zoroastrianc con la lista vedica e mi¬  tannica degli dèi funzionali, mostra dove bisogna cercare la soluzione  d’insieme.   1 ) Le ultime due, fra i cui nomi vi è assonanza e che sono presso  a poco inseparabili, ricordano per le nozioni così simili che esprimo¬  no, per gli elementi materiali associali c per il loro posto gerarchico, i  gemelli Nàsatya, indissociabili, donatori di salute e di vita, ringiovani-  tori dei vecchi, tecnici delle virtù medicali contenute nelle acque c nel¬  le piante.   2) Prima di queste, la terza Entità è la Terra in quanto madre, nu¬  trice e modello della padrona di casa iranica: ricorda così la dea varia¬  bile (Sarasvatl, notoriamente) che si vede talvolta unita ai Nàsatya nel¬  le enumerazioni vedichc che segnalano la terza l’unzione. Così il  dominio delle tre ultime Entità zoroastrianc, designate tutte da sostan¬  tivi femminili, mentre quelle superiori sono nominale da neutri (cf. in  vcdico vis, femminile, contro brahman c ksutriì, neutri), è quello della  terza l’unzione. In più, nella persona di Àrmaili, è a una Entità della ter¬  za funzione che il sistema oppone il cattivo Nàqai0ya, demonizzazio¬  ne (ridotta a un unico personaggio) delle due divinità canoniche della  stessa funzione, i Nàsatya.   3) Al di sopra, la terza Entità si chiama XsaOra, cioè la stessa pa¬  rola di ksatni da cui deriverà il nome indiano degli ksatriya c che lin da  Riveda Vili, 35 caratterizza differenzialmente la seconda l'unzione,  come nell’epopea narta degli Osscli la forma a‘xsctrta , }> fornisce diffe¬  renzialmente il nome della famiglia degli croi forti. Il «metallo» che  gli è associato è il metallo in tulle le sue valenze, ma dei lesti espliciti  lo precisano come il metallo delle armi; l’arcidemonc a lui opposto,  Saurva, porla il nome vedico di Sarva, varietà di Rudra, personaggio  complesso che non può qui essere esaminato, ma che nella sua qualità  di arciere c di padre dei Marut è vicino a lui nella seconda funzione.   4) Le due prime Entità, le più frequentemente pregate o men¬  zionale, le più vicine a Dio c spesso associate, portano dei nomi signi-    60     ficativi: ASa è la parola avestica (cf. antico-persiano aria-) che corri¬  sponde al vedico ria, l’Ordine cosmico, rituale, sociale, morale,  patrocinato dagli dei sovrani ma principalmente (e negli epiteti che gli  sono propri) dall’inflessibile e terribile Varuna. Vohu Manah, il  «Buon Pensiero», in una serie di passaggi gàthici e in tutta la letteratu¬  ra non gàlhica, è presentato, al contrario, come vicino all’ uomo, al pari  del benevolo e amichevole Mitra, vicino all’uomo e a «questo mon¬  do», in opposizione a Varuna che è «l’altro mondo».   Yasna XLIV contiene a questo proposito due strofe rivelatrici,  le strofe 3 e 4, in cui si divide il cosmo lontano e il nostro scenario più  vicino, tra A3a e Vohu Manah, in modo così netto come fa Rgveda IV,  3,5 tra Varuna e Mitra (ognuno con degli ausiliari di cui si parlerà nel  capitolo seguente). L’elemento materiale associalo a Vohu Manah c il  bue: ora, fin dall’epoca indo-iranica, si c da tempo riconosciuto (A.  Christensen) che il bue era sotto la protezione particolare del sovrano  Mitra. Infine, la coppia dell’Entità ASa e dell’arcidemone Indra ricor¬  da che molti inni del Rgveda inscenano delle tenzoni tra i 1 sovrano Va¬  runa e il guerriero Indra, depositari di due morali, la cui divergenza  sfocia facilmente in un conflitto.   9. Intenzione di questa riforma zoroastriana   Altri particolari dello stesso genere arricchiscono e sfumano il  confronto, ma questi sono sufficienti per fondare la soluzione del pro¬  blema delle origini degli Amasa Spanta che io ho estesamente svilup¬  pato nel 1945 nel mio libro Naissance d’Archanges: la lista delle sei  Entità dello zoroastrismo monoteista c stata ricalcala, copiata, dalla li¬  sta degli dei delle tre funzioni del politeismo indo-iranico; più esatta¬  mente, da una variante di questa lista, come si trova in India, che ai cin¬  que dèi maschi nominati, per esempio, a Bogazkby, aggiungeva nella  terza funzione, vicino ai Nàsatya, una dea madre. Perché questa copia¬  tura? Perché Zoroastro o i riformatori assunti sotto questo nome non  hanno semplicemente e puramente soppresso questi «falsi dèi»?   Senza dubbio perché, sacerdoti c filosofi, erano attaccati a quel¬  la struttura trifunzionale del loro sapere c ne riconoscevano l’efficacia  come mezzo di analisi c come quadro di riflessione sulla vita; senza  dubbio perché gli uomini, gli Arya verso i quali si indirizzava la loro  predicazione e che volevano persuadere o costringere, erano essi stcssi attaccati a questa forma di pensiero e bisognava dunque fornire un  sostituto esatto di ciò che si toglieva loro. Infine, senza dubbio perché  così presentata la lezione era più eloquente: uno degli oggetti pratici  della riforma, come si è visto, era distruggere la morale particolare dei  gruppi di guerrieri e allevatori, a vantaggio di una morale ripensata e  purificata dalle funzioni sacerdotali.   Elevando, ad esempio, al posto in cui infieriva sino allora l’au¬  tonomo Indra, l’esemplare figura di una «Potenza», XSaGra, devota  alla santa religione, si portava ai sostenitori dell’antico sistema un col¬  po più rude della semplice negazione del dio pagano o della semplice  soppressione di questa provincia della teologia. In un certo senso si  può dire che la riforma zoroaslriana, nel riguardo delle Entità, sia con¬  sistita nella sostituzione di ogni divinità della lista trifunzionale con  una equivalente, che conservava il suo rango ma che essenzialmente  era privata della propria natura e animalo da un nuovo spirito, dallo  spirilo conforme alla volontà e alle rivelazioni del Dio unico.   Si spiega così l’impressione di sconforto che provano gli stu¬  diosi al primo contatto con le Gcithà: malgrado i loro diversi nomi,  questa Entità che si muovono sembrano equivalenti, intercambiabili.  Si spiega così come lutti gli Amasu Spanta, qualunque sia il livello e il  dio funzionale a partire dal quale ognuno è stato sublimalo, portino  uniformemente a pensare, circa il loro comportamento, al gruppo in¬  diano dei due primi livelli, agli dèi sovrani, gli Àditya, fra i quali Mitra  e Varuna sono i principali.   Questa analogia, che è un fatto incontestabile e che B. Geiger e  K. Barr hanno avuto ragione di mettere in risalto ampiamente, non ha  comunque risolto il problema delle origini delle Entità: esse non sono  gli equivalenti normali e antichi degli dèi sovrani vedici, ma gli equi¬  valenti degli dèi vedici dei tre livelli, dei tre livelli energicamente ri¬  portati al tipo unico di una «santità» esigente: dèi sovrani certo, ma an¬  che, sotto i sovrani, un dio violento e degli dèi vivificanti che li  completano.   10. Gli dèi indo-iranici delle tre eunzioni e le spiegazioni   CRONOLOGICHE   Questa spiegazione degli Amasa Spanta, immediatamente am¬  messa da molti iranisti, ha ricevuto in seguilo degli ampiamenti e alcuni li ritroveremo al capitolo seguente (III, § 8). Devo qui limitarmi e  sottolineare la principale conseguenza del punto di vista comparativo.  Riportando ai tempi indo-iranici la lista canonica mitannica e vedica  degli dèi delle tre funzioni con la loro gerarchia, ci è precluso ogni ten¬  tativo di spiegare questa lista e questa gerarchia con avvenimenti sto¬  rici o della preistoria recente dei tempi vedici.   Indra non è, non può più essere considerato come un «gran dio»  che, ad esempio, le condizioni sociali e morali di un’epoca di conqui¬  sta sarebbero «in procinto» di sostituire a un più antico «gran dio» Va¬  runa che in seguito avrebbe sviluppato il suo prestigio alle spalle di un  più vecchio dio Mitra.   Se così fosse, come comprendere che questa situazione, effime¬  ra per natura, questi rapporti instabili di dèi in crescita e di dèi che re¬  trocedono si siano fissati e cristallizzati allo stesso stadio di evoluzio¬  ne, disegnando lo stesso quadro d’insieme (arrestando per secoli allo  stesso massimo il progresso di uno dei termini e allo stesso minimo la  soppressione dell’altro),pressoi Para-Indiani dei Mitanni, negli inni e  nei rituali propriamente vedici e ancora, nel politeismo iranico che si  lascia leggere in filigrana sotto la teologia di Zoroastro?   La «storia» non può essere stata in questo punto tre volte identi¬  ca, aver avuto degli effetti intellettuali così simili in queste tre società  precocemente separate.   La sola interpretazione plausibile è che egli Indo-Iranici ancora  indivisi, qualunque fosse il loro punto di partenza, erano arrivati ai li¬  miti delle loro Terre Promesse in possesso di una teologia in cui i rap¬  porti di *Varuna con *Mitra e di *Indracon *Varuna erano già come li  ritroviamo negli inni e, inconseguenza, questi rapporti e il raggruppa¬  mento degli dèi che sostengono, lungi dall’essere il risultato fortuito di  avvenimenti, erano un dato concettuale, filosofico, un’analisi e una  sintesi in cui ogni termine presuppone gli altri, così fortemente come  la «destra» presuppone e chiama la «sinistra», in breve, presuppone  una struttura di pensiero. Le testimonianze che talvolta si è pensato di  ritrovare, negli inni vedici, di un indietreggiamento di Varuna rispetto  a Indra, si spiegherebbero dunque altrimenti: gli inni in cui questi dèi  si sfidanoe in cui oppongono le loro vanterie, l’inno stesso in cui Indra  si glorifica di aver eliminato Varuna, non sono che messe in scena del¬  la tensione che esiste tra 1’«aspetto Varuna» della funzione sovrana e la funzione di Indra, e devono esistere affinché la società ne risenta  pienamente i benefici.   I miti collegati ai signori divini delle funzioni devono, almeno  in parte, illustrare con chiarezza la divergenza delle funzioni e devono  farlo senza i riguardi e i compromessi che la pratica sociale impone: è  chiaro, ad esempio, che se la sovranità magica assoluta e la pura forza  guerriera fossero portate agli estremi sfocerebbero in dei conflitti e di  fatto in certi momenti della vita della società a causa di tali conflitti si  producono usurpazioni, anarchia o tirannia. Ed è quello che esprime la  teologia dei rapporti tra Varuna e Indra che risalta dagli inni: nella  grande maggioranza dei casi essi collaborano, ma in qualche testo dia¬  logato i poeti sono portati a questo estremo, che i politici evitano sag¬  giamente e per meglio definirli, per «vederli» e «farli vedere», li han¬  no opposti come rivali. Stando così le cose, si tratta di un esercizio  retorico sicuramente antico, poiché come si è visto lo zoroastrismo ha  scelto Indra scomunicato, demonizzato, per farne l’avversario parti-  col are di Asa, cioè dell’Entità in cui, purificato, sopravvive *Varuna.   11. Comunicazione tra gli dèi delle tre funzioni   Questa osservazione deve essere completata da un’altra inver¬  sa. La definizione funzionale dei tre livelli divini è statisticamente ri¬  gorosa (la letteratura vedica è assai abbondante perché la statistica vi  possa trovare un appiglio certo), precisa non solo nei testi dove tali  funzioni sono intenzionalmente classificate o perlomeno raggruppate,  ma anchenella maggior parte dei testi in cui un poeta considerao invo¬  ca gli dèi di un solo livello senza pensare agli altri. Ma in ogni religio¬  ne le effusioni della pietà, della speranza e della confidenza talvolta  debordano dal quadro teorico del catechismo e questo è soprattutto  vero per l’India, in cui gli sforzi del pensiero, nel corso dei tempi stori¬  camente osservabili (e questa tendenza è già sensibile negli inni), han¬  no così spesso portato a riconoscere l’identità profonda dell’essere  sotto la diversità delle apparenze o delle nozioni e, per esprimere con¬  cretamente questo dogma dei dogmi, a conferire agli uni gli attributi  degli altri.   In più, nella pratica, ciò che interessa l’uomo pio è sicuramente  la diversità dei soccorsi che può ricevere e delle porte mistiche a cui può bussare, ma è anche e soprattutto la solidarietà e la collaborazione  di tutti gli dèi che gli rispondono.   Infine, nelle opere stesse per le quali gli uomini chiamano gli  dèi, capita che la totalità o più parti deH’insiemc funzionale si trovino  interpellati da degli specialisti che gli sono estranei. L’esempio mag¬  giore è quello della pioggia che gonfia le acque del suolo, che fornisce  direttamente o indirettamente il tipo di ricchezza pastorale e agricola,  la salute stessa, di cui si occupano gli dèi della terza funzione; ma essa  c ottenuta grazie alla battaglia celeste, strappata sotto forma di fiume o  di vacche celesti agli avari demoni della siccità, e questo è il compito,  il gran compito di Indra c dei suoi aiutanti, 1 ’ orda guerriera dei Marut.   Congiungere il cielo e la terra e assicurare la sopravvivenza del  mondo è anche l’interesse degli dèi sovrani c l’operazione tecnica si  svolge infine grazie allo specialista Parjanya.   Ma perché mai il poeta si assoggetterebbe a lare sempre questa  giusta c rigorosa distribuzione dei meriti? L’opera c comune c quindi  la lode è unitaria c non ci si stupirà che il grande guerriero Indra sia  così spesso celebrato, nel risultalo come nella forma della sua azione,  in quanto donatore di fecondità e di ricchezza.   Ma il lettore preoccupalo di teologia non dovrà mai dimenticare  il modo violento che Indra esercita per procurarsi gli armenti o per li¬  berare le acque: egli non c una Sarasvall al maschile c non è nella cer¬  chia dei Pfisan o dei Dravinodà. Se una tale équipe divina c così sicuramente esistita tra gli  Indo-Iranici prima della loro divisione, come l’ideologia tripartita,  l’abbiamo visto nel primo capitolo, essa è più antica ancora c deve es¬  sere riportata ai tempi indoeuropei: c allora legittimo c necessario ri¬  cercare nella teologia degli altri popoli indoeuropei antichi, c suffi¬  cientemente conosciuti, se delle équipes analoghe sono attestate dagli  usi rituali o da formulari.   Questa ricerca, intrapresa fin dal 1938, ha immediatamente  portalo a risultati nei domini italici e germanici. Ma allo stesso tempo,  in questi domini in cui gli specialisti, nella loro autonomia, avevano da  lungo tempo costruito delle maestose c dotte spiegazioni di ogni cosa.la nuova interpretazione ha dovuto rimettere i n questione molti pseu¬  do-fatti, dimostrando la fragilità di molte pseudo-dimostrazioni, in  modo tale che spesso non è stata considerata la benvenuta.   In sintesi, le opposizioni sono soprattutto nate dal fatto che le  «filologie separate», sia scandinava che latina, si erano abituate a pen¬  sare cronologicamente - secondo una cronologia ipotetica e soggettiva  - la preistoria, la «formazione» dei quadri teologici complessi, presen¬  tati dai documenti antichi, mentre questi quadri, guardati in base alla  prospettiva comparativa che a grandi linee viene qui ricordata,  s’interpretano immediatamente, per l’essenziale, come strutture con¬  cettuali che esprimono la distinzione e la collaborazione delle tre fun¬  zioni esplicitate dagli Indoeuropei.   13. Jupiter, Mars, Quirinus e Juu-,Mart-, VOFION(O)-   Le due società italiche di Iguvium e Roma - l’una umbra e  l’altra latina - sulle quali dei testi ben articolati ci informano, presenta¬  no due varianti di una triade in cui i due primi termini sono identici:  Juu-, Mart-, Vofìon(o)- a Iguvium; Jupiter, Mars, Quirinus nella più  antica Roma pre-capitolina. Questo parallelismo incoraggia a non cer¬  care per la triade romana, com’è d’uso, una spiegazione fondata sul  caso, sugli apporti successivi o sui compromessi di una storia locale:  com’è possibile infatti che due serie di avvenimenti indipendenti pos¬  sano suscitare due gerarchie divine e due teologie così simili?   14. La triade precapitolina   L’esistenza della triade romana, che si è anche voluto contesta¬  re ma che non è dubbia, è messa in evidenza dal fatto che questi dèi  sono rimasti, lungo tutta la storia romana, serviti da tre sacerdoti senza  omologhi, rigorosamente gerarchizzati ( ordo sacerdotum: Festo, p.   198, Lindsay) che sono, al di sotto del rex sacro rum, erede ridotto e sa¬  cerdotale degli antichi re, gli alti sacerdoti dello stato: i trej7 amines  maiores, cioè il dialis, il martialist il quirinalis. Questa triade capito¬  lina, vero fossile nell’epoca storica, respinto dall’attualità di una tria¬  de differente formata da Jupiter O.M, Juno Regina e Minerva, è rima¬  sta legata a molti rituali e a rappresentazioni evidentemente arcaiche.    66     Una volta all’anno, in una cerimonia la cui fondazione era attri¬  buita a Numa (Tito Livio I, 21, 4), i treflciminesMciiores attraversava¬  no solennemente la città in uno stesso carro e facevano congiuntamen¬  te un sacrificio alla dea Fides. I sacerdoti Salii che conservavano tra i  dodici ancilici indiscernibili il talismano caduto dal cielo cui era stata  attribuita la fortuna di Roma, erano in tutela Jovis, Martis et Quirini  (Servio, ad Aen., Vili, 663).   Il tragico rituale della devotio, con il quale il generale romano,  per salvare il proprio esercito, si immolava agli dèi sotterranei  contemporaneamente all’esercito nemico, era introdotto da una for¬  mula, da un’enumerazione di dèi che Tito Livio (Vili, 9, 6) ha di certo  trascritto esattamente e che dopo Janus, dio di ogni inizio, nominava  innanzitutto l’antica triade: Giano, Jupiter, Mars Pater , Quirinus, poi  Bellona, i Lari etc. etc. Dopo la conclusione di un trattato, secondo Po¬  libio (III, 25, 6), i sacerdoti feziali prendevano come testimoni prima  Jupiter, poi Mars e infine Quirinus.   Il carattere comune di queste circostanze, in cui la triade preca¬  pitolina è presentata come tale, è che il corpo sociale di Roma è inte¬  ressato nel suo insieme e nella sua forma normale: mantenimento del¬  la fides pubblica, senza cui la coesione sociale è impossibile;  protezione continua o urgente; impegno diplomatico. Il sacrificio a Fides è particolarmente rivelatore poiché è la sola  circostanza conosciuta in cui i tre flamines maiores agiscono insieme;  ma lo fanno in maniera ostentata e l’unità del carro, l’unità  dell’operazione sacra, provano che si tratta di mettere sotto la garanzia  di Fides l’unità delle tre «cose» che Jupiter, Mars e Quirinus patroci¬  nano distributivamente; tre «cose» la cui sintesi o aggiustamento sono  essenziali per la vita di Roma. Quali sono queste «cose»?   15. Valore di Jupiter e di Mars nella triade precapitolina   La risposta non necessita di grandi sforzi, sempre che si preferi¬  sca il sentimento dichiarato dai Romani stessi contro le ricostruzioni  ardite, fatte da tre quarti di secolo dagli epigoni di W. Mannhardt o da  archeologi poco coscienti dei limiti della loro arte; sempre che non si  dimentichi che questi dèi sono stati associati e gerarchizzati a Iguvium  e a Roma poiché rendevano dei servizi differenziati e complementari;  e infine, a condizione che si attribuisca un valore particolare, trattandosi di divinità dei tre flamines maìores, a ciò che insegna l’ufficio di  questi sacerdoti. Se si osserva questa regola, e queste precauzioni, si  riconoscerà in primo luogo che Jupiter, e nello stesso tempo il Dius  (nel capitolo seguente si mostrerà il senso di questa sfumatura), onora¬  to dagli atti del flamen dialis , e dal suo comportamento pieno di innu¬  merevoli precetti positivi e negativi, è il dio che dall’alto del cielo pre¬  siede all’ordine e all ’osservazione più esigente del sacro, garante della  vita, della continuità e della potenza romana.   Quanto a Marte, imperturbabilmente docile secondo l’insegna¬  mento dei migliori testi epigrafici e letterari, si vedrà in lui il dio com¬  battente di Roma, patrono della forza fisica, di quella forza che può, al  pari del vedico Indra, essere orientata in tre o quattro circostanze (non  di più) dal contadino romano, a profitto dei suoi buoi che hanno biso¬  gno di essere forti, o dei suoi raccolti che tanti geni maligni, visibili o  invisibili, possono minacciare.   Questa forza è sempre rimasta la forza che dona la vittoria, sin  dai tempi favolosi delle origini e fino al declino dell’impero, nella  schiacciante maggioranza degli impieghi conosciuti.   16. QuiRINUS   Per Quirino, l’unico «invecchiato» fra i tre dèi in epoca storica,  gli eruditi antichi hanno generosamente costruito, su dei pressapochi-  smi etimologici allora correnti, delle teorie contraddittorie che com¬  plicano il lavoro; ma fortunatamente disponiamo degli uffici adem¬  piuti dal suo flamen e di molti altri fatti cultuali, del suo nome e di  qualche indicazione oggettiva degli antichi.   Queste diverse fonti informative forniscono un quadro com¬  plesso ma coerente.   I ) Siamo a conoscenza di tre circostanze in cui officia il flamen  quirinalis. Ai Robigalia del 25 aprile sacrifica un cane in un campo nei  pressi di Roma e allontana così (verso le armi da guerra, aggiunge  Ovidio) la ruggine che minaccia le spighe. Ai Consualia del 21 agosto  sacrifica sull’altare sotterraneo di Consus, dio del grano messo in  provvista ( condere ); il 23 dicembre sacrifica sulla «tomba» di Laren-  tia, la cortigiana che incarna in una celebre storia la voluttà, la ricchez¬  za e la generosità e che ha meritato di ricevere un culto, legando la sua  fortuna a quella del popolo romano. La festa propria di Quirino, i Quirinatici del 17 febbraio, coincide con (e probabilmente è) l’ultimo atto  dei Fornacalia, cioè delle feste curiali della torrefazione del grano.   Nelle altre due circostanze rituali in cui appare, Quirino è asso¬  ciato alla dea Ops, cioè all’Abbondanza rurale personificata: una iscri¬  zione ci insegna che il 23 agosto, ai Volcanalia, Quirino e Ops figura¬  no tra le divinità onorate senza dubbio contro gli incendi (C/L I 2 , p.  326). La leggenda che giustifica l’esistenzadei Salii di Quirino, dimo¬  stra che il voto fondante questo collegio è stato fatto per la stessa ra¬  gione del voto che istituiva la festa di Ops e di Saturno.   Tutti questi dati, che costituiscono l’intero dossier cultuale del  dio, attestano che la sua attività è uniformemente e unicamente in rap¬  porto con le sementi (tre feste, tra cui la sua), con le divinità agricole  Consus e Ops, con la ricchezza e il sottosuolo. Nello stesso senso si  spiega il fatto che nel 390, all 'avvicinarsi dei Galli, quando bisognava  seppellire gli oggetti sacri di Roma, questo compito non spettasse al  rex o al flamen dialis, primi sacerdoti dello stato, come ci si sarebbe  aspettato, ma al flamen quirinalis.   2) Il nome di Quirino è sicuramente inseparabile da quello dei  Quirites, cioè dall’insieme dei Romani considerati nelle loro attività  civili in opposizione totale a ciò che essi sono in quanto milites (un  aneddoto ben noto di Cesare lo prova).   P. Kretschmer aveva proposto di spiegare Quirites con curia  (volscio couehriu), come «gli uomini riuniti nei loro quadri sociali»,  essendo QuTrinus (cf. dominus da domus) il patrono di questa entità  della «massa sociale organizzata» ( *co-uir-io/a -). L’etimologia, in sé e  prsé soddisfacente, è stata resa molto probabile da V. Pisani ( 1939) e in¬  dipendentemente da E. Benveniste ( 1945), che hanno dimostrato come  il nome dell’omologo di Quirinus nella triade umbra di «Jupiter, Mars,  Vofionus» possa essere il compimento fonetico rigoroso di un *Le-  udh-yo-no «patrono della massa» (cf. il tedesco Leute, latino liberi,  «massa di uomini liberi, bambino di nascita libera» etc.), esatto paralle¬  lo e sinonimo dal latino *Co-uirI-no. Massa sociale e pace sono, al pari  della coltivazione del suolo, aspetti considerati dalla terza funzione.   3) Ma lo stile di questa pace è marcato dall’impronta romana e  contribuisce al sorprendente meccanismo che in qualche secolo ha  conquistato e romanizzato l’Italia, il Mediterraneo e il mondo antico e  stabilisce il pesante beneficio della pax romana. Per i Romani non si è mai trattato di una pace gioiosa e cieca ma vigile, in cui le armi erano  deposte ma conservate; in cui i civili Quirites erano anche mobilitabi¬  li, i milites del domani; in cui i comitia legiferanti non erano che  l’ exercitus urbanus senza il suo equipaggiamento, ma pronto nei suoi  quadri: una pace, infine, in cui si pensava molto alla guerra.   È questo regime, questo stato di spirito che Quirino governa e  che esprime eccellentemente un tratto del suo statuto: uno dei flamines  minores, il Portunalis - senza dubbio connesso al dio delle porte ( por¬  tele ) delle città, prima di essere quello dei porti (j)ortus ) - ha l’incarico  di ungere le «.armidi Quirino» (Festo s .v.persillum, p. 238, Lindsay),  cioè di compiere il gesto di ogni mobilitazione alle armi: le quali pos¬  sono anche non essere utilizzate, al momento, ma verso le quali può  sopraggiungere improvvisamente l’esigenza di ricorrervi.   Questa ambivalenza Quirites-milites dei Romani, questa con¬  cezione militare della pax romana , spiegano sufficientemente come  Quirino possa essere stato considerato una varietà di Marte e come i  Greci, che concepivano altrimenti l’eipf|VTi, abbiano scelto per tradur¬  re il suo nome quello di un vecchio dio guerriero, differente da Ares,  ’EvuàA-ioq. E non sarà troppo inutile meditare in questo contesto su  due note del commentatore di Virgilio, Servio, giudicate un tempo  «assurde», ma alle quali la nuova prospettiva «trifunzionale» ha con¬  ferito pieno valore (ad Aen. I, 292; VI, 859):   «... Marte è detto Gradivus quando è in furore (Cum saevit)  quando è pacifico (cum tranquillus est), Quirino. A Roma possiede  due templi: uno all’interno della città, in qualità di Quirino, cioè di  guardiano e di dio tranquillo (quasi custodis et tranquilli),' l'altro sul¬  la via Appia, fuori dalla città, vicino alle porte, in quanto dio guerrie¬  ro o Gradivus (quasi bellatores vel Gradivi)... Quirino è il Marte che  presiede alla pace (qui praeest paci) e ha il suo culto dentro Roma  mentre il Marte della guerra (belli Mars) aveva il suo tempio fuori  Roma ».   17. Jupiter, Mars, Quirinus e i componenti leggendari di  Roma   Questa rapida esposizione, spogliata dalle innumerevoli di¬  scussioni che è stato necessario sostenere su quasi tutti i punti, basterà a dimostrare qual è, nell’unità armoniosa della triade precapitolina,  l’orientamento proprio e l’equilibrio interno di ogni termine. Cielo ed  essenza stessa della religione come supporto di Roma; forza fisica e  guerra; agricoltura, sottosuolo, massa sociale e pace vigilante: queste  etichette definiscono tre ambiti complementari che disegnano una  struttura sicuramente anteriore a Roma e a Iguvium, dunque italica, e  quindi così vicina alla struttura indo-iranica da dirsi risalente ai tempi  indoeuropei.   Non sarà inutile ricordare qui i valori funzionali di cui appaiono  rivestite, nei racconti sulle origini di Roma, le tre componenti etniche,  base leggendaria delle tre tribù: Romolo - rex et augur - e i suoi com¬  pagni sono i depositari del potere sovrano e degli auspici; i suoi alleati  etruschi, sotto il comando di Lucumone, sono gli specialisti dell’arte  militare; i suoi nemici, Tito Tazio e i Sabini, sono provvisti di donne,  ricchi in bestiame e in più detestano la guerra e fanno di tutto per evi¬  tarla. Una variante frequentemente attestata (l’abbiamo ricordata in I §  7) minimizza la componente etrusca e concentra le due prime caratte¬  ristiche su Romolo e i suoi compagni.   Sotto questa forma la triade precapitolina si divide molto ade¬  guatamente tra i due gruppi di avversari e futuri associati: Romolo è  costantemente il protetto di Jupiter (gli auspici iniziali; Jupiter Fere-  trius e Jupiter Stator in battaglia) ma è figlio di Mars e trova riuniti in  sé i favori dei due primi dèi della triade; Quirino (in questo insieme  leggendario soltanto) è considerato come un dio sabino, il «Marte sa¬  bino» portato in dote da Tito Tazio a Roma nella riconciliazione fina¬  le, allo stesso modo del nome collettivo dei «Quirites» (ma questa pse-  udo-sabinità dei Qui riti e di Quirino, benché conf orme al carattere dei  Sabini della leggenda, portatori della terza funzione, si spiega col gio¬  co di parole, popolare tra gli eruditi di Roma, «Quirites-Cures»),   Si sa che un’altra forma della leggenda, incompatibile con que¬  sta, fa di Quirino il nome postumo di Romolo, riunendo così sul solo  fondatore i tre termini della triade divina in base agli auspici, alla filia¬  zione e all’apoteosi.   18. Varianti della triade Jupiter, Mars, Quirinus   Della leggenda delle origini, Varrone (De ling. lat., V, 74) e  Dionigi di Alicarnasso (II, 50) ci hanno conservato un aspetto importante: all’epoca della riconciliazione di Romolo con Tito Tazio e  dell’entrata dei Sabini di Tito Tazio nella comunità, ormai completa e  in via di sviluppo, ognuno dei due re istituisce dei culti e mentre Ro¬  molo fonda solo il culto di Jupiter, Tito Tazio instaura Quirinus e un  gran numero di dèi e dee che hanno rapporto con la vita rurale, la fe¬  condità e il mondo sotterraneo.   Questa tradizione è molto interessante perché sottolinea ciò che  è stato già segnalato a proposito dell’India (II, § 5); la molteplicità de¬  gli aspetti, l’inevitabile frazionamento di questa «terza funzione» che  Tito Tazio incarna, ma soprattutto perché tra gli «dèi di Tito Tazio»  (che non sono certamente sabini ma romani, a dispetto della colorazio¬  ne etnica della leggenda) molti f igurano in terza posizione, nelle triadi  che non sono altro che varianti della triade canonica «Jupiter, Mars,  Quirinus», come Ops (abbiamo già segnalato i suoi rapporti con Quiri¬  no) o Flora.   1 tre gruppi di culto della Regia, della «casa del re», che corri¬  spondono senza dubbio alle tre camere che ancora si trovano giustap¬  poste nelle rovine, sono: 1 ) culti assicurati dai personaggi sacri del più  alto rango, il rex (a Giano) la regina (a Giunone) e la moglie del flamen  dialis (a Jupiter stesso); 2) culti guerrieri del sacrarium Marti.?, 3) cul¬  ti del sacrarium Opis Consivae, la dea dell’abbondanza.   Questa collocazione dei tre livelli funzionali manifestava sensi¬  bilmente che la stessa forma di religione che si analizzava e che si dis¬  sociava nelle persone dei tre grandi flamines, creava al contrario una  sua sintesi quando passava nelle mani del rex, quando era il rex che  l’amministrava, non più in quanto incarnazione ma, nel nome di Ro¬  ma, come gestore delle forze sacre.   Quanto alla triade «Jupiter, Mars, Flora» (rimpiazzata più tardi  da Venere) sembra essere stata lei a patrocinare i tre carri delle corse  primitive (in relazione con le tre tribù funzionali e i tre colori bianco,  rosso, verde; vedi sopra I, § 21 ). Flora meritava due e tre volte questo  posto, per il suo potere sulla vegetazione, per la leggendache faceva di  lei un doppione della cortigiana Larentia e perché era assimilata a  Roma stessa, senza dubbio più alla massa romana che all’entità politi¬  ca patrocinata da Quirino.   Un’altra variante della triade - «Jupiter, Mars, Romulus, Re-  mus» - presenta Romolo sotto tutt’un altro aspetto (sino alla fondazione di Roma: gemelli, pastori etc.) e ricorda che la lista canonica in¬  do-iranica affidava a due dèi gemelli la rappresentazione e la  protezione del terzo livello.   19. Gli dèi delle tre funzioni in Scandinavia   Nel paganesimo scandinavo è conosciuta una triade dello stes¬  so tipo, quel la formata da Ódinn, Pórr, Freyr (o solidalmente, come ul¬  timo termine, Njòrdr e Freyr). Anche questa triade, al pari di quella  precapitolina romana, è stata spiegata - in modo molto variabile - se¬  condo schemi di evoluzione, come il risultato di compromessi e sin¬  cretismi tra culti successivamente comparsi.   Lacritica a questo tipo di spiegazioni facili e seducenti, che cre¬  dono di basarsi logicamente sui dati archeologici, ma che vi si sovrap¬  pongono arlifi cial mente, è stata fatta a più riprese e dovrà ancora esse¬  re fatta poiché l’esperienza dimostra che non vi si rinuncia volentieri.  Nel piano ridotto del presente libro dovremo semplicemente prescin¬  derne ma dichi arare che da H. Petersen (1876) a K. Helm (1925,1946,  1953), da E. Wessén ( 1924) a E. A. Philippson (1953), i numerosi ten¬  tativi fatti per dimostrare che la promozione di *Wof3anaz è cosa re¬  cente (sostituito a *Tiuz) o che in Scandinavia il più antico «gran dio»  è Pórr (sempre che non sia Freyr), non potevano riuscire a dispetto  dell’intelligenza, dell’erudizione e del talento dei loro autori.   Ci limiteremo dunque ai fatti e quindi all’esistenza stessa della  triade in quanto tale. E questa triade di Ódinn, Pórr e Freyr che Adamo  di Brema ha vi sto regnare nel tempio di Uppsala e di cui fornisce la de¬  scrizione del meccanismo trifunzionale (Gesta Hammaburgensis  eccl. Pontificium, IV, 26-27); è lei che appare dalle formule di maledi¬  zione come dai poemi eddici o dagli scaldi (Ódinn, Pórr, Freyr,  Njòrdr: Egilssaga, 56); è lei che si sprigiona dal racconto della batta¬  glia escatologica ( Vòluspà , 53-56) in cui ognuno dei tre dèi lotta con¬  tro uno dei maggiori avversari che soccombe sotto i suoi colpi; è lei  che si spartisce i gioielli divini (Skaldskaparmal, cap. 44) ed è lei che  rappresenta l’intera mitologia in cui le altre divinità - salvo la dea  Freyja, strettamente associata a Freyr e Njòrdr e che li completa - sono  come comparse che circondano questi «primi ruoli» e che si definisco¬  no in rapporto ad essi. Ci si ricorderà che nella leggenda delle sue origini Roma si è ri¬  dotta spesso a due componenti, benché comprendesse tre tribù che  rappresentavano tre funzioni: il rex-augur Romolo c i suoi compagni,  detentori di cleos et virtutem, la potenza del sacro e i talenti guerrieri, il  dominio di Jupiter e Mars, mentre Tito Tazio e i suoi Sabini erano  quelli che apportavano delle specialità loro connesse, cioè le donne e  le ricchezze, opes.   Il quadro scandinavo della formazione della società divina  completa è dello stesso tipo: i componenti riuniti per una riconcilia¬  zione ed una fusione conseguente a una guerra terribile, sono due, gli  Asi e i Vani: tra gli Asi Ódinn è il capo, mentre Pórr è il più eccelso  dopo di lui; trai Vani sono invece Njòrdr, FreyreFreyjaipiù eminenti  e i soli nominati individualmente.   La distinzione funzionale degli Asi c dei Vani è chiara e costan¬  te. I Vani, specialmente i due dèi e la dea che ne incarnano al massimo  la tipologia, anche se capita loro di essere o di fare altre cose, sono in¬  nanzitutto dei ricchi (Njòrdr, Freyr, Freyja), donatori di ricchezze e  patroni del piacere (Freyr, Freyja), della lascivilà stessa, della fecon¬  dità e della pace (Nerlhus, Freyr-Fródi) csono legati spazialmente ed  economicamente al suolo che produce i raccolti (Njòrdr, Freyr) o al  mare in quanto luogo della navigazione e della pesca (Njòrdr).   A questi tratti dominanti si oppongono quelli dei principali Asi.  Né Ódinn né Pórr certamente si disinteressano delle ricchezze del su¬  olo, ecc., ma da quando la mitologia scandinava ci è conosciuta i loro  centri sono altrove: l’uno è un mago potente, signore delle rune, capo  della società divina; l’altro è il dio col martello, nemico dei giganti ai  quali peraltro assomiglia (si pensi al suo «furore»); è il dio tuonante  (nel suo stesso nome) che accudisce il contadino e gli dona la pioggia e  anche nel folklore moderno è come un solloprodollo della sua bellico¬  sità in maniera atmosferica e violenta, non terrena c progressiva.   Il senso da attribuire a questa distinzione tra Asi e Vani è il pro¬  blema centrale che domina tutte le interpretazioni delle religioni scan¬  dinave c di quelle germaniche, anche laddove le spiegazioni cronolo¬  giche c storiche (di storia immaginaria) affrontano con vivacità le  spiegazioni strutturali e concettuali. I fatti riuniti dall’inizio di questo libro apportano un grande so¬  stegno agli strutturalisti: il parallelismo delle teologie indo-iraniche e  italiche ci fa precisamente attendere, presso i popoli imparentati, una  teologiaed unamitologiadel tipo presentato dagli Scandinavi, che op¬  pone per meglio definirli e che ricompone per creare un insieme vitale:  1 ) delle figure divine che patrocinano ciò che è sotto il magistero degli  Asi, Ódinn e Pórr, l’alta magia e la sovranità da una parte, e la forza  brutale dall’altra; 2) delle figure divine del tutto differenti che patroci¬  nano ciò che è sotto il magistero dei tre grandi Vani, la fecondità, la  ricchezza, il piacere, la pace, etc. etc.   21. La guerra degli Asi e dei Vani e la guerra dei  Protoromani e dei Sabine formazione di una società   TRIFUNZIONALE COMPLETA   La frattura iniziale, che separa i rappresentanti delle due prime  funzioni e quelli della terza, è un dato indoeuropeo comune: lo stesso  sviluppo mitico (separazione iniziale, guerra e poi indissolubile unio¬  ne nella struttura tripartita gerarchizzata) si ritrova non solo a Roma,  sul piano umanoenei racconto delle origini dell’Urbe(guerrasabinae  sinecismo), ma in India, dove è detto che gli dèi canonici del terzo li¬  vello, gli Asvin, non erano inizialmente degli dèi, ma entrarono nella  società divina come terzo termine al di sotto delle «due forze» (ubhe  virye) solamente in seguito a un conflitto violento conclusosi con una  riconciliazione e un’alleanza.   Come si potrà prevedere, i dettagli di queste leggende sono stati  scelti e raggruppati in modo tale da mettere in rilievo le «funzioni» ri¬  spettive delle diverse componenti della società e i procedimenti speci¬  fici che queste «funzioni» attribuiscono ai loro rappresentanti. L’ana¬  lisi comparata della leggenda romana sulla guerra iniziale tra Romani  e Sabini e della leggenda scandinava sulla «prima guerra nel mondo»  degli Asi e dei Vani (a cui bisogna fare risalire, contro E. Mogk, le  strofe 21-24 della Vòluspà), ha rivelato un interessante parallelismo e  conferito un senso sia all’una che all’altra.   Ambedue sono formate da un dittico, da due scene in cui ciascu¬  no dei due campi nemici ha il vantaggio (vantaggio limitato e provvi¬  sorio poiché è necessario che il conflitto finisca senza vittoria e con un patto liberamente consentito) ed è debitore di questo vantaggio alla  sua specificità funzionale. Da una parte i ricchi e voluttuosi Vani che  corrompono daH’interno la società (le donne!) degli Asi, inviando  loro la donna chiamata «Ebbrezza dell’Oro»; dall’altra parte Ódinn  che lancia il suo famoso giavellotto di cui è noto l’irresistibile effetto  magico e di panico.   Allo stesso modo i ricchi Sabini, da una parte, ottengono quasi  la vittoria occupando la posizione-chiave dell’avversario, non col  combattimento, ma acquistando con l’oro Tarpeia (in una variante,  grazie all’amore cieco di Tarpeia per il capo sabino); dall’altra parte  Romolo, grazie a un’invocazione a Jupiter (Stator) ottiene dal dio che  l’armata nemica vittoriosa venga improvvisamente, e senza motivo,  invasa dal panico.   22. Sviluppo della funzione guerriera presso gli antichi  Germani   Bisogna comunque segnalare un fatto di enormi conseguenze  che ha determinato ben presto, e non solamente presso gli Scandinavi  ma fra tutti i Germani, una deformazione della struttura delle tre fun¬  zioni e della teologia corrispondente.   Da nessuna parte, certamente né a Roma né in India, gli dèi del  primo livello, Varuna e Jupiter, si disinteressavano della guerra: se è  vero che non combattono propriamente come Indra o Marte è anche  vero che mettono le loro magie al servizio della parte che favoriscono  e sono loro, in definitiva, che attribuiscono la vittoria, la quale, se è in  effetti conquistata con la Forza, interessa soprattutto l’Ordine per le  sue conseguenze.   Non ci si sorprende quindi di vedere Ódinn intervenire nelle  battaglie, senza combattere molto, ma gettando sull’armata che ha  condannato un panico paralizzante, il «legame dell’esercito» herfjò-  \)urr (cf. i lacci di cui è armato Varuna). Ma è certo che la parte della  «guerra» nella sua definizione è di gran lunga piu considerevole che  nella definizione dei suoi omologhi vedici o romani: in lui - e anche  nell’omologo germanico di Mitra che esamineremo nel prossimo ca¬  pitolo e che è interpretato da Tacito come Marte - si constata più di una  osmosi, un vero e proprio ribaltamento e straripamento della guerra  nell’ideologia del primo livello. All’epoca in cui si sono formate le loro epopee, gli «eroi odinici» - Sigurdr, Helgi e Haraldr Den-  te-da-Combattimento - sono prima di tutto dei guerrieri; e nell’aldilà  sono i guerrieri morti, in un’eternità di giochi e di gioie guerriere, che  Ódinn accoglie nel proprio Valhòll. In compenso, almeno in certi luo¬  ghi, è Pórr, il nemico dei giganti, il combattente solitario, ad averperso  il contatto con la guerra (almeno quella combattuta dagli uomini) ed è  sopratutto il felice risultato dei suoi duelli atmosferici contro i giganti  e i flagelli, la pioggia benefica per le messi, che ha giustificato e popo¬  lari zzato il suo culto e che talvolta ha spodestato Freyr dal la parte agri¬  cola della sua provincia. Questa doppia evoluzione sembra essere sta¬  ta spinta all’estremo tra gli Scandinavi più orientali, presso i quali così  Adamo da Brema (IV, 26-27) definiva i tre dèi della triade di Uppsala.   «Thor presici et in aere, qui tonitrus et fulmina, ventos ymbre-  sque, serena et fruges gubernat. Alter Woclan, id est furor, bella gerit  hominique ministrai virtutem contro inimicos. Tercius est Fritto  (cioè Freyr), pacem voluptatemque largiens mortalibus...   Sipestis etfames imminet, Thorydolo lybatur, sibellum, Woda-  ni, si nuptiae celebrandae sunt, Fricconi».   Anche se si ammette che la teologia di ognuno di questi tre dèi  di Uppsala fosse più ricca, e più variegata di quanto non appaia nelle  brevi osservazioni di Adamo da Brema (che ha preso Pórr come dio  principale poiché figura nel mezzo, al secondo posto, ed è armalo di un  martello che ha scambiato per uno scettro e perché, tuonante, lo ha as-  similato a Giove), non vi è ragione di rifiutare la sua testimonianza: lo  scivolamento della guerra nel dominio di «Wodan» e lo scivolamento  inverso di «Thor» al servizio dei contadini sono dei fatti. Ma se ne  comprende l’origine (come su altri punti relativi alla Scandinavia) e  dove lo stesso fenomeno si osserva, i valori dei tre dèi restano essen¬  zialmente vicini a quelli dei loro omologhi indiani e romani.  Stato del problema presso i Celti, i Greci e gli Slavi   Sulle altre parti del dominio indoeuropeo, a causa di diverse ra¬  gioni - cronologia troppo recente, imprestiti massicci da sistemi reli¬  giosi non indoeuropei - è difficile constatare immediatamente le strut¬  ture teologiche corrispondenti alle tre funzioni: sono necessari quindi dei ragionamenti e di conseguenza I ’ arbitrio è in agguato. Questo stato  di cose è particolarmente spiacevole nell’ambito greco o celtico in cui  l’informazione è tuttavia molto abbondante: bisogna rassegnarsi.   In Grecia, dove la religione non è essenzialmente indoeuropea,  il raggruppamento delle dee nella leggenda del pastore Paride resta ad  esempio un gioco letterario e non forma evidentemente un’autentica  combinazione religiosa.   In Gallia, dove la classificazione degli dèi riportata da Cesare (e  confermata dai testi irlandesi sui Tuatha Dé Danann) ricorda per molti  versi la struttura delle tre funzioni, quest’analogia con la filiazione, e i  ritocchi che suggerisce, suscitano più problemi invece che risolverli.  Quanto al paganesimo degli Slavi, questi sono così poco conosciuti  perché i tentativi di spiegazione tripartitapossano essere altra cosa che  brillanti ipotesi.   Ma la concordanza delle testimonianze sui tre domini, in¬  do-iranico, italico e germanico, in cui le antiche religioni sono state de¬  scritte in maniera sistematica dai loro stessi rappresentanti, è sufficiente  a garantire che sin dai tempi indoeuropei l’ideologia tripartita aveva  dato luogo a una teologia della stessa forma; a un gruppo di divinità ge-  rarchizzate che esprimevano i tre livelli; e ad una «mitologia eziologi¬  ca» che giustificava la differenza e la collaborazione di queste divinità.   24. Divinità che sintetizzano le tre funzioni   Ci limiteremo a segnalare nella teologia un altro utilizzo fre¬  quente della struttura tripartita, non analitico ma sintetico. Vi sono in¬  fatti divinità che sia i saggi che i fedeli tengono a definire, in opposi¬  zione agli dèi specialisti delle tre funzioni, come onnivalenti,  domiciliate ed efficienti sui tre livelli. Questo tipo di espressione si è  prodotta indipendentemente in diversi luoghi, per esempio nelle civil¬  tà mediterranee, quando una divinità patrona o eponima di una città ha  assunto un’importanza a svantaggio di altri dèi o di équipes divine:  così, presso gli Ioni di Atene, dove sembra che una teologia tripartita  (Zeus, Athena, Poseidone, Efesto) concernesse innanzitutto le quattro  tribù funzionali (sacerdoti, guerrieri, agricoltori, artigiani), è Atena  che in epoca storica domina la religione.   Così, seguendo la felice osservazione di F. Vian, durante le pic¬  cole Panatenee, ella riceveva successivamente degli omaggi divini in quanto Hygieiu, Polias e Niké, vocaboli che evocano le funzioni di sa¬  lute, sovranità politica e vittoria. Allo stesso modo, nello zoroastrismo  si è prodotta la tripla titolatura Buone, Forti, Sunte dei geni tutelari, le  FravaSi, che sono in effetti trivalenti.   25. Dee trivalenti   Tuttavia, tra queste figure sembra che bisogni far risalire alla  comunità indoeuropea un tipo di dea la cui trivalenza è così messa in  evidenza e che è intenzionalmente congiunta agli dèi funzionali: que¬  sta dea, che per il suo stesso sesso e per il suo punto d’inserimento nel¬  le liste è connessa alla terza funzione, è tuttavia attiva in tutti e tre i li¬  velli e sembra che la sua presenza nelle liste esprima il teologhema di  una multi valenza femminile che raddoppia la molteplicità degli spe¬  cialisti mascolini.   Abbiamo ricordato più sopra che talvolta, nelle liste trifunzio¬  nali vediche, la dea-fiume SarasvatTè associata agli ASvin: ora, gli epi¬  teti di SarasvatT, benché non raggruppati in formule, la definiscono  chiaramente come pura, eroica, materna. Indipendentemente l’uno  dall’altro, sia io (1947) che H. Lommel (1953) abbiamo proposto di  interpretare come un’omologa di SarasvatT e come l’erede della stessa  dea indo-iranica, la più importante delle dee del \'Avestu non-gàthico,  anch’essa dea-fiume, Anàhità; ora, il nome completo e triplice di  Anàhità, fa evidentemente riferimento alle tre funzioni: «l’umida, la  forte, l’immacolata», AradvT, Suri, Anàhità. Ed è ancora per sublima¬  zione dello stesso prototipo che io penso che lo zoroastrismo puro ab¬  bia creato la sua quarta Entità, Àrmaiti, che seppur ordinariamente al  terzo livello (dopo XsaSra, «Potenza» e prima di Haurvatà(-Amar,?là(,  «Salute» e «Immortalità») e benché non in possesso di una tripla tito¬  latura, porta un nome che significa «Pensiero-Pio», aiuta Dio nella sua  lolla contro il Male ed ha come elemento materiale la terra nutrice dif¬  ferenzialmente associata.   Nel Lazio, a Lanuvium, Giunone era onorata sotto il triplice  epiteto di Seispes Mater Regina, i due ultimi epiteti riportano alla teo¬  logia della Giunone romana (Lucina, etc.; Regina) patrona della fe¬  condità regolata c dea sovrana; ma a Roma la specificazione guerriera  manca, mentre era in evidenza nella figura di Giunone lanuvia e certa¬  mente era espressa dal primo epiteto, l’oscuro Seispet- (rom. sospit-,  da *sue-spit-? cf. Indra svà-ksatra, svu-pati, eie.).  Infine, nel mondo germanico, considerando i Germani conti¬  nentali, sembra che una dea unica e polivalente (se non onnivalente),  *Friyyò fosse congiunta ai multipli dèi funzionali di cui abbiamo par¬  lato più sopra; se la specificazione guerriera non è attestata, il poco che  si sa di essa la mostra sovrana (Frea, nelle leggende che spiegano il  nome dei Lombardi) e «Venus» ( *Friyya-dcigaz , «Freitag»), Presso  gli Scandinavi questa multi valenza è esplosa: la dea si è raddoppiata in  Frigg (esito regolare di *Friyyó in nordico), sposa sovrana del signore  magico Ódinn, e in Freyja (nome rifatto su Freyr), dea tipicamente  Vani, ricca e voluttuosa.   In Irlanda un’eroina, Macha, senza dubbio un’antica dea epo¬  nima del luogo più importante fra tutti, Emain Macha, capitale dei re  pagani del 1 ’ Ulster con 1 a piana che la circonda, dovette avere pri miti-  vamente questo carattere sintetico, analizzato in base alle tre funzioni,  poiché è sfociata in tre personaggi, in un «trio di Macha» ordinato nei  tempi. Una Veggente, sposa di un uomo dei primi tempi chiamato Ne-  med, «il Sacro», che muore per un’emozione profonda in seguito a una  visione; poi una Guerriera-Campionessa che fa del proprio marito il  suo generalissimo e che muore uccisa; infine una Madre che accresce  meravigliosamente la fortuna del proprio marito, un ricco contadino, e  che muore durante l’orribile parto di due gemelli. Ma non è più possi¬  bile determinare quali rapporti avesse nella religione con gli dèi ma¬  schi della stessa funzione.   26. Le teologie tripartite e i loro elementi   Dopo aver preso una visione globale dei sistemi teologici in¬  do-iranici, italici e germanici che esprimono l’ideologia delle tre fun¬  zioni, abbiamo riconosciuto che sono abbastanza paralleli per giustifi¬  carne la spiegazione nei termini di un’eredità indoeuropea comune.  Non è che l’inizio: senza perdere di vista la struttura d’insieme,  l’esplorazione dovrà concentrarsi successivamente su ognuno dei tre  termini; esaminando la funzione della sovranità religiosa in se stessa,  poi quella del la forza e della fecondità e infine, tram ite la comparazio¬  ne tra i dati indiani, iranici, latini etc., cercare di determinare come gli  Indoeuropei concepivano, suddividevano e utilizzavano ciascuna di  esse.    80     Note ai paragrafi   § 1. Sulla necessità, per lo storico delle religioni, di non perdere mai di vi¬  sta e di riconoscere le strutture teologiche di cui studia i frammenti, vedi prin¬  cipalmente L’heritage..., cap. I («Matièrc, objet et moyens de étude») - al  quale rimando una volta per tutte circa le questioni di metodo - e DIE, cap. II  («Structure et cronologie»),   § 2-3. Il riconoscimento del raggruppamento arcaico «Milra-Varuna  Indra e i Nàsatya», l’inventario delle circostanze in cui appaiono, sono state  fatte progressivamente in: JMQ, pp. 59-60 (= JMQ it, pp. 38-39); NA pp.  41-52; Tarpeia, 1947, pp. 45-56 (dove sono studiati in dettaglio sei inni del  Riveda fondali su questa struttura); «Mitra-Varuna, Indra et le Nàsatya, com-  me palrons des trois fonclions cosmiqucs et sociales», Studia Linguistica, II,  1948 pp. 121-129; JMQ IV, pp. 13 - 35 ( «Les dieux palrons des trois f onctions  dans le Rg Veda et dans le AlharvaVeda»); in queste due ultime esposizioni  la divisione degli dèi in tre gruppi «Aditya, Rudra, Vasu», è interpretata nello  stesso senso (cf. DIE pp.7-9).   § 4. La discussione delle spiegazioni anteriori e l’interpretazione nuova  formano il primo capitolo di NA, pp. 15-55 («les dieux Arya de Mitani»), Il  carattere indiano degli Arya di Mitani è reso probabile dalla forma del nume¬  ro «uno» (aika: sanscrito eka, contro l’iranico comune *aiva ); P.E. DUMONT  ha interpretato senza difficoltà tutti nomi d’uomini conosciuti grazie al vcdi-  co (JAOS, 67, 1947, pp: 251-253). In seguilo G. Widengren ha sottolineato in  questi nomi propri c nella variante u -ru- wa - na del nome di Varuna (nel  trattato di Bogazkoy), qualche fatto fonetico che rinforza questo parlare di  iranico: Numen, II, 1955, pp. 80-81 e note 167, 170.   § 5. DIE.pp. 11-14. Un gruppo di raffigurazioni su una faretra cassila c  stata interpretata come rappresentante in alto Mitra c Varuna, nel mezzo  Indra (o Vàyu) e in basso i gemelli Nàsatya in una scena di medicazione mira¬  colosa conosciuta dal Rg Veda : «Dieux cassiles et dieux vediques, à propos  d’un bronze du Lourislan» RHA, 52, 1950, pp. 18-37. Riprenderò prossima¬  mente il problema a partire da una migliore fotografia (la scena c le insegne di  «Mitra e Varuna» devono essere spiegate altrimenti: non vi sono degli altari  ma un vaso raffigurante una lesta di leone) e con degli altri documenti sui  «gemelli»   § 6-9. La spiegazione degli Amai a Spanta costituisce la materia di NA,  cap. II-V; la quarta Entità, Àrmaiti, che sembrava creare allora difficoltà, è  stala spiegata in seguito in Tarpeia , cap. I (=JMQ il.pp. 305-313). Questa in¬  terpretazione è stata accettala e sviluppata da J. De MENASCE, «Une legende  indo-iranienne dans l’angelologie judéo-musulmane: à propos de  Hàrut-Màrut», Études Asiatiques (svizzeri) I, 1947, pp. 10-18; J. DUCHE-  SNE-GUILLEMIN, Zoroastre, 1948 pp. 47-80; Onnazd et Ah rimati, 1953, p.  23; The Western Response to Zoroaster, 1958 pp. 38-51 (vedi specialmente  pp. 45-46 contro I. Gcrshevilch e W. Lcntz); S. WlKANDER (vedi sotto, nota    81     al III cap. § 13); J.C. TAVADIA «From Aryan Mythology to Zoroastrian The-  ology, aReviewofDumézil’sResearches», ZDMG, 103, 1953, pp. 344-353;  K. Barr, Avesta, 1954, pp. 52-59 e 197; G. WlDENGREN , «Stand und Aufga-  ben deriranischenReligionsgeschichte», Numen, I, 1954, pp. 22-26; S. Har-  TMAN in molti articoli specialmente «Ladisposition de l’Avesta», Orientatili  Suecana, V, 1956, pp. 30-78; e inoltre da altri importanti iranisti. È stata inve¬  ce rigettata senza discussione da I. Gerschevitch e W. Lentz e non è menzio¬  nala nei libri di W.B. Henning e R.C. Zaehner.   § 10. Questo tipo di spiegazione è stata estesa alle Entità già gathiche  come SraoSa e ASi (considerale come sublimazioni degli dèi prezoroastriani  equivalenti agli dèi vedici Aryaman e Bhaga): vedi qui sotto, III, § 8; poi al  non gathico Rasnu e alla Fravasi (considerate come figure purificate corri¬  spondenti a Visnu e ai Maj'ut): «Visnu et les Marut à travers la réforme zoroa-  striennc», JA, CCXLII, 1953, pp. 1-25; infine a Busyastà (considerata come  una demonizzazione della dea Aurora): Déesses latines et mythes vécliques,  1956, pp. 34-37.   § 11. DIE, pp. 22-23.   § 12. Gli attacchi più vivi sono venuti dai latinisti della scuola primitivi-  sta; vedi a proposito di H.J. ROSE, RHR, CXXXIII, 1948, pp. 241-243 e D鬠 esses latines..., 1956, pp. 118-123. I germanisti ostili hanno in generale  preferito “ignorare”; tuttavia ho recentemente avuto una gradevole discus¬  sione - la prima - con K. HELM, BGDSL, 77, 1955, pp. 347- 365; 78, 1956,  pp. 173- 180. Un grande numero di «risposte alle obiezioni» si trovano dis¬  seminate nelle prefazioni, note e appendici dei miei libri. Le ultime in ordine  di tempo che hanno un valore generale sono; «Examen de criliques réccnles;  John Brough, Angelo Brelich», RHR, CLII, 1957, pp. 8-30.   § 13.1 latinisti che dissertarono su Quirino dimenticano solitamente Vo-  fionus che riduce di troppo la loro libertà d’ipotesi. Perla triade umbra vedi  «Remarques sur les dieux Grabovio - d’Iguvium», RP, XXVIII, 1954, pp.  225-234 e «Notes sur le début du riluel d’Iguvium», RHR, CXLVII, 1955,  pp. 265-267. La triade romana è comparsa proprio a fornire il titolo comune  degli studi sulle tecnologie trifunzionali indoeuropee, pubblicati dal 1941 al  1948.   § 14. L’interpretazione è stata presentata per la prima volta in un articolo  che conteneva in potenza tutto il lavoro ulteriore: «La préhisloirc des flami-  nes majeurs», RHR, CXVIII, 1938, pp. 188-200. Sono comparsi in seguito  JMQ, cap. II c III, poi lutto NR; riassunto in L'hèritage... pp. 72-101.   § 15. Contro il «Marte agrario» vedi NR, pp. 38-71 (=JMQ it., pp.  191-217) e Rituels... pp. 78-80. Su Jupiter sovrano vedi NR., pp. 71-76 (=  JMQ it. pp. 218-222); è importante non vedere in Giano (dio dei prima, di tut¬  ti i prima) un «predecessore» né un doppio di Jupiter (dio dei summit): DIE,  pp. 91-102 e«Jupiler-Mars-Quirinus et Janus», RHR, CXXXVIII, 1951, pp.  209-210; sugli «dèi dei prima» indo-iranici, Tarpeia, pp. 66-96.    82     § 16. La spiegazione del complesso Quirino è stata formata in tre tempi:  1) JMQ, pp. 72-77, 84-94, 143-148, 182-187 (=JMQ it„ pp. 49-53, 58-66,  101-104); 2°), NR, pp. 194-221 (=JMQ it., pp. 264-285) e Tarpeia, pp.  176-179; 3°) JMQ, pp. 155-170 (specialmente pp. 167, 169 e n. 2, 170). Vedi  anche L. GERSCHEL, «Saliens de Mars et Saliens de Quirinus», RHR,  CXXXVIII, 1950, p. 145-151. Ho sostenuto numerose discussioni, special-  mente: «La triade Jupiter-Mars-Janus?», RHR, CXXXII, 1946, pp. 115-123  (con V. Basanoff); REL, XXXI 1953, pp. 189-190 (con C. Koch);«A propos  de Quirinus», REL, XXXIII, 1955, pp. 105-108 (con J. Paoli); «Remarques  sur les armes des dieux de troisième fonction», SMSR, XXVIII, 1957, pp.  1-10 (con A. Brelich). Generalmente ogni nuovo avversario non tiene alcun  conto delle risposte fatte ai precedenti; è ancora il caso di J. BAYET, Histoire  psychotogique et historique de la religìon roinaine, 1958, p. 118 (che tratta  anche della triade romana JMQ senza considerare la triade umbra di Jupiter  Mars Vofionus). Per l’assimilazione di Romolo a Quirino, le considerazioni  nuove riportate qui sotto incoraggiano a dargli un senso più profondo e una  data più antica di quanto non si facesse generalmente (vedi «La bataille de  Sentinum, remarques sur la fabrication de l’histoire romaine» Annales, Eco¬  nomie, Sociétés, Civilisations.VU, 1952, pp. 145-154). Sulle etimologie pro¬  poste per Vofionus, vedi RP, XXVIII, 1954, p. 225, n. 4 e p. 226, n. 1; la  spiegazione con *leudhyono- sitrova in Pisani «Mytho-etymologica», Rev.  desEtudes Indo-Européennes (Bucarest), I; 1938, p. 230-233 e in BENVENI-  STE, «Symbolisme social dans les cultes gréco-italiques», RHR, CXXIX,  1945, pp. 7-9.   § 17. Una questione connessa è quella della realtà o della non realtà di una  componente sabina alle origini di Roma. Questa è secondaria rispetto al no¬  stro punto di vista, che è quello dell’ideologia e non dei fatti storici, e in più,  una risposta affermativa non genererebbe affatto l’interpretazione funzionale  delle leggende sulle origini, di cui bisognerebbe solamente ammettere (la  qual cosa è ordinaria) che presentano l’avvenimento «ripensato» in un qua¬  dro ideologico ed epico preesistente, tradizionale; ma è anche chiaro che que¬  sta interpretazione strutturale e unitaria che noi formiamo non rinforza la tesi  dell’autenticità storica del sinecismo originale che incontra diverse difficol¬  tà. In L’heritage .... pp. 179-181, si troverà riassunta la lunga discussione del  capitolo III di NR («Latins et Sabins, histoire et myhte» non tradotta in JMQ  it.: vedi p. 263), condotta principalmente in funzione della tesi di A. PlGA-  NIOL, Essai surlesorigines de Romei 1915) che dominava allora gli studi. Da  quattordici anni che questa discussione è stata pubblicata ho letto molte affer¬  mazioni calorose, arroganti e irritate sulla presenza sabina lontana dalla fon¬  dazione di Roma, ma non ho visto segnalare alcun fatto archeologico che non  fosse già stato prima esaminato e che facesse pendere decisamente la bilan¬  cia; cf. JMQ IV, p. 182 (sugli argomenti che si sono voluti demandare alla  strana disciplina della «geopolitica») e RE XXXIII, 1955, pp. 105-107 (su un  curioso argomento che J. Paoli ha creduto di poter ricavare dalla triade um¬  bra). Quanto a me, continuo a trovare soddisfacente nel suo principio la spie-    83     gazione data nel 1886 della leggenda del sinecismo latino-sabino da T.  MOMMSEN, «Die Tatiuslegende», ripreso in Gemmiti. Schr. IV, pp. 22-35. In  una memoria intitolata «Céramiques des premiers siècles de Rome, VIII-V  siècles», manoscritto che si trova analizzato nei Comptes Renclus de  l’Académie des Inscriptions , 1950, p. 287-295, F. Villard si è pronuncialo per  l’omogeneità della popolazione romana dell'ottavo secolo.   § 18. Sullo Jupiter di Romolo e gli dèi di Tito Tazio, vedi JMQ, pp.  144-146 (= JMQ it., pp. 101-012) (dove bisogna correggere nella citazione di  Varronc Vedici Ioni in Vedi otti) e La saga de Hadingus, 1953, pp. 109-110.   Per la triade «Jupiter, Mars, Ops» vedi «Lcs cultes de la Regia, les trois  fonclions et la triade JMQ», Latomus, XIII, 1954, pp. 129-139. Per la triade  «Jupiter, Mars, Flora (o Vcnus)», vedi Rituels..., p. 54 e p. 60, note 37-40. Per  Romolo-Remo come corrispondenti dei Nàsatya vedici, vedi qui sotto III, §  24. Inoltre l’utilizzazione delle tre funzioni c della triade «JMQ» da parte di  Martianus Capella è stata esaminala in «Remarques sur Ics trois premières re¬  gione s erteli de Mart. Cap.», Coll. Latomus XXIII ( =Honim. à M. Nieder-  memn) 1956, pp. 102-107.   § 19-20. Jan de Vrics è stalo condotto dalle sue ricerche a una visione  strutturale delle religioni germaniche. Quando è uscito MDG, 1939, egli av¬  vertì la parentela della mia concezione e della sua e la complementarietà dei  nostri argomenti. Da allora, benché divisi su qualche dettaglio, siamo  d’accordo, credo, su tutte le maggiori questioni: che ci si riporti alle sue chia¬  re, obiettive c generose esposizioni del suo Altgermanische Relìgionsge¬  stiti cht e. 2“ cd., I c II, 1956-1957 c ai suoi articoli: «Dcr heutige Stand der  gcrmanischen Rcligionsforschung», Gemi. - Roman. Monatsschrift , N.F., II,   1951, pp. 1-11 ; e «L’élat acluel dcséludes sur la rcligion germanique», Dio¬  gene, 18, aprile 1957, pp. 1-16; altri articoli che toccano le questioni qui trat¬  tale: «La valeur religicuse du mot irmin», Cahiers du Sud, n. 314, 1952, pp.  18-27; «Die Gotlcrwohnungen in den Grlmmismàl», Atta Philol. Stand.,   1952, pp. 172-180; «La loponymiect l’hisloire des religions»,RHR, CXLVI,  1954, pp. 207-230; «Uber das Wort Jarl und seine Vcrwandlen», NC, VI,  1954, pp. 461-469. Nell’opera collettiva Deutsche Philologie ini Aufriss,  Miinchen, 1957, la sezione «Die altgermanische Religion» (col. 2467-2556),  redaltada Werner Bentz, dà del paganesimo germanico, e specialmente scan¬  dinavo, un’eccellente interpretazione, originale c ripensata, nel quadro che io  ho proposto. E. POLOMÉha lavorato in questo stesso schema: «L’élymologic  du terme germanique *ansuz, dieu souverain», Études Germuniques, 1953,  pp. 36-44 e «La religion germanique primitive, rcflccl d’une slruclurc socia¬  le», Le Flamheau, 1954,4, pp. 437-463.1 miei MDG, oggi felicemente esau¬  riti, hanno sofferto di essere stali pubblicati agli esordi delle ricerche sulla  tripartizione indoeuropea: non era che una prima vista d’insieme e un pro¬  gramma carico d'ipotesi di lavoro, alcune delle quali si sono verificate c altre  no; presto pubblicherò una seconda edizione interamente rimaneggiata. Non  ho qui ancora il posto per esaminare la teologia dei Germani continentali  (specialmente Tacito, Germania, 9, in cui i tre livelli sono chiari: Mercurio c    84     Marte, Ercole, «Iside»): vedi DIE, pp. 23-26. PerÓdinn bisogna aggiungere  l’importante confronto col polivalente Rudra dell’India (R. Otto, 1932): vedi  J. De Vries, op. cit., II, § 405.   § 21. Sulla guerra degli Asi e dei Vani paragonala a quella dei Latini di  Romolo e dei Sabini, vedi JMQ, cap. V e Tarpeia, pp. 247-291 (= JMQ it.,pp.  108-164) in cui si trova ampiamente rifiutala l’interpretazione in «giganto-  machia» della Voluspà, 21-24 avanzata da E. MOGK, FFC, 5 8, 1924, e la pre¬  sentazione generale in L’heritane..., pp. 125-142.   § 23. Perii giudizio di Paride vedi soprai § 23. PerglidèigallidiCesaree  i loro corrispondenti irlandesi nei loro rapporti (in ogni caso molto alterati)  con la tripartizione, vedi MDG, p. 9, NR, pp. 22-27 eP.-M. DuvaL, Lesdieux  de la Gaule, 1957, pp. 4, 19-21, 31-33, 94. R. JAKOBSON ha tentato di inter¬  pretare nel quadro delle tre funzioni il poco che si conosce degli dèi slavi: art.  «Slavic Mythology» in Funk and Wagnalls StandardDictionary pfFolklore,  II, 1950, pp. 1025-1028. Sembra che il paganesimo dei Baiti possa essere un  giorno favorevole alla nostra inchiesta.   § 24. Sulla tripla titolatura di Alena alle Panaatenec, vedi F. VlAN, La  guerre dea géants, le mytheavant l’époque hellenistique, 1952pp. 257-258.   § 25. Su SarasvatT-Anàhilà-Àrmaiti e sul nome triplo di Anàhità, vedi Tar¬  peia, pp. 55-66; H. Lommel ha trovato indipendemente la corrispondenza Sa-  rasvatl-Anàhità c l’ha pubblicata in Festschr. F. Weller, 1954, pp. 405-413.  Per i dati latini, irlandesi e germanici vedi «Iuno, S.M.R.», Eranos, LII, 1954,  pp. 105-119 e «Le trio des Macha» RHR. L’esplorazione di ognuno dei tre livelli funzionali nel mondo  indoeuropeo implica tre compiti molto considerevoli, a tult’oggi pro¬  grediti in maniera assai discontinua. Non è stalo possibile giungere ra¬  pidamente a risultati sistematici che al primo livello. Se importanti  aspetti del secondo e del terzo sono stati determinati in breve tempo,  essi non sono tuttavia che un insieme strutturalo ancora in fase di ap¬  profondimento. Non si è potuto dunque fare altro che dare per essi de¬  gli orientamenti generali e, sopratutto, delle indicazioni sui metodi di  lavoro.   Varuna e Mitra, ASa e Vohu Manah   Il principio fondamentale intorno a cui si organizzavapresso gli  Indo-Iranici la teologia della prima funzione è già stato segnalato; nel  trattalo di Bogazkoy e nelle formule vediche che sono state confronta¬  te, non si tratta di un dio ma di due, Mitra e Varuna, che la rappresenta¬  no, ed c ancora questa coppia che presuppone la coesistenza di due figure, il «Buon Pensiero» e 1’«Ordine», che gli corrispondono in testa  alla lista delle entità sostituite da Zoroastro agli dèi funzionali.   Questa dualità è stata spiegata in molte maniere dai commenta¬  tori indiani e dalle diverse scuole mitologiche degli ultimi cento anni.  Attualmente è stata fatta luce su ciò che in parte si può dedurre dai loro  stessi nomi: se la parola Veruna, apparentata o no al greco oùpavóq,  wpavoq, resta oscura (la si è interpretata con radici che significano  «coprire», «legare», «dichiarare»), al contrario, Mitra è sicuramente,  come ha spiegato Meillet in un celebre articolo (1907), per la sua eti¬  mologia, il Contratto personificato. Nella grande maggioranza dei  casi, tra questi dèi i cui nomi appaiono spesso al duale doppio, cioè con  una forma grammaticale che esprime il più stretto legame, i poeti non  fanno differenza: li vedono come due consoli celesti, depositari soli¬  dali del più grande potere, e quando non nominano che uno dei due,  non si fanno scrupoli di concentrare su di lui tutti gli aspetti e gli attri¬  buti di questo potere. E questo è naturale poiché l’unità e l’armonia  della funzione sovrana, in rapporto a lutto ciò che le è subordinato, co¬  stituisce per gli uomini il beneessenziale che bisogna mettere in primo  piano nella credenza e nell’espressione. Ma capita spesso felicemente,  anche nel lirismo degli inni ma soprattutto nei libri rituali, che il poeta  o il liturgista travalichi questo primo piano e voglia distinguere i due  dèi per meglio spiegare o utilizzare la loro solidarietà.   In tale caso le diverse immagini che appaiono sono tutte dello  stesso senso: Mitra e Varuna sono i due termini di un gran numero di  coppie concettuali e di antitesi, la cui sovrapposizione definisce due  piani, ogni punto del piano potremmo dire, richiamando sull’altro un  punto omologo; e queste coppie tanto diverse possiedono tuttavia  un’aria di parentela così netta che di ogni nuova coppia assegnata al¬  l’insieme si può provare a colpo sicuro quale sarà il termine «mitria-  co» e quello «varunjco».   Fra le specificazioni così diverse dell’antitesi sarà difficile  estrarne una da cui il resto può essere derivato e senza dubbio questo  tentativo, una volta fatto, non avrebbe gran senso. Sarà molto meglio  procedere a un breve inventario, osservando e definendo l’antitesi in  rapporto alle principali categorie dell’essere divino (cf. II § 5). Quanto  ai loro domini nel cosmo, Mitra s’interessa piuttosto a ciò che è vicino  all’uomo, mentre Varuna all’immenso insieme (distinzione che si ri-    88     trova nettamente fra le Entità zoroastriane corrispondenti: cf. II § 8,4°);  passando al limile, dei testi affermano che Mitra è questo mondo mentre  Varuna Valtro mondo, come è certo che ben presto Mitra rappresentò il  giorno e Varuna la notte. Mitra è assimilato alle forme visibili e usuali  del soma e del fuoco, mentre Varuna alle loro forme invisibili e mitiche.   Nelle modalità d'azione, se Mitra è propriamente il «contratto»  e stabilisce tra gli uomini i trattati e le alleanze, Varuna è un grande  mago, signore della màyà, la magia creatrice delle forme, e in posses¬  so dei «nodi» con cui «afferra» i colpevoli con una presa irresistibile.   Nondimeno essi si oppongono per il foro carattere : l’ami¬  chevole Mitra è benevolo, dolce, rassicurante, stimolante; il dio Varuna  è impietoso, violento, a volte un po’ demoniaco. Innumerevoli applica¬  zioni illustrano questo teologhema generale: a Mitra appartiene ciò che  è cotto a vapore, a Varuna ciò che è arrostito; a Mitra il latte, a Varuna il  soma inebriante; a Mitra l’intelligenza, a Varuna la volontà; a Mitra ciò  che è ben sacrificato, a Varuna ciò che è mal sacrificato etc..   Tra le funzioni diverse da quelle che gli sono proprie, Mitra ha  più affinità per la prosperità, la fecondità e la pace, Varuna per la guer¬  ra e la conquista, tra le province stesse della sovranità, Mitra è piutto¬  sto - come diceva con qualche anacronismo A. K. Coomaraswamy - il  potere spirituale, mentre Varuna è il potere temporale, in lutti i casi ri¬  spettivamente il brdhman e lo ksatrd. L. Renou ( Études vèd. et pànin.  II, 1956, p. 110) ha anche scoperto nel Riveda un’affinità differente,  di Varuna per l'élite e di Mitra per la massa, il popolo comune. I sovra¬  ni Mitra e Varuna, di diritto e di fatto, sono uguali ed è attuale sia l’uno  che l’altro. Se gli inni pronunciano più spesso il nome di Varuna, ciò  non avviene perché egli è «in procinto» di prendere un’importanza  maggiore rispetto a un «più vecchio» dio Mitra, ma perché, semplice¬  mente, la specificazione magica e inquietante della sua azione solleci¬  ta all’uomo più preoccupazioni cultuali del rassicurante e chiaro do¬  minio del giurista Mitra. Bisogna sottolineare ugualmente che non vi c  mai conflitto tra questi due esseri antitetici, ma al contrario vi è una co¬  stante collaborazione. Questo schema indiano, e prima ancora indo-iranico, ha fornito  la chiave per qualche difficoltà o enigma delle mitologie occidentali.  A Roma, dove tutto il pensiero è concreto e patriottico, in cui il cosmo  e le sue diverse parti richiedono attenzione e riflessione solo nella misura in cui possono essere utili o nocive all’ Urbe, non ci si può aspettare di osservare la bipartizione nelle sue generalità. La lontananza del cielo, l’ordine dell’universo, cose di Varuna, lasciano i Romani totalmente indifferenti. Ridotta soltanto a qualcuna delle sue specificazioni, la bipartizione tuttavia sussiste. Se nella Roma storica “dius”, “dius fidius” -- il dio luminoso e garante della fides, della lealtà e dei giuramenti -- non è più che un  aspetto di Jupiter, è vero che sembra esservi stata tutt’altra situazione  nei primordi. Certo, i due dèi erano strettamente associati e il nome del primo flamine e più vicino a “dius” che a “jupiter”. Ma il dominio strettamente giuridico che “dius” si accolla, nella sovranità, porta a considerare il resto – gl’auspici su cui Roma vive, la direzione mistica della politica romana, i miracoli salvifici della storia romana -- come più  propriamente caratteristici del suo grande socio. Allo stesso modo,  nella teoria dei lampi “dius fidius” ha una specificazione nettamente  mitriaca. Sono i lampi del giorno che gli appartengono, mentre  quelli della notte rivelano una varietà oscura e varunica di “jupiter”,  “summanus”.   È probabile che questa teologia complessa abbia risentito, prima dei nostri testi più antichi, della promozione e, nello stesso tempo,  della riforma teologica di “jupiter” che ha coinciso con la creazione del  suo culto capitolino e con la sostituzione di una triade «Jupiter O.M,  Giunone Regina, Minerva» all’antica triade «Jupiter, Mars, Quirinus». Lo “jupiter” del Campidoglio sembra essere stato quasi subito imperialista, fagocitando “dius” e concentrando in sé tutta la sovranità; ma  forse i due piani tradizionali complementari sono ancora segnalati nella strana doppia titolatura del dio: “ottimo” --  cioè il molto servizievole -- e “massimo” -- cioè il più alto, posto nell’infinita classificazione delle mciiestcìtes. Sono questi, in rapporto all 'uomo, i due poli che corrispondono nell’ideologia vedica a Mitra e Varuna. ÓdINN E   Tyr   Ma è nel mondo germanico che l’analogia indiana è particolar¬  mente illuminante. Né «Mercurio» (cioè *Wópanaz ) nella Germania    90     di Tacito, né Ódinn nei testi nordici sono soli nei loro livelli: vicino a  loro vi è quello che Tacito, per delle ragioni comprensibili e interes¬  santi, chiama Marte (cioè *Tiuz ) e gli Scandinavi chiamano Tyr. Que¬  sto dio, omonimo del vedico Dyauh e del greco Zeus, e che al pari di  questi due o del Dius Fidius latino evoca l’idea del cielo luminoso, è  generalmente considerato nei suoi rapporti con *Wópanaz come un  dio «più antico», impallidito di fronte a un nuovo venuto. Benché sia  strano che, a otto o dieci secoli di distanza, Tacito da una parte e i poeti  scandinavi dall’altra abbiano conosciuto e registrato, proprio allo  stesso stadio, l’avanzamento di uno e l’arretramento dell’altro, le con¬  siderazioni comparative ci incoraggiano a dare un senso strutturale a  questa associazione; dove *Tiuz si è senza dubbio eclissato a causa  dell 'inquietante *'WdJ)anaz, per la stessa ragione per cui Mitra, teori¬  camente pari a Varuna, riceve meno attenzione da parte dei poeti e  come lui Dius Fidius è meno importante di Jupiter: gli uomini hanno  più attenzione per la sovranità magica che per quella giuridica.   La grande originalità del mondo germanico è quella segnalata  da Tacito con la sua interpretatio romana di *Tiuz in Marte. Essa per¬  viene a delle considerazioni sviluppate nel precedente capitolo, in cui  abbiamo visto il mago Ódinn annettersi una parte della funzione guer¬  riera. La stessa cosa accade per il giurista Tyr; ecco come Snorri lo de¬  finisce (Gylfaginning cap. 25).   «Vi è ancora un Asi che si chiama Tyr. È molto intrepido e co¬  raggioso, ha un grande potere sulla vittoria in battaglia. Perciò è  bene che i guerrieri valorosi lo invochino. Di alcuni, che sono più co¬  raggiosi degli altri e che non hanno paura di niente, si dice prover¬  bialmente che sono figli di Tyr »   Questa «marzializzazione» del sovrano giurista dei Germani  non è senza analogia con quella che a Roma ha fatto di Quirino, dio ca¬  nonico della terza funzione, patrono dei Romani nella pace e nelle  opere di pace, una varietà di Marte. Nei due casi l’evoluzione sociale  ha reagito sugli dèi: dal giorno in cui - forse con la riforma di Servio - i  Quiriti hanno coinciso coi milites e sono diventati «i militi in congedo  tra due appelli», era naturale che Quirino si volgesse verso il Mars  tranquillus, il Mars qui praeest paci aspettando di saevire.    91     In altre condizioni, meno formali e più violente, le società ger¬  maniche antiche hanno esteso all’amministrazione dei tempi di pace i  quadri della guerra e l’hanno riempita dei costumi e dello spirito guer¬  riero. A Roma 1 ’exercitus urbanus che costituiva l’assemblea legisla¬  tiva, si riuniva al Campo di Marte ma senza armi. Che si rileggano, al  contrario, i passi coloriti in cui Tacito (Germania , 11 -13) descrive il  Pingdei Germani: l’arrivo dei capi con le loro bande, le armi brandite  o battute in segno di voto, le forme tutte militari del prestigio e  deH’-autorevolezza. Ed è in questo Ping che si formulava il diritto e si  regolavano i processi. Qualche secolo più tardi l’antichità scandinava  non ci mostra un diverso spettacolo: anche là ci si riunisce in armi, si  approva alzando la spada o l’ascia o battendo la spada sullo scudo.  Non è dunque sorprendente che il dio al centro di queste riunioni giuri-  dico-gueiTiere, erede del dio giurista indoeuropeo, rivestisse l’uni¬  forme dei suoi ministri e li accompagnasse nel loro passaggio, facile e  costante, dalla giustizia alla battaglia e che gli osservatori romani lo  avessero considerato come un Marte. Alcune dediche trovate in Frisia  sono rivolte a un Mars Thincsus che compie l’esatto legame tra lo stato  indoeuropeo probabile e il risultato scandinavo, tra Mitra e Tyr, quel  Tyr di cui è stato notato che il nome segnala, nella toponimia, gli anti¬  chi luoghi del Ping.   Sembra inoltreche, meno ipocriti di altri popol i, gli antichi Ger¬  mani abbiano così riconosciuto, a parte ogni questione dell’apparalo  guerriero, l’analogia profonda tra la procedura del diritto - con le sue  manovre e le sue astuzie, con le sue ingiustizie senza appello - e il  combattimento armato. Ben utilizzato, il diritto è un mezzo per essere  il più forte e per ottenere vittorie che spesso eliminano l’avversario  così radicalmente come in un duello. Quando si dice che Tyr, in segui¬  to a un’astuzia giuridica, per aver rischiato la sua mano destra come  pegno di un’affermazione utile ma falsa, « è divenuto monco e non è  chiamato pacificatore di uomini», non si tratta che della controparte,  del completamento morale di un fatto materiale: la riunione del Ping in  armi, con intenzioni di potenza (più che di equità) che vede la guerra in  ogni luogo.   Queste indicazioni molto generali aiuteranno a comprendere  come un  Tiuz-Mars abbia potuto formarsi a partire da un dio indoeu-    92     ropeo il cui dominio specifico era il diritto e il cui carattere si è purifi¬  cato e moralizzato, aiutato dalla civilizzazione progressiva.   5. Gli dèi sovrani minori nel Rgveda: Aryaman e Bhaga  vicino a Mitra   Ma negli inni del Rgveda il giurista Mitra e il magico Varuna,  benché sembrino dividersi equamente il dominio della sovranità, non  sono isolati. Essi non sono che quelli più frequentemente nominati dal  gruppo degli Àditya, o figli della dea Aditi, la Non-Legata, cioè la Li¬  bera, l’Indeterminata. La consi derazione dei nomi e delle funzioni de¬  gli Àditya in tutti i contesti, lo studio delle frequenze di menzione di  ognuno, frequenze dei loro diversi raggruppamenti parziali e del loro  legame con altri dèi, hanno permesso di interpretare la struttura che di¬  segnano.   Non è qui possibile beninteso riassumere molto brevemente  queste analisi e questi calcoli, i cui dettagli sono stati pubblicati in due  tempi, nel 1949 e nel 1952. Fin dalla letteratura epica è conservato il  ricordo che gli Àditya sono dèi che, come i due principali tra loro, van¬  no a coppie e in seguito arriveranno sino a dodici. Nel Rgveda sembra  che vi sia già stata un’oscillazione tra un’antica cifra di seie una prima  estensione a otto, per addizione di due dèi eterogenei.   Di questi sei, Mitra e Varuna formano la prima coppia; di ognu¬  na delle altre due coppie è facile vedere che un termine agisce sul pia¬  no e secondo lo spirito di Mitra, mentre 1 ’ altro, simmetricamente, agi¬  sce sul piano e secondo lo spirito di Varuna, di modo che è legittimo e  comodo chiamare queste figure complementari «sovrani minori». Ma  questa cifra di sei sembra essere stata estratta, per ragioni di simme¬  tria, da un sistema più breve di quattro dèi sovrani, in cui il sovrano  «vicino agli uomini» Mitra, aveva solo due assistenti, mentre Varuna  rimaneva solitario nelle sue lontananze. I nomi e le distribuzioni di  questi Àditya primitivi sono: I ) Mitra + Aryaman + Bhaga; 2) Varuna.  Il principio della stretta associazione di Aryaman, Bhaga, Mitra, pro¬  vato dalle statistiche delle menzioni simultanee, è semplice: ognuno  di questi dèi esprime e precisa lo spirito di Mitra su ognuna delle due  province che i nteressano 1 ’ uomo, quelle che il diritto romano ritroverà  con un altro orientamento, più individualista, distinguendo le perso-  nae e le res.    93     Sotto Mitra, il cui nome e il cui essere definiscono il tono e il  modo generale d’azione che si conosce (giuridico, benevolo, regolare,  orientato verso l’uomo), Aryaman si occupa di preservare la società  degli uomini ari a cui deve il suo nome, mentre Bhaga, il cui nome si¬  gnifica propriamente parte, assicura la distribuzione e il godimento  regolare dei beni degli Arya.   6. Aryaman   Aryaman protegge l’insieme degli uomini che, uniti o no politi¬  camente, si riconoscono Arya in opposizione ai barbari, e li protegge  non in quanto individui ma come elementi di un insieme: gli aspetti  principali del suo servizio multiforme sono i tre seguenti:   1 ) Favorisce le principali forme di rapporti materiali o contrat¬  tuali tra Arya. È il «donatore», protegge il «dono» (il che lo obbliga a  interessarsi alla ricchezza e all’abbondanza) e in particolare l’insieme  complesso delle prestazioni che formano l’ospitalità. P. Thieme (Der  Frenullinx im Riveda, 1938) ha messo in risalto questo punto col torto  di farne il centro di ogni concetto divino e di dedurne o negarne tutto il  resto. Infatti Aryaman non c meno primariamente interessato ai matri¬  moni: c pregato come dio delle buone alleanze, scopritore di mariti  (subandhùpativédana: A V, XIV, 1,17); cerca un marito per la fanciul¬  la giovane o una donna per il celibe (A V, VI, 60,1 ). La sua preoccupa¬  zione per i cammini e per la libera circolazione (c àtùrtapanthà, «colui  il cui cammino non può essere interrotto»; RV, X, 64,5) non deve esse¬  re negata o minimizzata come è stato fatto da B. Geiger, H. Giintert c  P. Thieme: tutto ciò risalta da un gran numero di strofe di inni e da un  lesto liturgico che lo definisce come il dio che permette al sacrificante  «di andare ove e^li desidera» e di « circolare felicemente » ( Tait-  tir.Samh., II-, 3, 4, 2).   2) La sua cura nei riguardi degli Arya ha anche un aspetto litur¬  gico: nei tempi antichi è lui che ha munto per la prima volta la Vacca  mitica e di conseguenza, nel corso dei tempi, si tiene a fianco  dell’officiante e munge la Vacca mitica insieme a lui (RV, 1,139,7, col  commento di Sàyana). A lui si domanda anche (RV, VII, 60, 9) di  espellere sacrificalmente dall’area sacrificale, tramite delle libagioni  (uva-yuj-), i nemici che ingannano Varuna. Poco curiosi dell’aldilà, gli autori degli inni non parlano di  un’altra forma di servizio che è, al contrario, la sola di cui l’epopea con¬  servi un ricordo molto vivo e che è sicuramente antica. Nell’altro mondo  Aryaman presiede il gruppo dei Padri, sorta di geni il cui nome chiari¬  sce abbastanza l’origine: sono infatti una rappresentazione degli ante¬  nati morti, e Aryaman è il loro re, che prolungano così nel posl-mortem la  felice promiscuità e la comunità degli Arya viventi. Il cammino che  porta presso i Padri, riservato a quelli che durante la propria vita hanno  praticato esattamente i riti (in opposizione agli asceti e agli yogin), è  chiamato «il cammino di Aryaman » (Mahàbhdrata , XII, 776 etc.).   7. Bhaga   Bhaga si occupa fondamentalmente della ricchezza ed è a lui  che ognuno - debole, forte e il re stesso - si rivolge per averne una par¬  te (RV , VII, 41, 2). Un esame completo delle strofe vediche che lo no¬  minano o che impiegano il termine bhd^a come appellativo, ha per¬  messo di constatare che questa parte è dotata di qualità richieste alla  metà dell’amministrazione sovrana che spetta a Mitra: essa è regolare,  prevedibile, senza sorprese, giunge a scadenza perlina sorta di gesta¬  zione (il bambino pronto perla nascita «rut> giunge Usuo bhd^a»: RV,  V, 7, 8); essa è il risultalo di un’attribuzione senza rivalità, implicante  un sistema di distribuzione (verbi; vi-bhaj-, vi-dhr-, day, cf. il greco  Sou|.iov); infine è acquisita e conservata nella calma, è la retribuzione  degli uomini maturi, assennali, seniores, opposti agli iuvenes (RV, I,  91,7 ; V, 41,11 ; IX, 97, 44). L’altra varietà della parte, imprevedibile,  violenta, «varunica», che si conquista con la battaglia o con la corsa, è  designata da un’altra parola che sin dai tempi indo-iranici aveva una  risonanza combattiva e che ha giustamente fornito ai teologi vedici il  nome del «sovrano minore varunico» simmetrico di Bhaga, Amsa.   8. Trasposizione zoroastriane di Aryaman e Bhaga: SraoSa  e A$i   Abbiamo la certezza che questa struttura era già indo-iranica:  come in Iran la lista degli dèi canonici delle tre funzioni è stala subli¬  mata dallo zoroastrismo puro in una lista di Entità che gli corrispondo¬  no termine per termine (vedi II § 8); così gli dèi sovrani minori asso-    95     ciati a Mitra hanno prodotto due figure complementari non comprese  nella lista canonica delle Entità, ma vicine, le cui statistiche dei ruoli  mostrano l’affinità esclusiva dell’una rispetto all’altra, e di tutte e due  rispetto a Vohu Manah (sostituito di *Mitra); e anche nei testi in cui  questo dio ricompare, in relazione a MiGra, mentre niente lo lega ad  Asa (sostituto di *Varuna). In più, per il loro nome come per la loro  funzione, queste due Entità - Sraosa, VObbedienza e la Disciplina , e  Asi, Retribuzione - sono ciò che ci si può attendere da un Aryaman o  da un Bhaga ripensati dai riformatori. E facile vedere punto per punto  che Sraosa è per la comunità dei credenti ciò che Aryaman era per la  comunità degli Arya, la chiesa che rimpiazza la nazionalità.   1) H. S. Nyberg ha potuto vedere in Sraosa la personificazione  «derfrommen Gemeinde», il termine «genio protettore» sarebbe più  esatto ma i 1 punto di applicazione è noto: Sraosa che è «capo nel mon¬  do materiale come Ohrmazd lo è nel mondo spirituale e materiale»  {Greater Bundahisn, ed. e trad. B. T. Anklesaria, 1957, XXVI, 45, p.  219) presiede all’ospitalità come già faceva l’Aryaman vedico (e già  indo-iranico; cf. persiano èrmdn, «ospite», da *airyaman), quando è  concessa, si sa, all’uomo buono, allo zoroastriano (Yasna LVII, 14 e  34).   Se non lo si vede più occupato, specialmente delle alleanze ma¬  trimoniali e della libera circolazione sui sentieri, nondimeno la sua  azione sociale sulle anime è precisata: egli è il patrono della grande  virtù della vita in comune, di quella che assicura la coesione, cioè la  giusta misura, la moderazione ( Zdtspram , XXXIV, 44); è anche il me¬  diatore e il garante del famoso patto concluso tra il Bene e il Male  (Vasi XI, 14) e il demone che gli è personalmente opposto è il terribile  Aesma, il Furore, distruttore della società ( Bundahisn XXXIV, 27).   Rimane una precisa traccia mitica della sostituzione di Sraosa a  un dio protettore degli Arya: secondo il Menók iXrat, XLIV, 17-35 è  lui il signore e il re del paese chiamato Eràn vèz. (avestico Airyanam  vaèjò), quel soggiorno degli Arya da cui, dice l’A vesta, sono venuti gli  Iranici ( Vidèvdat , I, 3).   2)11 ruolo liturgico di Aryaman si è naturalmente amplificato in  Sraosa: Yasna LXII, 2 e 8, dice che fu il primo a sacrificare e cantare  gli inni e tutto l’inizio del suo Yast (XI, 1-7), unicamente consacrato    96     all’elogio della preghiera e all’ esaltazione della loro potenza, si giusti-  fica per questo ricordo.   Simmetricamente, alla fine dei tempi, al tempo del supremo  combattimento contro il Male, è Sraosa che sarà il sacerdote assistente  nel sacrificio in cui Ahura Mazda stesso sarà l’officiante principale  (.Bunclcihisn , XXXIV, 29).   3) Infine, come l’Aryaman dell’epopea indiana è il capo della  dimora in cui vanno - attraverso «il cammino di Aryaman» - i morti  che hanno correttamente praticato il culto arya, così Sraosa ha un ruo¬  lo decisivo nelle notti che seguono immediatamente la morte: egli ac¬  compagna e protegge l’anima del giusto sui sentieri pericolosi che la  conducono al tribunale dei suoi giudici, di cui egli stesso è parte  {Dùuistun-TDénTk XIV, XXVIII, etc.). Asi è sempre una «distribuzio¬  ne» come lo era Bhaga ma la nuova religione, che conferisce più im¬  portanza all’aldilà che al mondo dei viventi, gli domanda soprattutto  di vegliare sulla giusta «retribuzione» post-mortem degli atti buoni o  cattivi dell’uomo. Tuttavia anche nelle Gàthà, c palesemente nei testi  post-gathici, pur badando in avvenire al tesoro dei suoi meriti, non di¬  mentica nella vita terrestre di arricchire l’uomo pio c di riempire la sua  casa di beni.  L’analisi di questa concezione, già indo-iranica, della sovranità  che non altera la grande bipartizione ricoperta dai nomi di Mitra e Va-  runa, ma dona solamente a Mitra due assistenti che l’aiutano a favorire  il popolo arya, illumina una particolarità della religione romana di Ju-  pitcr che sfortunatamente è conosciuta solo nella forma capitolina di  questa religione. Jupiler O.M, in cui si concentra tutta la sovranità, sia  quella «diale» che quella propriamente «gioviana» (vedi sopra § 3),  ospitava in due cappelle del suo tempio due divinità minori, Juvenlas e  Terminus.   Una leggenda giustificava la coabilazione singolare di questi  tre dèi facendola risalire alla fondazione del tempio capitolino, ma  questa leggenda (che utilizzava del resto un vecchio tema legalo al  concetto di Juvenlas) non prova evidentemente che l’associ azione  fosse più antica. L’analogia indo-iranica ci incoraggia a considerarla  come preromana.    97     Infatti, secondo degli slittamenti tipici della società romana, Ju-  ventas e Terminus giocano a fianco di JupiterO.M. dei ruoli compara¬  bili a quelli di Aryaman e Bhaga che affiancano Mitra. Juventas, dice  la leggenda eziologica, garantisce a Roma l’eternità e Terminus la sta¬  bilità sul suo dominio: anche Aryaman assicura alla società arya la du¬  rata e Bhaga la stabilità delle proprietà. Ma prese in se stesse, fuori da  questa leggenda, le due divinità romane sono molto di più di tutto que¬  sto: Juventas è la dea protettrice degli «uomini romani» più interes¬  santi per Roma, gli iuvenes, parte essenziale e germinati va della socie¬  tà; Terminus garantisce la spartizione regolare dei beni, dei beni  sopratutto immobili, catastali, appezzamenti di terreno, non delle  greggi erranti che presso i nomadi indo-iranici o tra gli indiani vedici  costituivano la ricchezza essenziale. Nel mondo scandinavo un tale schema di sovrani minori non si  è ancora lasciato identificare, al momento. Non è che intorno a Ódinn  non vi fossero degli dèi che, secondo il poco che si sa di loro, non aves¬  sero avuto l’incarico di esercitare dei frammenti specializzati della so¬  vranità, ma queste specificazioni e l’analisi della funzione sovrana  che suppongono sono originali e i loro rappresentanti non hanno omo¬  loghi indo-iranici e neppure romani. Vi è Hoenir, riflessivo e prudente  e che secondo la fine della Vòluspó è proiezione mitica di una sorta di  sacerdote; vi è Mimir, consigliere di Ódinn, ridotto a una testa che ri¬  mane pensante e parlante anche dopo la sua decapitazione; oppure  Bragi patrono della poesia e dell’eloquenza.   Ho pensato un tempo ai due fratelli di Ódinn, Vili e Vé, sicura¬  mente antichi poiché l’iniziale del loro nome non si allittera in scandi¬  navo che con una forma preistorica del suo nome (*Wòt>anaz), ma si  conoscono troppo pochi dati per interpretare questa triade e tutt’altra  soluzione sarà proposta più avanti.   11. Condizioni dello studio teologico della seconda e   TERZA FUNZIONE   I procedimenti di analisi e di statistica che hanno permesso di  dispiegare e di esplorare la sovranità - nell’India vedica inizialmente e    98     poi progressivamente nell’organizzazione intema della teologia della  prima funzione - non sono applicabili agli dèi delle funzioni inferiori e  al momento non si è riusciti a trovare un punto di contatto. Senza dub¬  bio questa differenza è propria della natura delle cose; per i suoi stessi  concetti (i nomi dei personaggi divini sono in gran parte etimologica¬  mente chiari e molti sono delle astrazioni animate) la prima funzione  si prestava facilmente alla riflessione psicologica e non bisogna di¬  menticare che i primi filosofi, appartenenti al personale di questa fun¬  zione, erano dei sacerdoti e non potevano evitare di applicarvi con pre¬  dilezione la loro analisi. La controparte è che nel Rgveda questa  teologia così ben sviluppata non si raddoppia in una mitologia ricca in  proporzione: di Mitra non è quasi «raccontato» niente; di Varuna si  dice molto di più, ma la lista delle scene in cui interviene è ridotta e in  generale si tratta di potenze e qualità degli dèi sovrani più che della  loro storia, del loro tipo d’azione piuttosto che di azioni precise com¬  piute da loro.   Al contrario, la funzione guerriera e la funzione di fecondità e  prosperità si basano in gran parte su immagini: più che grazie a dichia¬  razioni di principio, è il ricordo inesauribile delle imprese o dei famosi  benefici che provano l’efficacia di un dio forte o dei buoni dèi tauma¬  turghi. Così queste due province divine sono più adatte a degli svilup¬  pi mitologici che a una messa a fuoco teologica; o forse è meglio dire  che la dottrina si abbellisce, si dissimula e si altera sotto il rigoglio dei  racconti.   Per il comparatista questa differenza comporta grandi conse¬  guenze. Senza che questo fatto capitale sia stato ancora pienamente  enunciato, il lettore ha già potuto osservare che è il confronto delle re¬  ligioni vedica e romana il più adatto a stabilire o suggerire, grazie al  conservatorismo della seconda, dei fatti indoeuropei comuni, mentre  la religione scandinava non interviene che a titolo di conferma dopo  che il percorso comune è già stato riconosciuto e assicurato.   Ora, allo stato delle nostre conoscenze, la religione romana pre¬  senta ancora una teologia ben costituita: nel raggruppamento «Jupiter  Mars, Quirinus» o nel raggruppamento trasversale di «Jupiter, Juven-  tas, Terminus», essa ha registrato coscientemente delle articolazioni  concettuali molto chiare. Sfortunatamente bisogna altresì aggiungere  che la religione romana non è più che una teologia: per un processo radicale che caratterizza Roma, i suoi dèi - e questa volta non solo gli dèi  sovrani, ma anche Marte, Quirino, Ops, eie. - sono stati spogliati di  ogni racconto e limitati asceticamente alle loro essenze, alla loro pro¬  pria funzione. Se dunque (per la determinazione del quadro generale  tripartito e per l’esplorazione dei primo livello) il confronto di una teo¬  logia vedica facilmente determinabile, e di una teologia romana im¬  mediatamente conosciuta, ha permesso i risultali netti coerenti, c sem¬  pre più completi che si sono appena letti, la stessa cosa non avviene  quando si passa ai due livelli seguenti.   India o i Nàsatya vedici non esprimono le sfumature della pro¬  pria natura che mediante delle avventure alle quali Marte e Quirino  non corrispondono, se non per mezzo della loro scarna definizione c  per ciò che è possibile intravedere dalle dottrine e dai culti dei loro sa¬  cerdoti: i documenti e i linguaggi delle due religioni che sono i princi¬  pali sostegni del comparatista non si combinano più.   12. Mitologia ed epopea   La difficoltà sarebbe probabilmente irriducibile senza un altro  fallo, ancora più importante per i nostri studi, di cui i precedenti capi¬  toli del presente libro hanno già discretamente fornito qualche esem¬  pio. Le idee di cui vive una società non danno luogo solamente a delle  speculazioni o a immaginazioni relative agli uomini. La teologia e la  mitologia sono raddoppiate dalle «storie antiche», dall’epopea in cui  degli uomini prestigiosi applicano c dimostrano dei principi che gli  dèi incarnano e dei comportamenti che dipendono da loro.   Certo, ben altri fattori contribuiscono alla formazione dell’epo¬  pea di un popolo, ma è raro che questa non abbia avuto, in alcuni dei  suoi grandi temi c dei suoi primi moli, un rapporto essenziale con  l’ideologia che dirige le rappresentazioni divine dello stesso popolo.  Per i nostri studi comparativi indoeuropei questa felice circostanza  gioca a nostro favore in due maniere: la seconda è stata da me ricono¬  sciuta nel 1939, mentre la prima è stala scoperta nel 1947 dal mio col¬  lega svedese Stig Wikander.   Da una parte, la più grande epopea indiana, il Mahàbhcirata,  sviluppa le avventure di un insieme di eroi che corrispondono parola  per parola ai grandi dèi delle tre funzioni della religione vedica e pre¬  vedrà, di modo che l’India presenta, con questo enorme poema c col   Riveda, lina doppia edizione rispondente, a due differenti bisogni e  con sensibili varianti, alla sua «ideologia in immagini». Dall’ altra par¬  te, se Roma ha perduto tutta la sua mitologia e ha ridotto i suoi esseri  teologici alla loro scarna essenza, ha conservato al contrario, per costi¬  tuirla in seguito, la storia meravigliosa e ragionevole delle proprie ori¬  gini, un antico repertorio di racconti umani, colorati e molteplici, pa¬  ralleli a quelli che avrebbero dovuto essere in tempi meno austeri le  raccolte mitiche degli dèi.   Quest’epopea è l’antica mitologia romana degradata in storia  da Roma stessa? Oppure essa prolunga direttamente un’epopea prero¬  mana e italica, coesistente con una mitologia che Roma avrebbe per¬  duto senza traslazione e senza compensazione? L’una e l’altra tesi  possono trovare argomenti nel dettaglio dei fatti, ma per il comparati¬  sta questa discussione non incide: in ogni caso, il primo libro di Tito  Livio contiene una materia ideologicamente conforme al sistema de¬  gli dèi romani e drammaticamente comparabile all’epopea e alla mito¬  logia dell'India. Per tentare di guadagnare qualche chiarimento sui  dettagli delle rappresentazioni indoeuropee della seconda e terza fun¬  zione è dunque necessario introdurre questi nuovi elementi nel lavoro  comparativo.   13. Il fondo mitico del Mambhjrata secondo S. Wikander   Nell’immenso conllilto dei cugini, che riempie il Mahàbhdra-  ta, i personaggi simpatici c infine vittoriosi sono un gruppo di cinque  fratelli, i Panda va o «figli di Pàndu», che fra i molli tratti notevoli pre¬  sentano quello di avere in comune una sola sposa per lutti c cinque,  Draupadl. Consideralo dal punto di vista dei costumi, questo regime di  poliandria, così contrario agli usi e allo spirilo degli Arya ma attribuito  qui agli croi che glorificano l’India arya, ha costituito per più di un se¬  colo un enigma irritante. Nel 1947 Wikander ne ha fornito la soluzione  soddisfacente, scoprendo allo stesso tempo la chiave di tutto l’intrigo  del poema.   In realtà i «figli di Pàndu» non sono i suoi figli. Sotto il peso di  una maledizione che lo condanna a morte nel momento in cui compirà  l’alto sessuale, Pàndu si assicura una posterità con un procedimento  eccezionale. Una delle sue mogli, KuntI, in seguilo ad un’avventura  giovanile, aveva ricevuto un privilegio inaudito: le era sufficiente in-    101     vocare un dio perché questo sorgesse immediatamente davanti a lei e  le donasse un figlio.   Dietro preghiera di suo marito invoca dunque in successione di¬  versi dèi dai quali concepisce tre figli. Questi dèi sono Dharma, «la  Legge, la Giustizia» (entità in cui si ritrova il vecchio concetto del giu¬  rista Mitra), poi Vàyu, dio del vento, e infine Indra.   I tre figli sono rispettivamente Yudhisthira, Bhlma e Arjuna.  Suo marito la prega quindi di beneficiare Madri, un’altra sua moglie,  di questa fortuna: KuntI accetta ma per una sola volta e così Madri  prende dalla situazione la parte migliore e chiede che vengano evocati  i due inseparabili ASvin: dagli ASvin concepisce due gemelli, gli ulti¬  mi dei cinque «figli di Pàndu», Nakula e Sahadeva. Wikander segnalò  ben presto che la lista degli dèi padri - Dharma, Vàyu, Indra e gli ASvin  - riproduceva nell’ordine gerarchico la lista canonica degli antichi dèi  dei tre livelli, ringiovanita e depauperata al primo livello (Dharma che  rappresenta solo Mitra, senza un corrispettivo di Varuna), mentre al  secondo livello conferiva a Indra uno degli associati che aveva ancora  più frequentemente nel Riveda, Vàyu. La diversità armonica dei padri  doveva, in una certa misura, comandare sia il carattere che le azioni  epiche dei figli, come in effetti accade.   Yudhisthira è il re, mentre gli altri Pàndava sono solamente de¬  gli ausiliari; un re giusto, virtuoso, puro e pio - dhurmuruju - senza  specialità o virtù guerriere, come si conviene a un rappresentante della  «metà di Mitra» della sovranità.   Bhlma e Arjuna sono i grandi combattenti dell’insieme. Quanto  ai due gemelli, sono belli ma sopratutlo umili e devoti servitori dei  loro fratelli, come nella teoria delle classi sociali: infatti, la grande vir¬  tù dei vaiSya del terzo livello è quella di servire lealmente le due classi  superiori. L’enigma della loro unica sposa si risolve immediatamente  in questa prospettiva. Non si tratta dunque di un’usanza aberrante ma  della trasposizione epica della concezione vedica, indo-iranica e pri¬  ma ancora indoeuropea, che completa la lista degli dèi maschi, tra i  quali si analizzano e gerarchizzano le tre funzioni, con una dea unica  ma plurivalente, meglio ancora trivalente, come la vedica Sarasvatl  che comprende in se stessa la sintesi delle tre funzioni.   Sposando DraupadI al pio re, ai due guerrieri e ai due gemelli  servizievoli, l’epopea mette in scena ciò che RV, X, 125 formulava quando faceva proferire alla dea Vàc (tanto vicina a Sarasvatl): «Sono  io che sostengo Mitra-Varunu, che sostengo Indra-Agni e che sosten¬  go i due Asvin», o che ancora si ritrova nella triplice titolatura (con  un’ulteriore specificazione della terza funzione) della principale dea  dell’Iran, «l’Umida, la Forte, l’Immacolata». Questa scoperta è stala il punto di partenza di un’ esplorazione  di tutto il poema, soprattutto dei primi libri (che precedono la grande  battaglia) ed è stata certamente chiamata a rinnovare i nostri studi: per  la sua abbondanza, la sua coesione e la sua varietà, la trasposizione  epica permette, partendo dal sistema trifunzionale, da ogni funzione e  dalle molte rappresentazioni connesse, uno studio più profondo e più  avanzato di quanto non lo permettesse l’originale mitologico cono¬  sciuto sopralutto dalle allusioni dei testi lirici. D’altra parte, sin dal suo  articolo del 1947, Wikander ha stabilito un punto molto importante: la  struttura mitologica trasposta nel Mahàbhdruta è sotto molti aspetti  più arcaica di quella del Rgveda poiché conserva dei tratti sfumali in  questo innario ma che le analogie iraniche provano come fosse in¬  do-iranica. Per tale ragione uno dei primi servigi apportati da questo  nuovo studio è stato quello di rivelare nella funzione guerriera una di¬  cotomia che il Rgveda ha quasi completamente dimenticato a tutto  vantaggio di Indra.   Infatti, come è già stato dimostrato da lavori anteriori della scu¬  ola di Uppsala, Vàyu c Indra erano i patroni, nei tempi prevedici, di  due tipi molto differenti di combattenti i cui figli epici, BhTma e Arju-  na, rendono possibile un’osservazione dettagliala e certamente una  parte dei caratteri fisici dell’Indra vedico devono essere restituiti a  Vàyu per un periodo più antico. Questi due tipi sono facilmente defini¬  bili in qualche parola.   L’eroe del tipo Vàyu è una sorta di bestia umana dotato di un vi¬  gore fisico mostruoso, le sue armi principali sono le sue braccia, pro¬  lungale talvolta da un’arma che gli è propria: la clava. Non è bello né  brillante, non è molto intelligente c si abbandona facilmente a disa¬  strosi eccessi di furore cieco. Infine, opera spesso da solo, fuori  da\Y équipe di cui è tuttavia il protettore designato, per cercare  l’avventura e per uccidere principalmente dei demoni e dei geni. Al contrario, l’eroe del tipo Indra è un superuomo, un uomo  compiuto e civilizzato, la cui forza è armonizzata; maneggia delle  armi perfezionate (Arjuna è notoriamente un grande arciere e uno spe¬  cialista delle armi da lancio); è brillante, intelligente, morale e soprat¬  tutto socievole, guerriero da battaglia più che cercatore di avventura e  generalissimo naturale dell’armata dei suoi fratelli. Questa distinzione è conosciuta anche dall’epopea iranica, nel¬  la persona del brutale Kó>rasàspa armato di mazza e legato al culto di  Vàyu, oppure nel tipo dell’eroe più seducente come ©raètaona.   In Grecia ricorda l’opposizione tipologica di Ercole e Achille,  ma soprattutto permette di dare una formulazione più precisa, in Scan¬  dinavia, ai rapporti tra Ódinn e Pórr e più in generale a quelli della pri¬  ma e seconda funzione. E stato segnalato, nel secondo capitolo, che  Ódinn si era annesso una parte importante della funzione guerriera.  Vediamo ora che si tratta principalmente (senza che la discriminazio¬  ne sia rigorosa: è Pórr che al pari di Indra rimane il dio tuonante dello  sconvolgimento atmosferico) della parte che presso gli Indo-Iranici  era sotto il magistero di *Indra, mentre la parte di *Vàyu era piuttosto  quella di Pórr, il brutale picchiatore e l’avventuriero delle spedizioni  solitarie contro i giganti. Tuttociò appare ancora più chiaramente se si  considerano nell’ epopea gli eroi che corrispondono a ciascuno di que¬  sti dèi: gli eroi odinici come Sigurdr, Helgi e Haraldr sono belli, lumi¬  nosi, socievoli, amati e aristocratici, mentre l’unico «eroe di Pórr» co¬  nosciuto dall’epopea, Starkadr, appartiene alla razza dei giganti, un  gigante ridotto da Pórr a forma umana, arcigno, brutale, errante e soli¬  tario, vera replica scandinava di Bhlma o Ercole.   16. Caratterizzazione funzionale dei Pàndava   Nei primi libri del Mahàbhàrata i poeti, sicuramente consape¬  voli di questa struttura, si sono cimentati nel dare delle rappresentazio¬  ni differenziate dei cinque eroi, dettagliando le loro diverse maniere di  reagire a una stessa circostanza. Ne citerò solo due. Nel momento in  cui i cinque fratelli lasciano il palazzo per un ingiusto esilio che avrà  fine solo con la formidabile battaglia in cui otterranno la loro rivincita,  il pio e giusto re Yudhisthira avanza « Velandosi il volto col suo abito  per non rischiare eli bruciare il mondo col suo sguardo corrucciato».  Bhlma «guardale sue enormi braccia» e pensa: «Non vi è uomo ugua¬  le a me per la forza delle braccia »; egli « mostra le sue braccia, inor¬  goglito dalla forza delle sue braccia desidera fare contro i nemici  un 'azione pari alla forza delle sue braccia ». Arjuna sparge la sabbia  «raffigurandovi l'immagine di un nugolo di frecce scoccate contro i  nemici». Quanto ai gemelli, la loro preoccupazione è un’ altra: Nakula,  il più bello tra gli uomini, si cosparge tutte le membra di cenere dicen¬  do: « Che io non possa mai trascinare sulla mia strada il cuore di una  donna!» e suo fratello Sahadeva allo stesso modo si imbratta il viso  (II, 2623-2636).  All’inizio dei libro IV (23-71 e 226-253), i cinque fratelli scel¬  gono un mascheramento per soggiornare in incognito alla corte del re  Virata: Yudhisthira, eroe della prima funzione, si presenta come un  brahmano; il brutale Bhlma come un cuoco-macellaio e un lottatore;  Arjuna, coperto di braccialetti e orecchini, come un maestro di danza;  Nakula come un palafreniere esperto nella cura dei cavalli malati,  mentre Sahadeva come un bovaro, informato di lutto ciò che riguarda  la salute e la fecondità delle vacche.   Queste due specificazioni, diverse ma simili, dei gemelli sono  interessanti: se i 1 Rgvedu permette di notare qualche fugace distinzio¬  ne nella coppia indissolubile dei loro padri, Wikander ha sottolineato  l’importanza del criterio qui rivelato.   Sempre restando prima di tutto degli abili medici che ignorano  l’agricoltura (il che ci porta a far risalire indietro di molto questa con¬  cezione), Nakula e Sahadeva si dividono le due principali province  deH’allevamento, riservandosi rispettivamente l’uno la protezione  delle vacche e l’altro quella dei cavalli, che nel Rgvedu forniscono  loro il loro secondo nome collettivo, Aévin, un derivato di àsva, «ca¬  vallo».   Abbiamo così il primo modello delle formule che si osservano  anche altrove a proposito degli omologhi funzionali dei Nàsatya  -ASvin: tra Haurvalà(e Amar3tà( ad esempio, entità zoroastriane sostituitesi ai gemelli, la ripartizione si compie all’interno del genere «sa¬  lubrità», sotto le acque e le piante; così pure, almeno parzialmente, tra  il Njòrdr e il Freyr degli Scandinavi, la distinzione nell’uniforme be¬  neficio dell’«arricchimento» si compie secondo le due fonti della ric¬  chezza, il mare e la terra.   Si nota qui chiaramente come la considerazione dell’epopea  metta in risalto dei tratti strutturali e suggerisca inchieste feconde. Il  travestimento di Arjuna non è strano a un primo approccio, poiché è  arcaico e di un arcaismo che è conosciuto dal Riveda, in cui Indra è il  «danzatore» e i suoi giovani compagni la banda guerriera dei Marut  che si adorna il corpo di ornamenti d’oro, braccialetti e anelli da cavi¬  glia che li fanno apparire come dei ricchi pretendenti. Comune alle più  vecchie mitologie c alla sua trasposizione epica, questo tratto è certa¬  mente da riconnetlerc all’insieme del «Mànnerbund» indo-iranico. E  forse, nello stesso ordine di idee, la trasposizione epica lascia intrave¬  dere un aspetto che gli inni fanno passare in silenzio e che riguarda la  morale particolare di questi gruppi di giovani, quando essa insiste sul  carattere «effeminato» del travestimento scelto da Arjuna.   18. Pàndu e Varuna   Progressivamente sono stale individuate altre corrispondenze  tra l’intrigo del Mahàbhàrata e la mitologia vedica c prevedica, sem¬  pre con lo stesso vantaggio che l’epopea, narrazione ampia e continua,  facilita in ogni caso l’analisi che, al contrario, c infastidita dal lirismo  degli inni c dalla loro retorica dell’allusione.   Ho così potuto dimostrare come Varuna non sia assente dalla  trasposizione; solo si trova nella generazione anteriore, inattuale,  morta, quando il corrispettivo di Mitra, il figlio di Dharina, diviene re.  Pàndu, il padre putativo dei Pàndava, anche lui re prima del suo figlio  maggiore Yudhisthira, presenta in effetti due caratteri originali e im¬  probabili che i libri liturgici e un inno attribuiscono anche a Varuna; a  uno di questi caratteri deve il suo nome: pàndu significa «pallido, gial¬  lo chiaro, bianco», e infatti un incidente di nascita, o meglio, del con¬  cepimento di Pàndu, ha fatto sì che avesse la pelle insanamente pallida  o bianca. Ora, Varuna è rappresentato in certi rituali come sukla «bian¬  chissimo» e atigaura «eccessivamente bianco». L’altro aspetto c di  più ampia portata: Pàndu c condannalo all’equivalente dell’impotenza sessuale, condannato a perire (e così in effetti perirà) se compie  l’atto d’amore; ugualmente, Varuna in circostanze diverse ( AV , IV, 4,  1 : rituale della consacrazione regale) è presentato come uno divenuto  momentaneamente impotente, devirilizzato (evirazione che si fa a  vantaggio dei suoi parenti; il che ricorda il mito importante del greco  Urano castrato dai suoi figli).   Il lavoro insomma è appena cominciato. Sia io che Wikander  speriamo di estrarre da questa riserva importante del materiale abbon¬  dante e abbastanza chiaro per delucidare molte incertezze e difficoltà  che sono ancora irrisolvibili sul piano degli inni e per fornire alla rico¬  struzione indoeuropea degli elementi privi di ambiguità.L’epopea romana ha utilizzato in altra maniera l’ideologia delle  tre funzioni insieme alle loro sfumature. Gli eroi che l’incarnano non  sono più dei contemporanei, dei fratelli semplicemente gerarchizzati;  essi si succedevano nel tempo e progressivamente costituiscono  Roma. Non si succedono però nell’ordine canonico ma in un altro or¬  dine: 1) gemelli pastori (terza funzione); 2) sovrano «gioviano» se¬  mi-dio, creatore ed eccessi vo (pri ma funzione del tipo di Varuna) e poi  sovrano «diale», umano, pio, regolatore (prima funzione del tipo Mi¬  tra); 3) infine, un re strettamente guerriero (seconda funzione). In più,  il sovrano gioviano non è altro che uno dei due gemelli sopravvissuto  alla coppia ma profondamente trasformato. Questa doppia singolarità  schiude nuove prospettive all’inchiesta comparativa ma inizialmente  considereremo i rappresentanti delle due prime funzioni che non  implicano problemi inediti.   20. Romolo e Numa e i due aspetti della prima funzione   Nella tradizione annalistica i due fondatori di Roma, Romolo e  Numa, formano un’antitesi abbastanza regolare, sviluppata nello stes¬  so senso di quella di Varuna eMitra nella letteratura vedica. Ogni cosa  si oppone nel loro carattere, nei loro fondamenti e nella loro storia, ma  in un’opposizione senza ostilità: Numa completa l’opera di Romolo  donando all’ ideologia regale di Roma il suo secondo polo, necessario  quanto il primo. Quando nel VI canto d t\VEneide, negli Inferi, Anchise li pre¬  senta tutti e due in qualche verso al suo figlio Enea (vv. 777-784 e  808-812), definisce Romolo come il bellicoso semidio creatore di  Roma e, grazie ai suoi auspici, l’autore della potenza romana e della  sua Crescita continua (et huius, nate, auspiciis illa inclita Roma impe-  rium terris, animos aequabit Olympo)\ poi Numa come il re-sacerdote  portatore di oggetti sacri, sacra ferens, coronato di olivo che fonda  Roma donandogli delle leggi, legibus.   Tutto si ordina intorno a questa differenza - «l’altro mondo e  questo qui» - in cui i sacra, i culti in cui l’uomo ha l’iniziativa, equili¬  brano eccellentemente gli auspicio, in cui l’uomo non fa che decifrare  il linguaggio miracoloso di Giove.   Si verifica istantaneamente che l’opposizione tra i due tipi di  sovrani ricopre punto per punto quella analizzata nel caso di Varuna e  Mitra (vedi III, § 2). Ugual mente importanti, sia l’uno che l’altro nella  genesi di Roma, Romolo e Numa non sono posizionati nella stessa  metà del mondo.   Ingenuamente Plutarco mette nella bocca del secondo, quando  spiega agli ambasciatori di Roma le motivazioni del rifiuto del regno,  una osservazione molto giusta (Numa, 5,4-5): «Si attribuisce a Romo¬  lo la gloria di essere nato da un dio, non si finisce di dire che è stato  nutrito e salvato nella sua infanzia grazie a una protezione particola¬  re della divinità; io, al contrario, sono di una razza mortale, sono sta¬  to nutrito e allevato da uomini che voi conoscete».   I loro modi di azione non differiscono di molto e la differenza si  esprime in maniera sorprendente in ciò che si possono chiamare i loro  dèi prediletti.   Romolo stabilisce solo due culti che sono due specificazioni di  Jupiter - quel Jupiter che gli ha donato la promessa degli auspici - Jupi-  ter Feretrius e Jupiter Stator che si accordano nel fatto che Giove è il  dio protettore del regnum, ma relativamente ai combattimenti e alle  vittorie; e la seconda vittoria è dovuta a una prestidigitazione sovrana  di Giove, a «un cambiamento di vista» contro il quale nessuna forza  può niente e che capovolge l’ordine normale e consueto degli avveni¬  menti. Al contrario, tutti gli autori insistono sulla devozione particola¬  re che Numa rivolge a Fides. Dionigi di Alicamasso scrive (II, 75): « Non vi è sentimento più  elevato e più sacro della buona fede, sia negli affari di stato che nei  rapporti tra individui; essendosi ben persuaso di questa verità Numa,  il primo fra gli uomini, ha fondato un santuario della Fides Publica e  istituito in suo onore dei sacrifìci ufficiali come quelli delle altre divi¬  nità». Plutarco {Numa, 16,1) dice similmente che fu il primo a costrui¬  re un tempio a Fides e insegnò ai Romani il loro più grande giuramen¬  to, il giuramento di Fides. Si vede bene come questa distribuzione sia  conforme all’essenza delle due divinità sovrane antitetiche, Varuna e  Mitra, Jupiter e Dius Fidius. Il carattere dei due dèi si oppone allo stes¬  so modo: Romolo è un violento, descritto dagli annalisti come un ti¬  ranno, secondo il modello greco ed etrusco, ma con dei tratti sicura¬  mente antichi: « Vi erano sempre vicino a lui - dice Plutarco ( Romolo ,  26, 3-4) - quei giovani chiamati Celeres a causa della loro prontezza  nell'eseguire i suoi ordini. Non compariva in pubblico che preceduto  dai littori armati di verghe, con le quali respingevano la folla, cinti di  corregge con cui legavano sul posto quello che lui ordinava di arre¬  stare». A questo sovrano, così materialmente «legatore» come Varu¬  na, si oppone il buono e calmo Numa, la cui prima iniziativa una volta  di venuto re fu quella di sciogliere il corpo dei Celeres e come seconda  di organizzare ( ibidem) o creare (Tito Livio, I, 20) i tre flamines maio-  res. Numa è privo di ogni passione, anche di quelle sti mate dai barbari,  come la violenza e l’ambizione (Plut. Numa, 3, 6).   Di conseguenza, le affinità dell’uno sono tutte per la funzione  guerriera, quelle dell’altro per la funzione di prosperità.   Anche nel suo consiglio postumo, Romolo, il dio dei tre trionfi,  prescrive ai Romani: rem militarem colant (Tito Livio, I, 16, 7).   Numa si assegna il compito di disabituare i Romani alla guerra  (PI ut. Numa, 8, 14) e la pace non è rotta in alcun momento del suo re¬  gno (ibidem, 20, 6); offre un buon accordo ai Fidenates che compiono  razzie sulle sue terre e istituisce in questa occasione, secondo una va¬  riante, i sacerdoti feziali, per vegliare sul rispetto delle forme che im¬  pediscono o limitano la violenza (Dionigi di Alicamasso, II, 72; Plu¬  tarco, Numa, 12, 4).   Distribuisce ai cittadini indigenti i territori occupati da Romolo  «per sottrarli alla miseria, causa quasi necessaria della perversità, e  per spingere verso l ’ag ricoltura lo spirito del popolo, che domando la terra si addolcirà»-, divide tutto il territorio in vici, con ispettori e com¬  missari che lui stesso controlla « giudicando i costumi dei cittadini in  base al lavoro, premiando con onori e poteri coloro che si distinguono  perla loro attività, biasimando i pigri e correggendo le loro negligen¬  ze» (Plut. ibid. 16,3-7). Limitiamo a ciò la comparazione che potrebbe  comunque proseguire dettagliatamente, poiché è evidente che gli an¬  nalisti si sono ingegnati a spingere in ogni direzione l’opposizione tra i  due re, l’uno iuvenesjerox, odioso ai senator es (e forse ucciso da que¬  sti) senza bambini etc., mentre l’altro è un senex tipico, gravis, sepolto  piamente dai senatori, antenato di numerose genti.   Delle pretese gentilizie, o l’imitazione di modelli greci, hanno  potuto introdurre più di un dettaglio e in di verse epoche in queste «vite  parallele inverse» e sicuramente in quella di Numa.   Ma è chiaro che queste stesse innovazioni si sono uniformate a  un dato tradizionale, la cui intenzione era di illustrare due tipi di re,  due modelli di sovranità, quelli stessi conosciuti dall’India sotto i  nomi di Varuna e Mitra.   21. Tullo Ostilio e la funzione guerriera   Dopo la funzione sovrana la funzione guerriera, dopo Romolo e  Numa, vi è Tullo Ostilio, che Anchise presenta ad Enea ( En . VI, 815)  come colui «che riporterà alle armi, in arme, i cittadini divenuti casa¬  linghi e disabituati ai trionfi». Arma, come auspicia e sacra per i suoi  predecessori, segnala qui l’essenza del suo carattere e della sua opera:  militaris rei institutor dirà Orosio e prima di lui Floro: «La regalità gli  fu conferita in base al suo coraggio: è lui che ha fondato tutto il siste¬  ma militare e l'arte della guerra; di conseguenza dopo aver esercitato  in maniera sorprendente la iuventas romana osò provocare gli Alba¬  ni».   22.1 miti di Indra e la leggenda di Tullo Ostilio   È in questo caso che il confronto tra l’epopea romana e la mito¬  logia ha dato ( 1956) i risultati più inattesi e ha permesso di ampliare lo  studio dettagliato della funzione guerriera indoeuropea, il cui solo  confronto della teologia esplicita non lasciava intravedere che i mag¬  giori aspetti: nelle loro «lezioni» ma anche nelle loro affabulazioni, i due episodi solidali che costituiscono la «storia» di Tulio - la vittoria  del terzo Orazio sui treCuriazi e il castigo di Mezio Fufezio che salva¬  no Roma del pericolo che correva il suo nascente imperium, uno per la  subordinazione di Alba, l’altro per la sua distruzione - rispecchiano da  vicino i due principali miti di Indra che la tradizione epica presenta  spesso come conseguenti e solidali, cioè la vittoria di Indra e di Trita  sul Tricefalo e la morte di Namuci. Non è possibile qui che mettere in  un quadro schematico le omologie, pregando il lettore interessato di  riportarsi al libro in cui gli argomenti e le conseguenze sono lunga¬  mente esposti.   A, a) (India). Nell’ambito della loro rivalità generale coi demo¬  ni, gli dèi sono minacciati dall’imbattibile mostro a tre teste che è tut¬  tavia il «figlio dell’amico » (nel Riveda) o il cugino germano degli dèi  (nei Brahmano e nell’epopea) ed inoltre, brahmano e cappellano degli  dèi: Indra (nel Rgveda) spinge Trita «il terzo» dei tre fratelli Àptya, a  uccidere il Tricefalo e Trita in effetti lo uccide, salvando gli dèi. Ma  quest’atto, morte di un parente, di un alleato o di un brahmano, com¬  porta un’impurità che Indra scarica su Trita o sugli Àptya che la liqui¬  dano ritualmente. Da allora gli Àptya sono specializzati nell’eli¬  minazione delle diverse impurità e in particolare, in ogni sacrificio, di  quella che comporla l’inevitabile messa a morte della vittima.   b) (Roma). Per regolare il lungo conflitto in cui Roma e Alba si  disputano Vimperium, le due parti convengono di opporre i tre gemelli  Orazi e i tre gemelli Curiazi (l’uno dei quali è fidanzato a una sorella  degli Orazi e che, anche nella versione seguita da Dionigi di Alicar-  nasso, sono cugini germani degli Orazi).   Nel combattimento ben presto non rimane che un Orazio, ma  questo «terzo» uccide i suoi tre avversari dando Vimperium a Roma.  Nella versione di Dionigi questa morte dei cugini rischia di produrre  un’impurità, ma una nota del casista la evita: poiché i Curiazi hanno  accettato per primi l’idea del combattimento, la responsabilità cade su  di loro. Ma 1 ’ impurità generata dal sangue famigliare è ripartita subito,  trasferita, su un episodio che non ha paralleli nel racconto indiano: il  terzo Orazio uccide sua sorella che lo ha maledetto per la morte del suo  fidanzato. La gens Oratia deve dunque liquidare quest’impurità e  ogni anno continua a offrire un sacrificio espiatorio: la data di questo  sacrificio, all’inizio del mese che pone fine alle campagne militari (calende di ottobre), suggerisce che queste espiazioni riguardavano (da là  la leggenda di Horatius) i soldati che ritornavano a Roma, macchiati  dalle inevitabili morti della battaglia.   B, a) (India). Il demone Namuci dopo leprime ostilità conclude  un patto di amicizia con Indra che si impegna a non ucciderlo «né di  giorno né di notte, né col secco né con l'umido ». Un giorno, approfit¬  tando a tradimento di un momento di debolezza, in cui Indra è stato  messo dal padre del Tricefalo, Namuci spoglia Indra di tutti i suoi at¬  tributi: forza, virilità, soma, nutrimento. Indra chiama in suo soccorso  gli dèi canonici della terza funzione, Sarasvatl e gli Asvin, che gli ren¬  dono la sua forza e gli indicano il sistema per mantenere la parola data  pur violandola: egli non deve che assalire Namuci all’alba (quando  non è né giorno né notte) e con della schiuma (che non è né secca né  umida). Indra sorprende così Namuci che non sospetta c lo decapita in  maniera bizzarra, «burrificando» la sua testa nella schiuma.   b) (Roma). Dopo la disfatta dei tre Curiazi, il capo degli Albani,  Mezio Fufezio, si pone in Alba sotto gli ordini di Tulio, in virtù della  convenzione. Ma segretamente tradisce il suo alleato e durante la bat¬  taglia contro i Fidenati si ritira con le sue truppe su un’altura, scopren¬  do il fianco dei Romani. In questo pericolo mortale Tulio fa dei voti  alla divinità della terza funzione, Quirino, e diventa vincitore. Benché  al corrente del tradimento di Mezio, finge di lasciarsi abbindolare e  convoca al pretorio, per felicitarsi, gli Albani che non sospettano. Là  sorprende Mezio, lo fa afferrare e lo condanna a una pena unica nella  storia di Roma, lo squartamento.   23. Rapporti della funzione guerriera con le altre due  Attraverso questi miti e queste leggende è tutta una filosofia  della necessità, dell’impeto cdei rischi della funzione guerriera, che si  esprime, come pure una concezione coerente dei rapporti di questa  l’unzione centrale con la terza, clic mobilita al suo servizio; e con  l’aspetto «Mitra-Fides» della prima che tuttavia non rispetta affatto e  che non può rispettare poiché, impegnata nell’azione e nei pericoli,  come potrebbe mai accettare che la fedeltà ai princìpi invalidi questa  azione disarmandola di fronte ai pericoli? Anche i rapporti di Indra e  Tulio Ostilio con l’aspetto «Varuna-Jupiler» della funzione sovrana  non procedono senza scontri: abbiamo già ricordato gli inni vedici in     cui Indra sfida Varuna, vantandosi di sconfiggere la sua potenza (e gli  Hàrbcirdsljód d tWEdda allo stesso modo oppongono Ódinn e Pórr in  un dialogo ingiurioso). Quanto aTullo, egli è a Roma uno scandalo vi¬  vente, il re empio e la fi ne della sua storia non è che la ten ibile vendet¬  ta che Jupiter, maestro delle grandi magie, si prende contro questo re  troppo guerriero che l’ha ignorato per lungo tempo.   Un’epidemia colpisce le sue truppe da lui obbligate tuttavia a  continuare la guerra, sino al giorno in cui egli stesso contrae una lunga  malattia; dice allora Tito Livio (I, 31,6-8):   «lui, che fino a questi tempi aveva creduto che niente è meno  degno di un re che applicare il proprio spirito alle cose sacre, improv¬  visamente si abbandonò a tutte le superstizioni, grandi e piccole, e  propagò anche fra il popolo delle vane pratiche... Si dice che il re stes¬  so consultando i libri di Numa vi trovò la ricetta di certi sacrifìci se¬  greti in onore di Jupiter Elicius. Egli si appartò per celebrarli. Ma sia  all’inizio che nel corso della cerimonia commise un errore rituale, di  modo che, invece di veder comparire una figura divina, irritò Jupiter  con un'evocazione mal condotta e fu bruciato dalla folgore, lui e la  sua casa»   Queste sono le fatalità della funzione guerriera. Se Indra, il  grande peccatore Indra, non perviene a questa drammatica fine è per¬  ché egli è un dio e in ogni caso la sua forza e i suoi servigi sono ciò che  più interessano gli uomini. Quanto ai gemelli - che Roma nel Lazio non era l’unica a onora¬  re, poiché la leggenda prenestina poneva una coppia nei tempi delle  sue origini - l’epopea romana li mette al posto d’onore nella persona di  Romolo e Remo. Vi è una differenza totale tra il Romolo re, che abbia¬  mo visto opposto a Numa nella seconda ed ultima parte della sua car¬  riera, e il Romolo prima di Roma, il Remo cumfratre Quirinus. Questa  differenza risalta in effetti a proposito della stessa fondazione, nella  disputa degli auspici e nella morte d i Remo: Romolo cessa allora di es¬  sere «uno dei due gemelli», il socio fedele e senza contesa di suo fra-    113     tello, per diventare il re prestigioso, creatore, terribile, tirannico e isti¬  tutore di quegli uomini che portano davanti a lui delle corde, pronte a  «legare» nel senso letterale del termine, al pari del suo omologo del  pantheon vedico, Varuna, armato di lacci.   La corrispondenza tipologica dei gemelli dell’epopea romana e  degli dèi gemelli, Nàsatya-ASvin, che terminano la lista trifunzionale  indo-iranica, è precisa. Sino alla loro dipartita da Alba, e alla fondazio¬  ne dell’Urbe, sono della terza funzione: pastori allevati da un pastore,  vivono una vita esemplare da pastori messa in risalto solo da un gusto  marcato per la caccia e gli esercizi fisici. In questa definizione pastorale  l’evoluzione della proto-civilizzazione romana (scomparsa del carro  da guerra) ha eliminato la «parte del cavallo» (in evidenza nella parola  ASvin), non rimane quindi che la «parte del bue e del montone», per si¬  tuare maggiormente Romolo e Remo nell’economia rurale.   I Nàsatya, come si ricorderà, sono inizialmente tenuti a distanza  dagli dèi perché troppo «mescolati agli uomini» ( Éat. Brùhm ., IV, 1,5,  14, etc.) e nella letteratura posteriore saranno considerati come degli  dèi Sfldra, dèi di ciò che vi è di più basso e fuori-casta, in rapporto alla  società ordinata.   Così vivono, pensano e agiscono Romolo e suo fratello. Non vi  è in essi niente di «sovrano», nessun rispetto per 1 ’ ordine. Devoti ai più  umili, disprezzano gli intendenti, gli ispettori e i capi del bestiame del  re (Plutarco, Romolo, 6, 7). Il gruppo che li seguirà nella loro rivolta  sarà un gruppo di pastori (Tito Livio, 1, 5, 7) o un’assemblea di indi¬  genti o schiavi (Plutarco, Romolo , 7, 2) prefiguranti l’eterogenea po¬  polazione dell’Asilo ( ibidem , 9, 5).   Sono raddrizzatori di torti: come i Nàsatya passano il loro tem¬  po a riparare le ingiustizie degli uomini o della sorte. Essendo sempli¬  cemente degli dèi i Nàsatya compiono le loro liberazioni, restaurazio¬  ni e guarigioni per mezzo di miracoli, mentre Romolo e Remo non  possono ricorrere che a mezzi umani per proteggere i loro amici contro  i briganti, ristabilire nei loro diritti i pastori di Numitore maltrattati da  quelli di Amulio e, finalmente, punire Amulio. Uno dei più celebri ser¬  vigi dei Nàsatya, origine della loro fortuna divina, è stato quello di  aver ringiovanito il vecchio decrepito Cyavana; la grande impresa di  Romolo e Remo, origine della fortuna del primo, fu allo stesso modo quella di aver riabilitato il loro vecchio nonno che era stato privato del¬  la regalità di Alba.   I due Nàsatya nel Riveda sono quasi indivisibili, agiscono in¬  sieme ma tuttavia un testo segnala una grave disuguaglianza che ricor¬  da quella dei Dioscuri greci: uno di essi è figlio del Cielo, l’altro è fi¬  glio di un uomo. La disuguaglianza dei gemelli romani è differente ma  considerevole: uguali per nascita, uno solo di essi proseguirà la sua  carriera diventando un dio - il dio canonico della terza funzione, Quiri¬  no -1’altro perirà precocemente non ricevendo più che i soli onori abi¬  tuali attribuiti ai morti eminenti. Ovidio potrà dire di loro {Fasti, II  395-6): « ut quam sunt similes! At quamformosus uterque! Plus tamen  ex illis iste vigoris habet ...»   Certe azioni estranee ai Nàsatya - mal conosciute come tutta la  loro mitologia - sembrano ricordare dei tratti della leggenda di Romo¬  lo e Remo, talvolta solo con una inversione (protettori e non protetti)  che testimonia come essi siano degli dèi e i gemelli romani degli uomi¬  ni. Uno dei servigi frequenti dei Nàsatya è di fare cessare la sterilità  delle donne e delle femmine; ora, Romolo e Remo sono i primi capi  dei Luperci, un compito dei quali è di rendere madri le donne romane  con la flagellazione (una leggenda eziologica, che pone l’origine di  questo rito dopo la fondazione di Roma c il ratto delle Sabine, dice che  è stato destinato inizialmente a far cessare una sterilità generale).   In tutto il Rgveda il lupo è un essere mal visto, è il nemico;  l’unica eccezione si trova nel ciclo dei Nàsatya: un giovane uomo ave¬  va sgozzato cento c un montoni per nutrire una lupa e per punizione  suo padre lo aveva accecato. Dietro preghiera della lupa i gemelli divi¬  ni resero la vista allo sfortunato. Nella storia di Romolo e Remo, c solo  in essa a Roma, non è più in quanto nutrita ma come nutrice che la lupa  occupa il posto eminente che ben si conosce. Nei riti e nelle leggende  dei Luperci (Ovidio, Fasti, II, 361-379), nel racconto sulla giovinezza  di Romolo e Remo (Plutarco, Romolo, 6, 8) le corse giocano un ruolo  considerevole; ugualmente le corse in carro ncl4 mitologia degli  ASvin.   Un aspetto sfortunatamente oscuro della festa rustica di Palcs  (il «cavallo mutilato», curtus equos), come pure il concetto stesso del¬  la dea «Pales», così strettamente legato a Romolo e Remo e alla fonda¬  zione di Roma, ricordano la leggenda in cui i Nàsatya rimettono in for-     ze la giumenta detta «Pula del w.f» (vis, principio della terza funzione  e anche «clan») che durante una corsa si era spezzata le gambe. Questo  confronto sommario è sufficiente a stabilire che, nella loro carriera  «preromana», Romolo e Remo corrispondono così precisamente ai  Nàsatya come Romolo, divenuto re, e il suo successore Numa corri¬  spondono a Varuna e Mitra e Tulio a Indra. Quando Romolo muore  verrà deificato sotto il nome del dio canonico della terza funzione,  Quirino, ritornando quindi al suo valore primigenio e, sia dello di  sfuggita, questa notevole convergenza spinge a rivedere l’idea gene¬  ralmente ammessa che l’assimilazione di Romolo a Quirino sia secon¬  daria e tardiva.   25. La terza funzione, fondamento delle altre due   Riguardo l’ordine di apparizione delle tre funzioni nell’epopea  delle origini romane - 3, 1, 2 - c la trasformazione dello stesso Romolo  da «Nàsatya» in «Varuna», queste non sono senza paralleli c rivelano  un aspetto della struttura trifunzionale che ancora non abbiamo avuto  occasione di segnalare. Vediamo qui come una conferma del fatto cer¬  to che, se è vero che la terza funzione è la più umile, nondimeno essa è  il fondamento e la condizione della altre due. Come vivrebbero maghi  e guerrieri se i pastori-agricoltori non li sostenessero? Nella leggenda  iranica, Yima al pari di Romolo diviene un re prestigioso e eccessivo  sfidando Ahura Mazda - dopo essere stato differenzialmente, nella  primaparte della sua vita, un buon «eroe della terza funzione» dai ric¬  chi pascoli, sotto cui la malattia c la morte non affliggevano ne l’uomo  né la bestia né le piante ( Yust , XIX, 30-34). Nell’epopea osscla (vedi  sopra I § 4), i due gemelli /Exsaert e /Exsaertacg, dei quali il secondo uc¬  cide il primo in un eccesso di gelosia, genera poi la famiglia degli  i£xsaertaegkalae (la famiglia dei Forti, dei Guerrieri) che sono usciti se¬  condo certe varianti dalla razza di «Bora», cioè dai Boratae (una fami¬  glia di ricchi).   È la stessa filosofia che si esprime nei rituali indiani sulla stessa  area sacrificale: devono essere riuniti tre fuochi corrispondenti alle tre  funzioni; un fuoco che trasmette le offerte agli dèi, un fuoco che difen¬  de contro i demoni e un fuoco padrone della casa; ora, quest’ultimo  presenta i caratteri di un «fuoco vatéya» che è il fuoco fondamentale  acceso per primo e che serve per accendere gli altri.     26. Sviluppo della ricerca   Il lettore è stato quindi introdotto non solo nel deposito in cui  sono classificati i risultati ma, per la teologia e la mitologia di ognuna  delle tre funzioni, e notoriamente della seconda e della terza, lo si è l'at¬  to penetrare nel campo degli stessi scavi in cui il comparatista si batte  ancora con la sua materia. Il lavoro continua, con le sue procedure or¬  dinarie che non sono solo ritrovamenti nuovi ma anche delle correzio¬  ni, delle reinterpretazioni dei dettagli alla luce dell’insieme meglio  compreso e generalmente delle riflessioni critiche sui bilanci anterio¬  ri. Prima di prendere congedo la guida deve ricordare che, per impor¬  tante o centrale che sia l’ideologia delle tre funzioni, essa è ben lungi  dal costituire tutta l’eredità indoeuropea comune che l’analisi compa¬  rativa può intravedere o ricostruire. Un gran numero di altri cantieri  più o meno indipendenti sono aperti : sugli «dèi iniziali», sulla dea Au¬  rora e su qualche altro, sulla mitologia delle crisi del sole, sulle varietà  del sacerdozio, sui meccanismi rituali e sui concetti fondamentali del  pensiero religioso, la comparazione, e specialmente la comparazione  dei fatti indo-iranici e romani, ha già permesso c permetterà di ricono¬  scere delle coincidenze che è difficile attribuire al caso.    Note ai paragrafi    § 2. La struttura bipolare della sovranità è l’argomento di MV; il capitolo  III di NA studia i fatti iranici (Vohu Manah c Asa). A proposito di questi ulti¬  mi la critica di W. LENTZ, «Yasna 2<f», Abh. Ak. tV/'.r.r. li. Ut. Mainz.., 1954, p.  963, non regge; non più dei poeti del Riveda per Mitra e Varuna, quelli delle  Gàthà avevano la preoccupazione, in tutte le circostanze o in molte circostan¬  ze, di caratterizzare differenzialmente Vohu Manah c Asa; questo è vero per  lo Yasna 28 in cui ogni strofa nomina contemporaneamente le due Entità  esattamente come RV, V, 69, in cui ogni strofa nomina simultaneamente i due  dèi senza cercare di distinguerli. Per Vohu Manali vedi G. WlDENGREN, The  f>reai Vohu Manah and thè Apostle ofGod, 1945. Per Mi9ra e Ahura Mazda  nella nuova prospettiva vedi MV, cap. V, § v (da correggere dopo WlDEN¬  GREN, Numen, I, 1954, p. 46, n. 148); J. DUCHESNE-GUILLEMIN, Zoroastre ,  1948, pp. 87-93; da S. WlKANDER, Orientalia Suecana, I, 1952, pp. 66-68  (sul Mesoromazdés di Plutarco). L’importante affinità del Varuna vcdicocon     F oceano, f ortemente marcata da H. LUDERS, Varuna , I ( Varuna linci die Was-  ser), 1951, sarà esaminata ulteriormente i n un quadro comparativo.   § 3. MV, cap. IV.   § 4. MV, cap. VII: si hanno ora le esposizioni di J. DE VRIES, Altgerm.  Rei. -Gesch., Ir, 1957, §§ 409-412 e di W. BETZ (vedi sopra, nota a II, §§  19-20) «Die altgerm. Religion», col. 2485-2498.   § 5. Le troisième souverain, essai sur le_ clieu indo-ircuiien Aryaman,  1949; DIE, pp. 40-59. Su Aditi, madre degli Aditya, in quanto «madre e fi¬  glia» di uno di essi, vedi Déesses latines et mythes védique , 1956, cap. III. Ri¬  fiutando e caricaturando in ZDMG, 117, 1957, pp. 96-104 la rettifica che  avevo proposto alla sua interpretazione (1938) di ari (non importa quale  «Fremdling», ma già con una nota di nazionalità, l’insieme o un membro del  mondo arya - alleato o avversario), P. THIEME compie il tour de force di di¬  scutere senza menzionare il mio libro su Aryaman, che è il contesto naturale  di questa rettifica, e mi attribuisce non so quale metodo sintetico, intuitivo,  etc. No: il mio studio su Aryaman procede per una analisi completa e detta¬  gliata dei testi vedici in cui è menzionato. Esaminerò successivamente questa  curiosa risposta nel JA e spero che P. Thieme userà più fair play nello studio  che sta preparando, mi dicono, su «Mithra e Aryaman», (vedi l’Appendice).   § 6. DIE, pp. 50-51, riassumendo Le troisième souverain.   § 7. DIE, pp. 51-52. Sugli Àditya Daksa e Amsa, ihid., pp. 55-58.   § 8. DIE, pp. 59-67; K. Barr, Àvesta, 1954, pp. 184-185, 193, 215.   § 9. DIE, pp.68-75. Per Juventas è stato segnalalo un notevole riscontro  nel mondo celtico: come Juventas rifiuta di lasciare il colle capitolino in favo¬  re di Jupiter O.M., che è obbligato ad ospitarla per sempre nel suo tempio,  così l'irlandese Mac Oc («il Giovane Figlio»), antico dio protettore della gio¬  ventù, si impone nel tumulo in cui vive il vecchio dio sovrano Dagda e si fa  concedere «un giorno e una notte », poi arguendo che il giorno e la notte fanno  la totalità del tempo, rifiuta di uscire e resta maestro del luogo («Jeunessc,  éternité, aube», Annales d’histoire économique et sociale , 1928, pp.  289-301.   § 10. DIE, pp. 76-77.   § 11. Vedi la prefazione di Aspects...   § 12-24.1 servigi che bisogna richiedere alla pseudo-storia delle origini  romane comparata con la mitologia indiana o scandinava, sono stati ben pre¬  sto riconosciuti: JMQ, cap. V; Horace et les Curiaces, 1942, pp. 65-70; Ser-  vius et la Fortune , 1943, pp. 112-119; riassunto in L’hérìtage..., cap. Ili e in  «Mythes romains», Revue de Paris, die. 1951, pp. 105-118. Sull’epoca in cui  I’affabulazione definitiva degli antichi miti si è prodotta (senza dubbio tra il  350 e il 280 a giudicare dagli anacronismi che vi sono inseriti), vedi  L’héritage..., p. 181, n. 49.   § 13. L’interpretazione dell’intrigo del Mahcibhàrata è stata data da S.  WlKANDER in un suo articolo fondamentale, «Pandava-sagan och     Mahàbhàratas myliska fòrutsattningar», Religion neh Bibel, VI, 1947 pp.  27-39, in gran parte tradotto e commentato nel niio JMQ IV, pp. 37-85; cf.  WlKANDER, «Sur le fonds commun indo-iranien des épopées de la Perse et de  l’Inde», NC, VII, 1950, pp. 310-329. Nel dominio germanico un caso paralle¬  lo (il trasferimento su Hadingus della Mitologia di Njordr) è stato studialo in  La saga de Hadingus (Saxo Granunaticus, I, V-VIII), du mythe au roman,  1953. Mentre il presente libro era in stampa, in Orientalia Sue vana, sotto il ti¬  tolo «Nakula e Sahadeva». WlKANDER faceva considerevolmente avanzare  l’analisi dei gemelli epici e divini (vedi sotto § 24).   § 14. Su Vàyu-Indra, vedi «Pàndava sagan...», pp. 33-36; è il risultalo dei  lavori diH.S. NYBERG, Die Reli gioiteti des altea Iran, 1938, pp. 75, 300, 317;  di G. WlDENGREN, Hochgattglaube ini alten Iran, 1938, pp. 188-215; di S.  WlKANDER, Vayu, I, 1941, V.I. AbaEV ha riconosciuto il dio indo-iranico  * Vayu nel nome generico dei «giganti» (f orti, catti vi, bestie) presso gli Osse-  ti, weijug (da *Vayu-ka-), Trudy lnstituta Jazykaznanija, VI, 1956, pp.  450-457, che io ho commentato in «Noms mythiqucs indo-iraniens dans le  folklore des Osses», JA, CCXLIV, 1957, pp. 349-352.   § 15. Aspects..., pp. 9, 70, 80.   § 16. JMQ IV, p. 56.   § 17. «Pàndava-sagan...», p. 36; JMQ IV, pp. 59+60, 67-68.   § 18. Pandu come trasposizione di Vanina, vedi JMQ, IV, pp. 77-80. La  trasposizione di un mito vedico (duello di Indra c del Sole, la ruota del carro  del Sole «infossata») è stata riconosciuta nel racconto della morte di Karna,  fratello uterino e nemico dei Pàndava, figlio del Sole come essi lo sono degli  dèi delle tre funzioni: «Karna et Ics Pàndava», Orientalia Suecana, III ( =Do-  num natal. H.S. Nyberg), 1954, pp. 60-66. Una trasposizione (dei passi di  Visnu al servizio di Indra) è segnalata in «Les pas de Krsna et l’exploit  d’Arjuna», Orientalia Suecana, V, 1956, pp. 183-188; e altri due (i sovrani  minori Aryaman e Bhaga, trasposti in Vidura c Dhrlaràstra) in una conferen¬  za fatta all’Università di Copenhagen nel nov. 1956, pubblicala quest’anno  nell’ Inclo-1 ninian Journal («La transposilion des dieux souverains dans le  Mahàbhàrata»), Il personaggio di Bhlsma sarà ulteriormente studiato nella  stessa prospettiva.   § 19. Le leggende romane sugli inizi della Repubblica presentano due croi  che ricordano, per la forma e il senso delle mulilazioni, il dio cieco monco  della mitologia scandinava, cioè i due dèi sovrani Ódinn e Tyr: questi sono  Orazio Coclite («il Ciclope») c Muzio Scevola («il Mancino»), i due salvatori  di Roma nella guerra contro Porsenna; la comparazione è stata sviluppata in  MV cap. IX e ripresa diverse volle, specialmente ne L’heritage..., pp.  159-169 c Loki, 1948, pp. 91-97. Sui primi redi Roma vedi il riassunto degli  studi anteriori in L’heritage..., pp. 143-159; un notevole «ritocco» parallelo  al «ritocco» zoroastriano degli dèi trasporti in Entità della tradizione romana  nel De Republica di Cicerone, è stato studiato in «Les archanges de Zoroastrc  et Ics rois romains de Ciceron», JP, XLIII, 1950, pp. 449-463.    119     § 20. Su Romolo e Numa vedi MV, cap. II; L’héritane..., pp. 146-154.   §21. Horate et les Curiaces, 1943, pp. 79-88; L ’héritage..., pp. 154-156.   § 22. Aspetta ..., pp. 15-61: «La geste deTullus Hostilius et les mythes de  Indra»; cf. pp. 3-14 dello stesso libro, studio dell’Indra vedico come «solita¬  rio» a dispetto dei suoi associati ( ekci -) e come «autonomo» (sva-). La biblio¬  grafia degli studi comparativi sullasecondafunzioneèdatain DIE, pp. 38-39  e completala in Aspetta..., p. 1.   § 24. Sui gemelli Romolo e Remo come corrispondenti ai gemelli Nàsa-  tya indo-iranici, vedi G. WlDENGREN, «Harlekintracht...», Orientalia Sueca-  na , II, 1953, pp. 96-97; Aspetta..., pp. 20-21. Non ho ancora pubblicato su  questa interpretazione dei gemelli romani il libro preparato nel 1951-1952; è  comparso solo un frammento: «Le turtus equos de la fète de Pales et la muti-  lationde lajument ViSpala», Ercinos, LIV (=G. Bjiirck meni. Saturni), 1956,  pp. 232-245. Altre corrispondenze tra dèi ed eroi gemelli dei diversi popoli  indoeuropei sono state segnalale in La saga de Hadinf>us, 1953, pp. 114-130,  151-154.1 Dioscuri greci sono solo parzialmente comparabili. Sembra che  altri aspetti della terza funzione (massa popolare; sviluppo della ricchezza e  del commercio; piacere) abbiano ispirato i racconti sul quarto re di Roma,  Anco Marzio, successore del guerriero Tulio; vedi Tarpeia, III («Jactanlior  Ancus») e la discussione con J. Bayet in JMQ IV, pp. 185-186 (dove impor¬  tanti questioni di metodo sono toccate).   § 26. DIVINITÀ: sugli «dèi iniziali», vedi «De Janus à Vesta», Tarpeia,  pp. 31-113 (=JMQ it., pp. 287-353), DIE, pp. 84-105; in Rituels..., pp. 33-39,  sono state rilevate delle concordanze tra il culto di Vesta c imiti vedici di Vi-  vasvat; in Déesses latines et mythes védiques, 1956, dei dati indiani hanno  chiarificaio e giustificaio le rappresentazioni di Maler Maluta (cf. Usas; vedi  anche RENOU, Études védiques et pcuiinéennes, III, 1957, 1: Les Hymnes à  l'Aurore du Riveda, pp. 1-104, specialmente pp. 8-9,10, 65), della silenziosa  Diva Angerona, dea degli angusti dies del solstizio d’inverno (cf. Atri opero¬  sa con la preghiera silenziosa nella crisi del sole), della Fortuna Primigenia  prenestina, madre e figlia di Jupiter (cf. Aditi, madre e figlia del sovrano  Daksa), di Lua Mater (cf. Nirrti). RITUALI in «Suouetaurilia», Tarpeia, pp.  115-158 (= JMQ it., pp. 355-388) si è stabilito lo stretto parallelismo di que¬  sto sacrifico triplice, offerto a Marte, con la sautrànicuiT indiana (sacrificio di  un loro, di un montone c di un capro a Indra «Buon Protettore»); in Rituels in-  doeuropéeus à Rome (oltre a qui sopra, I, § 21), i Fordicidia sono stali resi  chiari, nei dettagli dei riti, dal sacrificio vedico della «Vacca dagli otto pie¬  di»; l’opposizione del santuario rotondo di Vesta c di templi quadrati, orien¬  tali, è stala riavvicinata all’opposizione tra il fuoco rotondo (di riserva e di  accensione, «fuoco del padrone di casa», attaccalo alla terra) e il fuoco qua¬  drato (che dirige verso gli dèi le offerte degli uomini) sull’ara sacrificale ve-  dica; i rapporti rituali degli equidi, c in special modo del cavallo, con  ciascuno dei tre livelli funzionali, sono stati riconosciuti come idèntici sia a  Roma che nell’India vedica; in «Quacstiunculac indo-italicac, 1-3» (da pub¬  blicarsi in REL, XXXVI, 1958) il tulmen inane fabae della fumigazione dei    120      Parilia, i pisciculi vivi gettati nel fuoco durante i Volcanalia e la prescrizione  bigarum victricum clexterior del Cavallo di Ottobre sono chiarificati dai dati  vedici. SACERDOZIO (oltre a qui sopra, nota a I, § 1, per Jlamen-brahman ):  «Meretrices et virgines dans quelques légendes politiquesde Rome et des pe-  uples celtiques», Ogcnn, VI, 1954, pp. 3-8; «Remarques sur le ius feriale »,  REL, XXXIV, 1956, pp. 93-111; REL, XXXV, 1957, pp. 126-151, contiene  uno studio su augur, inaugurare, augustus. NOZIONI: «A propos de latin  ius». RHR, CXXXIV, 1947-48, pp. 95-112; «Ordre, fantasie, changemente  dan les pensées archaiques de l’Inde et de Rome, à propos de latin mos»,  REL, XXXII, 1954, pp. 139-160; in «Maiestas elgravitas, de quelques diffé-  rences entre les Romains et les Austronésiens», RP, XXVI, 1952, pp. 7-28 e  XXVIII, 1954, pp. 9-18; queste sono invece due nozioni prettamente romane  che sono state analizzate contro la scuola primitivista; su gratus, gratin emi¬  nentemente spiegate con un usovedico della radicegurC^V, Vili, 70,5), vedi  L.R. PALMER, «The Concept of Social Obligation in Indo-European», Coll.  Latomus, XXIII ( =Homm. M. Niedennann), 1956, pp. 258-269. E. BENVENI-  STE ha delucidato comparativamente un gran numero di nozioni religiose e  sociali, vedi in special modo «Symbolisme social dans les cultes gré-  co-italiques» RHR, CXXIX, 1945, pp. 5-16 (vedi una conferma di un dato  importante nel mio Rituels...)', «Don et échange dans le vocabulaire in-  do-éuropéen», L'Année Sociologique, 1951, pp. 7-20 e «Formes et sens de  pvaopai», Sprachgeschichte uncl Wortbedeutung (= Festschr. A. Debrun¬  ner), 1954, pp. 13-18.      Storia degli Studi e bibliografìa    Dopo lo scacco del saggio intelligente ma prematuro fatto dalla  scuola di Adalbert Kuhn (1812-1881) c di Friederich Max Miiller  ( 1823-1900) teso a ricostruire la mitologia comune degli Indoeuropei,  l’impresa fu per un certo tempo dichiarata illusoria. Daunaparte, sotto  l’influenza di Wilhelm Mannhardt (1831-1880), gli studi si spostaro¬  no sui rituali e le credenze agricole, popolari, di un tipo abbastanza  uniforme per tutta l’Europa e ci si applicò a ridurvi, senza pretendere  di stabilire filiazioni né parentele particolari, un gran numero di culti e  miti delle diverse religioni e in special modo quelle dei popoli classici.  Da un’altra parte, per effetto della crescente settorializzazione delle  specialità, gli studiosi dei diversi domini, indiano, greco, latino, ger¬  manico, etc., rifiutando ogni considerazione comparativa, costruirono  per spiegare la genesi e lo sviluppo delle religioni da loro studiate delle  ipotesi che presero sovente per dati di fatto e che non si accordavano  che per un punto: la riduzione a poche cose, per non dire a niente,  dell’eredità conservata dal passato comune indoeuropeo. Rari autori  continuavano a parlare di «religione indoeuropea» come ad esempio  A. CARNOY, Les Indoeuropéens (1921) p. 154-240.   Tuttavia nel secondo quarto di questo secolo si produssero delle  reazioni. In Germania bisogna citare prima di tutto: H. GUNTERT, Der  Arische Weltkonig und Heiland (1923); R. OTTO, Gotlheit und Got-  theilen derArier (1932); F. CORNELIUS, Indogermanische Religion-  sgeschichte ( 1942) e tutta la serie, che prosegue brillantemente, degli  articoli c dei libri di F.R. Schroder.   A partire dal 1924 e nel corso di dodici anni io stesso ho fatto un  primo sforzo di revisione della «mitologia comparata», ma con dei    123     mezzi filologici insufficienti e rimanendo prigioniero, per la spiega¬  zione, delle concezioni mannhardtiane e frazeriane {Le Festin d'Im-  morIalite 1924, Le crime des Lemniennes 1924 e qualche articolo di  cui non vi sono grandi cose da ritenere; il Leproblème des Centaures,  1929 e Flamen-Brahman, 1935, i cui frammenti rimangono utilizzabi¬  li). Non è che a partire dal 1938 che, inizialmente solo e poi, dopo il  1945, raggiunto e spesso superato da altri ricercatori, spero di essere  riuscito a delineare dei tratti importanti della struttura dell’eredità in¬  doeuropea comune, in una coscienza più chiara delle condizioni c dei  mezzi deH’inchiesta. Quest’inchiesta non si riporta ad alcun sistema  preconcetto di spiegazione, ma utilizza gli insegnamenti della socio¬  logia e dell’etnografia, come pure il ricorso all’analisi linguistica dei  concetti.   Essa ha due postulati: ammette che tutto il sistema teologico e  mitologico significa qualcosa, aiuta la società che lo pratica a com¬  prendersi, ad accettarsi, ad essere fiera del suo passato, confidante nel  presente e nell’avvenire; ammette anche che la comunità di lingua,  presso gli Indoeuropei, implica una misura sostanziale dell’ideologia  comune alla quale deve essere possibile accedere grazie a una varietà  adeguata del metodo comparativo.   Una circostanza, sulla quale un articolo di J. Vcndryes aveva at¬  tirato l’attenzione sin dal 1918, ha dato il via all 'inizio di molte ricer¬  che: il vocabolario religioso degli Indo-Iranici da una palle c quello  dei Celti e degli Italioti dall’altra presentano un gran numero di con¬  cordanze precise e che sono loro proprie. Un articolo-programma del  1938 «La préhistoire des flamines majeurs», RHR, CVIII, pp.   1 88-200 ha dimostrato che questa parentela prossima non si riduce al  vocabolario ma si estende alla struttura della religione. E dal 1938, in  ogni tipo di materia, è in effetti la comparazione dei dati vedici o in¬  do-iranici e dei dati romani che ha fornito i primi risultati precisi sui  quali è stato possibile fondare delle comparazione più vaste.   Così illuminati, i fatti germanici (benché il vocabolario religio¬  so sia interamente differente) si sono ben presto rivelati anch’essi no¬  tevolmente fedeli al passato indoeuropeo.   Benché conformandosi ai grandi quadri indoeuropei, il domi¬  nio celtico pone ancora, in seguito allo stato della documentazione, un  gran numero di problemi irrisolti. La Grecia - per effetto senza dubbio    124     del «miracolo greco» e anche perché le più antiche civiltà del Mare  Egeo hanno troppo fortemente segnato gli invasori venuti dal Nord -  contribuisce poco allo studio comparativo: anche i tratti più conside¬  revoli dell’eredità sono stati profondamente modificati. Quanto agli  altri popoli del mondo indoeuropeo, in special modo i Baiti e gli Slavi,  non si è ancora riusciti a utilizzarli pienamente. 1 principali lavori in  cui è stata progressivamente analizzata l’ideologia tripartita degli  Indoeuropei che il presente libro espone sono i seguenti':    Mythes etdieuxdes Gennains, essaid’interprétation compara¬  tive 1939 (citato MDG)   Mitra-Vurunu, essai sur deux représentations indoeuropéen-  nes de la souveraineté 1940, II ed. 1948 (citato MV)   Jupiter Mars Quirimis, essai sur laconception indoeuropéenne  de la société et sur Ics origines de Rome, 1941 (citato JMQ)  Naissance de Rome (=JMQ II) 1944 (citato NR)   Naissance d'Archanges, essai sur la formation de la théologie  zoroastrienne (=JMQ III), 1945 (citato NA)   Jupiter Mars Quirinus IV, 1948 (citato JMQ IV)   L ’heritage indoeuropèe !? à Rome, introduction aux séries  «JMQ» et «Mythes Romains», 1949   Le troisième Souverain, essai sur le dieu Aryaman, 1949  Les dieux des Indoeuropéens, 1952 (citato DIE)   Rituels Indoeuropéens à Rome, 1954   Aspects de lafonction guerrière chez les Indoeuropéens, 1956  Déesses latine set mythes védiques. Coll. Latomus, XXV, 1956    Una traduzione italiana di una versione migliorata in diverse  parti di JMQ e di NR e di frammenti di Tarpeia (1947) e di JMQ IV, è  stata pubbl icata nel 1955 a Torino sotto il titolo di Jupiter Mars Quiri-   I Attualmente sto preparando un rimaneggiamento unitario di JMQ. NR. NA ehc  sarà pubblicalo, come questi tre libri, presso Gallimard. Aspettando, l’edizione  italiana dei primi due Corniscc un’idea delle correzioni giudicale necessarie: le  parli che non sono state tradotte sono da eliminare.    125     ìtus (citato JMQ it.) 2 . Delle questioni di metodo, che io qui non affron¬  to, si trovano discusse nelle prefazioni della maggior parte di questi li¬  bri e, più sistematicamente, nel primo capitolo de L’heritage ...  («Materia, oggetto e metodi di studio»).    2 AUre abbreviazioni: AV= Atharvaveda; BGDSL = Beitrage zur Geschichte der  Deutschen Sprache und Literatur: FFC = Folklore Fellows Communications; J A  = Journal Asiati que; JAOS = Journal of thè American Orientai Society; JP =  Journal de Psichologie: NC = la Nouvelle Clio; REL = Revtte des Etudes Lalines;  RHA = Revtte Hittite et Asianique; RHR = Revtte de l ’Histoire des Religions; RV  = Riveda; RP = Revtte de Philologie. RSR = Recherches de Science Religieuse;  SBE = Sacred Books of thè East; SMSR = Studi e Materiali di Storia delle  Religioni ; TPS = Transaction of thè Philological Society; ZCP = ZeitschriJ't fìir  Celti sche Philologie; ZDMG = Zeitschrift der Deutschen Morgenlàndischen  Gesellschafl.    126     Appendice    Aryaman e Paul Thieme    Mentre correggo le seconde bozze di questo libro (maggio  1958) è uscito quello di Paul Thieme annunciato qui sopra (nota al  cap. Ili § 5), ma egli non risponde affatto alle ingenue speranze che  esprimevo. Cito dunque qui (I e II) due estratti dell’articolo del JA,  concernenti Aryaman e il metodo di Thieme, menzionato nello stesso  paragrafo e vi aggiungo (III) qualche riflessione provvisoria su Mitra  and Aryaman. Per non creare confusione lascio alle note di I e II i nu¬  meri che avranno nel JA. Abbreviazioni: F. = P. Thieme, Der Frem-  dling im Rig Feda, 1938; S = il mio Troisième Sauveraine, 1949; Z =  P. Thieme, Ari, «Fremder», ZDMG, 117, 1957. pp. 96-104.   I   Ma è soprattutto nei confronti del dio vedico, e prima ancora in¬  do-iranico, Aryaman, che il saggio di Thieme rivela la sua debolezza.  In virtù dell’ipotesi {ari = «lo straniero», qualunque sia) c del senso  che ne risulta per aryó («l’ospitale»), Aryaman non può essere che il  «dio dell’ospitalità)). È così?   E ancora, sarebbe necessario che negli inni o nei rituali questa  definizione si verificasse sul suo centro, intendo dire, in occasione del  ricevimento di un ospite designato come tale. Ora, non soltanto non vi  è un testo rgvedico che riunisca il nome dell’ospite, àtithi e quello di    127     Aryaman, ma, salvo ignoranza da parte mia, Aryaman non è né invo¬  cato né menzionato ritualmente all’arrivo di un visitatore. Non biso¬  gna concludere un’assenza dal silenzio: è tuttavia curioso, se il concet¬  to di ospitalità è stato sentito tanto importante da essere personificato  in uno dei due dèi sovrani, e nel più considerevole dopo Varuna e Mi¬  tra, che questa origine non abbia avuto nessuna occasione per espri¬  mersi chiaramente. Mitra, il contratto personificato, è certo come dio  molto più del contratto, ma si trovano dei testi in cui questo legame è  manifestato e sottolineato con delle parole senza ambiguità.   Inversamente, l’Aryaman vedico e il suo corrispondente avesti-  co Airyaman, intervengono in circostanze che, salvo violenza, sono  irriducibili all’ospitalità. Ne ricorderò solo due.   Prima di Thieme molti vedisti avevano notato, con delle con¬  clusioni talvolta eccessive o errate, i rapporti tra Aryaman e il matri¬  monio. 1 testi allegati sono abbastanza numerosi". Per piegarli alla sua  tesi, Thieme è stato indotto a far loro subire dei trattamenti poco racco¬  mandabili. In tutto il dossier vedico vi sono dei documenti più chiari e  più netti, altri più oscuri o più indeterminati. Il metodo ordinario è  d’informarsi all’inizio sui primi e con questi chiarificare o precisare in  seguito i secondi. Per il caso di Aryaman si ha, chiara e netta in A V, 1,  60, la formula destinata a procurare un coniuge, la descrizione che fa  di Aryaman la prima strofa:   tiyùm Ci ycity arycimà pura staci visitastupah   asyci icchcinn agruvai pettini utd jàyàm ajànuye   «Ecco arrivare Aryaman con i riccioli sciolti, cercando per  questa fanciulla un marito e una moglie per chi non è sposato».   Non meno esplicito vi è in/l V, XIV, 1, inno rituale del matrimo¬  nio, la strofa 17 che riguarda la giovane donna:   aryamdnam yajcimahe subanclhum pativédanam   urvàrukcim iva bàndhanàt prétó muncumi nàmùtah    11 I lesti sono riuniti in A. HlLLKBRKNDT, Vedische Mytalogie, II 2 ,1927, pp. 74-76,  seguiti da un'interpretazione di Aryaman come «Feier», sicuramente errata. «Noi sacrifichiamo ad Aryaman (il dio) delle buone alleanze, il  trovatore dei mariti. Come unazuccadalsuo legame io ti libero da qui  (= dalla tua casa di ragazza), non da laggiù (= dalla casa coniugale)».   V icino a questi testi ve ne sono altri che riguardano ancora siala  «ricerca della sposa» che diversi episodi precisi del rituale delle noz¬  ze, nei quali Aryaman interviene sempre, ma associato ad altri dèi e di  conseguenza con un ruolo non immediatamente identificabile. Ciò  che in questi casi incerti può orientare l’interpretazione è evidente¬  mente la descrizione e la definizione che su di lui hanno dato i testi  espliciti del dossier: egli cerca da ambedue le parti gli elementi delle  coppie coniugali e fa delle buone alleanze matrimoniali.   Thieme procede all’ inverso cominciando dalla seconda cate¬  goria di documenti. Consacra cinque pagine per citarli in esteso e per  tradurli inserendo tra parentesi, a favore della loro indeterminazione,  la sua concezione di Aryaman («die Gastlichkeit», «der Gott der Ga-  stlichkeit», «der Gott gastlicher Aufnahme») e in seguito, in dieci ri¬  ghe che conclude allusivamente, pretende che ciò che dice sui testi  meno determinati permetta-infine! - di ridurre alla loro «vera» porta¬  ta questi testi la cui precisione lo imbarazza 13 :   «Von hier aus wirdes nun erst mòglich, die Verse A V. 6.60. 1,  14.1.17, Mp. 1.5.7, die H1LLEBRANDTan die Spitze seiner Untersu-  chungdes Verhàltnisses zwischen Aryaman und E he gestellt hat, in ih-  rer wahren Bedeutungen zu wùrdigen. Als einer der Genien des Hau-  shalts, der auch bei der Eheschliessung mitwirkt, wird Aryaman als  «Gattenfìnder» (A V. 14, 1.17) und Ehevermittler (A V. 6.60.1)  schlechthin in Zauberspriichen genannt, die anscheinend durch die  Erwàhnung eines so vornehmen Gottes, der im R Vin der Gesellschaft  des Mitra und Varuna aufzutreten pflegt, wirken wollten.»   Al di fuori dello stesso procedimento che consiste nel masche¬  rare ciò che è chiaro con ciò che non lo è, tutto nell’ultima frase è ten¬  denzioso: questi Zauberspriichen, uno dei quali appartiene al rituale  del matrimonio, non meritano alcun disprezzo c sono sicuramente    12 F„ §§ 118-124; S. pp. 73-79.   13 F„ § 124.  adatti a chiarire la funzione del dio che essi mobilitano. Pretendere che  Aryaman non vi figuri in qual ità, ma semplicemente perché è un « gran  nome» della mitologia, è una spiegazione che generalizzata permette¬  rebbe all’esegeta di sopprimere in ogni maniera le testimonianze im¬  barazzanti. Infine, la definizione di Aryaman come «einer derGenien  des Haushalts», è stata utilizzata, pefitio principii, usando la libertà  fornita dai testi meno determinati. Bisogna aggiungere che alcuni di  questi testi resistono al senso che si vuole loro dare. Quando Aryaman  ad esempio è pregato, ancora in un inno di matrimonio, «di ungere  (forse la novella sposa) fino alla vecchiaia» (o «affinché ella non in¬  vecchi»)' 4 , Thieme, ricordando che «in ogni paese del mezzogiorno» 15  il bagno di ospitalità comporta un’unzione d’olio, traduce intrepida¬  mente: «Mòge Aryaman (als der Gotigastlicher Aufnahme) [Dich=  die Braut ] inir der Ólsalbung schmiicken; auf dass du nicht altseist ( =  inJugendschònheitglànzest)». Le giustificazioni di questa traduzione  sono leggere: suppone un aspetto non attestato del rituale d’ospitalità  e il dativo d’intenzione àjarasàya è volto in un senso inattendibile;  come si può mai dire alla giovane sposa: « Che il dio dell 'ospitalità ti  unga con olio affinché tu non abbia l'aria invecchiata »? Viceversa se  si vede in Aryaman il protettore del rapporto che si forma, è naturale  che egli sia pregato di garantire alla sposa lunga vita o vigorosa vec¬  chiaia.   E non è tutto. Thieme assimila costantemente l’ospitalità e il  matrimonio, l’accoglienza che riceve l’ospite e quella che riceve la fi¬  danzata. Ora, le due cose sono differenti: a dispetto del riferimento a  Mrs. Stevenson 16 , l’atto della donna che entra in casa di suo marito per  rimanervi, può identificarsi, nei riti, con l’atto del visitatore che dopo  essere entrato straniero se ne andrà, benché incaricato del dovere di  contraccambiare, ma sempre straniero? L’accoglienza fatta alla futura  madre può forse essere più ospitale, nello spirito e nei riti, delle ceri-   14 RV, X, 85, 43:   a nati prajath janayatu prujàpatir   àjarasàya sùm anaktv aryamù...   Geldner: «Pràjapati soli uns Kinder erzeugen, bis zurhohcn Alicr soli nns Arya¬  man verschinelzcn».   15 Nell'India vedica?   16 F., p. 125, n. 1.    130     monie che in seguito legalizzeranno il neonato come membro della  stessa famiglia? Se bisognasse avvicinare ad altre cose questa proce¬  dura sui generis del matrimonio, non si dovrebbe pensare piuttosto  all’adozione che all’ospitalità?   Le nostre parole «accoglienza, Aufnahme», creano un’ambi¬  guità che senza dubbio un Indiano, non più di un Romano, non rischia¬  va di sentire vivamente. Io resisto particolarmente all’interpretazione  datadaThiemead AV, 14,1,39-sempre riguardo il rituale nuziale 17 :   aryamnó agnini pàryetu pùsan [var. ksiprdm]   prdtiksante svasuro devaras cu.   «Sie umschreite das Feuer des Aryaman (der Gastlichkeit), o  Pùsan'*, es sehen entgegen Schwàher und Schwager.»   Sono certamente meno ben informato di Thieme sui rituali ve¬  dici: quando un ospite entrava in una casa gli si faceva fare anche que¬  sta circumambulazione del focolare, che trova il suo esatto corrispon¬  dente, come molti altri tratti, nel matrimonio romano (dove ha valore  di rito d’incorporazione) e non nell’ospitalità romana? Se è così  m ’ inchino. Altrimenti, messa in luce dai testi precisi sul ruolo di Arya-   17 F„ § 122.   18 Piuttosto, secondo la variante «schnell». In S., p. 78, vi è una cantonata nella tra¬  duzione che dopo dieci anni non so ancora se la devo attribuire a un’ inavvertenza  del mio manoscritto o delle mie correzioni delle bozze: ,f vósuro devàsra.ica è reso  con «i suoceri e i cognati» invece de «i7 suocero c i cognati» il plurale della secon¬  da parola avendo determinato meccanicamente, da me o dal tipografo, il plurale  della prima. Questo testoche sotto la protezione di Aryaman f a intervenire dopo la  giovane sposa il padree i fratelli dello sposo, prova che nel matrimonio Aryaman  si interessa a ben di piti che l'unione tra due esseri: l’intera famiglia è interessata  da questo nuovo membro che le procura un’alleanza con un’altra famiglia (cf.  Aryaman qualificato suhandhù, alla strofa 17 dello stesso inno). Alla pagina 119  di S. ho commesso una svista più umiliante ma senza conseguenze per i miei pro¬  positi, considerando svasurah di RV, X, 28, 1 come padre della moglie (possibile  nel sanscrito classico ma non nel vedico) emettendo la strofa in bocca al marito. E  l’inverso. La moglie parla e si sorprende che il padre di suo marito non sia venuto  al festino preparalo, mentre vi.ivo... anyó arlh «ogni altro ari, tutto il resto  dell'insieme ari » (e non facendo sparire la parola essenziale «altro», « jederunde-  re, niimlichjeder ari», Thieme) è pervenuto. Il commento che ho fatto di questo  testo, per i rapporti di ari e di .ivù.iurah, sussiste interamente a condizione che si  rimpiazzi «genero» con «nuora» (e co.si « prendere moglie» con « prendere mari¬  to » e «ha scelto la jigliadel suocero» con «è stato scelto dai figli del suocero»).  man nel matrimonio, l’espressione «fuoco di Aryaman» per designare  eccezionalmente qui il focolare intorno al quale si forma il legame mi  sembrerebbe fare semplicemente riferimento a questo ruolo. Sono  queste le principali ragioni per le quali non mi è possibile dedurre il  ruolo di Aryaman nel matrimonio a partire dalla definizione che esige  l’ipotesi di Thieme.   L’Airyaman avestico è invocato ( Yasna 54, 1) per sostenere  «gli uomini e le donne di Zoroaslro» e il Buon Pensiero; è detto dotato  di forza offensiva, distruttore di ogni resistenza, vincitore dei nemici  (ibid. , 2); la preghiera che è invocata dopo di lui è onnipotente e guari¬  trice (Yast III, 5); Aryaman stesso è l’eroe di una scena mitica in cui  questa preoccupazione di guarigione è al primo posto: quando Angra  Mainyu creò, contro la creazione di Ahura Mazda, le 99.999 malattie,  il gran dio dopo uno scacco subito da ManGra Spanta (la «Formula  Efficace»: l’agente della maggiore delle tre forme di medicina) si av¬  vicinò ad Aryaman che subito riuni gli clementi di quella che doveva  divenire in seguito una delle purificazioni rituali del mazdeismo 19 .  Come derivare questi uffici dall’idea di ospitalità? Thieme non tenta  la scommessa ma lascia intendere che tutto questo è un’innovazione,  un uso fuori dal dominio di un dio sentito come importante: «Man hai  also von Airyaman dhnlichen Gebrauch gemacht wie der AV von  A/yaman», dice lui facendo allusione alla fine del § 124 che ho cita¬  to 20 Temo che questa sia una maniera troppo rapida per eliminare un  elemento preciso del dossier. La stessa cosa avviene per altri aspetti di  Aryaman e per i suoi rapporti con le strade, ad esempio, strumento  utile di comunicazione sociale 21 : ci si riferisca all’analisi del mio Troi-  sième Souverain. Ciò che precede è sufficiente per far capire che  Aryaman è fondamentalmente più di un dio dell’ospitalità. Infatti  nell’ ospitalità senza dubbio, ma anche nella conclusione dei matrimo¬  ni, l’Aryaman vedico patrocina i rapporti sociali all’interno di un  gruppo di uomini in cui bisogna che non solo l’ospitalità ma anche il  matrimonio siano possibili.    19 F. § 126-128; S„ 81-83.   20 V. qui sopra n. 13.   21 S., p. 141-149. Per il trattamento insufficiente di altri aspetti di Aryaman in F.,  vedi S., p. 137-139.    132     L’Airyaman iranico protegge in una maniera più ampia e fino  alla sanità l’insieme di uomini e donne della «buona società», definita  dopo la riforma zoroastriana solamente in base alla religione e non alla  nazionalità.   Bisogna dunque che il concetto di arya - nel nome di Aryaman  sia altra cosa rispetto a quello detto da Thieme: minore in estensione,  poiché il matrimonio non è possibile con alcun ospite, ma più ricco in  comprensione, poiché oltre all’ospitalità comporta altre forme di lega¬  mi e in special modo l’attitudine a contrarre il matrimonio. Si è così  costretti a introdurre in questo arya-e quindi in ari, un valore di nazio¬  nalità.    II   Se il valore limitato e orientato di ari che io ho proposto [in S p.  113-127] (Icariano», collettivamente o genericamente), rende conto  di tutti i derivati e si adatta senza difficoltà a tutti i passaggi ai quali si  adattava il valore generale («der Fremde, der Fremdling») di Thieme,  rende inoltre conto di un testo che resisteva a quest’ultimo. Il dossier  di ari contiene in effetti almeno un testo che direttamente impone una  traduzione limitata e mi sorprende che Thieme non l’abbia riconside¬  rato nella difesa che mi oppone. Questo è RV, IX, 79, 3:   uta svàsyd ardtyd arir hi sa   utdnydsyd ardtyd vrko hi sah   La costruzione e il senso sono limpidi:   «[Proteggici] dalla nocivitàpropria:poiché è l’ari.   [Proteggici] dalla nocività aliena: poiché è il lupo.»   Questi versi simmetrici presentano, distribuiti in due rapporti  equivalenti, quattro termini, tre dei quali sono conosciuti e forniscono  di conseguenza un’eccellente equazione per determinare l’incognita,  ari : vi è l’opposizione usuale tra svàeanyà, il primo designa ciò che è  proprio, imparentato o alleato, mentre il secondo ciò che è altro, este¬  riore, straniero; vi è anche l’opposizione tra an e vrka, in cui vrka designa l’uomo che merita di essere chiamato lupo poiché il suo comporta¬  mento è selvatico. Così ariè. precisato negativamente come un tipo di  nemico distinto da questo nemico selvaggio ed esterno che è posto al  di fuori del gruppo i cui membri sono degli svà\ positivamente ari è  definito come intemo a questo gruppo. La traduzione e il commentario  fatto da Thieme a questo passaggio devono essere citati per intero 12 :   «/ Schutze] vor eigener, voranderer (i.e. vorjeglicher) arati; sie  (oder: das, was die arati ist) istjaderFremdling (der den Frieden be-  droht), sie istja der Wolf... ».   Ich habe in der Ubersetzung vonab au/Nachahmung der Spre-  izstellung der Satzglieder verzichtet. Dies e kannja sehr wohl nurstili-  stischer Art sein. Ich willjedochdie Mòglichkeit nicht in Abrede stel-  len, dass wir zu sagen hdtten: «vor eigener arati- sie ist ja ein  Fremdling (der ins Haus aufgenommen den Frieden bricht), vor an-  derer drdti-sie istja ein Wolf».   La prima interpretazione, quella che l’autore preferisce poiché  sopprime le difficoltà, fa una violenza inammissibile all’ordine e al  rapporto delle parole: mantiene come tale una delle due opposizioni  equivalenti ma sopprime l’altra volgendola in solidarietà; riducear/e  vrka a un’unità (non essendo vrka che un rinforzo del «cattivo» ari) di  cui svà e anyà sarebbero lesuddivisioni. La filologia non hatali diritti.   La seconda interpretazione orienta l'opposizione tra svà e anyà  in un senso che non è il suo: svà non si applica a ciò che è presso me  temporalmente e accidentalmente senza essere a me, ma segna un le¬  game permanente ed essenziale con me. In più, questa traduzione sup¬  pone, dalla parte àeW'ari nemico, un comportamento speciale, quello  dell’ospite che una volta ricevuto in casa si comporta male e « minaccia la pace » come dice Thieme. Certo, l’ospitalità ha i suoi rischi ma  questi rischi si realizzano raramente e in ogni modo nessun testo del  RV vi fa allusione: sarebbe molto strano che fossero qui l’oggetto di  una preghiera e che, in questa preghiera, fossero messi sullo stesso    32 P. 27, già II, 1956, p. 109. Se, come io penso, ari ha già il valore etnico («ariano»),  si concepiscono gli impieghi elogiativi, sottolineati da Renou, che vanno nella di¬  rezione «élite», «capo», etc.    134     piano, in contrapposizione, i rischi costanti che fa correre il vrka bar¬  baro e brigante.   Questo testo è dunque decisivo contro il senso troppo esteso di  ari e impone un senso ristretto. Nei suoi Etudes védiques et pàninéen-  nes. III (1957), L. Renou mi sembra abbia ben riassunto l’insegna¬  mento del testo nella formula: «.vrka il nemico straniero, ari il nemico  interno». Questo delimita ari, sia il buono che il cattivo: amico, ospite,  sposabile, correligionario, rivale, nemico, Vari porta alla considera¬  zione di chi lo menziona, la nota svà, che esclude la nota anyà n .   Ili   Mitra and Aryaman è in gran parte un pamphlet contro di me:  fornisco perfino il titolo di un capitolo. Mi limiterò qui ad alcune os¬  servazioni che faranno vedere a quale livello si situa il dibattito.   Prima di entrare nella materia, e per togliere ogni credito ai miei  argomenti, Thieme incomincia a dimostrare, secondo tre punti, che io  commetto molteplici e grossolani errori di grammatica utilizzando gli  inni vedici. Lo credo volentieri, ma vediamo che cosa mi rimprovera   (pp. 12-16):   a) Io tratto dei duali come dei plurali. Si tratta di due testi in cui  si incontra la sequenza, del resto frequente, dei tre principali dèi sovra¬  ni, Varuria, Mitra e Aryaman e dove, a causa di un verbo o un aggettivo  che sono appunto al duale, Thieme vuole fondere Mitra e Aryaman in  un solo personaggio mitico che chiama «Freund, Gasljreund» (nel  1938) e che ora preferisce chiamare «The contract (God Contract)  which is hospitality (God Hospitality )». È nel riconoscere questo mo¬  stro, di cui non vi sono altre tracce nella letteratura vedica, che mi sono  rifiutato, nel 1949 (S., pp. 42-47). Non ho cambiato parere: è inverosi-    33 Questa definizione di art come sva basterebbe (vi sono altre ragioni) per fare scar¬  tare il paragone etimologico con diana (l'opposto di svà) che è stato portato in ap¬  poggio alla tesi di Thieme da F. Spechi, «Zur Bedeutung des Ariernamens», KZ,  68, 1941, pp. 42-52. D’altra parte, il fatto che RV, VI, 15,3 invita Agni ad essere  ùryi'ih pùrasyàntarasya lùrusah, «il vincitore dell'un lontano e vicino» dimostra  che lo svà di IX, 79, 3 non deve essere compreso in un senso stretto né senza dub¬  bio locale. Il concetto di nazionalità suggerito dai derivati soddisfa la doppia con¬  dizione: Vari per «un» ariano è sia svà che para.    135     mile che in questi due soli passaggi la triade ceda il posto a una coppia  «Varuna e Varyamàn Mitra» o a «Varuna e il mitra Aryaman».   Uno di questi testi è RV, V, 67, 1: varuna mitrdryaman  vdrsistham ksatrdm àsiithe, «o Varuna, Mitra e Ai'yaman, voi avete ot¬  tenuto la più alta sovranità». Perché si dice che il verbo è al duale? Il  poeta vuole sottolineare la stretta affinità di Mitra e Aryaman (che è  fondamentale come spesso ho detto) nei confronti di Varuna, di modo  che si debba tradurre «o Varuna, o Mitra e Aryaman»? Non lo so, ma  la soluzione meno accettabile è di fondere in un solo essere Mitra e  Aryaman, poiché la strofa 3 dello stesso inno enumera nuovamente i  tre dèi al nominativo e questa volta con due aggettivi e due verbi che  sono correttamente al plurale. Noto che K. Geldner comprende come  me: «ihr habt die hòchste Herrschaft erreicht, Varuna, Mitra, A rya-  man» - i tre vocativi essendo esattamente paralleli, come Thieme mi  rimprovera di avere detto.   L'altro testo è RV, Vili, 26, 11 : vaiyasvdsya srutam narotó me  asya vedathah/sajósasd varuna mitrò aryamd. La prima parte non è  ambigua: «Ascoltate, o voi due eroi (= gli Asvin) [la parola] di Vai-  yasva e conoscete questa [parola] mia». La seconda è meno chiara,  un aggettivo al duale (sajósusà, «in accordo») precede i tre nomi di¬  vini.   Geldner risolve la difficoltà attaccando l’aggettivo non a ciò  che segue, ma come attributo a ciò che precede, ai due Asvin: « Horet  aufden Vyasvasohn, ihrHerren, und seid meiner hier ein^edenk, ein-  miitig, (und mit euch) Varuna Mitra Aryaman». Non so se ha ragione o  se si può trovare una giustificazione più sottile, ma come lui penso che  gli dèi dell’ultimo verso, qui come altrove, siano ire.   b) Tratto dei plurali come dei duali. Si tratta di RV, III, 54, 18,  aryamd no dditir yajmydsah, «Aryaman, Aditi [sono] degni (plurale e  non duale!) dei nostri sacrifici, dobbiamo sacrificare ad Aryaman, ad  Aditi». Thieme consentirà forse a credere che ho consultato la tradu¬  zione di Geldner: «.Aryaman, Aditi sind uns anbetun^swert», con la  nota corrispondente: « Den Plur. yajnfyàsah, weil der Dichter an die  iibriffen Àditya ’sdenkt». Ma ciò che più m’interessava perii mio argo¬  mento (S., p. 68) è che in questo lesto della «terza funzione» (la fine  della strofa domanda abbondanza di bestiame e di bambini), il gruppo  degli dèi sovrani distacca, in qualche modo come i suoi soli delegati  espliciti, la loro madre e Axyaman. Non prevedendo Thieme non ho  preso la precauzione di ripetere in termini di grammatica una precisa¬  zione che ogni vedista conosce. Il mio commento si è limitato a dire:  «Sembrerebbe che ancora qui sia l’iniziativa di Aryaman che orienta  l'azione collettiva degli Àditya verso questa grazia speciale». Non è  abbastanza chiaro?   c) Tratto un singolare come un duale. Si tratta del lapsus segna¬  lato più sopra (n. 18) che, in A V, XIV, 1, 39 (S, p. 78, 1.8 e 11 ) mi ha  fatto scrivere e non mi ha fatto correggere «i suoceri» invece del «suo¬  cero», come traduzione di svdsurah. Thieme finge di credere che io  abbia pensato ai «due suoceri». Mi reputa così ignorante da poter cre¬  dere che io abbia preso un nominativo in -ah, pur nella sua forma in -o,  per un nominativo duale? La stessa parola, sotto la stessa forma non è  forse correttamente tradotta la seconda volta che la si incontra (S, v.   1 19)? La spiegazione che mi parrebbe più plausibile è che, essendo  poco leggibile il mio manoscritto, il compositore abbia congetturato i  «suoceri» secondo i «cognati» che seguono immediatamente, o che  meccanicamente abbia messo allo stesso numero queste due parole  così analoghe [pères e frères nel testo. N.d.T.]. Può anche darsi che il  lapsus risalga al mio manoscritto. Mi dispiace molto ad ogni modo che  nella sovrabbondanza di correzioni che ho dovuto fare sulle bozze  quello mi sia scappato e che l’errore mi sia saltato agli occhi solamente  qualche mese dopo la pubblicazione. È in maniera sleale che Thieme  orchestra questo scandalo in due pagine e anche il mio errore su  svdsurah, suocero dell’unica moglie e non del marito. Nondimeno  Thieme dimentica di dire l’essenziale, cioè che per il mio argomento  la menzione del suocero e dei cognati (della moglie) in A V, XIV, 1,39  e quella del suocero {della moglie) opposti al «resto dell’ari» in X, 28,   1 conservano tutto il loro valore dimostrativo, com’è stato mostrato  qui sopra a n. 18, poiché l’uno conferma che Aryaman, nel matrimo¬  nio, non si interessa solamente ai giovani sposi, ma ai parenti per  l’alleanza che la loro unione stabilisce e l’altro indica (cosa ammessa  da Thieme nel 1957; Z, p. 213!) che le alleanze matrimoniali si com¬  piono all’interno dell’insieme ari. Insomma, Thieme grida «all’in¬  terpretazione errata!» per mascherare il gioco di prestigio altrimenti  grave fatto da lui stesso all’insegnamento di tutti i testi che stabilisco-    137     no il vero ruolo di Aryaman nel matrimonio (vedi sopra 1 )'. Il libro è in  seguito infiorito di notae censoriae. Alcune mi sono sembrate giuste  ed utili e ne terrò conto, senza che nessuna cambi niente alle figure e ai  rapporti degli dèi. Molte sono, bisogna dirlo, un puro bluff poiché  Thieme denuncia come antigrammaticale, errata o sprovvista di sen¬  so, una traduzione possibile ma che non ha il suo favore 2 , caricaturan¬  do le mie esposizioni 3 e inventando delle contraddizioni peravere un  motivo di risentimento in più 4 , etc. etc.    1 L’obiettivo di questo triplo assalto grammaticale si scopre a pagina 17: «IJ'eel il  my duty to warn especially Lutinists, who cannai be expecled lo judge on thè me¬  riti of Dumez.il' s indological araumenti, agama trusting hispresentation oflhe  Jacts oJ'Vedic religion loo confidently, andagainst believing ihal only his "expla-  naiions" need be discussed». Non ho questa pretesa. Domando solo senza grandi  speranze che latinisti o indologi, di St. Andrews o di Yale, che vogliano discuter¬  mi lo facciano lealmente.   2 P.es.,pp. 10-12;/?V, I, 141,9; p. 41 : /?V, X. 136,3;p. 62: RV, X, 89,9; ctc. p. 67, in  RV VII, 82, 5, Thieme rende correttamente duvasyatil Ha sicuramente ragione,  ad ogni modo, a rimproverarmi la riga di S., p. 40 («Mitra offre dei sacrifici a Va¬  nirla), in cui ho esagerato la frase, in se stessa eccessiva, di Bergaigne(La religion  védique, III, p. 138: «In un passaggio in cui né Mitra né Varuna sono del resto  esplicitamente identificati ad Agni, il primo è opposto al secondo come il sacer¬  dote al dio che onora»): duvasyati significa sempl icementc «rendere gli onori do¬  vuti»; bisogna correggere in que.slo senso Les dieux des Indoeuropéens, p. 42,  1.27: in RV, VII, 82, 5, Mitra non è come un sacerdote di Varuna.   3 P. cs. pe>. 19-20, ciò che ho detto dei rapporti tra il contratto e l'amicizia, Mitra-  Varuna', 1948, pp. 79-83, non è compreso. Non ho fatto la lezione a Meillet; ho  semplicemente utilizzato i progressi che, dal suo articolo del 1907, i sociologi  hanno fatto compiere alla teoria del contratto presso i popoli semi-civilizzati. Allo  stesso modo, p. 82, la mia concezione dei rapporti tra i diversi dèi sovrani si è de¬  formata: che si confronti il capitolo II di Dieux des Indoeuropéens. L’etimologia  dei nomi divini (Varuna, Marut, il secondo elemento di Aryaman, etc.), salvo  quando è evidente (Mitra, etc.), mi interessa sempre meno (vedi Déesses latineset  mythes védiques, 1956, p. 117): qualunque sia quella di Varuna (e non credo mol¬  to a quella adottata da Thieme) ciò che conta è, studialo direttamente, l’insieme  del suo comportamento e il suo rapporto con le altre figure divine: un dio non c  prigioniero del suo nome.   4 P. es., p. 74, n. 54, Thieme segnala una contraddizione in S., tra la pagina 63 e 136,  a proposito della sua traduzione di salpati: si verificherà facilmente che essa non  esiste. P. 76, n. 54, è con Panini che sono messo così futilmente in contraddizione.  P. 86, n. 60, sono accusato per due parole di «mislranslations, wich might have  been avoided by looking up thè PW or any other good dictionary » ; Thieme vorrà  rifarsi a A.B. Keith, HOS XVIII, p. 167-168, di cui ho adottato la traduzione (e vi  sono ragioni per preferire questa interpretazione a quella di Thieme). P. 9; Thieme non tiene conto della differenza d’intenzione tra  Mitra-Varuna e Le Troisième Souverain. A dispetto del suo titolo in¬  diano il primo libro non tratta un soggetto indiano 1 ; si propone di di¬  mostrare che presso gli altri popoli indoeuropei, a Roma e fra i Germa¬  ni in special modo, esistevano delle coppie di dèi o di eroi della prima  funzione la cui articolazione è omologa a quella che A. Bergaigne ha  scoperto per Mitra e Varuna nel RV e che i Bràhmana illustrano con  una campionatura abbondante. Non avevo dunqueintenzione di stabi¬  lire «gli insegnamenti degli inni stessi» e dei Bràhmana - che altri  (dopo Bergaigne e H. Glintert) avevano sufficientemente stabilito. In  Le Troisième Souverain, al contrario, con Aryaman abbordavo un pro¬  blema specificatamente indo-iranico e poco trattato: ho dunque dovu¬  to riprendere tutti i testi, discuterli e organizzare il dossier. Non vi è da  scrivere sul mio libretto da scolaro, di questo scolaro che sono felice di  essere e di rimanere, né contraddizioni né progressi nel metodo: a dei  soggetti, a dei bisogni diversi, a dei gradi ineguali di maturità della  materia hanno corrisposto dei procedimenti differenti.   Quanto alle tesi stesse di Thieme, le esaminerò nella Revue de  l'Histoire des Religions e mi sforzerò di rispondere con un’argomen¬  tazione serena a questa scherma da gladiatore. Enumererò gli apporti  positivi poiché ve ne sono. E dimostrerò come sotto le apparenze del  rigore filologico Thieme misconosca costantemente le prospettive,  ignori i dati statistici più evidenti e distrugga i rapporti più probabili e  sulla via così sgombra si avanzi con una sovrana fantasia verso le pagi¬  ne sorprendenti che terminano il suo libro.   In attesa, a coloro che sarebbero impressionati da questo mec¬  canismo, non posso che consigliare di rileggere, circa i grandi Àditya,  l’ammirevole esposizione di Abel Bergaigne, certamente vecchia su  molti punti, ma attenta sia al dettaglio dei testi che alle strutture del  pensiero, onesta e intelligente.    I J.C. Tavadia si era inizialmente sbaglialo ma fece in seguito I a più leale riparazione.   L’editoria italiana ha accolto con favori e fortune alterne l’opera di un  autore tanto discusso, controverso e innovativo, quale fu Georges Dumézil,  persona acuta, intelligente e ironica, spirito polemico e non di rado pungente  ma sempre pronto a rimettersi in discussione, mano a mano che l’inchiesta  scientifica progrediva, grazie anche ai suoi avversari oltre che ai colleghi che  accolsero positivamente il suo metodo. Il lettore nostrano troverà di piacevo¬  le lettura la traduzione della intervista francese: Un banchetto dì immortalità.  Conversazioni con Didier Eribon , Guanda, Milano 1992.   Spetta alle Einaudi l’esordio di Georges Dumézil nel panorama edito¬  riale del nostro dopoguerra, all’intemo di quella “collana viola” che non sen¬  za travaglio di intelletti e di coscienze (si legga il carteggio C. Pavese - E. de  Martino, La collana viola. Lettere Bollati Boringhieri, Torino a c. di P. Angelini) ha contribuito a diffondere autori importanti come  C.G. Jung, K. Kerény,L. Frobenius, G. van derLeeuw, M. Eliade. Il libro Ju-  piter, Mars, Quirinus, Torino 1955, è una traduzione di parti dell’originale,  più capitoli di altri volumi come Naissance de Rome, Naissance  d'Archanges, e Jupiter, Mars, Quirinus IV, 1948. Il catalogo della Ei¬  naudi ritornerà solo tardivamente, nel decennio degli ’80, a rioccuparsi di  Dumézil, traducendo Mito ed Epopea. La terra alleviata, 1982 (= Mythe et  epopee f) e Gli dei sovrani degli Indoeuropei, 1986.   Spetta alla Adelphi (Milano) la maggiore percentuale di libri tradotti,  a cominciare dalla raccolta di storie e leggende del Caucaso: // libro degli  Eroi. Leggende sui Nani, 1969 (ristampato nei tascabili economici della  Bompiani, Milano 1976), fino a Gli dèi dei Germani, 1974; Matrimoni Indo¬  europei, 1984; Le sortì del guerriero. Aspetti della funzione guerriera presso  gli Indoeuropei, 1990 (una prima traduzione di questo libro, condotta sulla  precedente edizione di Hetir etmalheur duguerrier, 1969, si deve ai tipi della  Rosemberg& Sellier: Ventura e sventura del guerriero,Tonno 1974). E infi¬  ne bisogna ricordare anche «...Il monaco nero in grigio dentro Varennes»,    141     1987 che è però un divertissement enigmistico-letterario sulle profezie di  Nostradamus.   Il catalogo della Rizzoli (Milano) si è arricchito di due opere importanti e poderose, oggi purtroppo introvabili, come La religione romana arca¬  ica, 1977 eStorie degli Sciti, 1980; mentre II Melangolo (Genova) ha tradotto  due volumi quali Idee romane, 1987 e Feste romane, 1989. Recentemente le  edizioni Mediterranee (Roma) hanno tradotto La saga di Hadingus. Dal mito  al romanzo. Fra le poche opere italiane su questo autore ricordiamo Rivière,   Dumézil egli studi indoeuropei. Una introduzione. Il Settimo Sigillo, Roma. Per una bibliografia completa delle opere di (e su) Dumézil  cf. la rivista Futuro presente 2/1993 diretta da Alessandro Campi (numero  monografico “Georges Dumézil e l’eredità indo-europea”): oltre a un dibatti¬  to su Dumézil in base alle aree storico-geografiche consuete nella sua ricerca  (Roma, Indo-Iranici, Caucaso, Germani), vi è un interessante articolo di Grisward sulle persistenze del modello trifunzionale nella società medioeva¬  le - suddivisione in oratores, bellatores, laboralores - e la traduzione di un ar¬  ticolo di Dumézil in risposta alle critiche di una versione francese di un saggio di Ginzburg (“Mitologia germanica e Nazismo”, apparso su Quaderni  Storici, ristampato in Id., Miti, emblemi, spie, Einaudi,  Torino) su un argomento, le presunte simpatie per la cultura nazista, già  affrontato da A. Momigliano, Rivista storica italiana. Sulle implicazioni politiche e razzistiche degli studi indoeuropei cf.  A. Piras, “Georges-Dumézil e iproblemi dell’Indoeuropeistica ”,/Quaderni  di Ava/lon e “Indoeuropeistica e cultura europea”, in  L 'Europa di fronte all'Occidente, Il Cerchio, Rimini. Per uno studio comparato delle istituzioni sociali, religiose, economi¬  che, amministrative, giuridiche, delle diverse culture parlanti idiomi indoeu¬  ropei, cf. E. Benveniste, // vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I-II, Ei¬  naudi, Torino 1979 (e più edizioni); si veda anche E. Campanile, “Antichità  indoeuropee”, in A. Giacalone Ramat& P. Ramat(a c. di), Le lingue indoeu¬  ropee, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 19-43 e J. Ries (a c. di), L 'uomo indoeu¬  ropeo e il sacro, Jaca Book-Massimo, Milano 1991.   Un argomento dibattuto da decenni come la nozione di “lingua poe¬  tica indoeuropea” (che consente di rintracciare nelle diverse letterature -  Edda, Beomtlf, poemi omerici. Veda, Avesta - elementi di una fraseologia co¬  mune ed ereditaria) è stato di recente affrontato in un libro eccellente di G.  Costa, Le origini della lingua poetica indeuropea, Leo Olschki, Firenze. Ries   La riscoperta del pensiero religioso indoeuropeo  L’opera magistrale di  Dumézil. Le tre funzioni sociali e cosmiche. Le teologie tripartite.  Le diverse funzioni nella teologia, nella mitologia  e nell 'epopea   Storia degli Studi. Aryaman e Paul Thieme  Bibliografia italiana di Dumézil. Emanuele Castrucci. Castrucci. Keywords: sul conferimento di valore,  il guerriero indo-germanico – Pound, conferire valore, implicanza pragmatica, l’implicanza di speranza, l’impieganza di speranza, Apel, prammatica.; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Castrucci” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Catalfamo – metafisica della libertà – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Grice: “I love Catalfamo; his ‘metaphysics of freedom’ is better than anything that soi-dissant Dame Mary Warnock wrote on ‘existentialism’! Catalfamo, like most Italian philosophers, take, as Strawson and I do, the concept of a ‘person’ seriously – indeed, so seriously that he, along with a few other Italian philosopher, turn it into an –ism: his is a critical personalism, though, best defined as an expansion from scepsis to hope. Della corrente del "personalismo storico o critico".  Si laurea in Pedagogia e in Scienze Politiche. Prima assistente volontario di Galvano Della Volpe (che definisce unico filosofo a livello di Croce), poi discepolo di Vincenzo La Via (che si era formato alla scuola di Gentile, del quale era stato assistente), e suo collaboratore dal 1946, diviene libero docente, incaricato di Pedagogia e infine ordinario di Pedagogia. Fonda e diviene direttore dell'Istituto di Pedagogia all'Messina.  Il suo pensiero si snoda in quattro fasi: dell'epistemologo, del personalista storico ed antidogmatico, dello scettico, dell'uomo di fede. La formazione filosofica (fu Assistente di ruolo di Filosofia e scrisse sulla rivista "Teoresi", fondata dai suo maestro La Via) traspare nel suo pensiero pedagogico, concepito, e nel tempo modificato, all'insegna dell'apertura e dell'innovazione anche didattica. Nel suo personalismo, che ha come principi critici la storicità, la trascendenza e la problematicità "egli rintraccia nuovi aspetti... e incomincia a fare i conti con la storia e le sue fenomenologie", " il personalismo... lentamente ma inesorabilmente si qualificherà come «storico»; la persona assume una significanza fenomenologica di unità... in costruzione", "Catalfamo collega l'esserci e il farsi della persona al flusso della realtà oggettiva, nel doppio senso: nell'influenza e stimolazione di questa verso quella e della trasformazione della realtà oggettiva ad opera della persona". "L'uomo come soggetto agente impedisce che l'esperienza sia un limite, cerca di oltrepassarla vedendo in essa quello che non è e quello che potenzialmente è. La persona, dunque, è una realtà trascendente". L'aspetto problematico del suo pensiero, infine, fa riferimento alla "posizione stessa della persona, la quale, costituita nell'esperienza, è radicata nella problematicità di essa, perché "il mondo per la persona è sempre un problema, così come un problema è il suo essere nel mondo".  Catalfamo è stato fondatore e direttore della rivista "Presenza" assieme al prof. Gianvito Resta; fondatore e direttore di "Prospettive pedagogiche", dal 1964 fino al 1988.  È stato anche Prorettore dell'Messina. Gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica, la Medaglia d'oro al merito della Scuola, della Cultura, dell'Arte. Il 12/02/, la Giunta del Comune di Messina gli ha intitolato un tratto di strada nei pressi dell'Università, all'Annunziata alta. Più recentemente, a Messina, si è tenuta una solenne cerimonia, nel corso della quale è stata scoperta una targa commemorativa, che riporta una sua rilevante riflessione, e gli è stato intitolato un Istituto Comprensivo.  Altre opere: Kant, Lezioni di pedagogia, Ed. Messina Empirismo pedagogico e filosofia, "Teoresi", anno IV, nn.1-2 Pedagogia e Filosofia, "Biblioteca dell'educatore", AVE, Milano Marxismo e Pedagogia, Avio, Roma Il fondamento della pedagogia. Disegno di una pedagogia personalistica, Sessa, Messina Personalismo pedagogico, (1958), Armando, Roma La pedagogia contemporanea e il personalismo, Armando, Roma L'educazione fondamentale, Armando, Roma I fondamenti del personalismo pedagogico, Armando, Roma La pedagogia dell'idealismo (corso universitario), Providente, Messina Elementi di psicopedagogia e pedagogia sperimentale (corso universitario), Providente, Messina Storia della pedagogia come scienza filosofica, Barbera, Firenze Criteriologia dell'insegnamento: la didattica del personalismo, Bemporad Marzocco, Firenze Personalismo senza dogmi, Armando, Roma Giuseppe Lombardo Radice, Ed. La Scuola, Brescia La pedagogia marxista sovietica (in collaborazione con Salvatore Agresta), Edizioni dell'Istituto, Messina La filosofia contemporanea dell'educazione, Istituto di Pedagogia, Messina Compendio di psicopedagogia e pedopsichiatria (in collaborazione con M. Vitetta), Parallelo 38, Reggio Calabria L'individualizzazione dell'insegnamento (in collaborazione con Salvatore Agresta), Peloritana editrice, Messina Lo spiritualismo pedagogico, EDAS, Messina Introduzione alla psicologia dell'età evolutiva (in collaborazione con L. Smeriglio), A. Signorelli Editore, Roma Ideologia e pedagogia, EDAS, Messina La pedagogia del personalismo storico, EDAS, Messina L'ideologia e l'educazione, Peloritana, Messina Aspetti della socializzazione, Peloritana, Messina Le illusioni della pedagogia, Milella, Lecce Fondamenti di una pedagogia della speranza,La Scuola, Brescia L'educazione politica alla democrazia, Pellegrini Editore, Cosenza Educazione della persona e socializzazione, EDAS, Messina Preliminari ad una dottrina dell'apprendimento, Catalfamo e il personalismo critico. "Nuove Ipotesi" D.U.E.M.I.L.A., Palermo. Il personalismo Catalfamo, Accademia Peloritana dei Pericolanti. Di qui ap-  punto si può anticipatamente scorgere, che le dif-  ficoltà più profonde incluse nel concetto di liberta,  si potranno risolvere coll’ idealismo in sè preso,  tanto poco quanto con qualunque altro sistema  parziale. L’ idealismo invero porge, della libertà,  da un lato il concetto più generale, dall’altro  quello meramente formale. Ma il concetto reale ’e  vivente è, che essa consista in una facoltà del  bene e del male.   Questo è il punto della difficoltà più grave, che,  in tutta la dottrina della libertà, è stata da lungo  tempo avvertita, e che tocca, non solo questo o  quel sistema, bensì, più o meno, tutti 1 : nel modo  più spiccato di cerio il concetto dell’immanenza;  poiché, o si ammette un male reale, e allora è  inevitabile collocare il male nell’ infinita sostanza o  nell’ originario volere stesso, con che si distrugge  interamente il concetto di un essere perfettissimo;  o bisogna negare in qualche maniera la realtà del  male, e con ciò svanisce insieme il concetto reale  di libertà. Non minore è l’intoppo, anche se inten-  diamo nel modo più esteso la relazione tra Dio e  gli esseri mondani; poiché, dato pure che essa  venga limitata al cosiddetto concursus, o a quella  necessaria cooperazione di Dio all’ agire delle crea-  ture, che dev’ esser accettata grazie alla essenziale  dipendenza loro da Dio, anche se vuoisi del resto  affermare la libertà: in tal caso però Dio apparirà  innegabilmente come cooperatore del male, giac-  ché il permetterlo in un essere in tutto e per tutto  dipendente non vai meglio che il contribuire a  produrlo; o anche qui, in un modo o nell’altro,  dovrà esser negata la realtà del male. La propo-  sizione, che tutto il positivo della creatura venga  da Dio, anche in questo sistema dev’essere affer-  mata. Ora, se si ammette che nel male vi sia al-    II sig. Fed. Schlegel ha il merito di aver fatto valere  questa difficoltà specialmente contro il panteismo nel suo  scritto sugl’ Indiani e in parecchi luoghi; ma è a deplorare  soltanto che quest’ acuto erudito non abbia creduto oppor-  tuno comunicare la sua propria veduta sull’ origine del  male c sul suo rapporto col bene. cunchè di positivo, anche questo positivo deriverà  da Dio. Qui si potrà opporre: il positivo del male,  in quanto positivo, è bene. Con ciò il male non  viene a sparire, benché non venga neppure spie-  gato Infatti, se ciò che nel male sussiste' è bene,  donde mai nasce ciò, in cui questo sussistente è,  la base, che forma propriamente il male? Tutta  diversa da quest’affermazione (sebbene spesso,  anche di recente, confusa con la prima) è 1’ altra,  che nel male, in ogni caso, non vi sia nulla di  positivo, o, per usare un’espressione diversa, che  esso non esista affatto ( neppure con e in un altro  elemento positivo), ma che tutte le azioni siano  più o meno positive, e che la differenza tra loro  consista in un semplice plus o minus di perfezione,  con che non si stabilisce alcuna opposizione, e  però il male svanisce interamente. Sarebbe questa  la seconda possibile ipotesi in rapporto alla propo-  sizione, che tutto il positivo scaturisca da Dio.  Allora la forza, che si mostra nel male, sarebbe  sì, al paragone, più imperfetta di quella che appare  nel bene, ma, considerata in sé, o fuori del para-  gone, sarebbe una perfezione pur sempre, la quale  dunque, come ogni altra, dev’ esser derivata da  Dio. Ciò che noi in tal caso chiamiamo un male,  è solo il minor grado di perfezione, il quale però  solo per il nostro bisogno di comparazione appare  come difetto, mentre nella natura non è punto. Che  questa sia la vera opinione di Spinoza, non è  possibile negare. Qualcuno potrebbe tentare di  sfuggire a quel dilemma, rispondendo: che il  positivo derivante da Dio sarebbe la libertà, la  quale è in se stessa indifferente verso il male e  il bene. Ma, se egli concepisce questa indifferenza,  non in modo puramente negativo, bensì come una    1 Nel testo: « Seietide. »    vivente e positiva facoltà di determinarsi al bene  e al male, non si vede come da Dio, che vien  considerato come pura bontà, possa mai seguire  una facoltà di eleggere il male. È evidente da ciò,  per dirla di passaggio, che, se la libertà è real-  mente quel che in conformità di questo concetto  deve essere (ed è immancabilmente), non si può  essa giustificare con la già tentata derivazione  della libertà da Dio; poiché, se la libertà è un  potere di far il male, essa dovrà avere una radice  indipendente da Dio. Così incalzati, si può esser  tentati di gettarsi in braccio al dualismo. Ma questo  sistema, se dev’ esser concepito effettivamente come  la dottrina di due principii opposti e tra loro indi-  pendenti, non è se non un sistema del suicidio e  dello sconforto della ragione. Se poi il principio  cattivo è pensato come dipendente in un certo  senso dal buono, tutta la difficoltà della deriva-  zione del male dal bene è certo concentrata in  un solo essere, ma viene così ad essere accresciuta  anziché diminuita. Anche supponendo che questo  secondo essere fu dapprincipio creato buono e per  propria colpa si staccò dall'essere originario, resta  sempre inesplicabile in tutti i sistemi, che si son  avuti finora, la prima facoltà di un atto di ribel-  lione a Dio. Perciò, anche se noi finiamo col  sopprimere, non solamente l’identità, ma ogni le-  game degli esseri mondani con Dio, considerando  la loro esistenza attuale e quella del mondo con  essa come un allontanamento da Dio, la diffi-  coltà è solo spostata di un punto, ma non tolta.  Infatti, per potere scaturire da Dio, essi dovevano  già esistere in un certo modo, e non si potrebbe  menomamente opporre al panteismo la dottrina  dell’emanazione, presupponendo essa un’originaria  esistenza delle cose in Dio e quindi naturalmente  il panteismo. A spiegare quell’ allontanamento, si  potrebbe solo addurre quanto segue. O esso è    involontario da parte delle cose, ma non da parte  di Dio: e allora, siccome esse da Dio furono get-  tate nello stato d’ infelicità e di malizia, Dio è  1’ autore di un tale stato. O è involontario da ambe  le parti, cagionato forse da esuberanza dell’ essere,  come alcuni affermano: rappresentazione insoste-  nibile affatto. O è volontario da parte delle cose,  uno svellersi da Dio, dunque la conseguenza di  una colpa, alla quale segue una sempre pivi pro-  fonda caduta: e allora questa prima colpa è già  per se stessa il male, e non dà alcuna spiega-  zione dell’ origine di esso. Senza un tale espe-  diente poi, che, se spiega il male nel mondo,  estingue viceversa, e interamente, il bene, e invece  del panteismo introduce un pandenionismo, sva-  nisce precisamente nel sistema dell’ emanazione  ogni proprio contrasto di bene e male; il Primo,  si perde per infiniti gradi intermedii, mediante un  graduale attenuarsi, in ciò che non ha più alcuna  parvenza di bene, suppergiù allo stesso modo in  cui Plotino, 1 con sottigliezza bensì, ma senza  lasciar appagati, descrive il transito del bene ori-  ginario nella materia e nel male. Invero, da un  costante processo di subordinazione e di allonta-  namento, vien fuori un Ultimo, di là dal quale il  divenire è impossibile, e questo appunto (ciò che  è incapace di produrre ulteriormente) è il male.  Ovvero: se qualche cosa è dopo il Primo, dev’ es-  serci anche un Ultimo, che del Primo non ha più  nulla in sè, e questo è la materia e la necessità  del male.   Dopo tali considerazioni, non sembra giusto  rovesciare tutto il peso di questa difficoltà su di  un solo sistema, specialmente se ciò che di più  alto si pretende di opporgli, è così poco soddi-    1 Ennead. I. L. Vili, c. 8.    sfacente. Anche le generalità dell’ idealismo non  ci possono dare qui alcun aiuto. Con dei concetti  lambiccati di Dio, come /’ actus purissimùs, del  genere di quelli che stabiliva la filosofia antica, o  di quelli, che la moderna cava fuori pur sempre,  con la preoccupazione di tenere Dio a gran di-  stanza dall’ intiera natura, non si riesce a nulla  di nulla. Dio è qualcosa di più reale che un sem-  plice ordinamento morale del cosmo, ed ha in sè  ben altre e ben più vive forze motrici di quelle  che P arida sottigliezza degl’ idealisti astratti gli  attribuisce. L’orrore per ogni realtà, quasi che lo  spirituale possa contaminarsi in ogni contatto con  essa, deve naturalmente produrre anche la cecità  per l’origine del male. L’idealismo, se non ha per  base un realismo vivente, diviene un sistema altret-  tanto vuoto e lambiccato, quanto il leibniziano, lo  spinoziano, o qualunque altro sistema dogmatico.  Tutta la nuova filosofia europea dal suo principio  (con Descartes) ha questo comune difetto, che la  natura non esiste per essa, e che le manca un  vivo fondamento. Il realismo dello Spinoza è per-  tanto così astratto, come l’idealismo del Leibniz.  L’idealismo è l’anima della filosofia; il realismo  n’ è il corpo; solo tutti e due insieme fanno un  tutto vivente. Il secondo non può mai offrire il  principio, ma bisogna che sia la base ed il mezzo,  in cui quello si realizza, prendendo carne esangue.  Se ad una filosofia manca questo fondamento vivo,  il che d’ ordinario è segno che anche il principio  idea'e aveva originariamente in essa una debole  efficacia: essa verrà a perdersi in quei sistemi, i  cui distillati concetti di aseità, modificazioni ecc.  stanno nel più acuto contrasto con la forza vitale  e la pienezza della realtà. Dove poi il principio  ideale è fornito davvero e in alta misura di forza  operativa, ma non può trovare una base di conci-  liazione e di mediazione, produrrà un torbido e selvaggio entusiasmo, che finirà nella macerazione  di se stessi, o, come accadeva ai sacerdoti della  dea Frigia, nell’ evirazione, la quale in filosofia si  compie abbandonando la ragione e la scienza.   È parso necessario incominciare questo trattato  con la giustificazione di concetti essenziali, che  da lungo tempo, ma in particolare ultimamente,  sono stati ingarbugliati. Le osservazioni fatte si-  nora debbono perciò considerarsi come semplice  introduzione alla nostra indagine vera e propria.  Noi l’abbiamo già dichiarato: solo con i prin-  cipii d: una vera filosofia della natura si può  svolgere quella veduta, che dà completa soddisfa  zione al tema che ci proponiamo. Noi non ne-  ghiamo perciò che una tale esatta veduta sia stata  già da lungo tempo anticipata da alcuni intelletti.  Ma erano anch’ essi appunto quelli, che senza te-  mere gli epiteti ingiuriosi di materialismo, pantei-  smo ecc., usuali da un pezzo contro ogni filosofia  realistica, cercavano il principio vivente della na-  tura, e, in contrapposto ai dogmatici ed agl’idea-  listi astratti, che li respingevano come mistici,  erano filosofi naturali (nell’ uno e nell’altro senso).   La filosofia naturale dei nostri tempi ha per la pri-  ma volta introdotta nella scienza la distinzione tra  l’essere, in quanto esiste, e l’essere, in quanto  è semplice fondamento di esistenza. Tale distin-  zione è vecchia quanto la prima esposizione scien-  tifica di essa. 1 Nonostante che proprio in questo  punto essa diverga nel modo più reciso dalla via  di Spinoza, pure in Oermania si è poiuto fin adesso  affermare che i suoi principii metafisici siano tut-  t’uno con quelli di Spinoza; e sebbene quella distin-  zione appunto porti nello stesso tempo la più recisa    1 Si veda nella Zeitschrift tur spekul. Physik Bd. II,  Heft 2, § 54 nota, [IV, S. 146], inoltre nota 1 al § 93 e la  spiegaz. a p. 114 [S. 203).  distinzione della natura da Dio, ciò non ha im-  pedito che la si accusasse di confondere Dio con  la natura. Poiché sulla medesima distinzione si  fonda la presente ricerca, sia detto quanto segue  a fine d’ illustrarla.   Non esistendo nulla prima o fuori di Dio, con-  viene che egli abbia in se stesso il fondamento della  sua esistenza. Cosi dicono tutti i filosofi; ma  essi parlano di questo fondamento come di un  puro concetto, senza farne alcunché di reale e di  effettivo. Questo fondamento della sua esistenza,  che Dio ha in sé, non è Dio assolutamente con-  siderato, cioè in quanto esiste; poiché esso non  è se non il fondamento della sua esistenza, esso  è la natura in Dio; un essere inseparabile, è  vero, ma pur distinto da lui. Questo rapporto si  può chiarire analogicamente con quello tra la  forza di gravità e la luce nella natura. La forza  di gravità precede la luce, come suo eternamente  oscuro fondamento, il quale per se stesso non è  actu e si dilegua nella notte, mentre la luce  (l’esistente) sorge. 11 suggello, sotto cui essa è  chiusa, non è sciolto interamente neppur dalla  luce. ' Appunto perciò essa non è nè l’ essenza  pura nè l’essere attuale dell’ assoluta identità, ma  non fa se non seguire dalla sua natura;* * o essa  è, considerata in altri termini nella potenza deter-  minata: poiché del resto, anche ciò, che relati-  vamente alla forza di gravità appare come esistente,  in se stesso poi appartiene al fondamento, e la  natura in genere è pertanto ciò che rimane di là  dall’essere assoluto dall’identità assoluta. 3 Per  quanto del resto concerne quella precedenza, essa  non è a concepirsi nè come precedenza di tempo,  nè come priorità di essenza. Nel circolo, da cui  ogni cosa deriva, non v’ è alcuna contradizione  ad ammettere che ciò, da cui 1’ Uno è prodotto,  sia alla sua volta prodotto da esso. Non v'è qui  un primo ed un ultimo, perchè tutto si presuppone  a vicenda, nessuna cosa è 1’ altra e tuttavia non è  senza l’altra. Dio ha in sè un intimo fondamento  della sua esistenza, che in questo senso precede  lui come esistente; ma Dio a sua volta è del pari il  Prius del fondamento, giacché questo, anche come  tale, non potrebbe essere, se Dio non esistesse actu.   Alla medesima distinzione porta la riflessione  scaturiente dalle cose. Primieramente è da lasciare  affatto in disparte il concetto dell’ immanenza, in  quanto esprima per avventura una morta compren-  sione delle cose in Dio. Noi riconosciamo piut-  tosto, che il concetto del divenire sia l’unico ap-  propriato alla natura delle cose. Ma queste non  possono divenire in Dio, assolutamente conside-  rato, mentre sono tato genere , o per parlare più  giusto, infinitamente diverse da lui. Per essere  staccate da Dio, occorre che divengano in una  base differente da lui. Ma nulla potendo essere  fuori di Dio, la contradizione si scioglie solo am-  mettendo, che le cose abbiano la loro base in ciò  che in Dio non è Egli stesso ', ovvero in ciò che  è base della sua esistenza.   Se vogliamo accostare maggiormente quest’ es-  sere all’ intelletto umano, possiamo dire : che egli  sia il desiderio, che sente l’Eterno Uno, di generare    1 È questo l’unico vero dualismo, cioè quello che nello  stesso tempo concede un’unità. Più su era in questione il  dualismo modificato, secondo cui il principio malvagio è, non  coordinato, ma subordinato al buono. C’e appena datemere  che qualcuno confonda il rapporto stabilito qui con quel  dualismo, in cui il subordinato è sempre un principio es-  senzialmente cattivo, e appunto perciò rimane totalmente  incomprensibile nella sua origine da Dio.  se stesso. Non è l’Uno stesso, ma pure è coeterno  con lui. Vuol generare Dio, cioè l’impenetrabile  unità, ma in questo senso non è in se stess’o an  cora V unità. È dunque, considerato per sè, anche  volere; ma volere in cui non c’è intelligenza, e però  anche, non autonomo e perfetto volere, perchè l’in-  telletto propriamente è il volere nel volere. Tuttavia  esso è un volere che si dirige all’ intelletto, cioè  desiderio e brama di esso; non un conscio, ma  un presago volere, il cui presagio è l’intelletto.  Noi parliamo dell’essenza del desiderio in sè e  per sè considerata, che dev’essere ben tenuta  d’occhio quantunque sia stata da gran tempo sop-  piantata dal principio superiore, che si è elevato  da essa, e quantunque non possiamo afferrarla  sensibilmente, ma solo con lo spirito e col pen-  siero. Secondo l’eterno atto dell' auto- rivelazione,  tutto invero nel mondo, come lo scorgiamo adesso,  è regola, ordine e forma; ma nel fondo c’è pur  sempre l’irregolare, come se una volta dovesse  ricomparire alla luce, e non sembra mai che l’ or-  dine e la forma siano l’originario, ma che qual-  cosa di originariamente irregolare sia stata solle-  vata ad ordine. Questo è nelle cose l’inafferrabile  base della realtà, il residuo non mai appariscente,  ciò, che, per quanti sforzi si facciano, non si può  risolvere in elemento intellettuale, ma resta nel  fondo eternamente. Da questo Irrazionale è,- nel  senso proprio, nato l’ intelletto. Senza il precedere  di questa oscurità, non v’è alcuna realtà della  creatura; la tenebra è il suo retaggio necessario.  Dio solo — egli medesimo l’Esistente — abita  nella pura luce, poiché egli solo è da se stesso.  La presunzione dell’ uomo si ribella assolutamente  a quest’origine, e anzi va in cerca di principi!  morali. Tuttavia non sapremmo che cos'altro po-  tesse maggiormente spinger l’ uomo a tendere con  tutte le sue forze verso la luce, che la coscienza  della profonda notte, da cui egli è stato tratto al-  l’esistenza. I lamenti feminei, che in tal modo si  ponga F inintelligente come radice dell’intelletto, la  notte come principio della luce, si fondano in  parte su di un’equivoca interpretazione della cosa  (in quanto non si capisce, come con questa ve-  duta la priorità dell’intelletto e dell’essenza secon-  do il concetto possa tuttavia sussistere); ma essi  esprimono il vero sistema degli odierni filosofi,  che volentieri produrrebbero fumum ex fulgore, al  che non basta la potentissima precipitazione fich-  tiana. Ogni nascita è nascita dall’ oscurità alla  luce; il seme dev’essere profondato nella terra e  morire nelle tenebre, affinchè la bella e luminosa  forma vegetale si aderga e si spieghi ai raggi del  sole. L’uomo vien formato nel corpo della madre;  e dal buio dell’irrazionale (dal sentimento, dalla  brama , 1 splendida madre della conoscenza) germo-  gliano i luminosi pensieri. Noi pertanto dobbia-  mo rappresentarci la brama originaria, come diri-  gentesi verso l’intelletto, che essa non ancora  conosce, così come noi nell’aspirazione aneliamo  ad un bene ignoto e senza nome, e agitantesi pre-  saga, come un mare che ondeggia e ribolle, simile  alla materia di Platone, secondo una legge oscura  ed incerta, senza la capacità di formare qualcosa  che duri. Ma, rispondendo alla brama, che, quale  fondamento ancora oscuro, è il primo segno di  vita dell’essere divino, si genera in Dio stesso  un’ intima riflessiva rappresentazione, mercè la  quale, poiché non può avere altro oggetto che  Dio, Dio contempla in una immagine se stesso.  Tale rappresentazione è la prima forma in cui si  realizza Dio, assolutamente considerato, benché  solo in lui stesso ; è in Dio inizialmente, ed è Dio    1 Nel testo: « Sehnsucht ». stesso generato in Dio. Tale rappresentazione è  ad un tempo l’ intelletto — il verbo di quell’ aspi-,  razione,* e l’eterno spirito, che sente in ih il  verbo e insieme l’infinita aspirazione, mosso dal-  l’amore, che è egli medesimo, esprime il verbo,  che oramai, accoppiandosi l’intelletto all’aspira-  zione, diviene volontà liberamente creativa e onni-  potente, e nella natura, dapprincipio sregolata, pro-  duce come in un suo elemento o strumento. 11  primo effetto dell’ intelligenza in essa è la separa-  zione delle forze, potendo egli solo così dispie-  gare l’unità che vi è contenuta inconsciamente,  quasi in un seme, eppur necessariamente, a quel  modo stesso che nell’ uomo la luce s’ insinua nel-  l’oscuro desiderio di cercare qualcosa, per il fatto,  che nel caotico tumulto dei pensieri, che tutti  s’intrecciano, ma ognuno impedisce all’altro di sor-  gere, i pensieri si scindono e sorge l’unità, che è  nascosta nel fondo e che tutti li comprende sotto di  sè; o come nella pianta, solo nel rapporto del di-  spiegarsi e propagarsi delle forze, si scioglie l’o-  scuro vincolo della gravità e viene a svilupparsi  l’unità nascosta nella materia distinta. Poiché in-  vero quest’essere (della natura primordiale) non  è altro che l’eterno fondamento dell’esistenza di  Dio, perciò deve contenere in se stesso, benché  chiara, l’essenza di Dio, quasi un lume di vita  risplendente nell’oscurità. II desiderio poi, eccitato  dall’ intelligenza, tende ormai a conservare quel  lume di vita che ha accolto in sè, e a rinchiudersi  in se stesso, per rimanere pur sempre come fon-  damento. Quando perciò l’intelletto, o il lume  posto nella natura primordiale, spinge alla sepa-  razione delle forze (all’abbandono dell’oscurità) il  desiderio che si ritira in se stesso, facendo sor-    1 Nel senso in cui si dice: la parola dell’enigma.    gere, appunto in questa separazione, l’unità in-  clusa nel distinto, il nascosto lume di vita, nasce  in tal modo per la prima volta alcunché di com-  prensibile o di singolo, e in verità, non per via  di rappresentazione esterna, bensì di vera imma-  ginazione , ' poiché quel che sorge nella natura è  figurato di dentro; o, più esattamente ancora, per  via di un risveglio, in quanto che l’intelletto fa  sorgere l’unità o l’idea occultata nel fondamen-  tale distinto . 1 2 Le forze separate (ma non comple-  tamente staccate) in tale distinzione son la materia,  onde poi è configurato il corpo; invece il legame  vivente che nasce nella distinzione, e però dall’imo  fondo naturale, come centro delle forze, è l’ani-  ma. Siccome l’intelletto originario trae l’anima,  come elemento interiore, da un fondo indipen-  den e da esso, rimane perciò anch’essa indipen-  dente, come un’essenza speciale e sussistente di  per sé.   È facile vedere, che nella resistenza del desi-  derio, necessaria alla perfetta nascita, il legame  strettissimo delle forze si scioglie in uno svolgi-  mento che avviene per gradi e, ad ogni grado  della separazione delle forze, sorge dalla natura un  nuovo essere, la cui anima sarà tanto più perfet-  ta, quanto più contiene distinto ciò, che negli  altri è ancora indistinto. Mostrare come ogni suc-  cessivo processo venga ad avvicinarsi sempre  più all’essenza della natura, finché nella massima  separazione delle forze si schiude il più intimo  centro, è ufficio di una perfetta filosofia della  natura. Per lo scopo presente è essenziale quanto  segue. Ognuno degli esseri, sorti nella natura    1 Nel testo ; Ein-Bildilng, onde un gioco di parole intra-  ducibile nella nostra lingua. Alla lettera; « nel fondamento distinto »; in dcm geschie-  denen Grande. (N. d. T).  secondo la maniera indicata, ha in sè un doppio  principio, che è uno e identico in fondo, ma si-  può considerare sotto due aspetti. Il primo prin-  cipio è quello, per cui essi son distinti da Dio,  o per cui sono nel solo fondamento; ma, siccome  tra ciò, che è esemplato nel fondamento, e ciò,  che è esemplato nell’intelletto, ha pur luogo una  originaria unità, e il processo della creazione tende  solo a trasmutare internamente o a rischiarare  nella luce il principio originariamente oscuro  (perchè l’intelletto, o la luce introdotta nella na-  tura, cerca in fondo propriamente la luce affine,  rivolta a loro): così il principio tenebroso per sua  natura è appunto quello, che è insieme rischia-  rato nella luce, ed entrambi, sebbene in determi-  nato grado, son uno in ogni essere naturale. Il  principio, in quanto nasce dal fondo ed è oscuro,  è il volere individuale della creatura, il quale però,  in quanto non è ancora assurto (non comprende)  a perfetta unità con la luce (come principio del-  l’intelletto), è mera passione o brama, ossia vo-  lere cieco. A questo volere individuale della crea-  tura si contrappone l’intelletto come volere univer-  sale, che si serve del primo, subordinandolo a  sè come semplice strumento. Se infine, proce-  dendo la trasformazione e separazione di tutte le  forze, è messo in piena luce il punto più interno  e profondo della primordiale oscurità in un es-  sere, allora il volere di quest’essere è bensì, in  quanto esso è un individuo, egualmente un vo-  lere particolare, ma in sè, o come centro di tutti  gli altri voleri particolari, è uno col volere origi-  nario o coll’intelletto, cosicché di entrambi si fa  ora un unico insieme. Quest’elevazione del più  profondo centro alla luce non accade in nes-  suna delle creature a noi visibili fuorché nel-  l’uomo. Nell’uomo è tutta la potenza del principio  tenebroso e ad un tempo tutta la potenza della luce. In lui è il più profondo abisso e il più alto  cielo, o entrambi i centri. Il volere dell’uomo è  il germe occultato nell’ eterna brama di un Dio  esistente ancora nel fondamento; il divino lume  di vita chiuso nel profondo e che Dio vide, quando  concepì il volere di crear la natura. In lui soltanto  (nell’ uomo) Dio ha amato il mondo; e la brama  accolse nel suo centro appunto quest’immagine  di Dio, quando entrò in conflitto con la luce.  L’uomo per ciò, che egli scaturisce dall’ imo fondo  (è una creatura), ha in sè un principio indipen-  dente per rapporto a Dio; ma per ciò, che sif-  fatto principio — senza cessare tuttavia di essere  tenebroso nel suo fondo — è chiarificato nella  luce, si schiude insieme in lui qualcosa di più  alto, lo spirito. Infatti l’eterno spirito esprime  l’unità o il verbo nella natura. 11 verbo espresso  (reale) poi è solo nell’unità di luce e tenebre  (vocale e consonante). Ora in tutte le cose vi  sono bensì i due principii, ma senza piena conso-  nanza, a causa della manchevolezza di ciò che è  elevato dal fondo. Solo nell’uomo dunque è piena-  mente espresso il verbo, che in tutte le altre cose  è ancora arrestato e incompiuto. Ma nel verbo  espresso viene a rivelarsi lo spirito, cioè Dio, esi-  stente come actu. Essendo poi l’ anima identità  vivente dei due principii, essa è spirito; e lo spi-  rito è in Dio. Ora, se nello spirito dell’ uomo  l’identità dei due principii fosse altrettanto indis-  solubile che in Dio, non vi sarebbe alcuna diffe-  renza, cioè Dio, come spirito, non si rivelerebbe.  Quella medesima unità, che in Dio è inseparabile,  deve essere adunque separabile nell’ uomo, — ed  ecco la possibilità del bene e del male.  libertà Capacità del soggetto di agire (o di non agire) senza costrizioni o impedimenti esterni, e di autodeterminarsi scegliendo autonomamente i fini e i mezzi atti a conseguirli. La l. può essere definita in riferimento a tre elementi: il soggetto o i soggetti di l. (chi è libero), i campi entro cui essi sono liberi (definiti dai vincoli), gli scopi o i beni socialmente riconosciuti che si è liberi di perseguire (che cosa si è liberi di fare). Come vi sono vari tipi di agenti che possono essere liberi (persone, associazioni, Stati), così vi sono molti tipi di condizioni che li vincolano e innumerevoli generi di cose che essi sono liberi o non liberi di fare. In questo senso esistono molte l. diverse (morale, giuridica, politica, religiosa, economica, ecc.). Di conseguenza, quando cerchiamo di definire stati di l., abbiamo a che fare con questioni relative all’identificazione di chi, sotto quale descrizione pertinente per il riconoscimento collettivo, è libero di fare che cosa, rispetto a quali vincoli, entro quale campo di azione e significato sociale. La riflessione sul tema della l. accompagna tutta lo storia del pensiero filosofico, dall’antichità all’epoca contemporanea, con accenti e approcci diversi.   Il tema della libertà nella filosofia antica. Nel pensiero di Socrate hanno un grande rilievo i due motivi, strettamente connessi tra loro, della involontarietà del male e dell’attraenza del bene. Socrate è convinto che nessuno fa il male volontariamente, cioè per il gusto di fare il male, e che ognuno agisce sempre in vista di quello che egli crede sia il bene e il meglio per lui. Se per questo verso Socrate resta all’interno del cosiddetto soggettivismo dei sofisti, nel senso che anche per lui non è mai possibile uscire dall’ambito delle valutazioni, dei gusti e delle preferenze individuali, tuttavia questi vengono continuamente giudicati, criticati e discussi attraverso il διαλέγεσϑαι («il disputare») e ciò permette di ritrovare criteri comuni e validi universalmente. Fare il male, per Socrate, vuol dire seguire un bene apparente invece del bene reale; infatti, se uno conoscesse il bene, lo farebbe anche, perché il bene è tale che, una volta conosciuto, attrae irresistibilmente la volontà dell’uomo e si presenta senz’altro come ciò che è preferibile. Di qui l’equazione socratica di scienza e virtù, strettamente connessa all’eudemonismo che caratterizza tutta l’etica socratica. Di qui, implicitamente, una concezione della l. come meta raggiungibile attraverso la scienza. Questa concezione ritorna anche in Platone, sia pure all’interno di una prospettiva escatologica: si pensi al mito di Er (Repubblica,X), il guerriero che ha passato dodici giorni nell’Ade e che può ricordare ciò che ha visto. L’anima, che è immortale, deve reincarnarsi ciclicamente per espiare i peccati che ha commesso, e poiché essa ricorda le sue vite precedenti, può scegliere fra vari «modelli di vita». Ciascuna anima è responsabile della propria scelta, «la divinità non vi ha minimamente parte», e ognuna avrà, per guidarla nella sua vita, il demone che si sarà scelto. Una volta avvenuta la decisione, non ci sarà più possibilità di sottrarvisi. Ma solo chi ha ascoltato la filosofia sa riflettere con discernimento: se la scelta, dunque, è libera, di questa l. è possibile fruire nel migliore dei modi solo attraverso la filosofia. Anche in Aristotele troviamo il consueto rapporto greco tra l. e conoscenza. Secondo l’analisi svolta nell’Etica nicomachea (III, 1), involontarie sono quelle operazioni «che avvengono per costrizione» o «per ignoranza»; la costrizione ha luogo ogni volta che «il principio dell’azione sia esteriore, di modo che l’agente, o paziente, non vi contribuisca per nulla». Quanto alle azioni commesse per ignoranza, l’involontarietà deriva dal fatto che «ogni malvagio ignora ciò che si deve fare e ciò da cui ci si deve astenere». Pare dunque, conclude Aristotele, che «sia volontario ciò il cui principio si trova nell’agente che conosce tutte le circostanze particolari dell’azione». In questo modo Aristotele congiunge strettamente la l. del volere alla scelta volontaria. Un’ampia analisi dei problemi connessi con la libertà ci dà Plotino nelle Enneadi (VI, 8). Egli si chiede «se sia qualche cosa rimessa alla nostra libertà», e poiché moltissime sono le passioni che ci trascinano, «noi ci domandiamo perplessi», dice Plotino, «se non siamo, per avventura, altro che nulla, e nulla sia rimesso alla nostra libertà». Plotino riconduce la l. del volere non a un impulso sensibile, bensì «al retto ragionamento e alla giusta tendenza»; è necessar io, insomma, che «la ragione e la conoscenza si rivolgano proprio contro l’impulso e lo vincano». Perciò esse devono rifarsi a un principio non-sensibile, a una non-sensibile tendenza al bene. Coloro che sono guidati da impulsi sensibili, non potremo considerarli, sostiene quindi Plotino, «compresi sotto un principio di l., perché anche agli incapaci, che agiscono per lo più in quel modo, non riconosceremo mai l. del volere: a chi, invece, per la virtù operosa del suo intelletto, è immune dalla passionalità del corpo, attribuiremo veramente la libera indipendenza». Cristianesimo e Riforma. Sul concetto di l. influisce in modo profondo l’avvento del cristianesimo. Hegel osservava a questo proposito (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 482) che intere parti del mondo, l’Africa e l’Oriente, non avevano mai avuto questa nuova idea della l.; i Greci e i Romani, Platone e Aristotele, e anche gli stoici sapevano solo che l’uomo è realmente libero in virtù della nascita (come cittadino spartano, ateniese, ecc.) o in virtù della forza del carattere e della cultura, in virtù della filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Ma una nuova idea di l. si afferma per opera del cristianesimo; per il quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e a far sì che questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo in sé è destinato alla somma libertà. Se il concetto di l. del volere diventa centrale per il cristianesimo, perché senza la l. dell’uomo non sarebbe concepibile il peccato, e dunque non avrebbe senso alcuno la redenzione, tuttavia il concetto di l. deve congiungersi strettamente a quello di grazia divina, a un qualcosa cioè di esterno e indipendente. Agostino sente la necessità di affermare la responsabilità umana e insieme un prestabilito disegno divino. A Pelagio, che asseriva che il volere umano, dopo il peccato, può anche volgersi al bene, Agostino risponde che certamente «può»; ma la maniera in cui riesce concretamente a volere quel bene che «può» volere è che le reali forze di volerlo gli siano date da quello stesso vivente Bene a cui volse le spalle. E a Giuliano d’Eclano Agostino risponde che la predeterminazione divina non annulla ma include il libero arbitrio umano e le sue scelte, e che, se Dio concede il suo aiuto a chi vuole, ciò non toglie che con un volere libero, sebbene ridestato dall’aiuto divino, l’uomo riesca a volere il bene, sicché un reale merito, per quanto reso possibile solo dalla grazia, è premiato con la salvezza. Tommaso, a sua volta, sostiene che il poter fare il male proviene sì dalla l., ma da un suo difetto, non da una sua perfezione: «che il libero arbitrio possa scegliere oggetti diversi rispettando l’ordine delle finalità, appartiene alla perfezione della l.: ma che scelga alcunché travolgendo tale ordine – ciò che è peccare – questo appartiene a un difetto di libertà» (Summa theologiae). Dopo il Medioevo, nel quale la soluzione agostiniana è accolta da taluni con più intensa accentuazione dell’onnipotenza della grazia nel volere umano, da altri con maggiore preoccupazione di mostrare che il libero arbitrio non è tolto neppure dall’onnipotenza della grazia, il Cinquecento è il secolo nel quale la questione è ridiscussa interamente. Da un’interpretazione di Agostino sorgono le dottrine di Calvino e di Lutero, entrambe negatrici di ogni libero arbitrio umano, entrambe affermatrici di una l. nel bene che coincide con la più rigorosa necessitazione del volere umano da parte della grazia. Per i rifor- matori la l. cristiana è una realtà ‘spirituale’: essi avversano con decisione la sua interpretazione distorta in termini politici. Se Lutero, tornando a un’interpretazione di Paolo, si impegna a fondo nella critica della l. cristiana come libertas ecclesiae, che nient’altro diviene se non l’insieme dei privilegi, delle immunità e delle rivendicazioni dell’istituzione ecclesiastica, Calvino sottrae al regimen politicum o all’ordinamento civile il concetto della l. cristiana, che viene invece ascritto all’ambito autonomo della teologia. La tesi della l. della coscienza vincolata soltanto alla parola di Dio, in quanto tale non sottoposta ad alcuna autorità ecclesiastica o secolare, e l’aperta protesta contro una simile coartazione della coscienza, il rigetto delle pretese mondane di potere della Chiesa e della sua sovraordinazione all’ambito statuale-secolare prepareranno la strada alla concezione moderna della l. e al dibattito sul suo significato politico-giuridico.   Il dibattito su libertà e necessità. Nel Seicento, Spinoza ripristina il concetto stoico dell’universale necessità e il concetto parimenti stoico di una l. che non presuppone, anzi nega il libero arbitrio, ed è fatta consistere nel riconoscimento e nell’accettazione della necessità universale stessa. Nel secolo seguente abbiamo la concezione di Kant, con la sua distinzione tra leggi della necessità, che regolano i fenomeni dell’Universo naturale, e le leggi morali o leggi della libertà. Per «l. morale» si deve intendere, secondo Kant, la facoltà di adeguarsi alle leggi che la nostra ragione dà a noi stessi. Noi possiamo dunque scegliere tra il seguire la causalità empirica, che rende il nostro volere eteronomo, e l’obbedire alla legge morale che, esprimendo l’essenza più profonda del nostro Io, rende il nostro volere autonomo e, così, libero. E come l’essenza profonda del nostro essere è la l., così all’origine dell’intero Universo che alla scienza si presenta determinato, è il libero volere di un Essere intelligente, che ordina teleologicamente ciò che alla conoscenza scientifica appare invece meccanicamente causato. La l. come autonomia morale dell’uomo e sua intima dignità è il grande concetto che Fichte svolge, riprendendolo da Kant. Al concetto, elaborato da alcuni scolastici, di «l. o arbitrio d’indifferenza» (facoltà di volere, immotivatamente o indifferentemente, l’una o l’altra di due cose contrarie o anche nessuna delle due), che, non sapendo o non potendo risolvere la propria indifferenza, resta in fondo un’inerte possibilità d’azione, Hegel oppone un concetto più concreto della l., quello della l. come autodeterminazione e intima spirituale necessità. Al determinismo positivistico reagiscono tutte le filosofie del «ritorno a Kant», intese a salvare la l. della condotta morale. E, nel quadro del ritorno all’idealismo classico dei primi decenni dell’Ottocento, i movimenti neohegeliani insistono sulla hegeliana coincidenza di l. e necessità, rinnovando la polemica contro il mero arbitrio o l. d’indifferenza. Il rifiuto della concezione hegeliana della l. come processo speculativo della ragione universale distingue invece il pensiero di Marx, che identifica la l. con un processo di liberazione economica, politica e sociale volto ad affrancare l’uomo dal bisogno e dalla lotta di classe e a creare le condizioni per una concreta autorealizzazione materiale e spirituale. Per tutt’altra via passa l’opposizione all’hegelismo intrapresa dal contingentismo, per il quale nella l. è da vedere anzitutto indeterminazione; e spontaneità, piuttosto che autodeterminazione, cioè autonomia, è la l. per la filosofia dello «slancio vitale» (Bergson). Nell’esistenzialismo la l. viene a coincidere con la stessa necessità della situazione, di fronte alla quale l’uomo non ha altra scelta che accettarla consapevolmente o piombare nella «esistenza inautentica», come in Heidegger. In L’essere e il nulla Sartre sostiene che l’uomo è «essenzialmente» libero di scegliere, in quanto sua caratteristica è la «mancanza», il «nulla» di essere, ed è perciò continuamente teso alla scelta di possibilità esistenziali. L’equivalenza, di qui derivante, di tutte le scelte viene tuttavia eliminata nelle opere successive.   Il dibattito contemporaneo. Il significato politico-giuridico del concetto di l. è al centro del dibattito contemporaneo. Particolarmente influente è stata a questo riguardo la distinzione espressa da Berlin fra l. negativa e l. positiva, fra l. da e l. di: la prima concerne l’area entro la quale una persona è o dovrebbe essere lasciata fare o essere ciò che è in grado di fare o essere senza interferenze da parte di altre persone. La seconda riguarda l’area in cui si situa la fonte del controllo e dell’interferenza che può determinare che qualcuno faccia o sia una cosa piuttosto che un’altra. La l. negativa corrisponde alla l. dei ‘moderni’ di Constant, che ne definisce appunto il senso e il valore nella celebre contrapposizione con la l. degli ‘antichi’; essa è l’indipendenza individuale difesa da J.S. Mill: il soggetto della l. negativa è l’individuo, e l’arena della l. negativa è circoscritta da un confine che, per quanto mobile e variamente tracciato, separa la sfera ‘privata’ dalla sfera ‘pubblica’, la sfera individuale da quella collettiva. L’assenza di vincoli o interferenze va quindi interpretata principalmente come assenza di vincoli o interferenze da parte dei detentori di autorità legittima, che è tale se e solo se non viola o viola il meno possibile l’autonomia individuale. Contro la distinzione analitica dei due concetti di l. si è espresso Rawls nella sua teoria della giustizia come equità. La l. o, meglio, il sistema delle l. è oggetto del primo principio di giustizia. Esso prescrive che il sistema delle l. sia per ciascuno il più ampio possibile, compatibilmente con il sistema delle l. di ciascun altro. Nella prospettiva di Rawls, la massimizzazione del sistema delle l. individuali è prioritaria rispetto a quanto prescritto dal secondo principio di giustizia, il cosiddetto principio di differenza, che deve modellare le istituzioni responsabili della distribuzione di una classe particolare di risorse, considerate come beni sociali primari spettanti a tutti i cittadini. Accettare la priorità dell’eguale sistema delle l. implica accettare un principio di equità nella distribuzione dei beni sociali primari, in quanto un eguale sistema di l. non ha, di regola, eguale valore per individui diversamente dotati. Proponendo un ordinamento fra l. ed equità, espresso dalla priorità del principio di l. sul principio di differenza, Rawls ha di mira la soluzione di un conflitto fra la l. e un altro valore sociale quale l’uguaglianza. A questa prospettiva, e ai suoi importanti sviluppi ad opera di Sen e di Dworkin, si contrappone radicalmente la tesi sui diritti negativi propria della teoria libertaria. In partic., Nozick ha confutato la pretesa di teorie della giustizia distributiva di proporre criteri o modelli di distribuzione giusta. Se ci si basa sull’assegnazione di valore intrinseco alla l. individuale, qualsiasi precetto distributivo è inaccettabile perché non può che violare la l. individuale stessa. Nella più recente controversia nell’ambito della teoria normativa, il conflitto distributivo ha finito per lasciare spazio ad altro tipo di conflitto, il conflitto di identità o conflitto per il riconoscimento. E questioni relative all’assegnazione di valore alle l. si sono così connesse a questioni di riconoscimento di nuove identità o di identità prima escluse, a questioni di inclusione in o esclusione da comunità di ‘pari’ dai differenti confini.Elzeviro Catalfamo. Il personalismo di Catalfamo. Giuseppe Catalfamo. Keywords: metafisica della libertà, il concetto di persona, la transubstanziazione dell’umano nella persona, identita personale, il concetto di persona, pronome personale, la prima persona duale --, il ‘noi’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catalfamo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Catena: l’implicatura conversazionale della logica matematica -- logica arimmetica – la base arimmetica della metafisica – filosofia veneziana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “I love Catena – of course he thought he was being an Aristotelian – and the confusing title he gave to his philosophising – Universa loca Aristotelis’ would have you think that – but he is a thorough Platonist – consider ‘pulcher’ as applied to Alicibiades – but ‘pulcher’ gives ‘pulchrum,’ an universal --!” Precursore della rivoluzione scientifica rinascimentale, indaga i rapporti tra matematica, logica e filosofia, occupando la stessa cattedra in seguito occupata da Galilei. Filosofo, eccellente conoscitore del latino. Lettore pubblico di metafisica a Padova. Gli succedettero Moleti, poi Galilei.  Pubblica a Venezia “Universa loca in logica Aristotelis in mathematicas disciplinas” -- la raccolta dei brani delle opere aristoteliche che riconoscevano il prevalente carattere speculativo del sapere matematico, tema a cui dedicò anche un'altra opera. Altre opere: “Super loca mathematica contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis”; “Astrolabii quo primi mobilis motus deprehenduntur canones” (Padova, Fabri); “Oratio pro idea methodi” (Padova, Percacino). Agostino Superbi, Trionfo glorioso d'heroi illustri, et eminenti dell'inclita e marauigliosa città di Venetia, per E. Deuchino. Domus Galilæ Biografia universale antica e moderna; ossia, storia per alfabeto della vita pubblica e privata di tutte le persone che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù e delitti; Catalogo breve de gl'illustri et famosi scrittori venetiani (Rossi); Le filosofie del Rinascimento, B. Mondadori); Alle radici della rivoluzione scientifica rinascimentale: sui rapporti tra matematica e logica. Con riproduzione dei testi originali, Domus Galilæana. On this subject, Catena writes two works, in one of which, Universa Loca in Logica Aristotelis in Mathematicas Disciplinas (Venezia), he tries to supply the lost mathematical basis for Aristotle's theory of demonstration as explained in the Posteriora Analytica. Dizionario biografico degli italiani.  Della sua vita si conoscono pochissimi elementi: nacque a Venezia nel 1501; nel 1547 fu nominato lettore di matematiche presso l'università di Padova (la stessa cattedra che occupò più tardi Galileo Galilei). Morì di peste a Padova nel 1576.  L'importanza storica del C. consiste nel fatto che egli fu uno dei primi, nel sec. XVI, a porsi il problema della valutazione formale ed epistemologica della matematica euclidea, naturalmente dal punto di vista della logica e della filosofia aristoteliche, inserendosi in tal modo autorevolmente nella quaestio de certitudine mathematicarum che a metà del Cinquecento impegnò noti autori dell'università padovana, come Francesco Barozzi ed Alessandro Piccolomini, nell'ambito del più vasto dibattito europeo sulla methodus delle scienze.  ADVERTISING A questo riguardo assumono particolare importanza tre sue opere: Universa loca in Logicam Aristotelis in mathematicas disciplinas (Venetiis 1556); Super loca mathematica contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis (ibid. 1561); Oratio pro idea methodi composta nel 1547(Patavii 1563). Nelle prime due il C. svolse un'analisi formale della matematica euclidea attraverso la quale concluse per una sua differenza strutturale, e quindi per una sua autonomia logica ed epistemologica, nei confronti della logica sillogistica aristotelica, basandosi principalmente sulla constatazione che le dimostrazioni matematiche non appartengono al genere tradizionale delle cosiddette demonstrationes potissimae, e giungendo ad affermare decisamente che la scienza matematica si differenzia nettamente da qualsiasi scienza di tipo aristotelico. La differenza metodologica che distingueva la matematica euclidea dalle restanti scienze in uso nel Cinquecento venne posta in rilievo dal C. nella terza opera, ove affermò chiaramente il legittimo costituirsi della matematica come metodo scientifico autonomo, intervenendo così costruttivamente nel dibattito sulla methodus, che ancora si trascinava in quegli anni, e contribuendo soprattutto alla creazione di un clima culturale favorevole alla rivoluzione scientifica galileiana con l'ampliare notevolmente la prospettiva gnoseologica tradizionale.  Oltre alle citate, il C. scrisse diverse altre opere: Astrolabii quo primi mobilis motus deprehenduntur canones (Patavii 1549),che costituisce una correzione ed un aggiornamento di un'altra opera anonima, che fu pubblicata a Venezia, e che tratta dell'uso pratico del noto strumento astronomico; Sphaera (Patavii 1561), un trattato di astronomia, redatto probabilmente ad uso degli studenti, in cui viene esposto il sistemato tolemaico, e che, pur basandosi naturalmente su trattati analoghi, allora notoriamente numerosi, rappresenta l'opera astronomica più compiuta del C.; Procli Diadochi Sphaera (Patavii 1565),traduzione del noto trattato del matematico e filosofo neoplatonico; De primo mobili librum singularem; Ephemerides annorum XII; De calculo astronomico libros II; queste tre ultime sono citate dal Papadopoli e dal Poggendorff senz'altra indicazione e non se ne è rintracciato alcun esemplare.  Nel corso della sua attività accademica, il C. trattò successivamente del primo e del settimo libro degli Elementi di Euclide, della Sphaera del Sacrobosco. della teoria dell'astrolabio, della geografia di Tolomeo, dell'astronomia del sistema tolemaico, e, probabilmente delle "meccaniche" di Aristotele, come viene affermato da Bernardino Baldi, che fu suo allievo, e da lui stesso in una sua opera (Universa loca, cit., p. 81).  Fonti e Bibl.: N. C. Papadopoli, Historia Gymnasii Patavini, Venetiis 1726, I, p. 325; G. Cinelli Calvoli, Biblioteca volante..., Venezia 1735, p. 114; P. Riccardi, Biblioteca matematica ital. dalla origine della stampa ai primi anni del sec. XIX, Modena 1870-1880, I, col. 13; II, coll. 113-114; IV,col. 200; V, col. 45;VII,col. 22; A. Favaro, I lettori di matematiche nell'univers. di Padova…, in Istituto per la storia dell'Università di Padova, Memorie e docum. per la storia della Università di Padova, Padova, Giacobbe, La riflessione metamatematica di P. C., in Physis, XV (1973), 2, pp. 178-196; Id., La riflessione epistemologica rinascimentale: le opere di P. C. sui rapporti tra matematica e logica, con riproduzione dei testi originali, Pisa 1978; Ch. G. Jocher, Allgemeines Gelehrten-Lexicon, ad Indicem; Nouvelle Biogr. Universelle, ad Indicem;Biogr. Universelle, VII, p. 202; British Museum, General Catalogue of Printed Books XXXV, col. 350; J. C. Poggendorff, Biogr.-Lit. Handw. z. Gesch. d. ex. Wissensch., ARTIVM ET THEOLOGIAE DOCTOR, PROFESSOR PVBLI. CVS ARTI VM LIBERALIVM IN GYMNASIO PATAVINO, SVPER LOCA MATHEMATICA contenta in Topicis & Elenchis Ariſtotelis nunc & non antea, in lucem ædita. ka CVM PRIVILEGIO, LOLOTILLON 0 V EN E TIIS Apud Cominum de Tridinum Montisferrati. PETRVS CATHENA DOMINICO MONTE. SORO DOCTORI MEDL song CO EXCBLLBN TISSIMO OPICORVM libri din Elenchorum Ariſtotelis quædamloca obſcuriuſću la contincbant qnæ apud Gręcos philofophos erant in primis clara, & per ea co tera loca maiori difficulta ti inherentia declaraban tur, ob id autem illis con tingit, quod veritatis amatores & philoſophiæ principes videri apud exteras nationes cupiebant, quod & re ipfa tales exiſtimarentur, niſi furto å Caldeis, egiptijs, & alijs abſtuliſſent, id autem, alįe na ſua feciſſe, vitio non omni ex parte abeſt, La tini vero quidam auaritiæ fine præſtituto(latinos hoc loco voco cos qui litteris illisRomanis, vel voce, vel etiam fcriptis ſuos conceptus explicant) philoſophiæ extremis partibus ita incumbunt A vt ſemper lutuoli,verlantesin excrementa naturæ appareant, quod quidem laude dignum effet,fi vt præclară prolem, quemadmodú boni viri faciunt aliqui egros inuiſerent, quo igiturme uerterem in inuio, non erat conſilium,ničí Reuerendus domi nus Laurentius Venetus ex nobis familia foſca. rena Canonicus Veronenſis, virum Dominicum Monteſorum Gręca ambitione & auaritia immu nem oftenderet, cui hæc noſtra loca immo Ari ſtotelis declarata dedico, quæ fi Ariſtotelis fco pum attigerint, vt exiſtimo & tibi fore grata co gnouero ad reliqua philoſophiæ Ariſtotelis loca declarandanon piger animus noſter erit, quod fi minus,cenſoriam amicorum virgam nonfugiet hæc noftra expoſitio,interimmegratum habeas. Vale. IN PRIMO CAPITE PRIMI LIBRI TOPIC ORVV M. I DETV Ř autem hic modus differre à dictis ſyle logiſmis nequeenim ex veris, &primis ratioci natur pſeudographus,neque ex probabilibus, nem in deffinitionem non cadit; neque enim quæ omni. bus videntur accipit, neque quæ plurimu i,neque qnæ fapientibus, & his neque omnibus neque plu. rimum, neque probatiſſimis; ſed ex proprijs quidem alicuiſcientie fumptis,non tamen veris ſyllogiſmumfacit,nam vel.eo quod femi circulos deſcribit non vt oportet, vel eo quòd lineas aliquas dicit non vt ducendæ ſunt paralogiſmum facit. VNC textum declarant Greci, & Latini vſque ad locum illum quo Ariſtoteles exemplo vtitur Geo. metrico,ad quem locum pręclari expoſitores cum per uenerint Tantis Tinebris vinctum loris, & funibus reliquerunt Ariſtotelem, vt ab Alexandri tempore(vo reor) vſque modo, omnes qui illas preclaras interpretationes legea rint, illius loci notitia priuati fint, quos prçclaros expoſitores pro prio ſuo citarem nomine, vt amatores Ariſtotelis eos cauerent vt infames ſcopulos acróceraunię, fed eos prçtereo vt in hacparte inu liles, line Geometria logiculos, legantfine liuore & vafricia expo fitores illius lociomnes, & has noftras declarationes non quidem criſpis naribus, ſubinde iudicent,fi intellexerint, quanti ingenö fuit, ficut in cæteris ipſe Ariſtoles, hæc citra in Alatas buccasdixiſſe ve lim, quiſquevt intelligat, fed vt litterarum aliquando illuſores re primantur pariterque eorum indocta audatia, fufcipiatur igitur recta linea, a bquę feccetur quomoçunque contingat in puncto c, & ſuper vtranearī a ccb, ſemicirculus,non vt primīī petitū docet, facto d centro vnius & e alterius deſcribatur perperā ſemicirculus a h c,alter chb, quiſeſe Tangantin puncto h ſuſcipiaturque centrū huius ſemicirculiah cipſum d, illius autem ch b ſit centrum e, a punctis igitur d; & e,ſemicirculorum centris ducantur duæ lineæ ad h contactum, & intelligatur Triangulus d he, quoniam autem 3 5 dur'lineædc & dhexeunta centro ad circunferentiam ipfæ per dif finitionem circuli funt æquales, pariter per eandem definitionem duæ lineæ ec & ehſunt æquales, duæ igiturdc & ce duabus d h & eheruntæquales, duæ autem ille dc, ceſuntvnum latus trian guli dhe,ergo vnum latus d e trianguli d heeft æquale duobus la ceribus eiuſdem triangulidh & e h,quod eſt impoſsibile contra vi gefimam primi elemērorum Euclidis,duo enim latera omnis trian guli quomodocunque ſumpta, ſunt maiora reliquo & non æqua lia, vtpſeudographo ſyllogiſmo machinabátur proteruus,hocau. cem vitium non ex coprouenerat qex falfis fyllogiſmus fic con fectus,quia ex veris, & immediatis, & exeodem ſcientię genere, vt ex definitione 17 primi elementorum ſyllogiſthus affectus eſt,ſed error atque peccatum proceſsit ex co ofemicirculos defcribit non vt oportet, quod notauit nobiliſsimus geometra Ariſtoteles, fic 1 a 6 etiamhi qui falfo fyllogizant,vnum fatus trigonimaius eſſe duo bus reliquis trigoni lateribus, no vt oportet femicirculos diſcriben tes, fic.n.linca a b & puncta in ea ſuſcipiantur cd & circa vtranq ac, &db, rectam ſemiciruli deſcribantur fe inuicem tangentes in puncto e alter a ec cuius centrum f,reliquus bed cuius centrum g, &a centro fprotrahatur recta fe fimiliter a punctog protraliatur gerecta, tunc triangulusfe g habebit latus f g maius duobus lateribusfe, & ge, quod fic perſuadetur,lineafc eft æqualis lineæf e cum vtraque exeat,a centro ad circunferentiam, fimiliter linca g deft æqualis geeadem ratione, fi igitur c d linea addatur lineis fc, & dg, equalibusfe & gcefficiunt linea fg latus trigoni fe gma jusduobus lateribus fe, & ge quod eſt impoſsibile per 20 primi clemcntorum,vel eo q lincas aliquas ducit non vi ducendæ funt d g paralogiſmum facit, ſi ducatur linea a centro fad centrum g, illa non tranfibit per contactum e,vtin hac fecunda figura apparet, ve linea abf,in g,non tranſit per punctum e vt oporteret, per xi tertij clementora Euclidis, fi duo circuli fe contingunt & acentro ynius ad centrum akerius recta ducatur linea illa de neceſsitate applicabi tur contractui, ex mala igiturdeſcriptione attulit Ariſtoteles exem plum de ſyllogiſmo falſigrapho, qui oſtenſiuo fyllogiſmo oppo. Situs eft. Similiter vero e ſi cubilali magnitudinepoſita dixe rit, quod ſuppofitum eft cubitalem magnitudinem ere, eo quid eft dicit, & quantum fignificat. RES duorum generum propinquorum continuiatas diſcre. ti vnius tamen generis remoti &analogi, quantitatis videlicet, in vnacubitali magnitudine continetur,obid, duodicit, qui magnicu dinem cubitalem,effe magnitudinem duorum cubitorum, &quid, quando dicit magnitudinem, et quantum, quando dicit,cubitorum duorum, hinc manifeftum eft in ynoquod prædicamento reperiri quid,vthoc Ariſtotelis exemplo patet demagnitudine,aliud eft no tandum, quomodo vnum accidens,vt duorum,quod ad Arithme ticam pertinet,accidere magnicudini,quod ad Geometriam attineta. QVAEDAM enim statim &nominibus alia ſunt,vtacu to in voce contrarium eſt graue, in magnitudine autem, acuto, obtufum contrarium est. Multiplicita - tem huius vocis # (acutumdemon Itrat Ariſtoteles, quia et angulum norar, & vocem, # US Angulus accutus rectominor & contrarius eft obruſo, &voxac cuta graui vociopponitur, et graui contrariatur accutum in voce, leue in ponderibusgraui oppugnāt. Sed dubitatur,cum quantitati nihil fit contrarium, quo pacto acuto angulo obtufus contrarius fit? Dico quod angulus noneft quantitasfed ex quantitate quan. titati adiuncta proueniens accidit quãtitati vt fit accata vel obtuſa pariterque pondus &lauitas funt quidem magnitudiniadiuncta, fed no eſ pondus,et leuitas, quatitas, ſi contraria fint leue et graue. cantus IPSIvero queà conſiderando eft, quòd diameter cofta incom menfurabile, nihil. DEincommenfurabilitate coſtæ cum diametro abunde faris in pofterioribus declaraui,quantum vero adhunc locumattinet, Art ſtoteles inquit, non effe quippiam oppofitum ipfi incommenſura bilitaci,vrpura commenfurabilitas, inter coftam atque diametrum quadrati nihil contrarij eft,dubitatur,cum in præcedenti textu, ſit de terminatum,& ea quęaddita eránt magnitudini, vt pondus & leui tas contrariarentur,hæc autem quæ magnitudini coſtę & diainetro, vtincommenſurabilitas, non contrarietur commenſurabilitati? Reſpondeo, prius dicta cótraria pondus et leue in naturalibus reppe riebantur,hæcautem incommenſurabilitas in abſtractis geometria cis; Præterea, nonfuit dictum omnia quæ in magnitudinibus re periuntur eſſe contraria,Pręterea & li opponanturcommenſurabi liincommenſurabile,non tamen contraria ſunt, vel etiam fi contra ria fint,non tamen ratione ſubſtractorum,quçſuntquantitates,co fta & diameter, contraria effe dicuntur, potus enim fitinon eft nifi quodammodo contrarius, delectatio autem, quæ ex potu prouenit opponitur contrarie triſtitiæ, quæ prouenit ex fiti, Præterea graue & leweſuntabſoluta quædam in diuerfis ſubiectis poſita ſeorfim, incommenſurabilitas autem relatio eft; quæ indiſcriminatim funda tur in coſta,ad diametrum & in diainetro ad coftam. CON SIMILITER autem et acutum,nam non eodem mo do in omnibus idem dicitur,nam vox acuta quidem velox,quemad modum quidem dicunt ſecundum numeros armonici. NOTA dignnm eft hocloco conſiderandum, a vox hoc lo co non accipienda eft pro humana voce tantum, ſed pro ſono, qui quidem fita cordulis inſtrumentorum, nam gratilior corda fitan gatur plures aeris percuſsiones facit quain crafsior cordula, fiea dem vi moueatur, modo inter percuſsiones multas aeris cordulæ gratilioris ad percuſsiones cordulæ craſsioris fi inultitudine repere ris duplam,diapaffon, fi fefqualteram, diapente, fi vero epitritam diateſaron, vt aiunt Armonici continentiam inuenies, quia tamen Ariſtoteles de generatione animalium libro quinto capite feptimo pucat concinentiam fieri ex alia caufa quam ex proportione illo, rum ſonorum numeratorum ad alios fonos numeratos,vt pytha. gorici volunt, ideodicit quemadmodum quidem, vt dicuntarmo nici, quia fententia Ariſtotelis alia atque diuerfa eft ab illis armoni cis, qui Pythagoræ affentiri videbantur. ET quòd pun&tusin linea do vnitas in numero, nam vtrun. que eft principium. PRÍNCIPIV M lineæ punctus, principium autem nu merivnitas eſt, ſed punctus non componitlineam alős punctis ap pofitus,vtin pofterioribus demonftraui,vnitas vero cuin alñs vni tatibus numeruin conftituunt atque componunt, principium tamé lineç atque finis,punctus eſt ex cuius fluxu linea fit vt Ariſtoteles in mechanicis & ego in diſcurſu geminico determinaui, non tamen linea ex punctis conſtat, VEL duplicis & dimidij. AN ſit ne eadein diſciplina duplicis atque dimidă conſiderare oportet, quod profecto allerere videtur ex capire de relatiuis, cum nemo ſciat duplum,niſi cuius ſit duplum ſciueric, quod diinidium eft, fi pro relatiuis vtrunque ſuſcipiatur. HOC autem non ſemper faciendum, fed quando non facile pojumus communem in omnibus vnam rationem dicere, quemad modum Geometra quòd triangulus duobus rectis æquos isabet tres angulos. NVLLI id in controuerſiam venit, an omnis triangulus ha beat tres angulos duobus rectis æquales, ſed illud dubium eft,an id quod rectilineumeft,habens angulos duobus rectis æqualis,trian gulus ſir, velquid horuin in plus fe habeat, & non fit vtrunque ſe cundum q ipſum, ſed vniuerſalius fit, habereangulos duobus reo Ctis æquales, atque comunius,an potius triangulum effe, ad quam dübitacionein, dico quod duobusrectis pates habere angulos, eſt quid communius, quam efſetrigonum, id autem inanifeſtum eſt de pentagono, cuius quodlibet latus, duo ex reliquis lateribus fec cat latera, id autem per primam partem 32, primiElementorum bis fumptam & per fecundam partem eiuſdem zz. ſemel ſum pram, vt in figura ſubſcripta deduci facile eft, & fi habere tres çqua les duobus rectis conuertatur cum trigono,non tamen habere om nes angulos equales duobus rectis,conuertitur cum effe trigonuir. Dico igitur, quod habere omnes angulos equales duobus rectis,co mune eſt ipſi trigono, & pentagono, cuiusvnum latus ſeccat duo ex reliquis latera, habet tamen penthagonus quinque equales tri bus, qui tres duobus rectis pares funt, & fic figuramihabentem B omnes angulos duobusrectis pares communius eft, quam fit trian gulus, non igitur eſt affectio trianguli neque angulorum triangu. li, fed quid communius trigono, vel tribus angulis trigoni, non eft igitur eius proprium,quod videturfoluere dubium fuper textu mo tum,fed affectio trianguli eft habere tantum tres equales duobus rectis,velęqualitas duobus rectis, conuenit tribus angulis figuræ triangulari, & non omnes angulos, elle çquales duobus rectis. VEL pt buius a fecundum lechu ius ſecundum acci dens, vt fecundum Se quidem quòd tri angulus duobus re b Etis æquales habeat tres angulos, ſecun. dum accidens autē, quòd æquilaterus, quoniam enim acci dit triangulo,& qui. laterum effe trian gulum, perhocco gnoſcimusquòdduo bus reétis habeat internos. QVIDAM interprætes fic perperam exponunt Ariſtotele, quod habere tres duobus rectis pares,ipfi triangulo per ſe infit,ipfi vero Iſoſcheli cõuenit quidem habere tres duobus rectis parcs, ſed non per ſe,ſed per accidens, fic vt hæc predicatio, Iloſcheles habet tres duobusrectispares, ſit accidentalis,hec quidem ſua interprę. tatio & nulla eſt, &nullo modo ad Ariſtotelis textum facit, quod nulla fit, & falfa, manifeſtum eſt ex capite de per fe in poſteriori. bus, quia quod enim ſuperiori per fe ineft &inferiori pariter per ſe ineſt, ineſt tamen ſuperiori perfe & primo, inferioriautem, per ſe fed non primo. Aliter igitur exponendus venit is textus, primo igitur aduertendum quod circa idem ſubiectum fit prædicatio per fé & per accidens, vtpura circa triangulum, per fe quidem fic, tri angulus habet tres duobus rectis pares, per accidens vero ſic, trian gulus eſt Iloſcheles; vbi aduertendum,vtin præcedentibus libris declarauit Ariſtoteles,omne inferius ſuo ſuperiori accidens eſt,cum abeffentia fuperioris omnino fecludatur inferius, & vt alienum a fui natura ſibi conueniat. SIQVIS infecabiles ponens lineas, indiviſibile genus earum dicat eſſe, nam linearum habentium diuifionem non eft quod di Etum eſt genus, cumſint indifferentes ſecundum ſpecicm, indiffe-, rentes enim ſibi inuicem fecundum fpeciem rectæ lineæ omnes. TRACTATVS quidem de lineis infecabilibus extat,e greco latinitati donatus quem Ariſtotelis quidem effe exiſtimant, tametfi Georgii pachimerñ nonnulli effe dicunt, quod, quia cuiuf cunque fuerit,non facit ad expofitionem litteræ affequendam, me rito prætermitto auctorem fore inueſtigandum,vt Ariſtotelis decla rationi infiftamus, pro quo in memoriam reuocandī eft id, quod Porphyrius habet, ſuperius genus de inferioribus ſpeciebusneceſe, fario predicari, quod fi de illis non prædicauerit,neque ad illas, illud eſſe genus manifeſtum erit, quapropter fiquis inſecabiles poſuerit lineas,atque ad illas genus id, quod eft indiuifibile,effe dicat,ftatim in contradictionem reducitur,ob id, quia,diuiſibile,genus eſſe ad li ncas conſtat,modo lineas omnes eandem deffinitionem ſuſcipien. tes,eiufdem ſint fpetiei, fieri autem nequit, vt aliqua eiuſdem ſint ſpeciei, & genere fint diuerfa, quod quidem contingeret, fi indiuifi bile,ad lineas aliquas, genus effe diceretur,tunc enim indiuiſibile di ceretur de lineis infecabilibus p hypothefim cũ fic ſupponatur (fal ſo tamen ) ad illas eſſe genus, & etiam de alñs, quæ per 10. primi Elementorum ſecabiles ſunt cum etiam adillas ſit genus, quod qui dein efle, nullo modopoteft, propter contradictionem, ET ſi differentiam ingenere poſuit tam quimſpeciem,vt im par quidem numerum, Differentia quidem numeri, impar, & non ſpeties eſt, neque videtur participare differentia genus,nam omane quod eft, genus, velfpeties, vel indiuiduum eſt, differentia autem, neque fpeties, neque indiuiduum, manifeftum igitur quoniam non participat genus differentia, quare neque imparopetieserit, fed differentia quoniamnon participat genus. B ñ 9 tra NVMERV S quieſt ex vnitatibus profuſa multitudo,paro; titur in numeruin imparem, &in numerum parem, vel perhas differentias diuiditur, quę ſunt, paritas, & imparitas, quarum neu includit numerum, qui genus eſt ad omnes numeri ſpecies,& fi ifta vera fic,rationale et animal, quando ly rationale accipitur pro Specie, quæ homo eft, & non pro rationalitate in abſtracto, qux eſt hominis conſtitutiua differentia,eodem modo, & numerus prædi catur de pari in concreto & non de abſtracta paritare, hęcenin & fimiles illi, ſunt ſemper falle, paritas eſt numerus, vel imparitas eſt numerus,quodquia oinnia manifeſta, & nora Ariſtoteles cíle vo. luit, exemplo arithmetico declarauit, A 11 PLIVS ſi genus in petie pofirit, vt contiguitatem id ipſum quod eſt continuitatem, non enim neceſſariuin contingui. tatem continuitaternelle, led e conuerſo, continuitatem contigui tatem non enim omne contiguum continuatur, led quod cortina tür contigurn eft. CONTINVVM illum effe dico cuius partes copulantur ad terminuin vnum communem, qui quidem terminus elt tantuin potentia inter illas partes ipſius continui, nõ etiam actu, &opere, vt linea lineæ continuatur per punctum, qui non actu exiſtit, ſed tantum potentia inter illas duas lineas, velinter duas partes linex, quod & de partibus ſuperficiei, quæ per lineam in potentia copu lantur, &corporis partes, per ſuperficiem in potentia, Contiguum autein illud effe dico, quod alteri applicatur & iungitur non per mediuin potentia exiſtens,fed per mediuin quod actu & opere exi 1tit, vt manifeſtum eſt de cæleſtibus orbibus, concaua eniin ſuperó ficies ſuperioris orbis augem defferentis, & fuperficies connexa or bis differentis epy ciclum ſunt due ſuperficies actu exiſtēres inedia, per quas continguantur adinuicem illi orbes, non tamen continu: antur adinuicem: Cælum primū continuum quoddam eſt, & con. tiguaru: Cælo nono ſecundum fuperficiem concauam ipfius pri mi mobilis actu exiſtentem,non tamen fequitur, primum mobile eſt contiguum cum nona ſphera, igitur continuum eſt cum nona iphera,quemadmodī non fequitur, quinque digiti adinuicem funt contigui, igitur quinque digiti ſunt continui, ſed bene ſequitur, quinque digiti ſunt continui, igiturquinque illi digiri ſunt conti gui, vt quando clauditur manus, vel manus aperiatur quinæ digi zi aeri ſunt contigui,vel aquç contigui, li in anforæ aquam inanum ponas, vel etiain cirotececontiguantur, & ratio eft, quia vnum quodque naturale corpus, alteri contiguatur, ne vacuum daretur in natura. CONSIDERAN DV M autem eſt, fi quod translatiue. dictum eſt, ut genus aſsignauit,vt temperantiam, confonantiam, nam omnegenus proprie deſpeciebusprædicatur,conſonantia ve. ro detemperantia,non proprie,fed translatiue, omnis enim confo Wantia in ſonis eft. CONSONANTIA eſt diſsimilium vocum acuti gra. uiſque in vnum redacta concordia, quæ fine ſono, quę aeris percuſ fio eft fieri nullo modo poteſt, illa autem confonantia quæ transla tiue dicitur, quæ effrenatam libidinem moderat, non quidem a ſo no, quæ eft aeris percuſsio, fed illa quidem eſt, quæ a concordia diſsimilium dicitur, hæc autem non neceſſario in Conis reperitur, vt eſt illa ſupercæleſtis Armonia, quæ nil aliud eſt, quam coeleſtium motuumdiuerſorum,in vnam munditotius conſeruationem apta concordia, quam celebrant quidem illi ſapientes pythagorei, quos gratis in libris de cælo redarguit Ariſtoteles, quam armoniam di ces illam effe de quaMarcus Tullius in 6 derepublica, cui de ſoin. no Scipionis nomen indidit, docte meminit, hanc quidein dico nul lo modo conſtare in fonis, ſed illam quam libro primo capite deci mumtertio & in hoc capite tetigit Ariſtoteles. AVRSV M ji non ad idem dicitur fpecies 2 ſecundum ſe, da fecundumgenus, vt fi duplum dimidiy dicitur duplum o multi plum dimide oporter dici, li autem non, non erit multiplam genus cupli, abundansſimiliter cicitnr ſimpliciter ſecundum om. nia fuperiora genera ad dimidium dicetur. ABVNDANS numerus is eſt, cuius partes omnes fimul additæ in vnum exuperant totum illud cuius partes erant, vt duo, cenarius eſt abundans, quia 6,4, 3, 1, ſiin vnum aggregentur 16 coinplent maiorem numerum duodenario, de quo quidem abun. danti, qui eſt fimilis centimanugiganti, non loquitur Ariſtoteles hoc loco, fed abundansillud eft, quod ſuperius eſt ad multiplum, ad ſuperparticularem, & ſuperparrienrem, abundans præterea,vthic accipit Ariſtoteles,eſt ad aliquid, quod etiam de multiplici, at& lu perparticulari, & ſuperparrienti, &de omnibus ſub illis contentis, dicitur,duplum igitur triplum,quadruplumque cummultiplun lit & pariter vnumquodq; abundans erit, fi igitur abundansnon eſt, non eritmultiplum,neque etiam duplum, itaque abundans vniuer lale magis quam multiplum eft. 1 era QVONIAM autem muſicum, qua muſicum eftfciens,elle muſica ſcientia qua eft. MVSICA enim quathenusmuſicũ effe facit, nõ quathenus cantorem, qualitas eſt de prima qualitatis fpecie,quathenus autem ſcientia eft, &fciens facit, relatiuum quidem eft, vt in capite ad ali quid fuit in prædicamentis determinatum. NVMERVM diuiſibile,e conuerſo autem non,nam diuifibi le non omne, numerus, DIVISIBILITAS non modo magnitudini ſed etiam numero conuenit, non tamen omni numero, ſed numero tantum pari,impari autem ob vnitatis interuëtum nequaquam, Veletiam melius erit dictu, diuifibilitas in duo æqualia, numero tantum pari conuenire, diuiſibilitas autem fimpliciter omni numero conuenire, id quod Ariſtoteles hoc loco velle videturdicere, ſeu in duo æqua. lia,vel in duo inæqualia numerus ipfe diuidatur, fic vtdiuiſibilitas in partes integrales cuilibetnumero conueniat, non diuiſibilitas in partes aliquotas omni numero, ſed tantum numero pari conuenire eft neceffe, aduerte etiam quod ipfinumero primo conuenit diuili. bilitas in tot partes, quot vnitates habet;in plus igitur ideft,quod diuiſibile eft, quam id,quod numerum eſſe, quia diuiſibile, eſt com mune ad diſcretum, quod in partes aliquotas &in partes integran tes diuiditur etiam ad continuum,ſequitur igitur recte,numerus eft, igitur diuiſibile, ſi diuiſibile accipiatur commune ad id, quod in ali quotas & integrantes diuidatur partes, &non econuerſo, vt diui fibile eft, igitur numerus, LOGICVM problema. PROBLEMA apud Euclidem eſt propoſitio,in qua vnum datur, & aliud (vt in pluribus) quæritur, vt ſuper datamrectam li neam triangulum collocare, linea quidem datum eſt, quefitum au tem ef trigonum ipſum conftituendum ſuper lineam datam, ſem per enim problema verſatur circa praxim,quapropter, problema Geometricum,eftpropofitio practica, Theoremavero Geometri. cum,eſt ſpeculatiua propoſitio,modo Ariſtoteles non ingnarus hu. ius duplicis fignificationis problematis Geometricc, & logice,pro pofitionem dubiam ad vtráque partem, dixit problema logicum, &non Geometricum debuifTe intelligi, inquit enim, logicum au tem eſt problema,ad quod rationes fiunt, &crebræ quidē, & bong ERIT enim ſecundum hoc bene poſitum humidiproprium, vt qui,qui dixit humidiproprium, corpus quod in omnem figuranı ducitur, vnum aßignauit proprium, o non plura,erit fecundum boc bene pofitum humidi propriuns. FIGURA hicaccipiatur in corpore locante humidum,humi. dum enim cum corpus fluxibile atque dilatabile fit, ſuſcipit quan cunque figuram a re locànte, quæ figura, feu natura, fiue etiamarti ficis opere introducta fit, in illo vaſe locantehumidum, accipere igitur hocmodo figuram a re locante, proprium eft ipfius humi di, & non alterius cuiuſque, NON omne ſenſibile extra ſenſum faftum,immanifeftum eft, latens enim eft, fi adhuc ineft, eo quòd fenfu folo cognoſciiur, erit autem verum hoc,in his, quæ non ex neceſitate ſemper conſequun tur, vt quia, qui pofuitſolis proprium, aštrum quod fertur fuper terram lucidiſſimum, tale vſus eſtin proprio (ſuper terram in, quamferri) quod ſenſu cognoſcitur, non vtique erit benefolis af fignatum proprium immanifeſtum enim erit cum occiderit ſol, si adhuc ferratur fuper terram, eo quòd nos tunc deſeruimus fenfium. CECVS enim huius quod eft, folem fuper terram ferri,nul. lam habet ſenſationem,ſed videns, illius ſenſationem habet quan do folem ſuper terram in die artificiali conſpexerit, quam primum autem fol occiderit, & fub orizonte conditus fuerit, definit ſenſus percipere folem fuper terram ferri, fi igitur illud proprium eſſet folis, illo deficiente, (quod contingeret nullo conſpiciente ſo lem ferri ſuper terram ) proprio, & Sol, effe defficeret, quod quia abſurdum, non igitur proprium eft folis eum videri ferri fuper terram, licet femper Sol ſuper terram fereatur, id etiam, haud folis proprium eft, cum fyderibus omnibus, Igni, Aeri ſem per conueniat, id autem quod proprium eſt, conuenit omni foli & femper,inodo fecunda particula, (quod eft foli) non conue nit foli, fed etiam alijs a ſole, & a fyderibus, & elementis, conuenit; Præterea folem femper ferri ſuper Terram, & fi proprium ſolis ef fet,illud tamen non eſt ſenſibile, led immaginatum,perceptibile,vel intelligibile, particula tamen illa aftrum lucidiſsimum, ipfi tantum foli conuenit, CONSTRVENTI vero, fi tale aßignauerit proprium, quod non ſenſu est manifeſtum, aut cum ſit ſenſibile ex neceſsitate ineſe manifeftum eft,hoc benepoſitum proprium, vt quia, qui po fuit fuperficieiproprium quòd primum coloratum eſt, ſenſibili qui dem aliquo vfus eft (coloratum eſſe inquam) tale quidem quod ma nifeſtum est ineſſe ſemper, erit fecundum hoc, bene aſsignatum fit perficiei propriim. IMMEDIATVM ſubiectumn coloris fuperficies eſt, ſub. ftantia enim colorata eſt, quia corpus coloratum,etideo corpus co loratum eft, quia ſuum extremum eft coloratū, extreinum autem, ſeu terminus, ſub quo corpuscontinetur ſuperficies eft, in qua im mediate color fuſcipitur, iſtud autem proprium,non ex natura ſu perficiei profluit, fed extrinſece aduenit color ipſi ſuperficiei, quæ quantitas quidem eſt, color, autem qualitas, fed cum ſenſibili per fenfum percipiatur, & fecundum apprehenſionem fiat exiſtimatio, et quia ſuperficies omnis,affecta ſit colore, ſequitur quod recte pro prium afsignabit ſuperficiei, fiquis dixerit eain effe coloratam & erit proprium ſuperficiei, proprium quidem ſenſibile,non tamen ex intrinſeca natura ſuperficiei. PRIMVMergo deſtruenti quidem, infpiciédum eſt ad vnum quodque eorum cuius proprium aßignauit, vt ſi nulli ineſt; aut fi non fecundum boc quidem verificatur, aut fi non eſt proprium c18 iuſ que eorumſecundum illud cuius proprium aſsignauit; non enim erit proprium,quod pofitum eſt elle proprium, vt quia de Geome tra non verificatur indeceptibilemeſe ab oratione (nam decipi tur Geometra cum pſeudographiäfacit ) non erit hocſcientis pro prium, non decipi ab oratione. HIC locus videtur opponi ei quod Ariſtoteles determinauit de Geometra primo poſteriorum,vbi ait Geometram non mentiri concipientem 9 concipienten lineam bipedalem, quæ tamenminimebipedalis eſt, fed fiquis recte inſpiciat,nulla certe oppoſitio apparebit, fed vtera quelocorum mutuo ſeſe alternatim declarabit, cuinam in dubium illud venit,fępemens ynī interne concipere, quod falax manus ex trinſece, illud peruertit: hoc quidé prothagoręfæpe contigiffe reffe runt, vt aprehenfo, ad ſcribendum calamo,id ſcripfiffe quod men ti fuę opponeretur, & id vitii non ſolum manui, fed linguæ ſæpe etiam contingit, quis enim id in feipfo non eft expertus. vt quan doque ynum ex inſperato lingua profferat, Q tamen aliter mente prius conceperat,id autem etiam cuidam Geometræ, ſi contingar, vt perperam ſemicirculos deſcribat veltrahat lineas,non vt opor tet (vt interiusprius mente concepir) ficut primo topicorum capite primo fuit declaratuin,non tamen id proprium eft Geometræ,cum non ſemper vnicuique Geometræ conueniat, ſed raſo etiam vni accidat. SIMPLICITER igiturnotius, quod prius eſt poſteriore, vt punctum linca, o linea ſuperficie, & ſuperficiesſolido, quem admodum vnitas numero prius enim &principiã omnis numeris. VIDETVR hic textus contra determinationem philoſophi primo de phiſico auditu capite de primo cognito, vbi determinat de circulo p priino cognoſcitur, quam quod fit figura plana vna linea contenta: pro cuius loci huius &illius intelligentia, fcire debes deffinicum cum ignotum ſit, per deffinitionem explicatur,ipſa vero definitio per ea quę nota ſunt, ingnotum definitummanife ftum facit, quod Euclides,vbilineam rectam deffinit primo Elemē. torum prius punctum explicuit,quiin deffinitionem lineæ ponere, tur, vt furt declaratum capite de per ſe,primopofteriorum fubinde lineam per punctum, & fuperficies per lineam, & tandem libro 11, corpus per ſuperficiem deffiniuit, quo autem modo diuerſo ſe ha heat punctus in linea ab eo modo, quo vnitas in numero,id in na lyticis capite de per ſe fuit manifeſtīt, ſed id in dubiữ verticur, quo nam modo corpore ſuperficies, & fuperficie linea, &linae punétus noctiora fint:'cīí hæc omnia apud Geometrā, & ftereometram ab ſtracte conſiderentur. Dico quod cum abſtractione in his omnibus minor & maior fimplicitas repperitur,vt in puncto quam in linea &fic deinceps, Adid autem de primo phiſicorum de circulo nulla videtur oppofitio in Ariſtotelis verbis, ibi enim de vniuerfali con fufe aprehenſo hicauté de ſinipliciori dictincte concepto loquitut C 1 pro no OPORTET autem non latere quædam fortaſſe aliter deffi niri non poffe, vtduplum, line dimidio. ID notandum euenit hoc loco, quod Ariſtotiles capite de ad ali quid poft multa examinara ibidemn determinauit,quodad aliquid non eft, cuius effe fit elle alterius, fed cuius eile eft ad aliud quodam modo refferri, vt dupli efTe, fic eft, vt abfque relatione ad illud cu ius eft duplum minimne poflit percipi, licet non cognoſcat illud fub nomine & natura dimidii,ſed tantum quathenus duplationen ter minat, quę fundatur in eo, quod illa duplatione duplum eft. OPORTET autem ad deprehendenda talia fummere mine orationem, vt quod, dies, eſt ſolis latio fuper terram. QVI deffiniet diem artificialem (qui incipit ab emerſu ſolis ſu pra orizontem vſquequo accidat ) ponit in definitione lationem ſtelle apparentis fuper terram (qui fol dicitur )nam qui die vtitur & ſole vei neceffe eft, acquiſolem deffinir, ſtellam in die apparentem dicit, in qua deffenitione alterius,alterum ponit eo modo quo ea, quæ ad aliquid deffiniuntur, RVRSVS fieo quod e diuerſo diuiditur, id quod e diuerſo di uiditur diffiniuit, vt impar eſt qui vnitate maror eſt pare, fimul enim natura, quæ ex eodem genere e diuiſo diuiduntur, impar au. tem & parediuerſo diuidunt,nam ambonumeri differentia. PRETER eas quas Euclidesin elementis & Boetius primo Arithmeticæ deffitiones de impari atque,pari numero dederunt,hęc Vna eít,qua in comparatione & non abfolute imparemnumerum in ordinead parem deffinit fic vt neuter abfque altero intelligi que at, & alter indeffinitione alterius ponatur,vtocto par, vnitatem imparem feptem ſuperet, & hic fenarium parem eadem vnitate maior euadat. Duo enim funt quæ diuidunt e diuerſo ipſum nume rum par, & impar, & in deffinitione alterius alter ponitur,cum ad feinuicem rellatiue conſiderantur & non abfolure, SIMILITER autem & fi per inferiora ſuperiora deffiniuit, pt parem numerum quibipartiteſecatur, name bipartite ſuma ptumest à duobus quæ paria ſunt. HIC textus obfcuriuſculus redditur in littera,ſenſus tamen fa. cilis eſt, ſuperius enim fi per ſuum inferius deffinitur, vt notius fia at, fuperius hic eft quod, bipartire ſecatur,inferius autem numerus eſt par,optime enim fequitur, hic numerus par eft igitur, bipartite fecatur,fed fi arguas bipartite ſeccatur igitur numerus eft,incõftans eft ifta argumentatio, neque y ſquam valida eft, nifi intelligatur 1 numerus in confequente pro numéro numerato, vt funt etiam ma. gnitudines, quæ nuineri ſunt, vt in pofterioribusdeciaratum eft per me, ita vtin conſequente accipiatur numerus pro quodam comu. ni ad numerum numeratū &ad numerum qui eſt ex vnitaubus profuſus aceruus,fic enim quod bipartitīī par numeruseft, & ficin deffinitione ſuperioris, quod eſt bipartiri veimur oumero pari,qui inferior eſt ad bipartiri ſimauis, bipartiri,a binario numero capias qui binarius inferioreſtad numerum parem,cum quaternarius, & ali quam plurrimi fint pares numeri,modoqui in deffinitione nu. meri paris vtitur bipartiri, ille quidem in ſuperioris definitione Vtitur ſuo inferiore, AVT rurſum qui deffinit noĉtum umbram terra. TERRA eniin cum ſit opacum corpus radë Colaresnon pof. funt illud ingredi & vltra progredi (quod in traſparenti aericone tingit,) ſed impediuntur a parte terræ, quæ pars ad folem reſpicit, ex alta autem terræ parte,luminis priuatio contingit, quæ priuatio luminis folaris fuper terram nox appellarur & cft liquis igitur no Etem definiat, fic inquiens nox eft priuatio luininis folis ob er iæ opacitatem proueniens, fimiliter terram quis deftiniens dicet, terra eſt corpus ex cuius opacitace nox fit, vide quo pacto &ter am in deffenitione noctis, & noctem in deffitione terræ & vtrun que in vtriufque deffinitione ponitur, fequuntur quædam Ariſtore lis verba in textu de multiplici & ſubmultiplici, atque de duplo & dimidio, quæ quia alias declarata ſunt pretereunda duxi, fed id no. tandum eft quod in deffinitione priuatiui, vtputa noctis, ponitur poftiuum, vtputa terra, quod etiam in multis eft aduertendum, quia non ſolum ponitur pofitiuum,fed etiam priuatiuum, vtly pri uatio lurninis. Si autem aliquurum complexorum aßignetur terminus, con fiderandum eft aufſerendo alterius eorum, quæ comple & tuntur ora tionem, fi eft & reliqua reliqui, Nam fi non,manifeftum quonia, neque tota totius, vtſi quiſpam deffinit lineamfinalem rectam fic nem plani habentis finis, cuius medium ſuperaditur extremis, ſi finalis linca ratio est,finis plani habētis fines recte oportet effe re liqui, cuius medium fuperadditur extremis,fed infinita,neque me dium neque extrema habet, re &ta autem est, quare non est relo qua reliqui oratio. ст · AVTEM quain ad expofitionem textus deueniam primo liç terai Ariſtotelis in tralatione Argyropili et in textu Auerois cor rigendam puto de mense Ariſtotelis ex Euclide iuxta cheonem, le gitur enim in vtroque textu cuius medium ſuperadditur extre mis, vbi legi debet, cuius mediuin ' non reſulta ab extremis 86 Aueroes in expofitione fic interpretatur,cuius inedium non occu. lit duo extrema, & videtur afſentiri ipfi Platoni deffinienti rectă, recta inquit linea eſt, cuius medium non obumbrat extremna, cæ, terīt mens Ariſtotelis eſt, quo pacto complexum deftiniatur often dere, vt fi homo gramaticus deffiniatur,hæcenim erit ſua deffini tio, fíue terminus,aninal rationale mortale recte legens atque ſcri bens, tota quippehec ratio, huic toti coplexo, nempe, homo gram maticus,conuenit,modo liably homo, ly gramaticus aufferatur, &ab ly animal rationale mortalely recte legens atque ſcribens, vt fic dicatur, homo eſt aniinal rationale mortale, &gramaticus eft recte,legensatque ſcribens, peroptime data erit deffinitio primo ipſius complexi,homo gramaticus,quod Ariſtoteles in Geometria exemplificat,iminaginans (de mente aliorum,) planum efle infini tum ſecundum longitudinem tantum, finitum ſecundum latitudi. nem, quod quidein terminatur linea recta, quæ eius finis ſecundū latitudinem ellet, modo ſiquis definiret lineam finalem rectam die cens,effe finem planihabentis (ſecundum latitudinem ) fines,cuius (quidein finis) medium non relultat ab extreinis,hæc particula, fi nes plani habentis fines, in definitione pofica recte conuenit lineæ finalis, fed hæc particala, cuius medium non reſultat ab extremis, nonconuenit illi particulæ pofitæ in complexo, quæ eſt ly recta, velly linea, quia non conuenit niſi recrę lineç finicę, & non infi nitę, quęinfinita, vt fupponebatur, non habet medium, neque ex. trema,ideo deffinitio ipſius totiuscomplexi minime recte data erat quia ficut vna ablata particula in deffinitione conueniebat ablatę particule deffiniti, non fic reliqna particula deffinitionis conuenit relique particule complexi deffiniti, $ I autem differentia terminum alignauit confiderandum, fi eg alicuius numerun comunis est aſſignatus terminus, vt cum imparem numerum aliusmdium habentcm dixerit, deter minandum est, quo pacto medium habentem, nam numerus qui dem, comunis in vtrique rationibus eſt, imparis autem coaſſum pta eſt oratio, habent autem &linea & corpusmedium, cum non fintimparia, quare non vtique erit deffinitio hæc imparis. 12 IMPAR numerusin duoæqua dicendinequit ob vnitatis in teruentum medium indiuilibilis denumerantis totum numerum cuius illa vnitasıncdium eft, linea autem & corpus & ſi medium habeat,linca quidem punctum medium, quod per 10 primielemen torum inuenitur fi diuidatur, & fuperficies medium habet diame trum, illa tamen media,vt nec punctum lineam,neque linea ſuperfi ciem dimittuntur, neque illa componunt ea, quoruin media ſunt, determinatū igitur eft, quo pacto numerus medium habet, & quo pacto linea atque ſuperficies, & hoc de numero iinpari intelligas, cuius inedium interduas partes æquales,vnitas eſt, & non de pari, ficut etiam Ariftoteles ait in textu, ex eis QV AE DA M enim ſic ſe habent ad inuicem, vt nibil ex fiant; vt linea numerus. LINEA in lineam fiducatur vt 45 primielementorum Eucli dis docet & prima et ſecunda; ſecundi elementorum fuperficies pro ducitur, pariterque numerus, ſi in numerumduxeris,numerus pro ducetur, vt ex ſeptimo elementorum manifeftum eſt, non tamen idem prouenit per additionem, quia linea lineæ addita non facit ſur perficić, &fi hoc milliesmillienamillia addieris adinuicemlineas, non reſultabit ſuperficies, neque fi puncta ad fe inuicem addideris linea vnquam reſultabit, vnitas tamê li vnitatibus, velvnitati,nu. merus (tatim reſultabit, qui acccruus eft ex vnitatibus protufus, vt etiam in prædicamento quantitatis fuit declaratum. Avr fi eodem ab vtroque ſublato, quod relinquitur eſt alte rum, vt ſi duplum dimidi, co multiplum dimidij idem dixerit elje, fublato enim ab vtroque dimidio, reliquu oporteret indicare, non indicant autem, nam duplum &multiplum non idem fignificant. VLTRA cà quæ de duplo & multiplo libro quarto capite quarto ibi dicta ſunt,vnum illud conſiderandum eſt, quod a nega. tionc dupli ad interremptionem multiplex fiquis argueret commit teret conſequétis falatiam vniuerſalius enim eft ipfum multiplum ipfo duplo, vt eft animal equo vtrunque tamen ad aliquid eft, & duplum ad dimidium, &multiplum ad ſubmultiplum. VIDET V R autem &in diſciplinis quædam ob definitionis deffe &tum, non facile deſcribi, vt quoniam quæ ad latusſeccat planum linea,fimiliter diuidit &lineam &locum, definitione au tem di&ta ftatim manifeftum eft quod dicitur,nam eandem ablatio nem babent.loca d linea, eft autem definitio eius orationis hac. DEFFINITIO ſecunda tertń elementorum intellectum prebet huius deffinitionis pofitæ ab Ariſtorele, definitū eft ly linea fec cās planum, definitio eft ly linea fimi a Jiter diuidēs lineam &lo ct, fic enim Jittera ordi netur, linea quæ ad latus ſeccat pla num, eft li. nea diuidens lineam et locuni terminatum ab ipla linea recta, fieri enim non po teft, vt linea ſecet planum terminatum linea, quin il.. la linea terminans planum ſeccetur ab eadem feccante linea, id autē manifeſtum g eft ex fecunda, tertia, & quarta definitione tertń elementorum Euclidis, & alisexipfo tertio elemen forum, & xi fecundi, ly li. mea quæadlatusfeccat pla num,vocatAriftoreies orationem in hocloco, vbi ait, oautem: deffinitio eius orationis, hæc, id etiam dignī notatu cum deffinitio per genus, & differentiam detur,loco generis in hac definitione, eſt ly linea diuidens lineam, inodo cum linea prior fit plano, manife, ftum eft,quodde genere dicendum erat in hac definitione, SIMPLICITER autem prima elementorum, pofitis qui dem definitionibus (vt quid linea vel quid circulus) facillimum oftendere, verum non multis ad vnumquodque eorum eft argumen tari, eo quòd nonſunt multa media, ſi autem non ponanturprinci piorum definitiones,fortaſſe autem omnino impoßibile. PRIM A elementorum hoc loco,non ſunt intelligenda princie pia, quæ definitiones,petita,& animi conceptiones ſunt, ſed princi, pia ipſa,ſunt propoſitiones,quæ in probleniata & theoremata diui duntur, quæ prima elementorum, ideo dicunturcum per ipfa, quæ proponuntur in alís ſcientñs probentur, vt quid fit linea,videlicet longitudo illatabilis, & quid linea recta,cuius mediñ ſua ex æquali interiacet figna,tunc ſuper datam lineam rectam triangulum colo care proponit prima, primi elementorum, & pofita definitione cir culi per ipſam probatur triangulum ſuper datam lineam colloca. tum effe æquilaterum, & folum perilla media videlicet definition nem circuli 17 & primam animi conceptionem primi elemento rum, quæ definitio, & animi conceptio fi prius non ponantur diffi cile erit oftendere, fortaſſe omnino impoſsibile, quod triangulus conftitutus fuper datam lineam ſit æquilaterus, 1 SIMILITER autem his & in his quæ funtcirca orationes Je habe nt; non igitur latere oportet, quando difficilis argumenta bilis eft poſitio,quòd eft aliquid eorumquæ di&ta funt. LINE A quidem, atque circulus ſunt quædam incomplexa quæ diffinibantur ab Euclide deffinitione tertia & 17 primi ele mentorum,fed linea quæ ad latus ſeccat planum, fiue linea ſeccans planum ad latus, id totum complexum eft,atque compoſitum, & licut fieri non poterat, vt oftenderetur æqualitas laterum trianguli, abſque definitione incomplexicirculi, fic etiam fieri non poterit, vt quippiam de quopiam demonftretur, quando in demonſtratione ingreditur aliquod extremum complexum, quia tunc vtimur toto iſto tanquam principio,ly linea leccans ad latus planum, nifi prius ipfius complexi atque orationis præierit deffinitio, quę eſt,ly linea fimiliter diuidens lineam terminantem locum &locum, ita vtpar. ticula illa circa orationes non intelligatur yt gramatici, & rhetores intelligunt orationes, fed oratio, pro quodam intelligatur comple xo indiſtantitamen, hoc eft fine copula, & verbo principali,parti cula illa, pofitio, cum inquit Ariſtoteles quãdo difficilis eſt pofitio, non intelligitur pro petitione, feu petito, quia petitum non eft argu mentabile,hoc eſt per argumentum probabile,neque difficile, ne facile, cum ſit primum principium &non probetur, fed petitio in hoc loco accipitur pro ipfa propoſitione, quæ probanda venit, ſeu fpeculatiua,vel etiain practicafit, feu problema, vel etiam theore, ma fuerit,et tunc talis propofitio difficile argumérabilis eft, quando inter probandam ipſam,contingit aliquod deffiniendī, quod com plexum fit, quod nifi delfiniatur,difficilis argumentabilis eſt propo ſitio, & fortaffe omnino inpoſsibile, quando id quod dictum eſt contigerit,videlicet quod complexum deffiniendum interueniat, ly fortaffe autem omnino impoſsibile in præcedenti textu non dubi tatiue ſed magis comprobationis particula accipienda eſt. VELV T Zenonis quòd non contingitmoneri, neque ſtadium pertranfire. PROTERVI Zenonis eft fententia dicentis ftadium, quod octaua pars milliaris eft,pertranfiri non polle, inter genera menſu. rarum quæ magis notæ ſunt,ftadium numeratur,quod iuxta Ptho. Jamei ſententiã primo Geographiæ eft milliaris Italici pars octaua. OPORT ET autem eum quibene transfert diale &tice,& non contentioſe transferre, vt GeometramGeometricæ,fiue falſum fiue verum fit; quod concludendum eft. DIALECTIC A trallatio eft,quæ apparens quidem eft,et conuenientiam habet ad illam remi fecundumquam trallatio facta eft, & non debet effe dubia,contentiofa, & fophiſtica, ſed magis ad inſtar geometræ, qui nõ errat aliquo pacto circa ſuam materiam er formam, vt primo poſteriorum declaraui, vel etiam quitransſeng hanc vocem triangulus, a ternario numero, et quadratum a nunc ro quaternario propter ternarium, & quaternarium numerum vel æquicrus a duobusæqualibus tibás, vel gradatus propter tria 1112 - qualia latera, quæ vt gradus concipiuntur, 2 CAPITE QVINTO. AXT fiquis corum qua ſequuntur ſeinuicem ex neceſſitateal Strumpetat vt latus incomenſurabile cle diametrofi oportet dia meter lateri. PRIMO pofteriorum fuit declaratum & demonſtratū quo pacto diameter quadrati coftę fit incommenſurabilis, quantum autem ad hunc locum attinet, non ſemper per ca que ſe conſequun tur immediate,probatio fieri debet, fed medium debet effe aliquo modo idem cū extremis,&aliquomodo diuerſum, vt in 10 clemë torum de diametro, &cofta eftmanifeftū,Prçterea,non eft proban dumaliquod ingnotum per equc ignotum, quod fi alterum peta tur in alterius probatione, nil penitus demonſtratur, IN PRIMO ELENCORVM. CAPITE PRIMO, POSTQVAM enim ipſas per ſe res in difputationem alla tas vfurpare dicendo non eſt, ſed vocum veluti nutibus,rerum die ce primur, ſiquid in id incidit vitij,in ipſis eſſe rebus, nõ in vocibus putamus,quod vfu venire his,qui calculisrationem ineunt, ſolet. CALCULATORES noſtri temporis characteribus caldaicis vtuntur, per quos, in numerorī cognitionem trahuntur, ficut per voces in rerum cognitionem ducimur, IN TERTIO CAPITE, DIVISIONE vero,vt quoniam quinqueſuntduo et tria, fieri vt paria fint imparia, & maius fit æquale. SI diuiſim ſummas3.& 2. nunquam, quinque faciunt, ſecue autem fi coniunctim, &ceffatomnisinftantia. Neque dixit terna fium, & binarium, quia due ſpecies numeri, non componunt terº tiam fpeciem numerorum,ſed quinque vnitatcs pro materia quiné sii accipiuntur. VD ANTVM vt quale,quale vt quantum. IN primo pofteriorum in de triplici errore circa vniuerfale fuit oftenfum,proportionem proprie circa quantum &non circa qua le effe, ita vi ſiquis pPomba proportionem proprie eſſc circa quale, is quale pro ipſo vretur quanto vitioſe. IN QVARTO CAPITE. AVT quod idem eiuſdem duplum, & non duplum, duplum quidem in longuni, non duplum antem inlatum. CVM dederic eiufdem ad diuerfa: vt duo ad uſum &ad tria dat deinceps exemplum eiuſdein ad idem fecundâ diuerfa tama, Vt linca a b quatuoc,ad lineam a cduo actu dupla eft,no autem dú pla in latū immo quadrupla elt a badac duo quod eft effe fuũ in potentia, quod manifeſtuin eſt, in triangulo a bccuius ca b'rectus eft, id autem manifeftum eft ex 46 primi Elementorum, Eucli dis, vel dicas ab duplam ad a cin longitudine, non autem in latiu dine, qua caret, eft dupla 1: 6 . NEQYE ſi triangulusduobus rečtis tres æquoshabet, & ei. velfigură,del primum,vel principium eſſe dicit;quod velfigura, del primum, vel principium eſt triangulus eft, nam non quathe nusfigura del primum pel principium, ſed quatbenus triangulus demonftratio erat. TRIANGVLVS enim rectilineus figurarum rectilinea. sum prima eſt,ita vt fic & figura, & prima, & principium,vt qui buſdam placet omnium figurarum rectilinearum,non tamen id ve tum eft fecundum Euclidis fcicum; vtAs primi clementorum dos cet, &vt Amonius determinat capite deſpecie ſupra porphirit, ſed hoc loco famoſe loquitur Ariſtoteles, & determinat quod no con uenit criangulo habere tres duobus rectis æquales, ratione corum quæ de eo dicta funt, fed ratione ſui ipſius,non aucem quathenus,fi gura,vel primī, & principium neque etiam fi ifta fuſius accipian tur,figura,primüm principium inferunt triangulum efle, arguere. tur enim ex conſequente ad antecedens, & exmagis vniuerfale ad minus vniuerfale,ex ſuperiorique ad inferius, figura enim nedum triangulo conuenit, ſed pentagono &alijs multis,primum nedum figuræ, fed etiamnumero principium quoque in naturalibus, & his quæ arte fiunt repperitur, nedum in figuris cöpofitis (vt ais. bant ex triangulo ſape ſumpto, Hoc autem ab accidente differt, quoniam accidens quidem 1 I 1 in uno ſolo ſummere eft, vt idem,elle flauum of melse album ege cygnum,quod autem propter confequens in pluribusſemper opora tet,nam quæ vni & eidem funteadem er fibi ipſa poſtulantur elle eadem propter quodfit ea quæ propter conſequens eft redargutio, eſt autem non omnino verum, viſifit album ſecundum accidens, nam &nix cygnusalbedo idem,autrurſum Melyſji oratio, ide elle poftulat,fa &tum eſſe, &principium babere', autæqualisfieri Geandem magnitudinem accipere,quoniam enim principium ba bet quodfa &tum eft.co quod factum eſt, babet principium,fa &tum elle postulatstam quam ambo eadem fint eo quod principiū fa &tu elle finitumquc habent, ſimiliter auto e in his que æqualiafa &ta Junt, ſi eandem magnitudinem & vnam ſumendo æqualia fiunt, et quæ æqualia faéta funt eandem dim onam magnitudinem ſum munt, quare conſequens ſummit. TRES modos errandiin falatia conſeguentis adducit philofa phus, primade accidente, ve de albo,aiebant quidam cõſequencia hác valere, cignus eft,igitur album eſt, & econuerſo,album eft,ige tur cygnus eft,determinat Ariſtoteles, quod album elle,vniuerſali us fit,quã effe cygnum, a magis comune ad minus comuneargud do cõinictitur fallacia cõrequêtis,albedo enim nedum eft in cygno, fed etiã in niue, & alñs reperitur: Secundo vt Melyflus aiebat, hæc duo videlicet, ly factum efle, & ly principium habere, vt recte fer quebatur fecundum Melyſſum factum eft, igitur principiñ habet, principium habet igiturfactum eſt, principium enim habere, vni uerfalius eft quam factum effe cælum enim principium habet, ma teriain ſuam ſcilicet &formam, attamen, non eft factum, quia fer cunduin falſam Ariſtotelis opinionem ſemper fuit, principiữenim.comune eft & ad id quod materiam &formă haber, & adid quod cæpit efle, in tempore modo a magis comune ad minus comune arguendo committitur error confequentis, Tertio loco, aduertic Ariſtoteles quod eadem magnitudo, &æqualis magnitudonon couertuntur,in plus eniin eſt æqualia effe,quam cadem effe,fiquis igitur inferat,magnitudo magnitudini eadem eft,igitur magnitudo 'magnitudiniæqualiselt,recte quidem intulit, vi in probatione ſce cunde partis quintæ lib. primi Elementorī vna &eadem linea di fit balis in duobus triangulis eft, fibiipfi æqualis & in quinta & ſexta terti Elementorum vna &eadé linea a centro exiens ad cor cunferentiam (quæ duabos lineis ali comparatur )elt æqualis fibi, fed non omne quod eft æquaļe alteri,elt fibi ipfi idem, vipatet, in 1.. tertia primi, Elementorum,cuin de longiori æqualis breuiuri ſinex linea feccacur, ob id Euclides, In quinto Elementorum propofitio, ne 11.propoſuit probandum,quod quæ vni ſunt cadera &libica: dem ſunt,quod fi principiuin primafuiſſet, licuti eft, quæ vni ſunt E qualia inter ſe ſunt equalia, non propoſuillet illud in quinto eile probandum,quod Ariſtoteles confiderauit. QVARE manifeftum eft, quodeo demonſtraționes redargu. tiones funt &veræ quidem,nam quæcunque demonftrare licet, ca Gredarguere eū,qui contradi tione veri ponet,licet, vtſicomen furabilem diametra pofuerit;redarguatquis demonftratione, quod incomenſurabilis;quare omnium oportet efle, nam alia quidem ea quæ in Geometriaſunt principia eorumque concluſiones &cæt. SIQ VIS diametrum commenſurabilem coſtæ ponat redar, guitur ab Euclide lib, 10 elementoruin propoſitione 115, vel leo cundum campanuin, per illam demonſtrationem, quæ ibi adduci. tur,quæ demonftratio,redargutio eft ipfius proteruiafferentis con. trarium, fic vt pro declaratione huius textus fatis fit, quod ipía de monſtratio veri,redargutio eft falli allerti,vel afferendi a proteruo, NAM ſecundum vnamquanque,artem ſyllogiſmus falfus est, vt fecunlum Geometriam Geometricus, " VIDETVR ex hoc textú quod geometra paralogizet quod oppoſitum eft ei, quod determinatum eſt in poſterioribus, Geometram videlicet non paralogizare, Dico Ariſtotelem loqui non de Geometrico fyllogiſmo in quo,neque circa materiam nec circa formam error contingit, fed de fyllogiſmo in quo terminus, ſeu vox aliqua repperitur Geometrica, contraria lux fignifica tioni a Geometra pofita, vt quod triangulus pro circulo accipia tur,vel error paratur in conſequentia,vt fi triangulus, igitur dua. bus lineis clauditur, & vtroque modorum erit pfeudogeometri cus fyllogifmus, vt fi quis pſeudogeometra per numerum inipa sem æqualem pari fyllogizer diametrum commenſurabilem effe ipfi coſtr,hoc ſuo fyllogilino non falſum redarguit, quin potius fal fum ingerit, de quo fyllogiſmo pſeudogeometrico, hic Ariſtoteles Intelligatur, & non de Geometrico, vt in pofterioribus determi, nauit philoſophus, & per me fuit declararā, quo modo Geometra non paralogizat lad ſyllogizat, & id, hoc loco in memoriam reuo candum eft, quod in prioribusde prima figura dictum fuit, quo nam pacto Geometra illa vtatur, IN NONO CAPITE. ET la cuis viletur plura ſignificare triangulus, deditque, nos, vt cam figuram de qua concludebat quòd duo re&tis, verum ad in telle &tum illius difputauit,hic an non? TRIANGVLVS enim eft figura plana tribus rectis li. neis contenta de qua Euclides ſecīda parte 32.primi elementorum demonſtrat quod habet tres angulos duobus rectis equales, modo fiquis immaginaretur quod triãgulus aliquid aliud fit, a tali figura (qui triangulus eſt ) propter id quod omnes anguli ipfius figuræ fint etiam duobus rectis æqualcs, vtoninesanguli pentagoni,cu. ius vnumquodque lacusſeccat duo ipſius reliqua latera, talis pro fecto non diſputabit de triãgulo, quiaad intellectuin triangulinon reſpicit,fed ad aliud, vt ad talem pentagonum, no enim neceffe eft, vequicquid habet angulos duobus rectis pares, fit triangulus, nes quod habent tres duobus rectis pares, fed quæ figura habet tan tum tres angulos duobus rectis pares,ille triangulus eſt. VNITATEs binarijs in quaternzrijsæquiles efle,at binse rij hic quidemſic infunt illiautemſecus, SIQ VIS ex illo principio, quæ vni & eidem ſunt æqualia, inferre tentauerit quod binarij fint quaternarii, hoc medio, omnes vnitates ſunt ęquales vnitatibus binarë,omnis numeri quaternarij vnitates ſunt æqualesvnitatibus binarë, iglur omnes vnitates quaternarñ ſunt æquales Vnitatibus binarij,igitur quacernarius eft binarius,ad maiorem & minorem prime coufequentiæ dicendum, quod fi vnitates ſingulę & diuiſion accipiantur concedendæ ſunt vtræque & confequentia prima, fed fecunda confequentia interris matur, fi vero vnitates in maiori & minori acceruarim ſuſcipian, tur vtraque præmiſſarum eft falla & fequitur conclufio falfa, & les cundę conſequentiæ anteccedens eft falluin, & conſequentia fequi tur, & conſequens etiam falſum eſt. NEOVE liquod pſeudographum circa verum eft vt Hyppo cratis quadratura que per lunulas, ſed qualiter Brifo circulã qua, drauit,tametficirculus quadretur,tamen quis non ſecundum rem ideo ſophiſticus est, quare etiam qui de bis apparens ſyllogiſmus cft,oratio plane eſt contentiola. / ! HYPPOCRAS tentauit circulum quadrareper lunulas et reduxit lunulam deſcriptam ſuper coſtarn quadrati inſcripti in ciro culo ad figuram rectilineam &exiſtimauit omnem lunulam redu ci poffe ad rectilineam figuram, ob id fuppofuit lunulas deſcrip tas fuper latus exagoni circulo inſcripti,poffe reduci adrectilineam figuram ex quo ſuppoſito non demonftrato, progreſſus eſt ad cir. culi quadraturam &variauit diagramma,tranfiens à quadrato ad exagonum, & tranfiens a lunula exiſtente ſuper lacus quadrati in fcripti circulo ad lunulam deſcriptam fuper lacus exagoni inſcripti in circulo, & fic preudographus factus eſt, Briſo fimiliter errauit circunſcribens circulo & infcribens circulo quadratum,vterque fo phiſtice proceſsit,et fyllogizarunt contētiofe, fed alter in diagrāma te vt Hyppocras, reliquus vero in principäs proprös neque in illa rione, reliquus autem in conſequentia, & quia vtebatur principös coinmunibus, & fi circulus quadretur fophiftice, tamen non fecun dum rem, vt non per principia propria, neque per deſcriptionetti diagramatum,hoceft per cõſtructionem debitam figurarum,nec ex neceffaria cófequutione principiorum ad conclufionem ex illis principñsneceffario illatam, fyllogiſinus igitur quo Hyppocrates & Briſo fyllogizabant quadraturam circuli, contentioſa erat al tera,vt quæ Brilonis, non contentiofa vero reliqua, vi hyppocra. cis,vti Ariſtoteles inferius in hoc capite declarat inquiens, CONTENTIOS A vero quodam modo ſic ſe ad dialetti cam habet,quemadmodum pleudographa ad Geometriam, namex eiſdem, diferendi modo,captiose & pſeudographa Geometrice de cipit,fed hæc quidemnon eſt contentiofa,quia ex principys & con clufionibus quæ funt fub arte pſeudographa facit,quæ autem ex his eftquafuntfub diale & tica,circa alia quide contentiofam efle mani feftum eft,vt quadratura quidem, quæper lunulas non contentio Sa, Brifonis autem contentiofa eft. ILLA ars quę falſum cöcludit vel potius artifex ille,an potius pſeudoartifex qui ſyllogizat falium ex principiis veris vel ex theo rematibus probatis, vt fecit Hyppocras in quadratura circuli,non contentioſe procedit, quia ex propriis principiis & theorematibus Geometriæ,Briſo autem proceſſic ex his, quæ nedum Geometria, fed etiam aliis diſciplinis applicari poffunt, vt, quæ vni & eidem funt æqualia inter fe æquaha effe conftat,quod principium et Geo metriæ Arithmeticæ ſtereometriæ &ei quæ de ponderibus tractat diſciplinæ applicari poteft, pariter ratio Antiphontisde quadratu. G 16 ra contentiora eft, qua negat principium Geometriæ, quod eft fe cundum theorema certii elementorum Euclidis, & negat etiam li. neain poffe in infinitum diuidi, & dicit rectum eſſe curuum, & cur uum rectum, & dari duo puncta inmediata in linea circulari, quæ omnia fequuntur ex conſtitutione hilochilium triangulorum qui conſumunt lunulam contentam a circunferencia circuli & recta linea. VT impar numerus ejt medium habens, eſt aut numerus im par, eft igitur numerus, numerus medium habens. IMPAR numerusa pari differt vnitatis incremento vel im minutione, vt quinarius a quaternario, & ſenario, in his igitur vo cibus, ly numerus & ly impar committitur vitium nugationis, quale committitur in his quæ ad aliquid dicuntur, vt fimitas naſi quidem curuicas eft,modo fic ordineturfyllogiſmus, Omnis impar eſt numerus habens medium. Sed numerus eft impar Igitur numerus eſt numerus habens medium Ecce quod bis numerus reppetitur in concluſionc, inaniter factum. ACCIDIT autem quandoque ficut in mathematicis confia gurationibus, vt illic quæ foluimus quandoquecomponcre iterum non queamus. OVADRATVM, penthagonum, & cæteras figuras re. etilineas reſoluimus in triangulos,non tamen ex triangulis quadra tum fit ſed ex dacta linea recta in fe ducta deſcribitur&, 45primi clementorum Euclidis, & cæteræ figuræ, vt ex quartolibro elemen torum Euclidis patet,fed per id non videtur factum effe fatis textui Ariſtotelis,nifi dixeris, quod non ea facilitate idem componimus, qua facilitate ſoluitur in triangulos, vel etiam dicas quodin Geo metria abſolute non componitur figura ex triangulis, & fi omnia figura rectilinea in triangulos refoluatur, fecus auteminri athmetica de mente pythagoræ, tefte Boetio libro fecundo Arithmetices immo vnaqueque figurarum ſpecies, componitur ex præcedenu fpecie et triangulo,vt eo loco demonftratur, vel meliusex tot vni tatibus, quotpræcedensſpeciesconſtat, & vnitatibus triangulorum, vt illis declaratur locis. VNIVERSA LOCA IN LOGICA M A R то тв LIS IN MATHBMATICAS DISCIPLINAS HOC NOVVM OPVS DECLARAT. сум PRIVILEGIO. aistas f 4 VBNBTUIS IN OFICINA FRANCISCI,COLINI GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim. Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum, & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs, aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois, Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń, fubpena Ducatorum centum, áammißionis librorum; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori, pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano: LASERLICH HOFBIB WIEN L MARCOLINI GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim. Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum, & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs, aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois, Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń, fubpena Ducatorum centum, áammißionis librorum; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori, pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano: LASERLICH HOFBIB WIEN LCOLINI GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim. Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum, & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs, aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois, Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń, fubpena Ducatorum centum, áammißionis librorum; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori, pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano: LASERLICH HOFBIB WIEN LIOTHEK PETRVS CATHENA VENETÝS PRESBITERORVM OMNIVM MINIMVS REVERENDISSIMO DOMINO MARCO LAVRETANO EPISCOPO NONENSI AC PATRONO S V O COLENDISSIMO. S. P. மரா NTER munera,quæ diuiniore calculo benigna humanitatis arti fex natura nobiscontulit, uirtu tum de litterarum facratiſsime antistes, ad poftremum haud quaquam adducitur ipſa ratio, nempe ad quamomnia prope quæhumana addicuntur ſubstan tiæ ad unum adhæferunt, cuius munere ſi quis minime recte ufus fuerit ipſum naturæ aduerſari, atſi bonis artibus que de periere iam &deciderunt, quippiamſplendoris &utilitatiscor rogauerit & farcuerit, illum rationismunereperfunctumeſſe ne mo nefciat, hac de caufaconſiderans hominum mentes eodem effe quo arua fato, quæ ſi excolantur bona ſinegligantur mala perfe runt germina,uidiſſem multos, qui philofophi nominari uolunt prepoſteris imbutos litteris,quorum mentes ſentes alunt Gmon stra, quibusuellicandisne unus quidem Herculesſatiseffet, uin Etum in inestricabiles laberinthos quin potius in carcerem te terrimum Aristotelem ut ciuimilites traxiſſe,qui inutilibus que stionibus &Græcis tenue intincti literis, bomis artibusnegletis, fimiles factifunt oculo, qui quòd in tenebris fit lucem flocifecerit Aij decreuiquoingenijuires,etiam fi exignas(nam apprime noui quàm fitmihi curtaſuppellex ) expenderem in eruendo Ariſtotele ex illo obfcuro, id autem tam comode quàm apte fieri putabam ſi Mathematica exempla ſua expreſsiora redderem, quibus in ex plicandis Logicis ufusfuit ipſe prefertim hoc tempore qua publi cis lectionibus Mathematicis in PaduanoGimnaſio incumbebam, ad huius etiam clariſsimi Philofophi elucidationem accedebat hor tatio iuuamen ReuerendissD.. Ioannis Marie Piſauri Epiſco pi Paphenſis &mecenatis optimi cuius expenſis opus imprimeba tur, hortabaturque me ille, ne opus hocpermiterem ex ire in ho minummanus fine duce aliquo cumpreſertim milta, &fere difi cilima hac tempestate contineret, que aut ab interpretibus uniuer fis omiffa, autoppoſita his effent que interpretati ſunt. Te igitur patronum Dominum meum delegi,qui & Ariſtoteleam Philo ſophiam uniuerſam cales, &qui has liberalesartes Latinis duri bus inuulgauit. Itaque ea. Aristoteles loca qua potui diligentia il lustraui, & quæ lucem claritatemque deſiderare uide bantur, curſimebreuis annotamenti lumine perui afeci, qua in reſi effe cerim quod uoluizesło iudex &cenfor. Has autem primores inge - ný nostri fæturastuo nomini Reuerendiss. Domine eam ob rem dicatas uolui,quo plane intelligeres noftri animigratitudinem pro innumeris quibus me in dies cumulare deſideras beneficijs, eoque quod aliter non datur temeum reuerear benefactorem; neque ob aliud ſanete reuerear quàm quòd omni laude digniſsimum: Vale præfulum decus. ed RE agat, ueletium num in ſemen uiri, uelmulieris, uel inmatricem, { OTS PORPHYRII DE GENERE PETRI CΑΤΗΕΝΑ PRESBITERI VENETINOVA INTERPRETATIO. IcetVR & alio modo genus uniuſcuiuſque principium or tus, tam ab co, qui genuit, quám a loco in quo eft quiſ piam ortus. Dicitur quòd locus, os pater cauſe funteffè &trices genis ti, diuerfimodetamen,quippe pater aétiua fit caufa, locus uero conſer uatiua tantum,que ad cauſam effe's Etricem non immerito reducitur,aps te magis quàm adquodcunque aliud cauſé genus. Dico tamen quod, & locusnedum conſeruatiuum prin cipium est, fic ut genitum folummodo conſeruet poftea quam genitum ipfum acquiſiuerit effe fuum,ſed etiam adiuuin principium eſt ipſe locus affe Ausrefpectu geniti accidentiumſententia est ipſius Ariſtotelis, quòd per acceſjum atque receſſum planetarumſub circulo obliquo fiunt in hæc inferioragenerationes atquecorruptiones, folis igitur, e planetarum aliorum lumine, ac motu, affectus locus, aštiue agit hoc pacto adgenera = tionem, atque parentes, fi fecus quis audiuerit, tunc sol, & pater non generarenthominem cum Sol non niſiſuis radijs reétis reflexis autfrae étis alterando aerem agatin ipſum, ca in contentum, quo autem pacto age quodmodo eidemſimili,quo etiam in uiſcera terre producitmineralia, o interræ fuperficie plantas. PORPHY RIVS DE SPE. DE SPET I E. VLCR A Fucies, debita parilitate demiſſa,coloria bus lineamentiſuć luculenter affecta,fpetiesà Pors phyrio in prima ſpetiei ſignificatione uocatur., ut Facies priami dignaeſt imperio, ad cuius fi militudinem, ill. est, quefub aßignato generepoa nitur, curus pulcritudo, est differentia fpecifica, qua pulcritudine informe genus contrahitur, atque pulcrumfit. Et Trianguluun, figuræ fpetiem ſimili modo ſignificat,fie gura rectilinea genus est ad triangulum, non figura in uniuerſum quamſic fufamfiguram Euclides primo Elementorum partitur in eam, que una clauditur linea, & in eam quæ pluribus lineis continetur, qui Triangulus Axties fitfigure reftilinee per hanc ſpecificam différen tiam qua est, claudi tantum tribus reftis, qua etiam differentia pula crum redditur figure genus. Indiuidua funt'infinita. Non intela ligas hoc uelim, niſi potentia,qua infinitatis affectione etiam numerus ita intelligatur; ſed modo quodam diverſo, numerus enim, quicunque fit, aexiſtat, finitus eſt, terminatus,ſic pariter indiuidua on nia, quæ exiſtunt finita funt, sed que preceſſerunt omnia,o que futu rafunt ex utraqueparte infinita diceret Ariſtoteles, numerus uero cum statum ad unitatemhabeat duplici modo finitus eſt,« actu, o deſcenden do,uerum indiuidua duobus modis dictis funt infinita, unico autem modo ut quæ præfentiafunt, finita etiamfunt. IN PREDICAMENTA ARISTOTELIS. DE QVANTITATE. ENARAI numeri partes, ut quinque, & quinque. Animaduerſione dignum exemplar hoc in loco pofuit Ariſtoteles, cum dixit quinque,& quin que partes eſe denarij numeri, non enim dixit quis narium, oquinarium denarium numerum compone re, quia nulla numerorun fpeties componitur ex di uerfisſpetiebus,neque etiam ex unis indiuiduis eiufdem fpetiei,ut diuerfa fpeties fiat, ex unis ternis uel quaternis, ant quinnis numeris nonfitfe nariusuel oftonarius aut denarius, ex unitatibus tamen quinis o quinis que materia eft. Cuiuslibet numeri, denari fpeties conflutur, eas ſententia Euclidis, Nichomaci, atque Boetij. Similiter & in cor pore fuimere aſsignareque lineam fuperficiemuè comu. nem terininun potes, quo partes corporis copulantur. Punctum esse lincæ terminum, or lineam ſuperficiei, e ſuperficiem corporis nemo neſcit, niſi qui Euclidis doctrina dignus est, ſed illud unum maiori egeret indagine, quo nam pa&o lineaſitforſan etiam ima mediatus corporis terminus,ne id Ariſtoteles aſſerens, quippiam affe rat contra Euclidis fcitum, prima enim deffinitione undecimi Elementorum inquit ille, corpus ſiue ſolidum est, quod longitudinem latitudia nem ocraßitudinem habet, folidi uero terminus fuperficies est, uide ergo quod ſolidi terminusnonſit linea ipfa, ut Ariſtoteles aſſerit. Ves rum quòd linea terminusfit corporis manifeſtum est, fi idquod Euclides ait deffinitione nona undecimi elementorum non ignores, solidus (inquit) angulus est, qui ſub pluribus duobus planis angulis comprehenditur non exiſtentibus in eodem plano, ad unum ſignum conſtitutis, plurium linearum igitur contactus (nulla ſuperficierum habita conſideratione) qui estfolidus angulus corpus terminat,fub illis igitur lineis angulusfox Tidus contentus, terminusest illius folidi, ville lineæ termini ſuntnes dum illarum ſuperficierum corpus ambientium, quin etiam inmediati terinini funtillius corporis, cum linea continentes illos angulos in puran Etum unum concurrant. Preterea idipſum Euclides afferit de angulo, quod fit immediatus terminusfolidi problemate tredecimo, libri tredeci mi Elementorum, & in fequentibus quatuor problematibus idem uit,in quibus docet conſtruere corpora regularia, queſuis angulis tangant ſu perficiem concauam circumſcribentis pheri, qui quidem uniuerſi angis li ſub tribus ad minus &pluribus tribus rectis lineis ad unum pun &tum concurrentibus continentur, &punctus ille, nedum est linearum terris minus, fed etiam regularis corporis finis,cum ſit terminus omnium linearum, quo termino tangit fphærum,patet igitur id, quod Ariſtoteles dixit de lineis nedum ueritatem habere, ſed ut etiam pun tusſit terminus ips fius corporis, ſecundum Euclidis ſcitum, perinde dicendum eft de ſuper ficie, quòd non tantum lineis, ſedetiam ipſis pun tis terminata fit, fide ea, quæ rectis lineis claudatur fermofiat, øde corpore Iſoperimetro, fiue quod pluribus re&tis fuperficiebusclauditur, hocquod dictum est in telligatur. Adid uero, quod Euclides primo Elementorum ait deſuper ficie fiuefigura rectilinea deffinitione uigefima, refponde, quod uerum dicit, figura rectilinea, inquit, contineturfub lineis reftis, enon die cit contineturfub punctis, agequod contineriſub pun &tis diuerfum eſt, ab terminari punctis. Ariſtoteles hoc uidens, dixit corpus lineis termia narinon tamenfub illis contineri,quod deſuperficie ſimiliter eft dia cendum. Vel etiam reétè dices, fi ita fenferis, quòd figura in uniuer. ſali, linea claudatur, neque una,neque pluribus, & corpus in uniuer far liambitu ſuperficie claudatur, neque itidem una aut pluribus, o neua tra deffinitio fic in uniuerfum accepta habet exclufiuam particulam,cum autem ad circulum uel ſpherum defcenderis,unum linea una clauditur re liquum uero una tantum fuperficie ſcias elſe claufum,reliquæ uerofigur re rectilineæ non deffiniuntur cum particula exclufiua abEuclide,vel di cas, quòd in littera Ariſtotelis, eſt fua met interpretatio, ubi enim dixe rit, in corporefumere aßignarequelineam comunem terminum, statim correxit ſe, dicens fuperficiem eſſe comuném terminum corporis et Euclides non dixit quòd punctus, ſed quod angulus tangat fphærum. Rurſus in pago quidem, multos homines, Athenis au tem paucos dicimus eſſe, qui tamen funt illis plures, & in domo quidem multos in theatro uero paucos,qui quidem & ipfi multo funt illis plures.Aduertas Ariſtotelem utroque exi emplo, o paucos & multos dixiſſe, comparationem faciens hominum ad loca in quibusfunt, non habens rationens hominum ad homines, ut fimile exemplun daretur ſiquis dicat pauciaurcifunt in arca, @mule ti in crumena, fi in crumena eſſent tantum fex, decem in arca, DE HIS QVÆ AD ALIQVID. VADRATIONIS enim circuli, & fcibilis eſt, ſcientia quidem nondum eſſe uidetur eft autem fcibilis ipſa. Quadam libertate hoc lo co loquutus eſt Arift.afferens id quod ignorauit, quia ſi non ignoraſcet eam,habuiſſet illiusſcientiam, o non dixiſſet (niſi forſan mendatio) ſcientia quidem now dum eſſe uidetur,fciens etiam quod nullus adtempus uſqueſuum proprijs principijs quadraturam inuenerit, nequecitra ad hanc ufq; horam,quis oftenderit,nififorſan quibufdamſuppoſitis,quu,et ipfa non minoriproba tione egerent quàm ipſa circuli quadratio,fedquidper iftud exemplum utilitatis Ariſtot. attulerit, illud effe puto, ut ammoto fcibili, oſcien tia ARISTOTELIS. tia eiusremoveri neceſſe eſt, ut putacaufa nunquam cauſante nuſquam effectus erit, quadratio igitur circuli cum non ſit, nequefcientia de ip. fa quadratura circuließepoteft. Quid nam antiqui de quadratura ſe na ferint in fractionibus Mathematicis declarabitur. DE QVALITATE. VARTVM qualitatis gen'us eft figura & ca quæ circa unumquodque eft forma, & in fuper rectitudo, & curvitas, & quicquid eſt hiſce fimile. De figura fcias Ariſtotelem lom qui, non ut de ea Geometrica abſtracte conſiderata, Jed de figura in re figurata exiſtente,ueluti in fubie & o, idem de forma, rectitudine, atque curuitate intelligas. Aduere tendum tamen ordinem quendam feruaffe hoc loco Ariſtotelem in his que proponit, à ſimpliciori ad magis compoſitum. Primo enim defi gura,quæ linea, uel lineis clauditur, fecundo de his, quæ ſimplici bus lineis, aut ſuperficiebus uniformibus, nempe uel tantum re tis, aut tantum curuis, uelſolummodo conuexis,aut etiain tantum concauis continentur, modus iſte ſecundus à primo non nihil differt, in hoc differentia est inter utrumque, quia primomodo de co quod planum eft, ueluti ipſa papyrus, ſecundo modo, de eo quod corpus, utmons, ficuti uulgus,quodfubtile eſt (ut papyrus) planum uocat, quod autem eft ualde craſſum, corpus appellat, ut montem, a facilioriperſuadens tya runculis ea,quæ etiam à uulgo principium cognitionis ſumunt. Triana gulus autem & quadratum cæteræque figuræ, non uidens tur talem rationem ſubire. Ariſtoteles parum ante dixit, que: nam ſint et, quæ magis, minufue ſuſcipiunt, ut puta qualia ipſa, gridus fufcipiunt intenfionis,modo uides quod neque trianguliis,nequequadras tum,qualia ſunt, fed quanta, que intenſione remißioninonſunt apta. Nam ea, quæ trianguli rationem circulinefuſcipiunt,trians guli fimiliter, aut circuli ſunt oinnia. Senſus huius eft, quòd triangulus. quilibet, uel omnia que triangula ſunt, niſi id quod tribus clauditur lineis,aliud non eſt, a circuli omnes, nil aliud funtquam und çlaudi linea, in cuius medio punctus eſt quod centrum dicitur, à quo oma. nes recte linea uſque ad circunferentiam ductæ inter fefunt cquales.com hoc nihil aliud quàm circulus eſt,nõ enim triangulus circulus,neque cira B 10 IN PREDICAMENT A culus triangulus eft, neque utrunque aliquid unum eſt, licet utrunque figura ſit,ſed hoc æquiuoce, & non uniuoce eſt. Neque te turbet hoc quia Ariſtoteles prius de triangulo, « quadrato propoſuit,c finit ſena tentiam de triangulo, e circulo, & non de triangulo, quadrato, quia de triangulo o quadrato dicens, ſubiunxit cæteræque figuræ quo uerbo etiam circulă intellexit, de quo ultimo loco explicite loquitur. Eorum uero, quæ rationein hanc, non ſuſcipiunt, nihil alio magis minúſie tale dicetur,non enim quadratum ma gis quàm altera parte longius circulus elt, quippe cum neu trum circuli fubeat rationem atque fimpliciter. Si non fubeat propoſiti, in quofit comparatio rationem, alteruin altero magis tale mi nuſueminimèdicetur. Quadratum neque circulus eſt, nec etiam altera parte longius circulus eſt,cum igitur propoſiti circuli rationem neus trum ſuſcipiat, neque quadratum circulus eft,nec etiam quadratum mas gis quam altera parte longius circulus est, idem age de altera partelons giore. Atquefimpliter pro hoc uerbo, ſcito Ariſtot.ſententiam hanc eſe, o ſi quadratum, &altera parte longius circulus eſſet, atque in eo conuenirent, quia tamen neutrum eorum, atque circulus, non eft qualis tas, fed quantitas,ideo à quadrato, o abaltera parte longiori, lymas gisminúfue,ſecludenda funt.Expoſitio hæc uidetur contra id, quòd Aris ſtoteles determinauit in capite de quali oqualitate, quo loco ait quara tum qualitatis genus eft figura,ad quodfoluendum, dicas figuram capi uno, atquealtero modo,primo figura conſideratur in ſe abſtracta aſus bie &to quocunque, cmſic quantumfeu quantitas eft,o non qualitas,nec etiam in quarto qualitatis genere, alio autem modo conſideraturfigura in refigurata, cui largitur tale eſſe, or ſicfigura in fubieéto aliquo,quam. litatis naturam non refutat. Neque musica, cuiuſpiam musica, niſi generis ratione ad aliquid, & ipsa dicatur. De uniuersali Aristoteles,& non para ticularimuſica loquens, ſiue humant uoce uel inſtrumentis praxis fiat, uel Theorica ipſa intelligatur, biffariam eam conſiderat, quatenus à fubieéto uel obiecto ſeu genere ipſo caufetur,et quatenus cauſata in ſubie eo quopiam eſt, primo modo ad fubie &tum quod genus uocat, tan quàm ad effectricem caufam reffertur, ut ad ſonum numeratum, non due tem ad Platonem in quo recepta est, relatiue dicitur. Vel etiam dicas, quòd refertur rationefuigeneris, ut quatenus scientia adfcibile. ARISTOTELIS. IL DE MODIS PRIOR IS. HR N DEMONTSRATIVIS scientisprius eſt nimirum atque pofterius ordine, Elemen ta nanque deſignationibus ordine priora ſunt. Scito elementa, ut deffinitiones, petita, animi conceptiones precedere ipfis propoſitiones in ſcientijs, id quod in Euclidis methodo patet,proa poſitio nem ſubſequitur expoſitio, quam expoſitionem statim deſigndz tio diagrammatisconſequitur, hancdeſignationem (que beneficio petia torum tantun fit) determinatio, determinationem demonſtratio, ſexto loco epilogus, ſiue propoſitionis repetitio. Vel dicas elementa,ipſatana tum eſſe petita reſpectu deſignationis tantummodo. Elementa etiam non tantum principia,utdeffinitiones,petita, & conceptiones animi, reſpectu propoſitionum, que per ea probantur dicuntur, fed ipſa propoſia tiones probatæ, quatenus ad alias fequentes propoſitiones probandas fumuntur, dicuntur elementa, hac de caufa, quidam uolunt libros quindecim Euclidis uocari elementa, alij nero non ob id, quindecim libri dicuntur elementa,ſed quia fingulis libris fua affiguntur principia, ut apud Campanum, ſed neuter modus dicendi placet, quin potius elea menta dicuntur oinnia, quæ in illis quindecim libris continentur, nedum propter deffinitiones, petita, Oʻanimi conceptiones,ut iſti, neque prou pter hoc, quòd alique prime propoſitiones, que demonſtratæ funt, fint pro alijs propoſitionibus fequentibus probandis principia, &elea menta,ut illi dicunt, quia tunc ultima propoſitio noneſſet elementuin ad. quippiam, cum ipſa ultima eſſet, ſed elementa, atque principia omnia illa dicuntur, reſpectu omnium propoſitionum per ipfa probandarum infcientijs fubalternatis ad illos quindecim libros. IN PREDICAMENTA DESPETIEB.V.S. MOTVS. i bЬ & CRET 10 ', alteratio non eft. Hoc perſuaa det Ariſtot. exs * emplo Geometri co (quod etiam multis modis in Arithmetica Boetius docet)Gnomon quidem,ut in fecundo clementorum deffinitione ſecunda ha betur,figura eſt ſex laterum,compoſi ta ex uno quadrato conſiſtente circa diametrum, « ſuplementis duobus, quefigura ab Euclide primo elemen torum propoſitione tirgeſima quar ta habetur, quæ est 6, quam fi huic addideris quadrato a, quadratiſpe ties minime alteratur, licet fiat acre tio quantitatis, ſic ut in hac figu ra ab, quod una diuerfa peties alteri fpetiei addita non uariet fpes tiem,exempla plus centum in tabule Pythagora, apud Nicomachum, Boetium,in numeris inuenies, ut pu ta ex duobus longilateris altrinfecus ad quadratum pofitis, bis medio fumpto quadrato, quod fit, quadra = tumest,licetfacta ſit acretio, ut ex duobus, fex, vbis quatuor, ut ofto, ſexdecim exoritur,qui etiam quadratus eft, pari modo,ex duo bus quadratis, er bis fumptomedio longilatero, nempe ex quatuor, e nouem,bisfumptoſenario longilate ro, uiginti quinque quadratus ortus alb ARISTOTELIS.i. 13 est, que intelligas uolo ex in ateria primi quadrati, atque longilateri, ut ex ipſis unitatibus, ego non de numeris tūlis formaliter fumptis, cum prius corrumpaturſpeties preceden tis quadrati minoris, atque longilas • teri, in aliam petiem maioris quas drati, qui ex illis oritur, acretio. igitur ubique facta eſt, nulla intera ueniente alteratione in fpetie ipſius quadrati, licet e gnomonis atque longilateri apertiſsime facta fit alte ratio. Aduertas tamen, ad id quòd Ariſtot. ait in hoc exemplo de addia • tione gnomonis ad quadratum, ſic, utfpetiesquadrati nõ alteratur.licet • fiat acretio, in Geometria uniuerſali ter ueritatem habet, fed non eſt ita planum in Arithmetica, niſi intelles Xeris de fpetie ſubalternāte,quòd ip fa non uariatur, uaristur tamen qua dratiſþeties ſubalternata, oſpetia liſsima,quòd patet ex eo quòdſi nu mero quadratoſexdecim,addus gno monem uiginti, statim ex pariter paa ri, ut puta ſexdecim, fit impariter par, uidelicet triginta fex, quorums uterque, o fifit quadratus, diucrfarum tamen fpetierum funt, ut ex libris Euclidis de Arithmetica mani feftum eft,quod exemplo fubſcripto manifeſtatur fatis, quapropter uni uerfaliter Ariſtotelem intelligas de quadrati, quatenus quadratum eft ', Apetie, hoceſt de fpetie quadrati in uniuerfum, non de quadratiſpe= tie ppetialifsima. vel etiam dicas quòd Ariſtoteles intelligit exemplifia cari in Geometria uniuerfaliter non autem uniuerfaliter fimpliciter, hoc oft non in omnibus difciplinis. 11 14: IN PRIMVM LIB. IN PRIMO PRIOR V M AN T E SECVNDVM SEC.TV M. n A M fine uniuerſali nô erit fyllogiſmus aut non ad pofitum aut quod ex principio pea tetur,ponatur enim mulicam uoluptatem & c. Sed magis efficitur inanifeſtum in de ſcriptionibus, ut quòdæquicruriæquales, quiad baſin, ſintadcentruin ductæ a,b, fi igitur æqualem accipiata, c, d, angulum, ipſib, d, c,non omnino exiſtimans æquales, qui ſemicirculorum, & rur. fus c, ipfi d,non omnem aſunens eum qui ſeçti. Amplius ab æquis exiſtentibus, totis Angulis, & ablatorum, æqua les eflc reliquos e,f; quod ex principio petet, nifi acceperit ab æqualibus æqualibus demptis,æqualia dereli nqui. Plaa num igitur quòdin omni oportet uniuerſale exiſtere. Si dubitaret quis,an. ſemicirculi eiuſdem ornnes anguli ſint equales, ſic perfuaderi uidetur, b omnes diametri eiufdem circuliſunt æquales per primam deffinitionem tertij elementorum,peripheria eiuſ de circuli uniformis eſt per xv. def finitionem primi elementorit, o me dietas circunferentiæ est æqualis al teri medietati eiufdě circunferentia cumque omnes recte à centro ad cir cunferentiam du &tæ fint æquales,fe quitur igitur, quod duo anguli a, c, d,cb, d, c, ſemicirculorum eiufdem circuli a, b, c, d, ſint ad inuicem æquales, hæc perfuafio fiat ei, qui non omnino exiſtimat æquales, qui ſemicirculorum, rurfus inquit c, ipſi d, angulus uidelicet uterý; minoris portionis æqualis eft alteri,nonaccepto toto angulo, ideſt,toto angulo ſemicirculib, d,c, e a cd, quod ſic perſuadetur, árcus c, d, eiuſdem est peripherie, que unir formis eſt, c, d, eſt unice, om eadem re&ta,ſi igitur utrunque angus lorum minoris portionis ab utriſque ſemicirculorum angulis detraxeris, qui anguli reininent uidelicet e, of, erunt æquales æquicrurus igitur. PRIORVM ARISTOT. 15 triangulus habet ad bafim poſitos æquales angulos, quod demonſtratum fuit,ſumpta iſta uniuerſali, ſi ab equalibus æqualia aufferantur, reli qua æqualia remanent, IN PRIMO PRIOR VM ANTE TERTIVM SECTV M. ECVNDVM uero unumquodque entium elia gere, ut de bono,aut fcientia,priuate auten fecundum unamquainque, funt plurima quare principia quidem quæ ſecundum unu quodq; funt,experimenti eſt tradere,dico au tem,ut Aſtrologicam experientiain aſtrolo gicæ ſcientiæ, acceptis enim apparentibus fufficienter, ita inuentæ funtaſtrologicæ demonſtrationes, &c. Compertum eſt aſtrolabio ſolem plus temporis conſumere à principio Arietis ad uſas finem Virginis, quam à principio Libre uſque ad Piſcium fines,idquod o hiſtoria traditum eft, propter hoc etiam Hiſtoria dereli&tum est Solem tres habere orbes, quorum medius,eccentricus eſt. Quibus habis tis apparentibus, facile eftdemonſtrationes de Sole concludere,oſimili ter in unaquaque diſciplina, prima principia hiſtoria data, &dereli Eta ſine probation funtpofteris, quibus principijs tanquàm uerisſupa poſitis (hiſtoriæ enim proprium eft ueritatem narrare) demonſtratio nes fiuntſi autem de principijs aliquafiat demonſtratio,illam « impro priain, a poſteriori, feu à ſigno eſſe, nemoeſt quineſciat. ANTE MVT V AM SYLLOGISMO RVM RESOLVTIONEM. On oportet autein exiſtimare penes id, quod exponimus, aliquid accidere abfurdum nis hil cnim utimur eo, quod eft hoc aliquid elle ſed quemadınodum Geometra, pedalem, & rectam hanc, fine latitudine dicit, quæ non ſunt: Textushic exponitur primo pofteriorum T. 52 fed hic tantum dubitatur,quo pacto intellectus ea poſsit ſufficienti appres henſione capere, quenon funt, ut quæ nunquam, fub fenfu fuerunt? 16 IN SECVNDVM LI B. Adfecundum refpondeo, quod animam eſſe, intelligit intellectus, quam tamen nunquam uidit oculus, aut manus tetigit. Ideo multa intelligit ins telle &tus,quorum nunquamſenfus ſenſationem habuit. Ad primum dico, quodficut intellectus concipit coclearem artem abſtraftam, quætamen kon eſt, niſi indeterminatis, ſingularibus hominibus, fic etiam li ncam ſuperficie?n intelligit, que tamen non ſunt, niſi in linea atrd. mento picta, o ſuperficie, in corpore naturali, IN SECVNDO PRIORVM CAPITE DE PETITIONE PRINCIPII. - o cautem eft quidem fic facere,utſtatim cens ſeat quod propofitum eſt, contingit uero, & in alia tranſeuntes apta nata per illud mon ſtrari, per hæc demonftrare quod ex princie pio,uelutiſi,a, monftretur per b,b autein per C, c autem natun efſet monitrari per a accidit cnim ita ratiocinantes ipſum a,per ipſuninet a monſtrare, quod faciunt, qui coalternas putant fcribere latent enim ipſi ſeipſos talia accipientes, quæ non eſt poſsibile monſtra: re non exiſtentibuscoalternis, quare accidit ita ratiocinans tibus unumquodque eſſe dicere, fi eft unumquodque, ſed ita omne erit per feipfum cognoſcibile, quod impoſsibile eft.Si propoſitum ſit probare, quod e ſit a, &id oftendatur per mes dium b,c fieret talis fyllogiſmus (e est b, beſt a, igitur e eſt 4. Pros batio primæ minoris uidelicet quæ eſt hæc, e eſt b, fit per hoc medium f, ut in hoc Syllogiſino (e eftc, c, eſt b, igitur e eſt b) Cuius minor, uis delicet hæc, & eft c,fiprobetur. Tunc reſumitur prima concluſio pris mi Syllogiſmi,quæ à principio probanda erat, ut in hoc Syllogiſmo e eſt 4,4 eſt c,igitur e eftc) &fic e eft a,quia e eſt a, Ofic error ijte uerfatur in probanda minore primi Syllogiſmi per plura media per c, oper a, propoſitio uero que probanda proponebatur, hæcuidelicet,e eft a, per tria media per b., perc, & per a, probatur, ſimiliter errant illi, qui nituntur probare parallelas effe per hoc, quod Triangulum habent tres æquales duobusreftis, quod quidem hoc probaretur modo, ſit triangu = lus a, b, c. cuius latusbc, ſi protendatur,caufabitur augulus d, c, d, exterior equalis duobus angulis a, b, intrinſecis ex oppoſito colla * catis PRIORVM ARISTOT. 19 [ b N catis, ut patet ex prima parte tri q geſimæſecunde primi elementorun Euclidis, à punéto c, parallela dua catur ipſi b, a, quæ fitc, e, patea bit per ſecundam partem eiufdemn tri geſimæſecundæ primi elementorum, - quòd triangulus a, b, c, habebit tres duobus re&tis æquales. Si aus tem fumatur probandum quod b, a, uc, e, fint parallelæ, per hoc medium, quia triangulus b, a, c, habeat tres duobus re&tis æqua. les, ideo ipſe parallelæ ſunt, ſic, exterior æqualis eft duobus intrinſe cis ex aduerſo poſitis, qui exterior angulus a, c, d, in duos pars titur angulos in a, c, e,we, c, d,, c, e æqualis eſt b, a,, ere, c, d, eft æqualis a,b, c; quorum utrunque probatur per lis neas eſſe parallelas,ut per uigeſimamnonam primi elementorum,feques retur igitur, quod a,b,oc, e, parallelæ funt,quia parallelæ ſunt,ut b, a,oc, f, parallelæ funt,quia triangulus a, b, c, habet tres duoc bus rectis equales, fed a, b, c, triangulus habet tres Angulos duos bus reftis equales, quia a, b, & c,e, parallelæ ſunt,igitur a, b,a col, parallele ſunt,,quia parallelefunt, quod uanum eft, oprobare quipe piam prius per aliquod pofterius, quod pofterius æget illo priori adſui probationem. Aliter exponatur Textus,ut fiintentü fit defcriberec, d, queſit parallela ipſi a, b, per uiges ſimamtertiam primi Elementorum d fiat angulus e, c, d, æqualis angulo 4,6,6, & argue poſtea,quod d, 0,4, ſit æqualis angulo b, a, 6, quod eſſe non poteſt, niſi b, d,egu c, d," parallele fupponantur, fic b connectatur inductio, quia Trian gulus a, b, c, habet duobus reftis æquales,parallelæ funt a,b, c,d, &quia paralellæ funt, ideo Triangulus habet duobus rectis æqualis, igitur paralella funt, quia parallele fit. a: í с 18.INSECVNDVM LIB. DE EO QUOD NON EST PENES HOC. VONIAM idem utique falſum per plures fup pofitiones accidere, nihil fortaffe inconue niens, ueluticoalternas coincidere, & fimas jor eft extrinſecus intrinſeco, & fi triangu lus haberet plures rectos duobus. Quod autem parallela a, b, c, d, coincidunt fic perſuaderiui. detur Angulus extrinfecus e, 8, 6, maior eft angulo intrinſeco g, b, d, (quod quidem ſummitur falfum, pe nes quodſequitur impoſsibile ) ſed 9 4,8,6,6,8, ho per xiij.primi a -b Elementorumſunt æquales duobus re&tis igitur b, 8,5,64,6,8, erunt d minores duobus reftis per illam igi tur communem fententiam, ſi una f recta ſuper duas rectas ceciderit at que ex una parte cadėtis linee duo anguli intrinſeci fuerint minoris duobus reétis, illas duas reétas ad pars tem illorum angulorum concurrere neceſſe erit, fi protrahantur. Et fi triangulushaberet plures rectos duobus. Duo Anguli g, h, k,68, k, h, ſuntmaiores duo. bus re&tis, multo magis igitur b, h, k, d, k, h, ſuntmaiores duos, bus rectis,igitur duo a, h, k, k, h, ſunt minores duobus res a. h b & is, quia omnes quatuor 6, h, k. a, b, k. d, k, h. @c, k, h. og ſunt æquales quatuor reftis per des cimamtertiam primi Elementorum bis fumptam,igitur b, a, d, c, f adpartem a, c, protracte concurs rent, per illam animi conceptionem,fire &ta ſuper duas reétas cadensfes cerit duos angulos'ex una parte minores duobus reétis, illa duæ lineæ ad illam partem protracte neceſſario concurrent. ! Co Cс PRIORVM ARISTOT. IN DE DECEPTIONE QVÆ FIT SECVNDVM SVSPITIONEM. ELVTI fia, ineft omnib, buero omni c, a omni c inerit, fi itaque quiſpiam nouit quòda ineſt omni, cuib, nouit & quòd cui c, fed nihil prohibet ignorare c, quòd eft, ut ſia duo recti, in quo autem b, triangulus,in quo uero c, ſenſibilis triangulus, fufpicari nanque poflet aliquis non eſſe c,fciens quod omnis trian gulus haberet duosrectos, quare fimulnoſcet,& ignorabit idem. Textum ſimilem habes in pofterioribus in principio primi,preu ter ea, quæ ibi dicentur pro nunc ad explanationem huius Textus, prie mo littera exponatur, omne b eft a, omne c eſt b, igitur omne ceſta, uel omnis triangulus habet tres duobus rectisæquales, qui conſtitutus eſt in tabula est triangulus, igitur qui conſtitutus eft in tabula habet tres: duobus reétis æquales,ſed ſimul dicas o charateres terminos,omne, b trigonum eſt habens tres angulos duobus rectis æquales, omnec fen. fibiletriangulum eſt triangulum, igitur omne c ſenſibile triangulum habet tres angulos æquales duobus re &tis. Cum teneret quis hanc uni uerfalem, omnis triangulus habet tres angulos æquales duobus reétis nondum fciebat, quòd ſenſibile triangulum effet huiuſmodi, quòd han beret tres, uidelicet duobus re &tis æquales, niſi potentia, non autem actu; quàm primum autemfyllogizauit ſubſumptaminore, statim intua. lit, «cognouit, quod ſenſibilis triangulus, tres duobus rectis pares haberet. Cum autem ait ſuſpicarinanque poſſet aliquis, non eſſec, non eft intelligendum, ſic ut Græci, o omnes exponunt, quaſi quod ignos retur an fit c, fed hoc non uult Ariſtoteles dicere,ſed cum inquit fufpicari nanque poſſet aliquis non eſſe c, hoc intelligas modo, quod stante prima uniuerſali, poterit ignorare anc, habeat tres duobus re &tis equales, licet non ignorauerit c effe, fed ignorabit c eſſe huiuf modi, utputa, quod habeat tres duobus rectis æquales; ſcietigitur po tentia in uniuerſali propofitione, Waétu ignorabit in particulari ante quàmfiat fyllogiſmus. Syllogiſmo autem fačto,feu fa & ainduftione Geos trica de qua inprimo posteriorum Textufecundo)a & tu ſcit, quòdfenſis bilis triangulus duobus re&tis tres pares habeat,nihil igitur prohibetfi. Cij 20 IN SECVN. RIO. ARIST. mulſcire, ignorareidem ſecundum diuerſa, ut ſcire potentia iniſud uniuerſali, & antequam fiat inductio, oignorare ſimpliciter, ut pus ta in particulari. DE ABDVCTIONE. UT Rurſus fi pauca ſint media ipſorumb, c, nanque & fic proximius ipfi cognoſcere uelutiſid eſſet quadrati, in quo autem e,re etilineum, in quo uero z circulus, fi ipfius é z ſolum eſſet medium,hoc, quod eft cum lunulis, æqualem fieri circulum rectilineo ce ſīpoflet prope ipfum cognofcere. In predicamento ad ili quid circa quadrare circulum fuit determinatum quantum fiebat fa tis ad Ariſtotelis intentionem, e de quadratura fuſius in fragmena tis noftris, fuper Logicis, multa declarabo, quo ad preſentem te - xtum Ariſtoteles facit fyllogifmum, cuius minor, cumſit dubia e oba ſcura, dicit unum eſſe medium ad probandam illam, arguit e, rectilis neun, d quadratur, ſed z, circulus fit reetilineum, igitur circulum quadrari,poſſet quis eſſe prope cognoſcere, minorem tentauit Antipho, Hypocrates chiusprobare per id medium, quod lunulas ad rectilis neas figuras nixi ſunt reducere, diuerſis tamen medijs, alio enim mos do tentauit Antipho, o aliter Hypocrates chius, qux figure reetilis neæ reducebantur poſtea ad quadratum, eo artificio, quo Euclides docet ultima ſecundi Elementorum, oſyllogiſmus connectatur ſic, ut fimul dicam characteres, me terminos Ariſtotelis, e, rectilinea figura, d quadratur, fed z circulus e figura rectilinea facta est, igitur zcirculus, d, quadratur. IN PRIMVM LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PETRI CATHENÆ NOVA INTERPRETATIO. TEXTVS SECVNDVS. VPLICITER autem neceffarium eft præ cognofcere, alia nanque, quia ſunt prius opinarineceffe eft,aliaueroquid eft, quod dicitur intelligere oportet, quædam autein utraque, ut quoniam omne quidem, quod eſt, aut affirmare, aut negare uerumeſt quia eſt, Triangulum autem quoniam hoc fignificat; ſed unitatem utraque, & quid ſignificat, eſt quia eft, non eniin fimiliter horum unumquodque manifeftum eſt nos bis. Græci omnes, pariter & Latiniuniuerſi confuſione plenum rede dunthoc in loco Ariſtotelem, nedum qui ſcripſerunt, fed etiam recens tiores, quihac tempeſtate eum interpretantur, & priuatis colloquijs, epublicis etiam lectionibus. Anſammultorum errorum pofteris omnis bus prebuit. Ioannes Grammaticus Cognoinento Philoponus, ſuper hoc Textu in cuius expoſitione plufquain errorum mille contra Ariſto telis ſententiamfcripſit, qua decaufa, ipfa ueritate fretus, &uniuers fæ logicorum utilitati conſulens, lucidum, facilein, atque clarum Aris stotelem in hac parte reddere decreui, o inſaniam ignorantiæ depri = mere, ne etiam in futura tempora amplius à forticulis doctrina tamclan rißimiPhilofophilabefactetur, ſcito in primis, tres eſſe modos pres cognofcendi, quos Aristoteles ponit, in hoc Textu, unicuique hos rum modorum aptißimum,atquefacilimum exemplum poſuit, feruans exemplorum ordinem cum ordine modorum precognofcendi, ſic, ut primo precognofcendi modo primum exemplum aptet,ſecundo modoſe cundum, atque tertium tertio. Nequete perturbet, quod Ariſtoteles IN PRIMVM LIB. ait, dupliciter fit neceſſarium præcognoſcere'. Tripliciter autem dixes rim ego, primo autemmodo, opus eft præcognoſcere, quia eſt tantum, alio autem modo, quid eft id, quod nomen dat intelligere folummodo quos duos modos ab inuicem ſeiunctos, in tertio modo in unum aggregat uerum methodum compoſitiuam ſeruans. Duo igiturfunt modi precos gnoſcendi, alter quidem in parte oſeparatim, reliquus uero in totum, oin parte quidem biffariam. Vnus tantum quia eft,reliquus uero tans tum quid ſignificet, in toto uero ille eft modus, qui horum utrunque in ſe comple &titur. Exempla Ariſtotelis multos Geometric ignaros turs batosego stupidos reliquerunt, qui ab Apoline reprehenfi, &fpreti à Platone, uagantes fomniauerunt, hoc in loco, tria attůlliſje Ariſtotes lem exempla, in ſcientijs diuerſis. Nempe Methaphisica,Geometria, O Arithmetica, quod chimericum eſt, ex ipſa uunitate magis uanum, fi enim ueftigijs fapientum Methaphiſices,Geometrie, & Arithmetica, prima limina attigiſſent, non incidiſſent in hasſuas philoſophicas furias, dicunt enim, quod artificio, id Ariſt. fecit,ut de demonſtratione agens, que inſtrumentum uniuerſale est, tria exempla (ſuam oftendensfacuns diam ) in ſcientijs tribus fpeculatiuis, &uniuerſalißimis attuliffe, ſic, uttandem concludant in ſua expoſitione Ariſtotelem uoluiſſe equinam ceruicem humano capiti iungere, &uarias plumas diuerſarum ſcien tiarum inducere, ut tandem tria formoſa, &pulcru exempla deſinant in nihil dicere. In una demonſtratione, datum eſſet unitas, queſitum triangulus, e principium Methaphiſicum, ualeat pereatque cim ins terpretibus hæc interpretatio. Non est Ariſtotelis confuetudo, exeine pla afferre (aliter effet edire &to contra exemplorum naturam ) niſi,ut do&trina, que aliquatenus non innitiatis uidetur obfcura, atque diffi cilis, fole clarior, atque perfacilis omnibus reddatur, quid rogo cons fufius, quàm in una re logica explicanda, tria exempla mutila, o tim diuerfa afferre? ut in unotantum quia,in alio exemplo,folum quid,c. in tertio exemplo, ey quia, &quid, ut tandem in piſcem definat fora mofa demonſtratio. Dico, omnia tria exempla attulliſſe Ariſtotelem in unica atque determinata Arte; uel diſciplina Geometrica, quicquid Niphlus fentiat & fequaces, ex nulla eſt alia ueritas in hoc Ariſtotelis Textu, neque uerus fenfus, qui ad Ariftotelem faciat preter hunc, quem fubfcribo, uelint nolint omnes atque uniuerſi, qui philoponifena tentie initi uidentur, quem nullo modo ipſemet nec alij recteintelligunt, fcito primum, quod de lineis re&tis a centro ad circunferentiam du &tis POSTERIORVM ARISTOT. Veruin eſt dicere quod ad inuicem funt æquales, uel non equales, ut etian de quolibet quidem quod est,aut affirmare,aut negare ucrum est,quia eſt, fimiliter,quòd quæ uni og eidem funt æqualia interſe funtæqualia,uel in terſe nonſunt æqualia, uerum est dicere quia eſt,ſed alteram partem hu ius diſiun £ ti fummit Geometra deffinitione xv. primi Elementorum, cum Similiter alterum alterius diſiunéti partem prebet prima animi conceptio primi elementorum, &hoc est uerum, quia est linearum à centro ad circunferentiam protractarum, ut adinuicem ſintequales, « prima ani mi conceptionis,utſiab æqualibus equalia auferantur remanentia æqua lia erunt. Secundo loco exemplum poſitum est,quid hæc uox, Triangulus ſignificet,quod etiam fupponit Geometra deffinitione xxi. primi Elemen torum, ex ſignificatfiguram tribus re &tis lineis contentam,ſiue illud actu ſit ſiue actu non ſit, Quatenus tamen quæritur,nondü habetur,poteft tas men eſſe. Tertio loco ponit Ariſt.unitatem,quæ quidem unitas, a quid ſignificet, quia eft,utrunque habet. Hanc ego unitatem contra oma nes loquentes, « ad Ariſtotelis ſententiam aio, eſſe non eam, qua unaquaque res una dicitur,ut ea quæ eft principium numeri, ſed eſtres queuna ab illa unitate, quæ eſt principium numeri dicitur, nempe una linea recta data ſuper quam triangulum collocare oportet, ſiue ille fit æquilaterus, ut Euclides proponit, uel iſoſcelesaut gradatus, ut Arisſtoteles querit in uniuerſum, quod quidem Proclum diadocum,& Cam panumfuper primum primi Elementorum, non latuit, quæ unitas linea feu quæ linea una concluditur in decimaquarta primi Elementorum, tàm quàm queſitum, in qua quidem decimaquarta primi Elementorum ni hil de unitate, quæ fit principium numeri, ſed, una linea concludi tur, quæ linea una eſt datum inprimo problemate primi elementorum Euclidis, de qua lineæ unitate precognoſcitur, quid, utſit a puncto in punctum breuiſsima extenſio per diffinitionem tertiam primi elemehtoa rum, precognoſcitur etiam, quia est,cum ipfa detur in prima pros poſitione primi elementorum. Ab Euclidis igitur methodo non recedens Ariſtoteles facilitat, declarat exemplis ubique locorumfuam do&tria hæc igitur uera atque germana Ariſtotelis interpretatio eft, alia, ut dixi nulla, fomnia igitur quæcunque diluantur, putas ne Arie ftotelem afferre illud Methaphiſice principium, nullo modo ad artem ali quam peculiarem contractum, uni Tirunculo in Logica inſtituendo? ubi Methodus? que maior ordinis peruerſio? quis nam in Logicum eua dere poterit niſi prius Methaphiſicis inniciatus fit? hec omnia uanis 11 nam, IN PRIMVM'LIB. 2 tate plena ſunt, non faciunt niſi ad buccas inflandas. De unitate aus temdicit Ioannes ſic Ariſtotelem intelligere, ſicut docet Euclides pros poſitioneſextadecima ſeptimi Elementorum, fi unitas numeret quemli bet numerum, quoties quilibet tertius aliquein quartum, erit quoque, pernutatim,ut quoties unitas numerabit tertium, toties ſecundus quar tum numerauerit, datum inquit Ioannes, eſt unitas, quæ eft principium numeri, de qua habetur &quid, & quia eft, o ſi hoc exemplo uidea tur Ioannes ueritatem quidem dicere, licet non ad mentem Ariſtotelis. Dico tamen quod Ariſtoteles neq; exponitur, & quòdfalfum eft,id quod Ioannes dicit,ut quod unitas,quæ eſt principium numeri, fit datum,non enim eſt unitas datum in ſextadecima ſeptimi Elementorum, fed unitas cum refpeétu ad numerum aliquem, quem numerat, eſt datum, que = ſitum autem eſt, ut ipfa tertium numerum numeret, ut ſecundus nus merus numerat quartum, quemadmodum amplius declarabitur in de tris plici errore circa uniuerſale.Preterea dignitas ſiue premiſſa in hac loan nis indu &tione eſt duodecinaſeptimi Elementorum, que probatur per precedentes, onon eſt immediatum principium,exponitigitur Ariſtoc telem per unam demonſtrationem, quæ non procedit per immediata prin cipia, quod non eſt imaginandumin hoc propoſito, preualet igitur ex poſitio de unitate lineæ, quia ibifit deductio per immediata principia ut per xv.deffinitionem,& prima animi conceptionem primi Elementorum Ecce quàm aliena est loannis expoſitio ſuper Textum Ariſtotelis. Die co igitur datum, eſſe unam rectam lineam, quæſitum, ut ſuper ipfarn trigonum conſtituatur, &quod, id conſtitutum, ſit trigonum, probas tur per decimamquintam deffinitionem, vprimam animi conceptionem primi elementorum. TERTIVS TEXT V S. ST autem cognoſcere alia quidem prius cognofcentem. Aliorum vero, & fimul notitiam capientem, ut quæcunque, con= tingunt eſſe ſub uniuerſalibus quorum haa bent cognitionem; quòd quidem omnis triangulus habet tres Angulos æquales duobus rectis præfciuit, quòd uero hic, qui in ſemicirculo cft, triangulus fit, fimul inducens cognouit. Duos modos ſciendi POSTERIORVM ARIST. ſciendi hoc textu tangit Ariſtoteles, primus, qui eft per reminiſcens tiam,de quo nondubitarunt antiqui. Alter uero, es ſecundus est, quo de nouo aliquid ſcimus, qui fuit alienus ab antiquorum mentibus, ſur per hocſecundo, ſit noſtra expoſitio. Ioannes Grammaticushanc para ticulam, fimul inducens cognouit, interpretatur fic,ut per inducen tem intelligat eum, qui habens triangulum in ſemicirculo pićtum, ofub penula abſconſum, oftendat eum triangulum eſſe, quaſi abijciens penus lam, ey aperiens manum obijciat ipfum triangulumoculis uidere uolens tium, &Latini omnes fimiliter,& Aueroes fequuntur ipſum in hac interpretatione. Non poſſum non mirari hominisiftius alias doétißimi expoſitionem & omnium fequatium,que quidem interpretatio, fi ads mitatur,statim uidetur, quod Ariſtoteles uanus ſophifta effectus, id do ceat, quod ipſe reprehendit contramale foluentes,ubiinquit in fequenti textu,Nemoaccipit talem propofitionem,oinnis triangulus quem tu ſcis eſle triangulum,quod utique illi agebant de dualitate abſconfa inmanu,quòd neſciebant eameffe parem, quouſq;nonuiderent quòd illa eſſet dualitas. Ioannes &omnes interpretes Ariſtotelis allucis nati ſunt, putantes quod illa littera Ariſtotelis ſic debeat legi, quod ues ro est in femicirculo triangulus fit, fimul inducens cognouit;cognouit quidem quodfit triangulus, per induétionem, id eſt per oſtenſionem ad oculum, aperta manuin qua abfcondebatur, ſic ut illa induétio certificet de eſſe triangul, quod ridiculum est, o uſque ad hæc tempora, falfum pro uero habitum,henuga deſtruunt Ariſtotelis ſententiam; non enim Ariſtoteles de trigono in ſemicirculo defcripto dubitat an trigonum ſit, neque igitur estopus, ut dubium remoueatur per oſtenſionem ad oculum quòd trigonum ſit, quia ut dixi, hoc non reuocatur in dubium, ſed has bita, hac uniuerſali,omnis triangulus habet tres æquales duobus res Etis, dubitatur an qui in ſemicirculo eft triangulus, &qui quidein a &tu uideturſit huiufmodi, utputa, quòd habeattres angulos equales duo bus rečtis, quod quidem manifeftatur non per ſenſitiuum indu &tio s nem, quia per illam oftenditur tantum quòd fit triangulus, ut illi mda li interpretes exponunt. Neque id oftenditur per inductioncm Topia cam, que à particularibus ad uniuerfalem procedit, ocontrariatur huic poſterioriſtico proceſſui, quifit ab uniuerſali ad particularia, rea ftat igitur declarare quæ induétio fit illa de qua loquitur Ariſtoteles, quam dicunt aliqui elle ſenſitiuam, aliter tamen ſenſitiuam quàm loans nes Grammaticus intelligat, dicunt enim quod talis fenfitiua oftenfio 1 1 D IN PRIM VM LIB. couptatur in Syllogiſmoſic, omnis triangulus habet tres angulos equat les duobus rectis, ſed hic qui in ſemicirculo, eſt triangulus, igitur hic qui in ſemicirculo, habet tres duobus rectis aquales,ecce inquiunt,quos modo minor eſt ſenſitiua, quia ponitur illud pronomen oftenfiuum, isti funt in errore maiori forſan quàm precedentes, putant eniin quod illud pronomen, &fimilia pronomina ſint oſtenſiua ad fenfum, quid igitur dicendum erit de hisloquutionibus,hic Apolo eſt cui barbam abraderefe cit Dioniſius, huic Apolini coronam Papus, iufsit fieri, & iſte Aurifexfædauit aurum; ueletiam iſte est Euclides,quem Plato in theetes to commemorat, non ne omnia ifta pronomina oſtenfiua, funt ad intela lectum, & ſi quandoque per accidens ad ſenſum ſint oſtenſiua? ideo pronomen in iủa minori, ſiper accidens oftendatad ſenſum, oſtenſia uum tamen precipue eft ad intellectum, aliter cecus non poffet illum Syla logiſmum efficere, quòd manifefte falfum eft, ueritas non eis obuiam uenit ſic interpretantibus.Laborant adhuc dicentes,quod ila inductio nil aliud est quàmfubfumptio huius minoris, fed hic qui inſemicirculo est triangulus, fub illa uniuerſali nota, omnis triangulus habet tres angulos æquales duobus reétis, illam quidem diſpoſitionem premijarum in figus ra &modo, uocant inductionem, hoc autem non facit fatis ad Ariſtotea lis litteram; quia ante quam inferatur concluſio, neſcitur de triangulo conſtituto inſemicirculo quod tres habeat duobus reftis æquales niſi po= tentia, poſt quam autem illatafuerit concluſio,fcitur a &tu, o noi ama plius potentia, quòd uult Ariſtoteles,ut poſt quàmfactus fuerit ocoma pletus ſyllogiſmus, fimpliciter ſcitur,quod qui in tabula,habet tres æqua, les duobus rectis. Agamus igitur & nos,o. Ariſtotelis litteram prius diſponamus, ſubinde ſententiam exponamus.. De triangulo uero in feinicirculo conſtituto fimul inducens cognouit. Simulcum uniuerſale triangulo ſcit ipſum particularem trianguluna, quòd habet tres æquales duobus rectis, &hoc,inducens, uerbum hoc inducens du asinductiones ſignificat. Alteram Geometricam,reliquam ſyllogiſticam, quæ etiam ordine ponuntur in littera Ariſtotelis dicentis,antequàm in duétum ſit,uelfactus fuerit fyllogifmus, quæ duo uerba, non ſunt fynow nima, ita ut und &eadem res per, utrunque uerbum, inductum ſit, uel fa& usfuerit fyllogiſmus ſignificetur, quia in doctrinis,non utitur termin nis ſynonymis,neque Ariſtoteles multiplicat uoces, terminos ean dem rem ſignificantes. Dicendum igitur, quod aliam rem uox hæc indue dio, &aliam ifta uox,fyllogiſmus,ſignificat, non gūteſt indu &tio aliqua POSTERIORVM ARISTT. prediétismodisfupra citatis, ut probatum fuit, relinquitur igitur, ut inductio per quam ſcimus,quodtreshabeat æquales duobus reitis is,qui infemicirculo defcriptus est,nulla alia fit,neque excogitari poſsit quàm Geometrica induétio. Ila autem huiufmodi est, fuppofita deſcription per trigeſimamprimum primi Elementorum, Angulus c b d eft æquas lis ang ulo & c b, per primam par tem uigeſimenos lice primi Ele - mentorum Euclia dis, &Angulus dibe equalis eft ang ulo cab per fecundam partem uigeſimenone primi elementorum, totus igitu * cbe, eſt æqualis duobus angulis cøa, fed cbre, cum c b a per xiij. primi Elementorum equiualet duobusrectis, igitur angulia, cum eodem c b a, funt equales duobus reétis,quod inducendum erat, de triangulo ac b in ſemicirculo deſcripto,qui triangulus non erat abſcon fus immo ante oculos offerebatur, tamen illa oblatio,non erat inductio de qua Ariſtoteles intelligit, quam inductionem quis unquam utcun queetiam intin &tus litteris dicet, unum eſſe fyllogifmum? quofyllogif mounico (it inferius declarabo) poteratidemfyllogizari, neque enthis meina unum eft, cum ibi multe ſint conſequentie, Enthimemaautem und tantum conſequentia eft, quòd neque Topica, inductio, patet; quia ibi à ſingularibus ad uniuerfalem progredimur,in hac autem induétioneper decimamtertiam Guigeſimănonam primi Elementorum,quæ uniuerſales magis funt quàmſecunda pars trigeſimæfecundæ primi Elementorum per quam patet intentum de triangulo in tabula conſtituto. Neque mi reris quod in hacinduétione non fumitur illa maior, omnis triangulus habet tresangulos æqualesduobus re&tis, quia illa fumiturin inductione fyllogiftica, in inductione uero Geometrica, fumitur decimatertia,cui gefimanona primi Elementorum, in utraque induktione cumGeometri ca,tum etiam fyllogiſtica fit proceſfusab uniuerſalı ad particulare,uel ad minus uniuerſale, Syllogiſtica uero induétio,ex duabus premiſsis, illa ta concluſione conſiſtit, quafyllogiſtica indu &tione fæpeutitur Ariftoteles ut Tex.xciiy.Secundum partitionem loan.Grammatici,uel Textu trigeſi monono in paraphraſi, in magna, pero expoſitione Tex.clxiij.prima Dü IN PRIMVM LI B. poſteriorum, & alibi, habita o ſcita hac uniuerſali, omnis triangulus habet tres equales duobus reétis,fatur modo aliquo idem de conſti tuto in ſemicirculo triangulo, ſimpliciter autem non fcitur,ofacta ine duftione ſyllogiſticaſimpliciter ſcitur, quod qui in femicirculo eft triane gulus, ſit huiuſmodi, ſicut ſcita decimitertiaeuigeſimanona primi elee mentoruin ſcitur potentia, quod qui in ſemicirculo eſttriangulus, duo bus rectis tres habeat pares,licet nefciat, an qui in ſemicirculo,fit triana gulus,ut Ariſtot,ait Tex.101. uel 169.a{tu autem, o ſimpliciter fcitur per Geometricam induétionem, quæ ſemper ex ueris, primis, caufis ila latiuis conclufionis, ex magis notis procedit, non autem ex immediaa tis ſemper, nequc ex cauſis quedant eße, fed ex his tantum, quæ dant propter quid iŪationis, tale inſtrumentum quod induétionemGeomes tricam uoco,non est una conſequentia, fed plures, ut plurimum, neque per immediatafemper procedit,fedalternatim per immediata, oper ea que probatafunt procedit,inmediata autem, uoco propoſitiones per fe notas, etiam illas propoſitiones demonſtratas,quæ immediate proz bant fequentes, de hoc quidem toto inſtrumento non aliter Ariftoteles traftauit, nifi per particulas illas, utſupra commemoratas, ut ex ues ris Oc. Tractauit tamen de fuis partibus, ut de enthymemate, quòd pluries fumitur in tali induétione Geometrica,o de fyllogiſmo, ad quem reducitur talis inductio,non tamenadunun tantum,ſed ad pluresfyllogif mos, neque uelim dicas propter hoc, quod Logica, Geometriam debeat precedere,utplacet nonnullis niſi deLogica,que natura nobis ſuccurrit. Quorundam enim hoc modo diſciplina eft, & non per inedium ultimum cognofcitur, ut quæcunque fingularia jamelle contingit, uec de fubiecto quoppiam. Hunc locum Ariſtotelis extorquent penė.omnes,uerum quidemdicunt, ſed in fua ues ritate duo errores continentur, primus eft, quod interpretatio non est ad propofitum, fecunduserror, quia id quodaiunt contradicit huicloa ÇO Ariſtotelis, inquiunt enim, quod per medium, ſcitur ultimum, hoc est, quod ultimum. Nempe maior extremitas concluditur per medium de ipſa extremitate minori. V.ideas quanta fit horum hominum uanitas, Ariſtoteles negatiue loquitur. Et non per medium ultiinum cox gnoſcitur. Ipfi autem uani exponunt, per medium ultimum cognofcia tur, aduertendum quod medium in propoſito intelligit Ariſtoteles,quod non tantum fitu,medium intelligas, quod bis in premißis capitur, fed me dium hoc loco,nil penitus aliud est quam, quodquid eft ipſius rei, ut POSTERIORVM A R IST. fparfim in primo poſteriorum, e in ſecundo manifeftuin eſt, in pri moenim, Textu 201. Juxta partitionein philoponi, uel 39. uel Textu 169. iuxta aliain partitionem; ait Ariſtoteles, quod uniuerſale mon ſtratur per medium, &non particulare; uerbi gratia,hic non per mea dium,omnis homoest riſibilis Socrates eft homoigitur Socrates eſt riſi bilis, ly enim hono, non eft quodquid est, ſed eſt ſubiectum, hic uero per medium, omne animal rationale eſt riſibile, omnis homoeſt aniinat rationale, ergo omnishomo eft riſibilis, ibi enim animal rationale eft mes dium, fi inftes fic,omne animal rationale eſt riſibile Socrates est animal rationale,igitur Socrates est riſibilis. Dico quòd hoc non eft per fe,eta primo de Socrate, quòd fit animal rationale, nec etiam riſibile per ſe, & immediate,argués igitur fic,omnis triangulus habet tres æquales duo bus rectis,fed qui in ſemicirculo, eſt triangulus, igitur qui in ſemicir= culo habet tresæqualesduobus rectis. Ibi enim triangulus non eft quot quid eſt, ſed potius ſubie &tum, feu genus, ibi igitur non eſt demonſtras tio, licet fit fyllogifmus, &fi adhuc inftetur,quod per decimumtertiam &uigefimamnonam prini,demonftretur quòd qui in femicirculo, ha beat tres equales duobus rectis, igitur ei qui in ſemicirculo eſt, non con uenit; quia triangulus;fed per decimamtertiam euigeſimamnonam pris mi Elementorum. Dico quod in inductione Geometrica, qua de triana gulo in ſemicirculo cöftituto oftendebatur,quod habet tres æquales duos bus rectis per decinătertiam (uigefimamnonam primi, id immediate nõ conuenit triangulo quatenusſit in femicirculo deſcriptus, fed ut trian. gulus eſt, ut oſtenditur ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elemen torum,fecundoautem, &per fe non immediate,omnibus alijs triangulis. Quorundam igitur ſingularium (quorum quodque non predicatur de ali quo ſubiecto, quiafingularenon predicatur deſubiecto aliquo, ut in pre dicamentis determinatum est ab Ariſtotele ) diſciplina est, non per medium, ultimum cognofcitur, cognofcitur quidem ultimum nempe mie iorem extremitatemineſſe minori,fedhoc non permedium, id est non per quod quid est. Si vero non eft ita,quæ in Menone contin. get dubitatio, aut enim nihiladdiſcet feruus Menonis,aut quæ prius nouit addiſcet non eniin iam ueluti quidam ni. tuntur foluere dicendum eft particula illa. Si uero non eſt ita,videlicet fi non eft fcire de nouo,ab uniuerſali ad particulare progre diendo; tunc, quæ in Menone eſt, contingit dubitatio, particuld illa: Non enim iam. Yerbum illud iamfuturi temporis eſt, fic utfit ſens I N P R IM VM LIB.ſus habita mea doctrina,omodo quo dixi, nos fcire de nouo,quod id addiſcimus, quod tamen aliquo modo fcimus, non foluas poſt hac, eo modo, quo illi nitebantur foluere, fed eo palto ut predocui, it de omni dualitate fciens quod par ſit, de abfconfa in many dicas, quòd etiam de ea fcis potentia, quodſcit par. Veluti quidam nituntur ſoliere dicendum eſt. Exponunt Latini &Græci,hunc locum fic,quidam Platonici dicentes, nos nihil fcia rede nouo,fed fcire noſtrum eratreminiſci arguebant illos, qui dices bant quod de nouo fcimus, &nitebantur Platonici ducere eos in contra dictionem,hoc argumento interrogatiuo, aiunt enim Platonici ipſi jos ne omnem dualitatem eſe parem, nec ne anuunt quidam dicentes nos de nouo ſcire, ita eſſe, ſübinde atulerunt Platonici dualitatem dicentes, igitur fciebatis etiam hanc dualitatem, quam manu tegebamus eſſe pas rem, quod tamen effe non poteſt, quia nefciebatis ipſam eſſe dualitatem ecce contradictio, prius fatebantur ſeſcire omnemdualitatein eſſe par rem, &tamen neſciebantdualitatem hanc parem eſſe, quod manifeſtum contradictorium eft, reſpondebant autem illi, qui dicebant nosfcire de nouo, quod interrogati de omni dualitate, an par effet, reſponderunt non de omni dualitate abſolute, fed de dualitate quam utique dualitatem effe ſciebant, modo de illa, quæ abfconfam tenebant, oque non erat fibi nota, ut eſſe dualitas, non fatebantur illam eſſe parem, quia neſciebant illam effe dualitatem, ita ut hec expoſitio, eotendat, ut Ariſtoteles res prehendat illos, qui dicebant nos ſcire de nouo, quia male foluebant Argumentum Platonicorum, xnihil dicat Ariſtoteles contra Platoni. Cos. Expositio autem mea, e directo opponitur, huic omnium expofie tioni, ſic ut Ariſtoteles arguat Platonicos male foluentes argumentum dicentium nosfcire de nouo, & contra hos dicentes, quòd fcimus deno uo, nihil in hoc Textu dicit Ariſtoteles. Pro cuiusfententia declaranda, Queritate, est in primis aduertendum, quod in hoc textu, quoſdam in telligit Ariſtoteles dicentes, quòd de nouo nos fcire contingit aliquid, quod tamen etiam preſciebamus in uniuerfali, oiſti inquiſitiuo argu mento probant intentum contra tenentes, quòd ron ſcimus quippiam de nouo, quorum negantium de nouofcire reſponſionem redarguit Ariſtoa teles, einterargüendum, peccant og errant in perſuadendo id, quod probare nituntur, quem errorem, &peccatum dicentium nos de nouo ſcire, non redarguit Ariſtoteles propter duas cauſas, altera est, quia eft adeo manifeftus, ut fine reprehenſione à quolibet cognofcatur pre POSTERIORVM ARIST. meil, habita intelligentia primi textus huius primi, reliqua caufa quare: non eos redarguit est, quia primo textu feclufit fuam perſuaſionem, dicens omnis doétrina, o diſciplina intellectiua a diſcurſiua, ex præexiftens ti fit cognitione, ex preexiſtenti non quidem ſenſitiua, quia illa à Singue laribus ad uniuerſalem, hæc uero poſterioriſtica e contrario, ab uniuer ſali ad fingulare procedit, ideo eos non reprehendit Ariſtoteles, quia, quifq; per fe intelle &to primo Tex.cognoſcit; quo modo errabat ilii inter arguendum. Inquiunt enim arguentes, noftis neomnem dualitatem effe parem necne? afferentibus Platonicis attullerunt eis quandam dualitas tem, quam non exiſtimabant eſſe, quare neque parem, en dicebant iſti arguentes, ſciebatis in uniuerſali, quod omnis dualitas est par, otas hoc, ideſt paritatem de hac dualitate, qua manu abſcondebatur neſciebatis, quiaignorabatis quid eſſetin manu, num dualitas,uel quips piam aliud, autnihil, « nunc uos fcitis iam per apertionem manus prius eam tegentis, in particulari hanc determinatam, & particularem dualitatem eſſe parem, ecce quomodo ab uniuerſalicognitione deuentum fuerit in cognitionem particularis, quod prius dubium apud uos erat. isti ſic arguentes peccant contra primum textum, utſupra dixi, ocon tra Tex. 112. Neque per ſenſum eft fcire, putabant autem isti ars guentes illam intuitiuam ſenſationem eſſe doctrinam ſeu diſciplinam. Quia tamen cum Ariſtotele in intentione, quod de nouo fcimus, & quia etiam error in perſuadendo manifeſtus eft, ut predocui, de intelle &tiua quidem & diſcurſiua diſciplina loquitur Ariſtot.ut de uirtute in uniuer ſali etiam in Menone erat ſermo ideo modo Ariſtoteles dimittit illos,tam quàm non concludentes propoſitum, quodfatebantur, & diuertit ſe ad Platonicosmale foluentes argumentum,tenentes quod id quodaliquo mo do ſcimus non poſſumus de nouo addiſcere, uel quòd nostrum ſcire,fit re miniſci, foluunt argumentum ſic, non enim fatebantur Platonici ornem dualitatem eſſe parem, neque dixerunt ſeſcire omnem dualitatem eſſe pa rem,ſed dixeruut dualitatem, quam utique nouerunt dualitatem effe, mo do cum neſciuerint, an id, quod manu tegebatur effet dualitas, neque ali quo pacto fciebantipſam eſſe parem uel etiam imparem,quiaſic aiebant, prius,debemusſcire,an fit dualitas,&poſted,an parfit,uel etiam impar, ita ut quandointerrogati fuerant,an omnem dualitatein ſcirent eſſe parë uel imparem reſponderunt utique de dualitate hoc ſcire, quam quidem dualitatem eſſe nouerant, uerum eſſe, ſed de dualitate in manu abſconſa, nihil fciebant, nec quippiam deea aliquo modo fciebant, ideo nefciebant IN PRIMVM LIB. 3 idem uno modo, ut in uniuerſali de illa dualitate,quòd effet par, u idem ut quod effet par ignorarent in particulari, atqui ſciunt cuius des monſtrationem habent, & cuills acceperunt. Acceperunt autem non de omni, de quo utique nouerint; quòd triangulum aut quod numerus ſit, ſed fimpliciter acceperunt; illi arguebant deomni numero duali, atque triangulo,&c. Similiter reſponderunt illi, quod ſciebant omnem dualitatem efle parem. Verba hæcfunt Ariſtotelis contra tales reſpondentes,nullus enim propo nitſeu interrogat, aut nulla propoſitio accipitur talis, quòd quem tu. noſti eſſe numerum dualem, nofti ne eſſe parem? aut quam noſti rectili neam figuram eſſe triangulum, quòd habeat tres æquales duobis reétis? ſed accipit de omni numero duali, ede omni figura rectilinea trilatera, quis enim proponeretſuo tam inerudito colloquio fic,nunquid nofti oma nem dualitatem quam eſſe dualitatem nofti, quòd par fit,autnon?ines ptam igitur, contra loquendi modumfolutionem reprehendit Ariftot. reprehendens quidem Platonicos malefoluentes, cui non illos de nouo fci re dicentes perperam arguentes; &modum fciendiquo de nouo fcimus fimpliciter id, quod potentia ſciebamus epylogando dicit, Sed nihil (ut opinor) prohibet, quod addiſcit aliquis ſic in particula ri, ante ſciuiſſe in uniuerſali, & in particulari priusignos raſſe, abfurdum enim non eft,fi nouit quodam modo, quod addiſcit, ſed ita eſſet abfurdum, ut inquantum ads diſcit, co pacto ſciat. Idem diſcurſus &expoſitio fiat ſuper Textu fecundo priorum, in capitulo de Deceptione ſecundum fufpitionem, qué etiam Textum perperam interpretātur pſeudo philofophi. De dualitate autemſiquis nunc interrogaretur, noſti ne omnem dualitatem eſſe parent nec ne? annuat quod ſic, o ſi offeratur abfconfa in manus dualitas, dia cat quod etiam ſcit eam in potentia parem effe, licet neſciat a & u, quod dualitas ſit,e eft fententia Ariſtotelis Textu 101.0 in hoc Textuhas bita una atque altera interpretatione, cui dubium eft fecundam eſſe pres ftantiorem prima?niſi quis dicat primam eſſe preſtantiſsimorum philo fophorum tàm ueterum Græcorum quàm Latinorum omnium prefertim iuniorum mentem Ariſtotelis interpretantium, fecunda uero interpre tatio noua est, o hominis uniusfolius,quæ nullo modo preualere poteft contra tam preclariſsimosphilofophos, quihæc uerba, &fimilia proa ferunt ex Macrologia loquuntur,non ualentes intelligere nifi ea, que auctoritate proponuntur, fpreta ueritate ege ratione, quis iam tam inerudit POSTERIORVM ARIST. neruditus est, quipPomba Platonicos, qui ætatem confumpferunt in fua opinione de reminiſcentia, argumentari contra Peripateticos, niſi a Peripateticis prouocati ſint? &quomodo prouocari poſſunt niſi exci tentur? quo pa &to excitabuntur, nifi co argumenti modo, quem in ſecunda interpretatione narrauimus? deinde quare magis redarguit Ari ſtoteles ſemiperipateticos illos, qui conueniebantfecum in concluſione, quàm illos, quie diametro cpinabantur contra ipfum? depoſitaigitur emulatone iudicet id quiſque, quodmagisueritatem ſapit, uerum eſſe, O rationi magis conſentaneum, & erit,fifecunde interpretationi be rebit, primafpreta, &neglecta omni ex parte. TEXTVS NON VS. ERA quidem oportet eſſe,quoniam non eſt fcire quod non eft,ut quòd diameter fit fie meter. De diametro, coſta pluribus locis Arifto telesſermonemfacit, utinprioribus, & in Methaphy: ficis, quapropter, hoc loco declarabo eius fententiam, ut poſteafit omnibus in locis clara, primoſcire debes, quod uera eſſe oportet ea, quæ fciuntur, ita ut ueritas ſuſcipiatur pro illa ueritate que est in concluſione, &non pro ueritate, quæ in prins cipijs est, a hoc probat indire & te, quia fi falfum ſciremus, utputa quod diameter eſſet commenfurabilis coſte, tunc imparia æqualia paribus fierent, o e conuerſo, ut ſi paria equalia imparibusfunt, igitur diame ter eft coftæ commenfurabilis, quod estfalfumſi igitur hocſciremus,ſci remus utique quippiam ex non ueris, fed pofuit, quòd fcire ex ueris fit, igiturſciremus ex non ueris &ex ueris, quod eſſe non poteft per immea diatam contradi tionem.Diametrum igiturincommenfurabilem cofte ef ſe noſcimus, quia impar pari æqualisnon eſt,in qua re,talis eſt demons ftratio ſecundum Euclidis ſcitum in decimo Elementorum, qua ducitur ad hocincommodum, pofita iſta, quòd diameterſit commenfurabilis co ftæ,fequitur, quod numerus impar eſſet par, quod eftcontra primum principium ab Euclide poſitumfeprimo Elementorum ſexta &feptima deffinitionibus,uel etiam nono Elementorum prima &ſecundafecundum Campanum. In quare demonftranda fit diameter a b commenfurabis lis lateri a c (li ponatur) erit per quintam decimi Elementorum ab ad ac, ficut aliquis numerus ad alium numerum, quia illa communis, mene Б IN: P R I MVM LIB. b Cee '. fo... h............. g k.... ei6 fo L. m 64 kıż8 h 81. a. fura,fehabebit ad illas duas lineds, diametrumfilicet, &coſtam a bigo á c, ficut unitas ad unum atque ad alium numerum,unitas enim ut duos numeros illos metitur, ſic illa communis menſura diametrum, o coſtam dimetiretur,cuius rei ſenfus eſt iſte, quòd quoties continebitur in uno ats que altero numerorum unitas, toties illa communis menfura, quæ linea eft, continebitur in diametro, atque coſta, fint ergo numeri e @ f, qui ſint minimi in fua proportione, eritque ob hoc, alter eorum impar, quod fic probatur, fi enim uterque eorum effet par, non eſſent iammis nimi in fua proportione, ſi enim par uterqueſit,uterque biffariam die uidi poſſet, outraque mediet asunius ad utramque alterius medietatem eandem haberet rationemficut totum ad totum,quorumfunt medietates, ut patet de octonario atq; ſenario, cuius medietates ſunt quatuor, & qut tuor, atque tria etria,eadem enim fexquitertiaest,octo ad fex, qua tuorad tria, ſic e ofnon eſſentminimi inſua proportione quod est contra aſſumptum, quia fuæ medietates effent minores, quadratiigitür illorum minimorum e « f, ſint ge h, ſi ergo e eſſet impar, a f par, erit quoque per trigeſimam noni Elementorum g impar, fit itaque k duplus ad h, eritque k par,ex deffinitione prima noni Eleinentorum, quia igitur a b ad a c, ut e -ad f, erit per decimamodtauam fexti, ego decimāprimam octaui Elementorum, quadratum ab ad quadratum ac, ut g ad h, eſt itaque g duplus ad h, ſic enim est quadratun a b ad quadratum a c per penultimam primi Elementorum, quia ita k, etiam dupluseft ad h per affumptum,ſequitur per nonam quinti Elemen torum, ut g numerus impar,ſit equalis K numero pari. Quod fi e fit par, f impar, erit proportio f ad dimidium e, quod fit L, ficut POSTERIORVM ARIST. 4 c ad dimidium ab, quod ſit ad, o ideo erit quadrati a c ad quadratum a d, ficut proportio numeri h, quieſt impar per trigeſi mamnoni Elementorumadquadratuin numeri L, quifit m, cui K poa natur effe duplus, eritque K per deffinitionem primam noni Elemento rum par, at quia quadratum a c est duplum ad quadratum a d per penultimam primi Elementorum, erit h duplus ad m. Cumque Kſit etiam duplus ad m, erit per nonam quinti, impar b, aequalis K nus mero pari, quod impoßibile à principio proponebatur demonftrandum C f............ go!" k...... A Et ſi diceretur, quòd uterque eorum, quiſunt in fuaproportione mis nimi, ſit impar, ut quinque ad tria, ut ſcilicet e ſit quinque, ef tria quadrati illorum fint go b, eritigitur utraque eorum quadra= ta inparia per trigeſimam noni Elementorum, ſit itaque K duplus ad h, eritque k par ex deffinitioneprimanoni Elementorum,quia igis. tur a bad a c, ut e ad f, erit per decimamoctauam fextielementorum vundecimam octaui,quadratum ab ad quadratum a c, ut g ad h, eſt. itaque g duplus ad h, fic enim est quadratum a b ad quadratum ac, per penultimam primi elementorum, & quia etiam k duplus est ad h.. per affumptionem fequitur, per nonam quinti elementorum, ut g numea rus impar ſit, æqualis k numero pari, quod est impoſsibile. Illatum, ſeu concluſio habita per hanc induftionem Geometricam eft,quod impar par ſit, Ariſtoteles autem dicit, quòd diametrum effe comenſurabilem coft.e non ſcimus, quia ita non est, ſic ut illud fit conclufum, wnor af fumptum, ut in predi&ta indutione fa& um est. Vt autem fiatconcluſio Bij 336 " IN PRIMVM LIB. “, id, quod aſſumptum fuit, aduertendum, quod ut Ariftoteles in prima Poſteriorum determinat, Geometra non parallogizat, fed tota illa Geo metrica inductio est conſequentia formalis,quæ in omnibustenet, cs.com cludit,nequeinquit, parallogizat Geometra, ut textus 62 probat Arift. ſubinde aliud etiam eſt aduertendum, ut in Topicis determinatAri ſtoteles, oſparſim in Logica fua, quod illa formalis eſt conſequentit, quando ex oppoſito confequentis infertur antecedentis oppoſitum, mos do cum ex contradiétione poſita, ut diametrum cofte eſſe commenfuram bilem,ſequutum fit quòd impar numerus fit par, exoppoſito igitur con ſequentis, ut per numerus eft æqualis impari, igitur diameter coms menſurabilis ex coſte, id autem fequitur ex falfo poſito, ut quod ime parſit æqualis pari,igitur id quodſciretur, non eſſèt ex ueris, ſedpoſie tum fuit quod ex ueris oportet eſſe, igitur manifeſta eſt contradi&tio,res linquitur igitur,quód diameter, nullo modo eſſet coſta commenſurabilis, eft igiturfalfum, igitur nonſcitur, quia uera effe oportet,quæfcim us TEXTV EODEM VEL TEX. V. OSITIONIS autem, quæ quidemeſt utram libet partium enunciationisaccipiens,ut dico aliquid effe,aut no elſe, fuppoſitio eft, quæ ue ro ſine hoc,deffinitio elt; deffinitio enim pofi tio eft.Ponit enim Arithmeticus unitatem in diuifibilem effe fecundum quantitatem, lup pofitio enim non eft. Quid enim eſt unitas, & eſſe unitaté, non idein eſt. Deffinitio inquit Ariſtot. non ponitur, altero membro contradicéte reiecto,utfit in fuppoſitione accipienda,fed deffinitionis na tura talis eft, ut ad hocquod ipfa intelligatur aget docente, eſt tamen & ipfa deffinitio,poft quam intellecta ſit,etiam poſitio,cõmuni uoce diéta,et legatur textus fic paulatim,ponitenim Arithmeticus unitatem, utſiArithmeticum quis interroget, an unitas fit, uel non fit? annuat quòd ipſaunitas fit,indiuiſibilem autem fecundum quantitatem ſuppoſia tio noneſt,ſed definitio, os exponitur àdocente, quia numerus quilibet diuidi poteſt, cumautem ad unitatem, ex qua numerus cöponitur deuen tum ſit, impartibilis omnifariam reperitur, ut poſito quocunquenumes ro, ut ternario, ocirca ſe, ex utraque parteſuper ſe numeri,esſuper illos, alij circumponantur, id toties fieripoterit,quousq; ad unitate dem POSTERIORVM'ARIST. 37 SH it 13 uentum fuerit,at ubi ad ill.im deuentum erit,non fit ultraproceffus,ut cir ca tres,quatuor,& duo,etfuper hos,quinq; c unum,medium horū aggre gatorī erit ternaris, hoc exemplari 1 2 345 signum eftigitur unitate eſſe principium impartibile omnium numerorīt, ut Boetius in Arithmetica, docet,modo, exſententia Ariſtotelis, non eſt idem,unitatem fupponere, oipſam deffinire, quæ deffinitio eſt, unitas eft qua unumquodque unum effe dicitur, uel eft principium numeri, uel eſt indiuiſibilis, ex quo tamen indiuifibili, diuiſibilis numerus componitur, ad differētiam indiuifibilium fecundum magnitudinem, quæ indiufibilianon componunt diuiſibile ali quod. Age igitur,ut Ariſtoteli placet, quòd non eſt fatis ad demonſtratio nem procedere ex fuppofitionibus, etiam immediatis, fed opus eſt etiam ex immediatis dignitatibus, que etiam dignitates improprie poſitiones funt, ideo in precedenti declaratione concludebatur,numerū imparé eſſe parë,quia ex poſitione, quod diameter.eſſet commenfurabilis coſte, pros cedebatur, &non ex dignitate &deffinitione intelle &ta,atque poſita. TEXT. DECIMUS ALIAS QVINTVS, CH fi re Lisa co UE ofi 18 ар 3 VONIAM autem oportet credere & ſcire ré, in huiuſinodihabendo fyllogifmum, quē 110 cainus demonſtrationein. Eft autem fic, eò quod ea ſunt,ex quibus eft fyllogiſmus,necef ſe eſt, non folumpræcognoſcere prima, aut omnia, aut quædain ſed etiam magis. Quico gnoſcit quòd Triangulus habeat tres equales duobus rečtis, prius nes ceſſe eft,ut cognofcat XIII. ey xxIx. primiElementorum actu, non autem ufqueaddeffinitiones fit refolutio pro illa x xXJI cognos feenda, omniaautem prima cognofceremus,ſiuſque ad deffinitiones ago Elementa, ad que illius XIII. XXIX. primireſolutio fieret, que &fifitfactibilis, tedio tamennosafficeret, fi femperfieret ufqueadele mentaiſta reſolutio, fedfatis,quod hoc fieri poßit,ideo dicit Ariſtoteles neceffe eft præcognoſcere prima,aut omnia,aut quçdam, Sed etiam magis aduertendum, ut declarabo fuſius Tex. 108. huius primi,quòdquanto notitia eft deſimpliciori, illa, certior eft, quam que compoſitioriseft.Cum autem principium fit minus compoſităipfa concluſione, neceffe eft, ut &fua notitia ſit magiscerta, quam conclue fionis notitia,ideo XIII, XXIX. per quas probatur fecunda pars IN PRIM VM LIB. trigeſimeſecunde primi Elementorum, ſunt magis nota, oſcite,quàng illa fecunda pars trigeſimæfecundæ primi. TEXTVS XI. ALIAS V. MA 1 AGIs enim neceſſe eſt credere principiis, aut oinnibus,aut quibuſdam quam cons cluſioni. Aduertendum quòd magis credere,fine pluri, nempe faciliorem effe credentiam aliud eft, à credere per demonſtrationem, & propter quid, fe ptima, atque octaua propoſitiones quinti Elementos rum, primo intuitu quando inſpiciuntur, facilius eis adheremus oafa ſentimur, quàm aſſentiamur deffinitioni fextæ,atque o &taua eiufdé quins ti. Ecce quod non magis illis principijs credimus primointuitu, quins conclufionibus per ea principia demonſtựatis, ideo Ariſtoteles ait, aut: quibuſdam, non ſemper omnibus primo intuitu. Debentem autem habere ſcientiam per deinonſtrationé, non ſolum oportet principia magis cognoſcere, &, magis ipfis credere, quàm ei quod deinonſtratur. Sed & cete. Ada uertas quod & finotitia principiorü uideatur diſtantior intellectui quàm notitia concluſionis, tamen non poteſt uniri intellectui concluſionis notis tia,niſi per notitiam principiorum,quæ uidebatur ab intelle &u remotior, ut in illis concluſionibus, &principijs que precedenti comento citaui. TEXT. XVIII. AVT VIII. I ſiin omnilinea punctum finiliter eſt. Proprie hoc in propoſito de linea recta intelligas, que atu punéta habet terminantia, ficut homoactu eſt animal, o fi etiam de circulari intelligi poßit quæ in puncto à linea recta tangitur, fedde circulas ri expoſitio uideturfuperftitiofa, aliena à nas tura exempli, quia exempla per magisfaciliadantur, ita quòd, dequoa cunque uerum eſt dicere, quod fit linea recta, de co uerum eft dicere, quod in co eſt punctus. POSTERIORVM ARIS T. TEXT. XIX. VEL IX. 5, Elle P feo to oft 45 oné, 2015 Ado quan ER ſe autem funt, quæcunqueſunt in co, quod quid cft, utTriangulo ineſt linea, &: punctum lineę, ſubſtantia enim ipforum ex his eft, & quæcunqueinſunt in ratione di cente quid eſt. “ Philoponus & parum dicit ſuper hoc textu, uel étiam id quod dicit non facit ad propo ſitum Ariſtot. declarandum, uidetur enim quod tex. his contradicat que: determinat Ariſtoteles contra Platonem, uidelicet quodlinea non compo natur ex punctis, præcipue ſexto phiſicorum, primo de generatione, tertiometaphiſice,ubiex fententia concludit lineam non poſſe ex punétis componi, quid autem ſuper hoc textu, qui uidetur oppofitus locis ſupras dictis dici poßit notaui in prædicamétis, capite de quantitate, uerba aus tem illa, quia ſubſtantia corum ex ipfis eft, intellige terminatiue, ut linea terminat ſuperficiem triangularem ', pun &tum lineam termis nat, o nullo modo intelligendñ eſt compoſitiue, ſic ut puncta lineam com ponant, nec etiam linea triangulum, tametfi aliter ab indoctis intelligas tur, quiafi aliter textus hic concipiatur, ftatim fequitur, utſi linea ex punctis componeretur, quod diameter o coſta eiuſdem quadrati eſſent comenſurabiles, quod textu nono, eſſe falſum « impoßibile oſtējumeſt, quia utrumque per comunem menfuram dimetiretur, nempe per pū &tum, quod eft contra Ariftot. sententiam, & contra Euclidis ſcitum. Preterea tot puncta eſſent in coſta,quot in diametro, &ſic pars effet æqualis toti, ut coſta ipſi diametro, pro cuius indu &tione, ſit quadratum a b cd, cuius diameter a d, Cofta uero a c, in qua fuſcipiantur duo puncta e, f, immediata ſi poßibile ſit, ut aduerfarius ueritatis diceret, cum com ponatur ex punétis,à quibus, e, of, pun &tis duæ lineæ rectæ aufpicens tur innitia tranfeuntes per diametrū uſque ad aliă coſtum e regione pri me coſte collocatam,certü eft, quòd hæ duæ lineæſecabunt ipſam diame trum in duobus pun &tis, quæ etiam puneta in diametro immediata erunt, propter hoc quia lineæ protracte ex hypotheſiſunt immediate, igitur ſi recte lineæ tot protendantur à coſta in coſtam oppoſitam,quot pū &ta fue rint in ipſa coſta, per tot etiam punéta in diametro poſita tranſibūt eedë linee, nec erit in diametro punétum aliud per quod non tranſiuerit lined aliqua fic protracta ab immediatis pun&tis ipſius coſte, in puncta imme motia tunin eſt. Uligas, o achi poßit rcula à ma eguna dicera IN PRIM VM LIB. diata alterius coſte, ut patet in hac a. figura ficut f, immediatum eft ipfi e, fic etiam &, ipſih, ſi l, fit immedias tum ipſi m, patet propoſitum,fi au tem interl,om, intercipiatur pū Aumfitque illud K; ab illo per xxxi. f primi elemétorum excitetur paralles lus K, o, ipſif, 8, uel ipſie, he tunc ipſa cadet inter gb, ut in pun Eto, o, igitur g h, non erant imme diata,quod eſt contraaſſumptum,uel extra utrumqueg,oh, uerſus b, ueld, & tunc k o, neutri linearū f8, web, erit parallelus,quod eſt contra conſtructionem, patet igitur quòd tot eſſent in diametro quot in coſta pun&ta. De circulari autem linea, quod non componatur ex pun ftis, fic demonſtratur per tertium petitum primi elementorum, fuper centrum a, deſcribatur circulus d minor, ocirculus bc, maior,ficira cunferentia maioris componatur ex punétis,duo immediata puneta fi gnentur b @c, &per primum petitum eiufdem primi ducatur recta alla a ad b, &ab aad c, hæduæ lineæ tranſibunt per circunferentiam mino ris circuli, ſecabunt igitur circunferentiam in uno,uel in duobus pūétis, ſi in duobus, tot punčta erunt in minori circulo, ficut in maiori, fed ima poßibile eft, duo inequalidcomponi ex partibus æqualibus numero, ou magnitudine,punctusenim unus non excedit alium punctum in magnitudi ne,en tot funt in minori peripheria puncta quot ſunt in maiori, igitur pe ripheria minor eft æqualis maiori peripheric,igitur pars æqualis eft toa ti,quod pro impoßibile relinquitur, b ſi autem due recte linee a, b, 4, C, ſecent minorem circunferens tiam in eodem puncto, fit ille d, ſu = per illam a c, erigatur linea recta perpendicularis per xi.primi Elea mentorum ſecansſilicet eam in pun. &to d, quæ fit d e, que erit contina gens minorem circulum ex corrolda rio x vtertij elementorum, iftad, c.cum linea 4 b, ex xIII. primi Elemens POSTERIOR V MARIST. 2 d IN Elementorum conftituit duos angulos rectos, aut æquales duobus rectis, @ed cum linea a c facit duos angulos rectos ex conftru &tione, duo igitur anguli a de, obde, funt æquales duobus angulis a de, cde per tertiam petitionem prini Elementorum Euclidis, dempto igis tur communiangulo a d'e, reſidua eruntæqualia, igitur angulus b.de erit æqualis angulo c d é, &pars toti, quod eftimpoßibile. Adiſtud diceret aduerfarius, quod db, odc, non includunt ali = b. quem angulum; quia poſſet tunc illi angulo bafis ſubtendià puncto bad punétum c, quod est oppoſitum po ſiti, quia b c, poſita ſunt ima mediata, quando igitur diceretur, quod angulus c de, estmaior an gulo b.de negaretur ab aduerſa rio, quia per angulum b d c, nihil additur in angulo c d e, quia inter bec nihil mediat, e in concurſu bdoc din d, non est angulus. ifta reſponſio oſi ex ſe ipſa uideatur ua na, negandoangulum, ubi duæ rectæ line: bd, cd, concurrunt quæ expanduntur in eadem ſuperficie, oapplicantur non directe, o fit contra deffinitionem anguli, deffinitione ſexta primi Elementorum, negando etiam à b inc poffe duci lineam, neget primum petitum primi Elementorum, tamen quia aduerſarius non putaret iſta inconuenientia, quia ſequuntur ad id, quod ipſe dicit, ideo contra reſponſionem aliter ar. guo, angulus c d e includit totüm angulum b de, oaddit ſaltem pun Aum ſuper b de, o ſiproteruias quòd non addat angulum, & puns Etus per te, eſt pars, igitur c d e addit ſuper 6 d e partem aliquam, igitur c d e eſt totum adb d e. Aſſumptum patet, uidelicet quòd c de addat ſuper bd e, quia ſi angulus dicatur fpatium interceptum inter lineas non includendo lineas,ut Ariſtoteles concipit in queſtionibus meca nicis, queſtione octaua, tunc pun &tus primus lineæ b d extra circunfes rentiam minorem nihil erit anguli bde, o eſt aliquid anguli c de, igitur c d e maior est b de, a probatum fuit, quòd æqualis, igi tur aperta contradi&tio, fi autem angulus ultra ſpatiuin inter duaslie neas,includat lineam includentem,fpatium tunc primus punctus lineæ cd extra circunferentiam minorem nihil erit anguli b de, e est aliquid ans F ino tis 0 th I N PRIMVM LIB. guli c d e, addit, igitur utroque modo angulus c d e punctum fuper angulum b de, patet igitur ex principali demonſtratione & folutionis bus ad inſtantias, quod linea non componatur ex punétis, neque recta; neque circulari, ſubſtantia igitur lineæ ex punétis est terminatiue, o non compoſitiue, ut in principio expoſui vel dicas quòd Ariſtoteles famoſe, oexemplo loquitur de cauſa quæ dat eſe, vel etiam dicas, quod punétus,in deffinitione Geometrica ponitur, onon Methaphyfice conſiderata. TEX. X X. ALIAS I X. T rectum ineſt lincæ & rotundum. Verbum il lud rotundum legit Aueroes circulare, o melius, ut ali bi Ariſtoteles rectum ineft linee o circulare, ſic ut pro uerbo rotundum,legatur circulare,ratio quia circula re lineæ est proprium,quod uult Ariſtoteles in princis pijs mechanicarum queſtionum inquiens:In primis enim lineæ illi, que circuli orbem amplectitur,nullamhabenti latitudinem contraris quodam modo ineſſe apparent, concauum ſilicet,&conuexum. Rotondum uero proprie corpori conuenit, non lineæ, ut etiam placet Ariſtoteli libro fecundo Cali capite primo, quæ lectio non uidetur difplicere etiam Ioan ni Grammatico, &quodſit iſta mens Ariſtotelis, utfic legatur manife ftum eſt, per ea, quæ textu decimo ait, non enim, contingunt non ineſſc aut fimpliciter, aut oppofita,ut lineæ rectum aut obliquum,capiens ob liquum pro circulare. TEXT VSvs X. T par & iinpar numero. Par quidem ille eft, qui ab impari unitate differt cremento uel diminue tione, ut quinque à quattuor, uel à fex unitate, Vel par eſt, qui biffariam ſecatur, impar uero, qui ne in duo æqualia diuidatur, impedimento eft unia tatis interuentus. POSTERIOR VM AREST. Τ Ε Χ. XXV. ALI AS XI. NIVERSALE autem dico, quòd cum fit de omni, & per ſe eſt, & ſecundum quod ipfum eſt. Ioannes Grammaticus & fequaces determinant, ut hæc tria inter ſeſint diſtincta, fic quod id, quodper ſe eſt inſit abſque eo, quod fecundum, quod ipſum eſt, 1/oſceli quidem per ſe ineſt habere tres æquales duobus reétis,non tamen ineſt ei (inquit Ioannes).ſecundum quod ipſum, quia fecundum quod ipſum ineſt triangulo. Aduertendum quod famoſa doctrina (qua etiam fæpe Ariſtoteles utitur ) perſe Iſoſceli inefthabere tres æquales duobus reftis non tamen ſecundum quod ipſum. Alio autem modo per fe,id dicitur alicui conuenire, quod etiam conuenit ſecundum quòd ipfum, ita quod, id quod non conuenit ſecundum quod ipſum non etiam conueniat perſe, niſi quodam modo, fic quod perſe non immedia = te, oſecundum quod ipſum, diſtinguntur tanquam magis &minus uni uerfale per fe autem immediate, &ſecundum quod ipſum, hec quidem non diſtinguntur,ita ut unumſine alio poßit ineſſe eidem, Peccauit igitur Joannes ofequaces determinantes uniuerſaliter id, quod particulariter uerum est, uniuerfaliter autem falfum, Triangulo igitur immediate, cu per ſe, o ſecundum quod ipſum conuenit habere tresduobusre&tis æqua les, quodam autem modo non per ſe ipſi iſoſceli conuenit habere tres duobus rečtis equalis. Vt Ariſtoteles ſententia, hæc ſit, quòd per ſe immediate, ſecundum quod ipſum, idem fint, neque ab inuicem in aliquo diſtinguuntur, per le autem non primum, “ſecundum quod ip fum, hec duo uere diſtinguuntur, ut Ioannes ſuisexemplis, immo Ari ſtoteles in Texu,exemplomanifeſtat. HET luben 10a TE X. X X VI. ALIAS XI I. ## ling PORTET autem non latere, quoniam fæpe numero contingit errare, & non eſſe quod demonſtratur primum uniuerſale, ſecundum quòd uidetur uniuerſale demonſtrari primū, aberramus autem hac deceptione, cum aut ni hil ſit accipere ſuperius,peti fingulare, aut Fij 44? IN PR ÍMVM LI B. ſingularia. Aduertendum Ioannem Grammaticum & uniueros Ario ſtotelis interpretes, ſiue Greci, Latini, uel Arabes fuerint perperam eſſe interpretatos hunc Ariſtotelis Textum, &tres ſequentes textus @rita male fenferunt de Ariſtotele, quòd litteram pariter & fenfum omnem peruertunt &corruinpunt. Circa Ariſtotelis litteram, an tequim ad eius interpretationem acMilani, falſit as loannis, oſequa tium est hoc loco non pretereunds. Primo circa hunc textum, loans nes adfert exempla multa quorum neque unum tantum facit pro textus declaratione, ait enim Ariſtoteles. Cum nihil fit accipere fupes rius. Nihil fit, neque uox quidem, utputa nomen aliquod fictitium,& acceptum,cui tamen in re nihil refpondeat ut eſt hoc nomen chimera, cui nomini nihil extra in re conuenit,fic tandem, ut neque res ſi aliqua fie ue ens aliquod, ita ut nulla ſit res, neque ſit nomen aliquod ſignifi cans illud non ens. ipſe autem loannes explicat Ariſtot. litteram cirs ca illud, cui eſt accipere fuperius, &circa illud, cui nomen impoſitum eſt,ut est, Terra,' Sol, øMundus, &triangulus, horum omnium ex tant nomina, ut manifeftum eft; o ſingulum ſuperius est ad ſua indiuis dua, nempe ad hancterram, ad hunc Solem, ad hunc mundum, ad -Scalenonen, perperam igitur interpretatur loannes hunc textum cum ipfe adferat exemplum de eo, cui ſit accipere fuperius, cui nomer impofitum eſt, Textus autem Ariſtotelis dicat, cum non fit accipere fuperius. T E X. XXVII. i VT fi quid eft, fed innominatum fit in difo ferentibus fpetie rebus. Ioannes Toto errat Cees loo.fequentes ipfum, circa litteram e doctrinam Ari stetelis,textusfic habet. Si quid eft,illud tamen innominatum fit in differentibus fpetie res bus. Ioannes inquit, non exiſtente commune aliquo de quo non exiſtente, prebet exempla deexiſtentibus, contra feipſum V etiam de nominatis in differentibus petie rebus, contra Ariſtotelis textum, ait enim Ariſtoteles. Sed innominatum ſit in differens tibus fpetie rebus, exempla adfert Ioannes de Triangulo, qui nominatur, eft in pluribus fpetiebus differentibus, ut in Iſopleuro Iſoſcele, Scaler.one, o fimiliter de quanto prebet cxemplum loane nes, quod nedum nomen habet, fed in differentibus fpetie pluribus est POSTRIO RVM ARIST. par A @ etiam in pluribus generibusdifferentibus eft, neque mireris uelimſi Joannes ocæteri expoſitores aliò pedem retullerint, cumfaltus aſperie tatem ſenſerint &iuerit uſque Gorcie inficias, obfcurans Ariſtotelem Platonicis ſuadelis. Ut contingat eſſe ficut in parte totum in quomonftratur his enim quę funt in te, ineft quidem demonſtratio, & erit de omni, ſed tainen non huius erit primi uni uerfalis demonftratio, dico autem huius primi, ſecundum quod huius demonſtra tionem, cumfit primi unirerfalis. Bonus Ioannes ofequaces prefertim Niphus fueſſanus medices Neapolitanus philotheus Augu ftinus philoſophus, og fequaces multi fimiles ſine nomine, pleni nominis bus, quos in interglutiendam uniuerſam Ariſtotelis philoſophiam, os ho rum textū ſuffocauit, cū ad exempla deuenerint,quibus Ariſtoteles cla rum reddit id, quod in tribus modis errandi circa univerſale dixit, loan nes (eg peius cæteri) circa finem comenti huius textus fic ait,in reliquia trium modorum exempla per bec exponit, uerū non utitur ordine exem plorum cum ordine modorum errandi, propofitum enim exemplum ters tij eſt modi, Dico philofophum fummoartificio ordiri otexere modos errandi cum exemplis, ſicut modo cuique errandi correſpondeat pros prium &peculiare exemplum, ut quemadmodum tres numerauerit ers randi modos circa uniuerfale, tria exempla, ipſis correſpondentia fubiecit, ſic ut primum exemplum primo errandi modo, fecundum exem plum; ut in littera Ariſtotelis ponitur fecundo modo errandi correſpon deat, otertium exemplum ipſi tertio modo errandi apte conueniat, quo ordine confuſionem omni ex parte inter cxempla os modos errandi fuæ giens, in primis ſuo artificio, modum errandi &exemplum fibi corre fpondens notificauit circa id quod debet effe medium demonſtrationis, ſe cundus errandi modus &exemplum fibi correſpondens, cõcernitfubies Sum demonſtrationis, tertius modus errandi circa uniuerfale cum exem plo ſibi coherente, concernit totam demonftrationem, feu arguendi mo dum qui dicitur permutata proportio, errauit igitur Ioannes v omnes alij, qui aliter quam ut hucufque dixi extorquent Ariſtotelis textum, non intelligentes. I N P R I M VM LIB. Pro declaratione igitur uigeſimi fexti textus, fit hæc noftra prima ina ter expoſitores dilucidatio uel ſi difpliceat, dicas eam eſſe ſecundam,uel etiam millefimam. Primī modum errandiexpono ſic, ſcias quòd de duas bus lineis reétis, tanquam de ſubiecto, concluditur hec paßio, nempe quod non intercidant; uidelicet quòd parallelæ ſint ſeu equidiſt antes, per hoc, tanquam per medium, quia linea recta ſuper duas line as rectas cadēs eſt poſita in omnibus quatuor angulis rectis, ideo ille due recte parallelæſunt, oetiam per hoc me dium, quod cum linea recta ſuper duas lineas rectas cadensfecerit an- A. 6 gulos quomodolibet æquales, utputa alternos acutos ſibi inuicem æqua- c. d les, uel alternos obtufos ſibi inuicem equales, illæ duæ lineæ funt æquidis ftantes, iterum per hoc medium quãdo linea recta cadens fuper duas alias rectas lineas fecerit exterio rem angulum æqualem interiori ex eadem parte, ille duæ lineæ paraller le ſunt, &adhuc per iftud medium, ut fi linea recta cadens ſuper duas rectas lineas, fecerit duos intrinſecos angulos æquales duobus reftis,ut probant X X VII. XXVIII. primi elementorum quod adhuc illæ due recte linee parallelæ ſunt. Modo ſi Geometra putaret demonſtras, tionem factam per ſingulum mediorum di&torü,eſſe uniuerſalem,erraret primo errore circa uniuerfale,quia nullibi medium eſt uniuerſale et unī; nulla enim natura, nec res aliqua eft cómunisad omnes quatuor angulos rectos, ad binos acutos, binoſque obtuſos,ad intrinſecum et extrinfecum ex eadë parteſumptos, et ad duos intrinſecos ex eademparte acceptos, niſi quis uudeat dicere,quòd quædam cõmunis natura,eſt ad omnes pres nominutos angulos, utputa æqualitas angulori, quæ quidem angulorum equalitas,ratio eſſet, ut cõcludas lineas eſſeparallelas, iſtud ſomnium,ul tra quodfit falfitate plenum, eft etiam nimis procul ab apparenti mena dacio, non ne etiam in concurrentibus lineis repperitur æqualitas angu lorum? ut puta in his angulis qui ſunt ad uerticem poſiti, cauſati à linea cadenteſuper duas rectus lineas,illa enim cadens cum utralibet earumf1. per quas cadit, caufat uerticales angulos æquales ut ſunt anguli a gd, @ b8f, uel anguli c fe, em gfb, ſtatim hoc reiciet dicens,quod de al 1 POSTERIORVM ARI'S T. ternis angulis intelligenda eſt illa equalitas, ut natura illa communis tantum ſit equalitas coalternorum, hec reſponſio eft uana cũ illa equa a litas ſitequiuoca, uel dicas analo gam, ad equalitatem retorum, acu torum, obtuforum angulorum, @etiam dico, quod totã hoc,& qua litas angulorum,non eft und abſolu = ta naturd,una abſoluta (utputa) eſt unus atq; alter angulorum, reliqua natura eſt reſpectiua et ad aliquid, ut æqualitas inter utrumq;, ſi diceret quod accipitur pro medio, tantuin equalitas in omnibus illis fine pluri,dico quòd per æqualitatem non con cluditur, quod lineæ parallele ſint,niſi per æqualitatě talium angulorī, Et dico etiam quòd non tantum per equalitatem coalternorīt, ſed etiam per æqualitatë extrinſeciad intrinfecum, et per duos intrinſecos,quorīt alter acutus reliquus obtufus,qui equalesfunt duobus re & tis, quæ omnia non habent unum ſuperiusuniuocum, igitur non eft aliquid accipere ſus perius ad hæc omnia, igitur petimus tunc ſingularia media in propoſito concludendo, &ſicerramus, ſi nobis uideatur uniuerſale demonſtrare primū. Error igitur iſte circa uniuerſale,eſt circa medium demonſtratio nis quod quidem medium uniuerfale, cum non fit, fingularia media peti mus, ſimile habes huic per XXVII (XXVIII primi Elementorū, Euclidis per quas Ariſtoteles manifeſtat propoſitum. Itidem fimile per quintam, fextam, a ſeptimum fextiElementorum,quibus probat Eucli des per diuerſa media ſingularia, o non per unum uniuerſale medium, triangula eſſe equiangula. Aliud etiam in Euclide habes xui primi Elementorum « in ſexto Elementorum propoſitione xxx, quibus lo cis ſimile huic probat, quod duæ lineæ,in dire&tum cõiun&tafunt et lines und, ohoc per ſingularia odiuerfa media, quibus non eft aliquid unis accipere fuperius. Vigefimiſeptimitextusſit hec mea declaratio, immo.eft ipſius Ariſto telis ad unguem, quam Ioannes grammaticus, neque nouus aliquis, ſiue antiquus etiam interpres, non percepit, hoctextu affert Ariſtoteles les cundum errandi modum, à primo modo errandi longe dißimilem, atque diuerfum, in primo modo errandi nulla natura communis accipiebatur IN PRIM VM LI B. 1 fuperior, neque nomen aliquod, ſeu quæpiam uox habebatur, in hoc aue, tem ſecundoerrandi modo, natura ipſa communis eft, o inſuper nomen. ei impoſitum eſt. Verum quia natura illa non habet ſub ſe plures fpe=; cies, ideo illa, &fi fit, anominata ſit, in pluribus tamen differentibus fpecie rebus, innominataeſt, ob defficientiam ipſarum ſpecierum, quiail Leſpecies non ſunt, ut folis, terre, mundi natura, eſt innominatain plu ribus ſpeciebus terre, quia plures ſpecies terre nonſunt, fi igitur quiſ piam demonſtrationemde cælo tentaret, & quodfit dextrum in ipſo com cluderet, &putaret quod eſſet ſuademonſtratio uniuerſalis, quia no eft aliud primum cælum,erraret quia non de hoc cælo, primofitdemöſtra tio, fed de natura coeli, ut eft quid uniuerfalius ad hoc primum cælum, ſeu de cælo, fine contratione ad hoc ſingulare cælum, quam doctrinants Ariſtotelesſuis mathematicis exemplis, &quidem aptißimis, fole cans didiorum reddit; inquit enim in exemplo fecundo, quod quidem fecundo errandi modo correſpondet, oſi triangulus non effet aliud quàm 1f0a) ſceles, ſecundum quod Iſoſceles eſt. Videretur utiqiie ineſſe primo,has bere tres æquales duobus rectis, cum nullus effet alius triangulus,uel nul la alia eſſet ſpecies trianguli quam fofceles, &tunc error ſecundo mos: do contingeret. Explico Ariſtotelis ſententiam. In primis eft aduerten dum, quòd triangulus re ipſa hubet ſub ſe tres ſpecies triangulorum, fo pleurum, iſoſcelem oScalenonen, quod ſi tamen per imaginationem ponamns, quod non haberet ſub ſe ljopleurum, neque Scalenonen, per ſecluſionem illarum duarum ſpecierum, tantum haberet ſpeciem unā, ut iſoſcelem, eſſet tunctriangulu: innominatus in Scalenone atque Iſos: pleuro, quia fi in illis ſpeciebus triangulus nominaretur, ut fic,Scalenon eft triangulus, Iſopleurus eft triangulus, iam illæ ſpecies duæ triangu. lorum effent, quas ſuppofuit Aristoteles, ut non eſſent,ut ſuum oſtendat. propoſitum. His ſuppoſitis, ſiquis de foſcele concluderet; quòd tres haberet æquales duobus reétis,o putaret quòd uniuerſalis effet bec des monftratio, quia nullus eft alius triangulus, quam foſceles, crraretſes. cundo errandi modo, quia Iſoſceles habet fuperius o uniuerſalius fe, nempe triangulum, de quo primo concluditur talis affectio, & talis era, ror multa diuerſa à prinoerrandi modo habet,quorum unum eft, ut pri mus modus errandi,ſit circa.medium, & iſte ſecundus modus errandi fit. circaſubiectum demonſtrationis. Aliud, ut in primo nonſitfuperius ali quid nec etiam nominatum, In hoc ſecundo eſte ſuperius og nominas, tum, ut triangulus, Tertio illud innominatumſit in pluribusmedijs, hoc. autein? POSTERIORVMARIST DS autemfecundo modo innominatumfit in duabusfpeciebus tantum, uideli cet in Iſopleuro w Scalenone, Ibi ut in omnibus fit innominatum, Hic aue tem nominatum ſit tantum in una ſpecie, ut triangulus in 1fofcele. Advigeſimum octauum textum cã acceſſerit philoponus ad orchos in greſſus, non potuit ex inextricabılı labirintho egredi, ita ut ea, quæ pue rilia ſuntin interpretatione, perperam ej tortuoſe ſit interpretatus,vt puta uerbum hoc, aliquando, non temporaliter,inquit,audiendü eſt, ſed quaſi diminutius ut ait ipfe, non exacte fit audiendum, fimili modo ergo ijtud uerbum, Nunc,haud,inquit,temporaliter audiendum eſt, quin po tius, exacte, o ſecundum Methodum demonftratiuam, Pedagogorā mo dum inſequutus, qui quattuorgrecis litteris intineti temerario aufu, ſi ne quacunquefcientia aut liberaliarte ad explicandum Ariſtotelem uens toſi cum accefferint ipſi implicati non ut loannes plicis binis uel ternis terminos exponit, ſed denis centenis atq; millenis epiſtolis ſuos codiculos imptent promittunt etiam multis nobilibus ſe expoſituros Ariſt.uocantų; fepe illos nobiles nominatim ut teftes tādem ſint ſue infanie, et ut uidean tur etiam ipſi aliquid in Ariſtotele ſuo chere illuſtraſſe, cum nondum pri ma philoſophie elementa fufceperint, Pereant ipſi cum ſua ignorantia, uelfuis fericis ueftibus addifcere poft multa těpora incipiant,oſiferico indueti,atque equoinfedentes, o rabini facti addiſcere uerecundantur. fufcipiant eam quam decet philofophum, ueftem, o Euclidis honeſtate accedant ad Socratem; ne fintpoſt hac, fomenta praua difpofitionis preſtantißimæ iuuentuti in celebratißimis terrarum gymnaſijs. Qui dam alij interpretes quorum eſſe nefcio, quia ſuum eſſe nihil eft, neq; fuit unquam abradunt ly nunc, & locofuo,legunt, non, &ly aliquando,fo litarie fine fenfu relinquunt, quibus expofitionibus uel potius torturis iam iam incipiat Ariſtotelis lamétatio, Abigatur igitur cum mufcis afta bulòunaatque alteru interpretatio, feu magis Ariftotelis deprauatio, et legatur textus ut lacet in greco, quitextus græcus habet has particulas, aliquando, et nunc, que uerba temporaliter onullo alio modo intelligan tur, neque intelligi aliter poſſunt, onon legatur, loco de ly nunc, non, ut quidam facit hoc tempore, quenſcies, ſi tua ſcripta ab ipſo accepta le geris, Pro declaratione igitur uera, queunaſola eft, quă inferius fübi ciam, et nulla alia ab ifta uers effe poteft, ad Arijtotelem redeundo, textum expono. Proportionale, quod commutabiliter eſt. Aduertendū quod iftud de proportionale, exemplum, eft tertij modi, pro cutus declaratio 03 of 21 that * MA es G so IN PRIMVM LIB, ne dico Ariſtotelem proprium quantitatis determinaffe in fine predicar menti quantitatis dicentem; Proprium autě quantitati cft maxi. me çqualitas & inequalitas,reliqua uero queno ſunt quan ta no proprie æqualia ac inęqualia eſſe dicuntur, Velutidiſpo ſitio,uel etiam habitus æqualis, inequalisue non omnino propriedicitur, fed familispotius,atá; dißimilis, & album itidem æqualeinæqualeue non onnino dicitur, fed fimile dici atque dißimile dicifolet, Proportio ſeu ratio, ut ab Euclide deffinitur in quintoElemětorum eft duarum quantæcunquefint eiufdem generis quantitatum alterius ad alte ram habitudo quædam, ex Ariſtotele igitur habetur, quod proprium eft ipſi quantitati, esſe quale aut inequale. Ex Euclide uero quòd propora tio eſt quantitatumfolummodo, ex utroqueuero, quod tantum in quana titate proprie reperitur proportio, quæ quidem eſtæqualitatis, in equalitatis; inequalitatis uero proportio biffariamſecatur fecundum Boetium in primo Arithmeticæ in inequalitatem maiorematque minoa, rem,equalitatis proportio eſt quandofundamentā et terminusfunt æqua lia, ut duo ad duo, inequalitatis uero proportio eft quando fundamenti eſt maius, terminus autē minor, et hæceft maior inequalitas.uerominor eft,quando fundamentum eftminus terminus uero maior,ut sunr ad 21, maior,et 11 ad 1 1 1 1 minor, Præter hæc ſcito, quidam modiarguenda quibusmathematici utuntur(de quibusEuclides in quinto) indifferenter applicatur quantitatibus eiufdem, fiue etiam alterius generis, dummos do bina ſintuniusgeneris et bine alterius, ut in equaproportionalitate patet, hic autem modus-arguendi qui dicitur commutata proportio non niſi quantitatibus, quæ eiufdem generisſunt attribuitur. Quibus pras intelectis o declaratis, uides Platonem improprie applicuiffe uirtutia bus in Gorgia cõmutată proportionalitaté, quibus etiã qualitatibus,pro portio nonconuenit, ex deffinitione proportionis fuperius data,quapro, pter non eſt propria rerum natura, neque uera e propria Ariſtotelis ſententia,aliena docirina perturbanda. Vbienim ait Ariſtotelesloquens de tertio errandimodo,aut cótingit efle, ficut in parte totūztoti hoc loco,uniuerſale intelligendum eft,partem uero inferius ad ipfum uni uerfale, Mododico,quòd antiqui philofophi qui precefferütEuclidem Ariſtotelem ſæpißime errauerunt hoc tertio errandi modo, putantes de toto, feu uniuerfalemfacere demonftrationem, que tamen erat in par te demonstratio,hoc eſt particularis &non univerſalis, ideoait philoſos plus quemadmodum demonftratum, eft aliquando, uidelicetabantiquis POSTERIORVM ARIST. philoſophis, qui tempore Ariſtotelem,atque Euclidem preceſſerūt,quia ipfi non aduerterunt quod quantum, eſt id (id eſt natura aliqua) quod fum perius accipitur, nominatum eft in pluribus differentibus fpecie res büs, differt igitur iſte modus à primo, quia ibi non erat accipere aliquid ſuperius, o etiam differt àſecundo, quia in fecundo illud fuperiusnon erat nominatuin in pluribus differentibus ſpecie rebus, hoc autem, quod hic conſideratur, eft in pluribusſpeciebusnominatum, & comune,atque uniuerſale onnibus quantis, fiue illa diſcreta, ſeu cötinua ſint, quorun effe fucceßiuuki, feuetiam permanensſit, ut numeri ſunt,lines, folida, tempora, &alia huiufmodiſpecie differentia, feorfum ab inuicem ali quando acceperunt antiqui deſingulis demonſtrationemfacientes. Nunc uero, inquit,philofophus uniuerfale demonftratur, fenſus, uniuerſali ad hæc omnia,modusiſte arguëdi imediate et perſe attribuitur, ut ipſi quan titati, quatenus tale. Nunc dico, nedum in eo Ariſtoteleo quidem tempo të, & à philofophis reéte fapientibus, ſed etiam oprimo abEuclide; cuius clarißimi philofophi beneficio habetur demonſtratio uniuerſalis omnibus quantis, ut fuo quinto libro Elementorum docet, propoſitione fextadecima, Errabant igitur antiqui aliquando, arguendo permutatim in numeris ſeorſun, in lineis feorfum, cæteris feorfum, nunc au = tem non contingit iſte error his, qui ſequuntur Euclidis ſcitum, quia nunc, ideſt poſt Euclidis fcripta uniuerſaliter demonſtratur, hoc eſtmo:. dusiftearguendi primo per fequantitati conuenit, quægenuseft ergo üniverſale adomnia quanta, hæc autem eſt mea interpretatio, uera og germanaipſi Ariſtoteli, ut etiam ipſe ſuis uerbis manifeftat Text. 93. ubi apertißime declarat propoſitum. Propter hoc nec fi aliquis monſtret, unumquēque trian ĝulum demonſtrationeaut una, aut altera quod duos re čtos habet unuſquiſque Iſopleurus feorfum & Scalenon,& Iſoſceles, nondum cognouit triangulum, quòd duos rectos habet, niſi ſophiſtico inodo,rieque uniuerfaliter triangu huum,ne quidem fi nullus eſt, pręterhæc triangulus alter,no enim fecüdum quod trianguluseft cognouit,neque fi om= nem triangulum,ſed quatenus ſecundum numerum, ſecun dum autem fpeciem no omnem, & fi nullus eſt, quem non nouit. Non eſt ſurdaaure pretereundum artificium fummum, quod in hoc exemplo Ariſtoteles docet, fcias hoc exemplo de triangulo, comple &ti duos errandi modos, vel facerepro duobus modis, errandi, ſecun Gij sa IN PRIMVM: LIB. do, atque tertio, cum primum defingulo modo, fecundo &tertio, fe. paratim exempla aptißima e peculiaria pofuit, ftatim attulit aliud exemplum utrique, ſecundo uidelicet,atque tertio modo feruiens, Com. poſitiuam methoduin etiam in exemplis feruauit. Littera autem per particulas, ſic declaratur; inquit enim, demonſtratione aut una aut al tera; una enim demonſtratione numero fieri-non poteft, ut deIſopleuro folcele, C Scalenone, concludatur quod tres equales duobus reftis habeat, uia igitur fpecie demonſtratio erit, qua de his tribus triangu lorum fpeciebus demonſtrabitur, quod tres habeat æquales duobusree Atis, ideo dixit Ariſtoteles demonſtratione aut una aut altera; ac fi dices ret pluribus numero demonſtrationibus, de tribus ſpeciebus illis cons cludi, quod tres duobus rectis pares habeat hæc autem demonftratio, nullo modo intelligi potest, quòd fyllogiſtica ſit, quia tuncmaior pre. miſſa acciperet de uniuerfalitriangulo, quod haberettres equales duo bus reftis,ſic fyllogizando, omnis triangulus habet tres angulos æquam les duobus rectis, ſed Iſoſceles, uel Iſopleurus, uel Scalenon, eſt triangulus, igitur foſceles, uel Iſopleurus,uel Scalenon habet tres, æquales duobus rectis, Sic igitur fyllogizando uel particulatim abſque illo diſiunto, fed uno tantum affumpto triangulo, non ne, ſcio de triangulo uniuerſaliter, in maiori aſſumpta quòd triangulus habet tres æquales duobus reftis? quod e diametro opponitur ei quod Arift. ait,ut et fi de Iſopleuro, et cæteris fciuero,quòd habeat tres æquales duo bus,nondūſcio de triangulo,niſiper accidens,per accidés dico quatenus in ferius omne, ſuperiori accidit,modus igiturilledicendi, quein uidentur omnes latini atque greciſequi, non poteſtſtarecum Ariſtotelis ſentena tia, quia iam priusſciretuniuerſale in maiore fumpta et per uniuerſale in cognitionem particulariñ deueniretur,qui error non eſt, ſiquis autem di ceret, ut fic intelligi debeat demonſtratione,aut una fyllogiſtica, aut alte ra Geometrica, dico quod nullo modode ſyllogiſtica poteft intelligi, quia ſequeretur idein incommodum eo modo arguendiſyllogistice,contra dos Arinam ex litteram Aristotelis, ut fupra dixi, quia tunc per cognitio nem uniuerſalis deueniremus in cognitionem particularium quod ex ſi id uerum ſit, modusquo ipſe textu Il docet, quo modo de nouoſci mus,non hoctamen in hoc textu pertractat, ſed agit,hoc textu,& in hoc, exemplo, de errore, qui opponitur uero modo ſciendi,onon de mo: do, quo de nouofcimus quippiam. Niſi quis de ſyllogiſtica demonſtratio neintelligensafingularibus ad uniuerſale progredereturfic, omnis 1 / 0 POSTERIO RVM 'ARIS T. ſceles habet tres equales duobus rectis,fed triangulus iſoſceles est, igis tur triangulus habet tres duobus rectis pares, &de alijs fpeciebus limie liter, & tunc fciret iste ſecundum numerum i particulariſubiecto I fofce le ad uniuerfalem triangulum progrediendo,quod no diſplicet, et ſic una fpecieſyllogiſtica concluderetur de uniuerſali per particularia, uel etiã altera,nempe Geoinetrica. Pro cuius ellucidatione, eft fciendun; ultra ea, quæ de Geometrica demonſtratione dictum eſt in textu tertio, quod Euclides ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elementorun demonſtrat quod triangulus qua. tenus triangulus est, habet tres angulos æquales duobus-rectis, fi quis modo, utcunque intructus bonis litteris (non dico Ariftelis deuoratos, res uel potius carnium «acephalorum ſeptem, unis bycis uoraces, quiafi uerbauinitateplena habeant non tainen Aristotelis do& rinam tenent,quam falſo profitentur)iſus fuerit illa. demonftratione oſtendens de 1fofcele, quòd habeat tres e qualesduobus reftis per decimamtertiam O vigeſimumnonam primi Elementorum, aut altera numero, eadem ta menſpetie de Iſopleuro & Scaleno.ne idein oftendat, ita quòd de ſingus lis trianguloruin þetiebus inducat, quod habeat unaqueque ſpecies triangulorum tres equales duobus, nonduin cognouit inquit, triangus lum quòd duobus reftis æquales habet, niſi ſophiſtico modo, neque uni uerſaliter trianguluna effe huiufmodi, ne quidein fi nullus eft, preter, hec, triangulusalius, non enim quod triangulus eft huiufmodi cogno uit, nequeſi omnem triangulum, hoc habere contingut, utputs duobus reftis æquales,ſed quatenusfecundum numerum, ideft fecundum nume rumfpetierum triangulorum, ſecunduin autein fpetien, in uno uidelicet uniuerfali, non omnein ca ſi nullus eft fecundum ſpetiem, id eſt ſe cundumnumerum trium triangulorum petieruin, ſeparatim,quem non nouit. Erraret igitur duplici errore ille, qui putaret eße unia uerſale fubie&tum, & totum, id quod effet particulare fubieétum, parsfubieétiut, quia tunc acciperet in parte totum, id eft partem, to tum effe exiftimaret. Si autem triangulus immaginetur faluari in unica tantum fpetie, ut in iſoſcele, tunc exemplum intelligatur, aptari feo cundo modo errandi tantum, non etiam tertio. Vides igitur amice, quod Ariſtoteles modos tres attulit errandi circa uniuerfale,quorum cuique proprium, &peculiare exemplum aptauit. Neque legas poſt hac lyaliquando, prominus exacte, nequely nunc,pro exacte ita,ut neutrum,tempusſignificet, fed utrunque temporaliterlegatur, neque 1 i IN P R I M V M L I B. legendum eſt ly nunc pronon, ut quidam, qui nullus homo est facit. Ad id autem quod Ioannes de Gorgia tetigit, aie quod quantitas, natura ipſa, qualitatem precedit, fic ut quantitas, fit prior ipſa qualitate non dico tempore necetiam natura ſed ordine, oid quod propriumquan titati eſt prius est proprio qualitatis, fimiliter et modi,quiſunt ipſiquãti tati proprij, ut eſt proportio, & modus arguendi, qui dicitur permu. tata proportio, funt hæc quantitati propria oſibi primo conueniunt, deinde etiam qualitatibus ſecundario « improprie attribuuntur. Quem admodum etiamSyllogiſmus, qui omnibus philoſophiæ partibus eft com munis per attributionem, de eo tamen primo oproprijsſime Logicafa cultas agit, quòd ſi ſubſtantijs quantitate prioribus, quis tribuat come mutabiliter proportionari, tunc uniuerfaliter reſponde, quod omnibus entibus poteft attribui commutabiliter proportionari improprie tamen, oper quandam attributionem fecrındariam, quatenus omnia entia,has bent quantitatem molis, aut uirtutis in ſe,o ſic Plato attribuit in Gori gia commutabiliter proportionari illis qualitatibus improprie, opro ut ille qualitates includunt quantitatem uirtutis, quæ funtgradus pera feftionis. TE X. XXIX. ALIAS XIIII. VANDO igitur non nouit uniuerſaliter, & quando nouit fimpliciter, manifeftum eft utique. Quoniain, li idem erit triangulo eſſe & Iſopleuro, aut unicuique,aut omnibus fi uero non idem fed alteruin & cætera. Littera ſic exponatur, fi eadem deffinitio quæ trianguli est, cſJet ipſius etiam Iſopleuri propria o peculiaris, aut unicuique 1fos pleuro iſoſceli o Scalenoniſeparatim, aut etiam omnibus fimul in com muni à quanon ſit alia deffinitio ipſis conueniens, ſi uero non idem, id est finon est eadem unica deffinitio, quæ bis omnibus æque primo conue ! niat, fed alterum, id eſt diuerfum nempe deffinitio trianguli est figura tribus lineis rectis claufa, fed iſopleurus est figura tribus lineis rectis æqualibus claufa, iſoſceles est figura tribus lineis duabus nanque æquae libus, una inequali claufa, gradatus eſt figura tribus lineis inæquae libusclaufa, ecce modo, quàm diuerſa ſint deffinitiones, fi ineſt igitur tres habere his omnibus, hoc quidem eft unicuique, fecundum quod eſt triangulus, uelfecundum quod eft figura tribus rectis claufa, o non POSTERIORVM ARIST. has pro eta quia illis lireis equalibus, uel inequalibus claudatur. Vtrum autem fecundum quod eft triangulus, aut fecundum quod Iſoſce les infit, & quãdo ſecundum hoc, eſt primun, &uniuerfale, cuius eſt demonſtratio, manifeſtūeſt, quando remotis infit primo,ut Iſoſceli, æneo remoto,triangulo infunt duobus rectis pares, fed æncun eſle remoto, &Ifoſceli etiam remo to infunt tres duobus rectis pares, fed non inſunt tres duo bus rectis pares figura & termino remotis, quia etiam ipfis inſunt duobus rectis tres æquales, fed eis non primo, ut fi gura que clauditur termnino uel terminis, quo igiturprimo reinoto, cui priino conuenit; remouetur, & habere tres, fi itaque triangulus remoueatur, remouebitur & habere tres duobus rectis pares, & ſecundum hoc igitur, id eft few cundum triangulum ineſt, & aliis per ipſum & huiuſmodi trianguli uniuerſaliter eſt demonſtratio. Littera fic ordináta, artificiun Ariſtotelis est conſiderandum, in hac regula, quam prebet ad cognofcendum, quando erit uniuerfaliter demonſtratio, ego exem plum eft contraſecundum modum errandicirca uniuerſale,ſic,utſeruans hanc regulam,non errabitſecundo modo errandi circauniuerfale,& pri mo,remotis accidentibus indiuiduorī,utremoto ere,non remoueturaf feétio uniuerfalis ut habere tres duobus reétis pares, as enimfeu aneum effe,non conuenit fpeciebus triangulorum, niſi quia indiuiduis triangulis conuenit remota,fubinde fpecie trianguli, ut Ifofcele remoto, non pro pterea remouetur affectio uniuerſalis, quæ eft habere tres duobus reétis pares, quia in alijs fpetiebusſaluatur natura,cui primo conuenit habere tres,ut in ſopleuro,e Scalenone ſaluatur naturatrianguli,cui prinoco uenit habere tres,tertio remouet genus ad cuiusremotionem remouetur villa affeétio,ut remotafigura, &tres habere duobus re &tis pares remo uetur, Quarto cultimo remota deffinitione generis, ut remoto termino figura enim eſt, que termino uel terminis clauditur, remouetur og illa affectio ſed non primo, primo enim conuenit ipſi triangulo, triangulo igitur remoto, statim remouetur & illa affectio, habere tres duobusre Atis pares, demonftratio igitur qua concluditur quòd triangulus habet tres angulos equalesduobus reātis, eft uniuerſaliter. & eft Te i IN PRIMVM LIB. TEX. XXXVII. ALIAS XX. Pro quo VORVM autein genus alterum eft, ficut Arithmeticæ, & Geometriæ,non eft enim Arithmeticam demonftrationem accom modare ad inagnitudinum accidentia niſi magnitudines numeri fint. Gnarus Ari ſtoteles Geometrie & Arithmetica non dubitanz do loquutuseft inquiens,niſi magnitudines numeri fint, fed fuæ regulæ uniuerfalis exceptionem faciens, niſi inquit magnitudines numeri ſint. aduertas magnitudines nunquam fieri numeri nifi numeri nuo merati, o adhuc numeri illi numerati non fit diſcreta quantitas, ſic ut illinumerati numeri, non copulentur ad aliquem communem terminum, ſicut numeri, ofillabe, no:1 ad terminum copulantur communem,fed ad comunem terminum copulantar ille magnitudines que numeri funt per folum tamen intellectum à fe inuicem feparatæ intelliguntur ille quidem magnitudines quæ numerati numeri,Sunt non quod intellectus aliter quã ſint, eas percipiat oppoſito modo, fed eas tantum conhder atparticunt Latim, no intelligendo eas niſi priuatiuenon effe coniunctas,non tamen in telligendo eas negatiue, non effe coniunétas, ut pro exemplofufcipiatur id,quod Euclides proponit propoſitione quinta deci f mi Elementorum commens ar d ſurabiles magnitudines,ad inuicem rationem habent quam numerusad numeră be cuius deinonftratio talis est. Sint due inagnitudines a b communicantes, dico quod earum pro portio eft,ſicut alicuius numeri ad alium numerumfit enim maxima quan titas c cõmuniter menfurans a ®b, reperta ut docet xiij. Elementorum quæ inenfuret a fecundum numerum d, o b fecundum numerum e, erita; a ad c, ut d'ad unit atem eo quod ſicut a eft multiplex Citad eſt multiplex unitatis, at c adi b, ut unit as ad e, quoniam ſicut c eft ſubmultiplex b, ita unitas eſt ſubmultiplex e, igitur per aquam propor tionalitatem a adb, ut d ad e quod eft propoſitum, Ecce quod f linea fecans a lineam in puncto F, non ſeparatprima partē linet a, à fecunda parte CH POSTERIORVM ARIST. st n parte linee a, quis, punctus copulansprimam partem lineæ & cum fes cunda parte, manet idem, immo eſt communis punétus &ipfi lined a & ipſi f, intelle &tus tamen intelligit primam, atquefecundam partem li nea 4, abſque quòd conſideret,ut ad comunem punétum f copulentur. Ecce uides quomodo Euclides utitur medio Arithmetico,ut puta nume ro in constructione, «æqua proportionalitate ad probandam affeétio nëdemagnitudinibus, In vis uel 1 x propoſitione decimi utitur uns decima octaui, tamquam principio Arithmetico in concludenda affe ftio ne de magnitudinibus, hocfepißimefacit in toto decimo libro Eles mentorum Magnitudines, numeri funt, quando ille habent communem menfuram qua communiter dimetiantur, diameter igitur quadrati, Oſuacostanunquam funt, neque dicentur quod ipfæ numeriſint,de ma gnitudinibus etiä que numeri ſunt trattat Euclides in ſecundo Elemento rā à prima propoſitione ufq; ad undecimãexclufiue, Ecce quo pacto utis mur arithmetico principio,circa Genusgeometricã, quod græciala - tini non aduertentes prætereunt exponentesregulam Ariſtotelis uniuerfaliter, quãipſe uult intelligi cumparticula exceptiua, In hac parte ex= ponenda Aueroesimperitißimusfuit, ita utſua littera e directoſit con tra Ariſtotelis fenfum, inquiens &propterea demonſtratio, quæ eft de queſito computatiuo, non poteft trăsferri in aliam à computatiua,quem uirum clarißimum non miror, ſimendacium hoc dixerit in ifta re parut ſed magis,eum admiror quòd cum aliàsdiſciplinas mathematicas inuen taspropter ingenij exercitationem, &quia etiam philofophus dixerit eas puerost adipiſci, ipſumuero Aueroin,neque pueritia,necſuafeneétu te eas fuo ingenio intellexiſſe, niſi dixeris, quòd ipſe elleuatus in eſtaſi intelligebat omnia per intellectum in actu, quo multa peruerſo modo,e ordine intelligebat ſicut quædam fui fequaces Aueroico uerbo cupientes Aueroiſtas dici, ignorantes tamen que Ariſt. mathematicis explicanda propofuit, de quo intellectu poßibili, qui nihil eft eorum quæ uere ſunt ante quam intelligat,utproponit philoſophus,aliquando aperiam,quòd non de ſeparato illo chimerico intellectu ex littera cmente Aristotelis, debemus intelligere,ut quidã Aueroiſta perperăget fequaces peßime in= terpretantur, pertranfeo tamëhæc inpræfentiarü,et quia non eft hiclo cusdifferendiillud, et utfic docentes falfo,reſipiſcăt, et ueritatem Arifto telicăianiam incipiãt et intelligeret &alios post millenos annos docere. Hoc autem quemadmodum contingit in quibuſdam, po fterius dicetur. littera fic intelligi debet, magnitudines quando ſint 1 1 H S8 IN PRIMVM LIB: 3 numeri in quibufdam,nempein temporibus, ideft quádo ipfa tempord, ut numeri concipiuntur, Poſterius dicetur,ut in libris de philoſophia et de anima.Hoc loco habemus artificium ab Ariſtotele, quoGræcorumexpo fitorum abufius mille,o latinorü millies millena millia errorum cognoſci mus,De interpretibus uero noſtri temporis,ſierrent,non dico,fed intelli gas uelim, ut quot uerba proferunt, tot mendacia contra Ariſtotelis or dinem ýmethodum committunt. Quis enim legit Grecos, Latinos, o noftri temporis expoſitoresAriſtotelis, non uideret conſiderauerit, illos ſepe, & fepe fepius adducereloca odoctrinam datamin philofo phia uniuerſá, in libris de anima, methaphiſicis, pro declaratione lo coruin logices, quis modus iſte obfcuritatis eſt, per ignotißima declarda re ea, quæ aliquo modo ignota funt? eper ea quibus accommodantur principia, ipſaprincipia uelle declarare, oper poſterior aignota decla rare ipſum prius, ſic utfupponant iſti declaratores,hominem eſſe philoa fophum, animaſticum, & methaphiſicum antequàmfiat logicus,utille no Ater bonus homo docebat, quòd Ariftoteles attulit tria exempla in fecun do textu,in tribus ſcientijs,ut ibi notaui ha,ha,pereat modus iſte contra Ariſtotelis doctrinam,qui poftquàm exceptuationem uniuerſalis regulæ fue fecit, inquit, hoc autem, quomodo contingit, posterius dicetur, fic ut id,quod inphilofophia dicit, nonreuocetin logicis declarandis, fedt diuerſo,exceptione qua in hoc locofacit,Pombaur tanquam nota in philofo phia, ut ex notis ad ignota o utex uniuerfali ad particularia tēpora procedat,perfuadeturigitur illa exceptio exx. libro Elementorū ut des claratum eft, & non ex philofophiæ locis, vt proMilanius utpúta ex his, quæ in Geometria notafunt, ad ea declaranda, quæ inlogicis traa & antur, ut uera methodo, à notis diſcuramus adignota, fed fi idem in theologos ſacrosobijcias, qui indiſcriminatim ad declarındas theologia cas queſtiones loca uniuerſalis philofophiæ adducunt, igitur ipficra rant,refpondeo, In thcologia cui omnesſcientic &tota uniuerſalis phi lofophia ancilantur tanquam ſcalares gradus non inconuenit philofoe phic eliberalium artium theoremata adducere, quia proceditur à nos tis ad ignota declaranda. Ita ut ultra modum quo intelligimus Sacran do&trinam per reuelationem, ſunt quidam alij modi intelligendi, ſuppoſia ta tamen reuelatione primo, unus eſt modus deuotionis fpiritalis, quo particulariter dominusfuisfanétis, licet alias indoctis tribuit intelligere, ut Petro intelligebat ea,quecontinebantur in epiſtolis fratris noftri Pau li, quæ indocti deprauant ad fuum fenfum, non intelligentes, Alius mo POSTERIORVMARIS T. 0 4 Ac LE FO r dus intelligendi facras litteras prouenit ex ingenij uiuacitate tantum, qui modusmultas hærefes attulitfidelibus. Tertius eft modus intelligendi beneficio naturalis philoſophic, &hic etiam decipit innaniterfideles nis fiunctione fanétifpiritusmoliaturfua duricies, hoc quidem tertio modo non intelligit aliquis facras litteras, niſi inſtructus illis difciplinis, que precedunt ipfam reginam theologiam, valeant igitur, eantuna oma nes ad olas carnium, nonadScotia Thome libros, qui, his artibus &philofophia non callent, non peccant igitur Theologitertio modo di di, copeccato, quo multiGræci, Latini, &præfertim noui interpretes in Ariſtotelem peccant,confundentes docendi ordinem. Videtur hæc ex poſitio, Ariftoteli oppugnare, ubi inquit Ariſt. pofterius dicetur, ut in libris philofophiæ, dixi tamen ego ex decimo Elementorum. Dico Arie ftotelem promittere quomodo continuum diſcretum căcipiatur, fed Eye clides quo modo per principium Arithmeticum de magnitudineaffeflio demonſtretur atq; concludatur. • Ex codem enim genere cft, extrema & mcdia eſſe, fi namqucnonfunt per ſe accidentia erunt, propter hoc Geo metrię non eft demonſtrare, quod contrariorum eadein eſt diſciplina, ſed neque quòd duo cubi ſunt unus cubus, ſit heclitteræ expofitio, ut media oextrema debeant effe eiufdemgeneris, media intelligas, feu in conſtructione medium, ſeu medium ad probadum, quod eft, aut principium, uel etiam propoſitiopredemonftrata,que fus mitur ad probandam aliam, propofitionem; extremorum autem nos mine (ubiait extrema) intelligende funt ipſa concluſiones, utfitfenfus facilis, premiſſão concluſiones ex codem genereeſſe debent. Sed ne que quòdduo cubi unus cubus fit, Quomodounus tantum cus buserit,cum duo fint?duo prius feparatim erant,quiſi in unum redigan tur, unum tantum efficiunt,ut due lincæ etiam una linea tantum efficis citur, utdocet XIIII primi Elementorum xxx ſexti Elementos rum,vltra aduertendum quod cötrariorum cadem eſtdiſciplina,ſed hoc non probat Geometra ſimilitcr duo cubiunus cubus eft,quod etiam Geo metra non probat, his habitis odeclaratis., ſtatim perit declaratio. cus iufdam philoſophi noui qui maiorigrauitate quàm pondere utitur; dicit enim illa ſua innani interpretatione, duo cubi in Arithmetica non faciunt ynum cubum, quod eft di&tu, quod duo cubi numeri nonfaciunt unum cu bum numerum,ifta interpretatio opponitur littere Ariſtotelis; li ttera anim affirmatiuc loquitur, quòd duo cubi unumfaciuntcubum,oiſte no ни ex 46 in is hi De IN PRIMV M LIB. ) uus philofophus exemplificat negatiue, quo mododuo eubi non faciunt unum cubum; reiciatur igitur ſuainterpretatio, & Philoponi expoſitio ſuſcipiatur, quæ hoc in loco fatis conſiderata eft, atque docta;Ratio enim quare non demonſtrat Geometra,quòd duo cubi unum cubum far ciunt, eſt quia non uerſatur Geometra circa genus folidorum, ut circa ſuuinſubiectum, fed uerſatur tantun circa planorum genus, ut circa proprium ſubiectum, Stereometra autem habet demonſtrare, quod duo cubi adinuicem aditi cubum unum cõficiunt, ut ftatim explicabo inferius, cum de duplatione are delorum, & in fragmentis logicis de triplatione, quadruplatione, quincuplatione, fexcuplatione, eptuplatione, es dein ceps demonſtrationes fecero. In qua re ut Ioannes refert Apolonij peri gei talis eft demonſtratio ab innumeris mendis purgata, opermepri ſtino candori redita cum Euclidis propoſitionibus in locis fuis,utdecet appoſitis, ac ſiab Apolonij manibus nunc procederet. Pro cuiusdemonſtrationis notitia, aduertas quòd Art Delio Apoli ni dicata, eſto ſiuis ut trium eſſet pedum, quando Apolo imperauit dea lijs peſte laborantibus, eiuſdem Are duplationem, qui Geometrie impe riti (ut peneſunt in preſentiarum omnes totius orbis Gymnaſiste )adide runt alteram tripedalem Aram prime are, etſicturbata,atý; corrupta forma cubica are primæ,dederunt are duplate formă trabis, fic ut fex pedű extendereturlongitudine, latitudineuero & craſitie trium pedum extenſa eſſet Ara, forma in qua complacebat Apolo deperdita,fþreti igi tur propter hoc delij ab-Apoline, & graue peſte adhuc laborantes, ad Platoně confugerunt,qui eos redarguens, utGeometric imperitos tana dem eos adhuc dubios reliquit dicens eis, ut duas lineas medias inter exa tremas inuenirentſecundum eandem proportionem continuam. Et tunc ſcirent duplare Aram, formam habětem cubicam, In qua re plurimigre corum laborauerunt tandem unus Apolonius perigeus, duas inuenit lia neasillas medias Oſummo artificio duplarunt Aram delij,fubinde ad peſte quieuerunt. Dátis igitur duabus lineis inæqualibus, quarum altera ſit longitudo Ar & primo fabricatæ triumpedum, fecunda uero lineaſit ed, que deno tet longitudinem trabis quamcompoſuerunt delij, &eſto pedum fex,ina ter has duas reperiendæ funt duæ alia medie in continua proportionam litate,quod in numerisfieri neutiquam eſt poßibile, fint igitur duæ data, primafit b c, quæ erat longitudo prime Are, e a b.longitudo tras bis, &ponatur per undecimam primi Elementorum uel per uigeſima POSTERIORVM ARIST. tertiam eiufdem primi, ut rectumangulum contineant,eum uidelicet qui füb a b c o compleaturparallelogrammum bd; per tertiam atque tri geſimamprimam primi Elementorum;qg diameter ipſius per primum po ſtulatum primi Elementorum ducatur a c o circa triangulum ac di per quintam quarti Elementorum deſcribatur circulus a d.c, os produ catur linee b a,b c, per fecundum poſtulatum primi Elementorum in directum ufque ad fe 8,0 per primum poſtulatum coniungan tur f &, per lineam f g tranſeun b tem per punétum d, ita ut fe, æqualis fit lineæ e g, hoc enim tan quàm petitum ſummitur indemons Äratum. (De quo, forſan poſterius noſtra palade non nihil dicetur) ma nifeſtum utique eſt, quod ex fe æqualis eft ipfi dg per hipoteſim, @primam animi conceptionem. f a f 6 f 6 6 G gд g fil 6 g ď 6 6 egg f fa d Б6 c 1M14 8 с C f f a d AB Xa -f MC À с a TE lik mo Ma Quoniam igitur extra circulum a dc punctum fumptum est feab ipſo dufte linee rette f b, feſecant circulum ad punéta a v d, quod igi tur fit ex bf in fa, per trigeſimamquintam tertij Elementorum,æqua le eſt ei, quod fit ex ef, in fd, ac eadem ratione, &quodfit ex b & in c g æquale est, ei, quod fit ex dg ing e, aquale autem eft id quod fitex dg in g e, ei quodfit ex e f in f d, utraque enim utrij que equales funt, e f ſilicet ipſi d 8, og f d, ipſi eg, igitur, ego quòd fit, ex bf in fa, æquale eftei, quod fit ex bg ing c, eſt igitur, 62 IN PRIM VM.; L 1 B. ut fb ad b & perfecundam partem decimequinteſexti Elementorum, ita g c ad f a,fed ut fb adb 8, fic es fa ad ad per iij.fextiEleé mentorum, igitur per xi. quinti Elementorum g c ad f a,ut f a ad ad, fimiliter per eandem xi. quinti Elementorum, ut dc adc 8, fic cg ad fa, quia utraqueeft,ficutea, que est fb ad b 8, altera per fecundam partem xv. reliquaper quartam fexti;ut d.c.ad cgpro pter fimilitudinem triangulorum, est autem dcdqualisipfi ab,04 d, ipſi b c per xxxiij. primiElementorum, igituraut ab ad cg ita f a ad ad, erat autem, out f bad bg, ideft ut a bad c g,fic cg ad fa, igitur out ab adog, fic oipfacg.ad fia, o ipſa fid, ad b c, quatuor igitur rectæ linea 46,8c,fa,bc, inuicem prom portionales funt,o propter hoc erit; uta bad b c, ita quifit ex 4 b cubus, ad cubum, qui ex g cega qui ex g c, ad illum qui fit ex f a, e qui ex fa, ad illum qui ex b c ex corrolario xxxiij. undecimi Elementorum, igitur ut a b ad b ©, ita cubus quiex f a ad cubum qui ex b c, fed a b dupla fumpta fuità principio, ipſius b.c, eft igia tur cubus, qui exfa, duplus ad cu bum, qui ex b c, quod demon - g strandum errat. Berlin. g c.8 F G f 6 f 6 6 a. 6 6 G 8 6 g ggġ Ġ gofa dic figffa d. o ga a 6 2. BВ POSTERIORVM ARIS T. Eleg TEX. XLI. VEL XXII. F G ta 16 ORVM quæ ſæpe fiuntdemonſtrationes funt & fcientiæ, ut lunæ deffectus, Quee dam noua queſtio à quodam nouo interprete moues tur, circa particulas in textu poſitas, unde eft, quòdfæpefiat demonſtratio of ſcientia de lune men ſtruo? Cumſit, quod luna nonſemper, nequeſe pe eclypſetur, neque meſtruum patiatur? Queſtio mota fuit ex dus plici ignorantia queex duplici menſtruoſitate contingit, uidelicet Solis Lune, quia ille, qui eam mouerit, neque in die, neque nocte uidet, quid uelit Ariftoteles, ſi tamen alta uoce Ariſtoteles streperet in huius doctoris aures, hoc apponeretforſan miringam, ſın ditë, ſurdus ipſeerit ideo ille bonus homo,qui quidam homo erat,fed nunc nefcio an aliquis ho mo ipſe ſit, monſtruoſamde lunæ menſtruo folutionem,uel potius ligas mina tribuit auditoribus centum. Videas, ſepeenim inquit nofter nos uus interpres, fit Lune eclipſis, quia quandofit,tunc orientalibus quar ta hora, occidentalibus autem hora tertia, magis autem occidentalibus hora ſecunda noctis &alijs etiam ad indos magis tendentibus prima non & is hora apparet luna menſtrua:a, ecce inquit ille interpres do&tus,quid ſepefit, ut puta intot horis noftis, utfecunda&tertia atque alijs plu rimis. Quemirabilis doctrina @ſcientia, in dialogis &fabelis, quas apud ignem raulieres habentreponenda magis, quàm àuiro quoquo moa do etiam docto redarguenda eft, uel etiam à quouis audienda. Litteraſic ordinetur, eorum demonſtrationes & fcientia ſunt, eorum dico, que fæpefiunt. Dico igitur lunc deffe tusſæpe, atque ſemper fieri in plenie lunio, quum terra diametraliter ponatur inter Solem Lunam, quod quidemnon in omni plenilunio contingit, fed cum sol in capite, & Lue na in cauda draconisfuerit, quod Plato explicans ait linea re& ta eft cu ius medium obumbrat extrema, quamfententiam non intelligens quidam alius potius paraſcitus quàm doctor, &ille est, quem ſuperius dixi hae, bere grauitatem maioren, quàm pondus, redarguebat in quodam cons uiuio deffinitionem quam Paduano Gymnaſio in primis meis le &tionibus publicis dederam, explicans deffinitionem lineæ rectæ, que eft, à pun Ao in punctum breuißimaextenſio, aut cuius medium ex æquofua inter 1 incet ſigna, hoc eft, cuius medium non reſultat ab extremis, ſic explis IN PRIM VM LIB. cabam per fenfitiuam & materialem lineam, ut facilius ipfa Geomes trica linea à tirunculis intelligeretur, linea recta eft, cuius medium non obumbrat extrema, neque eſt hæc mea explicatio rectæ lineæ, Contrda ria illi à Platone datæ, cum hæc in Geometria, illa uero Platonis in Aſtronomia accomodanda ſit, neque in hoc ignofeendum erat, quia igna rus Grecarum litterarum eſſem, ut ille efuriens greculus non lingua ne que natione, fed apparentia tantum, Tipto propter tiptis duo agebat dicens mefalfam le&tionem Latinam vidiffe, qua legeram in Platone, lie nea recta eſt cuius medium non obumbrat, cum Græcus textus, affira matiue legatur fic cuius medium obumbrat extrema, mitto hæc in Cora bonam, oad propoſitum à quo uidebar digredi redeo, Cauſis igitur illis commemoratis concurrentibus, femper & ſaepe fit Luna defectus, de qua Luna menſtruata habetur ſcientia, per medium illud, quæ eft ter re interpoſitio inter Solem atque Lunam diametraliter, que cauſa pro pria, & propinqua eſt ad Eclipfim de Luna concludendam, modo anfe pe fiat demonſtratio uelfepe habeatur fcientia de Eclipſi Lune, hoc non tangit Ariſtoteles., quia ly ſæpe eſemper, non determinant ly demon ſtrationes, olyſcientia,fed determinantlydeffe &tusLune; illis igia tur cauſis contingit Luna deffeétus fæpec ſemper,non autem illis quas commemorauit ille phantaſticus, ſecunda uel tertia hora noétis. TEXTVS XLII ALIAS XXIII. VONIAM autem manifeftum eft, quod unữ. quodque demoſtrare non eſt, ſed aut ex uno. quoque principiorum, fi id quod demonſtra tur, ſit,ſecundum quod eft illud, non eſt ſcire hoc quidem fi ex ueris & indemõſtrabilibus monſtretur, & inmediatis, eſt enim ficmon, ſtrare, ficuti Briſon Tetragoniſinum,per commune enim demonſtrant rationes huiuſmodi, quod & alí ineſt, unde & alíjs conueniunt hæ rationes non cognatis, Quicquid anti qui dequadratura circuli fenferint, dicam quid fenferim ego, habita prius notia littere, &cognito textusſenſu, li ex ueris premißis, oins demonſtrabilibus, immediatis, fiat demonſtratio, non autem fiat ex præmißis proprijs, opeculiaribus illi generi,de quo fcientia queritur, ex illa demonſtratione per talia principia primadi&ta non habeturſcien tid POSTERIORVM ARIST. 6 tla,immoneq; illa erit demonftratio, quia per principia fieret talis pros ceſſus, que non tantum arti Geometrie, fed alijs difciplinis accommo dari poffunt, quo errore Brifo.crrauit tentans reducere aream circuli ad figuram rectilineam quadratam, quæ t alia erant principia datur max ius, datur minus, igitur datur æquale, quidamſciolus laborat, ut hæc principia uniuerfalia,propria fiant ipſiGeometric,dicens,daturquadra tum maius circulo, datur quadratā minus circulo, igitur datur quadras kun sequale ipſi circulo, et gloriaturinnani, & hoc fuum chimericâ con tulerit cum yno do&tißimo huiys noftri Gymnasij, qui non folum perfua fionemualidam, fed et demonftrationem eam effe affirmauit; fcito enim, quòd os folidis, e linels, o numeris coaptatur iſta dedu &tio, ut datur numerus maior denario eminor denario, igitur datur equalis nume rus denario, es ſic in alijs plurimis, dico tamen quod huius fcioli do&to ris contra tio in propoſito nulla eft ad oſtendendum intenti, quia ultra quod Briſo errans,proceßit per comunia principia,errauit etiam errorç peßimo in conſequentia,ut ex his quæfuperquintadecima terty Elemen torī Euclidis demonſtrantur &fuper trigeſima ciufdem,Ariſtoteles au tem folum redarguit ipfum in co, quod egit contra regulam de proprijs principijs,quicquid de confequentia fitprætermittens tanquam non res Marguendum, ut oppoſitum ſuedat& regul«. De quadratura, errore Brifonis, Anthiphontis, Hipocratisc Boetij atque iuniorum trattabo in fragmentis mathematicis ſuper live bro pofterioruin. TEXTVS XLV ALIAS XXIII. ED demonftratio non.conucnit in aliud nus, aliter quàm ut dictum eſt, Geometricæ in mechanicas, aut perſpectiuas, & arithme ticæ in harınonicas. XXXVII textu determis nauit Ariſtoteles quòd ad Geometram non pertinet de BRAVAS PRINT monſtrare quod duo cubifaciant unum cubum, ratio, ut ibi declarani aßignabaturquia Geometra O stereometrauerfantur cir ca diuerſagenera, alter circa planum, & reliquus circafolidum, hoc au fem textu dicit, quod geometrice demonftrationes conueniunt in genus mechanicum, ait enim geometrice in mechanicas, pro qua apparenti contradictione, eft aduertendum quòd Stereometrica per principia Gear I IN PRIMVM.LIB. metric probantur quia in terminis corporis, qui ſunt ſuperficies, ille geometricæ demonſtrationes attribuuntur, ideodemonftratio Geometri ca hoc modo in mechanicas,conuenit, o ſinon fint circa idem genus, necfubfe inuicem diſcipline. TEXTVS XLVI ALIAS XXIIII. VID quidem igitur fignificent, & prima, & quæ ex his funt, accipiendum eft, quòd au: tem ſint principia quidem, eft accipere, Alia uero demonftrare, ut unitas, & quid rectum, & quid triangulus,effe autem unitate accipe re & magnitudinem,altera uero demonftra re. Dedatoibi quid fignificent de dignitatibus ibi & priina. De que fito ibi, & quæexhisfunt. Exempla omniafunt in boc textu dedato; primum eft in decimaſextaſeptimi elementorum ubi de unitate,que ſe ba bet ad aliquemſecüdum numerum, ficut quilibet tertius adaliquem quar tum,concluditur q, ipſa unitas, itafe habebit ad tertiã numerum, ſicutfc cãdus numerus ad quartum,fecundã exemplum eftde data linea in prima propofitione primiElementorum,de qua demonſtratur quàd fit æqualis, welminor cæterisduabus lineis re&tis continentibus,Iſopleurum, uel ifo feelem, uel Scalenonem,uel etiam exemplum hoc apparet indecima pri mi Elementorum ubi concluditur de linea recta, quòd ſit biffariamfe &ta, Tertium exemplum de dato, eſt in xxx 11 primi Elementorum, ubi de dato Trigono concluditur. habeat tres angulos duabus re&tis paresnon tantum, quid ſignificentoportet preaccipere, fed etiam iſta effe, vt tan dem de dato nonfolum quidfignificet, quod etiam eſt queſiti,preaccipes re, fed eo quidſignificet effe, vtrumque fupponendum ſit (licet non femper,)ut quid ſit unitas,et unitatem effe,quemadmodum ſecundo textu predocuit Ariſtoteles, uerbum hoc, magnitudinem, intelligendum eſt, rectam lineam,ut decima primi elementorī,et triãgulum,ut trigeſima ſe cīda primi elemétorum,quem triangulum,et reetū, explicite protulit ab unitate,inquiens alia uero demonſtrare, ut quid unitas, quid rectiem, Oquid triangulus fignificet, elle autem unitatem accipere & magnitus dinem, hoc loco aduertendum est Ariſtotelem, ſeiunctam poſuiſſe unita tem à refto trigono, quæ duo nempe reétum & trigonum amplexi fuifſe in unico uerbo hoc, magnitudinem, propter hoc ut intelligenda POSTERIORVM ARIS T. effet unitas de qua hic loquitur principium numeri feu multitudinis, de. qua quidem unitate alia affe&tio concluditur, quàm de unitate linee, de qua loquebatur in fecundo textu huiusprimi, wratio interpretationis apparet exlittera, quia de quolibet dato. feparatim concluditur pro prium queſitum, ut hoc textu declaraui. TEX. XLVII VEL XX IIII & 24 Allia 721, pe Court Alle Blato che * with rima alis -life pri eld Side Vntautē quibus utimur in demonftratiuis ſciētíjs alia quidē propria uniuſcuiufq fcič tiæ, alia uero cómnunia, comunia autemfer cundum Analogiă, quoniam utile eft,quá. túeft in eo (quod eft fub fcientia ) genere, propria quidem, ut lincã elſe huiufinodi. &rectum, De dignitatibus hoc loco loquens, exempla de dignitatis bus prèbens ait. Alia quidem propria uniuſcuiuſq & c.Propria Geometrie ſunt ifta, utlineam elfelongitudinem illatabilem or ſine pro fonditate,hacde caufa dixit lineameſſe buiufmodi,id efthabere banc defa finitione, & reétum, vt puta recta linea est, que ſua ex æquali intera iacetſigna,uel linea recta eft à punéto in punctum breuißima extenſio, non intelligas lineam, &rectum, Jolitarie o incomplexe,quia hoc loco de dignitatibus,que complexa funtloquitur: non de incomplexis utde linea tantă, ca de recto tantum ſed, dehoc cöplexo linea est longitudo illa tabilis; ¢ linea recta eſt,quæ ex æquali ſua interiacet ſigna,de linea in uniuerfali, fubinde de contracta uſpecificalinea recta exempla explicăs, Communia autein ut æqualia ab æqualibus ſi auferas,quòd æqualia reliqua ſunt. Aliqui indoctirelatores interpretum et inter pretes Arifto, non intelligentes hunc locum; naturam Geometrie ſcien tie perdunt, dicentes Geometram per principia communia procedere, id autem eft contra ueritatem ex parte rei econtra Ariftotelis do &tria nam. Pro cuiusdifficultatis nodo extricando, aduertendum quod princi pium iftud,de quolibet ente,uerum eftdicere quodeſt,uel no eſt tale, nun quam in demonftratione ponitur, nec eo utimur niſicontrate, oquae dam determinationeadgenus aliquod terminatum, er pro altera diſiuna Eti parteaccepto,nulli enim fcientia eft, aut diſciplina, que utatur illo principio pro utrag; diſiunéti,fed pro altera tantū parte, Sinile de hoc (& alijs huiufmodi) principio, fi ab.equalibus æqualia auferas, que re MON jpes non exti ell I i IN PRIM VM LI'B. Manent,æqualia funt, audiendum eft, nulla quippe diſciplinaest, que es utatur niſi contracte, fic quòd Geometra nunquam eo ufus eft præters quam inhisquæ circa planum uerfantur, utfi ab equalibus lineis,uel fu perficiebus,aut angulis,equates lineæ, uel fuperficies aut anguli deman tur, quæ remanent lineæ,uel fuperficies,aut anguli funtæquales,quão primum autem principium hoc contrahitur, non eft amplius commune Guniuerfale, fed fit proprium illius generis fcientiæ ad quod contrahis tur, quod uerohæc noftra declaratio fit ad Ariſtotelis mentemmanifes. ſtum eſt ex predicamento quantitatis ubi de diſcreto econtinuo agens, determinat quod utrique proprium eft peculiare fecundum eamæqua leuel inæquale dici, ſi inſtetur ex menteAriſtotelis dicentis, principiunt. - iſtud effe commune, inquit enim,cõnunia autē &c. Dico illud prin cipium eſſe commune, ſi non contrahatur, quàmprimim uero contrahi tur non eftcommune amplius, ftatim enin fequeretur contradi&tio, quod eſſet commune ono commune, doétrina hæcmeacoheret his,quæ Aucroes commentationemagna affentiriuideturfuper hoc textu, o his que Ariſtoteles hoc loco dicitinquiens;fufficiens eft autemunumquoda que iftorum quantum in genere eſt,hoc eft quatenusad determinatū get nus contrahitur, de principijs loquens,ubi de datis dixerit, & tertio lo co de queſitis, ibi quodautē ſint demóftrant, o fi adhuc inftes e Theon &Campanus non contracteinquatuor primis libris Elemento rum, a quod Euclides affixit illud principium primo libro, dico quod Căpanus &TheonbreuiloquioStudentes accipiuntipſum principiū fne Contractione, femper tamen op ubique uolunt ipſum intelligi contra &te cum determinatone ad illud genus ad quod-co utimur, aliter. errarent, Euclides autem primo libro affixit, quid utitur ipfo con tracto in primis quatuor libris, Adhuc fi fortiuscontra hanc expo fitionem precipue inſtetur quod fiquid ueritatisſaperet, statim haberea tur circuli quadratura per hæcprincipia contra&ta, datur quadras tum maius circulo, datur quadratum minus circulo igitur dabitur quadratum æquale circulo, refpondeo, quò du os errores commiſit Briſo, o talis argutus doctorolus inter arguendum, primo quia Brie so per principia comunia, iſte audem do&tor per contra &ta illa princi pra, feduterque in æquiuocisarguebat, circulus enim et quadratum equi uoce funt figuræ altera enim curuilinea reliqua uero re&tilinea eft, hunc errorem fecundum non inuenies in mea hac expoſitione,&contra ipfam inftantianulla est, de crrore autem Briſonisfuſius in noftris fragmentis POSTERIOR V MARIS T. 3 Logicis. Idem enim faciet & fi non de omnibus accipiat fed in magnitudinibus folum, Arithmeticæ autein in numeris. Diuinus Philoſophus quàmprimum explicuerit, quæ namfunt propria per duplex exemplum uniusfeientia Geometria, linee uidelicet, &lia neæ recte, •fubiunxerit, que nam ſint communia principia exent plum prebens tale, nquit, ut æqualiaab æqualibusfi auferas quod æqua lia ſint remanentia, ſubiunxit quomodo hoc principium &fimilia cone trahantur ad proprium genus ſcientiæ &propriafiant dicens, ſuffia ciens eſt,unum quodque iſtorum, quantum in genere est, fufficiens quie dem acſi peculiaribus atqi proprijs principijsuteretur Geometra uteng iſto principio, æqualia ab æqualibus ſi auferas æqualia remanent, non quidemſi de omnibus accipiat, non quidem dico demonstrabit Geometra: fi fic de omnibus & uniuerfaliter ſine contractione utatur, fed demon, ſtrabit quidem, inquit Philofophus,ſi in magnitudinibus folum, id eſt contracte o determinatim,eo ufus fuerit.Vtfic, fi ab æqualibus lineis ſuperficiebus, angulis, Arithmeticus, fi ab æqualibus numeris æqua les lineas ſuperficies angulos uel numeros auferas quod æquales linea fuperficies anguli onumeri remanebunt. Tunc uult Ariſtoteles quód iftud principiumſic contractumreddatur propriumipſi Geometra, og Arithmetico &unicuique artifici in fua arte, ac fi peculiari epros prißimo uteretur, non procedit igiturGeometra per communia prins cipia neque ob id, quia per cominunia procedit Geometria, ideo non fit dicenda ſcientia ipſa Geometria, ut quidam ingeniofus noftri teme poris immaginatur. Sunt autem propria quidem & quæ acci piuntureſſe, circa quæ, fcientia fpeculatur, quæ ſunt per le, ut Arithmetica unitates, Geometria autem figna & lineas. Euclides in Arithmeticis ab oskaud propoſitionenoniElemene torum uſque ad tredeci mam incluſiue accipit unitates, ſed ſigna id eſt punta accepit in ſecunda wtrigeſima prima primi Elementorum, lie neas uero in primt, ſecunda,& tertia primi,atque in undecima undecimi Elementorum. Hæc enim accipiunt eſſe, & hoc eſſe, idemo dixit in principiofecundi textus,ut de dato precognoſcatur utrunque &quid &quia est, accipiunt eſſe,id est deffinitionemſeu deſcriptionem welquid per nomenfignificatur, ex hoceffe,nempeactueſſe, uel mente oaštu.confideratiuo effe, id quod concipiunt, quod eſſe potentia,uel effe aptitudinedicunt. Horum autem pafsiones funtper fe quid quidem figni IN PRIMVM L'IB. ficet unaquæque accipiunt, ut Arithmetica quidem quid par, Sicut uigefimaquinta noni Elementorum, aut impar, ut trige fimanoni Elementorum, Aut quadrangulus,ut xxxvi. noni Ele mentorum, &quilibet numerus à duobus duplus,ut xxxv. eiufdem, a eut declaraui ſuper textu xx. de altera parte longiori, Aut cubus ut quarta noni Elementorum ſic intelligantur termini exemplorum in Arithmetica;Geometra uero quid irrationale,ut XI. X. Elementorum, aut inflecti per contactum in unico puncto ex xij.ex xv.tertij Elemen. aut concurrere, ut xv.xi. Elementorum oprima Elementorum Geo metrie Vitellionis. Animaduerſione dignum est hoc, quod Geometra nunquàm hanc affectionem, ut irregularitatem deunica lineafola con = fiderat, neque etiam de una tantum linea id concludit, quicquid Cama panus ſentiat, fed id de linea una ad aliam comparata atque relata, cum qua non habet uliquam communem menſuram, ut est diameter wcofta quadrati. Inflexio uero in una atque eadem linea circulari eft, quætan gat aliam rectam lineam uel alium circulum interne, uel etiam exterins, in unopuncto tantum, quia inflexa non fecat nequere & amlineam, nes que etiam circulum, quorum utrumlibetfaceret linea recta, eifdem ! recte linee 6 circulo non contingenter neque in directum applicata. Quod autem fint paſsiones per fe demonſtrant per coin munia & ex his quæ demonftrata furt & Aftronomia funi liter. De datis dequibusaccipiebamus quid fignificarent &effe, de monſtrant artifices Arithmeticus OGeometra per communia, idef per uniuerſalia principia (que tamen unius generis ſint) v ex his etiam propoſitionibus, quæ prius demonſtrata funt, affectiones illas predis Etas, ſicut etiam aſtronomus facit, utper ea quæ in Geometria probas ta ſunt, etiam per propoſitiones probatas in Aſtronomia concludat etfiEtionesfequentrum Theorematun. TEX. XLVIII. ALIAS X XV. VASDAM tamen fcientias nihil prohibet quædain hortin defpicere, ut genus non ſupponere effe, & fit manifeftum quoniam eft,non eniin ſimiliter manifeftuin eft,quo niam numerus fit, & quoniam calidur, & frigidum fit. Natura enim &per fenfum notum POSTERIO RVM ARIST. $ 200 ill 0 si est, quonian calidum eft, ideo non eft opus precipere mente o ſuppoi fitione aliqua intellettuali, «quadamſcrupuloſa indaginefuum quiade calido, quando calidum eſt ſubiectum ſeu datum uel genus, hoc cafu, quandoeft notum quia est dati, deſpicitur præcognoſcere mentis inda gatione de dato, an fit? Quod noncontingit ſimiliter de numero, quans donumeruseft datum, de eo enim eft necefſe mente e intellectuali acte preaccipere quia numeri, Videlicet quod numerusaétu est mente con: ceptus, ac fiexifteret aétu, uel aptitudinem ad exiftendum habeat, en hoc quidempropter hoc, quod numerus neque nataraneque fenfu aetud liter percipiturquòd fit, fed tantun intelleétu dignofcitur, @ hæc duo exempla de dito prebetnobis Ariſtoteles,ſubinde de queſito feu paßione facit exceptionem dicent, & paſsiones non eft accipere quid fi gnificent ſi fint manifeltæ, ut puta ſi fit notiſsimum quodtale no men -notifsimam rem ſignificet. Tunceo cafu non prerequiritur indas gando quid fignificet illud nomen, quia iam notum eſt. De dignitatibus.au tem idein excipit ab uniuerſaliregula,qua dixit fecundo textu, alia nana que quia funt prius opinari neceſſe eſt,utomne quidem quod est,aut affir mareaut negare uerum eſt, quia eſt, o textu xlvi.aliud prebet exem plum, utæqualiaab æqualibus fiauferas, quòd æqualia reliqua ſunt, de his communibus principijs non eft preſuponerequia eft. Cum ipſorīt ugritas quafi natura nota fint, quaſi natura dico, utputa quia notis ter minis ipſarum dignitatum, statim notum est, quia est ipſarum dignitatum fecus autem eft de dignitatibus proprijs cuique arti,quia tunc non est,fa tis,quid fimplices terminiſignificent preaccipere,fed opus etiam eſt pré cognofcere copulationem terminorū effe neceffariam, ueram,ut quòd circulus fit figura plana unicalinea contentain cuius medio punctus est à quo ad circunferentiam omnes recta linea duétæ funtæqualesfecludit, igitur ariſt.àfubie&to ipſum quia quandoipſum eſſe,manifesti est,non ſecludit ipfum quid est, ut exponit loan.Gram. Alexander, A queſito ſecludit aliquádo quid eft,era comunibus dignitatibus ipſum quia,quando notumeft quid queſitumfignificet, &quando ueritasdignitatum eſt mani feftifsima quod autem hæcde datofeuſubiecto expoſitio ſit germanatex. Ariſt.ut uidelicet excludat àſubiecto ipſum quia,& non ipſum quid,mani feſtă eſt in littera,ubi ait,Genus non fupponere efle fi fitmanife ftūquoniã eſt non dicit Arift.genus no ſupponere quid ſitexemplü de queſito,quandonon accipiturquidſignificet est propoſitione xiiij.primi: Elemen.quod est,indiređã linea una,quod quidē quid ſignificet non tung OI MI deo per da Jet OB um 10 & IN PRIM VM LI B. preaccipitur,cumfit notum ex deffinitione quarta primi Elementorum, quodnon queratur, quia eft, quando est notum,id apertißime dicit philofophus textu fecundo ſecundi Poſteriorum,inquit enim,inuenien tes autem, quia deficit pauſamus, & fi in principio ſcirc mus, quia deficit,nó queremus utruin, cum autem fcimus ipſum quia,ipſum propter quid querimus & c. TEXTVS LII ALIAS XXV. EQYEGeometra falſa ſupponit,ſicut qui dam affirmant dicentes, quòd non oportet falſo uti, Geometram autem mentiri, dis centem lineam eſſe unius pedis,quę unius pedis non eft, autrectam lincam, non ree &tam cxiſtentem, ut in prima propoſitione prin mi elementorumfuper datam rectam lineam triangulum collocare, etiam in decima primi Elementorum datam lineam rectam, eum biffaria diuidere iubet Geometra, os ſiilla linea, que atramento pingitur, uel penna aut ſtilo protrahitur reta non fit, non ob id tamen dicendum eft, Geometram errare, quia non ad id intentionem dirigit Geometra quod oculis fubijcitur, fed ad id potius, quod intus animo concipit, dirigit intentionem, ideo non contingit Geometram circa aſſumptam materiam errare et mentiri, Geometra enim nihil concludit fecundum hanc lie neam pitam, quam ftilo pinxerat, fed fecundum intus conceptam lie neam, demonſtrationem percurrit,idem habet Ariſtoteles primo priorã ante mutuamfyllogifmorum reſolutionem non errat etiam Geometra cir ca formam fyllogiſticam, ut textu 59 62, ait Ariſtoteles, igitur cer tißimefunt diſciplinegeometria, et non quiafenfatæ fint, ut falfo quis dam dicunt, Quia intus concipiuntur. TEXTVS LIX ALIAS XXVIII. VONIAM autem ſunt Geoinetricæ inters rogationes non ne funt & non geometri. cæ? & in unaquaque fcientia,fecundü qua lem ingnorantiam funt Geoinetricæ? & utrum quiſecundum ingnorantiam fyllo giſmus eft, fit qui ex oppoſitis fyllogifo mus, POSTERIORVM ARIST. 3 dis 2018 pria vik est 200 gt mus; an paralogiſinus? In unaquaque fcientia contingunt fieri in terrogationes, ficut in Geometria, In geometria autembiffariam contin git interrogatiofieri, uno quidem modo,ut nihil fapiat de illo, quod inter rogat, ut fiquis querat an icoceruus habeat tres æquales duobus rectis, ignorans omnifariam &quidfit Icoceruus, & quid ſithabere tres duo bus reétis æquales, hic interrogans habet ignorantiam fecundum nega. tionem, quia omnis habitus negatur in eo de illa re, quam querit. Altero autem modo, ut interrogās ſciat quippe partim de illo, quod querit, par tim uero non, ut adinuicem parallelas concurrere,fciat nanque que nani lineæ rectæ fint, oſcit quòd in utranque partem protrahuntur, ſcit etiam, quisnam ſit duarum linearum concurſus, &quatenus iſta nouit et interrogat,Geometrica queſtio atq; Geometrica interrogatio eft, quate inus autem opinatur an parallelæ in infinitum protrate concurrant,hac ex parte,non eft Geometrica quæſtio, et habet hic ignorantium habitus, idest fecundum habitum, quo fcit lineas rectas, ceas in infinitum pro trahi polle, et concurſum linearum effe in eadem ſuperficie, cum illo qui dem habitu, ſtat hec ignorantia, ut ne ſciat quòd etiam ſi in infinitura protrahantur, non căcurrunt. Errore hoc peßimo in interrogatione er rauit Pſcelus Grecus, quifuitilla tempeſtate quorundain Grecorum ho minum, qui præter uoces re ipfa nihil penitusaut parum doctrinæ has bebant, in quam calımitatem credo plurimosnoſtri temporis Græculos incidiſſe, Tentauit ipfe diuidere tonum, qui fexquioctaua proportione co ſtat accipiebatô; neruos duos, qui tacti, interuallum foni haberent, quos rum utrumlibet biffariam diuidebat, fubinde arguens agebat, totus ners uus maior ad totum neruun minorein habebat toni ratione, igitur medie tas nerui ad nerui alterius medietate,ut medietas toni ad toni medietaté, poyo fic putabat dimidium Toni, hoc eſt ſemitonium uerum adinueniſſe, ignorans pauper, quod proportio totius nerui ad totum neruum eadem eft, que dimidij nerui ad dimidium alterius nerui per decimamoctauam @decimamnonam ſeptimi Elemětorum, erat igitur non Armonica quæa ftio, qua quærebat, an tonus dividi biffariam poſſet? Verus autem Geo. metra ille eft, qui non habet ignorantiam neque ſecundum negationem, neque fecundum priuationem, «ille non facitinterrogationes non geo metricas, neque interrogationes partimgeometricas opartim non geo métricas, ſed interrogationesfacit omnifarians geometricas, ut, an trian gulus cõſtitutus in tabula, habeat tres æquales duobus reitis pares, Geo metra non errat, circa uffumptam materiā,ut tex. 52. determinauit phi lik line et K IN PRIM VM LIB.. lofophus,non errat circa interrogationes, ut hoc textu patuit, neque era rat in forma, in ſua induftione, ut demonſtrat Ariſtoteles in textu. 62. nullus igitur error in Geometria contineri poteſt ex mente Ariſtotelis, hanc eandemfententia habet Galenus in de erroribuscognoſcendis et cor rigendis, quo loco innumeras Geometrie utilitates narrat. TEXTVS LXII ALIAS XXIX. ONTINGIT autem quofdam non fyllogi. ſtice dicere propter id quod accipiunt ad utraque conſequentia, ut & Ceneus facit, quod ignis in multiplicata analogia fit. Scito Ariſtotelem Cenei mentē recte intellexiſſe, que quia in formafyllogiſtica errabat parallogizădome rito eum redarguit, ut Joannes exponit,ſed aduertendum eſt in materia parallogiſmi, quo modo id cita creſcat in multiplicata analogia, quia ut Alexander errauit in hac expoſitione quëadmodum Philoponus ei ima ponit non minustamen & ipfe etium loannes grammaticus grauiter era rauit aliter exponens quàm Alexander,oſi fuam expofitionem confir met Procli diadochi auctoritate, qui Proclus, ſi ita fenferit, ut ioana nes refert, perperam hunc locum interpretatus eſt,«mentem Cenei nõ intellexit,inquit Ariſtoteles de mente Cenei, quod in multiplicata analo gia creſcit, id cito creſcit, non autem ait, quod in multiplicationetermi porum analogia creſcit, id cito creſcit ſicut ipſe loannes & Proclus terminos analogie multiplicentfic, 1,2,4, 8, 16, 32, 64, 128, 256, $ 12, 1024, 2048. Egouero aliter de mente Ariſtotelis Cenei dico ex doctrina Eucli dis deffinitione undecima quinti Elementorum, &ex deffinitione primi Geometrie uitellionis ubi quantitates denominantes ipſas proe portiones multiplicantur non termini, ut loannes Proclus facies bant,arguebat ſic Ceneus,quæcung cito creſcit augentur in multiplicata Analogia, ſed ignis augetur in multiplicata Analogia, igitur ignis cito creſcit,ubi maior &minor in ſecundafigura ſunt affirmatiua. Talis au tem error parallogizando à Geometra non committitur, igitur certiſie ma, ca in primo certitudinis gradu Geometria reponitur, POSTERIOR VM ARIST. 248 2 3 3.2 ov 4 64 16 1 2 8 16 2 S6 256 S 12, 1 256 65536 4 0 24 2 048 ei ad CI, C. qué mee erit 4096 8 1 9 z 1.63 8.4 32768 6 ss36 Julia ima 1 eta infor TEXTVS LXIII ALIAS XXIX. ină Tomi club = 56 wich ro cies ONVERTVNTVR autem magis, quæ funt in mathematicis, quoniam nullum reci s piunt accidens. Secunda pars trigeſimaſecunde primi Elementorum eſt, quodomnis triangulus duos bus rectis paret habeat, id autem probat prima pars trigefimaſecunde,& ſecunda, o prima pars uigefi menone, &tertia decima primiElementorum, quæ omnes propoſitio nes concurrunt ad probandam illam conclufionem, quæ conclufio ſi in fua principia illatiua reſoluatur,non niſiin illareſolui poteſt, que ſupra commemoraui, ubi cernis &compoſitiuam methodum, ab illis principijs ad illam illatam conclufionem, reſolutiuam methodum ab illa conclus fione ad illa principia regrediendo, quihabitus reſolutiuus altißimus eft, e profecto ſignum eft re &te fapientis. Cumautem conclufiones in mathematicis fequantur ex determinatis principijs, tunc ibi facie lior eft reſolutio à concluſione in principia quàm in Topicis, ubi ex uagis, ofolum apparentibus, quandoque etiamfufpeftis odiuerſis, cito # Bie Kij 7.6 IN PRIMVM LIB. @non ex unis principijs concluditur quippiam de hac re, abundantius infragmentis nostris mathematicis fuper Ariſtotelis loca dicturus fum. TEXTVS LXIIII ALIAS XXIX. & fit par eſt ers VGENT VR autein, non per media, ſed in aſſamendo, ut a de b, hoc autem de c, rurfus hoc de d, & hoc in infinitum. Et in Iatus, ut a de b, & de e, ut eſt numerus quantus, uel infinitus,hoc autem fit in quo eſt a, nunerus impar quantus in quo b, numerus imparin quo c,eft ergoade c, & fit quantus numerus, in quo d par numerus in quo e, go a de e. Exépla duo attulit primo in poſt ſumendo,ſecüdo in litus ſu mendo, primo exemplī prebet in numerisin poſtfumendo,ut a numerus, de b numero impari, et b,de numero c primodicitur igitur a numerus de c numero primodicitur, In latus ſumendo numero pariter exemplificat, pro cuius notia, imaginare arborem porphirianam,cui fimilē in numeris finge, &numerum quantū,qui etiam potentia infinitus eſt, loco ſubſtans tiæ apta; infinitus ait propterhoc, quia omnes imparis atque paris nu = meriſpecies,quæ in infiritum crefcunt,potentia continet,ſicutſubſtan = tia fuas inferiores potentia fpeties continet, his autem numerus non po teft effe aliquis determinatus quantus, quia quicunque daretur, aut par effet, aut impar, qui non poteft effe communis pari &impari, fed talis debet eſſe numerus uniuerſaliter ſumptus, noluit autem uti iſto uer bo, uniuerfaliter, quia non eſt terminus Arithmeticus,ſedſpectat magis ad dialecticuin, ideo loco debito ufus eſt proprio uerbo hoc, uidelicet, ins finitus,quæ uox numero conuenit, ſicut incremento creſcat in infinitum inſuis fpetiebus, & numerus fic acceptus diuiditur in imparem, atque pa rem, &imparis numeri diuiſio est, in primum numerum,ocompofi tum, prinus autem numerus dicitur in fui natura, &ſine comparation, ne ad alium quemcunque numerum,o ille eſt quiſola unitate metitur,ut. 3, 5, 85" 7, 13. Compoſitus numerus eft, qui alio numeroaf e,oo ab unitate diuerſo, dimetitur, ut 9, aut 25, à ternario, & à quinario dimetiuntur, is compoſitus diuiditur in parem, atque imparem, et par quidem numerus ille eſt,qui biffariam ſecari poteft, ohic partitur in pariter parem, qui in duo æqualia fecantur, partes eius, quoufquc POSTERIORVM ARIST. 1 ad unitatem uentum ſit, ut trigeſima. In pariter imparem qui quidem in duo equalia partitur, partes in duo æqualia non fufcipiunt ſectios niem,ut quatuordecim. In impariter partem, qui quidem in duo æqualia diuiditur partes ſimiliter in duo æqualia, fed hæc partitio, uſque ad unitatem non peruenit, ut trigintaſex, de quibus Euclides libris ſeptia mo o octauo, nono Elementoruin, Nicomacus atque Boetius primo Oſecüdo Arithmetice, Quo autem ad Ariſtotelis textī attinet, manife ftum erit exemplumſuum, numerus infinitus fiue quantusſit a numerus autē quantus &determinatus ſub ipſo ſit b, numerus alius nempe infes rior ad b ſit cog,par autem numerus quantus ſit d, qui trifaria ſeca tur in e k l, ut dictum fuit fupra, eft ergo a ded, &etiam de e k lo In latus autem dixit,quiane dum per rectam lineam arboris, fed ex utra que partefumptio facta fuit. ES 11 in Exemplum in poſt.fummendo. 5, Exemplum in latus fummendo. 11: 111erus 111: 11CTUS -is 14 impar primus 13 50 ut impar 6 d par ed S A i primus compofitis. 16 14 pariterper impariterpar pariter impar. 12 is 14 inte Aduertendumquod exemplum in numeris eſt contractius, quàm prius propofuerit per litteras,ideo ne labores in numeris tot numerosfübfea inuicem poſitos, quot litteras, ibicommemorat, exempla duoin numeris appofui ut alia ipſe in textufecit, ne alia aliterdefiderentur. mo. 6 8 IN PRIMVM LIB. > TE X. LXIIII. A LIAS X X X. Iffert autem quia & propter quid fcire primo quidem in eadem ſcientia & in hac dupliciter uno quidein modo, ſi non per immediata fiat fyllogiſmus, non enim accipitur prima cau fa, quæ uero fcicntia proprer quid, per pri mam caufam eft. Hoc quidem primo modo non prebet exemplum aliquod philofophus, quicquid Aueroes, Philopou nus, fequaces fentiant, fed exemplum profecundo modo appofuit unicum folummodo pro quia, de ſintillatione planetarum, de rotons ditate autem Lune dedit etiam exemplum,pro fecundomodo quia,quo ta men exemplo declarat etiam quo pacto fieret propter quid demonſtratio O ob id imminutus aut ſuperfluus non fuit, quia primo modo textus est clarus ſatis, c profecundo modo quia,duo exempla prebetin diuers ſis ſcientijs, utrunque exemplum est in ſcientijs medijs, alterum est in optica, reliquum est in Aſtronomia, &quia textus est ſatisclarus in duobus exemplis quantum ad inductionis modum. Primo declaro prie, mum modum, quo, quia à propter quid differt de quo primo modo,quo, quia a propter quid differt nullum dat exemplum,ubi ait uno quidem modo,fi non per immediata fiat fyllogif. ita habet textus Philo ponio Aucrois Argiropilus autě habet, uno quidē modo fi ratio tinatio non per ea, quę uacant medio fiat,utloco uerbiſyllogiſ. legatur ratiotinatio, omelius meo iudicio, cum illud uniuerſalius fit uer bū, fenfus tamen ille est, utfi fiat deduétio, non per immediata,erit demon ſtratio quia; ut fide homine concludatur reſpiratio, eo quod ſitanimal, ſi uero de homine concludatur quòd reſpirat, eo quòd pulmonem habet, eritdemonſtratio propter quid, oin utroque modo,concluditur res spiratio follogifmo ut omne animal reſpirat,cæt.velomne habens pul: monemreſpirat & c. Si uero lectiofiat ſecundum Argiropilum,Olegatur ratiotinatio, Tunc exemplum dari poteft pro primo modo, quando non per immediata fiat inductio, ut prima pars xxxij. primi Elementorum probatur per uigefimamnonam primi elementorum, & non per immes diata principia, fic ut fenfus fit, quod illa que probantur per alias pro poſitiones probatas prius, talia quidem probatione quia probataſint illa uero queprobanturper immediata principia propter quid demonftrens POSTERIORVM ARIST. zmo citer fiat maus prio DOM -cpon cofuit bton uo ta cratio extus iuers mes: FUS IN • prie quo, dem philo atio ogil uer tur, ut eſt queſitum primi, ſecundi, atque tertij problematum primi Elea mentorum,que quæfita per immediata principia demonſtrantur, facta prius deſcriptione, ut conuenit, neque dicendum est, ut quidam exiſtie mant,quod eafit propter quid,quando perimmediataspropoſitionesfiat deductio imediationem illam tribuentes adſitum propoſitionū ut fecundit pars xxvIII. per primam partem illius, oprima pars uigeſimeoctaua per uigefimumfeptimam primi Elementorum,fed hoc loco, non imme diata accipit Ariſtoteles, omnes propoſitiones probatas,uel etiam, quæ per prima probare poſſunt, cum demonftratio fiant ex primis, & im mediatis, oppungat,ut immediatafint, o non fint primaabſolute. Et in Geometria etiam alio modo quia eſt, differt à propter quit, ut quando ab effeétu ad caufam progreffus fit, neinpe quando per æqualitatem an = gulorum concluditur equalitas laterum,ut fexta primi Elementorum Eu. clidis proponit.Propter quid autem eſt,quádo à caufa ad effectum proces ditur, utputa quando ab equalitate laterum trianguli infertur æqualitas angulorum illa latera reſpicientium, ut prima pars quintæ elementorum Euclidis proponit. Atio autemmodo per immediata quidem non auteng percauſam, ſed per notius eorum que conuertuntur, ut lucidum non ſcintillare,o prope eſſe, fimiliter, creſcere per rotunda incrementa luz. cida, ceſſe rotundum æqualiter defe inuicem prædicant,notius tamen eft, non ſcintillare, quàm prope effe, &notius eſt creſcere per increa menta lucida rotunda, quàm eſſe rotundum, & primum eft per fenfum per induétionem in fingulisplanetis notummagis, non tamen caufa eft quare planetæ prope ſint, fed econtrario.Secundum etiam, ut quod incremento creſcere,non eſt caufa rotunditatis, licetfit notumfolummo do per ſenſum, non autem per inductionem à pluribus determinatis ſie mul exiftentibus, quia hoc tantum de unico incremento creſcente certi fumus, *cum per ipfa, fiunt inductiones, quòd planeta propefint, aut quod Luna rotundit ſit, talis utriuſque inductio eſt quid, quod fi ccontra riofieret, tunc propter quid, anon quia, erit demonſtratio, ifti igitur duo modi à fe diuerſi ſunt, eo quod primus, per priora quidem, non tas men immediata procedit. Alius autem per immediata non tamen per priora, fed ea quæeſt propter quid colligit utraque, & quod ex prio ribus fit, atque ex immediatis. Amplius quare planetæ, haud fcina tillare uideantur fuſius ſuper problemateultimo quintadecimæfectio nis problematum Ariſtotelis fiet per me declaratio, quæ etiam faciet fatis huic textui, eft tamen hoc loco aduertendum Ioannem dicere fira MON mal, het, pw atur non ros illa IN PRIMVM LIB. tillationem prouenire, quod protendentes uifus ufque ad aſtra fixa de biliores fiunt, quaſi quòd uiſio fieret per extramißionem radiorum, ut Thimeo &Empedocli placituin erat, quos Ariſtoteles reprehendit capi te ſexto De Senſu &ſenſili. In hac igitur parte reiciendus est Philopo nus, niſi exemplo loquatur famoſo. Alterum De rotunditate Lune fus per problemate oftauo eiufdem feftionis aperietur, ubi querit Ariftote les unde eſt, quòd Luna uideatur plana, cum fit rotunda. TEXTVS LXV. ALIAS X XX. MPLIVS in quibus inedium extraponitur etenim in his nó propter quidſed ipfius, quia demonſtratio eft, non enim dicitur caufa, ut propter quid non reſpirat paries, quia eſt ani mał. Tertium modum quo quia in eadem ſcientia à propter quid differt, nunc affert Ariſtoteles inquiens amplius eft, que quando neque cauſa probat 1,ut primus modus effe&tum infert, neque est,quando ex effectu caufa infertur, fed quando ex nega: tione pene cauſe infertur ipſius effe &tus negatio, feu etiam econuerfo, ut quia non funt parallele, ideo alterni anguli non funt æquales, opdo ri modo, quia extrinfecus angulus non eft æqualis intrinſeco'ex eadem parte, igitur parallele non funt; oeſt hic modus tertius, quo quia à propterquid differt in eadem ſcientia, dixi quando ex negationepene caufe, oc. Quia parallelas effe,non eft caufa ut alterni anguli ſintæqua les,nifi fuper ill. linea recta ceciderit, que propinqua caufa eft, quod al terni anguli fintæquales,ficut animal quidem longinqua caufa eft refpira di, propinqua eſt pulmo, totalis autem eſt animalhabemus pi Imonem me dium enim ad probandă affeétionem in perſpectiut accipitur extra perſpe fiuã, utputa in Geometria & Mechanica ad Stereometriam.ld no tißimum erit pariter v iocundum, fi id quod ait Ariſtoteles in ques ſtionibus mechanicis questione x l'intelligatur,onera qua mouentur ſua per ſcytalas facilius mouentur, quam fi ſuper plauftra mouerentur,ultrd rationes illas Phiſicas quas ibi Ariſtoteles adducit, etiam ratio propter quidſummitur ex primoſtereometrie Euclidis deffinitione decimao taud uel undecima ex Theonis littera, Q * tertio Elementorum deffinitione fez cunda, minus enim offenfant ſeytale, quam plauſtrorum rote, quia ana gulus fcytalarum longe maior eft, quàmfit angulus rotarum plauftrorit ut angulus POSTERIORVM ARIST. 1 unt 41 utangulus rota a fe, uel etiam a fd longe minor eft quàm angulus fcytale af c, & ideo minus ad planum af b offenſat ſcytala quam rota,quidfcytals,que in uſu noſtro tempore eſt, in questionibus mechaa nicis declarabo, pro nuncfcito illas eſſe ftangulas,quibus utuntur lapi cide in trahendis magnis lapidibus, f & Harmonica ad Aritmetica a -6 Tonum in duo equalia diuidiſemito nia minime poteſt,quod muſicus dea terminat, ut Boetius re&te fentit lis bro tertio capite primo muſices, le quicquid Pfelus Greculus ſentiat, fedfecaturin apothomen eſemi tonium minus, huius autem propter quid ratio, ab Arithmetico reddia tur, quiafuperparticularis propor tio non poteſt diuidi in duo equalia, ut Boetius in Arithmeticis docet. Tonus autem cum in ſeſquioctaua ſonorum proportione conſiſtat in duo equalia ſemitonia diuidi haud quaquam poteft. & Apparentia ad Aſtronomiam. Apparentia, ipfa eft phenomena de qua Euclides, e Aratus poeta agunt, atque VergiliusAgricolas docens tempus quo mila lium feminaredebent, ait in Georgicis loquens de occafu hellaco, Candi dus auratis aperit cum cornubus annum Taurus, oaduerfo cedens cda nis occidit aſtro,rationemſiqnis agricola deſideret, cur eo tempore cda nis, qui et Alabor dicitur, occidat beliace,id totum ab aſtronomo petat, qui rationem propter quid redet; Sol enim in orbe eccentrico à propria intelligentisex occidente in orientem motus, quicquid fomnietAlpetra gius Fracaſtorius, & fequaces,accedit annud orbita ad illud fydus, quod eft in geminis &fuo maximofplendore, non finit illud uideri, id autë fit cum Sol diſcurrës perſignum Tauri, attingit extremam partem Tauri, tunc enim canis perdit lumen ſuum, non uidetur amplius, propter So lis ad ipſumſydus uiciniam, quouſque iterum per motum eccentrici ab co fydere ellongetur Sol, quod iterum oriri heliace incipit; hi ſunt igitur modi quatuor, quibuspropter quid, à quia differt, tres quidem funt in eadem ſcientia fubalternante,oquartus, quando id quoddemon ſtrandum eft inſcientia media,per ea quæ in ſubalternante ſcientia nota funt, probatur, in quo quarto modo, funt plures demonſtratiomisgraa dus fpeculandi, quos quia Ariſtoteles non tangit,præterco. L Me hen 1 1 IN PRIMVM LIB. -7. Sunt autem hæc quæcunque alterum quiddam exiſten tia ſecundum fubftantiam, utuntur fpeciebils, Mathenati cæ enim ſecundum fpeciein funt, non enim de ſubiecto alia quo,fi cnim & de fubiecto aliquo Geometrica funt, ſed no quatenus Geometrica,de fubiecto funt. In præcedenti particu la huius textus dixit de ſcientia quia, quód fenfibilium eft, inquiens,Hic enim, ipſum quia ſenſibilă eft fcire, de fcicntia uero propter quid,quòd uniuerfalium ejt, per caufas habetur,ait,propter quid autem mathemde ticorum, hi enim habent caufaruin demor.ſtrationes, ofrequenter neſci unt ipſum quia, ficut illi uniuerſale conſiderantes, fepe quædam ſingula rium neſciunt propter id, quod non intendunt; Ecce quantimathematis cos ficiat philofophus, dicens eos noningnaros illorum, que uulgus tra Etat, fed Socratico more, ea non intendere quæfumuno ſtudio, amplectun tur uulzures, Differentia igitur ipſius,quiu à propter quid,adhuc magis explicans,ait, funt autě ip / e quidemfcientiæ, quia quecunq;,utuntur ſpe ciebus (fenfibilibusuidelicet, alterã quiddam fecundum fubjtantiam pecu lantes, alterum quiddam non folum fecundum ſubſtantium,fed etiamaltes xum quiddamn in exiſtentia,hoc eft in ſubiecto materiali exiſtens, Mathem matice enim, nempe quæ propter quid fient, circa fpccies ſunt, dubita. tur hocloco, cum ſcientia quia utatur fpeciebus, o ſciétia propter quid circa ſpeciesſit, quo nam puto, in quia, & quo modo in propter quid fpecies intelligatur. Dico, quod quia ſenſibilium eſt, ut ait Ariſtoteles, utitur, quia ſpeciebusſenſibilibus,quarum beneficio fenfus ſenſata perci piunt, fed propterquid,utiturfpeciebus abftractis àſubiecto materiali, ut ſuperficie, linea, puncto, &ſimilibus, quatenus affectiones aliquas de ipſis inipſis cognoſcit demonſtrator,non tamē circa hæc uerſatur Geo metra quatenus in ſubiecto funt,ſed preciſius abſtractione, ea conſides rat, fi talia nufquam, ſine fubiecto ſint. Habet autem fead perſpectiuam, ficut hæc ad Geome triam, & alia ad iftam, ut id quod de, iride eft. Traslatio Ar giropoli in hac, precedenti particula facilior,atque candidior eft, quàmfit textus Philoponi, ne uidear tamen in precedenti particula, e hac preſenti, litteram ſequi, quam pedagogio neoterici non doctores, ut fe præferunt, fæpe encruat; loannis textum in utraque particula ex pono, quo etiam plura uirtute continentur quam, contineat textus, Are giropoli tum etiam, quia accedit ad hæc Procli interpretatio, ut teftatur loannes, ſcientiasigitur quas in præfenti Ariſtoteles cõmemorat,fub ale POSTERIORVM ARIST. terno quodã ordine pofitæ funt;primo Geometria,cui imediate perſpecti ua,perfpe & iue autē ſpecularia &huic ſpecularie, ea ſcientia, quæ eft de Iride in qua, quæponuntur,perfpecularia probantur&, quæ in peculi ria, per ea quæ in perſpectiua funt notamanifeſtantur, qu: autê in pera fpectiua, per ea quæin Geometrianoșa, fuerunt, ut quòd iris ſit tricos lor,oquòdnunquamplures duabus Iridibus appareant; et quòd denigs Rõ fit nidor femicirculo, per fcientias ſuperiores, hee omnia probatur. Multæ autein & non fubalternarum, ſcienriarun fe has bent fic, ut medicina ad Geometriam, q eniin uulnera, cir cularia tardius fanentur medici eft fcire quia, propter quid autein Geometræ. Parum ſupra in anteprecedenti particula dixit philofophus,qu& namfcientiæ effentfere uniuoce inquiens, fere autem uniuocefunt hurumſcientiarī alique,ut aſtrologia ' et mathematicaet na ualis, o harinonica quae mathematica, oque fecundum auditum, in hac autem particuladeterminat de his fcientijs que nullo modouniuoce funt. ut Geometria os medicina que etiam fubalternate non funt, he enim due non ſubalternantur inter ſe, quia ſubiectum Geometrie eſt, id quod circa planum uerfatur, medicine uero ſubiectum eſt corpus jarabi le,id, eft, quod proponit; ut quod in alterafcientia proponitur,probatur per ea,quæ in alia fciētia nota funt; non tamen hæ fevětiæ funt uniuoce, neque fubalternatæ,ut in chierurgia,que pars eft medicina proponitür uulnusrotundum, difficultate fanari, ut canumexcoriatoresteftantur. Geometria autem nobilis fcientia reddi propter quid, primo Elemento * rum deffinitione decimaquinta, quia exomni parte æqualiter diftat cas o, ficut ibi acentro ipfa circunferentia. ly tie 20 SMS TEXT VS L XVII ALIAS X X X. 170 ot cs, tro autem modo, differt ipſum propter quid ab ipfo quia, quodelt, peralia fciené Stianu nrruinqué, ſpeciilari, Huiuſmodi au Matem funt, quæcunque fic fehabent, utals terum fub altero fit, ut perſpectina ad Geo metriani. vbi ait, per aliam ſcientiam fic intellis gatur per altam magis uniuerfalem et fubalternantem in aliam minus univerfalem. Vtrunquefpeculari, utrunque dixit refferens &propter. quid, quia, alia enim fcientia fpeculatur propter quid, c alia fpecus Ljj 84 IN PRIMVM LIB. 1.3 latur ipſum quia, ut Geometria proprer quid, perfpeétiuauero, quia, inquitenim Ariſtoteles. Hæ enimipſum quia, fenfibiliumest fcire, prom pter quid autem mathematicorum. Verbi gratia,oculus exiſtens in a uidens cd, uidet ipfam quantitatens minorem, quamſi idein oculus fiat in b, quia inquit perfpe&tiuus,uide tur ca ſubmaiori angulo ab oculo exiſtente in b, quam ab eodem oculo in a exiſtente,& quód angulus dbc ſit maior da c, Geometra id demon ſtrat primo Element propoſitione xxi. Dubitatur circa hoc, quod di cebatur de mente Ariſtotelis in dia & o exemplo perſpectiuo, quodne que percurrendum eſt ſicco pede,ut indoctifaciunt no intelligétes bonas artes, quicum ad Mathematica ex empla accedunt,pedem referunt,dia centes non eſſe uim ponëdum in illis. Ego autem econtrario dico, totum neruiim rei, eſſe in exempli intelles ione, ubi ait, quod perſpectiuus oftendit maius uideri id, quod de prope eft, demonftratione quia, o Geometra, idein propter quid, demonſtrat in vigeſimaprima primi Ele mentorum, qua uigefimaprimaprimi Elemen.non propter quid demon ſtratur, fed demonſtratione quia, ut demonftratio quia diſtinguitur, a propter quid primo modo, ficut textu 64. declaratumfuit, quòd illa des monftratio, quæ per mediata a probatas propoſitiones procedit, eft demonftratio quia, diftinguiturab illa ineadem ſcientia, quæ proces dit per immediata principia,quæ demonftratio propter quid dicitur,mo do ex fexagefimoquarto textu,determinatur quòd demonftratio uig eſi miprima primi Elementorum eſt, quia, hoc autem exemplo perſpectis uo dicit, quod eft propter quid, contradictio igitur manifeſta uidetur. Dico de mente Ariſtotelis hoc loco,&eft etiam loannis Grammatici ins tentio fuper textu fexagefimoquarto,dicentis. Quodammodo autem in precedéribus dicebamusquod ipſum quia eſt primomado,permediata mo firare, cum fecundo modo ipſumquia per immediata,ſimiliter w propter quid, unde aduertendum, quod demonftratio, quæfit fuper uigeſimam primam primi Elementorum,que per uigefimam decimāfextam primi elementorum procedit, fi ad demonſtrationem prime propoſitionis Elc. POSTERIORVM ARIST. es mentorum, quæ per immediataprincipia procedit comparetur demon Atratio quia, merito dicitur, ſi mero comparetur adperſpectiuam demone ftrationein, tunc propter quid dicetur, quia perſpectiuus pier eam pros bat intentum, u ſictricic apparentis argumenti explicite funt,fc cundum philofophiſcitum. TEX. LXVIII. ALIAS XXXI. IGVR A R v M autem faciens ſcire maxime pri ma eſt, etenim Mathematicæ fcientiarum per hanc demonſtrationes ferunt, ut Arith metica, & Geometria, & perſpectiua, & fes re (ut eſt dicere) quæcunque,quæ ipfius pro pter quid faciunt conſiderationem,aut enim omnino,aut licut frequentius, & in plurimisper hanc fi guram (quieſt propter quid fyllogifmus) fit, Textus hic uis detur edirecto contra expoſitionem nouam factam permeſuper iỹ. tex tu de inductione illa Geometrica, que tanquam fictitium quoddam, uanißimum, &nullo Greco & Latinoexpoſitore do&tißimoexcogitatū, inquit enim Ariſtoteles, etenim Mathematicæ ſcientiarum, per banc primam figuram demonſtrationes ferunt, non igitur Mathematic & fea runt demonftrationes per illam Geometricam inductionē, utibifuit des terminatum. Inftantia hæc,eft hominisuaniloqui,qui ea profert& fcri bit; quæ nonfunt notæ earum, quæin anima paßionumſunt, cum non folumanimamtanquàm abraſam tabellam habeant, fed potius tanquam ficcamcucurbitain, in qua nonniſi uentus reperitur, quia tamen nonfo lummodo fapientuin habenda eft ratio, stultis etians atque infipientibus pariter reſpondendum effearbitror, ne in fua ignorantia glorientur ua ne. In hoc textu Ariſtoteles nil aliud determinat, niſi quod preſtantior est prima, quàm fecunda & tertis figuræ,&quód Mathematica hac fepe utuntur, &hoc quidem quandofyllogiſtica arguunt, ut ait in tex. dicens, oin plurimis per hancfiguram, que eſt propter quidfyllogif mus fit, modo quid refert, ſi Geometra, utatur fyllogifmo, non nece ibi in tertio textu fuit declaratum, quo modofyllogiſmo utitur Geomes tra, &quomodo inductione Geometrica?fimodo quis ex hoc textu uca lit inferre, quod illa indu&tio Geometrica non detur, ipfe faciet mendas cem Ariftotelem, dicentem in tertio textu, quòd nedum fyllogifmo fed 70 IN PRIMVM LIB., oinduétione, ſcitur quòd triangulus in femicir culo conftitutus, habeus tres angulos æquales duobus reitis. TEX. LXXXVII. ALIAS XXXVI. EMONSTRATTO enim eft ex his, quæcun queipſa quidem inſunt, fecundum ſeipſa rebus, ſecundum feipſa uero, dupliciter, quæcunque enim in illis infunt in co quòd quid eft, & in quibus, ipſa in eo quodqınd eft inſunt ipſis, ut in numero, impar, quod ncit quidem numero, eft autem ipfe numerus in ratione ipfius, & iteruụn multitudo,aut diuiſibile in ratione nua meri, horum autem neutrum contingit infinita eſſe,nec ut impar numeri, Secundum fe ipſum bipartitur, ut quando prie mum deffinitio de deffinito predicatur. uel etiam quädo deffinitum de def finitione, ut numerus est multitudo ex unitatibus aggreguta, ut Euclia des ait fecundadeffinitione ſeptimi Elementori,et etiam multitudo ex unii tatibus agregata numerus est: impar nuſquà inuenitur in deffinitione nu meriupud Arithmeticū, neq; etiä numerusin deffinitione paris, quid igi tur uelit Arift. hoc exemplo noſatis à Græcis etLatinis explicatum est, puto tamen egoquod ficut in deffinitionibus, quædum fecüdum quod ipfa inueniuntur,pariter etiam id in diuiſione fit, ut fi quippiam, nume rus eſt, id quidem impar uel par statim eſſe dignoſcitur,oſi quid ims par uel parfit illud tale numerumeffe patet, ſic ut exempluinprimum Ariſtotelis, ſit circa diuiſionem, fecundum exemplum de deffinitios ne, quia tamen addit, aut diuiſibile in rationenumeri, nullibi apud Eus clidem reperitur quod diuſibile in numeri ratione ponatur, quatenus nu merus eſt, fed in deffinitione numeri paris; recteponitur, ut diuidatur in æqualia, ut primadeffinitione noni Elementorum manifeſtum eſt, par numerus eft, qui in duo æqualia poteſt diuidi, & quicquid in duo equa lia diuiditur, id numerus effe patet, fiueboc de numero, quo numerisa mus, feude numero numerato, hoc intellexeris, ueritatemhabet. Meto dumdiuifiuam, in his exemplis ſeruauit Ariſtot. primo enim in diuiſione ſubinde in deffinitione,et tertio loco infpecie contenta, fub deffinito ufus eft exemplo,Numeriigitur primadiuiſio eſt in imparem atqueparem; ut Boetius docet capite tertioprimi Arithmetica, definitio estſecunda septimi Elementorum, deffinitio autem paris; patet ex prima definitione noni Elementorum. Horum autem omnium nullum contingit infinita eſſe, numerus enim in imparem atque parem, impar in primum, compoſia tum, compoſitum in quadratun, o non quadratum, igitur quadratus compoſitus impar numerus eft, onumerus, eſt impar compoſitus qua dratus, feu numerus eft impar prinus, er prinus, impar numerus eft, ſicuti status eſt innumero,ut tandem ſit ultima particulaque à par te fubieéti ponatur, ſiiniliter ſtatus erit in alijs particulis, que ponun tur à parte predicati, quando ipfe numerus àparte ſubiecti pofitus erit neque igitur inſurlum,ncque igitur in deorſum infinita pre dicantia contingit eſſe in demonſtratinis fcientís, de quiz bus intentio eft, in furfum ait deffinitionem refpicientes, neque in deorfum diuiſionein feu partitionem animaduertit. d ac 38 mi TEX. LXXXVIII ALIAS XXXVII. for ONSTRATJslautem his, &e. Non te prea terit, quòd habere tres duobus reétis equales conie nito Joſcelio Scalenoni, neutri tamen per alte, rumconuenit,fed utriqueperhoc, quodfigurarea Eilinea trilatera eft, idfæpe fuit in precedentie bus declaratum exfecunda parte trigeſimeſecunda primi Elementorum.. other VA 16. TEXTVS.XCI. ALIAS XXXVIII. M ST autem inuin cuin iinmediatun fiat & una propoſitio ſinplex eft immediata & queinadınodum in alís eſt principium fimplex, hocautem non idem ubiqueeſt, fed in graui quidem untia, in melodia,alle tem diefis, aliud autein in alio, fic eft in fyllogitno unum, propofitio immediata, Secundum antiquos rumfcitum, ut Campanus refert ſuper oriaus xiiij. Elementorum unumquodqueintegrum in xij.partes æquales per rationen og intelle Etum diuiferunt, ipſum totuin fic diuifum in partes illas, aſſem uoc4 = werunt, undecim earum dixerunt deuncem, decem dextantem, nchem IN PRIM V M. LIB: dodrantem, o &to beſſem, feptem ſeptuncem, fex uero partes femiffen, quinque quincuncem, quatuor trientem, tres quadrantem, duas ſexa tantem, unam autem appellauerunt unciam, quam unciam in minorafra gmenta nonfecat philoſophus, quia eft ultimum fragmentum integri à quofuum initium fumit ipfum integrum, tanquàm ab immediato prins cipio,ex quo,fumiturfimile, quod in fyllogifmo etiam est ipſa immediata propoſitio, ultra quam nonfit refolutio in terminos,ſicut etiam ultra un ciam non fecit conſiderationem in minoresminutias, licet hoc fieripoßit, ficut propoſitio in terminos etiam quandoquidem refolui poterit. In melodia autem dieſis, Non eſt pretereundum filentio id,quod hoc loco Ariſtoteles tangit, id autem eſt, quod qui Logicam ipſiusprofi tetur quiſquis fit ille,omnibus diſciplinis Mathematicis debetin primis fſe inſtitutus,aliter enim euenietei, ut in adagio dicitur, operam fimul ooleum perdet, quid per dieſim intelligat, notum erit fitonum ſimpli cem, interuallum integrum, nondum ad armoniam pertingens diuidi in duas equus partes eſe impoßibile quis prius perceperit, ut etiam in tex. Lix. prædemonftratum eft, duas tamen in partes inæquales diuidi, quarum altera maior eft, quæ apothomen, ſeu ſemitonium mas ius, reliqua uero eft minor, quæ minusfemitonium nuncupatur, oip fum minus femitonium in duas partes æquales diuiditur, quartum utras que dieſis appellatur à uetuftioribus muſicis, ut Boetio atque Nicomas co primo libro Muſicæ,capite xxi. placet,idprincipium toni eft, quid minimum. Practici uero Muſici dieſim uocant inciſionem duarum linearumfuper alias duas ſic *quam incifionem fignant ipfi practici Cantores, ſuper eam notam, ſub quain deſenſus toni, faciunt defen fum ſemitonij, ſed id cantoribus relinquatur, prima dieſis acception Ariſtotelis ſententiam explicat, quia dieſis in illa acceptione, eft minia mum conſideratum à mufico, fiue id, quodminimum eſt in concinentia conſideratum, ſicut uncia in ponderibus oimmediata propofitio in de monſtrutione fyllogiſtica, o boc intelligas de minutijs integri, non de minutiaruin minutijs, de quibus phylolaus apud Boetium libro tera tio capite octauo agit,quiabec ad Ariſtotelisfententiam non faciunt pretermito. MAGIS tur POSTERIOR VM ARIST. 89 TEXTVS XCII. ALIAS XXXIX. AGIs autein ſeiinus unumquodque, ciim ipfum cognoſcimus ſecundun ipſum, quam fecundum aliud,utmuficun Coriſcum,quá do Coriſcus muſicus eſt, quàm quod homo muſicus fit, Hoc loco tentat Ariſtoteles elencho ar gumento probarequod particularis demonſtratio ſit uniuerfali potior. Quis nam fit muſicus aperit Nicomacus atque Boes tius primo libro muſices capite xxx111. ille quidem eft, quinon ex eo quod manu cytheram pulfat, fed ille qui rationis imperio cantillenas rum distonice, cromatice,atque enarmonice ratum, atque firmum ſta tum agnoſcit diiudicat, atque imperat, qua re intellectu,quærit Ariſto teles,num illa demonftratio, qua Coriſcus muſicus, an illa, qua homo mu ſicus co:rcluditur, quod eft, an particularis, uel ipſa uniuerfalis fit pos tior, Cui rationi reſpondendum; ut Ariſtoteles innuit per interemptios nem, negando quodCoriſcusſit muficus per fe, fiue quòd ifta cognofca tur per fe, Coriſcus eft muſicus. BI 74 1 142 ca TEXTVS XCIII. ici ha 10% OTior autem eſt, quæ eſt de eſſe quain de non eſſe, & propter quam non errabi tur quàin proptcr quam crrabitur eſt au tem uniuerſalis huiuſmodi, procedentes enim demonſtrant uniuerſale, quemadmo dum de eo quod eſt proportionale,ut quo = niam quod utique fit talc,erit proportionale, quod ncque linea; neque numerus, ncque ſolidum, neque planum eft, fed præter hæc aliquid. illud idem totum quod text. xx v di& um fuit, hoc loco repetatur, ubi Ariſtoteles text. xx v dixit hæc uer ba, nunc uniuerſalemonſtratur,hoc textu, magis aperit dicens, proces dentes enim demonſtrant uniuerfale, quod neque lined, &cæt. fed pre ter hæc aliquid, quod quidem eſtipſum quantum, quatenus quátum eft, quod uniuocum eft omnibus quantis, neque illudeſſe tale immagineris, quod oquanto &quali communefit,ut immaginabatur,lo4nnes gram M IN PRIMVM LIB. maticus afequaces, quia illud,analogum eſſet, quod à propoſitoſecludit Ariſtotelesnonagefimo quinto textu reſpondens ad fecundam difficulta tem. TEXTVS XCIIII. S IGIT VR triangulus in plus eft, & ratio eadem, & non fecundum æquiuocationem, conuenit triangulo & Iſoſceli, & ineſt oinni triangulo duobus rectis æquales,non utique triangulus ſecundum quod eſt Iſoſceles, led Iſoſceles ſecundum quod eft triangulus,ha bet huiufmodi angulos. Concludit Ariſtoteles hoc textu uniuers falem demonſtrationem particulari demonſtratione potiorem eſſe, o eft quando per rationem uniuocam concluditur affectio de ipſo uniuerfali, eper eandem uniuocam rationem concluditur eademet affeétio de par. ticulari aliquo, ut habere tres æqualesduobus reétis, probatur infecun da parte x x x 11primi Elementorum de triangulo primo, deinde de iſopleuro, ſoſcele, oScalenone non primo, fed quatenus trianguli ſunt, &hoc idem de illis concluditur perfyllogifmum, uel etiam per ean dem induétionem trigeſimæ ſecñde primiElementorum Eft in hoc textu non minima conſideratione dignum, quod etiam non eft prætereundura immobili calamo, Ratio enimtrianguli uniuoca eſt, quia o nomine for rede uniuerfali triangulo ode particulari Ifofcele prædicatur, utpuu tafigura,quæ tribus reétis lineis clauditur, non tamen per ipfam ratios nem, cõcluditur de Trigono uel iſoſcele habere tres duobus reftis equa les, ſed per primam partem trigeſimæ ſecunda, eper uigeſimā nonam Otertiä decimă primiElementorum, quapropter non uidetur quod exemplumſit ad propoſitum regulæ Ariſtotelis,de ratione uniuoca,Di cendum, quod naturaexemplieſt, ut non conueniat. Cum re in omni mor do,quia tunc non eſſet exemplü rei, ſed eſſet res ipſa.Dico fecundo quod memoria eſt dignum cum præfertimà nullo fit hucuſque perpéfum,quod nulla demonftratio mathematica eſt potißima, & ob idmathematicæ nul leſunt ſciētie ſiſtetur in doétrina Aristotelisratio,quia in nulla conclu ditur aliqua affectio deſubie &to per deffinitionem fubie &ti,quod tamen uo lunt uirigraues de mente Scoti, neque etiam per deffinitionem paßionis ut alij determinant de mente Thomæ, Modo dicas,quod quando per cane dem deffinitionem,fiue uniuocam rationem, demonſtratur affectio aliqua POSTERIORVM ARIST. ineſſeſubie o uniuerſali, &eadem ineſſeparticulari per eandem deffini tionem, quòd de uniuerſali, immediate & per fe,de particulari autem non immediate, neque per ſe, ſed per uniuerſale concluditur, ideo uniuer. falis ipſa particulari demonſtratione potior, atque præftantior est, ut fi per rationale mortale, concludatur de homine riſibilitas, &deinde per id, de Socrate, quod fit riſibilis, illa in qua de homine, quàm illa in qua de Socrate demonftratio, eft potior, ſicuti de triangulo uerbigratia,in fecunda parte trigeſime ſecunde primi Elementorum, &etiam de 1foſce le, probatur habere tresæquales duobus reftis, illa tamen inductio,que probat de triangu o potioreſt illa industione, quæ de iſoſcele idem cons cludit, quia primo de triangulo uniuerſali, ſubinde de particulari trian. gulo concluditur, hoc pacto Ariſtotelis regula o exemplum intel ligendafunt. TEXTVS XCVII. fed 72 th po 1 MPLIvs uſque ad hoc quæriinus propter quid, & tunc opinamur ſcire, cum non fit aliquid aliud propter quid fciamus, quàm hoc, aut quòd fiat, aut quòd fit, & cetera uſque ibi, Cum igitur cognoſcamus quidē, quod quiſunt extra æquales funt quatuor ſcétis, quoniam æquitibiarum,adhuc decft propter quid, quia triangulus, & hoc, quia eft figura rectilinea, ſi aus. tem hoc, non amplius propter quid aliud, tum maxi mc ſcimus & uniuerſale, tunc uniuerſalis itaque eft. Hoc tex tu Ariſtoteles determinatquòd, tunc arbitramurſcire cum ufque ad ul timas cauſas procedit nofter reſolutiuus diſcurſus, ait enim cum igitur cognoſcamus quidem quod, hi, quiſunt extra æquales ſunt quatuor rea &tis, o redit rationem, quoniam equitibiarum, ſed quia æquitibic figu ræ funt etiam quadrilatere, pentágone, adiecit proximiorem cau Jam dicens, quia triangulus, quia tamen trianguli diuerfa funt latera,ut curua, conuexa, conuexa o curua, curua Qrecta,conuexa a recta,ut omnia hæc excludat ait, qui eſt figura re{ tilinea, que cauſa magis udhuc proxima eft, quæ quidem ultima& propinqua cauſa, cumfucrit inuens taoaßignuta, non amplius propter quid aliud querimus, pq tunc mas xime fcimus, uniuerſale, o cæt. Quantum autem ad id, quod exem = plo, Ariſtoteles ait, paucis explicetur in fubie&ta figura a bc, cuius 1 1 Mij IN PRIM VM LIB. mnes extrinfecos angulos, quatuor reétis æquales effe dico, protrahan tur enim omnis latera a b, br, ca, uſque add, e, f, eritqüe per tertiã decimam primi elementorum duo anguliad c, pofiti æquales duobusrex & is, eadem ratione duoilli ad a, o reliqui duo ad b ſimiliter equales duobus re& tis, itaque omnes fex intrinfeci uidelicet,o extrinfeci,ſunt æquales ſex reftis, fed per fecundam partem trigefimæ fecunde prie mi Elementorum, tres intrinfecifunt æquales duobus re&tis, igitur tres reliqui extrinſeciſunt quatuor reftis equales,quod demonſtrandū erat. Non enim omnis triangulus uni uerfaliter fumptus, hahet tres an gulos duobus reétis equales, ſed ali quis habet duos angulos rectos, tertium acută, et quidam triangulus eft qui habet tres angulos rectos, ut Ptholameus cap. x. ſecüda dictionis magnæ cõſtructionis theoremate pri G mo, e ſequentibus manifestum faa cit, neque tamen id cötrariatùr pro poſitioni xyli primi elementorum, Euclidis ut quod duo anguli cuiusli bet trianguli fint minores duobus rectis, nec etiam eſt contra fecundam partem xxxl primi Elemen. Euclidis, quòd uidelicet omnis triangulos, habet tres duobus reftis æquales, ratio, quòdnulla inter hos fapientißia mosſit contradictio, eſt, quia de rectilineis Euclides, de fphelaribus ues ro Ptholameus & curuilineis triangulis agit, quod aduertens Ariftotea les adiecit, quia est figura rectilinea; ut fit abſolutus fenfus, quod equis tibia figura trilatera rectilinea, habet extrinſecos angulos quatuor ree Stis equales. TEXTV S CI. I MPLIV's autein & fic, uniuerſale enim ina. gis demonſtrare eft, co quòd eſtper medium demonſtrare, cuin propius fit principio, pro xime autem immediatum eſt, hoc autem eft principium;fi igitur quæ ex principio eſt, ea quæ non eft cx principio, quæ magis ex prin POSTERIORVM ARIST. cipio, ea quæ minus eft, certior eft demonſtratio. Hoc textu Ariſtoteles apponit extremammanum determinans,quòd uniuerfalis ſit particulari demonfiratione dignior, in quo quædamnon conſiderata à grecis,neque à latinis., difta tamen ohic ab Ariſtotele tertio tex tu, ibi, quorundam enim hoc modo diſciplina eſt, onon permedium ube timum cognoſcitur, ut quæcunque iam fingularia eſſe contingit, nec de fubiecto quopiam, ubi aduertit quod quidammodus est, quo fciuntur af fertiones deſingularibus, onon per medium,modus etiam est quo affea &tiones fciuntur de particularibus per medium, fed non primo de eis, ut declaraui in textů tertio 'nonageſimoquarto huius, affectiones uero que de uniuerſali cognofcuntur, he quidem per medium cognoſcuntur, hac de caufa uniuerfalis demonſtratio, eſt ipſa particulari potior, quia particularis non per medium, uniuerfalis uero per medium demonftrat, ut ait, uniuerſale enim magis demonſtrare est,eo quod eft per medium de monstrare,id autem Geometrico exemplo-manifeſtat dicens,quod ſi quis cognouit, quia omnis triangulus habettresduobus rectis æqualesfciuit, quodammodo, & quod ifcoſceles duobus reftis tres pares habet,utputa potentiafcit, quia uniuerfale fciens aetu, potentia etiam fcit. ea, quæfub. ipfo continentur, &ſi non cognouerit 1fofcelem quòd actu,oper aper tionemmanus (ut Philoponus tertio textu ofequaces interpretabane tur) triangulus ſit, hanc habens propoſitionem,hæcparticula legenda eft, cum particula aduerfatiua fic,hanc autem habens propoſitionem, nempefciens tantum potentia quod Ifoſceles habet tres duobus rectis pa rés, uniuerſale nullo modo cognouit, ut quòd triãgulushabeat tres equa les duobus rectis, neque potentia, neque actu, non quidem potentia, quia Iſoſceles non eſt uniuerfale ad triangulum,uniuerſale enim potentia ſua inferiora continet. Accedit ad hoc etiã, quia ſi non fcitur uniuerſale atu, non ſcitur potentia fuum particulare, fi igitur particulare non ſcie tur actu, ſed potentia tantī,quifieripoteft,ut propter id,ſuū uniuerſale potentia fciatur? non etiam actu fcitur uniuerfalepropterea,quòd fuum particularefcitur potentia, quia ex ſcibile potētia, non inferturſcitum actu. Exhoc textuę precedentibus quibus determinat Ariſtot.uniuerſa lem demonftrationem esſe potiorem demonftratione particulari habetur de particularibus difciplinam eſſe, particularem eſſe demonſtratioa nem quæcunquefit illa,aliter enim nulla effet comparatio Ariſtotelis in ter uniuerfalem o particularem demonſtrationem. Preterea etiam nos tatu dignum habetur, contra omnes interpretes, id autem eft, quod ali IN PRIMVM LIB. quatenus ij. textu ta&tum fuit, ubi determinat quod de nouo quippians ſcimus, introducit eos, qui tenentes quòd de nouo fciebamus interrogae bant Platonicos tentantes oſtendere ipſis Platonicis, quod de nouo ſci mus inquiunt enim, noftis ne quod omnis dualitas par ſit,nec ne? Vel etiam, quòd omnis triangulus tres duobus re & tis æquales habeat, annuen tibus autem Platonicis attulerunt dualitatem, uel triangulum manu aba fconfum dicentes, ecce quomodo uos de nouoſcitis, hanc dualitatem eſſe parem, quia priusneſciebatis hanc eſſe dualitatem Neotericies antiqui expoſitores inuoluunt locum, ſic ut nedum ipſi intelligant, fed eshi qui cos audiunt ita faſcinentur, ut nedum Ariſtotelem fed & feipfos pers dant. Dicunt enim ſine propoſito, quod prius non poterantfcirede dua litate in manu abfconſa, ueltriangulo conſtituto in tabula quod eſſet par, uel duobus rectis æquales haberet, quia neſciebant illam eſſe dualitatem, vel illum effe triangulum, putant iſti exponere Ariftotelis"doctrinam fic dicentes, anon aduertunt, quòd id dicunt quod Ariſtoteles reprehens, dit, quod illi qui dicebant de nouo fcire, male tamen perſuadentes per oſtenſionem ad fenfum, egr reſpondentes perperam, dicebant fe nonſcia re eſſe purem, niſi quam dualitatem eſſe ſciebant,apertißimehic Aristo. teles dicit, quòd qui ſcit omnem dualitatem eſſe parem, uel quòd omnis triangulus tres duobus re &tis pares habet, fcit quòd dualitas ſitpar, quod Ifofceles, tres duobus reftis æquales habet potentia, licet neſciat a &tu perſenfum, quòd iſoſceles triangulus ſit, quem locum à me notae tum inter cetera pulcriora exiftimo animaduerſione dignum propter fal fos Ariſtotelis interpretes ad hanc ufque noftram etatem. TEXTVS CVII. ALIAS XLII. T ca certior quæ non eſt de ſubiecto, ca quæ eſt de ſubiecto, ut Arithmetica armo nica. Numerus, ſubiectum eſt in ipfa Arithmetica qui quidem abſtractißimus est, nullum materiale ſubie &tum concernens, Armonica, uero de nume ro ſonoro, uel magis, de ſono numerato, quod magis concernitmateriain, ut fonum ipſum., qui fonus numeratus, ſub iectum in armonia eft, ut Boetio placet libro primo muſices, modo Arithmetica cum circa ſubiectum minus immerfum matericfit, certior POSTERIORVM ARST. estquamſit ipſa Armonia, quæfubie£tum conſiderat magis immerſum ipſimateria, eftigitur alia certioraltera propterſubiecti maioremabe ſtractionem? TEXTVS CVIII. T quæ eft ex minoribus certior eſt, & prior ea, quæ eft ex appofitione, utArithmetica Geometria. Dico autem ex appoſitione,ut unitas fubftantia eft fine poſitione, pun. tum autein fubftantia pofita,hoc autem eft ex appoſitione. Hoc in primis conſiderandum eft, quod hoc textu non loquitur Ariſtoteles de ſubie&to fcientiæ.,ſecundum quòd magis og minus abſtracteconſideratur, quia id in precedenti tex. determinauit; una enimſcientia determinat de abſtracto numero, reli qua uero defono numerato, unitas enim de qua hoc textu loquitur, non est ſubiectum in Arithmetica, niſiforfan in aliqua particularidemonftra tione, utin 15 ſeptimi ElementorumEuclidis,in quibuſdam alijs des monſtrationibus trium librorum Arithmeticæ Euclidis. Dico autem,ut unitas, ſubſtantia eſt, fine appoſitione, punetum autemfubftantia poſia ta, hoc est ex appoſitione,Nicomacus,Boetius, Tonſtallus Anglus,Lu cas Paciolus, in primis lordanus, o Euclides recte interpretarentur huncAriſtotelis textum ſiadeſſent, quem locum obſcurant rabini cum * ueſtra excellétia ex appoſitione nominati,heu me, in manusquorü inter pretum incidifti Ariſtoteles? quæ hominum dementia te torquet: erant ne ſimile hominum genus tuo tempore, ita inſipidi atque macrologia op preßi, qui Platonem, quique te audirent, expoliati Geometricis, &dis fciplinis orbati?ut funthoc tempore nedum iuuenes non recte imbuti lite teris, fed magis ſeneſcentes in fua, non tua philoſophia homines, exurs gant Romani uiri, liberalibus diſciplinis præditi, quorum bonarum are tium hereditas, negligentia pofteritatis, uerfa eft ad extruneas nationes o inter Barbaros fruftratim etiam dilaniatur, eo locum hunc inter pretentur. Non eget unitas ipſa;ut ſit in ſua natura,quod fit puncto affe & a, uellined, uelalio quoppiam alieno, fed punctus, uel linea', ſeufuæ perficies, uel etiam corpus,impoſsibile eft, quod ſit,quin pun &tus unus, uel una ſuperficies, aut corpusunum, uel plurafint: Plura autem pun & a, eſſe non poffunt, niſi prius punctum unum,uel unafuperficies,aut corpus unumfit, minus igitur eft unitas, quim punétum unum, Pombaiam IN PRIMVM LIB. ipfa uocemanifeſtum eſt.Vnitatem Arithmetica conſiderat: non ut fuum fubie &tum, fed ut id, quod adſuum ſubie tum quodam ordine attribuia tur tanquàm pars ad ſuum totum. Vnum pun &tum, feu lineam unam, uel etiam unum corpus Geometra, atque stereometraconſiderans appos nit lineam,pun & um &corpus ipſum unitati, uel illis unitatem appos nens, ex pluribusfacit fuam conſiderationem,quàm fit illi Arithmetici, qui unitatem conſiderat abſtractiſsime, nulli reiappoſitam. Ex hac declaratione patet id quod Ariſtoteles ait primo de anima in principio, quòd fcientia de anima nobiliſsima, eſt, duabus de cauſis prima ex nobi litate ſubie &ti, ſecunda ex certitudine, ex certitudine dico, non ut quis dam inueterati in philofophia craſſa exponunt, uidelicet ex demonſtra tionis certitudine,ſedcertior dico, quia exſubiecto ſimpliciori eft, que anima eſt, atque minus compoſito, quàmſint ſubiecta librorum,librum de anima precedentium, ex precedentis textus, atque huius expoſis tione id totum colligas uelim, ex precedenti, ſi de anima, ex præfens ti autem ſi de anime particula, loca libri de anima intelligantur. Claret etiam, ex hac noftra interpretatione,quod Mathematicæ diſcipline non ideo dicendæfunt non ſcientia, quia non funt circafubftantias, ut ans tiquusætate indostus quidam in hac parte, philoſophus non erubes fcitaſſerere', ofequaces,quia illas inquit merito dicendasſcientias los quitur, quæ tantum circa fubftantiasfunt; non autem que circa accia dentia, ut funt Mathematicæ, quod apud Ariſtotelem nunquam legitur Dico quòd Mathematice uere e in primis ſcientie, ſecundum nos & re ipfa funt, ex fententia doétifsimi Boetij in principiofue Arithmeticæ,ubi ait, ſcientiæ atque ſapientia uerehe funt, quæſunt circa res, quæ nunquàm mutantur, fed fua natura femper funt,utſunt fubftantia,a quantitates; quo nammaiore auctore hec noſtra ſentens tia corroboratur, quàm ſitipſemet Ariſtot. in hoc præexpoſito textu ! qui in fua doctrina conftans, punctum ſubſtantiam appellit, itidem unitatem ſubſtantiam dicit, ſi igitur fole ille ſint ſcientiæ, quæ circa fubftantiasfunt, in primis Arithmetica atque Geometria merito (quics quid balbitiant alij) ſcientiæ appellande nedum nomine, fed natura digna funt. Quia tamen de mente Ariſtotelis teneo Mathematicas diſciplinas, non eſſe ſcientias, non ob id, quia de accidentibus ſint,neque ex eoquod percominunia principia procedunt, ſed quia affectiones que in ipſis con cluduntur, non perdemonſtrationem, quemfyllogifmum ſcientialem Ariſtoteles uocat, concluduntur ut declaratum fuit textu nonageſia men, mo POSTERIORVM ARIST. moquarto,merito ſcientia non funt, ſiſcrupulofa indagine ſcientiæ not men indagari, quis uelit. TEX. CXII. ALIAS XLIII. 3 EYE per fenfum eft ſcire id, Exemplis duobus. Altero Geometrico reliquo, Vero Aſtro Nnomico, declarat Ariſtoteles, ſi enim ſenſus uifus uideret id, quod intellefius percipit fecunda par te trigeſimæſecundeprimi Elementorum,quód trian gulus. uidelicet, habet tres duobus rellis pares, non tamen propterea uidens illud diceretur fciens, fed ut fciensfieret ad huc demonſtrationem quereret,o huius rationem reddit dicens, necef= feenimquidem eſt ſentireſingulariter, ſcientia autem eſt in cognoſcen= douniuerfale, unde eſi ſupra Lunam eſſentus, utputa inſupremo orbe defferente augem Lune, uel in orbe defférente caput draconis,uel etiam in cælo Mercurij, uideremus Lunam ingredi umbram terra, e par timenftruum non propter hoc diceremur fcientes, quia illud, quod uiá deretur,effet ſingulare, &cum ſcientia ſit circa uniuerſale diſcurrene do, o per intellectionem ipſius uniuerfalis, ſequitur, quod per ſenſum non eft fcire. Aliter etiam exponaturſic, ut ſi eſſemusſuper planetum, qua Luna est, &in illa parte planete que terram, & centrum uniuerſi confpicit, &foc'es noſtra uerſus idem centrum mundi,quod.eſtterre cen trum ſentiremusquidem per ſenſum uifus, quòd deficeret Lund tunc, fed non propter quidomnino,quiaſenſus non plures percipit ecclipſes ſimul neque actu,neque potentia,fed unam tantum,necobid tumen ſcientes dice remur, non enim uniuerfalis est ſenfus, fed particularis ut ait, ex conſi deratione multotiesaccidente univerſale uenantes demonſtrationem ha bemus, non ſecludit hoc loco Ariſtoteles ſcientiam de purticularibus, ut Tex. iij. fuit determinatum, fed ita intelligas, quod ſenſus eft tantum particularium, intellectus autem utriuſque, Sunt tamen quædam reducta ad fenfus defeétum in propofitis & c. · In hac particula huius textus, idem perſuadet diuerſo exemplo, quòd. videlicet neque per ſenſum eſt ſcire, in prima huius textus particulas Exemplum attulit in phænomena eGeometria, in hac autem particula exemplum est in perſpectiua, eft etiam quoddam aliud diuerfum, quia precedensexemplumeft,de unica wſingulari eclypſi. In hac auten pars N IN PRIM VM LIB. ticula exemplum præbet de multis illuminationibus faétis per uitra pera forata, ſiue foraminailla ſint pori uitrorum, feu etiam foramina ſint ma gna,artificio quodam facta, que fenfusuifus in multis uitris confpiciens, compertum haberet, &manifeſtum eſſet, & propter quid illuminat, id eft,propter,quid illuminationes multæ fierent,quoniam, ut inquit,uis deremus quid ſeparatum in unoquoque uitro, id est foramina multa, per qua radijtranſeuntes illuminationes multe fierent in pariete e re gione collocato, uel in pauimento domus,quapropterſi plures eclypſes ſimul perciperet fenfus uifus,quodtamenfierinequit, &uideret etiam hoc euenire ex obiectu terræ inter Solem of Lunam, illud de Luna ex emplum nullo modo diuerfum eſſet ab iſto de uitris perforatis, niſi quod alterum in Phænomena, reliquum eſſet in perſpectiua; Ne.credas tam men propter multas irradiationes a uiſu ſimulperſpectas, Q uiſis etiam fingulis foraminibusſimul, uel poris in uitris per quos radiationes fica rent, quòd quis ob id diceretur fciens,ſed ex his fingularibusfenfu pera ceptis unum uniuerfale intellectus intelligens,deeo.fcientiam generaret qua poftea merito quis diceretur fciens, illud autem uniuerfale non cola ligebatur, ab intellectu ex unica tantum eclypſi uiſa, fed ex pluribus die uerſis temporibusobſeruatis,Ex hoc loco habetur quod non est ſatisad demonſtrationem habere propter quid., niſi propter quid habeatur, per difcurfum (fenſus autem non difcurit ) ab uniuerſalibus ad minus uniuer ſalia, ſenſusenim percipiebat quod multæ illuminationes propter multa foramina fiebant, nulla tamen erat ibu demonſtratio. TEXTVS CXIIII. IRCA Textus particulam illam, Aut æquale maius, autminus, Scire eſt, quod primi Elea mentorum eſt conceptio animi apudEuclidem, ut fi una quantitas comparetur ad aliam eiufdem genes ris, aut erit ei æqualis, aut eadem maior, uel e46 dem minor, ut quatuor, ad quatuor, uel ad tria, aut ad quinque,ſi comparentur, fieri nequit, quod eadem quantitas qus tuor,ad quantitatem unam di &tarum comparata, fit æqualis, a maior minoreadem,statim enim fequitur contradictio,fedfi ad diuerfas quan titates comparetur, verumquidein poteft effe, quòd unaſit maior emi nor & equalis,ſi non ad unicam tantum, fedfi ad plures fit comparata, POSTERIORVM ARIST P TEX. CX V. ARTIC VI. A huius Textu, Neque omnium. uerorum principia funt eadem, neque con ueniunt,ut unitates punétis non conueniūt, læ quidem enim non habent poſitionein,illa autem habent, Deappoſitione in punétis, eo pacto intelligas, ut tex.108 declaraui. Exemplo enim loqui tur de principijs,non quidem ex quibus inferatur conclufio, fed ex qui dus compoſitumfit, quia ex unitatibus pluribus ſimul coaceruatis com ponitur numerus, ex pluribusautem punctis non componitur quippiam ut terminaui tex. xix.huius, ſimpliciores ob idfunt ipſe unitates, que funt numerorum principia, quamfint puncta,que lineas terminant, uni tas enim,uel etiam unitates non ſupponunt punétum,uel punéta,punétus 'tamen uel puncta eſſe non poſſunt, quin uel punctum unum,uel plura pun & ta fint,non igiturconueniunt inter fe propter appoſitionem unitatis pñ to appoſite, wepropter non appoſitionem, puncti ipſi unitati, unitas enim non ideo unitus est, propter unum punétū,ſicutpunctum unum eſt, propter unitatis appofitionem, ®ultra ait, quòd diuerſafuntgenere, ille enim in diſcreta, hecuero in continua conſiderantur quantitate: TEX. CXX. ALIAS XLIIII. VONIA'M autem idein multipliciter dicitur eft autem, ut non commenfurabilein enim eſſe diametrum uere opinari inconueniens eſt, ſed quia diameter (circa quam ſunt opi. niones) idem, fic eiufdem eſt, ſed quod quid erat eſſe unicuique,ſecundum rationem non eſt idem, Circa eandemdiametrum ſcientia poteſt eſſe, opinio per media tamen diuerſa, falfam quidem opinionem habet ille qui diametrum commenſurabilem coſte eſſe ſentiet, ueram autem obtinebit ille qui Eucli dis demonftrationibus inftrúctus diametrum inconmenſurabilem coſte efje protulerit in qua re tex: 1x. huius determinatum & demonſtratum fuit, quod ipſe diameter incommenſurabilis eſt ipſi coſte,aliter enin, par numerus, impar effet, Circa idem igitur contingit diuerſitas, feu idem multipliciter dicitur, ut quòd diameter ſit commenfurabilis &inz commenfurabilis cofta. Nij IN SECVNDVM LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PRESBITER PETRVS CATHENA: V ENETV S. ** 3 TEX T VS II ALIAS I. TEATRI V M enim utrum hoc infit, aut hoc, quærimus in nume rumponentes,ut utrum deffi ciat Sol, uel non, ipſuin quia quærimus. Luna enim defficit in ſe a lumine, a patitur menſtruum, propter interpoſitam terram diame traliter inter Solem u Lunam, Sol autem non defficit lumine unquam in ſe, fed tantum non illuminat, quana do in capite uel cauda draconis res peritur fimul cum Luna hoc quidem prouenit, ex eo quod inter afpes Eum noſtrum o corpus folare interponitur Lund, quæ cum ſit core pus denfum, coppacum magis quàm alia pars fui orbis impedit fo lares radios, enon finit eos ad afpe&tum nostrum protellari. Dubita tur circa id quod fuit di&tum paruin ante,o quód fæpißimeait Ariſtote les, præfertim in ſequentibus,ufque ad textum nonum an Luna defficiat penitus lumine, quando patitur menftruum, quod eſt querere,an Luna habeat aliquod lumen àfe, uelſi non àfe, an conſeruet lumen in ſe imbis bitum tamen à Sole, utfomniat Aueroes, propterea quod, quandotota eclypfatur uidetur non nihilhabere luminis, apparere fubnigra, etiam apparet uideri eius rotunditas extra plenilunium, ad quod reſõſio abſolutißimafit,quod Luna nullum habet lumen,niſi à Sole ſecundoquod non imbibit lumen, quemadmodum ſpongia liquorem aquæum, cauſaaus të apparitionis luminis tempore eclypſis, uelfuæ rotunditatis antequam POSTERIOR V MARIS T. fit in oppoſitione Solis eft, quă ſtatim declarabo quibuſdam paucis pres intellectis, cum ipſa ſint corpus denfum &politum quemadmodum cæte ra fydera, radijſolaresquifortes ſunt, cuin ad ipfam pertingunt non talentes ultra penetrare propter denſitatem ad terram reuerberantur, Tempore autem eclypſis, radij ſolares impediti a terre occurſu nõ attın gunt lunam, ſed tunc radij aliorum fyderum, qui debiliores ſuntſolaribus radijs, pertingunt corpus lunare, &fua tenui uirtute Lunam illuftrat, ob id Luna uidetur habere nõ nihil luminis tempore ſuæ eclypſis, et pro pter hanc eandem caufam dicatur quod eius rotunditas apparet citra ple nilunium. TEXT VS I x. + 1 1 + VID conſonantia, ratio numerorü,in acu to & graui, & propter quid conſonat acue tum graui, propter id, quòd rationem has bent numerorum graue & acutum, utrum eſt conſonare acutum & graue, utrum ſit in numeris ratio corum,accipientes autem quia eſt, quid igitur eſt ratio querimus. inter ea quæ elucidan da funt in hoc textu, idin primis occurrit, notatu dignum; graue enim Cum motum fuerit, citius ad quietem redit quam leue æquali pulſumo tüm, Aliud etiam eft animaduerſione dignum hic notandum quòd neruus cumpellitur ininftrumentis non unumfolummodo ſonum efficere ſedmul tos, quiquidem multi à feinuicem distinti non percipiuntur, ut diſtins Eti, propter celeritatein unius poſt alium, Exemplum præberem de Tur bone,uiride, aut rubra linea lineato,qui propter celerem motumtotus ui deretur uiridis, aut rubcus, ſunt igiturmulti foni à grsui corda effceti ad quos, fi foni illi, qui leuiori neruo procreatifunt,comparentur has beanto ad illos ratione, ut quatuor ad tria,tūc diateſſaron cõfonantiaria minimam efficient, fi ueroeam quæ eſt nouem adſex diapente, odiapaf fon fi illam efficient, quæ quatuor ad duo, que concinentie, cum ſint ſimplices; exipſis aliæ que compoſitæ funt generantur,tanquam ex ſuis proximis elementis, ut eft diapentediapaffon,o biſdiapaſſon, quæ ome nia ex Boetio clara habentur, o ſibi do toresqui Calepino student, in declaratione Ariſtotelis hec gratis prætereant, Alia exempla à tertio textu uſque ad undecimum,que Ariſtoteles præbetfua Palade in mathea 1  IN SECVNDVM Ľ IB maticis, quæ quiaaliàs in præcedétibus dilucidata per mefuerunt,nunc conſulto pretereo, fed quæ di&ta funtfuper hoc textu non plane ſatisfae ciunt nostre menti,ubi enim nonfuerintplures pulfus ad pa uciores com parati, ut in humand uoce, căcinentia quidem reperitur inter re, ala licet nõ niſi ſingula,&fingula uox emittatur,non igitur interfonos paus ciores tantum, eu plures concinentia, ſed primo inter graue ego acutum reperitur, quæ autein uocum diftantia inter ſe reperiatur, ut debita; fiat concinentia, tum ex hominum ufu ab inſtrumentis accepto, cumetiä per ea que Boetius tractat manifeſtum est, ſed'in dubium occurrit illud, quod muſicifaciunt, quando fuper breuem ſillabam, plus temporis cona ſummunt, quim par ſit, eſuperfillabam longam, breui temporis notu la festinant, ita ut ea,quæ naturaſunt breues, fiant longe, &quæ longe ſuntſillabæ,breuesfiant, ſic ut'nonmodesta &doctaſit ipfa muſica, fed Barbara o contra ufum loquendi appareat, Ad quod dico, ſequen tia dubia quæ funt,an concinentia proueniat ex mouente, ut Aristoteles in libris degeneratione animalium, uel ex motis rebus, ut in rethoricis, an exnumeratis pulſibus, ut hoc textů tangit, quòd in nostris fragmens tis logicis hæc omnia clarafient, fed pro declaratione littera, huius tex tus,uideturexpoſitio feciſſe fatis. TEXTVS XIX. ¿ ALIAS II: MPLIvs omnis demonſtratio aliquid de aliquo demonſtrat, ut quia eſt, aut non eft, in deffinitione autem nihil alterum de altero prædicatur, ut neque animal de bis pede,neque hoc de animali,neque de plano figura, non eniin planum figura eſt, neque figura planum eft. Euclides póst quam deffinitionem plani dederit in primoElementoruin deffinitione quinta, ſtatim de angulis planis, e de fiquris planis adiecit deffinitiones, que figure ideo planæ dicuntur, quia in plano picte ſunt,feu quia in ſuperficie plana ſunt deſcripte, fi gura plana, hefunt due particulæ deffinitionis, quarum altera deals tera non predicatur, quia id quod planum, & id que in plano figura fit, 11on idem eft, demonſtratio uero cõcludit, quia eft hoc de hoc, ut de trian gulo, quod tres duobus rectis equales habeat, et q latus trigoni, quod fubtendien maiori angulo, nõ eft minies lateri fubtenſo minori angulo. POSTERIORVM ARIST. TEXTVS XLIX ALIAS X I. V ANIFEST VM eft autem & fic, propter quid rectus eſt, qui in ſemicirculo eft, quo exiftente rectus eft,fit igitur rectus in quo a, inediun duorum rectorü in quob, qui eft in feinicirculo in quo c, eius igitur, quod eſt a rectum inelle c, qui eſtin ſemi circulo caufa eft b, hic quidem ipfi a æqualis eft, c autem ipſi b, duorum enim rectorum dimidium eft b, igitur exia ſtente dimidio diiorum rectorum a, ineſt ipſi c, hoc autem erat in ſemicirculo rectum eſſe. Euclides xxx tertij uniuerſa lius proponit id, quod Ariſt. hoc loco ait magis contracte, ut ſecundum Ariſtotelem conſtruatur fic, ſit ſemicirculus a b d cuiuscentrum c, quo perpendicularis excitetur per undecimā primi Elementorum cd, ſecans arcum a b in puncto d, à quo, duæ lineæ protrahantur ad ter minos diametri dia,db, ſequiturper quintam primi angului a dc, bdc effe medietates reéti,quæ ſimulmedietates additæ faciunt angų lum a d bre&tum,ficut duæ unitates bi narium numerum, quia tamē non uide tur quòd philofophus particulariter proponat id, quod uniuerfaliter Eucli des docet, ut uidelicet quod perpendi çularis à puncto c excitetur, &quòd folus angulus,qui fit in puncto de deter minato, ubi perpendicularis ſecat ar cum, re & tus ſit, licet illa due medietates formaliter ſint unius re &ti, fina gulađ; dimidium refti, quæ pro materia recti accipiuntur, ficut due uni tates materia numeri binarij, Ideo aliter declaro & litteræ philoſoa phi magis cohærebit non in figura præfcripta,ſit angulus rectus a datus, b autemfit medietas duorum rectorum, c uero in ſemicirculo conſtitus tus, ſit æqualis b, quæ uero uni veidēfunt æqualia inter ſe funt æquae lia, cum autem a ſit æqualis b, quia uterqueeſt medietas duorum res. & orum, or ſimiliter c qui in ſemicirculo eſt ſit eidem b æqualis, c ipfi a equalis erit, a quippe rectus eſt ex dato igitur c, in ſemicircula conſtitutus rectus eſt, quod propoſuit Ariſtoteles, quis ſit angulus rer IN SECVNDVM L I B. Aus patet per deffinitionem octauam primi Elementorum, quod autem b in quocunque puncto peripherie femicirculi fit medietas duorum rectos rum, patet per trigeſimam tertij Elementorum, quodetiam omnis alius angulus in quocunque puncto arcus ſemicirculi fit æqualis 6, utputa 0, patet per uigeſimam tertij Elementorum, qubi in priori expoſitione di cebatur,quòd duæ medietates erant materia totius relti anguli, hic dica's tur,quòd illiduo partiales anguli b, ſunt materia torius anguli recti, fic ut demonftretur, quod angulus, qui in ſemicirculo conſtitutus, eſt re ctus, per materialem caufam, quæ materialis caufa, ſunt iple partes recti anguli ipſum integrantes. TEXTVS LIII. ONTINGIT autem idein & gratia alicuius eſſe, & ex neceſsitate, ut propter quid pe netrat laternam lumen, etenim ex neceſsitas te pertranſit, quod in parua eft partibilius, per maiores poros fiquidein lumen fit per tranſeundo, Minutiſsimæenimſunt; aut potius fub tiliſsime ſpecies uiſibiles ignis,quæ propter ſubtilitatem ſuam per poros uiri in quofranguntur exeuntes clarum iter oſtendunt, ne adlapidem pe: des offendamius, exemplum eſt in optica,inaterialis caufa eft uitrum, fi nalis,neolfendamus; fornalis eft illa compago uitrorum,lignorumq;, effi ciens autem,eſt ipſe luterne artifex,quantum ad matheſimſpectat non eft niſi materialis cauſa in conſideratione, o radios fractos ipfius ignis in corpus disphinum, per quos illuminationes fiunt. TEXTVS LVI. ALIAS XII. CLIPSIS Lunæ futura, preſens, atque prete rita,medio interpofitionis terre, diametraliter in ter Solem & Lunam,nunc, olum, & in futurum con cluditur, cumfuerit Luna in capite uel cauda dras conis uelprope, o ſub'nadir Solis. SICVT POSTERIORVM ARIST. 105 TEX.LVII. ALIAS XIIII. IGVt ergo non funt puncta, adinuicem co pulata, ticque, quæ facta ſunt, utraque enim indiuifibilia funt. Puncta enim fiadinuicem copula rentur, statim haberetur, lineam ex pun &tis componi quod impoßibile effe demonftratum eft in primo, textu Wdecimo octauo. TEXTVS LX. ALIAS X VII. I co autein in plus ineſſe quæcúque, infunt quidem unicuique uniuerfaliter,Atuero & alij,ut eft aliquid quod oinni Trinitati, in eft fed & non Trinitati, ficut ens ineft Trini tati, ſed & non numero, numerum quemlibet ex materia oforma conſtare nemo eft qui neſciat, aliter cnim numerorumſpecies noneſſent numerofinitæ, potentia ueroinfis nite per unitatis additionem, fpecies autemexgenere odifferentia con ftat, genus uero materia differentia autemforma eft in numero, materia numeriſunt ipfæ unitates, ut in ternario numero, tres unitates materia eft numeri ternarij,formaautem eft ipfa Trinitas, ens inquit ineſt Trinita ti népe ternario numero,o hoc prædicatū, ens, extra genus arithmetică eft, quod quidem ens, alijs multo diuerſis genere à numeroconuenit. Impar uero & ineft omni Trinitati& in plus eſt. Etenin ipſi quinario ineft, fed non extragenus, ens quidem alijs ab arithmetico genere conuenit, imparuero nullis alijs niſi his, quæ infra arithmeticum genus continentur cõuenire poteſt,utquinariofeptinario &alijs multis. Huiufmodiigitur accipienda funt uſque ad hoc quouſ: que, tot accipiantur primum, quorum unumquodque qui dem in plus ſit, omnia autem non in plus. inquit quouſque tot dccipiantur primum, uerbum hoc, primum intelligatur ex æquo, feu ad equate, ut tot uenetur quis particulas deffinientes,quòd non fint ſuper abundantes, neque diminuteparticule, ſed ad idtendat, ad quod ille,qui tetragonicum latus alicuius figuræ quærit, utin libris de anima iubet phi bofophus. Duo præterea funt hic notanda precepta,ut unumquodquefit LO 6 IN SECVNDVM LIB. cum non in plus, nempeunaqueque particula deffinitionis uniuerſalior ſitdeffini to, ut animal,rationale,mortale,capaxbeatitudine, que omnes particu ie, in hominis deffinitione ſuntpofitæ, cunaqueque uniuerſalior eft ip sohomine, omnesautem fimul fumpte,nihilaliudnifihomo funt,Dubie tatur, an illa, quae in Elementorum Euclidis libris deffinitiones poſite funt, utunapromultis fimilibus excogitetur hæc,triãgulusredilineus, eft figura, plana,claufa,tribuslineis re&tis,fit conftituta ex omnibus par ticulis deffinientibus,quarū una,et altera,atqueſingulaſit uniuerſalior, ipſo triangulo rectilineo? Dicendum confequenteradAriftotelem pro pter particulam illam, tribus lineis reftis, illam non eſſe deffinitionem, fit uniuerſalior ipſo triangulo rectilineo, quapropter ſunt ma gis dignitates appellande, quàm deffinitiones,nifidixeris, quodAriſtote les intelligit de his particulis definientibus, quæ recto cafu, & non oblis quo explicantur, & fic proprie dicerentur deffinitiones, que interpreta tio qualiſcunque fit,non habetur ex Ariſtotelis littert, neque tamen ual de difplicet. Hanc enim neceſſe eſt fubftantiam rei eſſe, ut trinitati in cft oinni,numerus,impar, primusutroque modo, & ficut non menfurari numcro, & licut non componi ex numeris, hæ duæ particulæ,numerus,impar,nõ patiuntur, difficultaté,quinipſo. ternario uniuerſaliores ſint, ſed particula iſta primus utroq; modo,decla ratur ab ipfo Arift. quod fit uniuerſalior ternario numero,propter altes rī modorū, quonumerus primus dicatur eſſe ut unitatefola metiri poßit, multis conuenit numeris, ut quinario, ſeptenario,atque ternario, et alijs multis non cõponi ex numeris pariter multis cõuenit, ut ternario, qui ex binario ounitate conſtat, ſimiliter binario,qui conſtat non ex pluribus numeris,fed ex binis unitatibus, Ex hoc locohabeturnefcio quid contras Etius,quàm Euclides proponat,in feptimo Elementorü deffinitione x 15, XIII, quibus ait, quod primus numerus eſt, qui fola unitatemetie tur, Compoſitus autem eſt, qui dimetitur alio à fe ego ab unitate numero, quo loco uidetur quòdaliud fit dimetiri numero; &aliud numeris dia uerſis componi, ut ſeptenarius, nullo alio número ab unitate dimetina tur eſi componatur ex diuerfis numeris,ut ex binario o quinario,c. ex ternario &quaternario, primo enim modo aliquis poterit effe pris inus, qui compoſitus erit fecundo modo ut-XI, 0 X111, atque alij, quos vagu VI, VITI V Componunt nullus tamen eorum dimetia tur eorum alterum, var vi nullo modo dimetitur XI, VIII pariter POSTERIORVM ARIST.to v nullo modo dimetiuntur x1, cum neuter fit alicuius maioris pars, ut ex prima deffinitione quinti, &tertia deffinitione feptimiEle.. mentorum Euclidis manifeſtum eſt,hoc igitur loco dico, quod Ariſtotea les non loquitur fecundum Euclidis ſcitum,fed famoſe, ut philofophoa rum quorundam aliqui, Vbifecundum Ariftotelem tam partes aggregae tiua, que c irrationales, e integrantes dicuntur, quàm partes ali quote,qua rationales, odimetientes, dicuntur numerum compone re, ſed ſecundum Euclidis fcitum, non niſi partes proprie fumpte, que aliquotæfunt, numerum componunt; quod etiam Nicomachus & Boce. tius in arithmeticis aſſentiuntur, niſi dixeris quod etiam fecüdum Euclia dem,non omnem numerum,qui alium componit compoſitum dimetiri, fed ubi hoc Euclides fomniet non uidi. TEXTVS LXXVIII ALIAS XXV. ARTICVLA difficultatis ſe offert in hoc textu, quam Grecio Latini pretereunt, Aueroes tamen magna comentatione tangit nefcioquid, fed fcopum rei non tetigit iudicio eorü qui Ariſt.et Euclidis inſe quuntur,ueſtigis, Textus Ioannis grāmatici etArgi lopili obfcurăt aliquo modo primo intuitu pulchram Ariſtot.doctrinam, quam aperit textus Aucrois, ſiue Abramum, ſeu Bu, rinam inſpexeris, ipfius Aucrois interpretes, qua Ariſtotelis doctrina ex Aueroico textu bahita, illam poſtea ex loanne grammatico, Argi ropilo uidebis neceſſario effluere, loannis textus ita habetur, fi uero ficut in genere, finiliter fe habebit,ut propter quid con mutabiliter, Analogum eſt. Alia enim eit cauſa in lineis, & in numeris, & eadem, inquantum quidem lineæ, alia eft,in quantuin nero habens augınentun tale, eadem eſt, fic in omnibus, Argilopilus ſichabet fi fint ut in genere, medium ha bebunt finiliter,ueluti propter quid etiam mutato ordia oc, funilitudinein ſubeunt rationum, eft enim alia caufa in lincis, & in numeris, atque eadem alia quidem eſt, ut linea rum rationem fubit,eadem autem, ut tale habet incremen tum, & codem in omnibus modo; Aueroes fic habet commentar tionc magna,li autem fuerit fecundum modum generis,eft eis. affection IN'SECVNDVM LI B. uinum fimilitudine, uerbi gratia, cur quando permutantur: fint proportionalia, huius cnim caufæ in lineis & numeris ſunt diuerfæ, qua autem addit, hac ſpecie additionis, hoci modo eft una per ſe in omnibus,hoc textu nõ minus laboris fum pſi propter uarietatem textuum, quam etiam ob id, quod interpretes: non ita interpretari uidentur, ut textui Ariſtotelis cohæreant fue interpretationes aut nug & potius, præter Aueroin, qui magna come mentatione, confuſo tamen ordine dicit aliquid, faciens ad Aristotex: lis ſententiam, non tamen aperit uerum fenfum littera Ariſtotelis Pro vera igitur Ariſtotelis ſententia, in primisſcire debes, quod mas gnitudines ſeu continue quantitates, &multitudines feu quantitates die ſcrete omnes, uerfantur circa unum genus quanti, omnes enim quane titates funt, quæ antequàm permutentur, proportionalia eſſe debent, ut affeétio hæc,permutata proportionalitas,ſeu permutatim proportios nari, concluditur de quantitatibus proportionalibus, ratio autem qua concluditur hoc; de lineis, fuperficiebus,temporibus, vt corporibus, eadem de numeris concluditur, primum demonftratur propoſitione dea cimafexta quinti Elementorum Euclidis per alia principia, opropos ſitiones diuerſas ab his propoſitionibus &principijs, quibus de nume ris eadem permutata proportio concluditur in feptimo Elementorum, propoſitione decimatertia uel decimaquarta. Ecce igitur alia ratio in li neiseft,quia diuerſa e uniuerſalior, atque per diuerſa media, à ratio: ne qua idem de numeris concluditur, huius enim caufæ in lineis &nume ris ſunt diuerfæ, cauſas has, eas uoco, quæ folum dant propter quid & de his cauſis, que etiam dant eſſe, hoc loco minime intelligas uelim, quia tamen dicebam,quòd non concludebatur hæc affe &tio,permutata pro portio niſi de proportionalibus quantitatibus. Si modofieret queſtio, o cauſainueftigaretur,quare quantitates dicantur proportionales, uel que nam ſint quantitates proportionales, aut quando proportionales funt, Ariſtoteles dicit unam eſſe cauſam in omnibus, cum difcretis tum etiam continuis, quæ eft ex additione fimili utrobique pro cuius notitia mania feſta deffinitio ſexta quinti Elementorum, minime negligenda eſt, oeft Quantitates quedicuntur eſſe fecundum proportionem unam, prima ad fecundam vtertia ad quartam ſunt, quarum prime otertiæ æques multiplices, ſecunde «quarte equemultiplicibus comparat &, fimiles fuerint uel additione, ueldiminutione,uel æqualitate,eodem ordinefum POSTERIORVM ARI T. 10% ple. V'nica eſt héc caufâ, ut quantitates feu difcrete ſint, feu etiam continuefuerint,héc uidelicet fimilis additio,ueldiminutio,feu æquatio inter equemultiplicia,hoc autem eſt.quod ait in textu Ariſtoteles, in quantum uero habens augmentum tale, eadem eft fic in omnibus,hac igi: tur ſpecie additionis est una pér fe caufa in omnibus. Similem autem eſſe colorem colori, & figuram figuræ, aliam efſe alñ æquiuocum enim eft fimile in his. Hic quis dem eſt fortaſsis ſecundum analogiam habere latera, & æquales angulos. Figuræ rectilinee funtfimiles ex prima deffinitione fexti Elemen.quæ habent angulos omnesæquales, es latera illosæquales angulos continentia proportionalia,ſimilitudo igitur,non habet commus nefiguris ocoloribus, niſi nomenclaturam, non autem rem naturam unam, in coloribus enim non concernes, neque latera, neque angulos. Habent autem fe fic propter conſequentiam ad inuicem caufa, & cuius caufa,& cui eſt cauſa, unumquodque tamen accipienti, cuius eſt. cauſa, in pluseſt, utquatuor rectis æquales, qui funt extra plus ſunt, quàm triangulus, aut quadrangulus, in omnibusautem æqualiter. Quæcunque eniinquatuor rectis equales,qui ſuntextra,textus hicdeffétis uus eft, & mutilus apud Ioannem Grammaticum & Argiropilum, ma. gne commentationis textus est clarior, ſed non ad plenumfacit fatis,ut mens Ariſtotelis, fatim appareat. Caufe illationis, ſeu conſequentie, que mutuæ funt, feinuicem inferunt pro cuius exemplo, ad ea, quæ pri mo libro tex. xcvij. di &ta fuere inſpiciendum eſt, oultra aduertas quod uniuerſaliuseft habere omnes angulos extrinfecos æquales quatuor res Ais,quàm eſſe triangulum,uel quadrangulum,aut pentagonum,uel exago num, aut quippiamtale feorfum, fi autem accipiatur fic reétilineum est, igitur omnes anguli quiſunt extra, funt equales quatuor re& is, oecon uerfo, fic infertur, omnes anguli quiſunt extra funt æquales quatuor rectis,igiturid cuiusfunt anguli extrinſeci accepti, rectilineñ eft,quo uet bo, re &tilineum, comprehenduntur nedum triangulus, quadrangulus,co penthagonus, fed omnes figuræ re& ilinec, hoc igitur uult Ariſtoteles quandoinquit, quod habere extrinfecos quatuor re&tis æquales, uniuer Jalius eſt trigono, otetragono, ſi uero hec omuia accipiantur, ut in hoc uerbo, rectilineum, omnes figure rectilineæ comprehenduntur, ajo fic hoc pacto habentſe propter confequentiam,ut ad inuicem caufa «cu us caufa, &cui eft caufa. ilo: CAVSAB IGITVR ILLI SVMMAB SIT ILLS LAVS QY AM LINGVA ET VNIVERSA MENS CONCIPERE POTEST. FINISI RE G I S T R V M.. A B Omnes ſuntduerni. 37 Pac. 4. lined s publicis, à publicis. fac.4.li.6 incumbebam,abſtinere decreui..li.io laberinthos,labyrinthos.li.21 literis litteris ubique. Pd.4 li.3 comode, commode.li. 11 prefertim, præfertim ubique. li.12cales, calles. li. 16 Ariſtoteles, Ariſtotelis. Facis li.24 age, aie. Fac. 6.li. 2 pulcra, pulchra ubique. li, z fpetie, fpecie percubique. li. 32. quinnis, quinis. lin. 3 3 unis,pluribus ubique. Fac. 7 lin.6 neſcit, fcit.Fa.8 li.25 comunem,communem ubique. F2.13 li. 3 precedentis,precedentis ubique F &c.14 li.9 affumens, afſummens ubique. li.16 ſempliciter, fimpliciter. li. 12 equales æqualesubique. Fac.15.li.20 probation, probatione. Fa. 26 li. 26 reſumitur, reſummitur ubique. Fd. 19.3 1 Geotrica, Geomes trica. fac.20 li. o quadrati, quadrari. li. 10 e e Spoffet, effe poffet. li. 20 eeſſ;eſe. Fac.22 li. 10 A poline, A polline. Pac. 23 li. innitide tus,initatus. Fac.30 li. 12 fcit,ſit.fac.31.li.12 atulerunt attulerunt. fa. 3 2.li.27 manus, manu. fac. 34.li.7 ſilicet, ſcilicet ubique. fuc.36.li.4 Textus, Textu. li.25. aget, & get. fac.41. li:3 2 queſtione, queſtione ubique. fac.4.3 li. 25 texu, textu.fa. 48 li.34 prinus, primus. Fac.49 li.16.fue, ſua. fac.49.li.20 induéti, induti. fac. stili. 12recte,recti. fac.53 li. 11 A'riſtelis, Ariſtotelis.fac.53 li. 12 bucis, buccis ubique. li. 6 nltera, altera. fac.54.li.2.ie, git. fac. 57 li. 24 puerost, pueros, li. 25 illeuatus, eleuatus. fac.59 li. 7 olas, ollas. li. 3i ſimilitcr, ſimili ter. li. 3 4.innani,inani ubique. fac. 60 li.z eubi,cubi. li.25. apolini, apollini per,, ubique.lin. 28 pret, preti.fac.61.li.14.palade,pallade, li.24 filicet, ſcilicet ubique.fac.62 li. 23 rrrat, erat. fac.64. lin. 31 nos tid, notitia.fa.67 li.14 prebens,prebens.li.16.profonditate,profundis tate. fac. 68 li. 20 queſitis, quæfitis.fa, 9.li.6.nquiinquit. fac.75 li. s. paret, pares. fac. 76 li.16.notia.notitia. fac. 8 2.li. 13 ingnaros, ignaros.li. 27 preciſiua, preciſiua. li. 31. preedenti,precedentiubique fac. 83. li. 8.ſcienriarum, ſcientiarum. lin. 21.chierurgia, chirurgia. fac. 86 li. 10. neft, ineft.li. 17.angregata, aggregata. fac. 88 lin. 10 pretereundum, prætereundum.fac.91.li. 10.triangu o, triangulo. li.28. redit,reddet.fac.95li,31. eget,eget.fac.96.li.20 fequacea, fequaces. li. 32, balbitiant,balbutiant.fac. 104.11.18.uirum,uitrum. Et fi qua alia (que non funt pauca ) pretermiffa funt, diligens le& tor surum colligat &mufcas abigat.Grice: “The motivation behind my Immanuel Kant Lectures, Aspects of reason and reasoning, was to shed light on what Catena calls ‘demostrazione potetissima’.” Grice: “The Latin language – and the Italian language to some degree – allows for some fine inflections: there’s potius, which when cmbined with esse, gives posse, or potere – the ‘t’ is sometimes inarticulated as a ‘d’, as in ‘poderoso’, which goes for potius. Now, the interesting thing about potius, as Ross, and Mansel, and Aldrich and some Italian semioticians have found out – dealing with Roman law – is that a demonstrazione cn be ‘able’ (potis), in the positive degree. When it becomes comparative, the demonstrazione becomes ‘dimonstratio potior’, i.e. not able, but abler not capable, but capabler. Finally, if it’s the ablest or capablest, it’s demostrazione potissima, or demonstratio potissima. The ‘scuola padovana’ goes on to qualify ‘dimonstrazione potisima’ into two types, ‘dimonstrazione potissima affirmative,’ and ‘dimostrazione potisima negativa’. These are higher types of demonstration than the ‘demonstratio potior affirmativa’ and ‘demonstratio potior negativa’.” Petrus Cathena. Petrus Catena. Pietro Catena. Keywords: logica matematica, logica aritmetica, logica arimmetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catena” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Catone Maggiore – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.

 

Grice e Catone: Minore – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Roma). Filosofo italiano. Marco Porcio Catone -- M. Porcio Catone il Giovane ha come maestri due stoici, Atenodoro Cordilione -- che si reca a visitare a Pergamo perchè lo seguisse a Roma ove lo tenne come ospite -- e Antipatro di Tiro. In Sicilia Catone Uticense conosce l’accademico Filostrato. Nei suoi ultimi giorni in Utica, Catone Uticense ha vicino a sè lo stoico Apollonide e il liceale Demetrio. Catone Uticense e questore e pretore.Catone Uticense i oppose ai triumviri e nella guerra civile si schiera con Pompeo. Dopo Tapso, Catone Uticense si reca a presidiare Utica, ove si uccide.Catone Uticense coltiva con molto successo l’eloquenza e si compiace di introdurre discussioni filosofiche nelle orazioni. Catone Uticense scrive anche giambi. Cicerone chiama Catone Uticense perfettissimo stoico e nel "De finibus" gli assegna l'esposizione delle dottrine etiche di quella scuola di cui aveva studiato intensamente le opere. A statesman and a philosopher, he studied the philosophy of the Porch. He was a pupil of Antipater of Tyre and later befriended Apollonides and Demetrius the Peripatetic, and looked after Athenodorus Cordylion. A staunch republican, he committed suicide when he believed the ultimate victory of Giulio Cesare in the civil war was inevitable. He was much admired by Cicerone and many regarded him as an embodiment of traditional Roman values, just as his great-grandfather, Cato the Censor, had been before him.

 

 

Grice e Cattaneo: l’implicatura conversazionale longobarda -- Vico e la sapienza italiana – il dialetto milanese e il sostratto latino -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I like Cattaneo; in fact, I LOVE Cattaneo; he is so much like me! I taught at Rossall, and he defended the the teaching in what the Italians (and indeed the ‘Dutch’) call the ‘gym’ not just of Grecian and Roman, but Hebrew – He famously claimed to know Hebrew when he interviewed for a job as a librarian! – From a semiotic point of view, he saw semiotics as the phenomenon the philosopher must consider when dealing with communication – he explored semantics, but also ‘sintassi’ in connection with ‘logic,’ and obviously, pragmatics – He was interested in comparing systems of communication in Homo sapiens sapiens and other species – and being an Italian, he was especially interested in how Roman became Latin – he opposed the Tuscany rule!” --  Grice: “Only a philosopher like Cattaneo is can understand Cattaneo’s contributions to semiotics!”. Figlio di Melchiorre, un orefice originario della Val Brembana, e di Maria Antonia Sangiorgio, trascorse gran parte della sua infanzia dividendosi tra la vita cittadina milanese e lunghi e frequenti soggiorni a Casorate, dove era spesso ospite di parenti. Fu proprio durante questi soggiorni che, approfittando della biblioteca del pro-zio, un sacerdote di campagna, si appassioa alla filosofia, soprattutto dei classici della filosofia romana.  Il suo amore per le lettere humanistiche classiche lo indusse a intraprendere gli studi nei seminari di Lecco prima e Monza poi, che avrebbero dovuto portarlo alla carriera ecclesiastica, ma già all'età di diciassette anni, abbandonò il seminario papista per continuare la sua formazione presso il Sant'Alessandro di Milano e in seguito al ginnasio e liceo classic di Porta Nuova dove si diploma. La sua formazione filosofica fu plasmata, durante gli studi superiori, da maestri quali Cristoforis e Gherardini, i quali gli aprirono le porte del mondo filosofico milanese. Grazie a queste opportunità, oltre alla passione per gli studi classici, Cattaneo inizia a nutrire interessi di carattere sstorico. Sempre in questo periodo furono fondamentali per la sua formazione filosofica le letture presso la Biblioteca di Brera e il contatto con il cugino paterno, direttore del gabinetto numismatico, era anche un importante esponente del mondo filosofico milanese. Altro punto chiave per il percorso formativo degli suoi interessi furono la frequentazione assidua dell’Ambrosiana, grazie alla sua parentela materna Sangiorgio con il prefetto Pietro Cighera, e della biblioteca personale dello zio. La Congregazione Municipale di Milano lo assunse come insegnante di latino e poi di umanita nel ginnasio comunale di Santa Marta. Approfondizza le sue frequentazioni con gli filosofi milanesi, entrando a far parte della cerchia di Monti. Di questi stessi anni sono le sue amicizie con Franscini e Montani. Dopo aver iniziato a frequentare le lezioni di Romagnosi nella sua villa, ne divenne presto amico e allievo. Si laurea Pavia con il massimo dei voti.  Risale il suo saggio dato alla stampa e apparso sull’antologia, si tratta di una recensione all'assunto primo del concetto di “giure naturale”. Saggio sulla Storia della Svizzera italiana. Convinto sostenitore di richieste di maggiore autonomia del regno lombardo-veneto dalla corte di Vienna, pensava di puntare su una politica non violenta per avanzare tali richieste. Il motivo del suo rifiuto nei confronti della violenza si può comprendere da questa affermazione poco conosciuta del filosofo milanese che al tempo stesso lascia trasparire cosa egli ne pensasse di un'annessione al Regno di Sardegna. Siamo i più ricchi dell'impero, non vedo perché dovremmo uscirne. Ottenne alcune concessioni dal vice-governatore austriaco, subito annullate dal generale austriaco Radetzky.  Purtroppo l'evoluzione tragica delle Cinque giornate di Milano, degenerate in violenza, fecero capire a Cattaneo che un dialogo tra la nobiltà lombarda e la corte di Vienna e effettivamente difficile, stessa impressione che curiosamente ebbe anche Radetzky che nel periodo del suo governo nel lombardo-veneto punta a cercare il favore del volgo. Cattaneo e i suoi amici parteciparono quindi e contribuirono alle cinque giornate di Milano, senza agire con azioni di violenza gratuita. Ma dopo di esse, rifiuta l'intervento piemontese. Considera il Piemonte meno sviluppato della Lombardia e lontano dall'essere democratico. Presidente del Consiglio di guerra di Milano, che governa insieme al Governo provvisorio fino alla caduta di Milano al ritorno degli austriaci. Dopo una serie di moti popolari, nel frattempo, viene proclamata la repubblica romana, guidata da un triumvirato costituito da Mazzini, Saffi ed Armellini.  In seguito alla conclusione dei moti ripara nella ivizzera e si stabilì a Castagnola, nei pressi di Lugano, nella villa Peri. Qui ebbe modo di stringere maggiormente la sua amicizia con Franscini, potente filosofo ticinese, e di partecipare alla vita filosofica del Cantone e della città. Fonda il liceo di Lugano, che volle fortemente per creare un'istruzione pubblica laica libera dal giogo del papa, al fine di formare una generazione liberale e laica che era alla base dello sviluppo economico del resto della Svizzera. Amico di Manara, anda a Napoli per incontrare Garibaldi, ma poi tornò in Svizzera, perché deluso dall'impossibilità di formare una confederazione di repubbliche. Pur essendo più volte eletto in Italia come deputato del Parlamento dell'Italia unificata, rifiuta sempre di recarsi all'assemblea legislativa per non giurare fedeltà ai Savoia. Viene ricordato per le sue idee federaliste impostate su un forte pensiero liberale e laico. Acquista prospettive ideali vicine al nascente movimento operaio-socialista. Fautore di un sistema politico basato su una confederazione di stati italiani sullo stile della svizzera. Avendo stretto amicizia con filosofi ticinesi come Franscini, ammira nei suoi viaggi l'organizzazione e lo sviluppo economico della Svizzera interna che imputa proprio a questa forma di governo -- è più pragmatico del romantico Mazzini -- è un figlio dell'illuminismo, più legato a Verri che a Rousseau, e in lui è forte la fede nella ragione che si mette al servizio di una vasta opera di rinnovamento della communità. Pur essendogli state dedicate numerose logge massoniche e un monumento realizzato a Milano dal massone Ferrari, una sua lettera a Bozzoni, consente di escludere la sua appartenenza alla massoneria, per sua esplicita dichiarazione, sovente in quel periodo tenuta segreta e negata.  Per lui scienza e giustizia devono guidare il progresso della communità, tramite esse l'uomo ha compreso l'assoluto valore della libertà di pensiero. Il progresso umano non deve essere individuale ma collettivo, comunitario, attraverso un continuo confronto con l’altro. La partecipazione alla vita della communita à è un fattore fondamentale nella formazione dell'individuo. Il progresso può avvenire solo attraverso il confronto collettivo comunitario. Il progresso non deve avvenire per forza o autoritarismo, e, se avviene, avverrà compatibilmente con i tempi: sono gli uomini che scandiscono le tappe del progresso. Nega il concetto di “contratto” comunitario o sociale. Due uomini si sono associati per istinto. La comunita, la diada, la società è un fatto naturale, primitivo, necessario, permanente, universale -- è sempre esistito un federalismo delle intelligenze umane -- è sorto perché è un elemento necessario di due menti individuali.  Pur riconoscendo il valore della singola intelligenza monadica, afferma però, che più scambio, conversazione, dialettica, e confronto ci sono, più la singola intelligenza monadica diventa tollerante dell’altro nella diada. In questo modo anche la società e la comunita diadica e più tollerante. Le due sistemi cognitivi dei individui della diada devono essere sempre aperti, bisogna essere sempre pronti ad analizzare nuove verità.  Così come le due menti si devono federare, lo stesso devono fare gli stati europei che hanno interessi di fondo comuni. Attraverso il federalismo i popoli, le comunita, possono gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica. La communita, il popolo deve tenere le mani sulla propria libertà. La comunita, il popolo non deve delegare la propria libertà ad un popolo lontano dalle proprie esigenze.  La libertà economica è fondamentale per Cattaneo -- è la prosecuzione della libertà di fare -- la libertà è una pianta dalle molte radici. Nessuna di queste radici va tagliata sennò la pianta muore. La libertà economica necessita di uguaglianza di condizioni. La disparità ci saranno ma solo dopo che tutti avranno avuto la possibilità di confrontarsi nella conversazione aperta. E un deciso repubblicano e una volta eletto addirittura rinuncia ad entrare in parlamento rifiutandosi di giurare dinanzi all'autorità e la forza del re. Viene richiamato quale iniziatore della corrente di pensiero federalista in Italia. Fonda il periodico Il Politecnico, rivista che divenne un punto di riferimento dei filosofi lombardi, avente come intento principale l'aggiornamento tecnico e scientifico della cultura nazionale. Guardando all'esempio della Svizzera cantonale (improntata alla democrazia diretta), define il federalismo come "teorica della libertà" in grado di coniugare indipendenza e pace, libertà e unità. Nota al riguardo che abiamo pace vera, quando abiamo gli stati uniti dell’Europa, alla svizzera. Cattaneo e Mazzini videro negli nella Svizzera l’unico esempio di vera attuazione dell'ideale repubblicano. Federalista repubblicano laico di orientamento radicale-anticlericale, fra i padri del Risorgimento, e alieno dall'impegno politico diretto, e punta piuttosto alla trasformazione culturale della società. La rivista Il Politecnico fu per lui il vero parlamento alternativo a quello dei Savoia.  In accordo con il Tuveri redattore del Corriere di Sardegna, intervenne in merito alla questione sarda in chiave autonomistica locale. In tal senso, denuncia l'incapacità ed incuranza del governo centrale nel trovare una nuova destinazione d'uso al mezzo milione di ettari (più di un quinto della superficie dell'isola) che avevano costituito i soppressi demani feudali, sui quali le popolazioni locali esercitavano il diritto di ademprivio, per usi civici.  A lui è dedicato l'omonimo istituto di ricerca. Altre opere: “Scritti filosofici”; “Interdizioni israelitiche”; “Psicologia delle menti associate” – questo saggio – associazione -- non è stata completata e rimane allo stato di frammenti. Il tema de saggio sarebbe dovuto consistere nel cercare un'interpretazione sociale – diadica -- nello sviluppo dell'individuo o monada. La città – cittadino – cittadinanza -- considerata come principio ideale delle istorie italiane; Dell'India antica e moderna; Notizie naturali e civili su la Lombardia Vita di Dante di Cesare Balbo Il Politecnico, Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e coltura sociale e comunitaria; Dell'Insurrezione di Milano e della successiva guerra. Rapporto sulla bonificazione del piano di Magaldino a nome della società promotrice, In Lugano, Tipografia Chiusi. Le cinque giornate di Milano di Carlo Lizzani -- interpretato da Giannini. Cattaneo e le cinque giornate di Milano  Secondo una tesi, non comprovata e non accolta dai dizionari biografici, Cattaneo sarebbe nato a Villastanza, frazione del comune di Parabiago in provincia di Milano. Certamente più antica è la Villa prospiciente la Chiesa, sulla piazza ed attualmente in proprietà del signor Luigi Gagliardi, cui è giunta per eredità dagli avi. Un'insistente tradizione vuole che in questa casa, abbia avuto i natali nientemeno che Carlo Cattaneo. Ma il Cattaneo deve aver passato qui soltanto alcuni anni della sua infanzia, ospite nei mesi estivi della famiglia amica ai propri genitori. Si veda, a tal riguardo, “Storia di Parabiago, vicende e sviluppi dalle origini ad oggi, Unione Tipografica di Milano. (G. Tortora), da Filosofico (Diego Fusaro)  Arch. Rebecca Fant Milano  Bertone, Camagni, Panara, La buone società: Milano industria. Almanacco istorico d'Italia,  1, Battezzatti. Carlo Cattaneo genealogy project, su geni_family_tree. 16 marzo.  Il Famedio, su  del Comune di Milano. Carlo G. 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Carlo CattaneoIl contemporaneo dei posteri a cura del Comitato nazionale per le celebrazioni del bicentenario della nascita (1801-2001 Filosofia Letteratura  Letteratura Politica  Politica Risorgimento  Risorgimento Categorie: Patrioti italiani del XIX secolo Filosofi italiani del XIX secoloPolitici italiani Professore1801 1869 15 giugno 6 febbraio Milano LuganoScrittori italiani del XIX secolo Personalità del Risorgimento Positivisti Insegnanti italiani del XIX secoloFilosofi della politicaRepubblicanesimoLinguisti italianiSepolti nel Cimitero Monumentale di MilanoPolitologi italianiFederalistiDeputati della VII legislatura del Regno di SardegnaDeputati dell'VIII legislatura del Regno d'Italia Deputati della IX legislatura del Regno d'Italia. Linguaggio e ideologia: la posizione di Carlo Cattaneo Pubblicato il 1 novembre 2020 da Comitato di Redazione matania_edoardo_-_ritratto giovanile di carlo cattaneo xilografia imagefullwide Edoardo Matania, Ritratto giovanile di Carlo Cattaneo, xilografia, 1887  di Alessandro Prato  La centralità della figura di Carlo Cattaneo (1801-1869) nell’ambito della cultura italiana della prima metà dell’Ottocento è giustamente ricollegata al suo pensiero liberale e laico, agli studi giuridici che hanno contrassegnato l’intera sua formazione, all’interesse verso l’etnografia e la psicologia sociale [1]. La sua personalità di studioso poliedrico e sfaccettato, fortemente influenzata dalla cultura classicista e dalla filosofia dell’illuminismo, si è concretizzata in varie forme tutte di grande rilevanza: il filosofo, l’economista, il critico, lo storico, lo scrittore politico, il fondatore della rivista Il Politecnico (1839-44) e, non da ultimo, il linguista.  Nel quadro di questa ricerca intellettuale così ricca e variegata un posto rilevante assumono i suoi studi etnico-linguistici di impianto storico-positivo e i suoi progetti politici orientati sul concetto di “nazionalità”. Con questo termine egli si riferiva allo stesso tempo sia alla più alta e unitaria aggregazione culturale, sia alla diretta partecipazione popolare allo sviluppo della società civile.  Proprio sugli interessi linguistici di Cattaneo [2] concentreremo la nostra attenzione mettendo in evidenza l’impulso che egli ha dato alla costruzione dell’italiano come lingua comune che riflette il nesso tra la vitalità della lingua e la vitalità culturale della nazione di cui la lingua stessa è «il vincolo unitario in senso geografico e sociale» (Vitale 1984: 457), perché è da essa che dipende la possibilità per gli italiani di partecipare al progresso della cultura del proprio Paese. La forte coscienza del carattere comune della lingua faceva sì che Cattaneo potesse prescrivere la rinnovabilità della lingua – rifiutando quindi le angustie del purismo, i grecismi e i particolarismi provinciali – e sostenere anche un’opposizione recisa, basata su una coerente visione culturale di impronta europea, sia al neotoscanismo e al fiorentinismo manzoniano, sia all’accademismo della Crusca, in nome di un principio di unità di cultura e di vita civile nazionale.  Questa impostazione spiega poi la sua duplice posizione rispetto ai dialetti: da una parte riproponeva in termini nuovi, non antitetici,  i rapporti fra i dialetti e la lingua, riconoscendo la validità dei dialetti in quanto depositari di un patrimonio storico da preservare, apprezzando i valori riposti nelle culture popolari e sottolineando anche il valore della letteratura dialettale; dall’altra però considerava i dialetti come elementi superabili nel processo dialettico fondativo della lingua comune, essendo consapevole che il coinvolgimento dei parlanti nella lingua comune poteva avvenire nella misura in cui essi riuscivano progressivamente ad abbandonare l’uso esclusivo del dialetto.  Il primo scritto di linguistica di Cattaneo è quello sul Nesso della nazione e della lingua Valacca coll’italiana, pubblicato nel 1837 [3], come parte di un lavoro più generale che riguardava l’influenza delle invasioni barbariche sulla lingua italiana e che non venne mai condotto a termine. Si tratta di uno studio sul passaggio dalla società tardo romana a quella feudale e poi comunale, condotto sulla scia dell’insegnamento di Romagnosi ma con una sostanziale differenza: mentre Romagnosi tendeva a ridurre la storia della civiltà in storia degli istituti giuridici e solo marginalmente si interessava di questioni linguistiche, Cattaneo già in questo primo scritto – il cui carattere storico generale è evidente – metteva al centro della sua trattazione il problema linguistico, considerando la lingua come espressione della nazionalità e testimonianza delle vicende della storia dei popoli.   La funzione sociale e in senso lato politica della lingua viene così enfatizzata con la finalità di studiare le interconnessioni tra le cose, cioè gli anelli che compongono le catene sociali che tengono uniti gli individui in quanto membri di una comunità: le parole, che sono ricche di sottili significati, possono essere comprese pienamente solo se situate in un contesto sociale più ampio di quello del loro svolgersi immediato (Lewis). Il nucleo che tiene insieme le memorie individuali e collettive è insomma costituito dalla lingua e l’esercizio della lingua rafforza tale nucleo dal quale poi dipende in buona parte l’identità di un popolo, la sua coscienza storica. In questo caso Cattaneo non si riferiva alla lingua solo come insieme di regole sintattiche e di etichette fonologiche, ma anche come modalità socialmente e regionalmente differenziata, dunque non la lingua come sistema, bensì come norma e istituzione: «è nelle parole della lingua che si condensano i path, i “sentieri” della memoria propri di ciascuna comunità» (De Mauro 2008: 67).  poliCattaneo mostrò fin dagli anni giovanili grande interesse per l’opera di Vico, anche grazie all’influenza che ebbero su di lui le opere di Romagnosi e Ferrari che la interpretavano alla luce dell’antropologia laica dell’illuminismo. Proprio dal libro di Ferrari, Vico e l’Italie uscito a Parigi nel 1839, egli prese spunto per un saggio Sulla scienza nuova che pubblicò sul Politecnico nello stesso anno. L’interesse per le età primitive e per la vita collettiva dei popoli, il rapporto tra lingua e nazione [5] denotano la presenza di motivi vichiani, con i quali Cattaneo corresse certi eccessi del razionalismo settecentesco, senza mai però rinunciare all’idea di progresso, e allo stesso tempo senza farsi influenzare dagli aspetti teologici della filosofia di Vico. La sua formazione illuminista lo portò a non condividere nessun mito del Risorgimento romantico e spiritualista, a celebrare come maestro Locke contrapponendolo alle fumosità dell’idealismo, ad avversare le posizioni di Rosmini, Gioberti e anche Mazzini.  L’illuminismo nella sua opera «si rivela sotto il carattere di una radicale antimitologia» (Alessio 1957: XIX). Rispetto al Romanticismo la posizione di Cattaneo è contrassegnata da una sostanziale estraneità: giustamente Timpanaro (1969: 233-34) osserva che parlare – come spesso si è fatto – di un romanticismo di Cattaneo può essere giusto se ci riferiamo al romanticismo come una categoria spirituale generale, definendo romantico ogni forma di interesse per le età primitive, per le tradizioni popolari e per il nesso lingua\nazione. Ma questo non ci deve far dimenticare che per il Romanticismo inteso come movimento culturale storicamente definito Cattaneo – come del resto anche Leopardi – mostrò sempre un atteggiamento critico e distante motivato dalla sua avversione al medievalismo, a quella concezione religiosa della vita che i romantici – sia pure con sfumature diverse – condividevano e al modo ambiguo con cui veniva da loro esaltato lo spirito popolare, inteso più come attaccamento alle tradizioni locali e forma di ingenuità, che come aspirazione democratica.  Sui rapporti tra romani e barbari e sulle origini della lingua italiana Cattaneo tornò diverse volte in altri scritti successivi quel primo saggio del 1837 [6], sostenendo la derivazione dell’italiano dal latino volgare e limitando al massimo l’influsso delle lingue dei barbari sulla formazione dell’italiano, tanto più che secondo lui il numero dei barbari dominatori era stato assai esiguo contrariamente a quanto pensavano molti storici. Per valutare al meglio questa continuazione dell’italiano dal latino volgare per Cattaneo era necessario tener conto anche dell’influsso esercitato dalle antiche lingue dei popoli italici conquistati dai romani (etrusco, umbro, celtico ecc..).  Questa è l’importante teoria del sostrato senza la quale è difficile ad esempio spiegare la varietà dei dialetti italiani e che coinvolge soprattutto la fonetica piuttosto che il lessico: non si tratta quindi di una generale mescolanza di lingue, ma della stessa nuova lingua pronunciata in modo diverso in base ad abitudini fonetiche precedenti che rimanevano vive perché radicate dall’uso dei parlanti [7].  Gli studi sull’origine dell’italiano sono importanti anche per spiegare la posizione che Cattaneo ha assunto nel dibattito sulla questione della lingua, che ha avuto del resto una grande rilevanza nella cultura italiana del tempo. Cattaneo, infatti, non vedeva una scissione tra il suo impegno di linguista militante e i suoi studi di linguistica storica, al contrario riteneva lo studio storico delle lingue come la base, e dunque il fondamento, della linguistica normativa [8]. Di fronte al problema di come la lingua italiana avrebbe dovuto essere formata e regolarizzata, egli sosteneva una rigorosa battaglia antitoscana, svolta su due fronti essenziali. Il primo era diretto – riprendendo una polemica che era stata inaugurata dagli illuministi lombardi del Caffè – contro il modello arcaico e passatista dell’Accademia della Crusca, che sosteneva una concezione immobilistica della lingua, estranea a ogni innovazione e fondata sulla netta scissione tra lingua e cultura. Il secondo fronte riguardava il modello certamente più moderno e funzionale del Manzoni, ma che ai suoi occhi risultava troppo accentrato e basato su un concetto di popolarità che egli non condivideva:  «la dottrina della popolarità da cui primamente si presero le mosse, oramai non significa più che si debba agevolare l’intendimento e l’arte della lingua agli indotti: ma bensì che si debbano raccogliere presso uno dei popoli d’Italia le forme che, più domestiche a quello, riescono più oscure a tutti li altri. Si intende un’angusta e inutile popolarità d’origine, non la vasta e benefica popolarità dell’uso e dei frutti» In alternativa, Cattaneo opponeva una forma di lingua che costituisse un punto d’incontro delle varie tradizioni dialettali italiane in maniera da poter svolgere veramente una funzione unificatrice della nazione. Una lingua, allo stesso tempo illustre [9], «insieme austera e moderna» (Timpanaro), adeguata non solo alla cultura letteraria, ma anche a quella scientifica e filosofica. Fin da quel primo articolo, cui abbiamo già fatto riferimento, Cattaneo ha dimostrato inoltre di avere due maggiori capacità rispetto ad altri autori italiani suoi contemporanei. La prima era quella di saper andare al di là dei ristretti confini nazionali, interessandosi ad esempio delle lingue germaniche e del romeno. La seconda consisteva nell’avere ben presente il principio che la comunanza di origine tra due lingue è dimostrata dalla somiglianza delle strutture grammaticali, più che dei vocaboli – principio che ricavava dalla nuova linguistica comparata di Bopp e dei fratelli Schlegel [10] che, proprio in quegli anni, erano diventati per lui importanti interlocutori anche polemici e avevano impresso nuovi sviluppi alle sue idee linguistiche. Nel 1839 Bernardino Biondelli [11] cominciò a pubblicare sul Politecnico una serie di articoli sulla linguistica indeuropea, recensendo anche importanti opere dei comparatisti [12], informando così il pubblico italiano sui risultati scientifici da loro raggiunti. Questi articoli hanno indotto Cattaneo a prendere una posizione critica di fronte a questa corrente di studi e a scrivere il saggio Sul principio istorico delle lingue europee [13].  In questo saggio Cattaneo criticava l’idea che dall’affinità delle lingue fosse possibile ricavare una comunanza d’origine dei popoli, perché era invece convinto che non ci fosse una connessione essenziale tra affinità linguistica e affinità razziale e che la linguistica e l’antropologia andassero attentamente distinte; inoltre credeva che si fosse troppo insistito sull’unità dell’indoeuropeo, trascurando le differenze tra le varie lingue dovute al sostrato. Guardava con sospetto l’esaltazione orientalizzante che costituiva forse la conseguenza più effimera e fuorviante del comparatismo indoeuropeo (Marazzini 1988: 406). Per Friedrich Schlegel [14] il sostrato svolgeva soprattutto una funzione negativa corrompendo la perfetta forma del sanscrito; per Cattaneo, al contrario, la commistione del sanscrito con le lingue europee primitive ha dato luogo a un innesto fecondo perché il sostrato «rappresentava appunto il principio della varietà linguistica, non cancellata dall’azione unificatrice esercitata dal popolo colonizzatore» (Timpanaro 1969: 266). La parentela linguistica non è quindi nel sistema di Cattaneo identità di origine, bensì il risultato di un lento e progressivo avvicinamento delle popolazioni, dovuto all’istaurarsi fra di esse di rapporti politici, economici e culturali. Non si tratta, quindi, di un punto di partenza, ma di arrivo:  «Le lingue vive d’Europa non sono le divergenti emanazioni d’una primitiva lingua comune, che tende alla pluralità e alla dissoluzione; ma sono bensì l’innesto d’una lingua commune sopra i selvatici arbusti delle lingue aborigene, e tende all’associazione e all’unità. Se una volta in diverse parti d’Italia e delle isole si parlò il fenicio, il greco, l’osco, l’umbro, l’etrusco, il celtico, il carnico, e Dio sa quanti altri strani linguaggi, come tuttora avviene nella Caucasia, la sovraposizione d’una lingua commune avvicinò tanto tra loro i nostri vulghi, che ora agevolmente s’intendono tra loro. Il tempo che cangiò le lingue discordandi in dialetti d’una lingua, corrode ora sempre più le differenze dei dialetti; e lo sviluppo delle strade e la generale educazione promovono sempre più l’unificazione dei popoli.  Non è che una lingua madre si scomponga in molte figlie; ma bensì più lingue affatto diverse, assimilandosi ad una sola, divengono affini con essa e fra loro; e per poco che l’opera si continui, o a più riprese si rinovi, divengono suoi dialetti e infine mettono foce commune in lei» (Cattaneo 1957: 450). Sulla base di queste considerazioni, Cattaneo, nell’ambito dell’acceso dibattito sulla monogenesi o poligenesi del linguaggio, sosteneva una posizione particolare: rifiutava evidentemente il primo, ma allo stesso tempo era anche distante da quel particolare tipo di poligenismo sostenuto da Schlegel, che consisteva nel separare nettamente pochi tipi linguistici originali dai quali sarebbero derivate tante lingue cosiddette “figlie”. Per lui invece esistevano tante lingue primitive originarie che si erano ridotte di numero, via via che le tribù avevano cominciato a unirsi in aggregati più ampi. Non esistevano quindi – come per Schlegel – delle lingue perfette fin dall’inizio (le lingue flessive); tutte le lingue avevano origini umili o, come scriveva lui stesso, “ferine”. I modelli di questo modo di intendere il poligenismo linguistico sono Epicuro, Vico e Cesarotti [15]. Sempre contro Schlegel, rivendicava la giustezza della teoria agglutinante secondo la quale anche le forme flessionali più perfette e sofisticate derivavano dall’agglutinazione di monosillabi che all’origine avevano una funzione autonoma. E in quel primo articolo del 1837 osservava infatti che le declinazioni della lingua latina e greca potevano derivare da semplici nomi con un articolo affisso (Cattaneo 1948: I, 228).  Psicologia delle menti associate carlocattaneoeditoririuniti La polemica con Schlegel riguardava anche la questione dell’origine del linguaggio: mentre per il primo la flessione indoeuropea era dovuta sostanzialmente a un intervento divino, per Cattaneo, l’origine del linguaggio non poteva che essere umana, e su questo avrebbe mantenuto una posizione coerente anche negli scritti successivi come le Lezioni di ideologia del 1862, dove, ad esempio, confutava il sofisma di Bonald che negava all’uomo la facoltà di costruirsi un linguaggio. Su questo tema come per tanti altri Cattaneo è vicino alla grande tradizione della linguistica illuminista che con Locke e Herder aveva respinto recisamente la concezione delle idee innate e l’origine divina del linguaggio (Prato) ed è del tutto immune dalla concezione misticheggiante della linguistica tanto cara ai romantici.  Proprio nel Saggio sul principio istorico delle lingue europee, Cattaneo si proponeva di verificare il rapporto tra fenomeni linguistici e tradizioni culturali, considerando la ricerca linguistica in stretta correlazione con una riflessione propriamente filosofica. L’analisi dei fenomeni linguistici non si riduceva per lui solo a una raccolta estemporanea di dati ma si traduceva in una vera e propria scienza sociale. Alla filosofia analitica degli Idèologues – che era rappresentata per gli scrittori italiani soprattutto da Condillac e Tracy – egli riconosceva senz’altro il merito di aver esaminato con acume e precisione i problemi del linguaggio, inserendoli in una prospettiva il più possibile concreta e razionale. Allo stesso tempo era tuttavia consapevole anche dei suoi limiti, che consistono nell’aver indicato come proprio oggetto di riflessione una figura di uomo dai caratteri astratti e indipendente dal rapporto con i suoi simili. Proprio «la famosa ipotesi della ‘statua’ condillachiana gli appariva emblematica di un concetto destorificato della natura umana» (Gensini 1993: 238). Non a caso alle conferenze tenute a partire dal 1859 presso l’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Cattaneo volle dare il titolo di Psicologia delle menti associate [16], dove il termine di “psicologia sociale” è inteso appunto in senso antropologico sia come riflessione sull’uomo a partire dai rapporti che lo legano agli altri suoi simili, sia come ricostruzione delle mentalità e dei sistemi simbolici quale risultato di mediazioni sociali. In queste lezioni Cattaneo osservava che il lievito che fa fermentare le idee non si svolge in una mente sola perché «la corrente del pensiero vuole una pila elettrica di più cuori e di più intelletti» (Cattaneo 1957: 277-78).  La genesi delle idee, che Locke aveva dimostrato scaturire dal linguaggio, in questa nuova prospettiva aperta da Cattaneo, non può che radicarsi nella pratica sociale: «Nel commercio degli intelletti, promosso da felici condizioni, si svolgono le idee, come nel mondo materiale, al contatto delli elementi, si svolgono le correnti elettriche e le chimiche affinità» (Cattaneo 1960: II, 16). Il linguaggio stesso è la società (Cattaneo 1957: 316), ed è proprio su questo terreno che l’ideologia – ovvero l’analisi delle idee – iincontra la linguistica. Ideologia è del resto il titolo di una parte del corso di Filosofia che Cattaneo aveva tenuto presso il liceo di Lugano.  Non a caso aveva scelto questo titolo se consideriamo che per la sua chiara derivazione illuminista, l’ideologia [17] rappresentava la sola reale forma di opposizione al conformismo della cultura del suo tempo perché l’ideologia era «un’arma efficace per una filosofia democratica, atta ad opporsi alla marea montante della filosofia restaurata, allo spiritualismo eclettico in Francia, all’ontologismo cattolico in Italia» (Formigari 1990: 153). I principi che contrassegnano l’intera ricerca di Cattaneo e che spaziano dal riconoscimento del valore del pensiero scientifico, alla negazione della metafisica e alla difesa della laicità, la rendono insomma pienamente aderente ai problemi e alle esigenze del nostro tempo, oltre che aperta a ulteriori forme di sviluppo e approfondimento.    Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020  Note [1] Per un ritratto complessivo di Cattaneo e dei rapporti con i suoi contemporanei rimandiamo a Alessio (1957) e Mazzali (1990). [2] Studiati in particolare da Timpanaro (1969: 229-83). Si veda anche Gensini (1993: 237-40), Benincà (1994: 576-80), Geymonat (2018). [3] Negli Annali universali di statistica, si leggono ora in Cattaneo (1948: I, 209-37). [4] Si trova in Cattaneo (1957: 39-75).  [5] Anche per Giordani la lingua è il vincolo di una comunità che si identifica con la nazione (Cecioni 1977: 59), [6] Per esempio nella recensione alla Vita di Dante di Balbo pubblicata sempre sul Politecnico del 1839 (ora in Cattaneo 1957: 380-395) di cui viene criticato il contenuto religioso e metafisico e la difesa del neo-guelfismo. [7] Questa teoria del sostrato come è noto verrà ripresa da Ascoli nei suoi celebri scritti linguistici. Sul rapporto tra Cattaneo e Ascoli rimandiamo alle dense pagine di Timpanaro (1969: 284 sgg) e Timpanaro (2005: 237-51). [8] Qui lo scrittore lombardo riprendeva un’idea ben radicata nella cultura italiana e che risaliva al De vulgari eloquentia di Dante. [9] Su questo si può cogliere l’eco della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca (1817-1822) del Monti che Cattaneo del resto aveva letto fin da giovanissimo con passione e interesse. [10] Sulla linguistica dei comparatisti si veda Morpurgo Davies (1994). [11] Sulla funzione positiva svolta da Biondelli per lo sviluppo degli studi linguistici in Italia vedi De Mauro (1980: 49-52). [12] Per esempio la Deutsche Grammatik di Jacob Grimm. [13] Pubblicato sul Politecnico nel 1841 è certamente il suo scritto linguistico-etnografico più ampio e originale. [14] Qui Cattaneo fa riferimento al libro: Uber die Sprache und Weisheit der Indier del 1808. Sulle idee filosofico-linguistiche di Schlegel vedi Timpanaro (2005: 17-56). [15] In particolare su Cesarotti e sul suo Saggio sulla filosofia delle lingue (1800) che è stato per Cattaneo una lettura importante vedi Gensini (2020). [16] Pubblicate postume da Bertani nella raccolta di Opere edite e inedite in 7 volumi usciti tra il 1881 e il 1892, si leggono ora in Cattaneo (1957: 270-326). [17] Ideologia è del resto il titolo stesso di una parte del corso di Filosofia che aveva tenuto presso il liceo di Lugano: si trova ora in Cattaneo (1960: III, 3-204). Riferimenti bibliografici Alessio, F. (1957), “Cattaneo illuminista”, in Cattaneo (1957): XI-LI. Benincà, P. (1994), “Linguistica e dialettologia italiana”, in Lepschy (1994): 525-625. Bobbio, N. (1960), “Introduzione”, in C. Cattaneo, Scritti filosofici, Firenze, La Monnier, I: V-LXIX. Cattaneo, C. (1948), Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, a cura di A. Bertani, Firenze, Le Monnier. Cattaneo, C. (1957), Scritti filosofici, letterari e vari, a cura di F. Alessio, Firenze, Sansoni. Cattaneo, C. (1960), Scritti filosofici, a cura di N. Bobbio, Firenze, Le Monnier. Cattaneo, C. (1990), Scritti su Milano e la Lombardia, a cura di E. Mazzali, Milano, Rizzoli. Cecioni, G. (1977), Lingua e cultura nel pensiero di Pietro Giordani, Roma, Bulzoni. De Mauro, T. 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Indice del saggio su Cattaneo linguista – recensione Resurggimento.  Anche  il  latino  fu  lingua  di  tutta  Italia,  ma  gl'Italici  non  erano  tulli  romani  e  i  dialetti  ne  ftmno  testimonianza.  La  serbata  integrità  nativa  delle  molteplici  favelle  del  Caucaso di  fronte  alle  indo-perse  riflette  l'imagine  di  quelle  che  popolavano  l'Italia  innanzi  che  la  coprisse  lo  strato  Ialino.  Ne  invasioni  armale,    importazioni  di  civiltà,  ne  so-  vrapposizioni di  lingue  alterarono  i  confini  etnografici  dei  Tusci,  dei  Liguri,  dei  Cisalpini,  dei  Veneti  e  d'ogni  altra . Non  cono-  sciamo ancora  le  svariate  forme  naturali  del  nostro  paese,  e  nemmeno  i  nostri  dialetti  e  le  riposte  loro  derivazioni;  non  conosciamo  i  secreti  nessi  che  collegano  questa  lin-  gua nostra  alla  civiltà  precoce  della  Persia  e  dell'  India,  e  alla  lunga  barbarie  dell'  antico  settentrione. La  filologia  è  una  scienza  nuova  che  classifica  le  duemila lingue  e  dialetti  morti  e  vivi  in  famiglie,  come  si  co-  stuma nelle  faune  e  nelle  flore.  La  scienza  delle  lingue  è  luce  aggiunta  alla  scienza  dei  luoghi,  dei  tempi  e  dei  monumen-  ti, a  rischiarare  il  buio  dell'istoria.  Per  lei  si  scoprono  le  cause  onde  i  popoli  comunicarono  tra  loro  con  certi  modi  peculiari  i  propri  pensieri;  per  lei  si  rileva,  da  lieve  indizio  di  scrittura  salvata,  una  gente  ignota  alla  storia;  si  sorpren-  dono sorelle  nazioni  che  l' idioma  apparentemente  diverso  inimicò,  e  in  un  dialetto  si  palesano  segni  di  origine  disfor-  me e  di  antichi  odii  in  nazione  stimata  omogenea:  per  lei  si  assiste  al  ritorno  su  straniere  labbra  d'un  vocabolo  esulato dalla  patria  in  età  remola;  per  lei  si  rintracciano  in  una  valle  le  reliquia  di  lingua  fuggita  dalla  pianura  negli  attriti  del  commercio  o  della  conquista:  per  lei  contemplasi  il  tran-  sito d'una  favella  celebrala  da  una  letteratura,  e  l'ascen-  sione d'oscuro  dialetto  a  dignità  di  idioma  illustre  in  com-  pagnia della  fortuna  di  un  popolo;  per  lei  rilucono  le  alfinità  e  le  diversità  delle  lingue  tutte. La  nostra  lingua  ha  una  nota  affinità  primamente  col  latino  e  colle  altre  lingue  dal  latino  derivate:  fran-  cese, spagnuola,  portoghese  e  rumena  o  moldo-valacca.  Queste  sei  lingue  viventi  e  li  innumerevoli  loro  dialetti  si  classificano  dai  linguisti  sotto  il  nome  commune  di  lingue  romane  o  romanze  o  latine;  come  una  famiglia. si  deduce  che  i  dialetti  e  pronuncie  provinciali  sono  fili  conduttori  alle  origini  prime:  si  deduce  che  la  varietà dei  dialetti,  delle  pronuncie  e  dell'aspetto  delle  genti  moderne  trova  esplicazione  e  commento  nella  varietà  delle  stirpi  e  delle  lingue  primitive:  si  deduce  che  l'  azione  cemen-  tatrice  delle  lingue  s*  è  compiuta  soltanto  sovra  popoli  bar-  bari, e  tali  erano  gU  europei  alla  comparizione  delle  caste  asiatiche;  che  avendo  raggiunto  un  certo  grado  di  coltura,  ì  Baschi  resistettero  alla  lingua  latina Quando  noi  troviamo  nel  tedesco  e  nel  gotico  la  radice  della  parola  latina  ^iraesagus,  dobbia-  mo indurre  che  qualche  antichissima  relazione  vi  fu  tra  li  avi  dei  Romani  e  li  avi  de' Goti.  Nello  stesso  modo  in  cui  possiamo  riferire  l'italiano,  il  francese  e  lo  spagnolo  alla  commune  loro  madre,  la  lingua  latina,  possiamo  ri-  ferire il  latino,,  il  greco,  il  sanscrito,  il  zendo  ad  una  commune  origine  celata  nella  notte  dei  tempi. Se  si  paragona  il  latino  alle  lingue  sue  figlie,  si  trova  che  queste,  cioè  le  lingue  moderne,  hanno  maggior  copia  di  voci  astratte.  Il  latino  ha  la  voce  fortis  e  non  ha  la  voce  forza;  da  vir  abbiamo  il  latino  virtus,  l'italiano  e  il  francese  virtù,  vertu;  ma  l'italiano   il  francese  hanno  inoltre  le  parole  derivate  virtuoso,  virtuosamente,  vertueux,  vertueusement;  e  il  francese  ha  inoltre  il  verbo  évei^tuer.  Le  voci  italiane  ente,  entità,  essenza,  essenziale,  essenzialmente,  se  vengono  ricondotte  alla  forma  latina,  ens,  entitas,  essentia, essentialis, essentialiter  non  si  trovano  mai  nelli  scrittori  antichi ,  ma  solo  in  quelli  dei  bassi  tempi. l'inglese,  che  per  una  metà  de' suoi  vocaboli  deriva  dall'antica  lingua  anglo-  sassone e  per  l'altra  metà  dal  latino. Nelle  lingue  indo-europee  la  radice  è  quasi  sempre  unisillaba.  Le  poche  radici  bisillabe  come  aìiima,  columna,  vidua,  susurrus,  titubare,  vacillare,  oscillare tentennare,  dondolare  si  possono  considerare  o  come  raddoppiamenti  o  come  derivazioni  di  voci  semplici  più  antiche. In  latino  un  verbo  semplice  p.  e.  mitto,  fero,  traho  colle  sue  inflessioni  di  persona,  di  numero,  di  tempo,  di  modo,  e  coi  diversi  casi  de' suoi    participj. produce  nella  sola  forma  attiva ,  circa  un  centinaio    inflessioni  {mitto,  mittis,  mittens,  missuriis  etc.  etc.)  coir  aggìuiìta  della  forma  passiva  (mittor,  mitteris,  missus,  mittendus)  e  dei  nomi  ed  aggettivi  verbali  {missio,  missilis y missivus)  ne  forma  forse duecento.  Questo  numero  può  ripetersi  tante  volte  quanti  sono  i  verbi  derivati  e  composti,  p.  e.  mittito,  admitto,  amitto ,  eie.  epperò  dalla  sola  radice  unisillaba  di  mitt-o  possono  diramarsi  tremila  suoni  piìi  o  meno  diversi,  ciascuno  dei  quali  esprime  un'idea  in  qualche  grado  modificata  e  distinta  p.  e.  nelle  tre  voci  mitto,  misi,  mitfam,  vi  è  per  lo  meno  la  dilFerenza  del  tempo,  nelle  voci  missuris  e  mittendis  sono  espresse  tutte  quelle  idee  che  in  italiano  significhiamo  con  dire:  a  quelli  che  manderanno ,  ovvero  a  quelli  che  devono  essere  man*  dati.  Cosicché  qui  tre  sillabe  latine  equivalgono  da  sette  a  tredici  sillabe  italiane.   6.  Codesti  tremila  vocaboli  nelT  idioma  primitivo  furono  rappresentati  da  una  sola  sillaba:  mit.  È  come  la  quercia  rappresentata  da  una  ghianda.  Qualunque  sia  dunque  la  dovizia  delle  forme  nelle  lingue  derivate, abbiamo  questa  terza  legge  di  linguistica  che  le  lingue  veramente  primitive  hanno  potuto  consistere  in  poche  centinaia  di  radici  monosillabe. È   un  fatto  lingui-  stico che  le   lingue  madri,    nel  propagarsi  di  paese  in  paese  e  nel  venir  adottate  da  numerose  nazioni,  hnnno  perduto  gran  numero  delle  loro  inflessioni.  L'italiano  paragonato  al  latino,  non  ha  più  i  verbi  passivi,    i  participi  futuri,    i  partecipali,    il    genere   neutro,  e  le  declinazioni  dei  nomi  sono  ridutte  a  due  sole  de-  sinenze, singolare  e  plurale.  Per  rilevare  le  affinità  non  basta  paragonare  isolatamente  una  lingua  con  un'altra,  ma  è  necessario  ravvicinarla  a  tutta  la  serie  delle  lingue  della  stessa  fa-  miglia. A  prima  vista  non  appare  similitudine  tra  il  vo-  cabolo dormire  e  il  tedesco  traumen,  che  vuol  dire  so-  gnare; ma  appare  di  più  nelP  inglese  dream,  che  ha  le  stesse  consonanti  del  latino  e  lo  stesso  senso  del  tedesco;  inoltre  nelle  due  voci  latine  somniis  e  somnium,  e  nelle  italiane  sonno  e  sogno  si  trova  il  doppio  senso  di  dor-  mire e  sognare. La  pronuncia  dei  |)opoli  proviene  dalle  loro  ori-  gini, ossia  dal  genio  imitativo  più  o  meno  delicato,  dalli  organi  vocali  più  o  meno  flessibili,  e  dalle  abitudini  pas-  sate  in  tradizione.  E  più  facile  mutare  il  vocabolario  d'un  popolo,  dargli  una  nuova  lingua,  che  non  mutare  la  sua  pronuncia.  Questa  sopravvive  nei  dialetti,  anche  dopo  che  le  lingue  ^ono  mutate.  Ancora  oggidì  la  pro-  nuncia e  il  dialetto  segnano  in  Italia  precisamente  i  confini  antichi  della  Gallia  Cisalpina  e  della  Carnia  con  la  Venezia ,  la  Toscana  e  la  Liguria. In  Italia  due  soli  dialetti  hanno  aspirazione:  il  toscano  e  il  bergamasco.  I  due  dialetti  più  dolci  sono  il  veneto  e  il  siciliano,  alle  opposte  estre-  mità dell'Italia. Vico  rinvenne  nelle  radici  latine  le  vesti-jia  d'una  antica  sapienza.  \fa  essendo  a  quei  tempi  ignota  ancora  la  scienza  linguistica  e  non  osservata  la  consonanza  del  latino  col  zendo  e  col  sanscrito,  egli  attribuì  quella  sa-  pienza alli  aborigeni  dell'Italia,  e  perciò  scrisse  il  li-  bro De  antiqiiissima  Italorum  sapientia  et  latinae  Un-  gnae  originibus  emenda,     Carlo Cattaneo. Keywords: cinque giornate, community, communita, diada, monada, associazione, contratto sociale, conversazione, psicologia filosofica, psicologia, sociologia filosofica, ego e alter ego, logica e linguaggio, il latino, l’italiano di lombardia, il natale di Cattaneo – regione Lombardia – provincia -- – Milano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cattaneo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I love Cattaneo, but then you would, wouldn’t you – He reminds me of H. L. A. Hart, and then *I* am reminded that Cattaneo translated Hart to Italian as a pastime! What I like about Cattaneo is that instead of focusing on “Roman law” and Cicero – he focuses on Pinocchio!”. Si laurea a Milano sotto Treves. Su consiglio di Treves e Bobbio ha soggiornato al St. Antony's, criticando Hart, professore di Giurisprudenza, di cui su suggerimento di Bobbio e Entreves ha tradotto “Il concetto di legge”. Insegna a Ferrara, Milano, Sassari, Treviso. Analizza l'evoluzione storica delle teorie della pena e le opere dei grandi giuristi italiani. Membro della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica. Altre opere: Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto” (Milano); “Il positivismo giuridico” (Milano); “Il partito politico nel pensiero dell'Illuminismo e della Rivoluzione” (Milano); “Le dottrine politiche” (Milano); Illuminismo e legislazione” (Milano); “Filosofia della Rivoluzione” (Milano); “Diritto liberale” “Giurisprudenza liberale” (Ferrara); “Filosofia del diritto, Ferrara); La filosofia della pena” (Ferrara); Delitto e pena” (Milano); Il problema filosofico della pena, Ferrara); Stato di diritto e stato totalitario, Ferrara); Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano); “Metafisica del diritto e ragione pura, studi sul platonismo giuridico di Kant” (Milano); “Goldoni ed Manzoni: illuminismo e diritto penale, Milano); “Carrara e la filosofia del diritto penale, Torino); “Libertà e Virtù” (Milano); Pena, diritto e dignità umana” (Torino); Diritto e Stato nella filosofia della rivoluzione” (Milano); Suggestioni penalistiche”; “Persona e Stato di diritto Discorsi alla nazione europea, Torino); Critica della giustizia, Pisa); L'umanesimo giuridico penale” (Pisa); Pena di morte e civiltà del diritto” (Milano); Terrorismo ed arbitrio, Il problema giuridico del totalitarismo, Padova); Il liberalismo penale di Montesquieu” (Napoli); Dignità umana e pace perpetua, Kant e la critica della politica” (Padova); “L’idolatria sociale (Napoli); “L’umanesimo giuridico, Napoli); Kant e la filosofia del diritto” (Napoli); Diritto e forza. Un delicato rapporto, Padova); Giusnaturalismo e dignità umana, Napoli); Dotta ignoranza e umanesimo” (Napoli); La radice dell'Europa: la ragione, uno studio filosofico-giuridico (Napoli). “Analisi del linguaggio e scienza politica” (Filosofia del diritto); “Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto, Milano, Istituto editoriale Cisalpino); “Il positivismo giuridico e la separazione tra il diritto e la morale” (Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Milano. Richiamo a istituti di diritto privato per la risoluzione del problema dell'origine dello stato, in “La norma giuridica: diritto pubblico e diritto privato, Atti del IV Congresso di Filosofia del diritto, Pavia, Milano, Giuffre); “Il realismo giuridico” in »Rivista di Diritto Civile”; Alcune osservazioni sui concetto di giustizia in Hobbes, in Il problema della giustizia: diritto ed economia, diritto e politica, diritto e logica, Atti del V Congresso Nazionale di Filosofia del Diritto, Roma (Milano, Giuffre); “Hobbes e il pensiero democratico nella Rivoluzione inglese e nella Rivoluzione francese, in »Rivista critica di storia della filosofia”; “Il positivismo giuridico inglese: Hobbes, Bentham, Austin, Milano, Giuffre); Il partito politico nel pensiero dell'illuminismo e della Rivoluzione francese, Milano, Giuffre); Le dottrine politiche di Montesquieu e di Rousseau, Milano, La Goliardica Stampa); Il positivismo giuridico, in »Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto«, “Il concetto di diritto” (Milano, Einaudi); “Considerazioni sul ‘significato’ della proposizione, ‘I giudice crea diritto«, in »Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto«; Illuminismo e legislazione, Milano, Edizioni di Comunita); Leggi penali e liberta del cittadino, in »Comunita«, Montesquieu, Rousseau e la Rivoluzione francese, Milano, La Goliardica); dispense del corso di Storia delle dottrine politiche, Milano); Quattro Punti, in »Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto«, Liberta e virtu nel pensiero politico di Robespierre, Milano-Varese, Istituto Editoriale Cisalpino); Considerazioni sull'idea di repubblica federale nell'illuminismo francese, in »Studi Sassaresi”,Liberta e virtu nel pensiero politico di Robespierre, Milano, Istituto Editoriale Cisalpino); Filosofo e giurista liberale, Milano, Edizioni di Comunita); Filosofia politica e Filosofia della pena, in Tradizione e novita della filosofia della politica, Atti del Primo Simposio di Filosofia della Politica, Bari, Bari, Laterza); Pigliaru: La figura e l'opera, testo della commemorazione tenuta i125 giugno 1969 nell' Aula Magna dell'U niversita di Sassari, in »Studi sassaresi«, Milano); Le elezioni e il liberalismo. Autonomia dell'Universita e neo-corporativismo, in »La Rassegna Pugliese«, Anti-Hobbes, ovvero i limiti del potere supremo e il diritto co-attivo dei cittadini contro il sovrano (Milano, Giuffre); Anti-Hobbes o il diritto co-attivo dei cittadini --; Considerazioni suI diritto di resistenza e liberalismo, in »Studi Sassaresi«, Ill, Autonomia e diritto di resistenza, Milano); La dottrina penale nella filosofia giuridica del criticismo, in Materiali per una Storia della Cultura Giuridica, ICorso di filosofia del diritto, Ferrara, Editrice Universitaria); La filosofia della pena nei secoli XVII e XVII: corso di filosofia del diritto, Ferrara, De Salvia). Discutendo giurisprudenza con Treves, pone il problema che sarebbe stato al centro di tutta la sua vita di uomo impegnato nello studio, nell'insegnamento, nella vita civile. Interrogandosi suI rapporto fra “rivoluzione” e “ordine giuridico”, vale a dire fra “fatto” (de facto) e “diritto” (de iure), giunge alIa conclusione che da un punto di vista epistemico-doxastico-giudicativo-conoscitivo-descrittivo non e possibile distinguere tra ordine giuridico e regime di violenza, autoritatismo, perche il diritto non e giusto per sua intrinseca natura, ma soltanto se e concretamente rivolto ad attuare il valore del giusto e rispetto della persona umana. Il rapporto fra forza autoritaria e la forza della legge, che da il  titolo a uno suo saggio, e la relazione fra diritto o gius come valore, costituisce infatti la questione su cui non cessa mai di interrogarsi, nella prospettiva del fondamento metafisico (escatologico, propriamente) del concetto di ‘giure’ non e riducibile alla volizione o ragione pratica del legislatore propriamente adgiudicato (alla Aristotele). In questo modo, Cattaneo indica la ricerca del giusto come compito specifico della filosofia del diritto e  pre-annuncia il suo intero percorso filosofico caratterizzato da un assunto basilaro. La filosofia, come assere Socrate, ha il suo carattere precipuo nel porre un problema piuttosto che nel risolverlo o dissolverlo, e, come nel mito platonico della caverna, l’analisi concettuale si muove suI piano della trascendenza escatologica, diverso e superiore a quello della realta empirica o naturale. Anche la filosofia giuridica, in quanto filosofia, e aperta alla escatologia metafisica e, avendo come base la conoscenza del codice u ordine del diritto romano-italiano *positivo*, pone il problema della sua valutazione escatologica alIa luce del valore della dignita kantiana umana e del concetto di un “stato di diritto”. Compito del filosofo non e dunque *descrivere* il diritto positive fattico empirico esistente, ma conoscerlo per condurne una meta-analisi critica al fine del suo adeguamento al modello ideale platonico socratico di giustizia contro il neo-trasimaco di Hart. Il problema giuridico della rivoluzione.  Il concetto di rivoluzione nella scienza e nel diritto, Milano-Varese. Neokantismo nella filosofia del diritto di Treves, in Diritto, cultura e liberta. Diritto e forza. Un delicato rapporto, Paova. La filosofia del diritto: il problema della sua identita, in Filosofia del diritto. Identita scientifica e didattica oggi, Cattania. IL tema del rapporto tra Diritto e Letteratura è stato più volte trattato dal Prof. Mario Cattaneo che ha pubblicato i seguenti saggi: ”Riflessioni sul <De Monarchia> di Dante Alighieri” del 1978, “L’Illuminismo giuridico di Alessandro Manzoni” pubblicato nel 1985 nelle Memorie del Seminario della Facoltà di Magistero di Sassari., “Carlo Goldoni e Alessandro Manzoni. illuminismo e diritto penale” nel 1987 e “Suggestioni penalistiche in testi letterari “ del 1992. Nella Introduzione del volume su Goldoni e Manzoni rileva che i rapporti tra diritto e letteratura e la discussione di problemi giuridici in opere letterarie non sono stati in generale molto studiati; non mancano tuttavia alcune ricerche concernenti soprattutto il diritto nel teatro  Sono stati compiuti degli studi sul significato giuridico di alcune opere di Shakespeare da R. von Jhering (1818-1892)  e J. Kohler ed è stato esaminato il pensiero di alcuni poeti tra cui in Italia soprattutto Dante del quale si sono occupati Carrara, Vaturi , Vecchio, Mossini  e lo stesso Cattaneo.  Vi sono importanti opere della letteratura europea che hanno affrontato problemi giuridici rilevanti come il “Michael Kolhaas” pubblicato nel 1810 da H. von  Kleist  e “Delitto e Castigo” di Dostoevskijj,l’ Autore rileva peraltro che la presenza di temi giuridici nella letteratura è particolarmente rilevante nell’illuminismo data la sensibilità civile di questo movimento. Il volume è dedicato all’esame degli aspetti giuridici – soprattutto di diritto penale – di due grandi autori italiani: Goldoni ed Manzoni.  Cattaneo rileva l’accostamento tra i due grandi letterati deriva da alcuni elementi di contatto: Goldoni passò l’ultima parte della vita in Francia e vide il declino dell’ancien regime francese e Manzoni trascorse parte della giovinezza in Francia nel periodo napoleonico. Goldoni visse gli ultimi anni della sua vita a Parigi nei primi anni della Rivoluzione francese ma non sappiamo come abbia seguito le fasi della stessa mentre Manzoni li seguì e scrisse l’ode “Del trionfo della libertà” che manifesta le opinioni del suo Autore e verso la conclusione della vita scrisse “La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859” un saggio che fu pubblicato postumo e che, secondo Cattaneo,  è ispirato a sentimenti di libertà  i due scrittori  hanno un orientamento differente Goldoni, bonario ed ottimista,  esamina gli aspetti gioiosi della vita pur con una punta di satira e critica della società mentre Manzoni esamina gli aspetti essenziali e drammatici  della esistenza umana, sotto il profilo religioso Goldoni risulta tiepido ed alquanto indifferente mentre Manzoni nelle sue opere affronta il problema religioso.  Cattaneo evidenzia che l’accostamento tra i due letterati è già stata istituita da alcuni studiosi e cita l’opinione espressa da Ferdinando Galanti  nel 1973 che evidenzia che Goldoni diede all’ Italia la nuova commedia, il ritratto della vita sulla scena, Manzoni è importante per la nuova tragedia ed il romanzo lasciando un popolo di caratteri originali, vivi e che rimarranno nella memoria di tutti come figure casalinghe, parlanti, che saranno ereditate di generazione in generazione quale caro tesoro di famiglia. Galanti ritiene che Manzoni abbia continuato, nel cammino della verità, l’opera di Goldoni.  Questo giudizio è ripreso da Federico Pellegrini in uno scritto del 1907  che indica come elemento comune <il rispetto della natura> e ricorda i giudizi favorevoli di Manzoni su Goldoni in materia di lingua. Pellegrini rileva che nelle Commedie di Goldoni come nei Promessi Sposi l’esuberanza della fantasia non offende la sobrietà dell’insieme e vi è una processione di personaggi buoni e cattivi al di sopra dei quali vi è una idealità: la vittoria del bene sul male, questo è la morale di tutti i drammi. Pellegrini raffronta ed accosta  i personaggi delle opere dei due letterati e conclude affermando che: i geni si incontrano. Il Mazzoleni ha istituito un confronto fra “I Promessi Sposi” e “La Putta onorata”  commedia in cui Bettina, fidanzata di Pasqualino, viene rapita dal marchese Ottavio. Le coincidenze tra le due opere peraltro escludono l’influsso di Goldoni su Manzoni, per cui vi è affinità non dipendenza.  Il Petronio nel suo libro ”Parini e l ‘illuminismo lombardo” mette in rilievo che. “ben quattro volte l’Italia ha tentato una letteratura realistica”: “Una prima volta con l’illuminismo, col Parini e il Goldoni; una seconda con il romanticismo lombardo, i tentativi generosi del Berchet nel verso e i risultati luminosi del Manzoni nella prosa; una terza col verismo meridionale e la soluzione geniale ma singolare, senza seguito, del Verga; una quarta in questo secondo dopoguerra” Passarella ha associato Goldoni, Manzoni e Collodi nel suo studio “Goldoni filosofo” ed ha definito i tre letterati “i più grandi umoristi del mondo” scrivendo che “Mentre il Manzoni narra di lotte intime di uomini travolti dalla malvagità e Collodi sorride delle cadute e degli sforzi di quel Pinocchio fatto di legno ed emotivo e vivo di tutti gli elementi dell’essere umano, sintesi di tutta l’umanità aggrappantesi sulla ripida china che conduce a essere degni di chiamarsi umani, il sorriso col quale Goldoni guarda i suoi attori dice che il suo problema è la socialità: scontri ed incontri, beffe e incomprensioni, cadute e risollevamento nelle opinioni altrui”   Cattaneo evidenzia anche che un breve cenno comparativo tra Goldoni e Manzoni sotto il profilo giuridico è svolto anche da A. C. Jemolo  il quale scrive a riguardo che Goldoni, che aveva studiato giurisprudenza, cercò nella commedia “L’Avvocato veneziano” di darci una figurazione di avvocato virtuoso, per cui la toga è davvero una divisa di soldato: Manzoni nel mondo del diritto non ci ha lasciato che la immagine imperitura di Azzecca-garbugli, il ricordo caricaturale delle Gride dei Governatori e quello del conte-zio, alto burocrate del suo tempo, il quadro atroce dei giudici della Colonna infame.  Padoan ha rilevato in un suo scritto che << anche oggi, e non senza qualche ragione, potremmo indicare in Goldoni una polemica contro l’ozio nobiliare, anteriore al Parini; un atteggiamento di interesse verso il mondo degli umili, che non fu senza influenza sul Manzoni…>>>   Cattaneo conclude l’introduzione al volume affermando che le citazioni prima esposte sono sufficienti a giustificare la trattazione dei due autori in un unico volume , la sua analisi prende in considerazione la visione del problema giuridico dei due scrittori ed analizza il pensiero giuridico nelle sue premesse di fondo.nelle sue fondazioni filosofiche, nella misura in cui fare questo è possibile; a tal fine ritiene che l’elemento unificatore dei due autori in relazione al diritto, indicato anche nel titolo è l’illuminismo   L’autore evidenzia che nel Goldoni avvocato, difensore della professione forense, che mette in rilievo diversi problemi giuridici in molte sue commedie, si risente, in modo non marcato, l’influenza dell’Illuminismo, che è la radice della sua satira sociale, della sua garbata critica della nobiltà e delle disuguaglianze sociali, come in Manzoni critico della giustizia umana e della incertezza giuridica, che satireggia i pubblici funzionari e  gli avvocati, raccogliendo l’eredità del grande nonno Cesare Beccaria (1738-1794)  In conclusione Cattaneo ritiene che, oltre le apparenti differenze,.<< sia rintracciabile, nel pensiero di Goldoni e di Manzoni, il filo conduttore dato dai principi fondamentali dell’illuminismo giuridico, principi che si possono individuare essenzialmente nella certezza del diritto e nella dignità della persona umana>>    Nel primo capitolo del volume l’autore riferisce degli <Studi su Goldoni avvocato> rilevando che la critica ha tenuto presente in modo primario del significato letterario delle sue opere  un breve cenno agli studi giuridici di Goldoni era stato fatto da un grande recensore contemporaneo al commediografo  Friedrich Schiller (1759-1805)  nelle due recensioni  alla traduzione tedesca dei “MÉMOIRES.”  nella letteratura italiana Zanardelli, importante esponente dell’Italia risorgimentale, cita Goldoni in alcuni passi del volume “L’Avvocatura”  soffermandosi sulla figura della commedia “L’Avvocato veneziano” delineato come il tipo ideale dell’avvocato.   Gli scritti italiani più importanti dedicati a Goldoni avvocato, scarsamente  ricordati nelle bibliografie goldoniane, sono opere di due studiosi parenti di Cattaneo. Il primo è l’articolo “Carlo Goldoni avvocato” di Alessandro Pascolato (1841-1905)  il secondo è di Mario Cevolotto, avvocato di Treviso   Il Pascolato rifiuta la tesi che Goldoni sia stato un dilettante della giurisprudenza ed afferma la reale e profonda cultura giuridica attestata dall’esercizio dell’attività forense a Pisa dove vinse persino tre cause in un mese e che evidenziano il carattere schietto e buono anche in mezzo ai volumi dei dottori; il Cervolotto esamina gli studi giuridici di Goldoni di tre anni a Pavia, ad Udine nel 1726, la sua attività di coadiutore del cancelliere criminale a Chioggia nel 1728 e la sua laurea in legge a Padova del 1731. Un capitolo è dedicato alla attività professionale a Pisa (1744-1748) dove esercitò più nel criminale che nel civile. Il penultimo capitolo è dedicato all’esame degli aspetti giuridici delle commedie goldoniane specie la commedia “L’Avvocato veneziano” che costituisce una esaltazione del foro veneto e altre note commedie. Cervolotto ritiene che Goldoni fu senza dubbio giurista, oltre che avvocato di valore non certo mediocre o comune evidenziando i buoni studi benché saltuari da lui compiuti e la sua conoscenza di molte questioni giuridiche presenti nelle sue opere. Cattaneo cita anche gli studi Gaetano Cozzi  e di Gianni Zennaro  Il secondo capitolo è intitolato “Goldoni, la procedura criminale e Il problema penale”  e Cattaneo riporta un passo dei “Mémoires” di Goldoni che tratta il tema della procedura criminale ed è commentato dal Pascolato che rileva che <<quella procedura criminale, colla continua ricerca della verità, coll’assiduo studio dei caratteri, lo aveva ammaliato: è una lezione interessantissima per lo studio dell’uomo. Di verità e di caratteri Goldoni faceva allora provvisione per i giorni, ancora lontani, della sua gloria. E intanto voleva diventare cancelliere>>   Goldoni sottolinea la presenza nel diritto vigente di limiti posti all’inquisizione dell’imputato, a tutela di questi ma non appaiono nelle sue opere chiari intenti riformatori della procedura criminale. IL terzo capitolo è intitolato “L’Avvocato veneziano: Goldoni fra diritto civile e diritto naturale” Cattaneo rileva che Goldoni stesso mette in rilevo i due fondamentali temi della commedia: la difesa della onorabilità della professione forense mettendo in scena la figura di un avvocato onesto ed onorato e la contrapposizione di due sistemi giuridici e giudiziari, quello di diritto comune e quello veneto, dando a quest’ultimo la preferenza;  la commedia come è stato evidenziato da alcuni studiosi, rompe una tradizione letteraria e teatrale di derisione e messa in cattiva luce della figura dell’avvocato, dell’uomo di legge che troveremo invece nella figura completamente negativa del dottor Azzeccagarbugli ne “I Promessi sposi”   Il quarto capitolo si intitola “Il giusnaturalismo illuministico di Goldoni: <<La Pamela>> e altre opere”  Cattaneo rileva che le radici illuministiche e giusnaturalistiche  del Goldoni si manifestano in rapporto alla procedura penale, al diritto penale, al problema delle fonti del diritto, ai rapporti fra la funzione del giudice e le opinioni dei giuristi. Il giusnaturalismo e l’Illuminismo di Goldoni si manifestano soprattutto nelle opere teatrali aventi come oggetto, o come sottofondo, il tema fondamentale della uguaglianza fra gli uomini, al di là delle differenze fra le classi sociali. Tra le opere significative per questa prospettiva giuridica teatrali emergono “La Pamela”, “Il Cavaliere e la Dama”, “Il Feudatario” “Le femmine puntigliose” il dramma giocoso per musica “I portentosi effetti della Madre Natura” e la tragicommedia (così definita dall’autore stesso) in versi “La bella selvaggia” che trattano il contrasto tra natura e società, infine la commedia in versi “La peruviana” che vengono esaminate negli aspetti più essenzialmente rilevanti sotto il profilo filosofico-giuridico dall’autore   che conclude il capitolo affermando che: “Quando si trattava dei valori supremi, come la pace, anche Goldoni sapeva essere religioso e invocare la grazia del cielo”  La seconda parte del volume è dedicata all’analisi di Alessandro Manzoni.  Il primo capitolo si intitola “Studi su Manzoni e il diritto”  e Cattaneo passa in rassegna gli studi esistenti dedicati espressamente ed esclusivamente o all’idea di giustizia nel pensiero di Manzoni, o agli aspetti giuridici della sua opera. L ‘autore commenta il lungo articolo di Michele Zino del 1916 “Il diritto privato nei “ Promessi Sposi”, esamina poi l’articolo di Alessandro Visconti “Il pensiero storico-giuridico di Alessandro Manzoni nelle sue opere”  del 1919. Il più importante e più completo studio sul pensiero giuridico di Manzoni è il volume di Roberto Lucifredi del 1933 “Alessandro Manzoni e il diritto”. Tale volume si conclude con alcune considerazioni generali sulla mentalità giuridica di Manzoni e Lucifredi ritiene che Manzoni era molto dotato per lo studio del diritto e sarebbe divenuto un ottimo cultore delle discipline giuridiche, un ottimo magistrato, un ottimo avvocato nel senso più nobile della parola e della funzione.. Nel 1939 Fortunato Rizzi ha pubblicato il volume “Alessandro Manzoni. Il Dolore e la Giustizia”  di cui la terza parte è dedicata al problema della giustizia. Nel 1942 è uscito il saggio di Enrico Opocher “ Il problema della giustizia nei Promessi Sposi”  in cui ribadisce che tutto il capolavoro manzoniano è essenzialmente un poema sulla giustizia e conclude affermando: ”I Promessi Sposi non costituiscono soltanto la storia attraverso cui la Provvidenza sana le sofferenze del giusto, ma anche, e vorrei dire soprattutto, la storia attraverso cui la Provvidenza feconda queste sofferenze, facendone lo strumento della redenzione degli oppressori” Nel 1961 il Tanarda ha pubblicato uno scritto “Il diritto nell’opera di Alessandro Manzoni”  in cui ribadisce che Manzoni era cresciuto in una famiglia coperta da una grande aureola giuridica, nipote di Cesare Beccaria, familiare dei Verri, amico di Rosmini; per lo scrittore lombardo l’uso del diritto autentico non può mai contrastare con la morale. Concludo ricordando la  strenna natalizia dell’editore Giuffrè pubblicata in occasione del bicentenario manzoniano con il titolo “<Se  a minacciare un curato c’è penale>”Il diritto nei Promessi Sposi” con saggi di noti docenti quali E. Opocher e S. Cotta. (1920-2007) Il secondo capitolo si intitola “Valori morali, giustizia, diritto naturale” Cattaneo ritiene opportuno esaminare la concezione manzoniana della giustizia, anche nelle sue premesse teoriche sulla base sia di alcuni brani, di pensieri inediti e di scritti di sapore filosofico. Dalla analisi di due postille redatte da Manzoni e da un brano scritto dallo stesso Cattaneo deduce che il grande scrittore lombardo esalta la tesi della certezza delle verità morali, tra le quali l’idea del giusto istituendo un paragone tra verità morali e verità matematiche.  Secondo Cattaneo questo brano manzoniano è affine alla dottrina platonica delle idee espressa nel dialogo “Parmenide” , vi è inoltre una affinità con Kant che afferma che non è cosa assurda pretendere di far derivare il concetto di virtù dall’esperienza, perché ciò significherebbe fare della virtù qualcosa di ambiguo e di mutevole secondo le circostanza. In realtà è sulla base  della idea di virtù che si giudicano gli esempi empirici di virtù e di comportamento morale.  L’Autore richiama anche la filosofia di Rosmini, il più grande filosofo italiano dell’Ottocento, la cui filosofia si fonda sull’idea dell’essere e cita un brano del “Nuovo saggio sull’origine delle idee” .Va anche evidenziato che Manzoni ribadisce una sostanziale e piena identità fra morale e religione, come si rileva dal capitolo III delle “Osservazioni sulla morale cattolica “ dedicato alla critica della distinzione fra filosofia morale e teologica. Cattaneo sottolinea che per Manzoni le leggi umane non raggiungono mai la giustizia, viceversa, la religione conduce naturalmente alla giustizia, senza ostacoli, perché si appella alla coscienza, perché porta a dare volontariamente (in vista di un bene futuro), il che non provoca opposizioni, ma solo ringraziamenti e benedizioni.  Il capitolo terzo si intitola “Le gride e l’illuminismo giuridico ne < I Promessi sposi>”.  Cattaneo rileva che se il problema morale e religioso della giustizia pervade tutta l’opera di Manzoni, ed in particolare il suo celebre romanzo, Stefano Stampa, figliastro dello scrittore lombardo, narra che Manzoni dichiarò che la prima idea del suo romanzo gli venne dalla lettura della grida fatta vedere dal dottor Azzeccagarbugli a Renzo, nella quale sono minacciate pene contro coloro i quali <con tirannide> e con minacce costringono un prete a non celebrare un matrimonio.  Dall’esame dei brani di ”Fermo e Lucia”  e dei “I Promessi sposi” risulta che Manzoni muove una pesante critica al sistema, in quei tempi diffuso, di consorterie e di caste, inoltre, descrivendo criticamente la società e la situazione giuridica di Milano sotto la dominazione spagnola, indica chiaramente il modo in cui le leggi penali non dovrebbero essere e le caratteristiche che le stesse non dovrebbero avere  Il risultato pratico di quella legislazione è da un lato l’impunità del  colpevole e dall’altro la vessazione degli innocenti e dei privati indifesi da parte dell’autorità  Manzoni raccoglie l’eredità dell’Illuminismo giuridico nella critica alla proliferazioni delle leggi e dell’incertezza giuridica, che può sorgere sia dalla mancanza di determinazione precisa delle fattispecie penali, sia dalla enumerazione eccessivamente prolissa dei delitti, a questa critica è connessa la denuncia dell’arbitrio degli esecutori della legge, che possono aumentare a capriccio le pene delle gride ed ai quali è sottoposta ogni mossa dei cittadini  Lo scrittore lombardo critica anche la comminazione di pene sproporzionate, misura considerata ingiusta ed inefficace per la prevenzione dei crimini, l’impunità dei colpevoli è indicata dagli illuministi come il risultato pratico che spesso deriva dalla eccessiva severità o crudeltà delle pene.   Il quarto capitolo si intitola  “La critica dell’utilitarismo e della prevenzione sociale”. Cattaneo sottolinea che la sfiducia di Manzoni nella giustizia penale umana si traduce in un atteggiamento critico verso la prevenzione generale come compito e funzione della pena, che si riscontra in numerosi passi de “I Promessi Sposi”; l’autore cita a proposito il brano del capitolo V in cui è inserita la conversazione alla tavola di Don Rodrigo, a cui assiste Padre Cristoforo, relativa al tema della carestia. Il conte Attilio raccoglie la tesi che la carestia dipenda dagli intercettatori e dai fornai che nascondono il grano e ribadisce che bisogna impiccare senza misericordia tali delinquenti senza processi, in tal modo il grano sarebbe saltato fuori da tutte le parti.. Questo brano rappresenta la mentalità violenta ed aggressiva che sta alla base della teoria della pena come <esempio>, cioè una pena esemplare esorbitante rispetto alla effettiva colpevolezza del reo, mirata esclusivamente a <dare un esempio> agli altri, per uno scopo sociale ed utilitaristico; in tal modo viene peraltro giustificata  la punizione dell’innocente. In altri passi del celebre romanzo manzoniano si rileva un atteggiamento mirato ad indicare non solo l’ingiustizia ma anche l’inefficacia e l’inutilità della prevenzione generale, unitamene ad una condanna della moltiplicazione dei supplizi, che finisce per favorire l’impunità, come messo n evidenza dagli scritti di molti giuristi illuministi. Significativo è a riguardo la conversione dell’Innominato e le ragioni per cui il potere pubblico non intende procedere contro lo stesso per i suoi passati delitti, in al modo viene dimostrata l’inefficacia della punizione nel caso di una persona che ha cambiato vita perché questa potrebbe avere solo l’effetto opposto a quello voluto  Nel penultimo capitolo il commento di Manzoni sulla situazione del bando di Renzo dal Ducato di Milano dopo le vicende della giornata di San Martino denota la tesi dell’impunità come risultato dell’eccessiva proliferazione di minacce legislative e del carattere esorbitante, situazione che porta ad una frattura tra il comando legislativo e l’esecuzione della pena.  Cattaneo conclude il capitolo istituendo un parallelo sostanziale ed oggettivo (se pure a qualcuno potrà apparire sforzato) tra Manzoni e Kant, dato che:  “la visione della morale, nonché del diritto, ed in particolare del diritto penale è svolta in una prospettiva anti-empiristica e ani-utilitaristica, ed è caratterizzata da un <liberalismo cristiano >, vòlto a difendere la persona umana da ogni prevenzione collettivistica e <sociale>”   Il quinto capitolo si intitola“ La storia della Colonna Infame”  L’autore ribadisce che il motivo fondamentale della critica conto la ragione di stato, contro l’utilitarismo sociale, contro il prevalere dell’interesse generale  e sociale sui diritti individuali sta alla base dello scritto “Storia della Colonna Infame”  due anni dopo l’edizione definitiva de “I Promessi Sposi”.. Di recente tale opera ha sollevato critiche severe sotto il profilo storiografico e si è accusato il Manzoni di non essere uno storico, ma di guardare alla storia da moralista, sul modello del cosiddetto <astrattismo> illuministico settecentesco, e quindi di non studiare le vicende storiche con partecipazione e simpatia ma di giudicare i comportamenti umani secondo un codice morale superiore Tale critica è stata formalizzata da Benedetto Croce . Dopo una lunga ed attenta analisi dello scritto e di alcuni dei suoi maggiori studiosi Cattaneo conclude che i punti di vista in relazione ai quali il volume manzoniano ha dato un importante contributo sono tre: 1) Manzoni ha dato un contributo alla comprensione della storia, affermandone la non inevitabilità e questo punto ha suscitato le maggiori discussioni interpretative e le reazioni negative dei seguaci dello storicismo. 2) Tale scritto manzoniano, come ha sottolineato Giuseppe Rovani, <non è per nulla inferiore alle altre opere del Manzoni, anzi rivela il suo ingegno e la sua dottrina e la profonda sua acutezza anche nelle materie giuridiche>  Tale scritto è un’opera giuridica, è senza dubbio la più giuridica del Manzoni. 3) Il significato più importante del libro è quello morale, come rilevato da Tenca, Rovani e Passerin d’Entreves (1902-1985) e consiste nella difesa del libero arbitrio, della libertà del volere e nella rivendicazione della responsabilità morale dell’uomo. Libertà interiore dell’uomo, responsabilità morale, dignità umana; questo è il trinomio in cui Manzoni fonda la sua lezione morale o, come potremmo dire, la sua lezione etico-giuridica   Il sesto capitolo si intitola “Manzoni e la criminologia”  L’autore evidenzia che l’analisi della “Storia della Colonna Infame” ha portato a mettere in rilievo l’idea del libero arbitrio dell’uomo quale elemento centrale dell’impostazione manzoniana dei problemi giuridico-penali, della sua condanna dell’operato dei giudici milanesi del 1630. Vi sono studiosi come Graf e Sergi  che hanno creduto di vedere in tale opera di Manzoni ed in alcune figure di criminali de “I Promessi Sposi” dei precorrimenti delle correnti criminologiche sviluppatesi nell’ambito della Scuola positiva di diritto penale, che, rileva Cattaneo, ha respinto l’idea del libero arbitrio dal problema dell’imputabilità penale ed ha seguito la strada del determinismo. L’autore esamina in particolare lo scritto di C Leggiadri Laura “Il delinquente ne <Promessi Sposi> rivolto ad interpretare il pensiero manzoniano in chiave naturalistico-deterministica   e lo scritto del Preve “Manzoni penalista” che segue l’interpretazione del Leggiadri Laura e delinea nelle figure dei criminali del romanzo i tipi classificati dalla scienza lombrosiana. Dopo un attento esame critico di numerosi passi delle opere dei due autori prima citati e di altri studiosi  Cattaneo conclude che non ritiene valida la concezione di Manzoni come precursore del positivismo penale e criminologico, dato che per i positivisti non è questione di giustizia e di libertà del volere, bensì di determinismo e di difesa sociale   Il settimo si intitola “Manzoni teorico generale del diritto?”  Secondo l’autore la forma mentis giuridica di Manzoni appare evidente anche negli scritti storici e storico-giuridici, in particolare essa si manifesta in modo tipico nel “Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia”  oltre che nello scritto postumo sulla Rivoluzione francese. Cattaneo mette in evidenza un aspetto meno noto che è peraltro presente nel libro: le osservazioni concernenti il rapporto tra Romani e Longobardi e le leggi regolanti la loro convivenza, osservazioni che sono di natura di <<teoria generale del diritto>. Le osservazioni riguardano  in particolare la concessione data agli Italiani di vivere secondo la legge romana che fu considerata dal Muratori <un bel tratto di clemenza, e una prova, fra le mole, della dolcezza e saviezza dei conquistatori longobardi> Manzoni dimostra una sensibilità moderna perché si preoccupa secondo C. di rendersi conto di come fosse strutturato l’ordinamento giuridico sotto i Longobardi e evidenzia la <struttura a gradi> dell’ordinamento giuridico, per dirla come Kelsen  e definisce alcune norme <leggi costituzionali>, le leggi così designate sono le <norme di competenza> di Ross  e le <norme secondarie> di Hart, cioè le norme che conferiscono il potere di emanare, modificare, abrogare le altre norme, concernenti direttamente il comportamento dei cittadini. Manzoni si preoccupa di esaminare quali fossero le norme di statuto, di competenza o secondarie, espressione del potere longobardo, le quali regolavano la permanenza delle leggi romane, che regolavano il comportamento dei cittadini di origine romana.  L’ottavo capitola si intitola “Manzoni e la Rivoluzione francese”  Il rapporto tra Manzoni e la Rivoluzione francese durò in varie forme per tutta la vita del letterato lombardo. Questi visse molti anni in Francia nel periodo napoleonico, nel 1800 a 15 anni scrisse il “Trionfo della Libertà“ un poemetto di sentimenti giacobini ed anti-monarchici  con la condanna delle spietate repressioni penali. Nel ”5 Maggio” Manzoni fornisce un giudizio equanime su Napoleone  dapprima glorioso e poi rapidamente caduto e rileva la caducità degli idoli umani  Nel dialogo “Dell’Invenzione” Manzoni  esamina la figura di Robespierre ed abbandona il cupo giudizio di <mostro> del politico francese pur non abbandonando la tesi di una responsabilità avuta da Robespierre nel Terrore ridimensionata dalle moderne storiografie  Lo studio che esprime nel modo più chiaro il rapporto di Manzoni con la Rivoluzione francese è il saggio pubblicato postumo a cura di Ruggero Bonghi “La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859”   I motivi su cui si basa La critica di Manzoni alla Rivoluzione francese sono  A) La mancanza di un giusto motivo per la distruzione del governo di Luigi XVI e di una autorità competente nei deputati del Terzo Stato che ne furono gli autori B) Questa distruzione avvenne indirettamente ma effettivamente in conseguenza dei loro atti  C) Il nesso di queste cause con gli effetti indicati Le riforme legittime, sentite dal popolo francese, avrebbero potuto avvenire per vie pacifiche e legali;  Manzoni peraltro non si rende conto che la sua critica non tiene conto della situazione dell’ancien régime, in cui il potere trovava la legittimità dal diritto divino mentre la critica da lui avanzata è accettabile entro i presupposi giuridico-costituzionali creati dalla Rivoluzione francese  Il letterato lombardo sottolinea l’aumento del dispotismo  dal Terrore, al Direttorio, al bonapartismo come risultato immediato degli atti iniziali della Rivoluzione francese. Trattando della “Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo” Manzoni discute il suo rapporto con la precedente Dichiarazione americana sottolineando le differenze. Lo scritto di Manzoni ha senza dubbio il merito di evidenziare il contrasto fra gli ideali e le realizzazioni pratiche della Rivoluzione francese, nella sua critica lo scrittore lombardo critica, come in altre opere, il potere politico umano che riveste in forme giuridiche la sostanza dell’arbitrio e della prepotenza ed ad esso contrappone il valore assoluto dell’idea del diritto, che è <una verità>  Tale considerazione induce Cattaneo a proporre un altro parallelo fra la posizione di Manzoni e quelle di Kant e Robespierre. Kant ha negato il diritto di un popolo alla rivoluzione ed ha considerato l’esecuzione di Luigi XVI un crimine inespiabile ma nello stesso tempo è stato un convinto sostenitore della Rivoluzione francese; Robespierre <rivoluzionario legalitario, giudicato non equamente dal Manzoni, fu un uomo dal forte sentimento giuridico e, nel momento della sua caduta,pur  proscritto e ricercato all’Hotel de la Ville, benché fosse esortato dagli amici a redigere un appello all’insurrezione popolare esitò e si chiese <Au nom de qui?>   come è attestato dalla sorella Charlotte  Nella lunga ed articolata conclusione  C. ribadisce che il pensiero giuridico di due letterati ha numerosi elementi in comune e svolge alcune considerazioni sul metodo seguito. L’autore evidenzia che il suo saggio ha <un taglio diverso> dagli studi citati sull’attività forense di Goldoni, sul significato riformatore delle sue commedie e sulle implicazioni politiche del pensiero di  Manzoni. Il punto di vista seguito nel volume dal docente è quello della considerazione a un lato del diritto come <categoria autonoma>, dotato delle sue specifiche caratteristiche e dall’altro del diritto inteso come fondato filosoficamente, posto in relazione con problemi storici, politici e sociali. Lo studio degli aspetti giuridici e dei problema del diritto nl pensiero e nell’opera di Goldoni e Manzoni non è stato disgiunto all’esame dei temi della riforma sociale e della riflessione politica nella loro attività letteraria. Il punto di vista seguito sempre dall’autore , come da lui steso dichiarato, è stato quindi¨<quello dell’ autonomia del diritto , ma non inteso secondo una prospettiva meramente logico-formale, bensì basato su una fondazione filosofica, e dotato di rilevanza politica. >. L’angolo visuale usato come punto di riferimento per i due letterati è l’illuminismo giuridico. L’illuminismo  è coevo di Goldoni, che anticipa Rousseau nella proclamazione del principio dell’uguaglianza naturale ed è aperto al problema della riforma sociale,come è riconosciuto da numerosi interpreti delle sue opere. I rapporti tra Goldoni e l’illuminismo giuridico sono più evidenti nel passo dei “Mémoires “ sulla procedura criminale e nelle commedie L’uomo prudente e L’Avvocato veneziano . Manzoni è posteriore all’illuminismo ma l’autore ha cercato di indicare la presenza di una eredità Illuministica, con riferimento ai problemi giuridici, ne    “I Promessi sposi” e nella “Storia della Colonna infame” dove peraltro sono presenti degli elementi di superamento delle concezioni illuministiche.  Il docente ritiene di rifiutare la tesi diffusa di coloro che interpretano Manzoni esclusivamente dall’angolo visuale della linea agostiniana-pascaliana con venature giansenistiche negando il profondo legame con l’illuminismo, in realtà Manzoni si dimostra erede dell’illuminismo per l’habitus mentale razionalistico del suo pensiero, per la sua considerazione della ragione e per la sua ricerca delle radici razionali della fede; in tal modo il grande scrittore lombardo fa propria l’eredità migliore dell’illuminismo, il filone etico-religioso che si contrappone al filone ateo e materialistico  di alcune correnti.   Ragonese   e Caretti  hanno bene sottolineato i rapporti tra Manzoni  e l’illuminismo. Cattaneo conclude il suo volume ribadendo che il motivo comune fondamentale di Goldoni e Manzoni è il principio cristiano ed illuministico (e kantiano) della dignità umana.  In Goldoni questo principio è meno evidente ma è legato soprattutto all’idea della comune natura umana, al di là delle differenze sociali, che appare in numerose commedie ed opere drammatiche, in Manzoni la difesa della dignità umana è svolta ad un livello di maggior profondità ed è connessa ad una prospettiva religiosa come traspare chiaramente dal testo recitato dal coro de “Il Conte di Carmagnola”   Nella Appendice  viene riproposto lo studio di Alessandro Pascolato “Carlo Goldoni Avvocato” pubblicato su “Nuova Antologia” Cattaneo pubblica “Suggestioni penalistiche in testi letterari”. Il libro, che  è dedicato alla memoria del Prof. Renato Treves, per molti anni ordinario di Filosofia del Diritto all’Università degli Studi di Milano, tratta le opere di numerosi letterati. Il libro, che si articola in 12 capitoli ed una appendice, tratta di  scrittori  che nelle loro opere hanno affrontato il  tema della pena o problemi di natura giuridica. Il lavoro, rileva l’Autore, non ha avuto una genesi unitaria  Il primo saggio scritto riguardava Parini, un “poeta civile” rappresentante di un Illuminismo cristiano ed equilibrato, è seguito il saggio su Collodi (1826-1890), l’uomo del Risorgimento che ha combattuto a Curtatone e che mostra nel suo aperto scetticismo nei confronti della legge e dell’autorità costituita una opinione diffusa di molti uomini dell’Italia post-unitaria tra cui il grande giurista liberale Carrara..Il terzo saggio è stato dedicato a Foscolo che nello scritto < L’orazione sulla giustizia> ed altri due scritti <La difesa del sergente Armani> ed <una lettera al “Monitore Italiano”> tratta problemi relativi alla pena  Il primo saggio del volume si intitola “Studi Dante e il diritto penale”  Lo studio riguarda il rapporto tra il grande poeta Dante ed il diritto penale.. Cattaneo rileva che gli studi di storici e filosofi del diritto che hanno trattato il pensiero giuridico di Dante hanno trascurato l’aspetto penalistico. Dante non si è occupato di diritto penale ma l’analisi del suo capolavoro mostra un elaborato sistema di rapporti tra colpa e pena. Numerosi studiosi hanno rilevato che le pene crudeli descritte nell’Inferno del poema dantesco sono molto lontane dalle prospettive della legislazione penale moderna anche se occorre distinguere tra la prospettiva morale e religiosa del poema dantesco e le finalità delle legislazioni penali attuali Dante peraltro opera una distinzione tra peccati puniti fuori e dentro la città di Dite che può corrispondere  ad una distinzione tra peccati e delitti, il più rilevante contributo indiretto dato da Dante al diritto penale è il criterio di graduazione delle gravità delle colpe e le corrispondenti pene come è stato evidenziato da Giorgio Del Vecchio.   Il maggior contributo diretto di  Dante alla cultura giuridica moderna sono l’affermazione del principio di uguaglianza e di personalità delle pene e l’affermazione della volontà del volere dell’uomo quale presupposto della conseguente valutazione del merito o del demerito delle sue azioni.  Cattaneo conclude che:” Certamente, fare apparire Dante come un grande giurista, un grande penalista, può risultare sforzato e retorico,…..Ma nello stesso tempo, non è assolutamente possibile e lecito ignorare il contributo, diretto o indiretto, che Dante ha dato anche al diritto penale; la Divina Commedia è un costante punto di riferimento per qualunque problema, religioso, filosofico, umano;  ricordo che mio Padre diceva che nella Commedia <<c’è tutto>>”  Nella introduzione ho accennato a due recenti approfonditi studi su Dante ed il diritto, un tema caro a molti studiosi  Il secondo saggio si intitola “Giuseppe Parini e L’Illuminismo giuridico”.   Cattaneo rileva che Parini, sacerdote non per vocazione ma uomo profondamente credente, fu sensibile a numerosi ideali illuministici di riforma civile ed attraverso una delle sue Odi  riprende le idee illuministiche sul diritto penale, che propugnavano il principio umanitario della doverosità della mitigazione delle pene considerando l’inefficacia di pene eccessive in determinati contesti sociali. Vi è dunque una continuità di principi da Parini, cattolico ed illuminista, a Manzoni e Rosmini, cattolici liberali, una continuità di principi ed ideali umanitari relativi al problema della pena e nell’ode Il bisogno è presente una concezione penale cristiana ed illuminista.  Cattaneo conclude il suo saggio affermando che Parini poeta civile e morale interpreta il momento migliore dell’Illuminismo e si fa portavoce dei suoi più significativi valori.  Il terzo saggio si intitola “Ugo Foscolo e la giustizia come forza”.   L’Autore rileva che notoriamente Foscolo fu un poeta impegnato nelle vicende politiche del suo tempo segnato dalla rivoluzione francese e dall’epopea napoleonica. Negli scritti di natura penalistica  il poeta accoglie i principi della dottrina giuridica illuministica, come la difesa della certezza del diritto ed il rispetto delle garanzie processuali. Foscolo inoltre critica la teoria della retribuzione morale e quella della prevenzione generale. Il quarto capitolo è intitolato. “Le <veglie notturne> di Bonaventura e la critica dei giuristi”  un libro tedesco poco conosciuto in Italia, opera uscita anonima nel 1805 a Penig (Sassonia) presso il poco noto editore F Dienemann, che l’aveva pubblicata nel suo <Journal von neuen deutschen Original Romanen>. Cattaneo evidenzia che nelle pagine dedicate a temi giuridici viene messo in rilievo l’invito a rendere il diritto più umano ed a metterlo al servizio degli uomini. La descrizione del giudice freddo paragonato ad una macchina o ad una marionetta, il rimprovero ai giuristi che si assumono il compito di tormentare i corpi, come i teologhi tormentano le anime, l’uccisione della giustizia da parte dei tribunali, il richiamo al diritto naturale, che dovrebbe essere il vero diritto positivo, la critica di una giurisprudenza svincolata dalla morale  sono chiari segnali di una aspirazione ad umanizzare il diritto, specie quello penale. Il V capitolo è intitolato  “Heinrich Heine e la satira delle teorie della pena”   L’Autore analizza il breve scritto che Heine aveva aggiunto quale appendice al suo volume “ Lutezia”, opera scritta tra il 1840 ed il 1843. Lo scritto è dedicato  al problema della riforma delle prigioni ed alla legislazione penale e porta il titolo <Gefaengnisreform und Strafgesetzgebung>.  Il saggio, pur nella brevità, è un esame attento delle teorie fondamentali della pena. Cattaneo suggerisce  che l’analisi critica del poeta si traduce in una satira delle dottrine della retribuzione, dell’intimidazione e dell’emenda e coglie i punti centrali di tali concezioni. Heine sottolinea l’ingiustizia della teoria dell’intimidazione generale  ed evidenzia il carattere patriarcale e paternalistico delle teoria dell’emenda. Nell’esaminare il principio di una prevenzione dei delitti commessi con mezzi diversi dalla pena, Heine ritiene che bisogna agire con durezza, reclusione ed addirittura con la pena di morte concepite come prospettiva di difesa sociale. Cattaneo rileva che è sempre più chiara e più facile la parte negativa della filosofia penale, cioè la critica delle dottrine sulle pena che la parte costruttiva  cioè l’indicazione di un fine positivo nella funzione penale.  Heine critica inoltre il sistema carcerario filadelfiano e quello auburniano  Il capitolo VI è intitolato “Victor Hugo e la pena come fonte di delitti”  L’Autore rileva che il problema giuridico penale è presente nell’opera letteraria di Hugo con una severa critica del sistema penale dell’epoca e la sua difesa della dignità dell’uomo. Il problema emerge chiaramente nel celebre romanzo “Les Miserables”  e nel suo protagonista l’ex-forzato Jean Valjean. Il romanzo affronta il problema di una pena sproporzionata ed inumana, che è causa di nuovi delitti e di una spirale indefinita di reati e pene successive. Il tema è sviluppato nella figura centrale di Valjean.  Tutte le tragiche vicende del protagonista nascono da un tentativo di furto dovuto alla miseria ed alla fame; a causa del furto di un pezzo di pane,che poi viene gettato via,Valjean è condannato a 5 anni di detenzione e, in seguito a tre successive evasioni di breve durata, la sua detenzione dura ben 19 anni.  Vi è una enorme sproporzione  tra il danno causato dal reato e la pena che trasforma ed indurisce Valjean, la cui psicologia viene analizzata in profondità da Hugo. La pena continua a gravare su Valjean anche dopo la liberazione per cui questi riesce a lavorare solo per una giornata data la sua qualità di ex-forzato. Hugo critica sia l’atteggiamento di diffida e di rifiuto di tutta la popolazione sia la macchia di infamia stabilita dalla legge. Cattaneo rileva che è ammirabile la battaglia combattuta da Hugo contro la pena di morte, la sua  denuncia della sproporzione tra la gravità dei delitti e le pene, la critica dell’assurdo criterio nel valutare la recidiva. Queste battaglie  sono importanti contributi all’evoluzione del diritto penale ed alla difesa della dignità umana.    Il settimo capitolo è intitolato “Dostoevskij la coscienza e la pena”.  L’Autore evidenzia la centralità del tema del delitto, della colpa e della pena nello scrittore russo, come è stato rilevato nel profondo scritto di Italo Mancini, che ha evidenziato sia la validità di una ricerca su Dostoevskij pensatore e filosofo sia  che per lo scrittore russo < la questione penale non rappresenta solo un contenuto ma il contenuto>. Pietro Gobetti a proposito dei personaggi dello scrittore russo ha rilevato che <I suoi personaggi non si sforzano mai di arrivare ad una verità, ma piuttosto di chiarire e capire sé stessi>>  Nel volume “I ricordi della casa dei morti “ lo scrittore russo ricorda l’esperienza personale della prigionia in Siberia e sottolinea chiaramente l’incapacità  del carcere di procurare l’emenda del reo dato che Dostoevskij rileva che nel corso di parecchi anni non ha visto tra quella gente il minimo segno di pentimento, il minimo rimorso per il delitto commesso; lo scrittore russo  indica anche nella solitudine e nella mancanza di privatezza un elemento di particolare tormento della prigione.  Il lavoro nella prigione, rileva lo scrittore russo,  non era faticoso ma era penoso perché obbligato sotto la minaccia di un bastone. Dostoevskij evidenzia anche l’ineguaglianza della pena per i medesimi delitti in relazione alla classe sociale, da cui deriva l’ingiustizia e l’inefficacia della pena. Radicale è la sua critica svolta nei confronti del regolamento carcerario e del comportamento ottuso e crudele delle guardie carcerarie, severo è il giudizio sulla prassi della fustigazione definita una piaga della società> Nel <L’idiota>  lo scrittore russo pone un giudizio duro e severo  sulla pena di morte in bocca al principe  Miskin nelle prime pagine del romanzo. Nel brano Dostoevskij sottolinea la svalutazione del carattere meno afflittivo della decapitazione rispetto ai supplizi accompagnati da tormenti e la sofferenza morale generata dalla attesa della esecuzione, che è peggiore della sofferenza fisica. Nel romanzo “Delitto e castigo”  Dostoevskij evidenzia la tesi della necessità della pena giuridica quale espiazione della colpa e come risultato del rimorso avvertito dal colpevole.  La trama del romanzo mette in luce la progressiva conversione, il rimorso e la ricerca di espiazione del colpevole. Cattaneo sottolinea che il Leitmotiv del celebre romanzo è la ricerca della espiazione sulla base di una spinta interiore e del rimorso e che  tale impostazione pone lo scrittore russo sulla linea del Platone del Gorgia e di  Boezio nel <Consolatio philosophiae>. La conclusione giuridica processuale del romanzo rileva una sensibilità giuridica moderna che pende in considerazione le circostanze attenuanti, le cause sociali, psicologiche e morali del delitto ed il recupero morale e sociale del colpevole. Il finale giuridico evidenzia la complessità del problema penale e l’interesse di Dostoevskij, spirito umanitario e riformatore,  per la riforma del procedimento penale, d’altra parte, sul piano morale, rileva il  desiderio di espiazione che conduce all’emenda.  Dostoevskij  manifesta l’atteggiamento del cristiano che si sente corresponsabile delle colpe degli altri e riprende le parole di Cristo “Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei” Cattaneo ribadisce che per Dostoevskij il punto che più conta è il rimorso per la colpa commessa e la auto-condanna da parte del delinquente. La pena giuridica non ha rilevanza, ciò che conta è il processo di autocondanna, di espiazione e di redenzione che avviene nella coscienza del colpevole  Il capitolo VIII  è intitolato “Tolstoj e la abolizione della pena”. L’Autore ribadisce che lo scrittore russo postula una radicale abolizione del diritto penale in una prospettiva di amore cristiano e di non violenza. I temi giuridici vengono affrontati da Tolstoj un due opere “Resurrezione” e la novella “Il racconto di Koni”.   Il romanzo Resurrezione  è fondato su una vicenda processuale, la condanna ad alcuni anni di deportazione in Siberia della protagonista Ekaterina Maslova, diventata prostituta a seguito di tristi vicende. Tolstoj analizza il processo e la successiva pena dei forzati deportati ed evidenzia che negli istituti di pena gli uomini erano sottoposti ad ogni genere di umiliazioni inutili, catene, teste rasate, divise infamanti per cui si inculcava l’idea che qualsiasi violenza, crudeltà e atrocità era autorizzata dal governo per chi si trovava in prigionia nella sventura. Lo scrittore sottolinea il distacco tra la condanna e la concreta esecuzione della pena con le sue brutalità. In Tolstoj il tema fondamentale è l’indicazione dell’ingiustizia dell’intero sistema repressivo-penale e la sottolineatura delle cause sociali dei delitti come Victor Hugo.  Lo scrittore  suggerisce anche la necessità di abolire la pena e sostituirla con il perdono, un ideale sublime ma difficile da realizzare in pratica e che indica tutta la complessità del problema, Cattaneo si chiede se si tratta “del sogno di un visionario, una utopia generosa o di un ideale verso cui la società deve tendere.”    Il nono capitolo è intitolato “Pinocchio e il diritto”  L’Autore rileva che l’opera di Collodi è stata oggetto di numerose indagini . Le ricerche sulla natura pedagogica ed educativa sono state sviluppate da Bertacchini, Il testo di Collodi è stato esaminato sotto il profilo filosofico e teologico nei due volumi scritti da Vittorio Frosini e Giacomo Biffi . Frosini evidenzia che: << Il mito di Pinocchio si rivela……come un mito  tipicamente risorgimentale,  al tramonto di un’epoca; e anzi proprio di un risorgimentalismo di stampo repubblicano e mazziniano>> basato su principi di umanitarismo positivistico. Giacomo Biffi sottolinea che Pinocchio fu scritto quando l’Italia era unita politicamente ma non era una nazione consapevole di sé e concorde sui valori che danno senso alla vita. Il Collodi aveva un cuore più grande delle sue persuasioni, un carisma profetico più alto della sua militanza politica, così poté porsi in comunione forse ignara con la fede dei suoi padri e con la vera filosofia del suo popolo. . La lettura di Pinocchio evidenzia interessanti problemi e temi di natura giuridica e filosofico-giuridica e lo scritto di Cattaneo evidenzia soprattutto i temi più rilevanti dal punto di vista penalistico.  Cattaneo sottolinea che Carlo Lorenzini (ovvero Carlo Collodi) era un fine umorista  che sapeva cogliere il lato ridicolo ed insieme  doloroso della vita umana (opinione espressa anche da Lina Passarella nel suo scritto prima citato su Goldoni filosofo), e cita  ad esempio l’episodio dei pareri opposti dei medici al capezzale di Pinocchio in casa della Fata dal Corvo e dalla Civetta e quello della condanna del burattino derubato degli zecchini dal giudice-scimmione. Nel terzo capitolo Pinocchio scappa di casa ed è acciuffato da un carabiniere  per il naso (Cattaneo rileva in tal modo la naturale predisposizione dei cittadini ad essere oggetto delle interferenza da parte del potere); dopo la riconsegna di Pinocchio a Geppetto e le sue proteste il carabiniere, a seguito dei commenti della gente, rimette in libertà il burattino e conduce in prigione Geppetto che piange disperatamente. L’episodio mostra un membro dell’apparato giudiziario che arresta Geppetto sulla base delle opinioni della <voce pubblica> compiendo un atto arbitrario senza motivazioni precise e mostra un innocente debole ed inerme che non riesce a difendersi di fronte all’atto arbitrario del potere.  Un altro episodio interessante è narrato nel capitolo XXVII, dove si descrive la battaglia con i libri di testo fra Pinocchio ed i suoi compagni. Un grosso volume scagliato verso Pinocchio colpisce alla tesa un compagno che cade come morto. Tutti i ragazzi fuggono e rimane Pinocchio a soccorrere il compagno. Arrivano due carabinieri che,dopo un breve colloquio, arrestano Pinocchio malgrado le sue dichiarazioni di innocenza. Il burattino fugge inseguito dal cane Alidoro al quale salva la vita mentre stava per annegare. Cattaneo evidenzia a riguardo che la vittima del potere è l’innocente, l’unico trovato vicino ad Eugenio, che viene arrestato perché le circostanze sono contro di lui La frase dei carabinieri “Basta così” è commentata da Biffi che evidenzia che l’invito a ragionare insospettisce spesso l’autorità, la quale è incline a tagliar corto. In molte vicende giudiziarie si nota che una concatenazione di indizi sfavorevoli dà l’avvio a processi indiziari seguiti da condanne di persone innocenti.  Un altro episodio clamoroso di palese ingiustizia è la vicenda che conclude il rapporto tra Pinocchio ed il due truffatori La Volpe ed il Gatto.  Pinocchio incontra la Volpe ed il Gatto e viene convinto a seminare i 4 zecchini d’oro nel Campo dei miracoli vicino alla città di Acchiappacitrulli. Tale città descritta minuziosamente  da Collodi  è,secondo C., e il simbolo dell’ingiustizia e di un diritto positivo basato sul puro potere politico; tale città esprime in modo chiaro il pericolo del prevalere della politica sulla giustizia  nella amministrazione della giustizia, come dimostra l’episodio giudiziario che riguarda Pinocchio. Pinocchio accortosi di essere stato derubato delle monete d’oro torna in città e denunzia al giudice i due malandrini che lo avevano derubato, ma,invece di ottenere giustizia, è vittima di una tragica beffa.  Il giudice scimmione, al quale Pinocchio si era rivolto,  ordina che il burattino  venga messo in prigione. L’ordine viene eseguito da due mastini che tappano la bocca al burattino, il quale resta 4 mesi in prigione e viene liberato a seguito di una vittoria dell’imperatore della città di Acchiappacitrulli.  Per ottenere la libertà Pinocchio dichiara al carceriere di appartenere al numero dei malandrini e così viene salutato rispettosamente e può scappare. C. rileva che la figura dello scimmione sottolinea la miseria della giustizia umana ed il carattere insoddisfacente dei tribunali umani dove, come scrive Platone, si discute sulle “ombre della giustizia” Biffi nel suo volume rileva dapprima l’aspetto positivo della figura del giudice che è descritto come un personaggio rispettabile, benevolo, attento al racconto del burattino, successivamente Biffi sottolinea che la figura dello scimmione della razza dei gorilla rappresenta la caricaturalità della giustizia terrena rispetto a quella vera, per cui  il giudice finisce con applicare la legge umana che con i suoi meccanismi colpisce il debole anche se innocente. Cattaneo rileva che la situazione proposta da Collodi ricorda quella descritta da Manzoni ne I Promessi Sposi dove i violenti erano organizzati e protetti ed i deboli, non sorretti da consorterie, erano vittime dei soprusi del potere.   La lettura di Pinocchio di Collodi ed in particolare di alcuni brani può dar luogo a considerazioni di natura filosofico-giuridica e giuridico- penale, come suggerisce acutamente  Cattaneo nel suo volume. Merito indubbio di Collodi è descrivere alcune situazioni caratterizzate da abuso di potere, oppressione dei deboli e sfasamento dei corretti rapporti stabiliti dagli ordinamenti giuridici, come del resto è stato rilevato da numerosi importanti interpreti. E’ opportuno sottolineare che il capolavoro di Collodi, come molte altre opere letterarie, affronta importanti problemi giuridici tra i quali va segnalata l’importante e costante aspirazione perenne che la legge in essere non sia solo la volontà del gruppo sociale dominante, una forma di controllo sociale, e che inoltre l’ordinamento giuridico tuteli la dignità e le aspirazioni degli uomini come attesta la storia del diritto. Il capitolo decimo è intitolato “Wilde e le sofferenze del prigione”  Wilde in alcune sue opere ha descritto la sua penosa esperienza carceraria ed il clima del carcere., lo scrittore inglese fu condannato a due anni di carcere che scontò interamente.  Cattaneo evidenzia che <Wilde fu il tipico capro espiatorio dell’ipocrisia della società vittoriana> Lo stesso letterato nel <De Profundis>,  redatto in carcere, attesta di essere passato dalla gloria all’infamia con un mutamento dell’opinione pubblica dalla esaltazione al disprezzo. Le osservazioni di Wilde sul problema della pena nel suo celebre <De Profundis> e nella accorata <The Ballad of Reading Gaol> hanno fornito un importante contributo alla battaglia per la riforma del sistema carcerario. Il volume <De profundis> fu redatto da Wilde negli ultimi anni carcere. L’opera è redatta sotto forma di lettera all’amico Alfred Douglas <Bosie> e contiene molti rimproveri all’amico per i suoi atteggiamenti durante il processo ed il successivo carcere. L’opera, dopo molte controversie, fu pubblicata definitivamente nel 1949 dal figlio di Wilde Vyvyan Holland. All’inizio dell’opera Wilde rimprovera l’amico Douglas   e soprattutto sé stesso e riflette sul suo stato di persona imprigionata e rovinata <a disgraced and ruined man>   lo angoscia dopo la sentenza e l’esperienza carceraria e e. Lo scrittore inglese rileva che per chi vive in carcere la sofferenza che lo domina è la misura stessa del tempo ed il fondamento del proprio continuare ad esistere  Wilde evidenzia che la terribile esperienza in prigione sia stata per lui più dolorosa che per altri e si e si lamenta per la perdita della patria potestà sui due figli e rimarca l’ingiustizia di tale procedimento che incrina il rapporto familiare. Lo scrittore rileva che per i poveri la prigione è un dramma che tuttavia suscita peraltro la simpatia delle altre persone mentre per gli uomini del suo ceto la prigione li rende dei <paria>, per cui i condannati di ceto abbiente non hanno più diritto all’aria ed al sole,la loro presenza infetta i piaceri degli altri e bisogna tagliare i legami con l’esterno dato che l’onore e la reputazione della persona condannata è leso.   Wilde evidenzia anche che molte persone,quando escono di prigione, nascondono il fatto di essere stati in carcere che considerano una sciagura e, rileva lo scrittore inglese,, è orribile che la società li costringa a tale comportamento. La società ha il diritto di punire i colpevoli ma non riesce a completare ciò che ha fatto e lascia l’uomo al termine della pena, quando dovrebbe iniziare la riabilitazione, sarebbe giusto invece che non ci fosse amarezza o rancore tra le parti (colpevoli e vittime). Cattaneo evidenzia l’ipocrisia che sta dietro l’idea della retribuzione morale  e cioè che subendo la pena il colpevole abbia pagato il suo debito verso la società, se si applicasse tale principio, dopo la fine della pena tutto dovrebbe cessare e non dovrebbero esservi più né fedine penali né casellari giudiziari. Nella realtà comune resta una macchia sulla persona che è stata in carcere, un pregiudizio che la società perpetua e l’onta non deriva dal delitto commesso ma dalla pena scontata. La società riconosce implicitamente l’inutilità della pena perché l’onta del colpevole incarcerato rimane. Analizzando la vita in carcere Wilde sottolinea che le privazioni e restrizioni del carcere rendono una persona ribelle ed impietrisce i cuori dei condannati. L’abito dei carcerati li rende grotteschi come clowns, oggetto di derisione e berlina della gente. Tali sofferenze ed umiliazioni dei condannati sono contrari al principio della dignità umana che Wilde riafferma come profonda esigenza morale della società. Lo scrittore afferma anche che tutti i processi sono processi per la propria vita e tutte le sentenze sono sentenze di morte; spesso anche una condanna alla prigione genera delle sofferenze che conducono alla morte e va rilevato che Wilde stesso morì pochi anni dopo il carcere in Francia . Wilde scrisse anche <The Ballad of Reading Goal> nel 1897, l’anno del suo rilascio. in questa lunga ballata il poeta inglese descrive le  sofferenze e le crudeltà cui aveva assistito durante la prigionia e dalle sue considerazioni sulla triste sorte dei carcerati risulta un grande senso di pietà per i carcerati ed i condannati a morte. La poesia è pervasa da spirito religioso e Wilde mette in confronto il vero spirito cristiano, la pietà per i sofferenti ed i peccatori con l’atteggiamento chiuso, duro ed indifferente delle istituzioni religiose ufficiali e dei cappellani delle carceri . Cattaneo rileva che la tragica esperienza personale ha portato Wilde ad affrontare il tema della riforma delle prigioni e del sistema penale del quale si era occupato nello scritto “The soul of man under socialism” . Dalle riflessioni dello scrittore inglese redatte nelle opere dopo il carcere si ricava una denuncia della brutalità del trattamento carcerario e della inumanità nell’esecuzione della pena con critiche alla utilità sociale della stessa   Il capitolo XI è intitolato “André Gide e il non giudicare”  Il problema giuridico-penale è stato esaminato anche da un noto scrittore francese contemporaneo Gide, che lo ha affrontato in tre stimolanti scritti “Souvenir de la Cour d’Assise” che racchiude la sua esperienza quale giurato in alcuni processi penali del 1912, “L’affaire Redureau” e “La sequestrée de Poitiers” che poi sono stati pubblicati insieme in una raccolta dal titolo ”Ne jugez pas”  Cattaneo rileva che di tale scritto non si sono occupati molto i critici ed i commentatori, come sempre avviene quando si tratta di problemi giuridici in veste letteraria. L’analisi del volume di Gide è interessante perché il libro è molto rilevante per lo studio di rapporti tra diritto  penale  e letteratura e costituisce delle precise prese di posizione dirette su temi giuridico-penali, desunti dalla realtà della vita. Cattaneo mette in luce l’attenzione, la precisione, la serietà e la preparazione dimostrate dallo scrittore francese nel trattare i temi giuridici, soprattutto per la precisione del linguaggio giuridico. Gide dimostra competenza nel trattare problemi giuridico-penali e probabilmente “l’ indagine di certi casi criminali lo induce all’analisi di talune zone inesplorate della psiche umana”    L’atteggiamento dominante di Gide  è il “favor rei”  che si esprime in due modi o a due livelli: da un lato sul piano processuale lo scrittore volge l’attenzione al rispetto delle garanzie dell’imputato, ad una equilibrata ed equa conduzione dell’interrogatorio, alla escussione di tutti i testimoni, specie quelli della difesa. Lo scrittore francese solleva anche  nei suoi scritti l’esigenza di una riforma del modo di porre le domande ai giurati e di chiarire il loro contenuto. Gide si mostra sempre umano e compassionevole verso i colpevoli, mostra l’esigenza che la pena sia in generale ridotta e che si tenga conto degli elementi che valgono a titolo di difesa, quali motivi di giustificazioni e scuse. Lo scrittore francese si preoccupa che la pena possa causare mali peggiori e cerca di evitare risultati negativi della stessa. Cattaneo evidenzia che in sostanza nel libro di Gide “è primaria l’attenzione per l’uomo, la sua complessità e la sua imperscrutabilità psicologica, che porta al dubbio e alla perplessità circa il fatto che alcuni uomini possano giudicare altri uomini, queste pagine sono dunque dominate dal monito evangelico, per cui particolarmente adatto risulta il titolo complessivo della raccolta: Ne jugez pas.”  Il capitolo XI  è intitolato “Franz Kafka, la legge e il totalitarismo”   Cattaneo ha discusso in molte opere il problema del totalitarismo che è stato analizzato soprattutto nel suo volume “Terrorismo ed arbitrio Il problema giuridico del totalitarismo”  Analizzando le opere di Kafka C. premette che è particolarmente rilevante il pericolo di un forte divario fra la letteratura critica ed interpretativa ed il testo originario dello scrittore per cui ritiene che siano legittime molte diverse interpretazioni dell’opera di Kafka, e molte <chiavi di lettura> ., certamente l’interpretazione più interessante dello scrittore ceco è quella data dall’amico Max Brod,  che evidenzia la religiosità ebraica presente nelle opere di Kafka ed in questa chiave interpreta i brani relativi al problema della legge, del processo e della colpa.  Una interpretazione giuridica delle opere di Kafka è stata compiuta da Pernthaler.Cattaneo intende esaminare alcune opere di Kafka dalle quali il problema della legge emerge anche dal punto di vista filosofico-giuridico  In tali opere di Kafka ricorre il tema del difficile rapporto dell’uomo con la legge, che è interpretato in chiave religiosa o in chiave psicologica o psicoanalitica ma che può essere analizzato anche dal punto di vista filosofico-giuridico. C. esamina alcuni temi che emergono da “Il Processo”  dall’apologo “Vor dem gesetz”, dallo scritto ”Zur Frage der Gesetze” e dalla novella “In der Strafkolonie” e dall’analisi complessiva di tali opere interpreta Kafka come profeta e critico del totalitarismo che fu instaurato in alcune nazioni dopo la sua morte, lo scrittore ceco delinea situazioni di angoscia, di incertezza, di impossibilità di comunicazione, di errore e di ferocia tipiche del totalitarismo. Kafka collega la burocrazia e l’oppressione del potere sugli uomini caratteristica del nascente totalitarismo . Pietro Citati rileva che <Nel Processo, l’immenso Dio sconosciuto, di cui non ascoltiamo mai pronunciare il nome, ha invece una vita così intensa e un potere così illimitato, come forse non ha ma avuto nei tempi> L’interpretazione di Citati è più psicanalitica che religiosa ma è priva di prospettiva giuridico-politica. Di impronta psicoanalitica è l’interpretazione data da Sgorlon del <Processo> di Kafka  ma la prospettiva giuridico politica, trascurata da questi studiosi, è presente e Cattaneo evidenzia che proprio nel primo capitolo, in cui è narrato l’improvviso arresto mattutino di Joseph K esprime in modo preciso proprio la sensazione del passaggio graduale ed insensibile dallo Stato di diritto allo Stato totalitario .Di seguito le indicazioni che Joseph K riesce a ricevere da parte di vari personaggi connessi al Tribunale concernenti il meccanismo, il funzionamento, l’andamento del processo mettono in luce la totale assenza di garanzie giuridiche e processuali, di tutela dell’imputato, elementi che costituiscono l’esatta antitesi dello Stato di diritto Il tema della inconoscibilità e irragiugibilità delle leggi è ripreso da Kafka nello scritto <Zur Frage der Gesetze> In tale scritto Kafka delle <nostre leggi> che non sono conosciute da tutti, ma sono un segreto del piccolo gruppo della nobiltà che ci domina. Kafka dichiara di non avere in mente tanto gli svantaggi derivanti dalle diverse possibilità di interpretazione, quando questa è riservata ad alcuni e non all’intero popolo, questi svantaggi non sono poi molto grandi. Le leggi sono antiche, secoli hanno lavorato alla loro interpretazione, l’interpretazione è diventata essa stessa legge, e sussistono sempre, benché limitate, alcune libertà di scelta dell’interpretazione  Il motivo dominane l’intero scritto è il carattere inconoscibile della legge, dato che la legge è misteriosa e nessun membro del popolo è in grado di conoscerla per cui è comprensibile che vi sia qualcuno che arriva a negare l’esistenza delle leggi e riconosce peraltro il diritto all’esistenza della nobiltà  La fredda descrizione di uno strumento di supplizio, nell’ambito di un sistema processuale completamente privo delle fondamentali garanzie è il messaggio del racconto <In der Strafkolonie> (Nella colonia penale) e la conclusione della novella di Kafka riflette la logica del totalitarismo per cui quando il viaggiatore comunica all’ufficiale di essere avversario di questo sistema punitivo, l’ufficiale si rende conto di essere rimasto il solo difensore di tale sistema punitivo e libera il soldato dalla macchina del supplizio, si denuda e si pone lui stesso sul lettino al posto del condannato, la macchina del supplizio inizia a funzionare  e l’ufficiale muore senza aver capito il senso del supplizio   come ogni sistema totalitario si autodistrugge e divora i propri figli Cattaneo cita la fucilazione dei coniugi Ceausescu nel 1989  operata nell’ambito del totalitarismo comunista. L’Appendice del volume è intitolata “Vaclav Havel e la legge come <<alibi>> nel sistema post-totalitario”   Havel, noto scrittore contemporaneo, che è stato Presidente della repubblica cecoslovacca, è autore di numerose opere letterarie e teatrali. C. ritiene che se Kafka rappresenta il tempo del pre-totalitarismo, Havel rappresenta il post-totalitarismo,al quale ha dedicato uno scritto bblicato nel 1978 che l’autore del volume esamina nella traduzione tedesca.    Havel delinea l’opposizione al comunismo, nel suo momento post-totalitario, come tentativo di vivere nella verità; la verità, intesa come opposizione ad un sistema che si fonda e si regge sulla menzogna. Lo scritto ha un carattere etico-politico ma contiene importanti pagine di natura giuridica e di critica dell’ordinamento giuridico proprio del regime totalitario e post-totalitario.  Tale sistema politico è caratterizzato, secondo lo scrittore ceco,  come una dittatura della burocrazia politica su una società livellata. Lo scrittore ceco  elenca le caratteristiche del sistema <post-totalitario> che lo distinguono dalla dittatura tradizionale ed evidenzia che  A) tale sistema non è delimitato territorialmente ma domina in un ampio blocco di forze ed è retto da una superpotenza  B) mentre le dittature classiche non hanno una solida radice storica, la radice di tale sistema dono i movimenti operai e socialisti del XIX secolo.  C) Tale sistema dispone di una ideologia strutturata ed elastica che ha i caratteri di una religione secolarizzata ed offre una risposta ad ogni domanda dell’uomo in una epoca di crisi delle certezze esistenziali  D) Alle dittature tradizionali spettano elementi di improvvisazione per quanto attiene alla tecnica del potere mentre lo sviluppo di 60 anni nell’Unione sovietica e di 30 anni nei paesi dell’Est europeo ha dimostrato la creazione di un meccanismo perfetto, che permette la manipolazione diretta ed indiretta della società. La forza di tale sistema è incrementata dalla proprietà statuale  e dalla amministrazione centralizzata dei <mezzi di produzione>  E) Nella dittatura classica vi è una atmosfera di entusiasmo rivoluzionario, di eroismo, di spirito di sacrificio che sono scomparsi nel blocco sovietico. Tale blocco sovietico, che è un elemento solido del nostro mondo, è caratterizzato dalla stessa gerarchia di valori presenti nei paesi occidentali sviluppati e  sono una forma di società consumistica ed  industriale. Il sistema sopra descritto è designato da Havel come <post-totalitario> perché è un sistema totalitario con caratteristiche diverse dalle dittature classiche e, rispetto al totalitarismo classico, è caratterizzato da una misura più attenuata di terrore ed arbitrio  Havel considera il sistema post-totalitario come caratterizzato dalla menzogna, ciò è un effetto del dominio della ideologia; gli uomini non devono credere alle mistificazioni totalitarie ma tollerarle in silenzio ed accetta, ciò è un vivere nella menzogna  e  lo scrittore insiste sul valore e sul significato morale ed esistenziale della dissidenza. Per quanto riguarda l’ordinamento giuridico nel sistema post-totalitario  lo scrittore rileva  che tale sistema sente la necessità di regolare tutto con una rete di prescrizioni, norme, istituzioni e regolamenti per cui gli uomini sono delle piccole viti di un meccanismo gigantesco.  Le professioni, le abitazioni ed i movimenti dei cittadini e le sue manifestazioni sociali e culturali sono controllate, ogni deviazione viene considerata un passo falso ed una manifestazione di egoismo ed anarchia. Havel rileva che non bisogna prendere alla lettera l’ordinamento giuridico e ciò che conta è< come è la vita> e se le leggi servono alla vita o la opprimono ¸la battaglia per la <legalità> deve vedere questa <legalità> sullo sfondo della vita come è realmente.  Analizzando il rapporto tra la società post-totalitaria e la moderna civiltà tecnologica, con riferimento anche agli scritti di Heidegger, Havel rileva che il sistema post-totalitario è solo un aspetto della generale incapacità dell’uomo contemporaneo di divenire <padrone della propria situazione> e la prospettiva giusta è quella di una <rivoluzione esistenziale> generalmente comprensiva  L’aspetto più interessane di Havel è la delineazione dei caratteri del sistema post-totalitario come fenomeno sorto dall’incontro della dittatura con la società industriale e consumistica.  Per quanto riguarda i problemi giuridici, Cattaneo rileva che Havel sottolinea il significato autentico del diritto, che deve avere coscienza dei propri limiti naturali, il diritto ha un significato esteriore, deve difendere alcune esigenze minime (tutela della convivenza civile dalla violenza e dalle invasioni nei diritti altrui ma non deve pretendere di adempiere a compiti per cui non è adatto  - In tal modo, sottolinea Cattaneo, il letterato ceco riprende la migliore lezione del liberalismo classico per cui il diritto non è al servizio del potere, ma può essere un valore solo in quanto esso sia un mezzo di difesa e la garanzia della libertà e della dignità dell’uomo   Il grande insegnamento del letterato Havel è la tutela del valore più calpestato dal totalitarismo, la dignità umana che è lo scopo fondamentale ed essenziale del diritto,  dato che diritto e libertà sono collegati ed il diritto ha valore se garantisce e protegge la libertà. DISSERTAZIONÉ • SULL ORIGINE DELL’ANTICA IDOLATRIA   E SULJ.A FORMA DE' PRIMI   IDOLATRICI SIMULACRI   COMPOSTA DALL'ABATE ;   Giuseppe luigi traversari   H   Patrizio Ravennate , Canonico Arciprete  della Infigne Collegiata di  Meldola , e tra gli Arcadi.  LANIO' ATENIENSH.     PRESSO GIOSEFFANTONIO ARCHI.  DISSERTAZIONE   SULL' ORIGINE   DELL’ ANTICA IDOLATRIA  E SULLA FORMA DE' PRIMI   IDOLATRICI SIMULACRI. AL NOBILISSIMO CAVALIERE ,   E DOTTISSIMO LETTERATO IL SIGNOR CONTE AURELIO GUARNIERI   PATRIZIO OS1MANO  L’AUTORE. Veneratissimo Signor Conte   fi 'S T fi Aria, intralciata, difficile , e per nju-  /. X no, ch’io fappia, di proposto rifchia-   tt » rata fi è la Queftione , che mi vien pro-   OS A porta a trattare, veneratiffimo Sig. Con-  te ; cioè fe i Simulacri primieri delle pagane divinità fodero lemplici e rozze Pietre, o quadrate, o rotonde, lenza veruna umana, o animalel-  ca ferabianza . Io ricevo con Ibmmo giubbilo per  una parte l’onore de’ voftri cenni, e vi fi) al mag-  gior fegao buon grado per avermeli gentilmente  partecipati . E’ una degnazion Angolare la voftra il  credermi pur capace di l'oddisfarvi in materia di eru-  dizione . Ma per l’ altra ben coaofcendo la pochez-  A 3 za del v/ 6 ' Dksert. sull* Origine   za del mio talento, e la fcartezza di mie cognizioni , provo un eftremo roflòre di non potervi ubbi-  dire in quel modo, che ad un voftro pari, ed alla  qualità dell’ argomento fi converrebbe. Inclinato  per genio all’ amena Letteratura , ma Tempre da im-  pieghi fagri , e da gravi Itudj recinto , e fommer-  lo in occupazioni tutte diverte , lenza tempo , lèn-  za relpiro come potrò teftenere la qualità di Lette-  rato innanzi a Voi , che in ogni maniera di colte  Lettere liete Maeflro ? E ben fapete quanto male in-  contrante a colui , che fu ardito parlar di guerra in-  T 4 nanzi ad Annibaie. Ciò non pertanto , fcnibrando-  mi più teoncia la taccia di malcreato , e di (cono-  fcente , che non quella d’ignorante , e di mal efper-  to , a telo fine di tellimoniarvi per alcun modo la  mia oltervanza , mi farò lecito di comunicarvi i miei  penlamenti. Sarà quindi gentile impiego del voltro  bel cuore infieme, e della vofira dottrina il com-  patirli te rozzi , o il rigettarli fe erranti. Per-  mettetemi però , gentilifitmo Sig. Conte , che io nel  diitenderli mi allontani alquanto dal metodo fecco  e digiuno, che per alcuni fi tiene , e che foltanto  confine nel produrre Autori a rifate , e inzeppar fe-  lli , e affafteflar citazioni. Comecché molto io lodi  la fatica e l’ induftria di chi procede fifFattamente ,  la materia, che abbiamo tra mano, fe io non vò  lungi dal vero , brama di fpaziare in più aperto cammino , « di venir rintracciata da’ Tuoi vetulti principi.  In due parti perciò credo ben fatto il dividere la  prefente Dillèrtazione , che a Voi trafmetto, e cou-  facro . Ragionerò nella prima alcun poco della ori-  gine, delle maniere , e degli oggetti di quella fatale  Idolatria , che a poco a poco lopprimendo i lumi  della natura , della ragione , della Religione , della  lloria , coprì di tenebre , e manommite tutta la faccia  dell’ Univerfo . Difcenderò pofeia naturalmente nel-  la feconda a rendere , per quanto io polla , proba-  bile la opinione, che t primi Idolatrici Simulacri  tollero di quadrata, o rotonda forma, e non aven-  ti figura alcuna o di Animale , o di Uomo . In   questa    dell'antica Idolatria 7   quella guila crederò di potere all* autorità voìtra ,  ed alla mia ubbidienza per alcuna via foddisfare.   ^ . Si laici a Maimonide ( i J , ed alla Scuola Ra-  binica il fidare lenza prove agli Antidiluviani tem-  pi l’epoca della nafcente fuperftizione. Entrando  nell’argomento, quel che puolli da noi con cer-  tezza affermare fi è, che poco tempo dopo il Di*  luvio s’ intrulè il Politeifmo a pervertir le menti de-  gli Uomini . Il libro di Giosuè f a ) ne avverte ,  che Tare Padre di Abramo , e di Nachor aveva fer-  vito a* Dei menzogneri . Óra la nalcita di Tare ?  fecondo i calcoli dell’ Uflerio, accadde non più di  22 1. anni dopo la generale inondazione del nofiro  Globo . Il libro poi di Giuditta ( 3 ) ci fa lapere ,  che non pur Tare , ma eli Antenati di Abramo fe-  guivano gli empj riti della Caldea adoratrice di più  falle Divinità. Labano chiama Tuoi Dei gl’ Idoli *  che Rachele tua Figliuola gli avea involati (”4), e  Giacobbe prima di offrire un facrificio all’ Altiifi-  mo fa recarli da tutti quelli di fua comitiva gl’ Ido-  li , che ferbavano , e li nafconde (otterrà .   Molto, dagli Eruditi fi difputa qual folle dell*  Idolatria nafcente il primiero oggetto. Pretende  il Clerico ( 5 J elfère fiati gli Angeli adorati lenza  limitazione , e lenza relazione all* Onnipotente.  Volilo ( 6 ) d* altra parte lòltiene , che il Dogma  de’ due Principi buono , e cattivo folle dell’ Idola-  tria più antica generatore. Noi non fiamo per di-  partirci dalla fentenza più comune, e più compro-  vata, cioè che gli Altri, e quindi gli < Elementi  follerò i primi a rifcuoter l’ adorazione de’ tralignan-  ti mortali. Fra un nembo di monumenti, e di au-  torità , che in conferma di tale fentenza recar po-   . A 4 * ' trei *   \ r »   ( 1 ) De Idolat. curri Interpr. Dionyfi VoJJìi .   ( 2 ) Cape 24. v. 2. ( 3 ) Cap. p. v. 8.   C4) Genef.cap. 31. v. 19. £?. 30., Cap . 3$. v. 2.   4 * (5 J Index Philolog. ad HiJÌ. Thil. Orienta  in voce Angelus , V Ajlra . ( 6 ) De idolat . lib. 1.      8 Dissert. sull* Origine   trei 3 e che in Macrobio C i ) , in Gerardo VofTio  già citato C 2 )> ne l Le Plucne ( 3 ), nel Bergero ( 4 )  lt polfòno agevolmente vedere , io trafcelgo il folo  Eufebio Cefarienlè , tanto più che in Lui rinven-  go accennata non pur 1 ’ origine , ma V ingànnevol  motivo di quella umana depravazione.' Egli adun-  que ( 5 ) colia (corta del gravilTìmo Diodoro Sici-  liano, parlando prima degli Egiziani, poi de’ Fe-  nici , popoli , fra’ quali ebbe forfè 1 ’ Idolatria la fua  culla , e finalmente de’ Greci , dice , che (6 ) ,, i  „ primi Abitatori di Egitto , avendo volti gli oc-  chi a contemplare il Mondo, e con alto ilupo-  „ re coixfiderando la natura di tutte le cole , ili-  3> marono, che il Sole, e la Luna follerò Dei lem-  3, piterni , e primarj , de’ quali per certo rapporto   „ chiamarono 1’ uno Ofiride , e 1’ altra Ilide   ,, infegnando eller quelli due Dei dell’ Univerfo  3, tutto moderatori. Rapporto poi ai Fenicj egli  afferma che • ,, i primi fra loro datifi ( 7 ) a filo-  ,, fofare , tennero unicamente in luogo di Dei il  ,, Sole , e la Luna , e gli altri Pianeti , e gli Ele-   ,, men-  33 . >   (1 ) Saturnale lib. 1. C 2 ) De Idololat. Orig. lib ».  3. per totum . (3 ) Storia del Cielo Tom. I.   C 4 ) Trattat . Storie, della Relig. Tom. 1 .   4 5 ) Yraparat. Evang. lib. I. c. 9.   ( 6 ) Tot* owj xotr A lyuirrov Avd’p'jìTHS ro  7 rcchctiQt ywofJLtviss ccvccfihr^ccvrcce tov xo$[jlov , xou  rlw rctfr oKw xa.rcLT'Kccyv/rcts re xoui  rocrras UTTohccfìett/ uvea Osar otihas re xou irpu-  ru$ vihiW) xou rlw <relwnv y w rov \xiv Osipiv ;  rlw ’Be Kit ovoyxKOA rara? Sé .Tttf Ozag   u<pirrocvr<u rov $i[/,tccvtcc xospLw ì>ioixe*v .   ( 7 ) HA/ok , xcu (reXlw/iv 5 xou r»? Tkoittxs  T rKetfY\rots ctrrepccs , xou rot sto%£cc } xta tvtoìs  nwoufiiy pLQvov lyivwsxov .    dell'antica Idolatria. 9   „ menti in oltre con quanto a !or fi congiunge ,,  Finalmente paHando a far parola dei Greci , reca  il bel palio di Platone nel Cratilo, che in queite  note fi elprime ( i ): ,, A me certamente ralfem-  ,,bra, che i primi ad abitare la Grecia quelli fol-  „ tanto per Dei riputalfero , che dalla maggior  , pane de’ Barbari prefentemente fi adorano , il  ’, Sole cioè , la Luna , la Terra , gli Altri , il Cie-  lo , quali vedendo e.fi con perpetuo corlb aggi-  ,, rarfi , dalla parola ra G«y correre , Aosi Dei li   ,, chiamarono. ,, t   Il lèntimento di Eulebio, o di Diodoro, che  dee chiamarli il lèntimento di tutti gli Storici  più fenfati , potrebbe!! agevolmente con facra au-  torità comprovare. Mosè ( *J, Giobbe (i ) , I*  .Autore del libro della Sapienza ( 4 ) col profcri-  vere il culto fuperltiziofo degli Altri, e degli Ele-  menti , il fuppongono tacitamente come il più an-  tico , perchè il dipingono come il più lulinghie-  j>o , e capace a pervertire l'umano cuore.   Così fu veramente. Il cuore umano aggirato  da un fafeino teuebrofo di licenziole palliont , am-  mollito dal lbverchio amor del piacere , fcollò dal  natio genio d' indipendenza , languido , e indiffe-  rente negli efercizj della Religione , la quale già  inftillata nel primo Padre erafi poi tutta pura da  INoè trafmellà ne' difeeudenti , cominciò palio pal-  io a   ( 1 ) tyojyovTout tj.ot 01 t porrà ruv P 1 tìpuiruv rwv   Trìpi TW EAÀa^a J T 8 TKf ^JjOVtSi Stai «y«>' 6 cU ,   • WiTTlp vuù T0XK01 TVV (locpQctpW , t{KlOV , XOU  xcu ylw, xou carpa , xou tspcaov . art   OVLU tWTOC OpWTK TTOO/TCO OMrl 10 VTCL , XOU   Piovra, j curo tojuths tìk <piKi'j>s rns tu Orir Qks  curasi (tovoijlkìou .   (2) Deuter. c. 4. v. ip. (3) Job. C. 31. V. 16.  1 ( 4 ) Sap. c. 1 3.    Digitized by Google    io Dissert. sull'Origine  fo a perdere la giufta idea del vero Nfume , elio  gli brillava all’ intorno con tanta luce* Un guitto*  e terribil giudizio di Dio medeilmo , il quale, come  avverte S. Agostino , fparge penali tenebre (opra .  le illecite cupidigie , permife nell’ Domo un sì fa-  tale dementamento. Chi fdegnava di rendere al  Facitore 1’ onor dovuto come a Sovrano , meritò  di perder colpevolmente lino le tracce per ravvi-  farlo . Abbandonato così alla stoltezza de' Tuoi pen-  fieri, fcambiò ( i ) la gloria sfolgoreggiarne, ed  immenia dell' incorruttibile Iddio co'’ limitati river-  beri , che ne vedea nelle Creature. Gli Astri pri- .  ma di tutto a lui parvero contrallegnati co' mag-  giori caratteri della Divinità . Quel movimento •.  loro non interrotto , que’ periodi tempre uniformi ,  quello fplendore Tempre brillante, quegl' in Aulii :  sempre benefìci fermarono il corfo alla di lui am-  mirazione , e riconofcenza , quando pur dovevano  lervirgli di guida per falire ad amar la bontà, a ri-  conofcere la potenza del Creatore . Egli lciocca-  mente impadulò ne’ rulcelli , e dimenticò la lòrgen-  te , e invece di riguardarli come Ministri delle  divine beneficenze, li adorò come Dei. L’ amor  proprio , la fuperbia , la mollezza , il libertinaggio  trovarono il loro conto in fimil delirio. Gli Astri  comparivano Dei benigni, comodi, utili, che nul*  la eligevano, nulla vietavano, per nulla al più cor*  rotto genio opponevanlì , nè mettean freno alle più  torte inclinazioni . Il culto degli Elementi , della  Terra, del Fuoco, dell’Aria, de’ Venti lì congiun-  te ben presto con quello degli Astri, perchè appog-  giato fopra gli stelli principj , e come un palio mal  mifurato lud’un pendio fdrucciolevole cagiona pre-  cipizi Tempre maggiori , fi venne ad attribuire la  divinità alle inlenfibili cole, ed infieme agli utili,  e dannofi animali, agli uni per riconolceili de’ be-  nefizi , che fanno agli Uomini \ agli altri per pla-  carli , e distornarli dall’ infierire . L’ antichiflima   opmio- Afojì. ad Rom, c. x. dell' antica Idolatria . n  opinione de’ due Principj buono , e cattivo ebbe for-  fè gran parte in questi folleggiamenti, eia vera-  ce , ma poi alterata dottrina degli Angeli , de’ De-  moni , delle Anime de’ trapalfati trovolfi molto op-  portuna per dilatarli. Si volle credere tutta la na-  tura animata . Animati lì tennero gli Astri dagl’  Indiani , dai Caldei, dagli Egizj , dai Maghi, da  Pitagora , da Platone , da Cicerone , da Varrone .  Il mare , i fiumi , le fontane , la pioggia , il tuo-  no , le rupi , le caverne , le pietre , i monti , gli  alberi , le piante , gli erbaggi , e tutti poi gli Ani-  mali li coniìderarono come alberghi d’ una infinità  di attive prelìdi Intelligenze producitrici di quelli  effetti or nocevoli , .or vantaggiolt , che feulco-  no il fenlo umano . Le Anime de’ Trapalfati o  dalla riconolcenza , o dall’ amor degli Uomini con-  fecrate ricevettero ben prello 1’ Apoteolì , ed ac-  crebbero il numero delle Intelligenze motrici del-  la natura . Come Macrobio C i ) , e 1’ Abate Le  Pluche ( 2 _),il primo in aria da Filofofo , il fecon-  do in aria da Storico, diffiifamente ci mollrano,  Oliride, Ifidè , Amone,Oro, Serapide degli Egizj ;  Zeus , o Dios Giove , Marte , Saturno , Venere ,  Mercurio , Giunone , Cibele de’ Greci , e de’ Roma-  ni ; Dionilìo, Urotalt ,e Alilat degli Arabi; Marnas  de’ Fililtei; Moloch degli Ammoniti; Adad de’ Sirj ;  Adonai , Achad , Architi , Baelet , Belfamin , Mel-  chet de’ Paleltini , non erano da principio che il  Sole, la Luna, o la Terra, e quindi in progredii  Anime di Principi o Principelle, d’ Eroi o Eroi-  ne ite a regnar nel Sole, nella Luna, negli Altri,  o a preledere alla Terra. Quindi la turba degl’ Id-  dj Confenti o maggiori , degl’ Iddj fecondar) o  minori ; e 1’ altra infinita plebaglia di unte varie  Divinità regolatrici di tutti gli effetti , e di tutti  gli elleri naturali , quale non meno accuratamen-  te, che leggiadramente ci viene dal grande Ago-  stino   ( t ) Saturnal. lib. I. f a J Star, del Ciel. lib. I*     i2 Dissert. sull* Origine   ftino C 1 J accennata . In Quella guifa le due opi-  nioni del Volito, e del Clerico amichevolmente  fi legano colla opinione comune, e tutte unite ci  additano la prima origine del più grande acceca-  mento degli Uomini. ,, Deplorabile acciecamen-  ,, to ! (" concluda quello paragrafo il facro Autore del  Libro della Sapienza ) vana illufione di quelli ,  „ che non conolcono Dio ! Attorniati da’ Tuoi be-  ,, nefizj non hanno veduta la mano, che li dif-  „ fonde ; dalla magnificenza delle opere della na-  ,, tura non ne hanuo faputo riconofcere 1’ Artefi-  ce . Si fono perfuafi , che il fuoco , 1’ aria , i  ,, venti , le llelle. Tacque, il Sole, la Luna fof-   fero i Dei , che reggono il' Mondo Più   „ miferabili ancora , perchè ripongono la lor fìdu-  ,, eia in fimulacri morti , ed inanimati ; elfi dan-  „ no il nome di Dei all’ opera della mano degli  „ Uomini , alT oro , all’ argento indullriofamente  ,, lavorati a figure d’ animali , a pietre modellate   ,, fecondo il gulto di un Artefice L’Uomo   ,, fi forma un Dio d’ un tronco inutile, a cui dà  •la propria forma dia', oppur quella d’ un Ani-  „ male. ,,   Qui però vuole avvertirli , che T ufo de’ Si-  mulacri in figura d’ Uomini , e d’ Animali appar-  tiene bensì a’ tempi della già groil'olana , ed  avanzata Idolatria , ma non a quelli della nalcen-  te . ,, Un Uom fa J , che dritto ragioni f pro-   fieeue    fi) De Civit. Dei lib. V. VI.   ( 2 ) AM' ort y.ev oi rpurrot } koa tMcuot«-   TOl TUV (XV&pWTUJV , «Té VOCUy O/XoBojWfOWf TpO-  tìx.o * , «Té hot# ccipttpufjLcuriv j «tu t ore ypot~  tylXJfc , «Sé xA.afT.XW J yi yAlTTtXW , » « vlpict -  rrOTQITLKH f rCKVYK tpiUpyifAWYIS , 8^£ fJ.IV QLKQÒOUt-  *W, B^é op^iTtKTOVtKVis o-vujKTurrg y ra.ru ry  o ifjca mfaoyityj.(vy ìiyiXov etra* .     dell'antica Idolatria;.   fiegue il noftro Eufebio, rapportandoli alle telli-  monianze di tutti gli Autori gentili ) può facil-  „ mente rimanere perfuafo , che i primi ed an-  „ tichiffimi Uomini niuna fatica , o Audio ripofe-  „ ro nel fabbricare Templi , ed innalzar Simula-  cri , non etlèndo Aate per anco inventate le  „ Arti della Pittura , della Statuaria , della Scol-  „ tura, anzi neppure 1’ Architettonica . „ Quindi  dopo avere ripetuto il già detto circa la primige-  nia adorazione degli Astri conclude , che „ da  „ principio niuna menzione vi fu di greca , o di  yy babilonica Teogonia , niun ufo di Simulacri y  „ niuna ridevole vanità nella denominazione de-  ,, gli Dei parte mafchj , e parte femmine • fi)  È veramente lembra cofa aliai naturale , che la  fòrgente Idolatria ne' vetustiffimi tempi , comecché  avelie cangiato 1* oggetto della Religion prima e  verace , non giungeiìè però sì tosto a cangiarne i  riti e le cerimonie . Porfirio fcortato da Teo-  frasto , e citato da Eufebio ( 2 J pretende delinear-  ci il religiofo culto innocente degli antichi Poli-  teisti . Ma in verità quell'impostore Filofofo ne-  mico giurato del Cristianefimo nell’ adombrarci ì*  estrinseca religione de’ primi adoratori de’ falfi Dei ,  non fa che prendere in prestito que’ colori , con  cui la Scrittura Santa ci adombra la Religione de’  Patriarchi adoratori del vero Dio. Nulla infatti di  più fèmplice e di più fchietto . Que' fanti IH mi v  Uomini negli efercizj di Religione poco curavanfi  dell’esteriore, e del fasto. Ellì la facev.an confi-  stere in picciol numero di estrinfeche azioni , per-  fuafi , che il vero culto è quello del cuore. L’ in-  nalzamento de’ Templi non oltrepalla per avventu-  ra l’età di Mosè. Un femplice Altare in un luo-  go   ( I ) Oux tstpct ng Iw Qtoyoviccs EXXfuwX'f? , #  fiapGctpiKK rote TaXouTaTOtf f «^6/x »; tcw 7\oy<K y  • bhe &X.0VW ìlpustS y ìtìt Ó c. «   (a} Prjepar. Evang. lib, J,Djssert. sull’Origine   go mondo , e fpartato , lènza statue e lènza figu*  re , lènza adornamenti e lènza ricchezze , in un  bofco , o fovra d’ una eminenza era il luogo dove  Abele , Noè , Abramo , Ifiacco , Giacobbe colle lo-  ro famiglie fi raunavano per tributare all* Altiflìmo  i loro voti ed omaggi . Ivi a Lui predavano le  primizie dell’ erbe e de’ frutti , ovvero il latte , i  «radumi , e le lane degli Animali , che dopo il Di-  luvio cominciarono ad immolarli . Ora fu quelle  medefime tracce di religiofa femplicità io tengo per  certo , che nella fua infanzia procedette la Idola-  tria . Intela a venerar come Dei il Sole, la Luna,  la milizia celefte, gli elementi , le prelidi Intelli-  genze non Teppe sì tofto ufare altra forma di culto ,  fe non fe quella , con cui aveva intefo , e veduto  adorarli da’ Patriarchi fedeli il fommo Conditore  dell’ Univerfo . Niun ulo adunque per anco de’ Si-  mulacri rapprelentanti fiotto animalefica , o umana  lembianza le pretelè Divinità . Niun ufo di quelle  datue , che rozzamente in feguito , e grottefcamen-  te modellate dagli Egizj , ottennero poi e castiga-  to difiegno , e fipiccata *. motta , ed energico atteg-  giamento lotto lo ficalpello indulìre di Dedalo. An-  zi qui dee acconciamente fioggiungerfi , che anche  dopo la coftruzione de’ Templi fi tardò molto prefi*  fo le antiche Nazioni ad ergere in elfi le llatue fi-  gurate ; come degli Egiziani parlando afièrma Lu-  ciano , il quale aggiunge ( i ) d’ aver nella Siria  veduti Templi dell’ antichità più remota lènza im-  magine , o rapprefientanza veruna . Che più? Ro-  ma detta , che in paragon degli Egizj , e de’ Greci  nacque sì tardi, per oltre anni 170. ( come ci atte-  da Varrone citato ( 2 ) da S. Agofiino ) Simulacri  non ebbe ( 3 ) ne’ proprj Templi,, finché Tarquinia   Fri fico   ( 1 } De Dea Syria . ( 2 ) De Civit. Dei lib . 4. c. 3 1.   ( 3_) Dicit eiiam Varrò , antiquos Rcmanos ylufi   quam annos 170. Deos fine Simulacro coluijje .   Qiiod fi adhuc , inquit , manfijjet y caflius Dii ob -  fervarcntur . S. Auguft. citat.    dell’antica Idolatria. t?   Prifco Uomo di Greco , e di Tofcano genio tutta  di Simulacri inondolla . Anzi più didimamente  aflerifce Zonara ellervi date leggi , forfè di Numa ,   £ roibitive a’ Romani di rapprelentare la immagine  livina fotto la forma di Uomo, ovvero di Anima-  le .( i ) Ma l’ Idolatria finalmente è l’opera del-  le tenebre, e per poco crefciuta, non potea a me-  no di non addenfarle nel cuor dell’Uomo. L’Uo-  mo divenuto più empio circa gli oggetti dell’inter-  no fuo culto , non tardò guari a fard ridicolo circa  le maniere di elercitarlo. Egli avea degradata ab-  ballala la fua ragione , adorando come Dei le fem-  plici Creature . Quello medelìmo fpirito di verti-  gine il tratte ben pretto ad avvilirli viemmaggior-  menfe coll’ adorare 1’ opera fletta delle fue mani .  Ei volle oggetti fenfibili e materiali anche all’  •efterno fuo culto. Ei pretefe di circolcrivere li  fuoi Dei per converfarvi più da vicino , ed innal-  zò , e venerò .Simulacri . Or di qual forma erede-  rem noi , che follerò in quello genere le prime in-  venzioni dell’ umana ttoltezza > Quali gli fcogli ,  in cui da quella banda urtarono primamente gli  Uomini deliranti ? Eccomi alla feconda parte della  Dittertazione pervenuto, ed eccomi al punto di nia-  nifeltare la mia opinione .   Io reputo adunque probabiliflìmo , che follerò  in primo luogo i Pilieri , o le grotte pietre qua-  drate , le quau chiamate furon Betilie , e che ori-   f linariamente non erano, che Are ferventi alle rc-  igiole adunanze. Sanconiatone , Scrittore antichit-  fimo delle tradizioni Fenicie , portato da Portino  fino alle ftelle , e da Lui creduto informatilfimo  della Storia Giudaica , come non molto dittante  dalla età di Mosè , nel celebre fuo frammento , là  dove narra le imprefe del Dio Urano , o Cielo ,   affer-   ( i ) At'typvrou$v , xan tyofiop$ov nxwa. tu Sa  eariSTca Pvy.yjois aTe-r/wcoo'. / uuar . Tom. a . y. io-    Digitized by Google     I  T 6 DlSSEftf. sull* Ortgtné    afferma, che ,, Egli trovò le Betilie ( i ) coftrtien-  „ do con inlolita mirabil arte Pietre animate. ,,  Io non ho letto di tale Frammento fé non la ver-  done greca fatta già da Filone Biblico , e riporta-  ta diftefamente da Eufebio . ( 2 J So, che il Si-  gnor di Gebelin colla fpiegazione di quello antico  irjonumento ha fatto vedere, che il Traduttor gre-  cò ne avea malamente recato il lenfo, e che ridu-  cendo i termini al vero loro fignificato , 1 ’ Autor  Fenicio trovali uniforme al Legislator degli Ebrei.  (3) Checché ne fia , dilHetto non vengami di le-  guir le tracce già legnate dal grande Uezio , e dall*  erudito Calmet , affermando , che Sanconiatone in  quell’ accennato ritrovamento delle Betilie , e co-  struzion di Pietre animate ci adombra , benché in  modo affai alterato , la vera Storia del celebre mo-  numento, o Altare di Giacobbe. Quest’ottimo Pa-  triarca (~ 4 J nel fuo viaggio da Berfabee in Melo-  potamia postoli in certo luogo a dormire fu di un  grande , e ruvido Saffo acconciatoli a forma di guan-  ciale , ebbe la sì nota vifion della Scala corfeggia-  ta dagli Angeli , fu la di cui lòmmità appoggiato  flava 1 ’ AltilTìmo , da cui lènti rinnovarli le grandi  promelfe fatte ad Abramo . Deftatofi egli , efcla-  mò Quanto è mai terribile quello luogo / Vera-  mente non è egli altro , che la Cafa di Dio , e la  porta del Cielo . Diede a quel luogo il nome di  Beth - el , che lignifica nell’ ebreo linguaggio Cafa.  di Dio Conlècrò il Saffo, che la notte lèrvUo  gli aveva di guanciale , verfandovi dell’ Olio , e in  monumento 1 * erefle. Quindi concependo un Vo-  to , il conclufe col dire cs II Signore farà il mi®  Dio se e quella Pietra chiameraffì Cafa di Dio c 5    ( I ) Et/ miwe 0»? Oupcao?    ( 2 ) Pr*p. Evang. lib . I. c. 9. C 3 ) AUeg. Orien-  tai. p. 22. e 9 5. Memor. de V Accad. des Infcrip*  T . 6 1. in 12. p, 24 3. (4) Cenef. 28. 18.    Dalla     V*    dell'antica Idolatria; 17   Dalla Mefopotamia tornando nella Terra di Ca*  naan , giunto allo Stello luogo , e Soddisfar volen-  do al già fatto voto d’ offerire a Dio la decima  de’ Tuoi beni , innalzò fimil mente un Altare di  pietra , e replicò il nome di Beth - el , Cafìz di  Dio. Finalmente di bel nuovo in que’ contorni  felicitato dall’ apparizien del Signore , nove! mo-  numento di pietra cortrulle , d’ olio , e di liba-  zioni Spalmandolo, ed a lui pure comunicando la  denominazione di Beth - el . Io ammetterò , che  quello termine Beth - el dato agli Altari , ed ai mo-  numenti facri , quanto all’ edema efprelfione , fofr  fe uri ritrovamento di Giacobbe; ma follerrò con  egual verità, che quanto all’ idea , ed all’interno  . concetto degli Uomini ei difcendelfè dalla tradi'  zion più rimota. Beth - el , Caja di Dio , potea fi-  milmente confiderai , e chiamarli 1’ Altare nell*  ulcir dall’ Arca edificato dal buon Noè , perchè  ivi 1’ AltiSTimo a lui diede fegni fenfibili di fua  prelenza , e mifericordia . Beth-el per Somiglian-  te ragione potea appellarli 1’ Altare edificato da  Abramo fui monte Moria per fagrificare il Figliuo-  lo; éd egli infatti chiamò quel monte Dominus vi -  debit. Beth-el giuftamente nomar fi poteano tutti  gli Altari innalzati da’ Patriarchi fedeli per ufo an-  tichilfimo, forle dagli antidiluviani fecoli proceden-  te , perchè tutti onorati da qualche' Speciale com-  mercio della Divinità , percnè diftinti da qualche  fuperna verfata beneficenza , perchè in certo modo  protetti , ed invertiti dal Nume , e destinati a tri-  butargli culto , Sacrifizio , e riconofcenza dalle cir-  costanti Generazioni .   Ora da quefti Altari , e monumenti di pietra ,  chiamati da Giacobbe per la prima volta Beth - el ,  cioè Caja di Dio , e già tenuti per tali fino da*  remotiSfimi tempi , chi non conofce ( entra qui  acconciamente il Le Pluche) (i J etìerne derivate  le sì note Betilie , quelle grolle pietre quadrate ,   B che   to Stor. del Cielo , 1 8 D r SSERT. SULL* ORIGINE  che con ol) preziofi , ed aromatiche eircnze irriga-  vano , e che poi furono in tanti luoghi oggetto di  veturtiffima adorazione, come da più Autori , e no-  minatamente da Fozio nella fua Biblioteca dinto-  ftrafi ? Chi non conofce dal Bethel di Giacobbe  C foggiunge opportunamente il Voflìo ) ( i ) deri-  vato il famofò Betilos , quel (allo prelentato a Sa-  turno invece di Giove, come per relazione favo-  lofa Efichio ( 2 ) ci narra , e che ottenne poi tan-  to culto dalla forfennata Gentilità ? Ed io al Vof-  iìo , ed al Le Pluche fottofcrivendomi , concludo :  Chi non conofce in quelti monumenti, ed Altari  il primo inciampo degl’ Idolatri , ed il primo og-  getto fènfìbile , e materiale delle adorazioni fuper-  ìtiziofe ? Mettiamci di grazia in varj punti di villa  naturalismi . Confideriamo il genere umano dopo  la confufion delle lingue , e la differitone delle  .Nazioni già prefo da uno fpirito di vertigine , e  già declinante al Politeifmo . Malgrado le volon-  tarie tenebre , che incominciano ad acciecarlo et  l'erba tuttora nel cuore il fème della religion pri-  migenia ; e nella memoria i fagri riti, e le reli-  giofe cerimonie dal Patriarca Noè tramandate .  Egli perciò innalza, e confagra in ogni luogo pie-  tre modellate a fòggia d’ Altare per onorarvi la  Divinità : ei vi ft proftra all’ intorno: ci vi ce-  lebra le religiofè adunanze : ei vi prefenta i Tuoi  Sagrifizj , comecché forfè non più al folo , e vero  Nume, nta agli altri ' ancora , agli elementi, agli  fpiriti . Ei fa però , ed una tradizione non rimo-  ta glielo rammenta , che il primo Riparatore de-  gli Uomini dopo il Diluvio ergendo un limile Al-  tare , il vide torto adombrato dalla fènfibil pre-  lenza , e maeftà dell’ Altiflìmo difeefo in atto di  ricevere , e di gradire placabilmente i fuoi Olo-   caufti .   CO De PhU. ChriJIUn. C? Theol. Gent. Vib. 6. t. :p.   ( 2 ) BatTuho? «toj fjtocXe-fTO o AtGo; to>   K poeti) cari &ios ,    Dell* antica Idolatria;   taufti . Comecché la Scrittura noi dica , io noa  credo temerità 1* aderire , che limili degnazioni  compartifle talvolta il Signore anche ai Figliuoli,  o ai Nipoti di Noè , che fi mantenner fedeli pri-  ma d' Aoramo. Ben il vecchio Sacerdote, e Re  di Salem Melchifedecco ne avea tutto il merito.  Checché ne fia , certamente il genere umano  non può non confiderar quelle pietre , od Altari ,  che qual cola rilpettabile , e (anta. Fi le vede  fèrbate ad un culto Speciale della Divinità , e ad  un peculiar commercio col Cielo : ei le vede in-   nalzate o per rinnovar la memoria d' alcun luper-  no ricevuto favore , o per invitar gli animi ad una  fedele riconofceitza : ei le vede anche ufate per   edere teftimonio , e monumento durevole delle al-  leanze , de' patti , delle folenni prometle , e de' giu-  ramenti , ne’ quali s’ interpone il tremendo nome »  e la Maeftà Divina. Gli efempli , che fu di ciò  abbiamo nella Scrittura , non fanno , che dinotarci  una vetuftidìma poftumanza. A tutto quello s' ag-  giunga 1' opinione già di fopra accennata , e che fi-  no dai primi tempi fi propagò fra i mortali , cioè  che tutto ripieno folle d’ Intelligenze regolatrici  degli elleri , e degli effetti della natura . Con-  nettali pure l’altra opinione d’ antichità non mi-  nore da S. Agoffino rammentataci ( i J colle pa-  role del celebre Mercurio Trifmegifto , cioè che  per certe conlecrazioni rimanellèro li Simulacri  non pure inveititi , ma realmente animati dalli  Dei venuti ad abitarvi , affin di nuocere, o d?  giovare più da vicino ai loro adoratori . Ciò , che  forfè adombrar volle Sanconiatone con quella ef-   preffione di 7 ^ 0 ^$ Pietre animate. Con-   siderando noi il genere umano in tali profpetti ,  qual cola più probabile, e naturale a concluderli,  eh' egli , parte abufando delle antiche tradizioni  veraci , parte ingannato dalle nuove folli perlua-   B 2 fioni,   C t J De Civit. Dei lib. 7. e. 23. e 24*    f    2 o Dissert. sull* Origine   fioni j e già rilbluto di voler oggetti fenfibili al  proprio culto , cominciale ben pretto a venerare  quegli Altari , que’ monumenti di pietra , quelle  Eetilie , .riguardandole o come Alberghi della Di-  vinità , o come fimboli della prefenza divina , e  finalmente , tempre più creteendo 1* accecamen-  to , come tanti veraci Iddii ? Se il genere umano  è pure intefiato di adorare l’opera delle tee ma-  ni , qual cofa più reverenda , e più degna di culto  ai di lui occhi pretentali , che i mentovati Altari ,  o monumenti , o Betilie ?   Qui vorrà alcuno per avventura obbjettarmi ,  che quando trattali d’antichità olcurilfima , più che^  col raziocinio , voglionfi colla fioria , e co’ fatti  fiabilir le opinioni j ed io non fono per conten-  derlo. Forte però, che l’opinione da me propo-  sta non li deduce naturalmente in gran parte dai  Libri Storici di Mosè , i quali ( lanciando anche  ftare quella ifpirazione divina , che li confacra, e  mirandoli tei con occhio di Filotefo non tumido  per alterezza , nè da paliioni alterato ) ben va-  gliono aliai più, che tutti li Vedam de’Bramini,  gli Zend di Zoroaftro , i Kinghi di Confucio , e  di Se-ma-fiien, ed i racconti favololi di Erodo-  lo ? Pur i*on fi creda , che io voglia in quella ma-  teria lafciare affatto il mio Leggitore digiuno di  monumenti , e di autorità .   Il Volilo C i ) rapportaci , che il Beth - el , o  Pietra di Giacobbe , di cui tanto abbiamo parlato ,  fu a fomiglianza del Serpente di bronzo , per lun-  ga età foggetto di fuperfiiziofa adorazione a molti  Giudei , finché da’ veri Ifraeliti prete giuftameu-  te in abbominio , gli fu cambiato il nome di JBef/i-  el % Cafa di Dio, in quel di Beth - ave , cioè Cafa  della Menzogna .   Quali poi furono i primi Simulacri degli Ara-  bi , tra i quali i Moabiti , e gli Ammoniti fi com-  prendevano? Gli Autori antichi, a’ quali rappor-  tali    i ) lai’, d. r. 2p.   dell’ antica Idolatria. 21'   tali il Calmet , e che ci parlano delle prime  Divinità di que’ Popoli , le defcrivono come fem-  pjici Pietre informi, o fcalpellate, ma non con  umana forma. ,, Voi ridete, dice Arnobio, (2)  „ che ne’ vetufti tempi gli Arabi adoraflero una  ,, Pietra informe . „ Malììmo Tirio ( 3 ) o di que*  ito , o d’ altro Arabico Simulacro parlando il chia-  nia Tfrrpxyjìm Pietra, quadrangolare. Ed Eu-   timio Zigabeno nella fua Panoplia ragionando  co’ Saraceni : ,, Ed in tjual modo , efclama , voi ab-  ,, bracciate la Pietra di Brachthan , e la baciate ?  ,, Alcuni rilpondono : Perchè Abramo fopra di efc   „ fa eboe il fuo primo commercio con Agar. Al-  ,, tri poi : Perchè ad ella legò il fuo CameTo quan-  ,, do fu per lagrifìcare Ilàcco . f 4 ) „ Non pen-  io di meritar la taccia di capricciofo , fe giudico  quelle Pietre adorate in feguito nell’ Arabia nuli*  altro elfere fiate da principio, che vetulte Beti-  lie , o rozzi Altari fors’ anche al vero Dio confe-  crati . Certamente Mosè , ("5 J in ciò ieguendo   S er avventura la tradizione , e il più vetullo co-  ume , prefcrive , che di rozze Pietre dal ferro  non tocche , e informi fallì , ed impoliti follerò  gli Altari , che dopo il patlàggio del Giordano fi  volelfero al Dio d’ Ifraello innalzare; e nuli’ al-  tro , che grandi Pietre fpalmate alquanto di calce  folfero i monumenti defiinati. a fcrivervi lòpra le  parole della legge. Temette forfè il grande Le-  B 3 gisla-   ( 1 ) 7 efor. cP Antich. tratto dai Coment, del Cal-  met T. 2. ( 2 J Lib. 6 . C 3 J Sermon. 3 8.   ( 4 ) Ili* VfJUHi TposrpiQtsrt toj ?u 9 u» t ts  Bpxyficxv j xou tpiKsirt raro» ; kou tiiik j aa>  ewrw tpctti y %tQTi tir coki) aura s trasloca rn Ay cefi  0 Afipaont. AÀA01 ?>£ ori rpotilìiKur carro» thv  xxiju iXov , fJ.iKho»r (jusai rov I sotux. .   C s ) Deuter. 27. 5.22 Dissert. sull’Origine   gislatore , che fé tali monumenti , ed Altari fi f 0 f.  fero con più eleganza collutti , divenilfero più fa-  cilmente al rozzo fuo Popolo, e vacillante pietra  d’inciampo, e fomento d’idolatrica fuperllizione .   E qui , giacché dell’ Arabica fuperllizione ho fatto  parola , voglio avvertire, che della per lungo tem-  po mantenne!! nella lua primigenia feniplicità.   Giobbe Arabo, o Idumeo , forfè contemporaneo , le-  non anteriore a Mosè, accenna lenza meno l’ Ido-  latria del fuo Pael'e. Or ei non parla nè di lla-  tue , nè di figure . Indica fidamente 1’adorazione , ed il faluto del Sole , e della Luna, che poi Uroralt, ed Alilat furono nominati . Se-  gno manifelto, che fra que’ popoli non fi era introdotto per anco quel lopraccarico di moftruole  follie, con cui dalle Scolture Egiziane rimale ag-  gravata l’ Idolatria. Che fe non pertanto gli Ara-  bi ab antico proltravanfi a Pietre informi , o qua-  drate , quali io reputo Betilie , ed Altari , ben con-  cluder potrai!! , che quelli follerò il primo. fco-  glio, e il primo fcandalo al/ materialifmo de’ più  antichi Politeilli . Teltiinonio ne facciano i primi Abitatori del-  la Germania . Colloro finché rimaforo nella vern-  ila loro rozzezza, finché la fuperllizione fra eli!  col commercio delle arti Greche , e Romane non  giunfe a farli più vaga infieme , e più llolta , al-  tri Simulacri non ebbero, come Tacito ( a J av-  verte , che folli informi di legno , e di rozze pie-  tre . Erano quelle le forme degl’ Iddii , che por-  tavanocon elfo loro alla guerra , penlando , che  folle un offendere la Divinità il rapprelèntarla  fotto umana fembianza . Ciò , che pure da molti   altri  C. 31. v. 16. ( 2 J De Morìb. Germart. Sta-   tua ex stipitibus rudibus , i? impolito lapide effi-  gi e s , CP Jìgna quxdam detracia luci s in prxlium  ferunt . Nec cohibere parietibus Deos , ncque in  ullam humani oris Jpeciem affimilare ex magni-  tudine cotlejìium arbitrantur. altri Popoli di non peranche ingentilito collume ,  per quanto narrano gravi Autori , collantemente  penfolfi . Ma e dove lalcio la celebre Madre degl*  Iddìi , o fia Cibele di Frigia portata in Roma da  Pelìinunte col miniftero di Scipione Nafica , e da*  Romani ottenuta per mediazione del Re di Perga-  mo al tempo della feconda guerra Cartagine!? ? Livio le dà il nome di fagra Pietra„  Pietra informe la chiama Minuzio Felice . Arno-  bio la defcrive come una Selce non grande  di forco, ed atro colore , e per angoli prominenti  ineguale . Eravi fra quei Popoli tradizione , che  quella Pietra caduta folle dal Cielo, e che ap-  punto da jrK&y cadere la Città Pelfinunte folle Hata  chiamata .   La Grecia ftefTa non fu priva di quelle fog-  gie di Simulacri. Paufania ci attefta, che in una  loia parte d’ Acaja furono da trenta Pietre taglia-  te in quadro , aventi ciafcuna il nome di una qual-  che Divinità , e con fomma venerazione riguarda-  te , fendo llato collume antico de* Greci il prellar  culto a limili Pietre , non meno di quello , che  pofcia faceflèro alle figure, e alle llatue. Mi farà egli difdetto il probabilmente congetturare per  le ragioni di fopra addotte , che quelle , ed altre*  limili Pietre di Grecia nuli’ altro da principio fof-  fero , che Betilie ? Servirono un tempo a niun altro ufo, che agli efercizj delle facre adunanze. L*  Idolatria col farli più tenebrola giunte a diviniz-  zarle . Betilie ùmilmente , o imitazione fenza me-  no delle Betilie pollòno crederli gli Ermi , di cui  la Grecia , e Roma furono ripiene , e che pofcia  ad abellire fervirono fpecialmente le Biblioteche.  Bili non erano da principio , che tronchi informi di  legno , o di marmo , o di pietre tagliate in quadro  fenza mani , e fenza piedi : T runcoque fiinillimus Her-  inu?, dille Giovenale. ("3) Ne* quattro di loro lati  pretendeva!! dinotare o le quattro ltagioni, o le quat-   B 4 tro   ( 1 J Lib. 2$4 ( 2 J Lib . 6 • ("3 ) SiiU 8. 1  '24 Dissert. sull* Origine .   tro parti del Mondo. Si confiderarono poi come  ilatue degli Dei , e di Mercurio principalmente „  Il di lui capo , che vi fi aggiunfe , fu fenza meno  un poderiore ornamento. Anche il Dio Termine  non fu nell* età più vetude rapprefentato , che fot-  to la figura di grolfi Saffi quadrati , cubici , privi   di mano, e di piede : Ttrpctywoi , xuQoziìitls y   K'Xttp&y xou airone? ; quantunque al Dio Termine   pur s* aggiungere la teda umana ne’ fecoli confeguen-  ti . E che non può in quella parte una matta per-  fuafione a poco a poco crelciuta fra i barlumi di  tradizioni parte vere* e parte mendaci? A tutti è  noto , che da molti Popoli fi giunte per fino a ve-  nerare le Montagne , quali grandilfimi Simulacri  della Divinità. Il monte Atlante era il Dio de-  gli AfFricani. Occidentali : un monte il Dio de*  Oappadoci per allerzione di Malfimo Tirio : Moni  a pud Cappadoces prò Deo ejl , prò jur amento , atquc   Simulacrum . Un monte , o fia rupe SxotéA© r y   xoputplw il chiama Stefano , ( i ) rifcoire pure  adorazione dagli Arabi. Giove fi venerava nella  cima de’ più alti monti , come dell’ Olimpo , del  Callo , dell’ Ida ; e il nome quindi ne rifcuotea di  Giove Oljmpico , di Giove Cafio , di Giove Ideo .  Gl’ Italiani ilelfi predarono al monte Appennino  venerazione , come apparifce da una Ifcrizione ri-  ferita dal Matfèi nel tuo Mufeo Veronefe, la qua-  le comincia IOVI APENINO. Ora e per qual ra-  gione crederemo noi , che adorati veniflero tal»  monti , te non per la della , che confecrate avea  le Betilie ? Ce la prelenta naturalmente il Berge-  ro . ( 2 ) Fu fcelta la cima de’ monti per offrirvi   de’ facrihzj , perchè credevano gli Uomini d’ e fie-  re più vicini al Cielo, e conseguentemente agli  Dei, qualora fi adoravano gli Altri. Per tal mo-  tivo   (" i ) In Avsccpq . ( 2 ) Trattai, della vera Relig. ìf  tfvo <i feielfero le pili alte. Tali cime per eli  .«lercizj della Religione confècrare ben predo dir  vennero rilpettabili Immaginoifi , che gli Dei vi  fodero difcefi^ p®* ricevervi T’ incenfo , e gli omag-  gi degli Uomini. Pài non vi volle. Riguardata  prima come abitazione de* Numi , fi confidcrarono  ben predo quai Simulacri immenfi animati dalla  Divinità, ed ottennero una fpecie d’Apoteofi.   . Gon quanto fi è da me finora ragionato, e che,  le il tempo lo permettelle , con altre notizie, e  cagioni facilmente potrebbe!* dilatare, io giudico  refa ormai probabile la opinione di chi accinger  vogliali a fo denere , che. i primi Simulacri delìq  Gentilefche Divinità fodero femplicl Pietre riqua-  drate , od informi, fenza alcuna umana, q anima-  • Jefca fembianza .  Reda ora , che alcuna cola ragionili de* Simu»  * a , cr * ° rot °ndi , o tendenti a rotondità, a cui pre-  ito fuo culto primiero la cieca' fuperdizione , pfi*  ma che folle ai figuri te Statue provveduta.   Io non fono per ripetere quanto di fapra ba*  ftevolmente ti £ detto intorno a| culto degli Adri*  e degli Elementi , degli Spiriti, e degli Eroi. Ag-  giungerò (blamente , che non sdendo per anche  giunto lo fcalpello Adirio , o. Egiziano a rapprefentar le figure degli Uomini, e degli Animali, e  per elprelfioni di Arnobio , ( i J avanti 1’ ufo ,   e U difciplina della fcoltura , già penfato avea 1*  Idolatria a procacciarli , oltre le Betilie , oggetti  temibili alle lue adorazioni. Gonfiitevano quelli  iti certi fimboli q dinotanti, la potenza, e dabi-  hta de’ Numi , o adombranti in qualche modo alcuna or qualità, J Battoni , le Verghe, le Afte,  che al dir di Trago Pompeo (a) furono la prima  “^gna .dei Re, lignificavano il fommo imperio  . de Numi, Le colonne, i cilindri , le pur non erano una imitazione più ‘ ingrandita dei Badoni da  comando, ne accennavano l’ eternità. Gli Obe-   B 5 Ufchi, '   fi) Lib, & (Lib % ultima   t6 Dissert. sull* Origine   lifchi , le Piramidi , i Coni efprimevano i »gg*  «}el • Sole , e delle Stelle , o la natura del fuoco ,  che -in alto vibrava!! acuminato. Menianrto pur  buone a Porfirio ( i ) le interpretazioni sì fatte .  Concediamogli ancora, fe piace , che tali monu-  menti alzati dalla pili vetulla gentilità non fi ri-  guarda fiero da principio , che come fimboli , o  meri Pegni d’ onore . Il Volfio , e forfè con trop-  po impegno, è dello fleflo parere ; ma poi di Por-  firio più ragionevole , perchè non tanto foffifta ,  nè così empio , s’ arrende a concludere , che ben  pretto divennero occafione di lcandalo alla materiale Idolatria , e oggetto furono di profane ado-  razioni . Elfi in una parola ne’ primi tempi flet-  terò in luogo di quelle ftatue figurate, che poi ot-  tenner l’ incenfo dalle corrotte umane generazio-  ni . E qui bramo s’ avverta ? che dove di fopra io  dilli , aver preffo molte nazioni tardato non poco  le ftatue ad innalzarfi ne’ Templi anche dopo la  erezione de’medefimi, io intefi favellar foltanto  delle Statue rapprefentanti le Teodie fotto la forma di Uomo , oppur d’ Animale ; ma non volli  giammai includere i Simulacri , per così dire , fim-  Eolici , e non aventi figura . Quelli fono anteriori , non pure alla ftabil mole de’ grandi Templi ,  ma eziandio a quei Padiglioni, o Tabernacoli, o  Tempietti portatili , con cui gli antichi Idola-  tri ebbero in ul'o di condurre a patteggio i loro  Numi .   Ora di quelli non figurati Simulacri parlando ,  m’aprirò il varco con l'autorità di Filone Bibli-  co ( aj , il quale nel fuo proemio alla interpreta-  zione di Sanconiatone, diftinguendo gli Dei immor-  tali , come il Sole , e la Luna , dagli Dei mortali ,  cioè da que’ Principi , ed Eroi , che per le loro  getta avevano confeguita l’ Apoteofi , ci avverte  «fiere flato vetullo immcmorabil collume , fpecialmente   (ij Apud Eufeb. Trap. Evang. lib, 3. c. 7.   (a) JW. lib. 1. e. 9.   mente degli Egiziani , e Fenici , da’ quali preferì  norma le altre fazioni, d’ innalzare a quelle Chili  d’Iddii Colonnette, o Baftoni , o fia Scettri di le-   • J_ - -t fn..: ninmimpntl il nome di    (cerando. (i),„   Sanconiatone poi nel fuo frammento racconta-  ci fa J, che molti fecoli prima della coftruzione  de’ Templi, e formazione delle Statue Ufoo primo  navigatore avea dedicate due Colonne %uo sTtfKxS   al fuoco , e al vento, e prellato ad entrambe cul-  to , e facrificio col fangue degli Animali. Proiie :   f He indi a narrare , che dopo la morte de primi  roi già divinizzati la grata pofterita onorata avea  la lor memoria , lotto i loro nomi confecrando ver-  ghe , e colonne, e con feftivi giorni , e fagre ce-  rimonie adorandole . Finalmente ci addita , che  dopo lunghiffima età fu innalzata al Dio Agro vera  effigiata Statua nella Fenicia . ..   Giu Teppe Ebreo f 3 ) non diubmigliantl noti-  zie prefentaci , aderendo , che i Tir) da principio  a’ loro Dii fornirono Afte , e Baftoni , poi Colon*  ne , e finalmente le Statue . .Certo nella primitiva Egiziana Scrittura fimbo-  lica ( 4 ) non in altra foggia, che d’ un Bafton da  comando con un occhio efiprimevafi Ofmde , il   S uale originariamente fu il Sole , fignificar volen-  o la fua regale potenza, ed il mirar ch’egli fa  dall’alto tutte le cole. Ed io ben credo efftre  agli Eruditi notiffime le Piramidi , gli Obelifchi ,  ed i Coni dall’ Egitto al Sole innalzati , come per   imitar-   * i   'Tru'Xas rt , xcu pa&lti; aipitpoiw coope-  ro? ccuTiM , xoa rocurot ju.yaAw? , kou   ioprrccs m/J.or carrots Taf pryisrccs.   fi) Apud Eufeb. ibi c. io. ( 3 ) Cont. Apìon.  lib. I. (4J Macrok. SatumaL lib. I.c. ai.    Digitized by Google  aS DisserY. ' suit* Ormine  imitarne I fuqi raggi . Da ciò forfè provennero  quelle corna , d* cui in fedito 1 Egizia bizzaria  li compiacque ornar gentilmente il capo del tuo  Giove Amone, del fpo Apollo d*Eliopoli,e della  fua Ifide. Ove à no\ piaccia di ftare * certe le-  zioni per altro antiche del tetto di Quinto Cur-  zio, CO ammetter dovremo, che 1' Amone ado-  rato da’ Trogloditi , e proceifionalmente a fpalle di  Uomini condotto in una dorata barchetta per aver-  ne eli Oracoli , altra forma non avea , che d un  Goiìò, ó d’ un Ombelico tutto di fmeratdi , e P rc ~  ziofe gemme fmaltato . Almeno rigettar non po-  tralTi 1* autorità di Brodiano,f 2 J il quale ci delcrive il Simulacro del Sole (otto nome di   Elegalu , venerato iq Edeilfo della Siria Apamena •  Di tale Simulacro (e ne può vedere adombrata «.  forma in una medaglia pretto il Vaillant battuta  ali* ùltimo e più pazzo degl’ Imperadori Antonini .  Or ecco la defcrizione di Erodiano, giufta la ver-  fione latina fatta dal ^oliziarfo . „ In Edefla non   v’ ha Simulacro atta Greca , o alla Romana em-  ” «iato fecondo P immagine di quel Dio -, ma un  latto grande rotondo da imo > e , a P oco a P oco  crefcente in punta quali a figura di Cono . Nero  V, è il color della pietra , cui facciano eflere ca-   V, data dal Cielo. ed affermano quella 1   ” fer 1* immagine del Sole no n da umano artificio  3y lavnrata Su tali parole fa una riflettìone op-   /.ante voi* citato G^>     del soie : uiciiuc , 7 - , -, *•   Tentare gl* Iddìi fotto umana fembianza fu de po-  fteriorf Greci, e Romani. Ma gli Afiatici più ve.,  tutti, ecl anche gli Egizj moltq divamente fi *i-   P ° rt Chi °fà pertanto, che, fe ci rimane^ro le me-  rie delle più antiche orientali Divinità , ^noi^noi*    mone Lib. s. (2) Lih 5- CO Uh. 9. c. io >    dell'antica IdoiatrYa. 19   le trovaffimo quali tutte in figura di Colonne , d?  Obelifchi , di Piramidi , o di Coni rappreleutate ?  Certo non fenza ragione i Settanta hanno in co(ìu«  me di traslatar per Colonne la voce ebrea Matgaba ,  che ordinariamente traduce!! per ljìatue ; e come il  Calmet ( t J ci avverte , il nome di Colonne lem-  bra meglio corrifpondere al lignificato del termine  originale. Forfè que’ dottilììmi Interpreti vollero  dinotare la forma antica , con cui 1 ’ Oriente , e la  Terra di Canaan rapprefentar foleva i fuoi Numi ;  E forfè Mosè coll’ imporre , che fi demolillèr tutte  le ftatue delle profane incontrate Divinità , nuli’  altro impofe nella maggior parte , che la demolizio-  ne di Piramidi , e di Colonne . Dilli nella maggior  parte, e non in univerfale, poiché quel Sacrifica-  verunt fiulptilibus Canaan , che abbiamo nel Salmo  105. , mi lece ellèr più continente nelle parole . E  de’ famofi Serafini di Rachele , primo monumento  d’ Idolatria materiale , che s’ incontri nella Scrittura, e degli altri Idoletti elìdenti prellb la làmiglia  di Giacobbe dalla Melopotamia recati, che diremo  noi ? S’ io pretendelfi figurarmeli come piccioli Coni ,  o colonnette , con quai monumenti , ed autorità po-  trei ellère contradetto? Per verità io miro Giacob-  be , che intefo a ripurgare la fua Famiglia , pren-  de , e (otterrà , non folo gl’ Idoli chiamati Dei ftra-  nieri : Deos alienos , ma angora i pendenti , che fi  trovavano all’ orecchie de’ fuoi feguaci Io   non crederò già, che le Pedone della comitiva di  Giacobbe , e malTìme le piilfime Donne Lia , e  Rachele ardlllèro di portare sfacciatamente agli orec-  chi appefe le (lamette, od immagini d’ alcuna pro-  fana Divinità . Primieramente potrebbe!! con tut-  ta ragione foftenere , che di que’ tempi non eranò   peranco T. 2. DiJJìrt. de' Templi degli Antichi .  Genef C. 25. Dederunt ergo ei omnes Dcos  alienos , quos habebant , IP inaures , qua : erant in  auribus eorum. At ille infodit eas subter Terebin -thum .30 Dissert. sull* Origine  perineo in ufo le dame figurate. Le Rabbiniche  tradizioni dell’ arte datuaria efercitata fuperdiziofa-  mente da Tare Padre di Àbramo fono già (eredi-  tate prellò degli Eruditi. La pretefa antichità della Statua di Nino alzata a Belo fuo Padre rella dai  calceli dell’UHèrio fmentita. Nino regnò in Affi-  na parecchj fecoli dopo Giacobbe . All’etàdique^  fio Patriarca il Sole , gli Aflri , e malfime il fuoco  adorati nella Caldea , Affiria , e Mofopotamia probabiliffimamente non aveano che Simulacri fimbolici. Quando pure fenza fondamento ammetter fi  voleflèro le Statue figurate ai giorni dello ftefiò  Giacobbe, io non potrò perfuadermi giammai, che  1’Uom fanto permeili avelie in alcun tempo ne’  fuoi l’ irreligiol'a ollentazione di tenerle appele agli  orecchi, comecché per folo ornamento . Il motivo ideilo, oltre a varj altri, che addurre potrei,  mi trattiene dal fottolcrivermi all’ opinione del  Grazio, e del Wandale , i quali pretendono , che  tali orecchini follerò fuperdiziofi Amuleti . Quale  relazione adunque degli orecchini cogl’ Idoli per  dovere anch’ «Ili meritare il fotterramento ? Se avefi  fi luogo ad edernare un mio non inverifimil pen-  dere, direi , che la relazione confidelle in una cer-  ta edrinfeca fomiglianza colla fimbolica figura degl’  Idoli . Forle l’ ornato di quegli orecchini potea  edere qualche gemma , o preziofo metallo cadente ,  e travagliato a maniera di goccia , di cono, o vergherà, che molto raflòmiglialTe la forma appunto  degl’ Idolatrici Simulacri . Quindi Giacobbe volen-  do abolita per fempre di quedi ultimi la memoria  predo de’luoi, nalcolè unitamente fotterra tutti  quegli ornamenti, che per la loro forma, e lavoro  potuto avrebbero in alcun tempo rifvegliarne la rimembranza. Ma fi torni in carriera , e col Voffio ( i ) ornai  fi rammenti , che non in figura umana , ma bensì  in figura di colonne o piramidi acuminate furono   i Si-   Lib. g. c. 5.  i Simulacri , a cui nei primi , e più rimoti fuoi tem-  pi l’ idolatrante Grecia prodrofli ; che le per con-  ientimentò di tutti gli Autori ebbe la Grecia dagli  Orientali , e dall' Egitto principalmente i fuoi Nu-  mi , e le cerimonie di Religione , farà quella una  riprova novella, che di cilindrica, piramidale, o  conica forma federo i Simulacri almen più vetulli  dall’Oriente, e dall' Egitto inventati.   Ora nuli’ altro appunto , che una Colonna fu  la Giunone Argiva. Ce lo atteda Clemente Alef-  fandrino ( i ) recando alcuni verlì di un vecchio  Poeta Greco in lode di Callitoe prima Sacerdo-  tellà di quella Diva predò gli Argivi . Io mi farò  lecito di darne una mia Traduzione;  Della Donna del Ciel preliede al Tempio  Clavigera Callitoe , che intorno  Di ferti , e bende un dì già ornò primiera  Dell’ Argiva Giunon 1 ’ alta Colonna .   Non altro , che femplici acuminate Colonne , o  Piramidi furono i Simulacri podi ad Apollo , e a  Diana, come lo Scaligero (3 ) dalle antiche me-  morie deduce. Non altro, erte una rozza Colon-  na di legno la Statua di Pallade Attica. ,, Quan-  „ to ( dicea perciò Tertulliano) ( aJ diltinguelt  ,, dallo dipite d' una croce la Pallade Attica , o  „ la Cerere Farrea , che lènza effigie coda d’ un  „ rozzo palo , e d’ un legno informe . Un legno  „ non dolato ( proliegue Arnobio ) ( $ ) adorodì  ,, da que’ di Caria in luogo di Diana : in luogo  „ di Giunone un Pluteo da que’ di Samo ; un’ Atta  „ dai Romani in luogo di Marte , come le Mule   » ài   'Zrpuu.eerwv I  K «XfaQoti cXifjLTtcìbos BajiAtw   H/W fi pryutK W> {Tìia/axsi , XM buiOCVOKl  ripa irti tx.orjj.tKur rtpt tttwx jJMxpw curctsitK .   Ad an. Eufib. 377, f 4 ) AJverf. Cent.   C 5 J Lib. 6. 3 2 Dissert. suix’ Origine   „ di Vairone ci additano. ,, E giacché Arnobio  un Romano Autore ha citato , qui giovi connet-  terne un altro , cioè Trogo Pompeo , o fia il Tuo  Compilatore Giurino ( i ) , il quale d’ Amulio ,~e  di Numitore parlando ultimi fra i Re d’ Alba , in  quella foggia h efprime. ,, In que’ tempi tuttora  ,, dai Re invece di Diadema portavanfi 1 ’ alle »  ,, che lcettri dai Greci furon chiamate. Conciof-  ,, liachè dalla prima origine delle cofe furono ado-  ,, rate 1 ’ Alle in luogo de’ Simulacri degl' Iddii im-  ,, mortali . Ed in memoria di tal religione ai Si-  „ mulacri degl’ Iddii tuttora 1' Alte s’ aggiungono. „  Finalmente non altro , che un rozzo malconcio  legno , e deforme» liccome Ateneo ( 2 ) ne fa fede era il Simulacro di Latoua prello a quelli di Deio y  c per fitìfatta guilà ridevole, che al ibi vederlo  n’ ebbe a icoppiar dalle rifa quel Parmenilco di  Metaponto , che dopo 1 * ufeita dall’ antro di Tri-  ionio non avea rifo giammai. Quindi non ci ltu-  piremo altrimenti al fapere» che un breve defeo  attaccato ad una lunghi ifima pertica folle il Simu*  lacro del Sole venerato da que’ di Peonia ; e che  informi tronchi , maltagliati , e fenz' arte fodero  1 Numi degli antichi Germani » e de’ prilchi Galli , come ne allicura Lucano . ( 3 ) Molto mena  furem meraviglia in vedere queiti primi idolatrici  monumenti di legno più tolto , che d’ altra mate-  ria lavorati . Per poco che fiali nell’ erudizione  verfato » non può ignorarli » che i Simulacri pri-  mieri dell’ ancor giovane Idolatria materiale , giu-  lta il collume degli Orientali pattato nella Grecia »  e nel Lazio, furono quali comunemente d’ argil-  la, o di legno , a cui fuccedè ben prello il mar-  mo » quindi i metalli v e finalmente 1’ avorio .  Non lafcianci dubitarne i be' palli, che abbiamo   in   C O Lib. 43. (z) Mb. 5.   ( 3 ) Simulacraque moejla Deorum   Arte careni , caefisque extant informia truficis .  in Ifiaia ( i ) , in Geremia ( 2 ) in Ofiea (3), e  nel Libro della Sapienza ( 4 ) . Gli eleganti verfi  poi di Tibullo CìJ 1 non Ibi rapporto a quello  capo, ma tutta in generale confermano la mia pre-  fente opinione .   Non di legno però - ma di pietra in figura di  gran piramide , al dir di Pautania , fi* il Simula-  cro fiotto il nome di Apollo da’ Megarefi guarda-  to , e Umilmente una pietra fu la sì celebre Ve-  nere Pafia , il di cui Santuario tanta venerazione  rifico Uè non pur dall’ Ifiola di Cipro , ma dalla  Grecia tutta, e dall’ Alia minore. Venere Pafia,  che ha data occafione , e primo impullò al mio  fieri vere , quella fi a appunto , che ornai gli dia  compimento.   Il di lei Simulacro viene da Maflimo Tirio  ( 6 ) ad una piramide bianca paragonato . Noi  però più efatta ne prenderemo la detenzione da  Tacito ( 7 ) , le di cui parole nel fiuo nativo linguaggio mi fo lecito di produrre : Haud crtt lon-  gum initi a religionis , temyli fitum , formanti Dea 9  ncque alibi fic habetur , vaucis dijjerere. Simulacrum Dea non effigie fiumana continuus orbis , la -  tiore initio tenuem m ambitum , met a modo exurgens , C? ratio in obfcuro - Or di quefia Venere  Pafia noi coi noftri proprj occhi ne potremo facilmente rilevar Ja figura tutta appunto conforme   * alla   C o f. 29. ( 2) I. f 3 ) 4. 12, co «$•   Eleg. 1. lib. I.   O) Nam veneror, jèu Jìiyes habet defertus in agris ,  $eu vetits in trivio florida Certa lapis f  Eleg. io. lib. I..   Sed yatrii fervute lares , coluiflis CP idem  Curfarem veflros cum tener ante lares ;   Kec yudeat yrifios vos ejfe e fliyite faclos ,   Sic veteris JeJes incoluiflis evi .   T unc melius tenuere fidem , cum ytniyere teSÌ 9  l Stabat in exigua ligneus ade Q$us •   (d) Orat. 38. (7) Lib , 2. 54 Dissert. sull'Origine   alla defcrizione di Tacito. Balla oflervar tre Me**  daglie riportateci dal Patino ( i). La prima bat-  tuta dalla Città di Paflo a Drulo Celare ( 2 ) . La  feconda coniata da’ Cipriotti a Vefpalìano  La terza da’ Cipriotti Umilmente dedicata a Tra-  mano C4J • Anzi non l’ Itola lòia di Cipro, co-  me di lòpra toccai , e come attella , e compro-  va P eruditiffimo incomparabile Spanemio (5),  adorò la Venere Pafia . Il di lei culto propagolfi  ancora in altre Nazioni , e Città , le «juali perciò  lì fecero vanto di ornare col di lei Simulacro , e  Tempio i rovefci di lor medaglie . Fede ne fac-  cia la Medaglia di Adriano battuta da que’di Sardi  nell’ Afia minore, e riferita dal Sirmondo (< 5 ) , e  Umilmente un’ altra coniata da Pergameni fpet-  tante ad Euripilo prellò il citato Spanemio ( 7 ) ;  ed anche un’ antica Corniola prodotta dall’ Ago-  ltini , fenza accennare però, le Greca, o Roma-  na ( 8 _) . Ed io lòn di parere , che dal tempo , e  dagli Eruditi altri limili monumenti o fcoperti lì  fieno , o (coprire lì pollano dinotanti la venera-  zione dilatata, in che lì ebbe quella folle Palla  divinità, e infieme comprovanti la veridica deferii  zione , che del di Lei Simulacro Tacito ci rap-  prefenta . Debbo però confettare , che quanto ne*  monumenti addotti io riconol'co per vera ed el'at-  ta la delcrizione mentovata , mi lòrprende altret-  tanto il modo , con cui Tacito la conclude : Me-  t.r modo exurgens , ei dice , i? ratio in olj'curo . Pof-  fibile , che ad un Uom si erudito , quale fu Taci-  to, sì gran meraviglia facelle il mirar Venere Pafia  in figura di un cono , o di una piramide ? Non  dovea egli piuttollo da una tale figura defumere 1*  antichità di tal Simulacro , o almeno la derivazio-  ne di   C 1 J Imy. Roin. Numis . (*2 ) Ibi pag. 80.   C 3 )  (4) Ibi pag. J 3 o. ( $ ) De   Praeft. , t? Ufìi Numism. Dijf. 5. ) Colleg. del-  le Med. del Col. Chiaram. di Parigi . ( 7 ) Ibi .   C»J DiaL 5. pag. 176.    ne di una veturtilfima coltomanza ? Non dovea Ta-  pe re , che ne’ più rimoti tempi, e come Trogo di-  cea , ab origine rerum , altri Simulacri non ebbero  i Numi , che o pietre quadrate , o piramidi , od obe-  lifchi , o coni , o colonne di legno , e di fallo ?  Come ignorar potea il conico Simulacro d’ Apollo  in Megara , e del Sole in Ed e Ila , e gli obelifchi,  è le piramidi al Sole ideilo alzate in Egitto ? Come  gli ufeiron di mente i furti, o colonnette rozze di  legno , e le impolite pietre , che per di lui alfer-  zione rifeuoteano le adorazioni della Germania ?  Come sfuggirono alla di lui maflima erudizione le  due colonne porte a Giove nel Tempio d’ Ercole  in Tiro ; come le altre molte collocate nel Tempio  di Gadi ; come le due confecrate al Sole dal Re  Ferone nel di lui Tempio in Egitto? Tante co-  lonne infine fi J , con cui adombrar (i folevano  e Giove , e Giunone , e Bacco chiamato perciò   TUputiovios Colutnnarius , e Apollo detto Ayiftfs   Compitali , ed Ercole , e Marte , e Bellona , non do-  vevano farlo falire all’ origine delle cole , ai colto-  mi dell’antica, e primiera rozzezza, e deporre la  meraviglia circa la forma del Simulacro di Venere  Pafia ? Ma qual cofa Tacito fi penfaflè in quella Tua  fofpenfione, egli fel vegga, e noi non ce ne brighe-  remo altrimenti.   Raccoglieremo bensì le vele ad una Dillerta-  zione , che in vallo pelago trafeorfe ornai troppo  lungi. Voi, o dottiamo Sig. Conte, farete telfi-  monio o del Tuo felice tragitto, o del Ilio infaufto  naufragio ; e onorar dovrete o di compatimento i  fuoi rilicofi viaggi , o i luoi errori di correzione .  Se 1 amor proprio non mi fa velo al giudizio , ere.   c " e ^ della tratto avelie a qualche porto di  1 ufficiente probabilità 1 opinione da Voi propolla-  ™ l . \ c }°£ che i Simulacri più vernili delle pagane  Divinità follerò di quadrata, o di rotonda figura ,   o al- C O Ue^io Aìnetan. Qjiejì . lib.    3<5 Dissert. SuliTdolatria; (  o almeno tendente a rotonditi . Un più ralente  Piloto e di forze , e di tempo , e di finimenti più  agiato faprà condurla felicemente ad un porto di  fìcurezza . Quanto a me , fe altro non averti po-  tato ottenere , Tarò almeno contentiamo d avervi   f er alcun modo tellimoniata la mia. ubbidienza , alto pregio , in che tengo 1’ autorità voftra , e ij  voltro merito Angolare .   l'idi t prò lUtàe , ac Revino D. V. Domini co  Al archi one Mancinforte Epifcopo F aventino  Albertus Raccagni Farocbus Sanfli Antonini.  Fr. Angelus Maria Merenda Ordinis Predicato-  rum Sacra Scripturx LeElor , ac f^icartus Gg~  neralis SaaEli Offici* F aventi a .  In tale direzione, si riscontra la necessità di condurre la ricerca a un livello sem iotico-sem iosico, ricorrendo alla sem iotica di Peirce, e in particolare alla sua definizione di “interpretante iconico”, segno creativo capace di comprendere meglio ciò che è altro dall’identico, ciò che differisce dal segno “idolo”. Attraverso una semiotica dell’interpretazione, si cercherà quindi di spiegare teoricamente il funzionamento degli elementi che compongono un testo, per una comprensione del concetto di scrittura e le prospettive che questa propone per la costruzione di un approccio critico alla problematica della lettura del testo BACON, LE QUATTRO SPECIE DI IDOLI Bacon espone in queste pagine la sua teoria sugli idola (i pregiudizi) che occupano la mente umana e le rendono difficile “l’accesso alla verità”. Bacon, Novum Organon, Gli idoli e le false nozioni che penetrarono nell’intelletto umano fissandosi in profondità dentro di esso, non solo assediano le menti umane in modo da rendere difficile l’accesso alla verità, ma addirittura (una volta che quest’accesso sia dato e concesso) di nuovo risorgeranno e saranno causa di molestia nella stessa instaurazione delle scienze: almeno che gli uomini, preavvertiti, non si agguerriscano, per quanto è possibile contro di essi. Quattro sono le specie degli idoli che assediano le menti umane. Per farci intendere abbiamo imposto loro dei nomi: chiameremo la prima specie idoli della tribú; la seconda idoli della spelonca; la terza idoli del mercato; la quarta idoli del teatro.  XLI Gli idoli della tribú sono fondati sulla stessa natura umana e sulla stessa tribú o razza umana. Pertanto si asserisce falsamente che il senso umano è la misura delle cose ché al contrario tutte le percezioni, sia del senso sia della mente, derivano dall’analogia con l’uomo, non dall’analogia con l’universo. Rispetto ai raggi delle cose l’intelletto umano è simile a uno specchio disuguale che mescola la sua propria natura a quella delle cose e la deforma e la travisa.  XLII Gli idoli della spelonca sono idoli dell’uomo in quanto individuo. Ciascuno infatti (oltre alle aberrazioni proprie della natura in generale) ha una specie di propria caverna o spelonca che rifrange e deforma la luce della natura: o a causa della natura propria e singolare di ciascuno, o a causa dell’educazione e della conservazione con gli altri, o della lettura di libri e dell’autorità di coloro che si onorano e si ammirano, o a causa della diversità delle impressioni a seconda che siano accolte da un animo preoccupato e prevenuto o calmo ed equilibrato. Cosicché lo spirito umano (come si presenta nei singoli individui) è cosa varia e grandemente mutevole e quasi soggetta al caso. Perciò giustamente affermò Eraclito che gli uomini cercano le scienze nei loro mondi particolari e non nel piú grande mondo a tutti comune. Vi sono poi gli idoli che derivano quasi da un contratto e dalle reciproche relazioni del genere umano: li chiamiamo idoli del mercato a causa del commercio e del consorzio degli uomini. Gli uomini infatti si associano per mezzo dei discorsi, ma i nomi vengono imposti secondo la comprensione del volgo e tale errata e inopportuna imposizione ingombra in molti modi l’intelletto. D’altra parte le definizioni o le spiegazioni, delle quali gli uomini dotti si provvidero e con le quali si protessero in certi casi, non sono in alcun modo servite di rimedio. Anzi le parole fanno violenza all’intelletto e confondono ogni cosa e trascinano gli uomini a controversie e a finzioni innumerevoli e vane.  XLIV Vi sono infine gli idoli che penetrano negli animi degli uomini dai vari sistemi filosofici e dalle errate leggi delle dimostrazioni. Li chiamiamo idoli del teatro perché consideriamo tutte le filosofie che sono state ricevute o create come tante favole presentate sulla scena e recitate che hanno prodotto mondi fittizi da palcoscenico. Non parliamo solo dei sistemi filosofici che già abbiamo o delle antiche filosofie e delle antiche sètte perché è sempre possibile comporre e combinare moltissime altre favole dello stesso tipo: le cause di errori diversissimi possono essere infatti quasi comuni. Né abbiamo queste opinioni solo intorno alle filosofie universali, ma anche intorno a molti princípi e assiomi delle scienze che sono invalsi per tradizione, credulità e trascuratezza.     (Il pensiero di F. Bacon, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino. The idol fixes one's gaze on itself ; the icon , for its part , demands that one go throughGrice: “Cattaneo’s philosophical background is much stronger than Hart’s! Hart always doubted his philosophical abilities – as he kept comparing himself to me! When Cattaneo was at St. Antony’s, Hart found that he had to play brilliant, since a ‘continental’ was watching! Cattaneo is especially good in the study of Roman-Italian giurisprudenza, from Cicero, Goldoni, Carrrara, and Manzoni, onwards! They don’t need no stinking Hart!” -- M. A. Cattaneo. Mario A. Cattaneo. Mario Alessandro Cattaneo. Mario Cattaneo. Keywords: eidolon, idolo, idol of the market place – bentham -- autorita, autoritarismo, positivismo di H. L. A. Hart, il concetto della legge, filosofia del linguaggio ordinario, scuola oxoniense di filosofia del linguaggio ordinario, il gruppo di giocco di Austin, il primo o vecchio gruppo di giocco di Austin al All Souls, giovedi notte; il nuovo gruppo di giocco di Austin sabato alla mattina. Hart, Hampshire, Grice. Grice, neo-Trasimaco, giustizia, fairness, valore legale, valore morale, le legge e la morale, priorita della moralita sulla legalita, concetti di priorita, priorita evaluativa, neo-trasimaco, neo-socrate, platonismo giuridico, positivismo pre-Kelsen: hobbes, bentham, autin. I giuristi italiani. Storia della giurisprudenza italiana. Goldoni, Carrara, Manzoni, Collodi, Lorenzini, Pinocchio, Foscolo, Perini, Beccaria, Colonna infame, letteratura italiana, fizione italiana, prosa italiana, giurisprudenza italiana, avvocatura ed implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool Library. Cattaneo.

 

Grice e Catucci: l’implicatura conversazionale d’ego et alter, E ed A – I giocchi cooperativi – Meinong et al. teoria del valore -- l’altro – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Grice. Filosofo italiano. “I love Catucci – Ogden and Richards, whom I’ve read profusely, expand on Husserl – and Catucci is “our man in Husserlian phenomenology of intersubjectivity!” – Grice: “As a typical Itaian philosopher, viz. eclectic, he has philosophised on Luckacs, and Foucault, too!” --  Grice: “Catucci’s approach to Lukacks is via ‘poverty,’ which has little to do with my idea that the poorer the semantics the richer the pragmatics: ‘His semantics was poor, but it was honest!”. Altre opere: “La filosofia critica di Husserl, Milano, Guerini & Associati); Beethoven Opera Omnia. Le Opere. Fabbri Classica); Bach e la musica barocca, Roma, La Biblioteca); Introduzione a Foucault, Bari-Roma, Laterza); La storia della musica, Roma, La Biblioteca); Spazi e maschere, Roma, (a cura di, con Umberto Cao), Meltemi Editore); Per una filosofia povera, Torino, Bollati Boringhieri); Imparare dalla Luna, Macerata, Quodlibet. Si laurea a Roma sotto Garroni. Studia a Bologna. Legge Tugendhat e Tertulian. Insegna a Camerino e Roma. Pubblica il saggio La filosofia critica di Husserl (ed. Guerini e Associati) la cui preparazione ha richiesto un periodo di ricerca presso lo "Husserl-Archief” di Leuven, in Belgio. Il lavoro sui manoscritti di Husserl lo ha portato alla pubblicazione di diversi saggi di carattere fenomenologico, tra cui “Le cose stesse”; “Note su un’autocritica trascendentale della fenomenologia di Husserl”, basato sull’analisi di testi husserliani inediti. Pubblicato per Laterza un saggio su Foucault. Quindi è stata la volta del saggio “Per una filosofia povera”, uno studio ad ampio spettro sulla filosofia italiana nella Grande Guerra (ed. Bollati Boringhieri). Ha inoltre collaborato alla stesura del Dizionario di Estetica curato per Laterza da Gianni Carchia e Paolo D'Angelo. Ha numerosi saggi su Foucault (La linea del crimine) sull’estetica, sull’architettura e sulla musica, in particolare musicisti come Wagner e Stockhausen. Potere e visbilità (ed. Quodlibet). La sua ricerca Imparare dalla Luna (ed. Quodlibet) ha ottenuto ampia risonanza anche al di là del campo degli studi filosofici, portandolo fra l’altro a tenere conferenze al Festival delle Scienze di Roma, al Festival Wired di Milano,  e al Congresso Nazionale della Società Italiana di Fisica. Membro della Società Italiana di Estetica. Coordina “I Concerti del Quirinale”. “Tutto Wagner”. Collabora regolarmente con l’Accademia Nazionale di S. Cecilia, Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Regio di Torino, Festival Mi-To Settembre Musica) e ha organizzato manifestazioni di tipo filosofico-musicale per la Biennale Musica di Venezia e per il Festival Play.it di Firenze, L'arte è un progetto? Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Estetica Elementare - L'esperienza del coro fra etica e tecnica Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Insieme. Canto, relazione e musica in gruppo - La storia dell'estetica come critica e come filosofia C. - 01a Articolo in rivista paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) - Di cosa parliamo quando parliamo di teoria Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Cinque temi del moderno contemporaneo. Memoria, natura, energia, comunicazione, catastrofe - Bellezza C.- 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Parole del XXI secolo - - Il Kitsch: ieri, oggi, domani Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Riga - Aesthetics and Architecture Facing a Changing Society Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: International Yearbook of Aesthetics (JP Službeni glasnik, ) Introduzione a Foucault. Nuova edizione riveduta e ampliata C. - 03a Saggio, Trattato Scientifico  Imparare dalla Luna. Nuova edizione riveduta e ampliata C. - 03a Saggio, Trattato Scientifico   Il corpo e le forme. Note sul discorso spirituale nella filosofia e nell'arte Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Della materia spirituale dell'arte - On the spiritual matter of art - - Perché gli artisti nei luoghi del disastro C. - 02a Capitolo o Articolo book: Terre in movimento - The Prison Beyond its Theory. Between Michel Foucault's Militancy and Thought Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Prison Architecture and Humans - Postfazione C. - Prefazione/Postfazione book: Qualcosa sull'architettura. Figure e pensieri nella composizione - Prefazione. Vite di architetture infami C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Incompiute, o dei ruderi della contemporaneità - Potere e visibilità. Studi su Michel Foucault C. - 03a Saggio, Trattato Scientifico  Prefazione a L. Romagni, Strutture della composizione C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Strutture della composizione. Architettura e musica - - Presentazione. Leo Popper: l'etica e le forme Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) L'angelo della matematica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La vetrata artistica della Scuola di Matematica. Disegno di Gio Ponti per Luigi Fontana - A roadmap toward the development of Sapienza Smart Campus Pagliaro, Francesca; Mattoni, Benedetta; Gugliermetti, Franco; Bisegna, Fabio; Azzaro, Bartolomeo; Tomei, Francesco; Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference: 16th International Conference on Environment and Electrical Engineering, EEEIC 2016 (Florence Italy) book: EEEIC 2016 - International Conference on Environment and Electrical Engineering - Luce, Illuminazione, Illuminismo C. - 02a Capitolo o Articolo book: I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani - L'opera d'arte e la sua ombra Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: L'estetica e le arti. Studi in onore di Giuseppe Di Giacomo - (La linea del crimine. Michel Foucault e la vita degli uomini infami Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AGALMA (-Roma: Meltemi -Roma: Castelvecchi, = Materia primordiale e Growing Design Catucci, Stefano; Lucibello, Sabrina - 01a Articolo in rivista paper: ANANKE (Firenze: Alinea, Preliminari a un'estetica della plastica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Plastic Days. Materiali e Design / Materials & Design - Antropomorfismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Arte C. - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Einfühlung Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Movimento Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - (Sovrastruttura C. - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Strutturalismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica Il nome del presente. The name of the present Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: DOMUS (Rozzano Milan Italy: Editoriale Domus) Imparare dalla Luna C.- 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Imparare dalla Luna - Filosofia dell'eccedenza sensibile C. - 02a Capitolo o Articolo book: Vice Versa - La Gaia estetica C. - 02a Capitolo o Articolo book: Costellazioni estetiche: dalla storia alla neoestetica. Studi offerti in onore di Luigi Russo - - Conversazione con S. Gregory, Paola; C. - 02a Capitolo o Articolo book: Progetto e Rifiuti. Design and Waste. No-Waste - La contingenza impossibile: note su alcuni modelli espositivi dell'opera d'arte. C. - 02a Capitolo o Articolo book: Il museo contemporaneo. Storie, esperienze, competenze - Metamorfosi: un'architettura dopo il postmoderno C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Autocostruzioni. O degli ultimi spazi del progetto - - Mission to Mars- C.- 01a Articolo in rivista paper: HORTUS (Roma: Facoltà di Architettura "Valle Giulia", universita' la "Sapienza" Direttore -Necessity and Beauty C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Parks and territory: new perspective in planning and organization -  Eyes Wide Shut. Architecture without Philosophy C. - 04b Atto di convegno in volume conference: The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education (Patrasso - Grecia - Dipartimento di Architettura dell'Università di Patrasso) book: The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education - Estetica della speranza C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Teoria critica del desiderio - "Reimparare a sognare". Note su sogno, immaginazione e politica in Foucault Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La coscienza e il sogno. A partire da Valéry -Visione e dispersione. La regia architettonica di Luigi Moretti Catucci, Stefano -  Atto di convegno in volume conference: Luigi Moretti architetto del Novecento (Facoltà di Architettura, Università di Roma "Sapienza") book: Luigi Moretti architetto del Novecento - Critica del contesto C. - 01a Articolo in rivista paper: PIANO PROGETTO CITTÀ (-Avezzano (AQ): LISt- Laboratorio Internazionale di Strategie editoriali,  -Avezzano (AQ): Ed'A- Editoriale d'Architettura -Pescara: Sala Editore Pescara Pescara: Clua) Essere giusti con Marx C. - 02a Capitolo o Articolo book: Foucault-Marx: paralleli e paradossi - La terza dimensione Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: VEDUTE (Roma-Macerata: Quodlibet, «Eine eigene fremde Welt»: le utopie terrestri di Karlheinz Stockhausen C. - 01a Articolo in rivista paper: ATENEO VENETO (Ateneo Veneto:Campo S. Fantin Venice Italy: "Des moustiques domestiques”: Notes on the Tautology of Visual Writing Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume book: Beyond Media: Visions, catalogo della 9. Edizione dell’International Festival for Architecture and Media - Prolegomeni a un'architettura della relazione C. Capitolo o Articolo book: L'esplosione urbana - I generi musicali: una problematizzazione C. Voce di Enciclopedia/Dizionario book: (Enciclopedia Treccani Terzo Millennio), vol. II, Comunicare e rappresentare - Senso e progetto. Il contributo dell’estetica C. - Capitolo o Articolo book: Il progetto di architettura come sintesi di discipline - Il progetto di architettura come sintesi di discipline C.; Strappa, Giuseppe - 03a Saggio, Trattato Scientifico  Il lavoro della dispersione C.- Capitolo o Articolo book: L’idea e la differenza. Noi e gli altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo. - Introduzione a Foucault Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico  Tutto quello che "la musica può fare". Conversazione con Francesco e Max Gazzè. Magrelli, Valerio; Moretti, Giampiero; Piperno, Franco; Giuriati, Giovanni; C.; Scognamiglio, Renata; Caputo, Simone -  Capitolo o Articolo book: Parlare di musica  Costruire, abitare, patire C. - Capitolo o Articolo book: Arte, Scienza, Tecnica del Costruire - Elogio del parlare obliquo: la musica classica alla radio Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Parlare di musica - La proprietà intellettuale come problema estetico Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: FORME DI VITA (Roma: DeriveApprodi) L’architettura al tempo di Nikolaj Rostov Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi- Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, - Per una critica delle narrazioni urbane Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: PARAMETRO (Faenza Italy: Gruppo Editoriale Faenza Editrice) Foucault filosofo dell’urbanismo Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Lo sguardo di Foucault - La cura di scrivere C. Atto di convegno in volume book: Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno -La via dialogica dell’arte: i nuovi linguaggi urbani Catucci, Stefano - 04a Atto di comunicazione a congresso conference: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio (Roma - Pontificia Università Urbaniana) book: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio, a cura di E. Scognamiglio e A. Trevisiol - Spartacus: i dilemmi della libertà Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Una strana rivista: «Gomorra» Dizionario di Estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Il colosso senza immaginazione Catucci, Stefano 02a Capitolo o Articolo book: Osservatorio Nomade: immaginare Corviale. Pratiche ed estetiche per la città contemporanea Il visibile e l’invisibile. Riflessioni sul potere in Foucault C.- 02a Capitolo o Articolo book: Conoscenza e potere. Le illusioni della trasparenza - Un passato che non passa. Bachelard e la fine dell’abitare Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Simbolo, metafora, esistenza. Saggi in onore di Trevi - Corridoi Transeuropei C. - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi- Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, La “natura” della natura umana Catucci, Stefano - Prefazione/Postfazione book: Della Natura Umana. Invariante biologico e potere politico. - Estetica e Architettura C. Capitolo o Articolo book: Contaminazioni culturali. Materiali di studio del Dottorato di Ricerca in Riqualificazione e Recupero Insediativo - (Criticare l’estetica per criticare il presente C. - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, Le Corbusier a Pessac: un paradigma moderno Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) Michel Foucault: dalla novità storica all’estetica dell’esistenza Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: FORME DI VITA (Roma: DeriveApprodi La pensée picturale Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference: Colloque de Cerisy - Foucault: La littérature et les arts (Cerisy - Francia) book: Michel Foucault, la littérature, les arts - Attraverso Velázquez: Foucault, Las Meninas, la filosofia Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il classico violato. Per un museo letterario del ‘900 - Tre versioni del misurare Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il senso; a partire da Lukács C. - 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il senso; a partire da Lukács - L'angelo dei rifiuti Catucci, Stefano Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, Estetica dell'abitare C. - 02a Capitolo o Articolo book: La nuova Estetica italiana - Spazi e maschere Catucci, Stefano - 06a Curatela  Ambiguità C. - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica Poetica Catucci, Stefano - Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Architettura, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Censura Ca. - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Distruzione delle opere d'arte C. - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fenomenologica, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fisiognomica C. - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fotografia, teorie della C.  Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica Kitsch C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Marxista, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Musica, teorie della Catucci, Stefano -  Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Opera d'arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario : Dizionario di Estetica - Originalità C/ Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Particolarità Catucci, Stefano Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Realismo C.- 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Retorica Catucci, Stefano - Voce di Enciclopedia  Dizionario book: Dizionario di Estetica - Rispecchiamento C.- 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Ritmo C.Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Scientifica, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Sociologia dell'arte C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Storicità C. - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Struttura C.- 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Strutturalista, estetica C. - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Terapie artistiche C. - Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Tipico C. - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Autenticità C.- 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Oggetto estetico C. -Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Estetica e politica C. - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica -  Fra tempo e spazio: rassegna sul vuoto in musica Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan) - Estetica della censura Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La cortina invisibile - Figures de l’art, figures de la vie. Une idée de philosophie chez le jeune Lukács C. - 02a Capitolo o Articolo book: Life - L'etica e le forme Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Scritti di estetica - - Saggi di Estetica Catucci, Stefano - 06a Curatela  - Gli animali di Céline Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: RIVISTA DI ESTETICA (Rosenberg & Sellier:via Andrea Doria 1Turin Italy:: tina.cesaro rosenbergesellier.it, Dall’estetica all’ontologia. Lukács lettore della «Critica del Giudizio» Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Senso e storia dell'estetica - La filosofia critica di Husserl Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico book: La filosofia critica di Husserl - La fenomenologia negli Stati Uniti: metodo e fondazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Specchi americani. La filosofia europea nel Nuovo Mondo - La fenomenologia come teoria estetica. Note in margine a: Recensione a F. Fellmann, Phänomenologie als ästhetische Theorie Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: STUDI DI ESTETICA (Sesto San Giovanni MI: Mimesis, 2014- Bologna: CLUEB)  La Teoria Cooperativa Come accennato in precedenza, l’idea di gioco cooperativo `e stata introdotta da von Neumann e Morgenstern. Il contributo del loro libro `e fonda- mentale per aver reso lo studio dei giochi una disciplina sistematica, e per aver proposto un cambiamento radicale nel modo di studiare i problemi dell’econo- mia, delle scienze politiche e di quelle sociali. Il metodo proposto consiste nel tradurre i problemi in giochi opportuni, nel trovare le soluzioni di questi con le tecniche sviluppate dalla teoria, e nel ritradurre le soluzioni trovate in termini di comportamenti economici ottimali. L’idea di gioco cooperativo nasce, come gi`a accennato in precedenza, dall’esigenza di analizzare il comportamento razionale di agenti che interagiscono in situazioni non strettamente competitive. In tal 15Strategia dominata invece `e quella tale che, ne esiste un’altra che procura al giocatore maggiore utilit`a, qualunque cosa faccia l’altro. Una strategia dominata non pu`o far parte di un equilibrio di Nash.   caso `e ragionevole pensare che i giocatori possano fare alleanze, formare coali- zioni ecc. Ogni coalizione sar`a in grado poi di garantire una certa distribuzione di utilit`a all’interno dei suoi membri. Che cosa distingue il gioco cooperativo da quello non cooperativo? Il fatto che si ipotizzi la nascita delle coalizioni non significa che si suppone che i giocatori siano diversi, meno egoisti; le coalizioni sono uno strumento possibile per ottenere migliori risultati individuali, come nel caso non cooperativo. La differenza nei due approcci sta in un’altra cosa: secondo J. Harsanyi, premio Nobel, con Nash, per l’Economia, un gioco `e defi- nito cooperativo se gli accordi tra i giocatori sono vincolanti. In caso contrario, il gioco `e non cooperativo. All’interno dei giochi cooperativi, la teoria distingue fra quelli TU (utilit`a trasferibile ) e quelli NTU (utilit`a non trasferibile). Qui ci limitiamo a qualche esempio di gioco TU, gi`a sufficiente comunque a introdurre le idee principali di questo approccio. Per definire un gioco cooperativo abbiamo bisogno dell’insieme N = {1, . . . , n} dei giocatori, e dal dato, per ogni A N, di un numero reale, denotato con v(A). A N rappresenta una possibile coalizione, e v(A) rappresenta l’utilit`a, o in altri casi un costo, che la stessa `e in grado di garantirsi se i giocatori di A si alleano. v `e detta la funzione caratteristica del gioco. Il modo migliore di capire l’idea sottostante questa definizione `e di illustrarla con qualche esempio. Esempio 10. (Due compratori e un venditore). Due persone sono interessate ad un bene che `e in possesso di una terza persona. Il giocatore 1, che possiede il bene, lo valuta meno di chi lo vuole comprare (altrimenti non c’`e situazione di interazione tra i tre). Fissiamo per esempio a 100 il valore che il possessore assegna al bene. Gli altri due, che chiamiamo rispettivamente 2 e 3, valutano il bene 200 e 300. Possiamo allora definire il gioco come N = {1,2,3}, e le coalizioni sono otto: {φ, {1}, {2}, {3}, {1, 2}, {1, 3}, {2, 3}, {1, 2, 3} = N}16. Possiamo inoltre porre v({1}) = 100, v({2}) = v({3}) = v({2, 3}) = 0, v({1, 2}) = 200, v({1,3} = v(N) = 30017. Esempio 11. (Due venditori e un compratore). Consideriamo invece il caso di un compratore (giocatore 1) e due venditori dello stesso bene; la situazione pu`o essere descritta efficacemente ponendo v(A) = 1 se A = {1, 2}, {1, 3}, {1, 2, 3}, zero altrimenti. In questo caso, quando la funzione caratteristica v assume solo valori zero e uno, il gioco si chiama semplice, e v assume piu` il significato di indice di forza della coalizione (A `e coalizione vincente se e solo se v(A) = 1). Il gioco non cambia se al posto di 1 mettiamo un altro numero positivo. 16φ rappresenta l’insieme vuoto, cio`e la coalizione che non contiene giocatori. Anche se pu`o sembrare inutile, `e invece opportuno tenerla in considerazione; qualunque sia v, si assume che v(φ) = 0. 17Perch ́e abbiamo definito in questo modo il gioco? Vediamo un paio di casi. Ad esempio, v({2,3}) = 0 perch ́e la coalizione {2,3} non possiede il bene, v({1,3}) = 300 perch ́e la coalizione {1, 3} possiede il bene, che valuta 300 (infatti non se ne priva per meno).  Esempio 12. (La pista dell’aeroporto, la bancarotta, la societ`a per azioni). Gli Esempi 4, 5 e 6 sono anch’essi descrivibili come giochi cooperativi. Nel caso della pista dell’aeroporto, v rappresenta un costo e non un’utilit`a. E` naturale pensare che a una coalizione venga assegnato il costo della pista piu` lunga necessaria per le compagnie che formano la coalizione. Dunque si ha v({1}) = c1, v({2}) = c2, v({3}) = c3, v({1,2}) = c2, v({1,3}) = v({2,3}) = v(N) = c3. Il caso della bancarotta, anche se si intuisce facilmente che `e un problema analogo a quello dell’areoporto, `e un pochino piu` complicato, perch ́e non `e chiaro a priori che cosa una coalizione possa garantire per s ́e. Una stima molto prudente potrebbe essere quello che rimane dopo che tutti gli altri creditori sono stati pagati. Nel caso della societ`a per azioni, siamo in presenza di un gioco semplice, e daremo valore 1 a quelle coalizioni in grado da avere la maggioranza dei voti necessaria nei vari tipi di votazioni (semplice, qualificata ecc). Una generica soluzione di un gioco cooperativo con N = {1, 2, . . . , n} come insieme di giocatori `e un vettore ad n componenti, ciascuna delle quali `e un numero reale. Il significato dovrebbe essere chiaro: se (x1, x2, . . . , xn) `e tale vettore, allora xi `e l’utilit`a assegnata (o il costo, se v rappresenta dei costi) al giocatore i. Tanto per fare un esempio, nel caso dei due compratori e un ven- ditore, se proponessimo come soluzione (100,100,100) ci`o significherebbe che l’esito del gioco prevede un’utilit`a di 100 a testa per i tre18. Un concetto di soluzione invece rappresenta un modo per trovare vettori che soddisfino parti- colari propriet`a. Ad un gioco una soluzione pu`o associare un insieme grande di vettori, ad un altro nessun vettore, ad altri ancora un solo vettore. E` bene osservare che la soluzione in genere non `e interessata a quanto viene assegnato alle coalizioni, ma solo a quel che viene dato ai giocatori: ancora una volta va ricordato che le coalizioni sono solo un mezzo che gli individui utilizzano per ottenere il meglio per s ́e. L’idea di gioco cooperativo `e cos`ı generale da rendere necessaria l’introduzione di molti concetti di soluzione: qui accenniamo rapidamente ad alcuni fra i piu` importanti. Una soluzione deve per prima cosa essere un’imputazione, cio`e un vettore (x1, . . . , xn) tale che: 1. xi ≥ v({i}) per ogni i; 2. x1 +x2 +···+xn =v(N)19. Si richiede cio`e ad ogni soluzione di godere delle propriet`a di razionalit`a indivi- duale e di efficienza collettiva: ogni giocatore deve ricavare almeno quel che `e in grado di garantirsi da solo (altrimenti esce dal gioco), e tutto l’utile disponibile 18Per il momento, non ci poniamo il problema se la suddivisione di utili proposta sia ragionevole. Vogliamo semplicemente capire che cosa significa in questo modello soluzione. 19Ad esempio sono imputazioni i vettori (100,100,100) nel gioco dei due compratori e un venditore (Esempio 10), ( 13 , 13 , 31 ) nel gioco dei due venditori e un compratore (Esempio 11), mentre in quest’ultimo non lo sono (0, 0, 0) e (1, −1, 1). va distribuito (e ovviamente non di piu`)20. Questa richiesta `e quindi da rite- nere minimale. In realt`a, visto che le coalizioni sono possibili, sembra naturale richiedere che esse stesse gradiscano una distribuzione di utilit`a, altrimenti una parte dei giocatori potrebbe ritirarsi. Si arriva cos`ı ad uno dei concetti fonda- mentali di soluzione: il nucleo del gioco v `e l’insieme di quelle distribuzioni di utilit`a che nessuna coalizione ha interesse a rifiutare. D’altra parte, la coalizione A rifiuta quel che le viene proposto se la somma delle utilit`a proposte ai suoi giocatori `e inferiore al valore v(A) che, come detto, rappresenta quel che lei `e complessivamente in grado di procurarsi. Per capire meglio l’idea vediamo di caratterizzare il nucleo in un esempio semplice: quello dei due venditori e un compratore (Esempio 11): un elemento del nucleo `e un vettore x fatto da tre elementi, scriviamo x = (x1, x2, x3). Ora scriviamo i vincoli che questo vettore deve soddisfare:  x1 ≥0,x2 ≥0,x3 ≥0   x 1 + x 2 ≥ 1 x1 + x3 ≥ 1 .     x 2 + x 3 ≥ 0 x1 + x2 + x3 = 1 La prima riga impone le disequazioni relative alle coalizioni fatte dai singoli individui: essi non accettano meno di zero, evidentemente. La seconda riga riguarda il vincolo imposto dalla coalizione {1, 2}; essa `e in gradi di garantirsi 1, quindi la somma di quel che viene proposto ai giocatori 1 e 2, cio`e x1 +x2, deve essere maggiore o uguale a 1. E cos`ı via, fino all’ultima coalizione N = {1, 2, 3}. Ora, confrontando l’ultima equazione con la seconda si vede che deve essere x3 ≤ 0, ma la prima dice x3 ≥ 0, quindi x3 = 0. Analogamente x2 = 0. Poich ́e la somma delle utilit`a deve essere uno, allora x1 = 1. Quindi il nucleo consiste del solo vettore (1, 0, 0). Vediamo ora che cosa ci propone il nucleo in alcuni dei giochi introdotti in pre- cedenza. Nel gioco dei due compratori e un venditore (Esempio 10), la soluzione proposta dal nucleo `e che il primo vende l’oggetto al terzo (che lo valuta di piu` rispetto al secondo), ad un prezzo che pu`o variare fra 200 e i 300 Euro (quindi il nucleo propone in questo caso piu` spartizioni possibili). Nel gioco invece in cui ci sono un compratore e due venditori dello stesso bene, come abbiamo visto il nucleo consiste nell’unico vettore (1,0,0), il che significa che il compratore ottiene il bene per nulla. E` interessante notare che, nel primo esempio, il ruolo del secondo giocatore, che pure alla fine non fa nulla, `e messo in evidenza dal fatto che il prezzo di vendita `e influenzato dalla sua presenza. D’altra parte que- sto `e logico: se il terzo facesse un’offerta minore di 200 Euro, allora il secondo potrebbe a sua volta fare un’offerta superiore, fino a un massimo di 200 Euro. 20Anche se non si assume esplicitamente, l’ipotesi che v(N) ≥ v(A) per ogni A N `e verificata in quasi tutti i giochi interessanti. Anzi, spesso i giochi verificano l’ipotesi detta di superadditivit`a, che cio`e v(A B) ≥ v(A) + v(B) se A ∩ B = , che stabilisce che l’unione fa la forza. Questo fa s`ı che sia ragionevole assumere che i giocatori si metteranno d’accordo per spartirsi tutta la quantit`a v(N).   In questo caso il nucleo propone tante soluzioni possibili. Nel secondo caso ci`o che indica il nucleo `e un fatto ben noto in economia, anche se qui espresso in maniera brutale: l’eccesso di offerta mette i venditori in balia del compratore. Infatti nel nucleo sta solo il vettore che assegna tutto al compratore, nulla ai venditori. Altre soluzioni, come vedremo, propongono una soluzione diversa, che tiene conto del fatto che in qualche modo i due venditori non sono del tutto inutili. Un esempio ancora piu` interessante di come il nucleo possa proporre soluzioni bizzarre `e il famoso gioco dei guanti, di cui esistono infinite varian- ti: una versione che ne mette bene in luce la stranezza `e quando si hanno 4 giocatori; il primo ed il secondo possiedono uno e due guanti sinistri, rispettiva- mente, mentre il terzo e quarto un destro ciascuno. Naturalmente lo scopo del gioco consiste nel formare paia di guanti. In questo caso il nucleo `e costituito dal solo vettore (0, 0, 1, 1), il che significa che i possessori di un guanto sinistro (guanti che sono in eccedenza) devono cedere il loro per nulla. Risultato che appare ancora piu` bizzarro se si pensa che il giocatore due potrebbe cambiare la situazione semplicemente eliminando un guanto in suo possesso. A dispetto del fatto che a volte le soluzioni proposte dal nucleo sembrino controintuitive, esso rappresenta un concetto di soluzione molto importante, so- prattutto in applicazioni economiche. Per`o il nucleo presenta ancora un altro problema: `e facile verificare che in molti casi pu`o essere vuoto! L’esempio piu` semplice `e quando siamo in presenza di tre giocatori che si devono spartire a maggioranza una somma fissata (possiamo porre l’utilit`a della stessa uguale a 1). In tal caso le coalizioni di due giocatori risultano vincenti (v(A) = 1) se il numero dei componenti la coalizione A `e almeno due, 0 altrimenti-ancora un gioco semplice- ed un calcolo immediato mostra che il nucleo `e vuoto21. Il che rende indispensabile la definizione di altre soluzioni, che possano suggerire pos- sibili spartizioni anche nel caso in cui almeno una coalizione non sia soddisfatta della spartizione proposta. Una soluzione, che qui illustro solo a parole, con- sidera, per ogni possibile imputazione, il grado di insoddisfazione e(A, x) della xi. L’imputazione x sta nel nucleo, ad esempio, se e solo se e(A, x) ≤ 0 per ogni A, cio`e se nessuna coalizione si lamenta. Se per`o il nucleo `e vuoto, allora qualunque sia la distribuzione proposta c’`e almeno una coalizione che si lamenta. Che fare in questo caso? Un’idea intelligente `e di considerare, per ogni imputazione x, il lamento della coalizione piu` sfavorita (cio`e di quella che si lamenta maggiormen- te), e poi scegliere quella distribuzione di utilit`a efficiente che minimizza questo lamento massimo. Se poi sono molte le distribuzioni che hanno questa propriet`a, fra queste si pu`o scegliere quelle che minimizzano il secondo massimo lamento, e cos`ı via. Si dimostra che in questo modo si arriva ad un’unica distribuzione di utilit`a, che viene chiamata il nucleolo del gioco. Nel gioco precedente dei compratori, il prezzo di vendita `e 250, e cio`e il prezzo 21Supponiamo (x1, x2, x3) sia un vettore del nucleo. Le condizioni x1 + x2 ≥ 1, x1 + x3 ≥ 1, x2 + x3 ≥ 1, imposte dalle coalizioni formate da due giocatori implicano, prendendo la loro somma, 2(x1 + x2 + x3) ≥ 3, che `e in contraddizione con la condizione di efficienza x1 + x2 + x3 = 1. Quindi il nucleo `e vuoto. coalizione A per la distribuzione dell’imputazione x: e(A, x) = v(A) − 􏰙 iA   intermedio fra quello minimo e quello massimo proposti dal nucleo; nel gioco di maggioranza a tre giocatori, propone l’imputazione ( 13 , 13 , 31 ): in questo caso ogni coalizione di due giocatori si lamenta 13 , e non `e difficile verificare che ogni distribuzione di utilit`a diversa farebbe lamentare di piu` una coalizione. I risul- tati precedenti non sono sorprendenti, dal momento che il nucleolo `e soluzione che gode di forti propriet`a di simmetria; purtroppo per`o anche il nucleolo pu`o dare risultati bizzarri: ad esempio, siccome appartiene al nucleo, purch ́e natu- ralmente questo non sia vuoto, nel gioco dei due venditori ed un compratore il nucleolo assegna tutto al compratore. Passiamo al terzo concetto di soluzione che qui consideriamo: si chiama indice di Shapley. La sua formula `e un po’ complicata, ad una prima lettura, ma non bisogna spaventarsi. Se poi non si capiscono i dettagli, come ha scritto Nash nella sua celebre tesi, questo non impedisce a chi vuole di capire lo stesso le idee. Dunque, intanto va osservato che questa soluzione, come il nucleolo, ha l’interessante propriet`a di assegnare un’unica distribuzione di utilit`a ad ogni giocatore. La indichiamo con S, in onore di Shapley. Risulta cos`ı definita, per un qualunque gioco v22: Si(v) = 􏰚 (a − 1)!(n − a)![v(A) − v(A \ {i})]. iAN n! L’indice di Shapley associa al giocatore i i contributi marginali23 che esso porta ad ogni coalizione, pesati secondo un certo coefficiente (per la coalizione A \ {i} esso `e (a−1)!(n−a)! ). Tale coefficiente ha un’interpretazione probabilistica inte- n!   ressante: supponendo che i giocatori decidano di trovarsi per giocare, in un certo luogo e ad una data ora, il coefficiente (a−1)!(n−a)! rappresenta la probabilit`a  n! 24 che i al suo arrivo trovi gli altri giocatori della coalizione A, e solo loro . Nel gioco di maggioranza semplice fra tre giocatori, l’indice di Shapley pro- pone ( 31 , 13 , 13 ), come il nucleolo. Nel gioco dei guanti, invece la soluzione `e ( 1 , 7 , 7 , 7 ). Vettore che presenta caratteristiche interessanti: tiene conto del 4 12 12 12 fatto che c’`e un eccesso di offerta di guanti sinistri, il che rende un po’ piu` debole degli altri il giocatore uno; il secondo ne risente relativamente, perch ́e sfrutta il fatto di poter soddisfare da solo la domanda dei giocatori col guanto destro. Questo mostra che il valore tiene conto di altri aspetti, ignorati dal nucleo. L’indice di Shapley ha applicazioni importanti anche nei giochi semplici. Come esempio, si pu`o pensare all’analisi della composizione di un Parlamento, potreb- be essere il Parlamento Europeo, o il Congresso negli Stati Uniti. Il problema fondamentale in questi casi `e come ripartire i seggi fra i vari stati. Tutti i metodi di ripartizione dei seggi hanno dei difetti: esiste persino un celebre risultato che lo afferma: si tratta del teorema di Arrow (un altro vincitore del Premio Nobel 22Data una coalizione A, indicheremo con a la sua cardinalit`a, cio`e il numero dei giocatori che formano la coalizione A. 23Il contributo marginale che il giocatore i porta alla coalizione C `e la quantit`a v(C {i}) − v(C). Chiaramente pu`o essere interpretato come l’apporto che il giocatore porta alla coalizione. 24Assumendo equiprobabile l’ordine d’arrivo dei giocatori. per l’Economia), forse il piu` celebre di tutte le Scienze Sociali. Il valore Shapley `e quindi uno dei modi possibili per valutare il potere dei giocatori in un gioco. Per concludere, ecco la risposta che d`a l’indice di Shapley al problema di come suddividere le spese per la costruzione della pista dell’aeroporto (Esempi 4 e 12): il primo paga 13c1, il secondo 12c2 − 16c1, il terzo c3 − 16c1 − 12c2. Detto cos`ı non sembra molto significativo ma, per prima cosa `e utile osservare che la somma dei tre pagamenti fa proprio c3, il che mostra su un esempio quel che `e vero sempre, e cio`e che l’indice `e efficiente; poi, e questo `e molto interessante, il risultato, ha la seguente interpretazione molto naturale: il primo, che da solo spenderebbe c1, divide questa spesa equamente con gli altri due, che usufrui- scono dello stesso servizio. Il secondo chilometro porta un costo aggiuntivo di c2 − c1: questa spesa viene equamente divisa tra gli altri due che utilizzano la pista. Il resto che manca (c3 − c2) infine `e pagato dall’unico utente che ha bisogno del terzo chilometro. Concludo questo paragrafo riprendendo un concetto gi`a espresso: il fatto che esistano tante soluzioni per i giochi cooperativi non deve essere considerato sin- tomo di confusione. La variet`a di situazioni che vengono descritti come gioco cooperativo impone, in un certo senso, che si considerino diverse soluzioni possi- bili. Sta a chi utilizza questi modelli scegliere la soluzione piu` adatta. E nessuna soluzione `e adatta ad ogni gioco: per esempio l’indice di Shapley per il gioco del venditore e dei due compratori `e ( 650 , 50 , 200 ), cui sembra difficile dare un 333 significato sensato. Per questo le varie soluzioni vengono caratterizzate da pro- priet`a che servono a descriverle: abbiamo ad esempio ricordato che l’indice di Shapley ed il nucleolo godono di propriet`a di simmetria, il che significa che non privilegiano alcuni giocatori rispetto ad altri.Stefano Catucci. Catucci. Keywords: la via conversazionale, l’originarieta della conversazione; estetica della conversazione, filosofia dell’eccedenza sensibilie, rispecchiamento, parlare obliquo, Lukacks, filosofia povera, filosofia ricca, Husserl, Husserl-Archief, Leuven, Belgio, “la cosa stessa”, “la linea del crimine”, potere, la luna, musica, estetica della musica, estetica dell’archittetura, critica fenomenologia, Foucault. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catucci” – The Swimming-Pool Library. Catucci.

 

Grice e Catulo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Ccombatte a Numanzia sotto Scipione Emiliano l'Affricano minore e così fu accolto nel suo circolo. C. e console con Mario e partecipa con lui alla vittoria di Vercelli sui cimbri. Sorse allora fra loro una mutua gelosia che provoca l’implacabile inimicizia di Mario la quale costrinse C., che era stato dalla parte del Senato, a darsi la morte col veleno per sottrarsi alla condanna capitale che lo attende.  Compose epigrammi latini, un liber de consulatu et de rebus gestis suis, che CICERONE loda al pari dei suoi discorsi. Gaio Lutazio Catulo.Catulo.

 

Grice e Catulo: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Cinna Catulo was a member of the Porch and a tutor of Antonino.

 

Grice e Cavalcanti: l’implicatura conversazionale del sìnolo degl’amanti -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I like Cavalcanti; he thinks he is an Aristotelian, but he is surely Platonic – therefore, obsessed with ‘eros,’ or ‘amore,’ as the Italians call it – Like Alighieri’s, his philosophy of ‘eros’ is confused, but interesting!” Come del corpo fu bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo, così ne’ suo fiosofare non so che più degli altri bello, gentile e peregrino rassembra, e nell’invenzione acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo nelle sentenze, copioso e rilevato nell’ordine, composto, saggio e avveduto, le quali tutte sue beate virtù d'un vago, dolce stile, come di preziosa veste, sono adorne. Lorenzo il Magnifico, Opere). Alighieri e Virgilio incontrano all'Inferno. Ritratto di Cavalcanti, in Rime. Figlio di Cavalcante dei Cavalcanti, nacque in una nobile famiglia guelfa di parte bianca, che ha la sua villa vicina a Orsanmichele e che e tra le più potenti della regione. Il padre fu mandato in esilio in seguito alla sconfitta di Montaperti. In seguito alla disfatta dei ghibellini nella battaglia di Benevento, padre e figlio riacquistarono la preminente posizione sociale a Firenze. A lui e promessa in sposa la figlia di Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina, dalla quale Guido ha i figli Andrea e Tancia. E tra i firmatari della pace tra guelfi e ghibellini nel Consiglio generale al Comune di Firenze insieme a Latini e Compagni. A questo punto avrebbe intrapreso un pellegrinaggio -- alquanto misterioso, se si considera la sua infamia di ateo e miscredente! Muscia, comunque, ne dà un'importante testimonianza attraverso un sonetto.  Alighieri, priore di Firenze, fu costretto a mandare in esilio l'amico, nonché maestro, con i capi delle fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Si reca allora a Sarzana. “Perch'i' no spero di tornar giammai” e composto durante l'esilio. La condanna e revocata per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute. Muore a causa della malaria contratta durante l'esilio forzato d’Alighieri.È ricordato oltre che per i suoi componimentiper essere stato citato da Dante (del quale fu amico assieme a Gianni) nel celebre nono sonetto delle Rime Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose con un altro, mirabile, ancorché meno conosciuto, sonetto, che ben esprime l'intenso e difficile rapporto tra i due amici, “S’io fosse quelli che d'amor fu degno”. Alighieri, remmorso, lo ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina Commedia e in una novella del Decameron.  La sua personalità, aristocraticamente sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno lasciato gli filosofi contemporanei, Compagni, Villani, Boccaccio e Sacchetti. Il gentile figlio di Cavalcante C., nobile cavaliere e cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario, e intento alla filosofia. La sua personalità è paragonabile a quella di Alighieri, con la importante differenza del carattere laico.  Noto per il suo ateismo, Alighieri l’incontra nell’Inferno (Inf. X, 63). Boccaccio (Decameron VI, 9: si dice tralla gente volgare che questa sua speculazione filosofica sull’amore e solo in cercare se puo trovarse che Iddio non e. Villani (De civitatis Florentie famosis civibus). La sua eterodossia è stata tra l'altro rilevata nella grande canzone dottrinale o manifesto “Me prega” -- certamente il testo più arduo e impegnato, anche sul piano filosofico -- di tutta la poesia stilnovistica, in cui s i rinvenge il carattere di correnti radicali dell'aristotelismo. Famoso e significativo l'episodio narrato dal Boccaccio di una specie di scherzoso assalto al filosofo da parte di due fiorentini a cavallo, di cui schivava la compagnia. L’episodio e ripreso da Italo Calvino in una lezione in cui il filosofo con l'agile salto da lui compiuto, diventa un emblema della leggerezza.  L'episodio figura anche nell'omonimo testo di France ne "Santa Chiara" dove, peraltro, i fatti risalienti della sua vita vengono riportati sotto una veste quasi mistica.  La opera di Cavalcanti consta di cinquantadue componimenti, di cui due canzoni, undici ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti composti da una stanza ciascuno. Le forme maggiormente utilizzate sono la ballata ed il sonetto, seguite dalla canzone. La ballata appare congeniale alla sua poetica, poiché incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si risolvono poi in una costruzione armoniosa. Peculiare di C. è, nei sonetti, la presenza di rime retrogradate nelle terzine. Temi  Quadro di Johann Heinrich Füssli. Teodoro incontra nella foresta lo spettro del suo antenato C.. I temi della sua opera sono quelli cari al stilnovista; in particolare la sua canzone manifesto “Me prega” è incentrata sull’effetto prodotti dall'amato sull’amante. La concezione filosofica su cui si basa è l'aristotelismo radicale che sostene l’eternità e l'incorruttibilità dell'anima separata dal corpo e l'anima sensitiva come entelechia o perfezione del corpo. Va da sé che, avendo le varie parti dell'anima funzioni differenti, solo collaborando esse potevano raggiungere il sinolo, l’armonia perfetta – anima/corpo entelechia. Si deduce che, quando l'amore colpisce l’anima, la squarcia a e la devasta, compromettendo il sinolo e ne risente molto l’anima inferiore vegetativa – L’amante non mangia o non dorme). Da qui la sofferenza dell'animo che, destatasi per questa rottura del sinolo, rimane impotente spettatore della devastazione. È così che l'amante giunge alla morte. L’amato, avvolto come da un alone mistico, rimane così irraggiungibile. Il dramma si consuma nell'animo dell'amante.  Questa complessissima concezione filosofica permea la poesia ma senza comprometterne la raffinatezza o superfizialita letteraria. Uno dei temi fondamentali è l'incontro dell’amante e l’amato che conduce sempre, ed al contrario che in Guinizzelli, al dolore, all'angoscia kierkegaardiana, e al desiderio di morire. La opera dell’amore di Cavalcanti possiede un accento di vivo dolore riferio spesso al corpo dell’amante.  Cavalcanti e un fine filosofo –  scrive Boccaccio: lo miglior loico che il mondo avesse -- ma non ci resta nulla di sue saggistica filosofica, ammesso che ne abbia effettivamente scritte.  Il poetare di Cavalcanti, dal ritmo soave e leggero è di una grande sapienza retorica.  I versi di Cavalcanti possiedono una fluidità melodica, che nasce dal ritmo degli accenti, dai tratti fonici del lessico impiegato, dall'assenza di spezzettature, pause, inversioni sintattiche.  Cavalcanti: la poetica e lo Stilnovo, L’amico di Dante” (Roma-Bari: Laterza).  “Species intelligibilis”, C.laico e le origini della poesia italiana, Alessandria: Edizioni dell'Orso); C. auctoritas”; C. laico; La felicità: Nuove prospettive per Cavalcanti (Torino, Einaudi); C. (Torino, Einaudi); C.: poesia e filosofia, Alessandria, Edizioni Dell'Orso); C.: uno studio sul lessico lirico, Roma, Nuova Cultura); Per altezza d'ingegno: saggio su Cavalcanti, Napoli, Liguori); L'ombra di Cavalcanti; Roma, L'Asino d'Oro,. Guido Cavalcanti, Rime, Firenze, presso Niccolò Carli). Dizionario biografico degli italiani; Il controverso pellegrinaggio Cavalcanti”; “La Divina Commedia. Inferno, Mondadori, Milano); La società letteraria italiana. Dalla Magna Curia al primo Novecento. La fama o, meglio, l’habitus di filosofo Cavalcanti lo deve essenzialmente ad una sua poesia: la canzone celeberrima e alquanto complessa, sia per la metrica che per i contenuti, Donna me prega. In essa il poeta parlerà di “amore” con gli strumenti della filosofia naturale (“natural dimostramento”), conducendo un’analisi razionale volta a spiegarne la natura e le cause. Una prima importante informazione circa l’essere dell’amore C. ce l’ha già fornita nell’incipit della canzone: egli, infatti, ci ha detto che l’amore è un accidente e che, di conseguenza, non è una sostanza. Questa definizione, tuttavia, ha un significato tecnico preciso, che il poeta mutua dalla filosofia di Aristotele. Occorre, pertanto, fare una premessa. La sostanza, secondo il grande filosofo greco, è ciò che ha vita propria, ciò che cioè esiste autonomamente, mentre gli accidenti esistono solo come qualità di essa; in altre parole, l’accidente si aggiunge alla sostanza esprimendone una caratteristica casuale o fortuita. Ad esempio, un certo uomo è una sostanza, mentre l’insieme delle qualità che esso può avere (alto, basso, pallido, paonazzo, ecc…) sono gli accidenti. Tornando dunque a Cavalcanti, egli afferma che l’amore non è una sostanza poiché non possiede un’esistenza autonoma come, ad esempio, gli uomini (l’amore, infatti, non ha né corpo né figura); esso esiste piuttosto come qualità della sostanza, ovvero come sentimento (qualità) dell’uomo (sostanza). Innanzitutto, C. ci dice che l’amore si insedia nella memoria. Anche qui, però, occorre richiamare per sommi capi la psicologia di Aristotele, poiché essa è indispensabile per intendere i versi del poeta. Nel De anima, Aristotele definisce l’anima forma del corpo; egli, tuttavia, per forma non intende l’aspetto esteriore di una cosa, ma la sua natura propria, la struttura che rende quella tale cosa ciò che è. L’anima, dunque, vivifica e dà al corpo la sua struttura essenziale. Essa, inoltre, secondo Aristotele, pur essendo unica, può essere divisa, a seconda delle funzioni che svolge, in tre parti: anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. La prima riguarda le funzioni vitali minime (come, ad esempio, la nutrizione e la riproduzione) degli esseri viventi a cominciare dalle piante; la seconda, invece, comprende i sensi e il movimento ed è propria solamente degli animali e dell’uomo; la terza, infine, riguarda il pensiero, le funzioni intellettuali, ed propria solo dell’uomo. La memoria, per Aristotele e, quindi, anche per C., appartiene all’anima sensitiva; essa, cioè, è un prolungamento o estensione della sensazione. In altre parole, l’anima sensitiva non solo permette all’uomo di vedere, sentire, gustare gli altri corpi, ma gli permette anche di avere di questi ultimi delle immagini. La passione amorosa, dunque, è creata da una sensazione: il diletto per la vista della donna fa si che l’immagine di essa si imprima nella memoria; l’amore è il nome che si dà ad una operazione dell’anima sensitiva, poiché ad essa, come abbiamo visto, appartengono sia la funzione della vista che quella della memoria. Il poeta, tuttavia, ci dice che questa immagine trova “loco e dimoranza” anche nell’intelletto possibile. Che cosa intende con questi versi? Bisogna ritornare brevemente alla psicologia aristotelica. Abbiamo visto che l’anima, a seconda delle sue funzioni, può essere vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’ultima delle tre riguarda il pensiero, le operazioni intellettuali proprie dell’uomo. Secondo Aristotele, dopo che un oggetto è stato percepito dai sensi e che l’immagine di esso si è impressa nella memoria, esso viene pensato dall’intelletto. In che modo? Una parte dell’anima sensitiva, che egli chiama intelletto possibile, riceve l’immagine dell’oggetto percepito dai sensi grazie all’azione di un’altra componente della stessa anima, che egli chiama intelletto agente. Per fare un esempio, si potrebbero paragonare l’intelletto possibile ad un quaderno ancora intonso e l’intelletto agente all’azione dello scrivere. Dunque, mentre i sensi producono nella memoria l’immagine della donna, l’intelletto agente imprime nell’intelletto possibile la forma astratta di questa immagine. Ricapitolando, nell’anima sensitiva si sviluppa la passione amorosa attraverso la vista della donna e la memoria della sua immagine, mentre niente di tutto questo avviene nell’anima intellettiva, la quale ha dell’amata soltanto un concetto astratto e disincarnato. L’amore non è una virtù morale (queste, infatti, sono un prodotto della ragione, dell’anima intellettiva), ma è una virtù sensibile, appartiene all’anima sensitiva. Cavalcanti ci dice che non l’anima intellettiva, ma bensì l’anima sensitiva è perfezione dell’uomo, poiché essa attua tutte le potenzialità insite nell’individuo umano. Il poeta, infatti, seguendo l’interpretazione che di Aristotele aveva dato il filosofo arabo Averroè, ritiene che esista un unico intelletto sempre in atto ed eterno separato dagli uomini, con il quale le facoltà superiori dell’anima sensitiva di ciascun essere umano entrano in contatto ogni qual volta si sviluppa il pensiero. In altre parole, egli, affermando l’esistenza di un intelletto unico ed eterno, separa l’anima intellettiva, unica ed eterna, dalle anime sensitive concrete e mortali di ciascun uomo. Questa complessa psicologia che Cavalcanti mutua da Averroè è la base del suo celebre pessimismo amoroso. La passione amorosa ottunde la capacità di giudizio poiché l’immagine della donna amata, ormai insediata nella memoria e desiderata dai sensi, determina il netto prevalere dell’anima sensitiva su quella intellettiva. Questo non vuol dire, però, che l’amore ottenebra l’intelletto; come abbiamo poc’anzi visto, infatti, le facoltà intellettuali sviluppano la conoscenza, non il desiderio; inoltre, il poeta, seguendo Averroè, ha appena sostenuto che l’anima intellettiva è separata dalle anime sensitive degli uomini. Quello che Cavalcanti intende, dunque, è questo: la passione amorosa, “se forte”, impedisce all’uomo, dominato totalmente dai bisogni dell’anima sensitiva, di stabilire un contatto con l’intelletto e quindi di avere raziocinio. In questo senso egli parla dell’amore come di un vizio, che porta chi ne è colpito a non saper più distinguere il bene dal male (“discerne male”). Ciononostante, Cavalcanti ci dice che l’amore non è cosa contraria alla natura (“non perché oppost’a naturale sia”); anzi, al pari degli altri bisogni naturali, la passione amorosa sviluppa una potenzialità propria dell’anima sensitiva e, pertanto, rinunciarvi sarebbe deleterio e controproducente. Come interpretare questa affermazione apparentemente contraddittoria? È necessario, anche in questo caso, richiamare Aristotele. Nell’Etica Nicomachea, il filosofo greco afferma che ognuno è felice quando realizza bene il proprio compito (ad esempio, il costruttore sarà felice quando realizzerà oggetti perfetti). Il compito dell’uomo, però, non potrà certo essere quello di assecondare l’anima vegetativa o quella sensitiva; egli dovrà piuttosto vivere secondo ragione; pertanto, secondo il filosofo greco, la felicità per l’uomo consiste nell’attività razionale, nella vita secondo ragione. Cavalcanti, dunque, seguendo Aristotele, ci dice che l’amore è deleterio e mortale solo quando ci allontana violentemente da questo tipo di vita; poiché una vita vissuta in preda ai bisogni a agli istinti dell’anima sensitiva è una non-vita, più adatta agli animali che agli uomini. Viceversa, l’amore che riesce ad essere temperante, e che cioè non allontana l’uomo dalla vita razionale, è espressione di un naturale bisogno della nostra sensualità.  sìnolo s. m. [dal gr. σύνολον, comp. di σύν«con» e ὅλος «tutto»]. – Nel linguaggio filos., termine aristotelico che designa la concreta sostanza (v. sostanza, n. 1 a), concepita come sintesi di materia (ciò che è mera potenza) e forma (ciò che porta all’atto la potenzialità della materia). Alighieri sends out among the best known Italian  poets a sonnet asking interpretation of a dream. The god of love,  so it seemed, had come carrying Beatrice asleep, and had fed her  with Dante's own heart, and had then departed weeping.   Several poets answered. One, Dante of Maiano, suggested as a  probable solution of this, and other such distressing visions, a dose  of salts ; the others fell in with Dante's mood and answered seri-  ously. Of their various interpretations that which best pleased  Dante, though not quite satisfied him, was C.’s  " And this," wrote Dante later in the New Life, " was, as it were,  the beginning of the friendship between him and me, when he knew  that I was he who had sent it (the sonnet) to him."   C.s interpretation was in an important particular ambiguous.  Love, he wrote, fed your heart to your lady, seeing that "vostra donna  la morte chedea" To understand this clause as meaning " Death  claimed your lady" is natural, and would make the interpretation  interestingly prophetic; but, whether or not this reading might be  justified symbolically, Dante himself forbids it. For, in spite of his  pleasure in his " first friend's " explanation of the dream, he added :  " The true meaning of this dream was not then seen by any one, but  now it is plain to the simplest." It was easy for him after the event  to read prophecy of Beatrice's death into the dream ; but he expressly  denies to Guido among the rest the prescience. We are bound,  therefore, to take as the interpreter's meaning that there was malice  prepense in the cannibal appetite of the sleeping lady, that she  claimed the death of her servant's heart. No wonder the love god  wept as he carried her off sated !   Irreverent though it be, one thinks of The Vampire of Kipling.  For Guido the gentle Beatrice was as "the woman who couldn't  understand," sucking, asleep, in a sort of diabolical innocence, the  life blood, literally eating the heart, out of her helpless victim. And  Dante, the lover, the victim, approves the picture !   Of course the gruesomeness of this symbolism may be explained  away as merely a conceitfully emphatic reassertion of the ancient  fancy that a lover's heart is no longer his own, but has passed into  the custody of his mistress. Only, the dream then and its interpre-  tation would indeed be a much ado about nothing. And why, at so  customary a happening, should love weep? In fact, Guido's thought  cuts deeper, and is, I venture to urge, not so remote, in a sense,  from the thought underlying The Vampire. It is The Vampire uplifted  into the more tenuous, yet.no less intense, atmosphere of mysticism.   Before attempting to let in light directly upon this dim utterance  it is expedient to recall certain facts in Guido's life and personality.   " Cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento alio studio " —  so Guido is introduced into the Florentine Chronicle of Dino Compagni,  who knew him personally. Guido could not have been much over  twenty-five when, at the death of his father, his elder brother being  in orders, he became head and champion of one of the two or three  most powerful and aristocratic families in the republic. For gen-  erations the Cavalcanti had been leaders in the state, haughtily  contemptuous of the mere people, yet fierce partisans of civic inde-  pendence against those who were willing to sacrifice this for the  dream of a " Greater Italy " united under a revivified Emperor of the  West. To this great feud and to the lesser local feuds which grew  out of it Guido may be said to have been a predestined, yet mostly  a willing, sacrifice. He was born into the feud ; he lived his life  long in the heat of it ; it married him ; it perhaps lost him his best  friend ; it certainly killed him before his time.   It married him. In 1267, a vear a *ter the decisive battle of Bene-  vento, when the last hope of the Imperialists, the Ghibellines, fell  with Manfred, in Florence an attempt was made towards permanent  peace by marrying together certain sons and daughters of victors  and vanquished. Among the rest Guido Cavalcanti was wedded, or  then more likely betrothed, — for he could not have been more than  fifteen, — to Bice, daughter of the Ghibelline leader, the Florentine  " Coriolanus," Farinata degli Uberti. Seven years before Farinata  had "painted the Arbia red" with the blood of Florentine Guelphs  at Monteaperti; and it had been a kinsman of Guido who com-  manded the Guelphs on that disastrous day. We do not know how  this real " Capulet-Montague " match turned out, — only that Monna  Bice bore children to her husband and outlived him many years,  and that the peace which their union, among others, was intended to  effect did not come to pass.   On the contrary the great Guelph families, after 1267 in secure  possession of the city, soon quarreled, even connived against each  other with the ever-ready Ghibelline exiles, or with popular dema-  gogues, so great was their common jealousy. Meanwhile, during  the distraction of the nobles, the middle classes had been prosper-  ing ; and coming at last to feel their strength and the weakness of  those above them, in 1293 they rebelled and crushed the aristocrats.  In the first insolence of triumph they excluded the nobles abso-  lutely from public office, but two years later conceded eligibility to  such nobles as would join one of the Arti, or trades unions. This  virtual abdication of caste Guido Cavalcanti refused to make. In  vain good easy Dino pleaded with him. " I am ever singing your  praises," he wrote in a kindly sonnet, " telling folks how wise you are,  and brave and strong, skilled to wield and ward the sword, and how  compact with sifted learning your mind is, and how you can run and  leap and outlast the best. Nor is there lacking you high birth  nor wealth ... in fine, the one thing wanting to give scope to all  these gifts and powers is a mere name.   " Ahi! com saresti stato om mercadiere! "   Now almost certainly some generations back the Cavalcanti had  been in trade, and had made their fortune in trade, but latterly it had  pleased them to entertain a genealogy reaching royally back into  Germany and descending into Italy with Charlemagne's baronage.  To traverse this pleasing legend with the gross title "om merca-  diere," tradesman, was out of the question : Guido declared himself  irreconcilable.   Meanwhile Dante, unfettered by a legend or a temperament,  had accepted the situation even cordially, and was taking active  part in the councils of the new bourgeois regime. That Guido must  have regarded his friend's secession with disgust seems natural. It  was worse than an offense against party; it was an offense against  caste. " Uomo vertudioso in molte cose, se non ch'egli era troppo  tenero e stizzozo," writes Giovanni Villani of Guido. Fastidious,  exclusive, thin-skinned, choleric, Guido was just the man to feel this  consorting of his friend with vulgar political upstarts incompatible  with their own intimacy. And the matter was made worse by its  open denial of their poetic profession of faith in the " cor gentile."  This vulgar folk was that " fango," that human " mud " of which  Guinizelli had written :   Fere lo sole il fango tutto'l giorno,  Vile riman . . .   how might the " gentle heart " mix itself with this irredeemable  "mud" and be not defiled? So Guido addressed to his friend a  sonnet at once haughty and tender — like Guido himself: 1   lo vengo il giorno a te infinite volte  e trovoti pensar troppo vilmente :  allor mi dol de la gentil tua mente  e d'assai tue virtu che ti son tolte.   Solevanti spiacer persone molte,  tuttor fuggivi la noiosa gente,  di me parlavi si coralemente  che tutte le tue rime avei ricolte.   Or non ardisco per la vil tua vita,   far mostramento che tu' dir mi piaccia,  ne vengo 'n guisa a te che tu mi veggi.   Se '1 presente sonetto spesso leggi  lo spirito noioso che ti caccia  si partira da Panima invilita. 2   1 1 believe that Lamma, in his Questioni Dante sche, Bologna, is the  first to propose this construction of the famous " reproach." It seems to me the  best of all.   2 1 come to thee infinite times a day  And find thee thinking too unworthily :  Then for thy gentle mind it grieveth me,  And for thy talents all thus thrown away.  Whether the two friends again came together in life is not known.  The next situation in which we hear of them is tragic. Dante is sit-  ting among his " first friend's " judges ; Guido is condemned to exile,  and goes — in effect — to his death.   Under the new bourgeois rule civic disorders rather increased than  otherwise. Prime mover of discord was the Florentine " Catiline," as  Dino calls him, Corso Donati. Somewhat ineffectually opposing his  self-seeking machinations were the parvenu Cerchi, powerful only  through wealth and the popularity of their cause. With these also  stood Guido. Hatred, no less than misfortune, makes strange bed-  fellows ; and the hatred between Guido and Corso was intense. Each  had sought the other's life : Corso meanly, by hired assassins ; Guido  openly, in the public street, by his own hand. Violence followed  violence ; the number of factionaries increased, until at last in 1300  the city Priors determined to expel the leaders of both parties. Guido  was conspicuous among these leaders ; Dante, as has been said, among  these Priors. The place of exile, Sarzana, proved to be pestilent with  fever ; and although Guido and the Cerchi, less culpable than Corso,  were recalled within the year, it was too late. A few months after-  ward, the 28th or 29th of August, 1300, Guido died. " E fu gran  dommaggio" wrote Dino.   It was a strange preparation for "gentle and gracious rhymes  of love," — this short, tumultuous, hate-driven career. Yet there is  but one direct echo of the feudist in all Guido's verse, — a sonnet  to a kinsman, Nerone Cavalcanti. Nerone had made Florence too     To flee the vulgar herd was once thy way,  To bar the many from thine amity ;  Of me thou spakest then so cordially  When thou hadst set thy verse in full array.   But now I dare not, so thy life is base,   Make manifest that I approve thine art,  Nor come to thee so thou mayst see my face.   Yet if this sonnet thou wilt take to heart,   The perverse spirit leading thee this chase  Out of thy soul polluted shall depart. hot for the rival Buondelmonti, and Guido hails him with ironical  deprecation.   Novelle ti so dire, odi, Nerone,   che' Bondelmonti treman di paura,   e tutt* i fiorentin' no li assicura,   udendo dir che tu a* cor di leone.   E piu treman di te che d' un dragone  veggendo la tua faccia, ch* e si dura  che no la riterria ponte ne mura  se non la tomba del re faraone.   De ! com' tu fai grandissimo peccato  si alto sangue voler discacciare,  che tutti vanno via sanza ritegno.   Ma ben e ver che ti largar lo pegno,  di che potrai V anima salvare  se fossi paziente del mercato. 1   Guido's disdainful temper both piqued and puzzled his townsfolk.  Sacchetti's anecdote 2 of the Florentine small boy who, having slyly  nailed Guido's gown to his bench, then teased him until the irate  gentleman tried — naturally to his discomfiture — to chase him, has   1 News have I for thee, Nero, in thine ear.   They of the Buondelmonte quake with dread,  Nor by all Florence may be comforted,  For that thou hast a lion's heart they hear.   And more than any dragon thee they fear,   For looking on thy face they are as dead :  Bastion nor bridge against it stands in stead,  Nor less than Pharaoh's grave were barrier.   Marry ! but thou hast done a wicked thing,   Having the heart to scatter such high blood,  For without let now one and all they flee.   And 'sooth, a truce-bait too they proffered thee,  So that thy soul might still be with the Good,  Hadst but had stomach for the bargaining.   For the first quatrain of this sonnet I have slightly altered Rossetti's translation.  In the rest a mistaken understanding of the sonnet as if addressed to the pope  has misled him. 2 // aVm 53^     its point in a very human satisfaction at the scorner scorned. Boc-  caccio's novella 1 is more significant, illustrating vividly, if perhaps  by a fictitious occurrence only, the subtle mingling of awe and defi-  ance which Guido inspired. Boccaccio's " character " of Guido is a  eulogy. " He was one of the best thinkers (Joici) in the world and  an accomplished lay philosopher (filosofo naturale), . . . and withal a  most engaging, elegant, and affable gentleman, easily first in what-  ever he undertook, and in all that befitted his rank." This character,  together with the mood of tragic doubt upon which the point of Boc-  caccio's narrative turns, inevitably, if tritely, brings to mind Ophelia's  character of Hamlet :   The courtier's, soldier's, scholar's eye, tongue, sword ;  The expectancy and rose of the fair state,  The glass of fashion and the mould of form,  The observed of all observers. . . .   But, if we may still trust Boccaccio, " that noble and most sovereign  reason " of Guido was also " out of tune and harsh " with scrupulous  doubt ; " so that lost in speculation, he became abstracted from men.  And since he held somewhat to the opinion of the Epicureans, gossip  among the vulgar had it that these speculations of his only went to  establish, if established it might be, that there was no God."   Boccaccio does not call Guido an atheist ; that was mere vulgar  gossip. He does not even declare him a convinced Epicurean, one  of those who with his own father   . . . P anima col corpo morta fanno.   Boccaccio's charge is qualified : " he held somewhat to the opinion  of the Epicureans " {egli alquanto tmea della opinione degli Epicurj).  Dante's commentator, indeed, Benvenuto da Imola, is more cate-  gorical and extreme : " Errorem, quern pater habebat ex ignorantia,  ipse (Guido) conabatur defendere per scientiam." Benvenuto is even  remoter in time, however, than Boccaccio ; and his phrasing suggests  at least a mere perpetuation of that vulgar gossip which Boccaccio con-  temptuously records. But can we trust Boccaccio's own testimony?  At least there is no antecedent improbability. Skepticism was  common, especially in the highly educated class to which Guido   1 Decam^ VI, 9.     belonged ; and it was not unnatural at any rate for him to weigh  carefully an opinion held by his own father. Again, there is noth-  ing in either his life or writings to indicate an active faith. Much  indeed has been made of his " pilgrimage " to the shrine of St. James  at Compostella; but the mood of this was so little serious that a  pretty face at Toulouse was enough to change his intention. The  ironical sonnet of Muscia of Siena is a hint that his contemporaries  could not take him very seriously as a pious pilgrim; and Muscia  stresses Guido's excuse for breaking his supposed vow that there was  no vow in the case — " non v' era botio" Guido may have started in  a moment of reaction from his doubt — does not doubt itself imply  a wavering will ? He may have left Florence as a matter of prudence  — Corso tried to have him assassinated on the way as it was. As  for his writings, these, considering the intimate theological associa-  tions of the school of Guinizelli, are noticeably barren of religious  feeling or phrase ; and he certainly scandalized the worthy, if narrow,  Orlandi by his jesting sonnet about the thaumaturgic shrine of "my  Lady." The hypothetical confirmation of Guido's skepticism, on the  other hand, in his "disdain for Virgil, ,, mentioned by Dante in his  answer to the elder Cavalcanti's question 1 why Dante's "first friend "  had not accompanied him, has beendiscredited after twenty years of  support by its own proposer, D'Ovidio. The passage is, to be sure,  still a moot question ; and D'Ovidio, even in the zeal of his recanta-  tion, still admits the allegorical taking of it to be plausible as a sec-  ondary intention on Dante's part. In any case, even waiving the  confirmation, the tradition of Guido's skepticism is not impugned ; and  in view of the persistent tradition, and of the antecedent probability  in its favor, the burden of disproof would seem to rest on those who  reject the tradition. Meanwhile, I propose to test the credibility of  the tradition by assuming it. If the assumption proves to be a factor  in a coherent and credible interpretation of Guido's poetry, the credi-  bility of the assumption proportionately increases. The argument  is of course a circle, but I think not a vicious circle.   There is also another tradition, which happens likewise to be sub-  sidiary to the same end. As the one tradition charges Guido with  unfaith in religion, so the other charges him with faithlessness in love.   i Inf., X, 60.   Hewlett, in his Masque of Dead Florentines,  has seized upon this supposed fickleness of Guido as Guido's char-  acteristic trait. Guido is made to say :   My way was best.  From lip to lip I past, from grove to grove :  I am like Florence ; they call me Light o' Love.   I am dubious indeed about that literal criticism which surmises a  " family skeleton " in every locked sonnet. Heine assuredly reckoned  without his Scholar when he complained :   Diese Welt glaubt nicht an Flammen,  Und sie nimmt's fur Poesie.   When Guido writes a sonnet describing how Love had wounded him  with three arrows, — Beauty, Desire, Hope of Grace, — it is hardly fair  for Rossetti to entitle his own translation He speaks of a third love  of his. Rossetti the scholar should have known better. Of course  Guido is simply copying a conceit from the Romance of the Rose : the  three arrows are three arrows from the eyes of one lady, not of three  ladies. Again, it is almost worse when poor Guido essays a pretty  pastourelle, which is by definition a gallant adventure between a pass-  ing knight and a shepherdess, to discuss the " peccadillo " in a solemn  footnote ! Yet Rossetti, himself a poet, does so. Nay, Guido's latest  learned editor, Signor Rivalta, speaks 1 of his singing "anche i suoi  desideri meno puri e piu umani come nella ballata :   In un boschetto trovai pasturella . . ."   This ballata is the pastourelle in question. Stifl, waiving such pseudo-  revelations of a stethoscopic criticism, there are, considering the  meagerness of Guido\s poetical remains, hints enough besides the  mention of several ladies — Mandetta, Pinella, and by, inference her  whom Dante calls Giovanna — to accept with discretion sober Guido  Orlandi's perhaps malicious insinuation, when he inquires of Guido  Cavalcanti concerning the nature, the effects, the virtues of Love :   Io ne domando voi, Guido, di lui :  odo che molto usate in la sua corte ;   1 Le Rime di Guido Cavalcanti^ Bologna, 1902, p. 23. and even the cruder implication in Orlandi's boast of his chaster mind :   Io per lung' uso disusai lo primo  amor carnale : non tangio nel limo.   Reckless feudist, unbeliever, " light o' love," squire of dames, pro-  found thinker, gracious gentleman — a perplexing motley of a man;  it is no wonder that his poetry, reflecting himself, more easily with  its many-faceted light dazzles rather than illumines the understand-  ing. In addition, one has to contend in his more doctrinal pieces,  especially in the famous canzone of love, with a rigorous scholastic  terminology dovetailed into a most intricate metrical schema, and with  a text at the best corrupt. In spots Guido — as we have him — is  as hopeless as Persius; yet we may waive these and still venture  upon a general interpretation.   In general, Guido's love poems hinge upon two parallel but opposite  moods, — a radiant mood of worshipful admiration of his lady, a tragic  mood of despair wrought in him by his love of her. His sight of  her is a rapture, as in the most magnificent of his sonnets, beginning  " Chi e questa che ven ":   Chi e questa che ven ch' ogn' om la mira  e fa tremar di chiaritate V a're,  e mena seco amor si che parlare  null' omo pote, ma ciascun sospira?   O Deo, che sembra quando li occhi gira   dica '1 Amor, ch' i' no '1 savria contare :   cotanto d' umilta donna mi pare,   ch' ogn' altra ver di lei i' la chiam' ira.   Non si poria contar la sua piagenza,   ch' a lei s' inchina ogni gentil virtute,  e la beltate per sua dea la mostra.   * Non f u si alta gia la mente nostra   e non si pose in noi tanta salute,   che propriamente n' aviam canoscenza. 1   1 Lo! who is this which cometh in men's eyes  And maketh tremulously bright the air,  And with her bringeth love so that none there  Might speak aloud, albeit each one sighs ? The sonnet is a superb tribute ; but it is also more. It contains,  as I conceive, the pivotal idea in Guido's philosophy of love, —  namely, in the lines describing his mistress as   Lady of Meekness such, that by compare  All others as of Wrath I recognize,  (cotanto d* umilta donna mi pare,  ch' ogn' altra ver di lei i' la chiam' ira.)   Ira . . . umilta : wrath . . . meekness — the antithesis dominates  Guido's thought. Wrath is in his vocabulary the concomitant of  imperfection, of desire ; meekness the concomitant of perfection, of  peace. He, the lover, is therefore in a state of wrath ; she, the  lovable, in a state of meekness, —   Quiet she, he passion-rent.   The identification of passionate love with a state of wrath is fun-  damental in Guido's philosophy. It is the germinal idea of the  doctrinal canzone beginning " Donna mi prega." In answer to the  query as to the where and whence of the passion —   La ove si posa e chi lo fa creare —  he declares that   In quella parte dove sta memora   prende suo stato, si formato come  diaffan da lume, — d'una scuritate  la qual da Marte vene e fa dimora. 1   " In that part where memory is love has its being ; and, even as light  enters into an object to make it diaphanous, so there enters into the   Dear God, what seemeth if she turn her eyes  Let Love's self say, for I in no wise dare :  Lady of Meekness such, that by compare  All others as of Wrath I recognize.   Words might not body forth her excellence,  For unto her inclineth all sweet merit,  Beauty in her hath its divinity.   Nor was our understanding of degree,  Nor had abode in us so blest a spirit,  As might thereof have meet intelligence.  1 vv. 15-18. I use here as elsewhere the edition of Ercole Rival ta, Bologna, 1902.  constitution of love a dark ray from Mars, which abides." Now Dante  conceives love as an emanation from the star of the third heaven, Venus,  along a bright ray : " I say then that this spirit (i.e. of love) comes  upon the * rays of the star ' (i.e. of the third heaven, Venus), because  you are to know that the rays of each heaven are the path whereby  their virtue descends upon things that are here below. And inas-  much as rays are no other than the shining which cometh from the  source of the light through the air even to the thing enlightened, and  the light is only in that part where the star is, because the rest of the  heaven is diaphanous (that is transparent), I say not that this ' spirit/  to wit this thought, cometh from their heaven in its totality but from  their star. Which star, by reason of nobility in them who move it, is  of so great virtue that it has extreme power upon our souls and upon  other affairs of ours," etc. 1 So Dante. Guido, on the other hand,  while accepting the notion of love as an emanation, holds the emana-  tion to be rather from the star of the fifth heaven, Mars, along a dark  ray. The power over the soul of this star is no less extreme than  that of Venus; only it is, in a sense, a power of darkness rather than  of light. It may strike at life itself —   Di sua potenza segue spesso morte. (v. 35)   The passion which its influence excites passes all normal bounds in  any case, destroying all healthful equilibrium :   L'esser e quando lo voler e tan to  ch' oltra misura di natura torna:  poi non s' adorna di riposo mai.  Move cangiando color riso e pianto  e la figura con paura stoma. . . . 2 (vv. 43-47)   Finally, — and here we reach the gist of the matter, — the influ-  ence of the choleric planet engenders sighs and fiery wrath in the   1 Conv.y II, vii. (Wicksteed's translation.)   2 It has its being when the passionate will   Beyond all measure of natural pleasure goes :  Then with repose unblest forever, starts  Laughter and tears, aye changing color still,  And on the face leaves pallid trace of woes.  lover, impotent to reach the ever-receding goal of his desire (non   fermato loco):   La nova qualita move sospiri   e vol ch' om miri in non fermato loco   destandos' ira, la qual manda foco. 1   This strangely pessimistic reading of love seems to have struck at  least one of Guido's contemporaries with indignant surprise, not only  at the apparent slight upon love, but also at the silence seeming to  give assent of other poets, especially of Dante. Cecco d'Ascoli, in his  Acerba, iii, 1, denies that so sweet a thing as love could emanate  from the planet Mars, seeing that from that planet rather " proceeds  violence with wrath " (procede Vimpeto con Fire) ; wherefore :   Errando scrisse Guido Cavalcanti. . . .  qui ben mi sdegna lo tacer di Danti.   In fact, Dante, in the sonnet in the sixteenth chapter of the New Life,  apparently alludes sympathetically to Guido's dark rays of love —   Spesse fiate vegnommi a la mente   l'oscure qualita ch' Amor mi dona —   and proceeds to describe, though not by this name, just such a  " state of wrath " in himself as Guido believes inseparable from love.  With Dante, of course, the mood is but passing. For him love is  in its essence a beneficent power.   For Guido also it might seem that this tragic wrath of desire is  not incurable. There is a power in meekness to overcome wrath  and to subdue wrath also to meekness. And the meek one is  impelled to exercise this power, to confer this boon, by pity for the  one suffering in wrath. It is the failure to follow this blessed  impulse for which Guido reproaches his lady in the octave of the  sonnet beginning " Un amoroso sguardo," when he says that she is one   . . . for whom availeth not  Nor grace nor pity nor the suffering state. . . .   (. . . verso cui non vale  Merzede ne pieta ne star soffrente. . . .)   1 The novel state incites to sighs, and makes  Man to pursue an ever-shifting aim,  Till in him wrath is kindled, spitting flame.  Meekness, grace, pity, the suffering state of wrath — the terms have  a scriptural sound, and of right ; for they are actually scriptural anal-  ogies applied to love. Precisely this poetical analogy was the innova-  tion of Guido Guinizelli, whom Dante called " father of me and of my  betters," — of which last Guido Cavalcanti was in Dante's mind first,  if not alone. Before Guinizelli Italian poets had accepted the other  analogy of the troubadours of Provence, which applied to love the canon  of feudal homage. For these the lady of desire was as the haughty  baron to whom they owed servile fealty, and whose inaccessible mood  was not of gentle meekness but of cruel pride, claiming willfully of  her vassal perhaps life itself. But feudalism and its harsh canon  of service were alien to the Italian communes ; Italian poetry built  upon an analogy with it must needs be an affectation. These burgher  poets were only play knights; these frank Tuscan and Lombard girls  were only play barons. Affectation, the pen following not the dicta-  tion of the feelings but of hearsay feelings, — this is the precise charge  which Dante, from the standpoint of the " sweet new style," brings  against the older style. 1 But if as free burghers Italians could not  really feel the alien mood of feudal homage, yet as Christian gentle-  men they could, and should, sanctify their love of women with the  mood of religious awe. There need be no affectation in that. Free  burghers, they recognized no temporal overlord, no absolute baron ;  Catholics, they did believe in, and might with sincerity worship, min-  istering angels — "donne angelicate," the meek ones whom, as the  Psalmist had declared, the Lord has beautified with salvation.   Guido therefore can no more worthily praise his mistress than by  calling her his " Lady of Meekness." Indeed, by further analogy he  sets her above the angels themselves; for the Christ himself had said :  "Mitis sum et humilis corde — I am meek and lowly in heart." For him-  self, " passion-rent " in his love, the poet speaks as St. Paul, — " we . . .  had our conversation ... in the lusts of our flesh, fulfilling the desires  of the flesh and of the mind ; and were by nature the children of wrath  (filii irae)" And the merzede, the "grace," for which he sues — solu-  tion of wrath by the spirit of meekness — is again in accord with  Paul's promise to these very "children of wrath," — "By grace are ye  saved through faith" — faith, that is, in loving and serving the one  divinity as the other.   i Purg., XXIV, 49 seq. This is pious doctrine indeed for the righting cavalier, skeptic, Love-  lace I have in a measure assumed Guido to be. Is then his love creed  also a pose, worse than the apes of Provence whom Dante exposed,  because he thus adds hypocrisy to affectation ? Well, if so, the same  Dante would hardly have hailed him as "first friend" in life and  master after Guinizelli in poetry, nor have outraged the memory of  Beatrice by associating her in the New Life with Guido's lady Joan.   The solution of the apparent antinomy lies in the meaning for  Guido of that rnerzede, that " grace," the granting of which by ; the  lady, the meek one, might appease the lover, the one in "wrath."  The term itself — Italian merzede or English " grace " — has a fourfold  significance according as it is a function of the lady, of the lover, or  of the reciprocal relationship between them. "Grace" in her signifies  her beatitude, her "meekness"; in him, his "merit" which through  faith and loving service deserves the boon, or "grace," of her con-  descension to redeem him from his "state of wrath," for which  condescension it would be befitting him to render thanks, "yield  graces, — a phrase now obsolete in English but used by Dante, —  render mercede. Of this fourfold intention of the term the one funda-  mentally doubtful is ,the " grace " which is constituted by the act of  condescension of the lady : what then is the grace or boon that the  lover asks and hopes ? In other words, what is the end of desire ?   The answer is no mystery. The end of desire is always possession,  in one sense or another, of the thing desired. In the practical sense  possession of the loved one means union, physical or social, or both,  sacramentally recognized, in marriage ; but the sacrament of marriage  allows a more mystical sense, presenting the ideal, hardly realizable  on earth, of a spiritual union which is also a unity of two in one :   The single pure and perfect animal,   The two-cell'd heart beating with one full stroke,   Life.   So Tennyson modernly ; but more in accord with the metaphysical  mood of Guido is the old Elizabethan phrasing :   So they loved, as love in twain  Had the essence but in one ;  Two distincts, division one:  Number there in love was slain.   To the " gentle heart " there is no love but highest love ; there is  no union but perfect union, wherein two shall   Be one, and one another's all.   Until the "gentle heart " may attain to that perfect union its desire  is unappeased, its " wrath " unsubdued. Tennyson premises it for  the right marriage; but there is ever the doubter ready to remark  that if such marriages are really made in heaven, they certainly  are kept there. Human sympathy cannot quite bridge the span  between two souls: self remains self; and though hands meet and  lips touch and wills accord, there is always something deeper still,  inexpressible, unreachable.   Yes ! in the sea of life enisled,  With echoing straits between us thrown,  Dotting the shoreless watery wild,  We mortal millions live alone.   In vain, says Aristophanes in Plato's Banquet, in vain, "after the  division (of the primeval man-woman in one), the two parts of man,  each desiring his other half, came together, and threw their arms  about one another eager to grow into one. . . ." True, Aristophanes  in effect goes on, Zeus in pity consoled the loneliness of dissevered  " man-woman " by physical union ; but that consolation the " gentle  heart " must forever regard as of itself inadequate and unworthy.   There is indeed a solution. Guinizelli and Dante read further into  the Banquet of Plato — or into the Christian doctrine built upon that  — to where the wise woman of Mantineia reveals the mysteries of a  love extending into a mystic otherworld — at least so Christians read  her teaching — where in the bosom of God all become as one. There  "wrath" is resolved into "meekness" perfectly.   The love of Guinizelli, and of Dante, was the love of happier men  of which Arnold speaks :   Of happier men — for they, at least,   Have dream '</ two human hearts might blend   In one, and were through faith released   From isolation without end   Prolong'd. But if Guido, even as Arnold, lacked this faith, doubted this mystic  otherworld whither therefore he might not accompany his first friend  to find his Giovanna, as Dante his Beatrice, perfect in meekness,  purged of all wrath, and to learn from her release hereafter from the  dividing flesh, union at last with her spirit at peace ? — if he was of  those, even uncertainly wavered with those, who   . . . F anima col corpo morta f anno ? —   then indeed for him, in degree as his desire was ideally exalted,  so its grace, its merzede, became an irony, a tragic paradox. His  must be a passionate loneliness forever teased by an illusion, a  phantom mate of its own conjuring. And I at least so understand  the concluding words of the canzone :   For di colore d'esser e diviso,   assiso mezzo scuro luce rade :   for d'onne fraude dice, degno in fede,   che solo di costui nasce mercede. 1   That is, the only love of which grace is born, entire possession  granted, is love of the dim immaterial idea, — " la figlia della sua  tnente, Vamorosa idea" as Leopardi calls it. Ixion embraces his  Cloud. Guido's lady's desirable perfection, her " meekness," exists not  in her, but in his glorified ideal of her, " bereft " as that is " of color   1 Bereft is (love) of color of existence,   Seated half dark, it bars the light (i.e. which might make it visible).  Without deceit one saith, worthy of faith,  That born of such a love alone is grace.   Rivalta's reading without in would apparently make mezzo adverbial. The com-  moner reading, " assiso in mezzo oscuro luce rade' 1 more naturally gives mezzo as  a noun: " seated in a dark medium," etc. The meaning is not substantially  different. The reading in mezzo, however, is more suggestive, as implying not  only the immateriality of the mental fact but also the darkening of the " medium,"  i.e. the imagination, by the " Martian " ray of passion. The assertion of the  invisibility of love is in answer to Guido Orlandi's question restated by Caval-  canti in v. 1 4 — " s* omo per veder lo po y mostrare." Question and answer are alike  absurd, however, unless we understand "love" to mean the object loved, which it  may naturally do ; one's §l love " means both one's passion and one's lady.  of existence." Therefore Guido's mood is essentially one with Leo-  pardi's when the latter exclaims :   Solo il mio cor piaceami, e col mio core  In un perenne ragionar sepolto,  Alia guardia seder del mio dolore. 1   Guido has himself described with quaint " preraphaelite " symbol-  ism the process of progressive detachment of the ideal from the  real in the ballata beginning " Veggio ne gli occhi."   Cosa m* avien quand* i' le son presente  ch' i' no la posso a lo 'ntelletto dire :  veder mi par de la sua labbia uscire  una si belladonna, che la mente  comprender no la pu6 ; che 'nmantenente  ne nasce un* altra di bellezza nova,  da la qual par ch' una Stella si mova  e dica: la salute tua e apparita. 2   The imagery here is manifestly in accord with contemporary pictorial  symbolism, in which souls as living manikins issue forth from the  lips of the dead; but the significance of the passage is, I take it, at  one with that of the so-called Platonic " ladder of love " by which  through successive abstractions the pure idea, the intelligible virtue,  is reached. The following stanza in the same ballata again defines  this "virtue" as "meekness," and again declares it to be merely  " intelligible,"   for di colore d' esser . . . diviso,  assiso mezzo scuro luce rade ;   1 Only my heart pleased me, and with my heart  In a communing without cease absorbed,   Still to keep watch and ward o'er my own smart.   2 Something befalleth me when she is by   Which unto reason can I not make clear:   Meseems I see forth through her lips appear   Lady of fairness such that faculty   Man hath not to conceive ; and presently   Of this one springs another of new grace,   Who to a star then seemeth to give place,   Which saith: Thy blessedness hath been with thee. only instead of the metaphysical directness of the canzone, the poet  employs the theological tropes of the dolce stil.   La dove questa bella donna appare  s'ode una voce che le ven davanti,  e par che d' umilta '1 su' nome canti  si dolcemente, che s' P '1 vo' contare  sento che '1 su* valor mi fa tremare.  E movonsi ne 1' anima sospiri  che dicon : guarda, se tu costei miri  vedrai la sua vertu nel ciel salita. 1   And now the tragic note in Guido's is explained. It is neither  the polite fiction, the " pathetic fallacy " of the Sicilian school, nor  yet the quickly passing shadow of this life set between Dante and the  sun of his desire.   La tua magnificenza in me custodi,   SI che P anima mia che fatta hai sana,  Piacente a te dal corpo si disnodi.   Cosi orai . . . 2   "So I prayed," writes Dante, triumphant in expectation ; but for those  Che 1 'anima col corpo morta fanno,   there could be health of soul neither now nor hereafter. Wherefore  Guido's text in the analysis of his own passion is in all literalness  the words of the Preacher, — " All his days ... he eateth in dark-  ness, and he hath much sorrow and wrath in his sickness." Until   1 There where this gentle lady comes in sight   Is heard a voice which moveth her before  And, singing, seemeth that Meekness to adore  Which is her name, so sweetly, that aright  I may not tell for trembling at its might.  And then within my soul there gather sighs  Which say: Lo ! unto this one turn thine eyes:  Her virtue to heaven wingeth visibly.   2 Farad., XXXI, 88-91.Guido prays indeed for release in death, not triumphantly as Dante,  but piteously, in the spirit of Leopardi's words in Amore e Morte:   Nova, sola, infinita  Felicita . . . il suo (the lover's) pensier figura :  Ma per cagion di lei grave procella  Presentendo in suo cor, brama quiete,  Brama raccorsi in porto  Dinanzi al fier disio,  Che gia, rugghiando, intorno intorno oscura. 1   Poi, quando tutto avvolge  La formidabil possa,  E fulmina nel cor Tinvitta cura,  Quante volte implorata  Con desiderio intenso,  Morte, sei tu dair affanoso amante ! 2   Precisely in this mood Guido invokes death :   Morte gientil, rimedio de' cattivi,   merze merze a man giunte ti cheggio :  vienmi a vedere e prendimi, che peggio  mi face amor : che mie' spiriti vivi   1 Not only are Guido and Leopardi saying the same thing in effect, but even  their figures of speech are in accord. There is evident similarity of symbolism  between the soul-darkening storm blast of the one and the soul-darkening Martian  ray of the other ; although doubtless the mediaeval poet may have conceived his  " dark ray " as a real phenomenon.   2 New, infinite, unique  Felicity ... he pictures to his mind :  And yet because of it the wrath of storm  Foreboding in his heart, he longs for calm,  Longs for the quiet haven  Far from that fierce desire,  Which even now, rumbling, darkens all around.   Then, when o'erwhelmeth him  The fury of its might,   And in his heart thunders unconquerable care,  How many times he calls  In agony of need,  Death, upon thee in his extremity ! son consumati e spenti si, che quivi,  dov* i' stava gioioso, ora mi veggio  in parte, lasso, la dov' io posseggio  pena e dolor con pianto : e vuol ch' arrivi   ancora in piu di mal s' esser piu puote ;  perche tu, morte, ora valer mi puoi  di trarmi de le man di tal nemico.   Aime ! lasso quante volte dico :   amor, perche fai mal pur sol a' tuoi  come quel de lo 'nferno che i percuote ? 1   At other times Guido describes the combat to the death between  his " spirits " of life and love. He enlarges his canvas and, calling  to aid a whole dramatis personae of the various " souls " and " animal  spirits " of scholastic psychology, objectifies his mood into miniature  epic and drama. This mythology of the inner world arose naturally  enough to mind from the ambiguity of the term " spirits," meaning  at once bodily humors and bodiless but personal creatures ; and  in Guido's delicate handling the symbolism is singularly effective.  Only by exaggeration of imitation did it grow stale and ludicrous,  meriting the jibes of Onesto da Bologna at such " sporte piene di   1 Gentle death, refuge of th' unfortunate,   Mercy, mercy with clasp'd hands I implore :  Loo^ down upon me, take me, since more sore  Hath been love's dealing : in so evil state   Are brought the spirits of my life, that late   Where I stood joyous, now I stand no more,  But find me where, alas ! I have much store  Of pain and grief with weeping : and my fate   Yet wills more woe if more of woe might be ;   Wherefore canst thou, death, now avail alone  To loose the clutch of such an enemy.   How many times I say, Ah woe is me 1   Love, wherefore only wrongest thou thine own,  As he of hell from his wrings misery ?     3spiriti." The following curiously rhymed sonnet may illustrate his  manner in this kind.   L' anima mia vilment' e sbigotita   de la battaglia ch* ell' ave dal core,  che, s T ella sente pur un poco amore  piu presso a lui che non sole, la more. Sta come quella che non a valore,   ch' e per temenza da lo cor partita :  e chi vedesse com' ell* e fuggita  diria per certo : questi non a vita.   Per gli occhi venne la battaglia in pria,  che ruppe ogni valore immantenente  si, che del colpo fu strutta la mente.   Qualunqu* e quei che piu allegrezza sente,  se vedesse li spirti fuggir via,  di grande sua pietate piangeria. 1   It transpires then for Guido as for Leopardi that the only grace,  the only boon of peace, to which love leads is death ; and so is verified   1 The spirit of my life is sore bested   By battle whereof at heart she heareth cry,   So, that if but a little closer by   Love than his wont she feeleth, she must die.   She is as one dejected utterly ;   The heart she hath deserted in her dread :  And who perceiveth how that she is fled,  Saith of a certainty : This man is dead.   First through the eyes swept down the battle-tide,  Which broke incontinently all defense,  And by its wrath wrecked the intelligence.   Whoever he that most of joy hath sense,  Yet if he saw the spirits scattered wide,  In his excess of pity must have sighed.  %\   the warning of those who came to meet him when he first entered the  court of love :   Quando mi vider, tutti con pietanza  dissermi : fatto se' di tal servente  che mai non dei sperare altro che morte. 1   In reality, he knows the futility of any appeal to his lady for aid.  She is indeed the innocent occasion of his suffering, but of it she is  a mere passive spectator, hardly understanding it, and certainly help-  less to relieve it ; and so Guido himself describes her in the sonnet  beginning " S' io prego questa donna." In the midst of his agony,   Allora par che ne la mente piova  una figura di donna pensosa,  che vegna per veder morir lo core. 2   Here then at last we find the explanation of his interpretation of  Dante's sonnet, when he said that love fed Dante's heart to his lady,   vegendo  che vostra donna la morte chedea.   She claimed its death not willfully indeed, as the capricious mistress  of Ulrich von Lichtenstein " claimed " his mutilation, but innocently,  unwittingly, in that her beauty was as a firebrand, her perfection, her  " meekness," a goal of unavailing consuming desire. She is helpless  to relieve him, because — and here is the core of the matter — it is  not she, not the real woman, that he loves, but that idealization of  her which exists only in his own mind —   for di colore d' esser e diviso,   assiso mezzo scuro luce rade.   Compared with this glorified phantom "nel ciel (that is, into the  intelligible world) salita," the real woman also is but "ira," wrath  and imperfection. So he pines for his lady of dreams, who thus a   1 When they beheld me, unto me all cried   Pitiful : bondman art thou made of one   Such that for nought else mayst thou look but death.   2 " Into my mind then seems it that there rays a figure of a pensive lady, com-  ing to behold my heart die." ghostly " vampire " feeds upon his human heart ; but the real woman,  " the woman who does not understand," is no longer of moment to  him. She is, as it were, but the nameless model to his artist mind.  When that has drawn from her all that is of fitness for its master-  piece, it straightway leaves her for another otherwise completing the  ideal type. Giovanna passes ; Mandetta arrives.   Una giovane donna di Tolosa   bell' e gentil, d' onesta leggiadria,   tant' e diritta e simigliante cosa,   ne' suoi dolci occhi, de la donna mia,   ch' e fatta dentro al cor desiderosa   P anima in guisa, che da lui si svia  e vanne a lei ; ma tant* e paurosa,  che no le dice di qual donna sia.   Quella la mira nel su* dolce sguardo,  ne lo qual face rallegrare amore,  perche v' e dentro la sua donna dritta.   Po' torna, piena di sospir, nel core,   ferita a morte d* un tagliente dardo,  che questa donna nel partir li gitta. 1   Plainly it is not of Giovanna, nor of any actual woman, but of his  ideal woman, of whom Giovanna herself was but a reminiscence, that   1 A lady of Toulouse, young and most fair,  Gentle, and of unwanton joyousness,  So is the very image and impress,  In her sweet eyes, of one I name in prayer,   That my soul's wish is more than it can bear :   Wherefore it 'scapeth from the heart's duress  And cometh unto her ; yet for distress  What lady it obeys may not declare.   She looketh on it with her gentle mien,   Whereunto by the will of love it yearns,  Because that lady there it may perceive.   Then to the heart it, full of sighs, returns,  Unto death wounded by an arrow keen,  The which this lady loosed when taking leave. Mandetta reminds him. In her turn Mandetta will pass also. Then  will come Pinella, or another — what does it matter? What cared  Zeuxis for any one of his five Crotonian maidens, once each in her  turn had supplied that particular trait of loveliness which only she,  perhaps, had to offer, but had to offer only ?   Mentre ch* alia belta, ch* i* viddi in prima  Apresso V alma, che per gli ochi vede,  L' inmagin dentro crescie, e quella cede  Quasi vilmente e senza alcuna stima. 1   The words are Michelangelo's, but the idea is in effect Guido's. And  it is an idea which, I think, renders perfectly compatible in him con-  stancy in ideal love with inconstancy in real loves. To keep faith  with perfection is to break faith with imperfection. The love of  Guido brooked no compromise. The perfect one might be unattain-  able in this life; perfect union with her, even if found, might be  impossible in this life; there might be no other life than this so  marred by the perpetual " state of wrath " to which his impossible  desire in its impotence doomed him ; yet nevertheless Guido was  willing to be damned for the greater glory of Love.   In conclusion, I would quote a passage from the elegy to Aspasia  of Leopardi, which puts into modern phrasing exactly what I con-  ceive to be Guido's intention, obscured as that is for us by its  scholastic terminology and its mixture of chivalric and obsolete  psychological imagery. Especially I would call attention to the  precisely similar way in which Leopardi, like Guido, combines in his  mood the loftiest idealization of Woman with the most contemptuous  conception of women. So Hamlet insults, even while he adores.  Dante too had his cynical time, to judge from Beatrice's immortal  rebuke, — when he   . . . volse i passi suoi per via non vera,  Imagini di ben seguendo false.   1 While to the beauty, which first drew my gaze,   My soul I open, which looketh through the eyes,  The inward image grows, the outward dies  In scorn away, unworthy all of praise. But Dante was saved from ultimate cynicism, ultimate unfaith, by the  promise of perfect union with his ideal in paradise. That promise  Guido, like Leopardi, rejected.  Here is Leopardi's confession :   Raggio divino al mio pensiero apparve,  Donna, la tua belta. Simile effetto  Fan la bellezza e i musicali accordi,  Ch' alto mistero d* ignorati Elisi  Paion sovente rivelar. Vagheggia  II piagato mortal quindi la figlia  Delia sua mente, l'amorosa idea,  Che gran parte d* Olimpo in se racchiude,  Tutta al volto, ai costumi, alia favella  Pari alia donna che il rapito amante  Vagheggiare ed amar confuso estima.  Or questa egli non gia, ma quella, ancora  Nei corporali amplessi, inchina ed ama.  Alfin Perrore e gli scambiati oggetti  Conoscendo, s' adira .  (" Sadira /" — " is wrathful " — Leopardi's very words form a gloss  to Guido's. But as little as Guido's is Leopardi's wrath directed  against the real woman, innocent occasion of his illusion and disillu-  sion. Leopardi continues :)  e spesso incolpa  La donna a torto. A quella eccelsa imago  Sorge di rado il femminile ingegno;  E ci6 che inspira ai generosi amanti  La sua stessa belta, donna non pensa,  Ne comprender potria.  (" The woman who does not understand " !)  Non cape in quelle  Anguste fronti ugual concetto. E male  Al vivo sfolgorar di quegli sguardi  Spera V uomo ingannato, e mal richiede  Sensi profondi, sconosciuti, e molto  Piu che virili, in chi dell' uomo al tutto Da nature e minor. Che se piu molli  E piu tenui le membra, essa la mente  Men capace e men forte anco riceve. 1   So the idealist skeptic of the nineteenth century aligns himself  with the idealist skeptic of the thirteenth, even to that last truly  mediaeval touch — confusio hominis est femina. And, if I have not  somewhere gone off on a tangent, I have described my circle. Guido's  philosophy of love at least fits with the hypothesis of his skepticism,  and a practical consequence of both would be that actual fickleness  of heart to which tradition again bears witness.   1 A ray celestial to my thought appeared,  Lady, thy loveliness. Similar effects  Have beauty and those harmonies of music  Which the high mystery of unfathomed heavens  Seem ofttimes to illumine. Even so  Enamoured man upon the daughter broods  Of his own fancy, the amorous idea,  Which great part of Olympus comprehends,  In feature all, in manner, and in speech  Unto the woman like, whom, rapturous man,  In his false lights he seems to see and love.  Yet her he doth not, but that other, even  In corporal embracings, crave and love.  Until, his error and the intent transferred  Perceiving, he grows wrathful ; and oft blames  With wrong the woman. To that ideal height  Rarely indeed the wit of woman rises ;  And that which is in gentle hearts inspired  By her own beauty, woman dreams not of,  Nor yet might understand. No room have those  Too straitened foreheads for such thoughts. And fondly  Upon the spirited flashing of that glance  Builds the infatuate man, and fondly seeks  Meanings profound, undreamt-of, and much more  Than masculine, in one than man in all  By kind inferior. For if more tender,  More delicate of limb, so with a mind  Less broad, less vigorous is she endowed.Guido Cavalcanti. Keywords: lo sviluppo della teoria dell’amore in Aristotele – amore e morte, amore e anima vegetativa (l’amante non mangia, l’amante non dorme) – l’animo e il corpo come entelechia, sinolo perfetto, I due sinola, sinolo, Greco sinolon, da sin, co- e holos, tutto.  – l’amore come incontro disastroso di due entellechie. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavalcanti” – The Swimming-Pool Library. Cavalcanti.

 

Grice e Cavallo: l’implicatura conversazionale di Frankenstein, homo electricus – la morte di Fedro – fulminated by one of Giove’s lightnings -- elettrico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I love Cavallo, and so did most of the members of the Royal Society!” Grice: “Cavallo wasn’t strictly onto mythology, but the Italians on the whole are: the Elettridi are a couple of islands off the mouth of the shore where Fetonte fell – due to … electricity, as Cavallo called it – Cavallo is what at Oxford we would call a ‘natural philosoophy’ – for which there was once a chair – it’s very odd that it’s the chair in transnatural or ‘metaphysical’ philosophy that still sub-sists, as Heidegger would put it! By using ‘elettricita’ in the feminine abstract, Strawson criticsed Cavallo – but Strawson criticised most!” -- Autore di trattati di elettricità, magnetismo ed elettricità medicale, compe anche studi relativi ai gas e all'influenza dell'aria e della luce sulla biologia. Propone numerosi apparecchi elettrostatici di misura e di ricerca. Intue la possibilità di volare utilizzando palloni aerostatici. Costrue il primo elettroscopio. Altre opere: TreccaniEnciclopedie. Figlio di un medico. Si dedica alla filosofia e al commercio a giudicare da alcuni suoi studi. Si ritaglia un posto di rilievo come ideatore di esperimenti, inventore e realizzatore di strumenti di precisione e di apparati sperimentali, anche su commessa, e autore di trattati sistematici molto valutati per chiarezza, sistematicità e completezza.  Si lo ricorda in particolare per i suoi studi di aeronautica, legati alla possibilità di usare l’idrogeno come gas portante. E il primo a effettuare esperimenti sistematici sulle capacità ascensionali dell’idrogeno, gas che era stato scoperto quindici anni prima da Cavendish. Inizia con bolle di sapone riempite d’idrogeno, e che per questo salivano in verticale. Prova poi con involucri di carta, che però si rivelano inadatti perché permeabili al gas, e infine con vesciche di animali, troppo pesanti per sollevarsi ma in grado di far misurare una riduzione del peso. Non riusce a trovare un involucro abbastanza leggero da sollevarsi una volta riempito di gas. Cavallo, Tiberio. - Fisico (Napoli 1749 - Londra 1809); recatosi per commercio in Inghilterra nel 1771, ivi si dedicò a ricerche di fisica e di chimica. Già nel 1777 aveva intuito la possibilità del volo per via aerostatica, mediante un pallone ripieno di gas leggero; eseguì in proposito una serie di ingegnose esperienze servendosi di bolle di sapone gonfiate con idrogeno. Deve considerarsi il vero inventore dell'elettroscopio.  Fisico e filosofo naturale italiano. I suoi interessi includeno l’elettricità, lo sviluppo di strumenti scientifici, la natura delle "arie" e il volo in mongolfiera. Membro della Royal Academy of Sciences di Napoli. Presenta tredici volte di seguito la Lezione Bakeriana della Royal Society di Londra. Nacque a Napoli, Italia, dove suo padre era un medico. Apporta diversi ingegnosi miglioramenti agli strumenti scientifici. È spesso citato come l'inventore del “moltiplicatore di Cavallo”. Sviluppa anche un "elettrometro tascabile" che usa per amplificare piccole cariche elettriche per renderle osservabili e misurabili con un elettroscopio. Parti dello strumento e protetto dalle correnti d'aria da un involucro di vetro. Lavorato alla refrigerazione. In seguito al lavoro di Cullen e Black, fu il primo a condurre esperimenti sistematici sulla refrigerazione utilizzando l'evaporazione di liquidi volatile. Si interessa alle proprietà fisiche delle "arie" o dei gas e condusse esperimenti sull '"aria infiammabile" (idrogeno gassoso). Nel suo “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria” fece "un esame giudizioso del lavoro contemporaneo", discutendo sia la teoria del “flogisto” (citado da Grice in “Actions and events”) di Priestley che le opinioni contrastanti di Lavoisier. Alla Royal Society venne letto un articolo che descrive il primo tentativo di sollevare in aria un palloncino pieno di idrogeno. La sua “Storia e pratica dell'aerostazione” e considerata "una delle prime e migliori opere sull'aerostazione pubblicate nel diciottesimo secolo". In esso, discute sia i recenti esperimenti in mongolfiera, sia i suoi principi fondamentali. Si rivolge a un pubblico più generale in questo lavoro, evitando il gergo tecnico e le prove matematiche, ed era un efficace comunicatore scientifico sia per i suoi colleghi che per il pubblico in generale. Influenza i pionieri dell'aerostato Charles, i fratelli Blanchard. Storia e pratica dell'aerostazione, Tiberio Cavallo. La piastra I, che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno La piastra II, che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno Cavallo pubblicò anche sul temperamento musicale nel suo trattato “Del temperamento di quegli strumenti musicali, in cui sono fissati i toni, le chiavi o i tasti, come nel clavicembalo, nell'organo, nella chitarra, ecc. Il memoriale di Burdett Coutts, Old St. Pancras. Il nome di Cavallo è verso il basso, ma mancano le lettere B e C. Secondo quanto riferito, fu sepolto nel cimitero di Old St. Pancras in una volta vicino a quella di Paoli. La tomba è perduta ma è elencato nel memoriale di Burdett Coutts alle molte persone importanti sepolte in essa. Altre opere: Pubblica numerosi lavori su diversi rami della fisic, tra cui: “Trattato completo di elettricità in teoria e pratica” (Firenze: Gaetano Cambiagi); “Teoria e pratica dell'elettricità medica”; “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria e di altri fluidi permanentemente elastici”; “Trattato completo sull'elettricità in teoria e pratica”; “Storia e pratica dell'aerostazione”; “Trattato sul magnetismo”; “Proprietà mediche dell'aria fittizia”; “Elementi di filosofia naturale e sperimentale”. Per la Cyclopædia di Rees ha contribuito con articoli su Elettricità, Macchinari e Meccanica, ma gli argomenti non sono noti. Un resoconto di alcuni nuovi esperimenti elettrici del Sig. Tiberio Cavallo comunicato dal Sig. Henley, FRS, Transazioni filosofiche della Royal Society di Londra. TRATTATO COMPLETO D'ELETTRICITÀ TEORICA E PRATICA CON SPERIMENTI ORIGINALI.  FIRENZE, CAMBIAGI STAMP. GRANDUCALE CON LICENZA DE SUPÈRIORI. 1 ' A SUA ALTEZZA I OR D NASSAU CLAVERING PRINCIPE E CONTE DICO W P E R PRINCIPE DEL S. ROM. IMP. E PARI DELLA GRAN BRETTAGNA ec. AVoi folo Altezza e non ad altri dovea dedicarſi queſta verſione dall'origi nale ingleſe che ha l'onore di IV di renderſi pubblica colle preſenti ſtampe e di compa rire ſotto il Voſtro autore vole patrocinio. Ella è d'uno della Voſtra Nazione, è ſtata intrapreſa per Voſtro comando, fatta ſotto i Voſtriocchi, e quafi tutti gli addotti ſperimenti reiterati nel Voſtro copioſo ed elegante Gabinetto, che avete voluto rendere quaſi pubblico a comune vantag gio di chi brama profittare delle ſcoperte fiſiche ſperi mentali. Proſeguite come fate in que queſta Voſtra generoſa in trapreſa; mentre ſotto i Vo ftri fortunatiſſimiauſpicjcol più profondo riſpetto mi glorio di poter paſſare a di chiararmi DI VOSTRA ALTEZZA Di Caſa Umiliſſimo Servo. Mi ſarei facilmente diſpenſato dal fare veruno avviſo a queſt' opera ſe non mi foffi creduto in dovere di rendere in teſo l'Autore della medeſima, della ſtampa che meditavo fare della preſente verſione, anco per ſentire da ello ſe avea niente da aggiugnere o mutare al ſuo lavoro. Avendogli dunque ſcritto il Sig. Ma gellan alle richieſte d'un mio amico ſu queſto propoſito, gradì molto queſta parte, e traſmeſſe alcune addizioni e cambiamenti che deſiderava che foſſerofatti, come èſtato eſeguito, accompagnati con una corteſe let tera del tenore ſeguente. Signore. Incluſa in queſta Ella riceverà una nota di alcune poche addizioni e cam bia 1 a 4 VIII A V VISO biamenti che bramerei foſſero inſeriti nella traduzione del mio Trattato ſull'E. lettricità. La prego fare intendere al Traduttore e al di Lei corriſpondente che ſono loro molto obbligato per aver mi dato parte di queſta intrapreſa, e che ſon pronto a ſervirgli in quel poco che poſſo. Nov. 30. 1778. Suo Tiberio Cavallo, Sig. Magellan Nevils Court Ferter Lane. 1 NEL TRATTATO DI CAVALLO SULL' ELETTRICITA'. Pag. 2.8. v. 6. In vece di è quaſi tutte le dure pietre prezioſe ſi legga ad alcune altre dure pietre prezioſe. Pag. 40. Il paragrafo che comincia fiz nalmente concluderemo e finiſce da un corpo ad un' altro ſi dee totalinente omertere. Pag. DEL TRADUTTORE } . Il paragrafo che comincia Le caufe e gli effetti ſono così intimamente, e termina nella pag. 100. colle parole cer tezza epreciſione fi dee omettere affatto. . Alla nota in cui ſi deſcrive l’Amalgama ſi poſſono aggiungere i fe guenti verſi: Il Dott. Higgins ha ultima mente inventato un Amalgama che è molto preferibile a quello di ſtagno, perchè una piccoliffima quantità di effo non solo fa agire il vetro più potentemente, ma dura anco più lungo tempo ſullo ſtrofinatore che quello di fagno. Queſt' amalgama è fatto d'un feſto di zinco e cinque ſefti di mer. curio meſcolati inſieme. v. 12. Si dice non ſarà at tratta del ec. ma più toſto recederà dal punto ſpecialmente ſe l' ago ſi preſenti velociſſimamente verſo ilmedeſimo: Ora leparole di queſto paſſocheſono interpun tate deono ometterſi, cioè dee dir così, non ſarà attratta dal medefino. a 5 Pag. X À VVISO 1 Pag. 335.v.8. Tra le parole poichè e l'e lettricità ſi dee aggiugnere in parità di circoſtanze. Pag. 393. v. ult. cioè della nota In ve ce di Vol. XLVIII. e LXVII. ſi legga Vol. LIV. e LXVII. Del reſto polo aſſicurare il mio Lettore che la maggior parte degli ſperimenti in queſto Trattato riferiti ſono ſtati ripetuti Sotto i miei occhi nel ricco e ſcelto Gabi netto di S. A. il Sig. PRINCIPE COWPER che ne ha dato tutto il comodo, ed ha colla sua autorità promoſſo queſto lavoro. In tanto vivi felice, e godi di queſta fatica. 1. HL diſegno di queſto Trattato è di pre ſentare al pubblico un proſpetto che comprenda lo ſtato preſente dell'elettri cità ridotto in quei limiti più riſtretti che la natura della ſcienza può tollerare. Eſſo è diviſo in quattro parti, in ciaſcuna delle quali ſono contenute certe particolarità che avevano anche minor conneſſione col rimanente, e la cui diſtinta veduta ſi è creduto, che poteſſe eſſere un mezzo da impedire la confuſione dell' idee nella mente di quei lettori che non fi erano prima refa molto familiare queſta materia. La prima parte tratta ſolamente delle leggi dell'elettricità; cioè di quelle leggi naturali relative all' elettricità che per mezzo d' innumerabili ſperimenti ſi ſono trovate coſtantemente vere, e che non dipendono da veruna ipoteſi. In queſta parte l'autore non è diſceſo a veruna par ticolarità, la quale non foſſe chiaramente ſicura, o la quale foſſe di poca conſeguen za; ma nel tempo medeſimo ha procu rato di non omettere coſa alcuna impor tante, o che ſembraſſe promettere ulte riori: ſcoperte La ſeconda parte è meramente ipote tica, non per rapporto ai fatti, ma in ri guardo all opinioni. La grande improba bilità della maggior parte di queſte ipo teſi ha deterininato l'autore a renderla più breve che foſſe poſſibile. La parte terza contiene la pratica dell' elettricità. Qui l'autore ha procurato d'in ferire una deſcrizione di tutti i nuovi mi glioramenti fatti nell'apparato, i quali nel tempo medeſimo ſervono a minorare la fpefa, e a facilitare l'eſecuzione degli eſperimenti. In riguardo agli eſperimenti medeſimi, egli ha principalmente inſiſtito ſu quei pochi primari che gli ſon parſi i più neceſſari a illuſtrare e confermare le leggi dell'elettricità, omettendo un gran numero d'altri che ha trovato non eflere altro che i primi in qualche coſa va rjati. Egli niente di meno ha dato un rag guaglio di alcuni altri che quantunque non affolutamente neceſſari, gli parvero però meritare che ſene defle notizia. La quarta ed ultima parte contiene un breve ragguaglio dei principali ſperi menti eſeguiti dall'autore medeſimo in conſeguenza di quanto gli è accaduto nel corſo dei ſuoi ſtudj in queſta parte di fi loſofia. Quì egli ha laſciato di far men zione non ſolo di quei tentativi che non hanno prodotto verun conſiderabile effet to, maancora d'innumerabili congetture che ha formato intorno a' medeſimi, e intorno ad altri non ancora ridotti alla ſicurezza dell'attuale oſſervazione. L'autore prende queſt' opportunità di dimoſtrare la ſua riconoſcenza a varj ſuoi ingegnoſi amici per diverſe eſperienze comunicategli, e particolarmente al Sig. Guglielmo Henly il quale ha fatto quel che per lui ſi poteva per informarlo di ciaſcuna particolarità che ha creduto po teſſe arricchire e abbellire l'opera. Non è ſembrato neceffario il nominare quei ſoggetti, le di cui eſperienze e of fervazioni recate in queſt' opera erano avanti ben cognite al mondo; per lo che l'autore ſi è riſtretto a far menzione di quelle perſone le cui eſperienze erano nuo ve, o non comunemente note agli ſcrit tori di queſta materia. Per rendere il trattato più intelligibile ed utile ſono ſtate aggiunte tre tavole in rame, e un copioſo indice delle materie che meritano maggiore attenzione. Neroduzione pag. Leggi fondamentali dell'elettricità. Contenente la spiegazione d ' alcuni termi ni che fono principalmente uſati nelle lettricità. Degli elettrici, e dei conduttori. Delle due elettricità. Dei differenti metodi di eccitare gli elet trici. Dell elettricità comunicata Dell' elettricità comunicata agli elettri ci. Degli elettrici caricati, ovvero della Boc cia di Leida '. Dell elettricità atmosferica go. Vantaggi derivati dall elettricità.. Che contiene un proſpetto compendioſo del le proprietà principali dell elettrici tà. Teoria dell'elettricità, Ipoteſi dell' elettricità poſitiva, e negati Va 126. Della natura del fluido elettrico Della natura degli elettrici, e dei con duttori... Del luogo occupato dal fluido elettrico. Elettricità pratica. Dell'apparato elettrico in generale. Deſcrizione d' alcune particolari macchine elettriche ze... Deſcrizioneparticolare di alcune altreparti neceſſarie dell'apparato elettrico. Regole pratiche riguardanti l'uſo dell' ap parato elettrico, ed il fare l'eſperien Sperimenti relativi all'attrazione, e re pulſione elettrica Sperimenti ſulla luce elettrica... Sperimenti colla bottiglia di Leida. Sperimenti con altri elettrici caricati. Sperimenti ſull' influenza delle punte, e ſull' utilità dei conduttori metallici ap puntati per difendere gli edifizj dagli effetti del fulmine Elettricità medica..Sperimenti fatti con la batteria elettri Sperimenti promiſcui Ulteriori proprietà della boccia di Leida ovvero degli elettrici caricati.  Nuovi ſperimenti dell' elettricità.. . Coſtruzione dell' aquilone elettrico, e di altri ſtrumenti uſati con ello Sperimenti fatti con l' aquilone elettri . co Sperimenti fatti coll.elettrometro atmosfe rico, e coll' elettrometro per la prog gia. Sperimenti fatti coll' elettroforo comune mente chiamato macchina per eſibire l'elettricità perpetua · Sperimenti ſu i colori. Sperimenti promiſcui L E arti e le ſcienze a guiſa dei re gni e delle nazioni, anno cia ſcuna alcuni fortunati periodi di gloria e di fplendore, in cui eſſe mag giormente attirano l'umana attenzione, e fpandendo una luce più viva che in qualunque altro tempo divengono l'oga getto favorito e la moda del ſecolo; ma queſti periodi terminan preſto, e pochi anni di luſtro e di fama reſtano ſpetto oſcurati da interi ſecoli d'oblivione. Da queſto faro infelice per altro alcune ſcien ze ſono riſervate ed elenti, le quali in grazia della vaſta e neceſſaria eilenſione del loro uſo e delle fruttuole produzioni che da loro ſi ricavano, ſono ſempre flo ride; e ſebbene una volta ſiano ſtate incognite, pure quando la fama ne ha fatto riionare il lor naſcimento o pubblicato i loro progreſli, giammai dopo declina no, e benchè divenute languenti per l'età in verun tempo periſcono. Di queſto ge nere è l’Elettricità la più dilettevole e la più ſorprendente tra tutte le parti della Filoſofia naturale, che mai ſia ſtata coltivata dall'uomo. Queſta ſcienza dopo aver fatto conocere l'eſtenſione e la ge neralità della ſua forza, dopo che ſi è conoſciuto eſſer uno dei più grandi agenti della natura, è ſtata ſempre in voga, è ſtata col maſſimo profitto coltivata, e ſenza interruzione alcuna ha fatto tali progreſſi, che ora è ridotta a uno ſtato in cui in vece di divenire ſterile, ſembra ulteriormente impegnare la generale at tenzione e ripromettere ai ſuoi ſeguaci le più degne e le più vaſte ricompenſe. Gli Ottici è vero, moſtrano molte in cantatrici ed utili proprietà, ma ſempre relative alla ſola viſione: il Magnetiſmo rappreſenta la forza d'attrazione, re pultione, e direzione verſo le parti po lari di quella ſoſtanza che ſi chiama ca lamita; la Chimica tratta delle varie compoſizioni e riſoluzionidei corpi: ma l ' Elettricità contenendo per così dire tutte queſte coſe dentro di ſe ſola eſibiſce gli effetti di molte ſcienze, combina in ſieme le diverſe energie e ferendo i ſenſi in una particolare e forprendente manie ra, dà piacere ed è di grand'uſo all'igno rante ugualmente che al Filoſofo, all' opulento ugualmente che al povero. Nell' Elettricità ci divertiamo contem plando la ſua penetrante luce rappreſen tata in innumerabili diverſe forme, am. miriamo la ſua attrazione e repulſione che agiſce ſopra ciaſcun genere di corpi, reſtiamo ſorpreſi dall'urto, atterriti dall' eſploſione e forza della ſua batteria; ma quando la conſideriamo ed eſaminiamo A 2, Come cauſa del tuono, del fulmine, dell' aurora boreale, e di altri fenomeni na turali, i cui terribili effetti poliamo in parte imitare, ſpiegare, ed anche allon tanare, allora sì che reſtiamo attoniti per la maraviglia, la quale non ci per mette di contemplare altro che l'ineſpri mibile e permanente idea dell'aminira zione e della ſorpreſa. Il più remoto rag guaglio a noi cognito, che abbiamo di qualche effetto elettrico eſiſte nell ' opere del famoſo antico naturaliſta Teofraſto che fiori circa trecento anni avanti Cri ſto. Ei ci dice che l'ambra il cui nome greco è nextpor, e da cui il nome d'E lettricità è derivato, come pure il Lin curio poſſiede la qualità di attrarre i corpi leggieri. Queſto ſolamente era tutto cio [E ftato in qualche maniera provato cbe il Lin curio di Teofraſto è la medeſima ſoſtanza che va ſotto il nome di Turmalina, di cui avremo occae fione di parlare nel corſo di queſto trattato. ciò che ſi conoſceva ſu tal ſoggetto per circa 19. ſecoli dopo Teofraſto, nel qual lungo periodo non troviamo nell'iſtoria fatta menzione di alcuna perſona che abbia fatto veruna ſcoperta, e ne pure ſperimento alcuno in queſta parte di Filoſofia, eſſendo rimaſta queſta ſcienza affatto nell'oſcurità fino al tempo di Guglielmo Gilbert medico Ingleſe, che viveva ful principio del decimo fertimo ſecolo; ed il quale a cagione delle ſue ſcoperte in queſto nuovo e inculto cam po può giuſtamente chiamarſi il padre della preſente Elettricità. Offerva egli che la proprietà d'attrarre i corpi leg gieri dopo la confricazione non è una proprietà particolare dell'ambra o del Lincurio, ma che molti altri corpi la poſſeggono egualmente. Rammenta un gran numero di queſti e nel medeſimo tempo varie particolarità, che conſide rando lo ſtato della ſcienza in quel ſe colo poſſono ſembrare veramente grandi ed intereſſanti. Dopo Gilbert la ſcienza avanzando benchè con piccoli progrefli, paſsò per così dire dall'infanzia alla puerilità, a vendo intrapreſo alcuni eccellenti filo ſofi ad eſaminare la natura in queſte ope razioni. Tale fu  Bacone, Boyle, Guericke, Newton, e più di tutti Hawkesbee ſoggetto a cui ſiamo molto obbligati per alcune importanti ſcoperte e per il reale avanzamento dell'Elettricità. Hawkesbee fu il primo che oſſervò la gran forza elettrica del vetro, ſoſtanza che fin da quel tempo fu generalmente uſata da tutti gli elettriciſti in preferenza di qualunque altro elettrico. Egli fu il primo che notaſie le varie apparenze della luce elettrica e il fragore accom pagnato con eſſa, inſieme con una varietà di fenomeni relativi all'attrazione e ri pulſione elettrica. Dopo il Sig. Hawkesbee la ſcienza dell' elettricità per quanto fin lì foſſe avanzata, rimaſe quaſi per venti anni in uno ſtato di quiete, eſſendo l'attenzione dei Filoſofi in quel tempo occupata in altri filoſofici ſoggetti, i quali in riguardo alle nuove ſcoperte dell'incomparabile Iſacco Newton erano allora grandemen. te in reputazione. Il Sig. Grey fu il primo dopo queſto periodo d' oblivione a portar la ſcienza di nuovo alla luce del mondo. Egli mediante le gran ſcoperte che fece la inſinuò di nuovo alla cogni zion dei Filoſofi e da lui ſi può dire che prenda la ſua data la vera e florida epoca dell' Elettricità. Il numero degli elettriciſti che ſi è giornalmente moltiplicato dal tempo del Sig. Grey, le ſcoperte fatte, e gli uſi che ne ſon derivati fino al tempo preſente, fono materia realmente degna d'atten zione e meritano l'ammirazione di qua lunqne amatore delle ſcienze ed amico dell'uman genere. Chiunque vuole informarſi dei parti colari progrelli fatti in queſta ſcienza, legga l'elaborata iſtoria dell'Elettricità compilata dall'eccellente D: Prieſtley, opera che lo può informare di tutto ciò che è ſtato fatto in rapporto a queſto ſoggetto fino alla ſua pubblicazione. Io per me mi diſpenſerò dal farre un lungo dettaglio iſtorico; queſto trattato eſſendo diretto a dare un ragguaglio dello ſtato preſente dell'Elettricità, e non a for marne un'iſtoria. Soltanto oſſerverò in generale, che quantunque la ſcienza ab bia, mediante l'indefella attenzione di molti ingegnoſi foggetti, e mediante le ſcoperte che furono giornalmente pro dotte, eccitata la curioſità dei Filoſofi e impegnata la loro attenzione; con tut to queſto ſiccome le cauſe di ciaſcuna cola piccola o grande, cognita o incognita, di rado ſono oſſervate con at tenzione, ſe i loro effetti non ſono sfol goranti e ſingolari; così l'Elettricità è ſtata fino all'anno 1746. ſtudiata da nel fun altro che da Filoſofi. La ſua attra zione può eſſere rappreſentata in parte dalla calamita, la ſua luce dal fosforo, e in una parola neſſuna coſa ha contria buito a rendere l'Elettricità il ſoggetto della pubblica attenzione, e ad eccitare una generale curioſità, fin che non fu. accidentalmente fatta la primaria ſco gran cumulo della ſua forza, in ciò che ſi chiama boccia di Leida in ventata dal Sig. Muſchenbroeck nel 1746. Allora lo ſtudio dell' Elettricità divenne generale, ſorpreſe ciaſcuno oſſervatore, e invitò alla caſa degli elettriciſti un più gran numero di ſpettatori di quello che avanti ſi foſſe mai unito inſieme per oſſervare qualunque altro filoſofico ſpe rimento. Dal perta del Dal tempo di queſta ſcoperta il pro digioſo numero d'elettriciſti, di ſperi menti, e di fatti nuovi che ſono ſtati giornalmente prodotti da ciaſcun angolo dell'Europa e da altre parti del mondo, è quafi incredibile. Le ſcoperte ſi cumu larono ſopra altre ſcoperte, i megliora menti ſopra altri meglioramenti, e la ſcienza da quel tempo fece un così ra pido corſo, ed ora ſi eſtende con sì mi rabile velocità, che ſembra che il fog getto dovrebbe eſſere tutto eſaurito, e gli elettriciſti pervenuti al fine delle loro ricerche: per altro non è così. Il non plus ultra è con tutta probabilità ancora molto lontano, e il giovane elettriciſta ha avanti a ſe un vaſto campo che mé rita altamente la ſua attenzione e che gli promette ulteriori ſcoperte forſe o d' uguale o di maggiore importanza di quelle che ſono ſtate già fatte.Of Natural Philosophy;—~its Name;•—its Objeft —its Axioms; —and the Rules of Philofophizing. T HE word Philofophy, though ufed by ancient authors in fenfes fomewhat different, does, however, in its moft ufual acceptation, mean the love of general knowledge. It is divided into moral and natural. Moral philofophy treats of the manners, the duties, and the condud of man, confidered as a rational and focial beings but the bufinefs of natural philofophy, is to colled the hiftory of the phenomena which take place amongft natural things, viz. among# the bodies of the Univerfes to inveftigate their caufes and effeds; and thence to deduce fuch natural laws, as may afterwards be applied to a variety of ufeful purpofes*. Natural * The word philofophy is of Greek origin. PITAGORA, a learned Greek, feems to have been the firfl who called himfelf philofopher j viz. a lover of knowledge, or of wifvol. r. b dom. 2 Of Philosophy in general. Natural things means all bodies; and the aflemblage or fyftem of them all is called the univerfe. The word phenomenon fignifies an appearance, or, in a more enlarged acceptation, whatever is perceived by our fenfes*. Thus the fall of a ftone, the evaporation of water, the folution of fait in water, a tlafh of lightning, and fo on; are all phenomena. As all phenomena depend on properties peculiar to different bodies; for it is a property of a ftone to fall towards the earth, of the water to be cvaporable, of the fait to be foluble in water, &c. therefore v/e fay that the bufinefs of natural philofophy is to examine the properties of the various bodies of the univerfe, to inveftigate their caufes, and thence to infer ufeful deductions. Agreeably dom, from the words piaoj, a lover or friend, and croplxi, of knowledge or wifdom. Moral philofophy is derived from the latin mos, or its plural mores, fignifying manners or behiyiour. It has been likewife called ethics, from the Greek r,ccs, mos, manner, behaviour. Natural philofophy has alfj been called p hylics, phyfology, and experimental phi Ifophy: The ftrft of thofe names is derived from nature, or gv-T.hr., natural; the fecond is derived from pvair, nature, and >. a dijeourfe; the laft deno nination, which was introduced not many years ego, is obvioufly derived from the juft method of experiment. ' inveftigation, which has been univerfally adopted ftnee the r P.vul of learnin-"- 'n Europe. * Phenomenon, whofe plural is phenomena, owes its origin to the Greek word pf.-.ai, to appear. and the Rules of Philofophizing. 3 Agreeably to this, the reader will find in the courfe of this work, an account of the principal properties of natural bodies, arranged under diftincft heads, with an explanation of their efFefts, and of the caufes on which they depend, as far as has been afeertained by means of reafoning and experience; he will be informed of the principal hypothefes that have been offered for the explanation of faffs, whofe caufes have not yet been demonflratively proved; he will find a flatement of the laws of nature, or of fuch rules as have been deduced from the concurrence of fimilar facts; and, laftly, he will be inftrudted in the management of philofophical inflruments, and in the mode of performing the experiments that may be thought neceffary either for the llluftration of what has been already afeertained, or for the farther inveftigation of the properties of natural bodies. We need not fay much with refpect to the end 01 defign of natural philofophy.—Its application and its ufes, or the advantages which mankind may deuve therefrom, will be eafily fuggefted by a very fuperficial examination of whatever takes place about us. The properties of the air we breathe; the action and power of our limbs; the light, the found, and other perceptions of our fenfes; the adcions of the engines that are ufed in hufoandry, navigation, &c.; the viciffitudes of the feafons, the movements of the celeflial bodies, and io forth; do all fall under the con fideration of b 2 the 4 Of Philosophy in general; the philofophcr. Our welfare, our very exiftenee-. depends upon them. A very flight acquaintance with the political ftate of the world, will be fufficient to fhew, that the cultivation of the various branches of natural philofophy has actually placed the Europeans and their colonies above the reft of mankind. Their. difcoveries and improvements in aftronomy, optics, navigation, chemiftry, magnetifm, mineralogy, and in the numerous arts which depend on thofe and other branches of philofophy, have fupplied them with innumerable articles of ufe and luxury, have multiplied their riches, and have extended their powers to a degree even beyond the expectations of our predeceffors. The various properties of matter may be divided into two claffes, viz. the general properties, which belong to all bodies, and the peculiar properties, or thofe which belong to certain bodies only, exclufively of others. In the firft part of this work we fhall examine the general properties of matter. Thofe which belong to certain bodies only, will be treated of in the l'econd. In the third part we fhall examine the properties of fuch fubftances as may be called hypothetical; their exiftenee having not yet been iatisfadtorily proved. In the fourth we fhall extend our views beyond the limits of our Earth, and fhall examine the number, the movements, and other properties of the celeltial bodies. The and the Rules of Philofophizing. 5 The fifth, or laft part, will contain feveral detached articles, fuch as the defeription of feveral additional experiments, machines, &c. which cannot conveniently be inferted in the preceding divilions. The axioms of philofophy, or the axioms which have been deduced from common and conftant experience, are fo evident and fo generally known> that it will be fufficient to mention a few of them only. I. Nothing has no property; hence, JI. No fubftance, or nothing, can be produced from nothing. III. Matter cannot be annihilated, or reduced to nothing. Some perfons may perhaps not readily admit, the propriety of this axiom; feeing that a great many things appear to be utterly deftroyed by the action of fire; alfo that water may be caufed to difappear by means of evaporation, and fo forth. But it mud be obferved, that in thofe cafes the lubftances are not annihilated; but they are only difperfed, or removed from one place to another, or they are divided into particles fo minute as to elude our fenfes. Thus when a piece of wood is placed upon the fire, the greateft part of it difappears, and a few afhes only remain, the weight and bulk of which does not amount to the hundredth part ot that of the original piece of wood. Now in this cafe the piece of wood is divided into b 3 its 6 O/Philosophy in general; its component fubdances, which the atdion of the fire drives different ways: the fluid part, for inftance, becomes fleam, the light coaly part either adheres to the chimney or is difperfed through the air, &c. And if, after the combuftion, the fcattered materials were collecded together, (which may in great meafure be done), the fum of their weights would equal the weight of the original piece of wood. Every effect has, or is produced by, a caufe, and is proportionate to it. It may in general be obferved with refpedt to. thofe axioms, that we only mean to affert what has been conflantly (hewn, and confirmed by experience, and is not cont rad idled either by reafon, or by any experiment. But we do not mean to affert that they are as evident as the axioms of geometry; nor do we in the lead prefume to preferibe limits to the agency of the Almighty Creator of every thing, wvhofe power and whofe ends are too far re- moved from the reach of our underBandings. Having dated the principal axioms of philolophy, it is in the next place neceffary to mention the rules of philofophizing, which have been formed after mature confideration, for the purpofe of preventing errors as much as poffible, and in order to lead the dudent of nature along the fhorted and fifed way, to the attainment of true and ufeful knowledge.—Thofe rules are not more than four; viz. I. We and the Rules of Philofophizing. 7 I. We are to admit no more caufes of natural things, than fuch as are both true and fufHcient to e:g in the appearances. II. Therefore to the fame natural effects we muft, as far as poffible, affign the fame caufes. III. Such qualities of bodies as are not capable of increafe or decreafe, and which are found to belong to all bodies within the reach of our experiments, are to be efteemed the univerfal qualities ol all bodies whatfoever. IV. In experimental philofophy we are to look upon propofitions colledted by general induction from phenomena, as accurately or very nearly true, notwithftanding any contrary hypothefes that may be imagined, till fuch time as other phenomena occur, by which they either may be corrected, or may be fhewn to be liable to exceptions With refpeft to the degree of evidence which ought to be expected in natural philofophy, it is neceifary to remark, that phyficai matters cannot in general be capable of luch abfolute certainty as the branches of mathematics.—The propofitions of the latter fcience are clearly deduced from a fet of axioms fo very fimple and evident, as to convey perfect convi&ion to the mind; nor can any of them be denied without a manifeft: abfurdity. But in natural philofophy we can only fay, that becaufe lome particular effects have been conflantly produced under certain circumftances; therefore they will moft likely continue to bV produced as long E 4 as 8 Of Philosoph Y in general $ as the lame circumftances exifl; and likewife that they do, in all probability, depend upon thofe circumftances. And this is what vve mean by laias of nature \ as will be more particularly defined in the next chapter. We may, indeed, affume various phyfical princi[>ies, and by reafoning upon them, we may ftndtly demontliate the deduction of certain confequences. But as the demonftration goes no farther than to prove that luch confequences muft neceflarily follow the principles which have been afl'urned, the conlequences themfelves can have no greater degree of certainty than the principles are pofieftedof; fo that they are true, or falfe, or probable, according as the principles upon which they depend are true, or faife, or probable. It has been found, for inftance, that a magnet, when left at liberty, does always direct itfelf to certain parrs of the world; upon which property the mariner’s compafs has been conftructed; and it has been likewife obferved, that this directive property of a natural or artificial magnet, is not obftructed by the interpofition or proximity of gold, or filver, or glaft, or, in fhort, of any other fubftance, as far as has been tried, excepting iron and ferrugineous bodies. Now afluming this obfervation as a principle, it naturally follows, that, iron excepted, the box of the mariner’s compafs may be made of any fubftance that may be moft agreeable to the. workman, or that may beft anivver other purpofes. Yet it muft be confefted. and the Rules of Philofophizing. 9 confe fifed, that this proportion is by no means fo certain as a geometrical one; and (luctly lpeaking it may only be laid to be highly probable; for though all the bodies that have been tried with this view, iron excepted, have been found not to afifefl the directive property of the magnet or magnetic needle, yet we are not certain that a body, or fome combination of bodies, may not. hereafter be difcovered, which may obftrudt that property. Nqtwithftanding this obfervation, I am far from meaning to encourage fcepticilm; my only objedt being to fhew that juft and proper degree of conviction which ought to be annexed tophyfical knowledge; fo that the ftudent of this fcience may become neither a blind believer, nor a uielels fceDtic*. Befides a ftriCt adherence to the abovementioned rules, whoever withes to make any proficiency in the ftudy of nature, (liould make himfelf acquainted with the various branches of mathematics, at leaft with the elements of geometry, arithmetic, trigonometry, and the principal properties of the conic * Scepticifm or fkepticifm is the do&rine of the fceptics, an ancient let of philofopbers, whofe peculiar tenet was, that all things are uncertain and incomprehenlible; and that the mind is never to afient to any thing, but to remain in an absolute date of hefitation and. indifference. — The word fceptic is derived from the Greek anc7flM®~y which fignifies confederate, and inquiftive. A General Idea of Matter, conic fedions; for fincc almoft every phyfical effed depends upon motion, magnitude, and figure, it is impofiible to calculate velocities, powers, weights, times, &c, without a competent degree of mathematical knowledge; which fcience may in truth be called the language of nature.  Mary Shelley Who put the spark in Frankenstein’s monster? On the 200th anniversary of Mary Shelley’s gothic horror, a new edition discusses its roots in experiments with electricity on the dead  Jamie Doward  It is one of the most famous novels of all time, often cited as the first work of science fiction, with a genesis almost as well known as its terrifying central character.  Mary Shelley’s Frankenstein: or the Modern Prometheus was published.  It was the result of a challenge laid down by Lord Byron, when Shelley and her lover – later her husband – Byron’s fellow poet Shelley were holidaying at Lake Geneva in Switzerland.  The party had hoped for good weather, but the eruption of a volcano in the East Indies, the greatest event of its kind in recorded history, had ushered in three years of bone-chilling cold that killed crops and cast a shadow across Europe. As they huddled for warmth around a fire one night, Byron suggested each of them should write a horror story.  For days Shelley suffered writer’s block until she came up with the idea of a scientist who reanimated a creature stitched together from body parts, only to be horrified by his success. Some believe Shelley was inspired by a trip to Germany, where she is thought to have learned the legend of Frankenstein Castle and one of its 17th-century inhabitants, an alchemist called Dippel, who was rumoured to have exhumed bodies for experimentation.  But it now appears Shelley’s true source of inspiration for Victor Frankenstein’s monster was considerably closer to home. In a foreword to a new edition of the classic, to be published by Oxford University Press next month, Nick Groom, of Exeter, sometimes referred to as the “Prof of Goth”, suggests it was her husband’s fascination with galvanism – chemically generated electricity – that sparked her imagination.  Mary Shelley.Mary Shelley. Photograph: Getty Images Percy Shelley, one of Britain’s most cherished Romantic poets and author of the celebrated sonnet Ozymandias, was fascinated by science, in particular the creation of electricity. “He was very excited by galvanic apparatus,” Groom explained. “His sister, Helen, would recall that he would, as she put it, ‘practise electricity upon us’. He used to make all the family sit around the dining room table holding hands, and he’d turn up with some brown paper, a bottle and a wire and they’d all get electrocuted.”  On one occasion Percy even threatened to electrocute the son of his scout at Oxford.  Mary and Percy enjoyed a symbiotic working relationship. She corrected his proofs and he helped edit Frankenstein. But Groom is clear that the book was, contrary to what some have argued, Mary’s creation. “The work is by her and should be attributed to her.”  Sent down from Oxford for co-authoring a pamphlet on atheism, Percy attended anatomy classes for a term at St Bartholomew’s hospital in London.. “One of the things she would have got from talking to her husband about laboratories was that they were really filthy places,” Groom said. “The cadavers would be in a state of advanced putrefaction when they arrived. These were not antiseptic places full of chaps in white coats. They were unpleasant. The word filthy turns up a lot in Frankenstein. There was something really disreputable about medical science, which Mary Shelley is fascinated in.”  She would have been aware of notorious public experiments involving galvanism. “There was a particularly chilling one in London when galvanism was used on the body of an executed criminal,” Groom said. “The very first thing that happened was that the corpse opened its eyes. A very Frankenstein moment.”  At the time Mary was writing, the rights of animals had become a concern for many of the intelligentsia. “The being that Victor creates knows he’s not human but still believes that he should have rights,” Groom said. “Part of the conundrum of the novel is, do you afford comparable rights to non-human sentient creatures?”  Two centuries on, the novel continues to shape contemporary thinking, Groom suggested, posing questions about matters such as artificial intelligence and genetic modification.  But Mary’s astonishing foresight has yet to be fully recognised.  “Her reputation has been overtaken by the films, which have oversimplified these questions in ways that don’t really reflect the sophistication of her novel,” Groom said. “Boris Karloff’s monster has none of the subtlety that the being has in the novel. He’s not a zombie, he’s intelligent and sentient.  “People need to see this as a novel for today. It’s very much entangled with the pressing questions of humanity, which still concern us.”Cavallo. Tiberius Cavallo. Tiberio Cavallo. Keywords: elettrico, filosofia naturale, filosofia trans-naturale, la rana ambigua. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavallo” – The Swimming-Pool Library. Cavallo.

 

Grice e Cazio – Roma – filosofia ialiana – Luigi Speranza (Roma). He is presented by Orazio as something of a philosophica dilettante obsessed with food.

 

Grice e Cazio: l’orto a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Catius insuber. Member of the Garden. He wrote four books in which he set out the school’s teachings on the nature of the universe and the most important hings in life. The books were aimed at making the teachings available and accessible to a wide audience.

 

Grice e Cazzaniga: l’implicatura conversazionale dell’iniziazione – You only get first penetrated once – BACCHANALIUM -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Cazzaniga – he shows that latitdunial unity is not a myth! He has researched on Cocconato – and he has seriously spoken of the ‘catene d’unione’ – the handshake – which is crosses the longitudinal and latitudinal unities – consider Thatcher: “There’s no such thing as societies; only individuals! The ‘catene d’unione’ is represented most easily by a handshake, but this is in a catena usually a circle – need it be a close circle? It should be! Perhaps Austin and the Play Group formed such a circle!” -- Gian Mario Cazzaniga (Torino), filosofo. Studia a Milano. Si laurea a Pisa con Massolo. Insegna a Pisa. Quaderno Rosso. Il potere operaio. Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxista dello sviluppo, Napoli, Liguori); La religione dei moderni, Pisa, ETS); Metamorfosi della sovranità: fra stati nazionali e ordinamenti giuridici mondiali. Società geografica italiana, Roma, Pisa, ETS); La democrazia come sistema simbolico "Belfagor" (LV); Le Muse in loggia. Massoneria e letteratura nel Settecento (Milano, UNICOPLI); Storia d'Italia. Annali 21: La Massoneria, Torino, Einaudi) Storia d'Italia. Annali 25: Esoterismo, Torino, Einaudi). Gian Mario Cazzaniga, “Massoneria e letteratura: Dalla 'République des lettres' alla lettera- tura nazionale,” in Le muse in Loggia, ed. Gian Mario Cazzaniga et al. (Milan: Unicopli, 2002),  Gian Mario Cazzaniga, “Origine ed evoluzione dei rituali carbonari italiani,” in Cazzaniga, La Massoneria,  Chi anche in questa fine di millennio continua a nutrire interesse per la storia delle vicende umane, per la storia delle idee e dei tentativi messi in atto per concretarle - soprattutto se le idee in questione sono quelle di libertà, fraternità, uguaglianza - trova in libreria un testo di sicuro interesse: “La religione dei moderni”. Convinto con Eraclito che per trovare oro è necessario scavare molta terra, Cazzaniga ha dissodato a fondo un terreno a prima vista assai ingrato: l'arcipelago multiforme e delirante della massoneria e delle sue sette. Il risultato è però la dimostrazione di come la nottola di Minerva possa tornare con un bottino non solo erudito, ma capace anzi di rinnovare la nostra stessa auto-comprensione spiccando con metodo il suo volo anche sulle strane isole e penisole culturali in cui vivono illuminati, teofilantropi, filaleti, U.S.D. (leggasi: Uomini Senza Dio) e come diavolo con nome di rigenerazione si sono ribattezzati i mille e mille fratelli costruttori decisi ad erigere una carcere per il vizio e un templi alla virtù. Tra loro spiccano in ogni caso alcuni tra i massimi intellettuali italiani: e anche Lessing, Herder, Goethe, a Mirabeau, Condorcet, Fichte, Heine. Chi indotto da recenti vicende italiche rischiasse di confondere massoneria e piduismo, può finalmente scoprire momenti e figure assai più nobili e rilevanti di questa istituzione e apprende come nella loggia e nato praticamente ogni ideologia - liberalismo, democrazia cristiana, comunismo... - risultati costituitivi della modernità occidentale. A chi si chiedesse cosa e chi ha spinto allo studio dell'ambiente massonico un intellettuale lucido, raffinato e dalla ben nota militanza nel movimento operaio come Cazzaniga, il saggui non manca di rispondere. Da esso emerge netta l'opzione per una filosofia curiosa dei luoghi storico-sociali capaci di generare il nuovo e attenta ai valori della differenza, nutrita da quella passione per le radici culturali del nostro mondo che già aveva indotto Cazzaniga a esplorare "Fin'amors e cortezia nella poesia trabadorica" quali matrici dello "spirito laico". Nel caso attuale si aggiunge un'indicazione di Marx che, in compagnia di Engels, criticava i "critici-critici" tedeschi alla luce delle esperienze realizzate della critica pratica del cervello sociale messo in moto dalla Rivoluzione Francese. Cazzaniga stesso segnala il debito con i dioscuri fondatori del moderno partito politico di massa. Lo fa con ironica signorilità citando a conclusione del commento su Nicolas de Bonneville le parole che hanno costituito l'input decisivo per l'avvio di un'indagine che, partita dal Cercle social indicato dalle pagine della Sacra Famiglia quale origine del "movimento rivoluzionario moderno", si è poi allargata all'intero mondo delle logge rivelatosi uno dei luoghi più fecondi dell'attività mito-poietica alla base della "invenzione" del legame sociale, soprattutto allorquando i membri dell'istituzione muratoria si sono fatti "massoneria pubblica", identificando il luogo di rifondazione del legame sociale nel terreno dell'attività politica organizzata. Fenomeno che abbraccia l'Europa e le due Americhe, la massoneria si rivela uno dei più rilevanti tentativi moderni di fornire risposta alla crisi aperta nel fondamento del legame sociale dalle guerre di religione del Cinquecento-Seicento. Per molti cittadini della République des Lettres la massoneria più che società segreta è infatti una società che tratta segreti, terreno embrionale di una nuova possibile convivenza inter-umana, progetto e luogo possibile di rifondazione di quel legame sociale posto in crisi dalla nascita dell'individuo come nuovo protagonista spirituale della storia europea e dalla distinzione tra religione naturale e religioni positive. Con le sue radici giusnaturalistiche e neo-stoiche, dal mondo classico il progetto massonico recupera anzitutto l'idea di cittadinanza, primo grande esperimento riuscito di costruzione artificiale di un legame sociale ispirandosene per costruire, nella situazione di crisi dell'ancien régime, un progetto analogo. Collocandosi da questa prospettiva la ricerca di Cazzaniga trascende ampiamente la storiografia auto-celebrativa intra-massonica e illumina di nuova luce origine e natura della politica, identificata, in sintonia con Giarrizzo, come una “religione”. L'elezione del mondo delle logge massoniche quale oggetto di analisi avviene cioè in base alla convinzione storica-teorica circa il loro carattere di "laboratorio" di nuove forme del vivere associato, anzitutto a proposito del vero opus magnum ch'esse hanno contribuito ad edificare, ovvero la costruzione di quella forma politica, sostenuta da partiti di massa, che fu lo stato-nazione d’Italia. Che poi la nottola filosofica spicchi il suo volo in condizioni oggi hegelianamente ideali, al tramonto dell'egemonia organizzativa, culturale e morale dei partiti politici di massa, per oltre un secolo protagonisti della democrazia rappresentativa e di una vita politica basata sulla cittadinanza, insieme al tempismo di Cazzaniga è dimostrazione di come la sua fedeltà al marxismo intelligente non abbia spedito in soffitta neppure quell'Hegel che qui, insieme a Heine, ottiene il tributo di due splendidi saggi. Oggi la storia ha cominciato un capitolo nuovo e l'autore non ha dubbi che si stia voltando pagina. Non condivide però la convinzione che ciò significhi fine della modernità. Se le crepe nella sovranità degli stati nazionali pongono in crisi partiti e sindacati, ovvero "i legami sociali artificiali sui cui la modernità ha costruito la propria storia", la transizione in atto "lungi dall'essere una negazione dei principi costitutivi della modernità, è in realtà "un'affermazione radicale di essa". E la prospettiva indicata da Marx non è affatto radiata in secula seculorum dalla storia. Il comunismo resta all'ordine del giorno, solo che se ne riprospetti il nucleo vivo e fondamentale non costituito né dall'eguaglianza, né dalla giustizia sociale, né tantomeno dal recupero di una dimensione comunitaria solidaristica, ma dalla capacità progettuale collettiva, dal controllo consapevole del ricambio con l'ambiente naturale, dalla possibilità storica che si apre per la società e per i singoli, in rapporto alla rivoluzione scientifica e tecnologica, di essere finalmente padroni del proprio destino. Nessun dubbio per noi che qui l'impeccabile storico di questa religione  riveli la sua personale cifra ideologica e la passione per il marxismo. E' l'unico luogo in cui la sua prosa, peraltro sobria, cede a frasi fatte come la padronanza del destino. Una espressione, questa, inerente, più che alla politica, a un ambito filosofico-esistenziale, a tematiche, cioè, con cui questa religione deve forse ancora imparare a cimentarsi.   THE    MASCULINE   CROSS   t PHALLIC WORSHIP     PHALLIC WORSHIP    A DESCRIPTION OF THE MYSTERIES   OF THE   SEX WORSHIP OF THE ANCIENTS   WITH THE HISTORY OF   THE MASCULINE CROSS    AN ACCOUNT OF   PRIMITIVE SYMBOLISM, HEBREW PHALLICISM,  BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL RITES, AND  THE MYSTERIES OF THE ANCIENT FAITHS    LONDON   The present somewhat slight sketch of a most interesting  subject, whilst not claiming entire originality, yet embraces  the cream, so to speak, of various learned works of great cost,  some of which being issuedfor private circulation only, are almost  unobtainable.   During the past few years several books have been written  upon Phallicism in conjunction with other kindred matters,  but not devoting themselves entirely to one ancient mystery,  the writers have only partially ventilated the subject. The  present work seeks to obviate this failing by confining its  attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of the  ancient world.   Many of the topics have received only slight treatment,  being little more than indicated ; but the work will enable the  reader to understand and possess the truth concerning the  Phallic Worship of the Ancients.   Those who desire to know more, or to authenticate the  statements and facts given in this book, should consult the large  and important works of Payne Knight, Higgins, Dulaure,  Kolle, Inman, and other writers.   It was intended to give with this volume a list of works  and miscellaneous pieces written on the subject, but the length  of the list prevented its being added. PHALLIC WORSHIP NATURE AND SEX WORSHIP   Sex Worship has prevailed among all peoples of ancient  times, sometimes contemporaneous and often mixed with  Star, Serpent, and Tree Worship. The powers of nature  were sexualised and endowed with the same feelings,  passions, and performing the same functions as human  beings.   Among the ancients, whether the Sun, the Serpent,  or the Phallic Emblem was worshipped, the idea was the  same—the veneration of the generative principle. Thus  we find a close relationship between the various  mythologies of the ancient nations, and by a comparison  of the creeds, ideas, and symbols, can see that they spring  from the same source, namely, the worship of the forces  and operations of nature, the original of which was doubt¬  less Sun worship. It is not necessary to prove that in  primitive times the Sun must have been worshipped  under various names, and venerated as the Creator,  Light, Source of Life, and the Giver of Food.   In the earliest times the worship of the generative  power was of the most simple and pure character, rude  in manner, primitive in form, pure in idea, the homage  of man to the supreme power, the Author of life.   Afterwards the worship became more depraved, a  religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a priesthood who were not slow to take advantage of this state  of affairs, and inculcated with it profligate and mysterious  ceremonies, union of gods with women, religious prosti¬  tution and other degrading rites. Thus it was not long  before the emblems lost their pure and simple meaning  and became licentious statues and debased objects.   Hence we have the depraved ceremonies at the worship  of Bacchus, who became, not only the representative  of the creative power, but the God of pleasure and  licentiousness.   The corrupted religion always found eager votaries,  willing to be captives to a pleasant bondage by the  impulse of physical bliss, as was the case in India and  Egypt, and among the Phoenicians, Babylonians, Jews  and other nations.   Sex worship once personified became the supreme and  governing deity, enthroned as the ruling God over all;  dissent therefrom was impious and punished. The priests  of the worship compelled obedience; monarchs complied  to the prevailing faith and became willing devotees to the  shrines of Isis and Venus on the one hand, and of Bacchus  and Priapus on the other, by appealing to the most  animating passion of nature.    This is the worship of the reproductive powers, the  sexual appointments revered as the emblems of the  Creator. The one male, the active creative power;  the other the female or passive power ; ideas which were  represented by various emblems in different countries.     P These emblems -were of a pure and sacred character,  and used at a time when the prophets and priests spoke  plain speech, understood by a rude and primitive people ;  although doubtless by the common people the emblems  were worshipped themselves, even as at the.present day  in Roman Catholic countries the more ignorant, in many  cases, actually worship the images and pictures themselves,  while to the higher and more intelligent minds they are  only symbols of a hidden object of worship. In the  same manner, the concealed meaning or hidden truth  was to the ignorant and rude people of early times entirely  unknown, while the priests and the more learned kept  studiously concealed the meaning of the ceremonies and  symbols. Thus, the primitive idea became mixed with  profligate, debased ceremonies, and lascivious rites,  which in time caused the more pure part of the worship  to be forgotten. But Phallicism is not to be judged  from these sacred orgies, any more than Christianity  from the religious excitement and wild excesses of a few  Christian sects during the Middle Ages.   In a work on the “ Worship of the Generative Powers  during the Middle Ages,” the writer traces the superstition  westward, and gives an account of its prevalence through¬  out Southern and Western Europe during that period.   The worship was very prevalent in Italy, and was  invariably carried by the Romans into the countries they  conquered, where they introduced their own institutions  and forms of worship. Accordingly, in Britain have  been found numerous relics and remains; and many  of our ancient customs are traced to a Phallic origin.  “ When we cross over to Britain,” says the writer, “ we  find this worship established no less firmly and extensively  in that island; statuettes of Priapus, Phallic bronzes.    IO    Phallic Worship    pottery covered with obscene pictures, are found wherever  there are any extensive remains of Roman occupation,  as our antiquaries know well. The numerous Phallic  figures in bronze found in England are perfectly identical  in character with those that occur in France and Italy.”   All antiquaries of any experience know the great number  of obscene subjects which are met with among the fine  red pottery which is termed Samian ware, found so  abundantly in all Roman sites in our island. “ They  represent erotic scenes, in every sense of the word, with  figures of Priapus and Phallic emblems.”  The Phallus, or Lingam, which stood for the image  of the male organ, or emblem of creation, has been  worshipped from time immemorial. Payne Knight  describes it as of the greatest antiquity, and as having  prevailed in Egypt and all over Asia.   The women of the former country carried in their re¬  ligious processions, a movable Phallus of disproportionate  magnitude, which Deodorus Siculus informs us signified  the generative attribute. It has also been observed  among the idols of the native Americans and ancient  Scandinavians, while the Greeks represented the Phallus  alone, and changed the personified attribute into a distinct  deity, called Priapus.   Phallus, or privy member (membrum virile), signifies,  “ he breaks through, or passes into.” This word survives  in German pfahl, and pole in English. Phallus is supposed     Phallic Worship    ii    to be of Phoenician origin, the Greek word pallo, or  phallo , “ to brandish preparatory to throwing a missile,”  is so near in assonance and meaning to Phallus, that one  is quite likely to be parent of the other. In Sanskrit  it can be traced to phal, “ to burst,” “ to produce,” “ to  be fruitful ” ; then, again, phal is “ a ploughshare,” and  is also the name of Siva and Mahadeva, who are Hindu  deities. Phallus, then, was the ancient emblem of  creation: a divinity who was companion to Bacchus.   The Indian designation of this idol was Lingam, and  those who dedicated themselves to its service were to  observe inviolable chastity. “ If it were discovered,”  says Crawford, “ that they had in any way departed from  them, the punishment is death. They go naked, and  being considered as sanctified persons, the women  approach without scruple, nor is it thought that their  modesty should be offended by it.”   The Phallus and its emblems were representative of the  gods Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris, Baal, and  Asher, who were all Phallic deities. The symbols were  used as signs of the great creative energy or operating  power of God from no sense of mere animal appetite,  but in the highest reverence. Payne Knight, describing  the emblems, says :—   “ Forms and ceremonials of a religion are not always  to be understood in their direct and obvious sense, but are to be considered as symbolical representations of some  hidden meaning extremely wise and just, though the  symbols themselves, to those who know not their true  signification, may appear in the highest degree absurd  and extravagant. It has often happened that avarice  and superstition have continued these symbolical repre¬  sentations for ages after their original meaning has  been lost and forgotten; they must, of course, appear  nonsensical and ridiculous, if not impious and extravagant.  Such is the case with the rite now under consideration,  than which nothing can be more monstrous and indecent,  if considered in its plain and obvious meaning, or as part  of the Christian worship ; but which will be found to be  a very natural symbol of a very natural and philosophical  system of religion, if considered according to its original  use and intention.”   The natural emblems were those which from their  character were most suitable representatives; such as  poles, pillars, stones, which were sacred to Hindu,  Egyptian, and Jewish divinities.   Blavalsky gives an account of the Bimlang Stone, to  be found at Narmada and other places, which is sacred  to the Hindu deity Siva; these emblem stones were  anointed, like the stone consecrated by the Patriarch  Jacob.   Blavalsky further says that these stones are “ identical  in shape, meaning, and purpose with the * pillars ” set up  by the several patriarchs to mark their adoration of the  Lord God. In fact, one of these patriarchal lithoi might  even now be carried in the Sivaitic processions of Calcutta  without its Hebrew derivation being suspected.”The Pole was an emblem of the Phallus, and with the  serpent upon it, was a representative of its divine wisdom  and symbol of life. The serpent upon the tree is the same  in character, both are representative of the tree of life.  The story of Moses will well illustrate this, when he  erected in the wilderness this effigy, which stood as a  sign of hope and life, as the cross is used by the Catholics  of the present day ; the cross then, as now, being simply  an emblem of the Creator, used as a token of resurrection  or regeneration. iEsculapius, as the restorer of health,  has a rod or Phallus with a serpent entwined.   The Rev. M. Morris has shown that the raising of the  May-pole is of Phallic origin, the remains of a custom of  India or Egypt, and is typical of the fructifying powers  of spring.   The May festival was carried on with great licentious¬  ness by the Romans, and was celebrated by nearly all  peoples as the month consecrated to Love. The May-day  in England was the scene of riotous enjoyment, very  nearly approaching to the Roman Floralia. No wonder  the Puritans looked upon the May-pole as a relic of  Paganism, and in their writings may be gleaned much  of the licentious character of the festival.   Philip Stubbes, a Puritan writer in the reign of Elizabeth,  thus describes a May-day in England: “ Every parishe,  towne, and village assemble themselves together, bothe  men, women, and children, olde and younge even indiffer¬  ently ; and either goyng all together, or devidyng  themselves into companies, they go some to the woods  and groves, some to one place, some to another, where  thei spend all the night in pleasant pastymes; and in the  mornyng they returne, bryngyng with them birch bowes  and branches of trees, to deck their assemblies withall.  . . . But their cheerest jewell thei bryng from thence  is their Maie pole, whiche thei bryng home with great  veneration, as thus : thei have twentie or fortie yoke  of oxen, every oxe havyng a sweet nosegaie of flowers  placed on the tippe of his homes, and these oxen drawe  home this Maie pole (this stinckyng idoll rather), which  is covered all over with flowers and hearbes, bound  rounde aboute with strynges from the top to the bottome,  and sometyme painted with variable colours, with two  or three hundred men, women, and children, foliowyng  it with great devotion. And thus beyng reared up, with  handekerchiefes and flagges streamyng on the top, thei  strawe the grounde aboute, binde greene boughes aboute  it, sett up sommer haules, bowers, and arbours hard by  it. And then fall thei to banquet and feast, to leape and  daunce aboute it, as the heathen people did at the dedication  of their idols, whereof this is a perfect patterne, or rather  the thyng itself.”   The ceremony was almost identical with the Roman  festival, where the Phallus was introduced with garlands.  Both were attended with the same licentiousness, for  Stubbes gives a further account of the depravity attending  the festivities.    PILLARS   Another type of emblem was the stone pillar, remains of  which still exist in the British Isles. These pillars or so  called crosses generally consist of a shaft of granite with     Phallic Worship    i5    a carved head. In the West of England crosses are very  common, standing in the market and receiving the name  of “ The Cross.”   These stone pillars were first erected in honour of the  Phallic deity, and on the introduction of Christianity  were not destroyed, but consecrated to the new faith,  doubtless to honour the prejudices of the people. These  monolisks abound in the Highlands, they are stones set  up on end, some twenty-four or thirty feet high, others  higher or lower and this sometimes where no such stones  are to be quarried.   We learn that the Bacchus of the Thebans was a pillar.  The Assyrian Nebo was represented by a plain pillar,  consecrated by anointing with oil. Arnobius gives an  account of this practice, as also does Theophrastus, who  speaks of it as a custom for a superstitious man, when  he passed by these anointed stones in the streets to take  out a phial of oil and pour it upon them and having  fallen on his knees to make his adorations, and so depart.   In various parts of the Bible the Pillar is referred to as  of a sacred character, as in Isaiah xix. 19, 20, “In that  day shall there be an altar to Jehovah in the midst oi the  land of Egypt, and a pillar at the border thereof to Jehovah,  and it should be for a sign and a witness to the Lord.”   The Orphic Temples were doubtless emblems of the  same principle of the mystic faiths of the ancients, the  same as the Round Towers of Ireland, a history of which  was collected by O’Brien, who describes the Towers as  “ Temples constructed by the early Indian colonists  of the country in honour of the 'Fructifying principle of  nature, emanating as was supposed from the Sun, or the  deity of desire instrumental in that principle of universal  generativeness diffused throughout all nature.”    i6    Phallic Worship    According to the same author these towers were very  ancient, and of Phoenician origin, as similar towers have  been found in Phoenicia. “ The Irish themselves,” says  O’Brien, “ designated them ‘ Bail-toir,’ that is the tower  of Baal. Baal was the name of the Phallic deity, and the  priest who attended them * Aoi Bail-toir ’ or superin¬  tendent of Baal tower.” This Baal was worshipped  wherever the Phoenicians went, and was represented by  a pillar or stone or similar objects. The stone that  Jacob set up, and anointed as a rallying place for worship,  became afterwards an object of worship to the Phoenicians.   The earliest navigators of the world were the Phoenicians,  they founded colonies and extended their commerce  first to the isles of the Mediterranean, from thence to  Spain, and then to the British Isles. Historians have  accorded to them the settlements of the most remote  localities. They formed settlements in Cyprus, and  Atticum, according to Josephus, was the principal settle¬  ment of the Tyrians upon this island. Strabo’s testimony  is, that the Phoenicians, even before Homer, had possessed  themselves of the best part of Spain.   Where the Phoenicians settled, there they introduced  their religion, and it is in these countries we find the  remains of ancient stone and pillar worship.    Loggin stones are by Payne Knight considered as  Phallic emblems. “ Their remains,” he says, “ are still  extant, and appear to have been composed of a crone set  into the ground, and another placed upon the point of  it and so nicely balanced that the wind could move it,  though so ponderous that no human force, unaided by  machinery, can displace it; whence they are called  * logging rocks * and * pendre stones,’ as they were  anciently * living stones ’ and * stones of God,’ titles  which differ very little in meaning from that on the  Tyrian coins. Damascius saw several of them in the  neighbourhood of Heliopolis or Baalbeck, in Syria,  particularly one which was then moved by the wind;  and they are equally found in the Western extremities  of Europe and the Eastern extremities of Asia, in Britain,  and in China.”   Bryant mentions it as very usual among the Egyptians  to place with much labour one vast stone upon another  for a religious memorial.   Such immense masses, being moved by causes seeming  so inadequate, must naturally have conveyed the idea of  spontaneous motion to ignorant observers, and persuaded  them that they were animated by an emanation of the  vital spirit, whence they were consulted as oracles, the  responses of which could always be easily obtained by  interpreting the different oscillatory movements into  nods of approbation or dissent.   Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria, and  many other places, even in modern times. A physician,  writing to Dr. Inman, says : “ I was in Egypt last winter  (1865-66), and there certainly are numerous figures of  gods and kings, on the walls of the temple at Thebes,  depicted with the male genital erect. The great temple  at Karnak is, in particular, full of such figures, and the  temple of Danclesa likewise, though that is of much later  date, and built merely in imitation of old Egyptian art.  The same inspiring bas-reliefs are pointed out by Ezek.   B     14. I remember one scene of a king (Rameses II)  returning in triumph with captives, many of whom were  undergoing the process of castration.”   Obelisks were also representative of the same emblem.  Payne Knight mentions several terminating in a cross,  which had exactly the appearance of one of those crosses  erected in churchyards and at cross roads for the adoration  of devout persons, when devotions were more prevalent  than at present. Stones, pillars, obelisks, stumps of  trees, upright stones have all the same signification, and  are means by which the male element was symbolised. The Triune idea is to be found in the system of almost  every nation. All have their Trinity in Unity, three in  one, which can be distinctly recognised in the cross.  The Triad is the male or triple, the constitution of the  three persons of most sacred Trinity forming the Triune  system. In the analysis of the subject by Rawlinson,  we find the Trinity consisted of Asshur or Asher, associated  with Anu and Hea or Hoa. Asshur, the supreme god of  the Assyrians, represents the Phallus or central organ  or the Linga, the membrum virile. The cognomen Anu  was given to the right testis, while that of Hea designated  the left.   It was only natural that Asshur being deified, his  appendages should be deified also. “ Beltus,” says  Inman, “ was the goddess associated with them, the four  together made up Arba or Arba-il, the four great gods,”  the Trinity in Unity. The idea thus broached receives great confirmation when we examine the particular stress  laid in ancient times respecting the right and left side of  the body in connection with the Triad names given to  offspring mentioned in the scriptures with the titles given  to Anu and Hea. The male or active principle was typified  by the idea of “solidity ” and “ firmness,” and the  females or passive by the principles of “ water,” “ soft¬  ness,” and other feminine principles. Thus the goddess  Hea was associated with water, and according to Forlong,  the Serpent, the ruler ot the Abyss, was sometimes repre¬  sented to be the great Hea, without whom there was no  creation or life, and whose godhead embraced also the  female element water.   Rawlinson also gives a similar conclusion, and states  as far as he could determine the third divinity or left side  was named Hea, and he considered this deity to correspond  to Neptune. Neptune was the presiding deity of the deep,  ruler of the abyss, and king of the rivers. As Darwin  and his coadjutors teach, mankind, in common with all  animal life, originally sprung from the sea ; so physiology  teaches that each individual had origin in a pond of water.  The fruit of man is both solid and fluid. It was natural  to imagine that the two male appendages had a distinct  duty, that one formed the infant, the other water in which  it lived, that one generated the male, the other the female  offspring; and the inference was then drawn that water  must be feminine, the emblem of all possible powers of  creation.   It will be seen that the names and signification of the  gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in  Genesis xxx. 13, we find Asher given as a personality,  which signifies “ to be straight,” “ upright,” “ fortunate,”  “ happy.” Asher was the supreme god of the Assyrians, the Vedic Mahadeva, the emblem of the human male  structure and creative energy. The same idea of the  creator is still to be seen in India, Egypt, Phoenicia, the  Mediterranean, Europe, and Denmark, depicted on stone  relics.   To a rude and ignorant people, enslaved with such a  religion, it was an easy step from the crude to the more  refined sign, from the offensive to a more pictured and  less obnoxious symbol, from the plain and self-evident  to the mixed, disguised, and mystified, from the unclothed  privy member to the cross.    THE CROSS   The Triad, or Trinity, has been traced to Phoenicia,  Egypt, Japan, and India; the triple deities Asshur, Anu,  and Hea forming the “ tau.” This mark of the Christians,  Greeks, and Hebrews became the sign or type of the  deities representing the Phallic trinity, and in time became  the figure of the cross. It is remarked by Payne Knight  that “ The male organs of generation are sometimes found  represented by signs of the same sort, which properly  should be called the symbol of symbols. One of the most  remarkable of these is a cross, in the form of the letter  (T), which thus served as the emblem of creation and  generation before the Church adopted it as a sign of  salvation.”   Another writer says, “ Reverse the position of the  triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the figure  of the ancient c tau ’ of the Christians, Greeks, and ancient  Hebrews. It is one of the oldest conventional forms of     Phallic Worship    21    the cross. It is also met with in Gallic, Oscan, Arcadian,  Etruscan, original Egyptian, Phoenician, Ethiopic, and  Pelasgian forms. The Ethiopic form of the * tau ’ is the  exact prototype and image of the cross, or rather, to state  the fact in order of merit and time, the cross is made in  the exact image of the Ethiopic * tau.’ The fig-leaf,  having three lobes to it, became a symbol of the triad.  As the male genital organs were held in early times  to exemplify the actual male creative power, various  natural objects were seized upon to express the theistic  idea, and at the same time point to those parts of the human  form. Hence, a similitude was recognised in a pillar,  a heap of stones, a tree between two rocks, a club between  two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with two  ribbons with the two ends pendant, a thumb and two  fingers, the caduceus. Again, the conspicuous part of  the sacred triad Asshur is symbolised by a single stone  placed upright—the stump of a tree, a block, a tower,  spire, minaret, pole, pine, poplar, or palm tree, while  eggs, apples, or citrons, plums, grapes, and the like  represented the remaining two portions, altogether called  Phallic emblems. Baal-Shalisha is a name which seems  designed to perpetuate the triad, since it signifies * my  Lord the Trinity,’ or * my God is three.’ ”   We must not omit to mention other Phallic emblems,  such as the bull, the ram, the goat, the serpent, the torch,  fire, a knobbed stick, the crozier; and still further per¬  sonified, as Bacchus, Priapus, Dionysius, Hercules,  Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch, Baal,  Asher, and others.   If Ezekiel is to be credited, the triad, T, as Asshur,  Anu, and Hea, was made of gold and silver, and was in  his day not symbolically used, but actually employed; for he bluntly says “ whoredom was committed with the  images of men,” or, as the marginal note has it, images  of “ a male ” (Ezek. xvi. 17). It was with this god-mark  —a cross in the form of the letter T—that Ezekiel was  directed to stamp the foreheads of the men of Judata  who feared the Lord (Ezek. ix. 4).   That the cross, or crucifix, has a sexual origin we  determine by a similar rule of research to that by which  comparative anatomists determine the place and habits of  an animal by a single tooth. The cross is a metaphoric  tooth which belongs to an antique religious body physical, and that essentially human. A study of some of the  earliest forms of faith will lift the veil and explain the  mystery.   India, China, and Egypt have furnished the world with  a genus of religion. Time and culture have divided and  modified it into many species and countless varieties.  However much the imagination was allowed to play upon  it, the animus of that religion was sexuality—worship  of the generative principle of man and nature, male and  female. The cross became the emblem of the male  feature, under the term of the triad —three in one. The  female was the unit ; and, joined to the male triad, con¬  stituted a sacred four. Rites and adoration were sometimes  paid to the male, sometimes to the female, or to the two  in one.   So great was the veneration of the cross among the  ancients that it was carried as a Phallic symbol in the  religious processions of the Egyptians and Persians.  Higgins also describes the cross as used from the earliest  times of Paganism by the Egyptians as a banner, above  which was carried the device of the Egyptian cities.   The cross was also used by the ancient Druids, who held    Phallic Worship    23    it as a sacred emblem. In Egypt it stood for the significa¬  tion of eternal life. Schedeus describes it as customary  for the Druids “ to seek studiously for an oak tree, large  and handsome, growing up with two principal arms in  the form of a cross , besides the main stem upright. If  the two horizontal arms are not sufficiently adapted to  the figure, they fasten a cross-beam to it. This tree they  consecrate in this manner: Upon the right branch they  cut in the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’;  upon the middle, or upright stem, the word ‘ Taranius ’;  upon the left branch ‘ Belenus ’; over this, above the  going off of the arms, they cut the name of the god Thau ;  under all, the same repeated, Thau.”    YONI   There is in Hindostan an emblem of great sanctity,  which is known as the “ Linga-Yoni.” It consists of  a simple pillar in the centre of a figure resembling the  outline of a conical ear-ring. It is expressive of the female  genital organ both in shape and idea. The Greek letter  “ Delta ” is also expressive of it, signifying the door of a  house.   Yoni is of Sanskrit origin. Yanna, or Yoni, means  (1) the vulva, (2) the womb, (3) the place of birth, (4)  origin, (5) water, (6) a mine, a hole, or pit. As Asshur  and Jupiter were the representatives of the male potency,  so Juno and Venus were representatives of the female  attribute. Moore, in his “ Oriental Fragments,” says :  “ Oriental writers have generally spelled the word,  * Yoni,’ which I prefer to write ‘ IOni.’ As Lingam     24    Phallic Worship    was the vocalised cognomen of the male organ, or deity,  so IOni was that of hers.” Says R. P. Knight: “ The  female organs of generation were revered as symbols  of the generative powers of nature or of matter, as those  of the male were of the generative powers of God. They  are usually represented emblematically by the shell  Concoa Veneris , which was therefore worn by devout  persons of antiquity, as it still continues to be by the  pilgrims of many of the common people of Italy ” (“ On  the worship of Priapus,” p. 28).   If Asshur, the conspicuous feature of the male Creator,  is supplied with types and representative figures of himself,  so the female feature is furnished with substitutes and  typical imagery of herself.   One of these is technically known as the sistrum of  Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the  fenestrum, or opening, are bent so that they cannot be  taken out, and indicate that the door is closed. It signifies  that the mother is still virgo intacta —a truly immaculate  female—if the truth can be strained to so denominate  a mother. The pure virginity of the Celestial Mother  was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted  Virgin Mary now adored was born. We might infer  that Solomon was acquainted with the figure of the  sistrum , when he said, “ A garden enclosed is my spouse,  a spring shut up, a fountain sealed ” (Song of Sol. iv. 12).  The sistrum, we are told, was only used in the worship  of Isis, to drive away Typhon (evil).   The Argha is a contrite form, or boat-shaped dish or  plate used as a sacrificial cup in the worship of Astarte,  Isis, and Venus. Its shape portrays its own significance.  The Argha and crux ansata were often seen on Egyptian  monuments, and yet more frequently on bas-reliefs.    Phallic Worship    *5    Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the  Father, the Trinity; Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam,  Esau, Edom, Ach, Sol, Helios (Greek for Sun), Dionysius,  Bacchus, Apollo, Hercules, Brahma, Vishnu, Siva, Jupiter,  Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor, Oden; the cross,  tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of others ;  while the Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno,  Venus, Diana, Artemis, Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele,  Ceres, Eve, Frea, Frigga ; the queen of Heaven, the oval,  the trough, the delta, the door, the ark, the ship, the  chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit. Celestial Virgin,  and a number of other names. Lucian, who was an  Assyrian, and visited the temple of Dea Syria, near the  Euphrates, says there are two Phalli standing in the porch  with this inscription on them, “ These Phalli I, Bacchus,  dedicate to my step-mother Juno.”   The Papal religion is essentially the feminine, and built  on the ancient Chaldean basis. It clings to the female  element in the person of the Virgin Mary. Naphtali  (Gen. xxx. 8) was a descendant of such worshippers,  if there be any meaning in a concrete name. Bear in mind,  names and pictures perpetuate the faith of many peoples.  Neptoah is Hebrew for “ the vulva,” and, A 1 or El being  God, one of the unavoidable renderings of Naphtali is  “ the Yoni is my God,” or “ I worship the Celestial  Virgin.” The Philistine towns generally had names  strongly connected with sexual ideas. Ashdod, aisb or  esb, means “ fire, heat,” and dod means “ love, to love,”  “ boiled up,” “ be agitated,” the whole signifying “ the  heat of love,” or “ the fire which impels to union.”  Could not those people exclaim . Our “ God is love ” ?  (i John iv. 8).   The amatory drift of Solomon’s song is undisguised.    26    Phallic Worship    though the language is dressed in the habiliments of seem¬  ing decency. The burden of thought of most of it bears  direct reference to the Linga-Yoni. He makes a woman  say, “ He shall lie all night betwixt my breasts ” (S. of S.  i. 13). Again, of the Phallus, or Linga, she says, “I  will go up the palm-tree, I will take hold of the boughs  thereof” (vii. 8). Palm-tree and boughs are euphemisms  of the male genitals.  The nations surrounding the Jews practising the  Phallic rites and worshipping the Phallic deities, it is not  to be supposed that the Jews escaped their influence.  It is indeed certain that the worship of the Phallics was a  great and important part of the Hebrew worship.   This will be the more plainly seen when we bear in  mind the importance given to circumcision as a covenant  between God and man. Another equally suggestive  custom among the Patriarchs was the act of taking the  oath, or making a sacred promise, which is commented  upon by Dr. Ginsingburg in Kitto’s Cyclopedia. He says :  “ Another primitive custom which obtained in the  patriarchal age was, that the one who took the oath put  his hand under the thigh of the adjurer (Gen. xxiv. 2,  and xlvii. 29). This practice evidently arose from the  fact that the genital member, which is meant by the euphe¬  mistic expression thigh, was regarded as the most sacred  part of the body, being the symbol of union in the tenderest  relation of matrimonial life, and the seat whence all issue proceeds and the perpetuity so much coveted by the  ancients. Compare Gen. xlvi. 26; Exod. i. 5 ; Judges  vii. 30. Hence the creative organ became the symbol  of the Creator, and the object of worship among all  nations of antiquity. It is for this reason that God  claimed it as a sign of the covenant between himself  and his chosen people in the rite of circumcision. Nothing  therefore could render the oath more solemn in those days  than touching the symbol of creation, the sign of the  covenant, and the source of that issue who may at any  future period avenge the breaking a compact made with  their progenitor.” From this we learn that Abraham,  himself a Chaldee, had reverence for the Phallus as an  emblem of the Creator. We also learn that the rite of  circumcision touches Phallic or Lingasic worship. From  Herodotus we are informed that the Syrians learned  circumcision from the Egyptians, as did the Hebrews.  Says Dr. Inman: “I do not know anything which  illustrates the difference between ancient and modern  times more than the frequency with which circumcision is  spoken of in the sacred books, and the carefulness with  which the subject is avoided now.”   The mutilation of male captives, as practised by Saul  and David, was another custom among the worshippers  of Baal, Asshur, and other Phallic deities. The practice  was to debase the victims and render them unfit to take  part in the worship and mysteries. Some idea can be  formed of the esteem in which people in former times  cherished the male or Phallic emblems of creative power  when we note the sway that power exercised over them.  If these organs were lost or disabled, the unfortunate one  was unfitted to meet in the congregation of the Lord,  and disqualified to minister in the holy temples. Excessive    28    Phallic Worship    punishment was inflicted upon the person who had the  temerity to injure the sacred structure. If a woman were  guilty of inflicting injury, her hand was cut off without  pity (Deut. xxv. 12). The great object of veneration  in the Ark of the Covenant was doubtless a Phallic  emblem, a symbol of the preservation of the germ of  life.   In the historical and prophetic books of the Old  Testament we have repeated evidence that the Hebrew  worship was a mixture of Paganism and Judaism, and  that Jehovah was worshipped in connection with other  deities. Hezekiah is recorded in 2 Kings xviii. 3, to  have “ removed the high places, and broken the images,  and cut down the groves (Ashera), and broken in pieces  the brazen serpent that Moses had made, for unto those  days the children of Israel did burn incense to it.” The  Ashera, or sacred groves here alluded to are named  from the goddess Ashtaroth, which Dr. Smith describes  as the proper name of the goddess ; while Ashera is the  name of the image of the goddess. Rawlinson, in his  Five Great Monarchies of the Ancient World , describes  Ashera to imply something that stood straight up, and  probably its essential element was the stem of a tree,  an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the  Tree of Life of the Scriptures. This stem, which stood  for the emblem of life, was probably a pillar, or Phallus,  like the Lingi of the Hindus, sometimes erected in a grove  or sacred hollow, signifying the Yoni and Lingi. We  read in 2 Kings xxi. 7, that Manasseh “ set up a graven  image in the grove,” and, according to Dr. Oort, the older  reading is in 2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an image  or pillar. During the reigns of the Jewish kings, the  worship of Baal, the Priapus of the Greeks and Romans,    Phallic Worship    2 9   was extensively practised by the Jews. Pillars and  groves were reared in his name.   In front of the Temple of Baal, in Samaria, was erected  an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which even survived  the temple itself, for although Jehu destroyed the Temple  of Baal, he allowed the Ashera to remain (2 Kings x.  18, 19; xiii. 6). Bernstein, in an important work on  the origin of the legends of Abraham, Isaac, and Jacob,  undoubtedly proves that during the monarchial period  of Israel, the sanguinary wars and violent conflicts between  the two kingdoms of Judah and Israel were between  the Elohistic and Jehovahic faiths, kept alive by the  priesthood at the chief places of worship, concerning the  true patriarch, and each party manufacturing and inserting  legends to give a more ancient and important part to its  own faith.   It is not at all improbable that the conflict was between  the two portions of the Phallic faith, the Lingam and  Yoni parties. The cause of this conflict was the erection  of the consecrated stones or pillars which were put up  by the Hebrews as objects of Divine worship. The altar  erected by Jacob at Bethel was a pillar, for according  to Bernstein the word altar can only be used for the erection  of a pillar. Jacob likewise set up a Matzebah, or pillar  of stone, in Gilead, and finally he set one up upon the  tomb of Rachel.   A great portion of the facts have been suppressed by  the translators, who have given to the world histories  which have glossed over the ancient rites and practices  of the Jews.   An instance is given by Forlong on the important  word “ Rock or Stone,” a Phallic emblem to which the  Jews addressed their devotions. He says, “ It should    3°    Phallic Worship    not be, but I fear it is, necessary to explain to mere English  readers of the Old Testament that the Stone or Rock Tsur  was the real old god of all Arabs, Jews, and Phoenicians,  that this would be clear to Christians were the Jewish  writings translated according to the first ideas of the  people and Rock used as it ought to be, instead of ‘ God,’  * Theos,’ £ Lord,’ etc., being written where Tsur occurs .  Numerous instances of this are given in Dr. Ort’s worship  of Baal in Israel, where praises, addresses, and adorations  are addressed to the Rock, instance, Deut. xxxii. 4, 18.  Stone pillars were also used by the Hebrews as a memorial  of a sacred covenant, for we find Jacob setting up a pillar  as a witness, that he would not pass over it. Connected  with this pillar worship is the ceremony of anointing  by pouring oil upon the pillar, as practised by Jacob  at Bethel. According to Sir W. Forbes, in his Oriental  Memoirs, the “ pouring of oil upon a stone is practised  at this day upon many a shapeless stone throughout  Hindostan.”   Toland gives a similar account of the Druids as practising  the same rite, and describes many of the stones found in  England as having a cavity at the top made to receive the  offering. The worship of Baal like the worship of  Priapus was attended with prostitution, and we find the  Jews having a similar custom to the Babylonians.   Payne Knight gives the following account of it in his  work: “ The women of every rank and condition held  it to be an indispensable duty of religion to prostitute  themselves once in their lives in her temple to any stranger  who came and offered money, which, whether little or  much, was accepted, and applied to a sacred purpose.  Women sat in the temple of Venus awaiting the selection  of the stranger, who had the liberty of choosing whom he liked. A woman once seated must remain until she  has been selected by a piece of silver being cast into her  lap, and the rite performed outside the temple.”   Similar customs existed in Armenia, Phrygia, and even  in Palestine, and were a feature of the worship of Baal  Peor. The Hebrew prophets described and denounced  these excesses which had the same characteristics as the  rites of the Babylonian priesthood. The identical  custom is referred to in i Sam. ii. 22, where “ the sons of  Eli lay with the women that assembled at the door of the  tabernacle of the congregation.”   Words and history corroborate each other, or are apt  to do so if contemporaneous. Thus kadesh , or kaesh,  designate in Hebrew “ a consecrated one,” and history  tells the unworthy tale in descriptive plainness, as will  be shown in the sequel.   That the religion was dominating and imperative is  determined by Deut. xvii. 12, where presumptuous  refusal to listen to the priest was death to the offender.  To us it is inconceivable that the indulgence of passion  could be associated with religion, but so it was. Much  as it is covered over by altered words and substituted  expressions in the Bible—an example of which see men  for male organ, Ezek. xvi. 17—it yet stands out offensively  bold. The words expressive of “ sanctuary,” “ conse¬  crated,” and “ Sodomite,” are in the Hebrew essentially  the same. They indicate the passion of amatory devotion.  It is among the Hindus of to-day as it was in Greece and  Italy of classic times ; and we find that “ holy women ”  is a title given to those who devote their bodies to be used  for hire, the price of which hire goes to the service of the  temple.   As a general rule, we may assume that priests who make or expound the laws, which they declare to be from God,  are men, and, consequently, through all time, have  thought, and do think, of the gratification of the masculine  half of humanity. The ancient and modern Orientals  are not exceptions. They lay it down as a momentous  fact that virginity is the most precious of all the possessions  of a woman, and, being so, it ought, in some way or  other, to be devoted to God.   Throughout India, and also through the densely  inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a  class of females who dedicate themselves to the service  of the deity whom they adore; and the rewards accruing  from their prostitution are devoted to the service of the  temple and the priests officiating therein.   The temples of the Hindus in the Dekkan possessed  their establishments. They had bands of consecrated  dancing-girls called the Women of the Idol , selected in their  infancy by the priests for the beauty of their persons, and  trained up with every elegant accomplishment that could  render them attractive.   We also find David and the daughters of Shiloh per¬  forming a wild and enticing dance ; likewise we have the  leaping of the prophets of Baal.   It is again significant that a great proportion of Bible  names relate to " divine,” sexual, generative, or creative  power; such as Alah, “ the strong one ” ; Ariel, “ the  strong Jas is El ” ; Amasai, “ Jah is firm ” ; Asher,  “ the male ” or “ the upright organ ” ; Elijah, “ El is  Jah ” ; Eliab, “ the strong father ” ; Elisha, “ El is  upright ” ; Ara, “ the strong one,” “ the hero ” ; Aram,  “ high,” or, “ to be uncovered ” ; Baal Shalisha, “ my  Lord the trinity,” or “ my God is three ” ; Ben-zohett,  “ son of firmness ” ; Camon, “ the erect One ” ; Cainan,    “ he stands upright ” ; these are only a few of the many  names of a similar signification.   It will be seen, from what has been given, that the Jews,  like the Phoenicians (if they were not the same), had the  same ceremonies, rites, and gods as the surrounding  nations, but enough has been said to show that Phallic  worship was much practised by the Jews. It was very  doubtful whether the Jehovah-worship was not of a  monotheistic character, but those who desire to have a  further insight into the mysteries of the wars between the  tribes should consult Bernstein’s valuable work.    EARTH MOTHER   The following interesting chapter is taken from a  valuable book issued a few years ago anonymously :   “ Mother Earth ” is a legitimate expression, only of  the most general type. Religious genius gave the female  quality to the earth with a special meaning. When once  the idea obtained that our world was feminine, it was  easy to induce the faithful to believe that natural chasms  were typical of that part which characterises woman.  As at birth the new being emerges from the mother,  so it was supposed that emergence from a terrestrial  cleft was equivalent to a new birth. In direct proportion  to the resemblance between the sign and the thing signified  was the sacredness of the chink, and the amount of virtue  which was imparted by passing through it. From natural  caverns being considered holy, the veneration for apertures  in stones, as being equally symbolical, was a natural transition. Holes, such as we refer to, are still to be seen  in those structures which are called Druidical, both in  the British Isles and in India. It is impossible to say  when these first arose; it is certain that they survive in  India to this day. We recognise the existence of the  emblem among the Jews in Isaiah li. i, in the charge to  look “ to the hole of the pit whence ye are digged.” We  have also an indication that chasms were symbolical  among the same people in Isaiah lvii. 5, where the wicked  among the Jews were described as “ inflaming themselves  with idols under every green tree, and slaying the children  in the valleys under the clefts of the rocks.” It is possible  that the “ hole in the wall ” (Ezek. viii. 7) had a similar  signification. In modern Rome, in the vestibule of the  church close to the Temple of Vesta, I have seen a large  perforated stone, in the hole of which the ancient Romans  are said to have placed their hands when they swore a  solemn oath, in imitation, or, rather, a counterpart, of  Abraham swearing his servant upon his thigh—that is  the male organ. Higgins dwells upon these holes, and  says: “ These stones are so placed as to have a hole under  them, through which devotees passed for religious  purposes. There is one of the same kind in Ireland,  called St. Declau’s stone. In the mass of rocks at Bramham  Crags there is a place made for the devotees to pass  through. We read in the accounts of Hindostan that  there is a very celebrated place in Upper India, to which  immense numbers of pilgrims go, to pass through a place  in the mountains called “ The Cow’s Belly.” In the  Island of Bombay, at Malabar Hill, there is a rock upon  the surface of which there is a natural crevice, which  communicates with a cavity opening below. This place  is used by the Gentoos as a purification of their sins, which they say is effected by their going in at the opening  below, and emerging at the cavity above—“ born again.”  The ceremony is in such high repute in the neighbouring  countries that the famous Conajee Angria ventured by  stealth, one night, upon the Island, on purpose to perform  the ceremony, and got off undiscovered. The early  Christians gave them a bad name, as if from envy; they  called these holes “ Cunni Diaboli ” ( Anacalypsis , p. 346). The Romans call the feasts of Bacchus, Bacchanalia  and Liberalia, because Bacchus and Liber, while two names  for the same god, the festivals were celebrated  at different times and in a somewhat different manner. The Liberalia is celebrated  on the 17th of March, with the most licentious gaiety,  when an image of a Phallus is carried openly in  triumph. These festivities are more particularly celebrated among the rural or agricultural population, who, when the preparatory labour of the agriculturist is over,  celebrate with joyful activity Nature’s reproductive  powers, which in due time is to bring forth the fruits.  During the festival, a car containing a huge phallus is  drawn along accompanied by its worshippers, who indulge in rather obscene songs and dances of wild and extravagant character. The gravest and proudest matron suddenly lays aside her decency and runs screaming  among the woods and hills half-naked, with dishevelled  hair, interwoven with which were pieces of ivy or vine.  The Bacchanalian feasts are celebrated in the latter part  of October when the harvest is completed. Wine and  figs are carried in the procession of the Bacchants, and  lastly come the Phalli, followed by honourable virgins,  called canephora , who carry baskets of fruit. These were  followed by a company of men who carry poles, at the end of which are figures representing the organ of  generation. The men sing the Phallica and are crowned  with violets and ivy, and have their faces covered with  other kinds of herbs. These are followed by some  dressed in women’s apparel, striped with white, reaching  to their ancles, with garlands on their heads, and wreaths  of flowers in their hands, imitating by their gestures the  state of inebriety. The priestesses run in every direction  shouting and screaming, each with a thyrsus in their  hands. Men and women all intermingle, dancing and  frolicking with suggestive gesticulations. Deodorus says  the festivals are carried into the night, and it is then  frenzy reaches its height. Deodorus says, “ In performing  the solemnity virgins carry the thyrsus, and run about  frantic, halloing ‘ Evoe ’ in honour of the god; then  the women in a body offer the sacrifices, and roar out the  praises of Bacchus in song as if he were present, in imitation  of the ancient Mamades, who accompanied him.” These  festivities are carried into the night, and as the celebrators  become heated with wine, they degenerate into extreme  licentiousness.   Similar enthusiastic frenzy is exhibited at the Lupercalian Feasts instituted in honour of the god Pan (under the shape of a Goat) whose priests, according to Owen in  his Worship of Serpents , on the morning of the Feast run naked through the streets, striking the women  they met on the hands and belly, which is held as an omen promising fruitfulness. The nymphs performing  the same ostentatious display as the Bacchants at the  festival of Bacchanalia.   The festival of Venus is celebrated towards the beginning of April, and the Phallus is again drawn in a car,  followed by a procession of Roman women to the temple  of Venus. Says a writer, “ The loose women of the town  and its neighbourhood, called together by the sounding  of horns, mix with the multitude in perfect nakedness,  and excite their passions with obscene motions and  language until the festival ends in a scene of mad revelry,  in which all restraint is laid aside.”   It is said that these festivals take their rise from Egypt,  from whence they were brought into Greece by Metampus,  where the triumph of Osiris was celebrated with secret  rites, and from thence the Bacchanals drew their original;  and from the feasts instituted by Isis came the orgies of  Bacchus.  It seems not at all improbable that the deities wor¬  shipped by the ancient Britons and the Irish, were no  other then the Phallic deities of the ancient Syrians and  Greeks, and also the Baal of the Hebrews. Dionysius  Periegites, who lived in the time of Augustus Caesar,  states that the rites of Bacchus were celebrated in the  British Isles ; while Strabo, who lived in the time of  Augustus and Tiberius, asserts that a much earlier writer  described the worship of the Cabiri to have come originally from Phoenicia. Higgins, in his History of the Druids,  says, the supreme god above the rest was called Seodhoc  and Baal. The name of Baal is found both in Wales,  Gaul, and Germany, and is the same as the Hebrew Baal.   The same god, according to O’Brien, was the chief deity  of the Irish, in whose honour the round towers were  erected, which structures the ancient Irish themselves  designated Bail-toir, or the towers of Baal. In Numbers,  xxii, will be found a mention of a similar pillar consecrated  to Baa]. Many of the same customs and superstitions  that existed among the Druids and ancient Irish, will  likewise be found among the Israelites. On the first  day of May, the Irish made great fires in honour of Baal,  likewise offering him sacrifices. A similar account is  given of a custom of the Druids by Toland, in an account  of the festival of the fires ; he says :—“ on May-day eve  the Druids made prodigious fires on these earns, which  being everyone in sight of some other, could not but  afford a glorious show over a whole nation.” These  fires are said to be lit even to the present day by the  Aboriginal Irish, on the first of May, called by them  Bealtine, or the day of Belan’s fire, the same name as  given them in the Highlands of Scotland.   A similar practice to this will be noticed as mentioned in  the II Book of Kings, where the Canaanites in their worship  of Baal, are said to have passed their children through the  fire of Baal, which seems to have been a common practice,  as Ahaz, King of Israel, is blamed for having done the  same thing. Higgins in his Anacalypsis, says this super¬  stitious custom still continues, and that on “ particular  days great fires are lighted, and the fathers taking the  children in their arms, jump or run through them, and  thus pass their children through them; they also light two fires at a little distance from each other, and drive  their cattle between them.” It will be found on reference  to Deuteronomy, that this very practice is specially for¬  bidden. In the rites of Numa, we have also the sacred  fire of the Irish; of St. Bridget, of Moses, of Mithra,  and of India, accompanied with an establishment of  nuns or vestal virgins. A sacred fire is said to have been  kept burning by the nuns of Kildare, which was established  by St. Bridget. This fire was never blown with the  mouth, that it might not be polluted, but only with  bellows; this fire was similar to that of the Jews, kept  burning only with peeled wood, and never blown with  the mouth. Hyde describes a similar fire which was kept  burning in the same way by the ancient Persians, who  kept their sacred fire fed with a certain tree called Hawm  Mogorum; and Colonel Vallancey says the sacred fire  of the Irish was fed with the wood of the tree called  Hawm. Ware, the Romish priest, relates that at Kildare,  the glorious Bridget was rendered illustrious by many  miracles, amongst which was the sacred fire, which had  been kept burning by nuns ever since the time of the  Virgin.   The earliest sacred places of the Jews were evidently  sacred stones, or stone circles, succeeded in time by  temples. These early rude stones, emblems of the  Creator, were erected by the Israelites, which in no way  differed from the erections of the Gentiles. It will be  found that the Jews to commemorate a great victory,  or to bear witness of the Lord, were all signfied by stones :  thus, Joshua erected a stone to bear witness ; Jacob  put up a stone to make a place sacred ; Abel set up the  same for a place of worship; Samuel erected a stone as  a boundary, which was to be the token of an agreement made in the name of God. Even Maundrel in his travels  names several that he saw in Palestine. It is curious that  where a pillar was erected there, sometime after, a temple  was put up in the same manner that the Round Towers  of Ireland were,—always near a church, but never formed  part of it. We find many instances in the Scriptures of the  erection of a number of stones among the early Israelites,  which would lead us to conclude that it was not at all  unlikely that the early places of worship among them, were  similar to the temples found in various parts of Great  Britain and Ireland. It is written in Exodus xxiv. 4,  that Moses rose up early in the morning, and builded  an altar under the hill, and twelve pillars, according to  the twelve tribes of Israel, were erected. It is also  given out that when the children of Israel should pass  over the Jordan, unto the land which the Lord giveth  them, they should set up great stones, and plaster them  with plaster, and also the words of the law were to be  written thereon. In many other places stones were  ordered to be set up in the name of the Lord, and repeated  instances are given that the stones should be twelve  in number and unhewn.   Stone temples seem to have been erected in all countries  of the world, and even in America, where, among the  early American races are to be found customs, superstitions,  and religious objects of veneration, similar to the  Phoenicians. An American writer says:—“ There is  sufficient evidence that the religious customs of the  Mexicans, Peruvians and other American races, are  nearly identical with those of the ancient Phoenicians. . . .  We moreover discover that many of their religious terms  have, etymologically, the same origin.” Payne Knight,  in his Worship of Priapus, devotes much of his work to    Phallic Worship    4i    show that the temples erected at Stonehenge and other  places, were of a Phoenician origin, which was simply  a temple of the god Bacchus.  Of all the nations of antiquity the Persians were the  most simple and direct in the worship of the Creator.  They were the puritans of the heathen world, and not  only rejected all images of God and his agents, but also  temples and altars, according to Herodotus, whose  authority we prefer to any other, because he had an  opportunity of conversing with them before they had  adopted any foreign superstitions. As they worshipped  the ethereal fire without any medium of personification  or allegory, they thought it unworthy of the dignity of  the god to be represented by any definite form, or cir¬  cumscribed to any particular place. The universe was  his temple, and the all-pervading element of fire his only  symbol. The Greeks appear originally to have held  similar opinions, for they were long without statues  and Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built by  Adrastus—who lived in an age before the Trojan war—  which consisted of columns only, without wall or roof,  like the Celtic temples of our northern ancestors, or the  Phyroetheia of the Persians, which were circles of stones  in the centre of which was kindled the sacred fire, the  symbol of the god. Homer frequently speaks of places  of worship consisting of an area and altar only, which were  probably enclosures like those of the Persians, with an     42    Phallic Worship    altar in the centre. The temples dedicated to the creator  Bacchus, which the Greek architects called kypcethral,  seem to have been anciently of this kind, whence probably  came the title (“ surround with columns ”) attributed  to that god in the Orphic litanies. The remains of one of  these are still extant at Puzznoli, near Naples, which the  inhabitants call the temple of Serapis ; but the ornaments  of grapes, vases, etc., found among the ruins, prove it  to have been of Bacchus. Serapis was indeed the same  deity worshipped under another form, being usually a  personification of the sun. The architecture is of the  Roman times ; but the ground plan is probably that of a  very ancient one, which this was made to replace—for  it exactly resembles that of a Celtic temple in Zeeland,  published in Stukeley’s Itinerary. The ranges of square  buildings which enclose it are not properly parts of the  temple, but apartments of the priests, places for victims  and sacred utensils, and chapels dedicated to the sub¬  ordinate deities, introduced by a more complicated and  corrupt worship and probably unknown to the founder  of the original edifice. The portico, which runs parallel  with these buildings, encloses the temenss , or area of  sacred ground, which in the pyratheia of the Persians was  circular, but is here quadrangular, as in the Celtic temple  in Zeeland, and the Indian pagoda before described.  In the centre was the holy of holies, the seat of the god,  consisting of a circle of columns raised upon a basement,  without roof or walls, in the middle of which was probably  the sacred fire or some other symbol of the deity. The  square area in which it stood was sunk below the natural  level of the ground, and, like that of the Indian pagoda,  appears to have been occasionally floated with water;  the drains and conduits being still to be seen, as also several  fragments of sculpture representing waves, serpents, and  various aquatic animals, which once adorned the basement.  The Bacchus here worshipped, was, as we learn from the  Orphic hymn above cited, the sun in his character of  extinguisher of the fires which once pervaded the earth.  He is supposed to have done this by exhaling the waters  of the ocean and scattering them over the land, which was  thus supposed to have acquired its proper temperature  and fertility. For this reason the sacred fire, the essential  image of the god, was surrounded by the element which  was principally employed in giving effect to the beneficial  exertions of the great attribute.   From a passage of Hecatasus, preserved by Diodorus  Siculus, it seems evident that Stonehenge and all the monu¬  ments of the same kind found in the north, belong to the  same religion which appears at some remote period to  have prevailed over the whole northern hemisphere.  According to that ancient historian, the Hyperboreans  inhabited an island beyond Gaul , as large as Sicily , in which  Apollo was worshipped in a circular temple considerable for  its si^e and riches. Apollo, we know, in the language of  the Greeks of that age, can mean no other than the sun,  which according to Caesar was worshipped by the Germans,  when they knew of no other deities except fire and the  moon. The island can evidently be no other than Britain,  which at that time was only known to the Greeks by the  vague reports of the Phoenician mariners ; and so uncertain  and obscure that Herodotus, the most inquisitive and  credulous of historians, doubts of its existence. The  circular temple of the sun being noticed in such slight and  imperfect accounts, proves that it must have been some¬  thing singular and important; for if it had been an  inconsiderable structure, it would not have been mentioned at all; and if there had been many such in the country,  the historian would not have employed the singular  number.   Stonehenge has certainly been a circular temple, nearly  the same as that already described of the Bacchus at.  Puzznoli, except that in the latter the nice execution and  beautiful symmetry of the parts are in every respect the  reverse of the rude but majestic simplicity of the former.  In the original design they differ but in the form of the  area. It may therefore be reasonably supposed that we  have still the ruins of the identical temple described by  Hecatasus, who, being an Asiatic Greek, might have  received his information from Phoenician merchants, who  had visited the interior parts of Britain when trading there  for tin. Anacrobius mentions a temple of the same kind  and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated  to the sun under the title of Bacchus Sebrazius. The  large obelisks of stone found in many parts of the north,  such as those at Rudstone, and near Boroughbridge, in  Yorkshire, belong to the same religion; obelisks being,  as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they  represented both by their form and name .—Pajne Knight’s  Worship of Priapus.    Says Hyslop :—“ The hot cross-buns of Good Friday,  and the dyed eggs of Pasch or Easter Sunday, figured in  the Chaldean rites just as they do now. The buns known,  too, by that identical name, were used in the worship of the Queen of Heaven, the goddess Easter (Ishtar or Astarte),  as early as the days of Cecrops, the founder of Athens,  1,500 years before the Christian era.” “ One species of  bread,” says Bryant, “ ‘ which used to be offered to the  gods, was of great antiquity, and called Boun’ Diogenes  mentioned * they were made of flour and honey.’ ” It  appears that Jeremiah the Prophet was familiar with this  lecherous worship. He says :—“ The children gather  wood, the fathers kindle the fire, and the women knead  the dough to make cakes to the Queen of Heaven (Jer.  vii., 18). Hyslop does not add that the “ buns ” offered  to the Queen of Heaven, and in sacrifices to other deities,  were framed in the shape of the sexual organs, but that  they were so in ancient limes we have abundance of  evidence.   Martial distinctly speaks of such things in two epigrams,  first, wherein the male organ is spoken of, second, wherein  the female part is commemorated ; the cakes being made  of the finest flour, and kept especially for the palate of the  fair one.   Captain Wilford (“ Asiatic Researches,” viii., p. 365)  says :—“ When the people of Syracuse were sacrificing to  goddesses, they offered cakes called mulloi, shaped like the  female organ, and in some temples where the priestesses  were probably ventriloquists, they so far imposed on the  credulous multitude who came to adore the Vulva as to  make them believe that it spoke and gave oracles.”   We can understand how such things were allowed in  licentious Rome, but we can scarcely comprehend how  they were tolerated in Christian Europe, as, to all innocent  surprise we find they were, from the second part of the  “ Remains of the Worship of Priapus ” : that in Saintonge,  in the neighbourhood of La Rochelle, small cakes baked in    46    Phallic Worship    the form of the Phallus are made as offerings at Easter,  carried and presented from house to house. Dulare  states that in his time the festival of Palm Sunday, in the  town of Saintes, was called le fete des pinnes —feast of the  privy members—and that during its continuance the  women and children carried in the procession a Phallus  made of bread, which they called a pinne , at the end of their  palm branches ; these pinnes were subsequently blessed  by priests, and carefully preserved by the women during  the year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be remembered,  is a euphemism of the male organ, and it is curious to see  it united with the Phallus in Christendom. Dulare also  says that, in some of the earlier inedited French books on  cookery, receipts are given for making cakes of the  salacious form in question, which are broadly named. He  further tells us those cakes symbolized the male, in Lower  Limousin, and especially at Brives ; while the female  emblem was adopted at Clermont, in Auvergne, and other  places.    THE ARK AND GOOD FRIDAY   The ark of the covenant was a most sacred symbol in  the worship of the Jews, and like the sacred boat, or  ark of Osiris, contained the symbol of the principle of  life, or creative power. The symbol was preserved with  great veneration in a miniature tabernacle, which was  considered the special and sanctified abode of the god.  In size and manner of construction the ark of the Jews  and the sacred chest of Osiris of the Egyptians were exactly alike, and were carried in processions in a similar  manner   The ark or chest of Osiris was attended by the priests,  and was borne on the shoulders of men by means of  staves. The ark when taken from the temple was placed  upon a table, or stand, made expressly for the purpose,  and was attended by a procession similar to that which  followed the Jewish ark. According to Faber, the ark  was a symbol of the earth or female principle, containing  the germ of all animated nature, and regarded as the  great mother whence all tilings sprung. Thus the ark,  earth, and goddess, were represented by common symbols,  and spoken of in the old Testament as the “ ashera.”   The sacred emblems carried in the ark of the Egyptians  were the Phallus, the Egg, and the Serpent; the first  representing the sun, fire, and male or generative principle  —the Creator; the second, the passive or female, the  germ of all animated things—the Preserver; and the  last the Destroyer: the Three of the sacred Trinity.  The Hindu women, according to Payne Knight, still  carry the lingam, or consecrated symbol of the generative  attribute of the deity, in solemn procession between two  serpents; and in a sacred casket, which held the Egg  and the Phallus in the mystic processions of the Greeks,  was also a Serpent.   “ The ark,” says Faber, “ was reverenced in all the  ancient religions.” It was often represented in the form of  a boat, or ship, as well as an oblong chest. The rites of  the Druids, with those of Phoenicia and Hindostan, show  that an ark, chest, cell, boat, or cavern, held an important  place in their mysteries. In the story of Osiris, like that  of the Siva, will be found the reason for the emblem being  carried in the sacred chest, and the explanation of one of    48    Phallic Worship    the mysteries of the Egyptian priests. It is said that  Osiris was torn to pieces by the wicked Typhon, who  after cutting up the body, distributed the parts over the  earth. Isis recovered the scattered limbs, and brought  them back to Egypt; but, being unable to find the part  which distinguished his sex, she had an image made of  wood, which was enshrined in an ark, and ordered to  be solemnly carried about in the festivals she had instituted  in his honour, and celebrated with certain secret rites.   The Egg, which accompanied the Phallus in the ark was  a very common symbol of the ancient faiths, which was  considered as containing the generation of life. The  image of that which generated all things in itself. Jacob  Bryant says :—“ The Egg, as it contained the principles  of life was thought no improper emblem of the ark,  in which were preserved the future world. Hence in the  Dionysian and in other mysteries, one part of the nocturnal  ceremony consisted in the consecration of an egg.”  This egg was called the Mundane Egg.   The ark was likewise the symbol of salvation, the place  of safety, the secret receptacle of the divine wisdom.  Hence we find the ark of the Jews containing the tables  of the law; we find too that the Jews were ordered to  place in the ark Aaron’s rod, which budded, conveying  the idea of symbolised fertility : showing that the ark  was considered as the receptacle of the life principle—as  an emblem of the Creator.   With the Egyptians Osiris was supposed to be buried in  the ark, which represented the disappearance of the deity.  His loss, or death, constituted the first part of the mysteries,  which consisted of lamentations for his decease. After the  third day from his death, a procession went down to the  seaside in the night, carrying the ark with them. During    Phallic Worship    49    the passage they poured drink offerings from the river, and  when the ceremony had been duly performed, they raised a  shout that Osiris had again risen—that the dead had been  restored to life. After this followed the second or joyful  part of the mysteries. The s imila rity of this custom with  the Good Friday celebrations of the death of Jesus, and the  rejoicings on account of his resurrection on Easter Sunday,  will be at once observed. It is further said that the missing  part of Osiris was eaten by a fish, which made the fish a  sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and Good  Friday brought together, also the Egg, for the origin of  the Easter eggs is very ancient. A bull is represented as  breaking an egg with his horn, which signified the  liberating of imprisoned life at the opening or spring of  the year, which had been destroyed by Typhon. The  opening of the year at that time commenced in the spring,  not according to our present reckoning; thus, the Egg  was a symbol of the resurrection of life at the spring, or  our Easter time. The author of the “ Worship of the  Generative Powers,” describes the origin of the hot cross¬  bun at Easter, which is a further parallelism of the Christian  and Pagan festivals. The author also draws a further  conclusion—that the cakes or buns have in reality a  Phallic origin, for in France and other parts, the Easter  cakes were called after the membrun virile. The writer  says :—“ In the primitive Teutonic mythology, there  was a female deity named in old German, Ostara, and in  Anglo-Saxon, Eastre or Eostre ; but all we know of her  is the simple statement of our father of history, Bede,  that her festival was celebrated by the ancient Saxons in  the month of April, from which circumstance that month  was named by the Anglo-Saxons, Easter-mona or Eoster-  mona, and that the name of the goddess had been frequently given to the Paschal time, with which it was identical. The  name of this goddess was given to the same month by  the old Germans and by the Franks, so that she must have  been one of the most highly honoured of the Teutonic  deities, and her festival must have been a very important  one and deeply implanted in the popular feelings, or the  Church would not have sought to identify it with one of  the greatest Christian festivals of the year. It is under¬  stood that the Romans considered this month as dedicated  to Venus, no doubt because it was that in which the  productive powers of nature began to be visibly developed.  When the Pagan festival was adopted by the Church, it  became a moveable feast, instead of being fixed to the  month of April. Among other objects offered to the  goddess at this time were cakes, made no doubt of fine  flour, but of their form we are ignorant. The Christians  when they seized upon the Easter festival, gave them the  form of a bun, which indeed was at that time the ordinary  form of bread ; and to protect themselves and those who  ate them from any enchantment—or other evil influences  which might arise from their former heathen character—  they marked them with the Christian symbol—the cross.  Hence we derived the cakes we still eat at Easter under  the name of hot cross-buns, and the superstitious feelings  attached to them; for multitudes of people still believe  that if they failed to eat a hot cross-bun on Good Friday,  they would be unlucky all the rest of the year.”  The earliest capital seems to have been the bell or  seed vessel, simply copied without alteration, except a  little expansion at the bottom to give it stability. The  leaves of some other plant were then added to it, and  varied in different capitals according to the different  meanings intended to be signified by the accessory symbols.  The Greeks decorated it in the same manner, with the  foliage of various plants, sometimes of the acanthus and  sometimes of the aquatic kind, which are, however,  generally so transformed by excessive attention to elegance,  that it is difficult to distinguish them. The most usual  seems to be the Egyptian acacia, which was probably  adopted as a mystic symbol for the same reasons as the  olive, it being equally remarkable for its powers of  reproduction. Theophrastus mentions a large wood of  it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so  that we reasonably suppose it to have been employed by  the Egyptians in the same symbolical sense. From  them the Greeks seem to have borrowed it about the  time of the Macedonian conquest, it not occurring in any  of their buildings of a much earlier date ; and as for the  story of the Corinthian architect, who is said to have  invented this kind of capital from observing a thorn  growing round a basket, it deserved no credit, being fully  contradicted by the buildings still remaining in Upper  Egypt.   The Doric column, which appears to have been the  only one known to the very ancient Greeks, was equally  derived from the Nelumbo; its capital being the same  seed-vessel pressed flat, as it appears when withered and  dry—the only state probably in which it had been seen in  Europe. The flutes in the shaft were made to hold  spears and staves, whence a spear-holder is spoken of in  the “ Odyssey ” as part of a column. The triglyphs and  blocks of the cornice were also derived from utility,  they having been intended to represent the projecting  ends of the beams and rafters which formed the roof.   The Ionic capital has no bell, but volutes formed in  imitation of sea-shells, which have the same symbolical  meaning. To them is frequently added the ornament which  architects call a honeysuckle, but which seems to be  meant for the young petals of the same flower viewed  horixontally, before they are opened or expanded. Another  ornament is also introduced in this capital, which they  call eggs and anchors, but which is, in fact, composed of  eggs and spear-heads, the symbols of female generation  and male destructive power, or in the language of  mythology, of Venus and Mars .—Payne Knight.  Stripped, however, of all this splendour and magnifi¬  cence it was probably nothing more than a symbolical  instrument, signifying originally the motion of the  elements, like the sistrum of Isis, the cymbals of Cybele,  the bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to have  overcome the Titans with his aegis, as Isis drove away  Typhon with her sistrum, and the ringing of the bells  and clatter of metals were almost universally employed  as a means of consecration, and a charm against the destroying and inert powers. Even the Jews welcomed  the new moon with such noises, which the simplicity of  the early ages employed almost everywhere to relieve  her during eclipses, supposed then to be morbid affections  brought on by the influence of an adverse power. The  title Priapus , by which the generative attribute is distinguished, seems to be merely a corruption of Brt'apuos  (clamorous); the beta and pi being commutable letters,  and epithets of similar meaning, being continually applied  both to Jupiter and Bacchus by the poets. Many  Priapic figures, too, still extant, have bells attached to  them, as the symbolical statues and temples of the Hindus  are; and to wear them was a part of the worship of  Bacchus among the Greeks : whence we sometimes find  them of extremely small size, evidently meant to be worn  as amulets with the phalli, lunulas, etc. The chief priests  of the Egyptians and also the high priests of the Jews,  hung them as sacred emblems to their sacerdotal garments ;  and the Brahmins still continue to ring a small bell at the  interval of their prayers, ablutions, and other acts of  devotion; which custom is still preserved in the Roman  Catholic Church at the elevation of the host. The  Lacedaemonians beat upon a brass vessel or pan, on the  death of their kings, and we still retain the custom of  tolling a bell on such occasions, though the reason of it  is not generally known, any more than that of other  remnants of ancient ceremonies still existing. 1 It will  be observed that the bells used by the Christians very  probably came direct from the Buddhists. And from the  same source are derived the beads and rosaries of the  Roman Catholics, which have been used by the Buddhist   1 The above description is from Payne Knight’s “ Symbolical  Language of ancient Art and Mythology.” monks for over 2,000 years. Tinkling bells were  suspended before the shrine of Jupiter Ammon, and  during the service the gods were invited to descend upon  the altars by the ringing of bells ; they were likewise  sacred to Siva. Bells were used at the worship of Bacchus,  and were worn on the garments of the Bacchantes, much  in the same manner as they are used at our carnivals and  masquerades.The following curious fable is given by Sir William  Jones, as one of the stories of the Hindus for the origin of  Phallic devotion:—“ Certain devotees in a remote time had  acquired great renown and respect, but the purity of the  art was wanting, nor did their motives and secret thoughts  correspond with their professions and exterior conduct.  They affected poverty, but were attached to the things of  this world, and the princes and nobles were constantly  sending their offerings. They seemed to sequester them¬  selves from this world ; they lived retired from the towns ;  but their dwellings were commodious, and their women  numerous and handsome. But nothing can be hid from  their gods, and Sheevah resolved to put them to shame.  He desired Prakeety (nature) to accompany him; and  assumed the appearance of a Pandaram of a graceful  form. Prakeety was herself a damsel of matchless worth.  She went before the devotees who were assembled with  their disciples, awaiting the rising of the sun, to perform  their ablutions and religious ceremonies. As she advanced  the refreshing breeze moved her flowing robe, showed  the exquisite shape which it seemed intended to conceal.  With eyes cast down, though sometimes opening with a  timid but tender look, she approached them, and with a  low enchanting voice desired to be admitted to the sacrifice.  The devotees gazed on her with astonishment. The  sun appeared, but the purifications were forgotten;  the things of the Poojah (worship) lay neglected; nor  was any worship thought of but that of her. Quitting the  gravity of their manners, they gathered round her as  flies round the lamp at night—attracted by its splendour,  but consumed by its flame. They asked from whence  she came; whither she was going. ‘ Be not offended  with us for approaching thee, forgive us our importunities.  But thou art incapable of anger, thou who art made to  convey bliss ; to thee, who mayest kill by indifference,  indignation and resentment are unknown. But whoever  thou mayest be, whatever motive or accident might have  brought thee amongst us, admit us into the number of  thy slaves; let us at least have the comfort to behold  thee.’ Here the words faltered on the lip, and the soul  seemed ready to take its flight; the vow was forgotten,  and the policy of years destroyed.   “ Whilst the devotees were lost in their passions, and  absent from their homes, Sheevah entered their village  with a musical instrument in his hand, playing and singing  like some of those who solicit charity. At the sound of his  voice, the women immediately quitted their occupation;  they ran to see from whom it came. He was as beautiful  as Krishen on the plains of Matra. Some dropped their  jewels without turning to look for them ; others let  fall their garments without perceiving that they discovered  those abodes of pleasure which jealousy as well as decency had ordered to be concealed. All pressed forward with  their offerings, all wished to speak, all wished to be taken  notice of, and bringing flowers and scattering them before  him, said—‘ Askest thou alms ! thou who are made to  govern hearts. Thou whose countenance is as fresh as  the morning, whose voice is the voice of pleasure, and  they breath like that of Vassant (Spring) in the opening of  the rose! Stay with us and we will serve thee; not  will we trouble thy repose, but only be zealous how to  please thee.’ The Pandaram continued to play, and sung  the loves of Kama (God of Love), of Krishen and the  Gopia, and smiling the gentle smiles of fond desire. . . .   “ But the desire of repose succeeds the waste of pleasure.  Sleep closed the eyes and lulled the senses. In the  morning the Pandaram was gone. When they awoke  they looked round with astonishment, and again cast  their eyes on the ground. Some directed to those who  had formerly been remarked for their scrupulous manners,  but their faces were covered with their veils. After  sitting awhile in silence they arose and went back to their  houses, with slow and troubled steps. The devotees  returned about the same time from their wanderings after  Prakeety. The days that followed were days of embarrass¬  ment and shame. If the women had failed in their  modesty, the devotees had broken their vows. They  were vexed at their weakness, they were sorry for what  they had done; yet the tender sigh sometimes broke  forth, and the eyes often turned to where the men first  saw the maid—the women, the Pandaram.   “ But the women began to perceive that what the  devotees foretold came not to pass. Their disciples,  in consequence, neglected to attend them, and the offerings  from the princes and nobles became less frequent than    Phallic Worship    57    before. They then performed various penances; they  sought for secret places among the woods unfrequented  by man; and having at last shut their eyes from the  things of this world, retired within themselves in deep  meditation, that Sheevah was the author of their  misfortunes. Their understanding being imperfect,  instead of bowing the head with humility, they were  inflamed with anger; instead of contrition for their  hypocrisy, they sought for vengeance. They performed  new sacrifices and incantations, which were only allowed  to have effect in the end, to show the extreme folly of  man in not submitting to the will of heaven.   “ Their incantations produced a tiger, whose mouth  was like a cavern and his voice like thunder among the  mountains. They sent him against Sheevah, who with  Prakeety was amusing himself in the vale. He smiled  at their weakness, and killing the tiger at one blow with  his club, he covered himself with his skin. Seeing them¬  selves frustrated in this attempt, the devotees had recourse  to another, and sent serpents against him of the most  deadly kind; but on approaching him they became  harmless, and he twisted them round his neck. They  then sent their curses and imprecations against him, but  they all recoiled upon themselves. Not yet disheartened  by all these disappointments, they collected all their  prayers, their penances, their charities, and other good  works, the most acceptable sacrifices ; and demanding  in return only vengeance against Sheevah, they sent a  fire to destroy his genital parts. Sheevah, incensed at  this attempt, turned the fire witti indignation against the  human race; and mankind would soon have been  destroyed, had not Vishnu, alarmed at the danger,  implored him to suspend his wrath. At his entreaties Sheevah relented ; but it was ordained that in his temples  those parts should be worshipped, which the false doctrines  had impiously attempted to destroy.”    THE CROSS AND ROSARY   The key which is still worn with the Priapic hand, as an  amulet, by the women of Italy appears to have been an  emblem of the equivocal use of the name, as the language  of that country implies. Of the same kind, too, appears to  have been the cross in the form of the letter tau, attached  to a circle, which many of the figures of Egyptian deities,  both male and female, carry in their left hand ; and by the  Syrians, Phoenicians and other inhabitants of Asia,  representing the planet Venus, worshipped by them as the  emblem or image of that goddess. The cross in this  form is sometimes observable on coins, and several of  them were found in a temple of Serapis, demolished at the  general destruction of those edifices by the Emperor  Theodosius, and were said by the Christian antiquaries  of that time to signify the future life. In solemn sacrifices,  all the Lapland idols were marked with it from the blood  of the victims ; and it occurs on many Runic ornaments  found in Sweden and Denmark, which are of an age  long anterior to the approach of Christianity to those  countries, and probably to its appearance in the world.  On some of the early coins of the Phoenicians, we find it  attached to a chaplet of beads placed in a circle, so as to  form a complete rosary, such as the Lamas of Thibet  and China, the Hindus, and the Roman Catholics now  tell over while they pray.     Phallic Worship    59    BEADS   Beads were anciently used to reckon time, and a circle,  being a line without termination, was the natural emblem  of its perpetual continuity ; whence we often find circles  of beads upon the heads of deities, and enclosing the  sacred symbols upon coins and other monuments.  Perforated beads are also frequently found in tombs, both  in the northern and southern parts of Europe and Asia,  whence are fragments of the chaplets of consecration  buried with the deceased. The simple diadem, or fillet,  worn round the head as a mark of sovereignty, had a  similar meaning, and was originally confined to the statues  of deities and deified personages, as we find it upon the  most ancient coins. Chryses, the priest of Apollo, in  the “ Iliad,” brings the diadem, or sacred fillet, of the  god upon his sceptre, as the most imposing and invocable  emblem of sanctity ; but no mention is made of its being  worn by kings in either of the Homeric poems, nor of any  other ensign of temporal power and command, except the  royal staff or sceptre.    THE LOTUS   The double sex typified by the Argha and its contents is  by the Hindus represented by the “ Mymphoea ” or  Lotus, floating like a boat on the boundless ocean, where  the whole plant signifies both the earth and the two  principles of its fecundation. The germ is both Meru and  the Linga; the petals and filaments are the mountains  which encircle Meru, and are also a type of the Yoni;  the leaves of the calyx are the four vast regions to the  cardinal points of Meru ; and the leaves of the plant are  the Dwipas or isles round the land of Jambu. As this  plant or lily was probably the most celebrated of all the  vegetable creation among the mystics of the ancient world,  and is to be found in thousands of the most beautiful and  sacred paintings of the Christians of this day—I detain  my reader with a few observations respecting it. This is  the more necessary as it appears that the priests have now  lost the meaning of it; at least this is the case with everyone  of whom I have made enquiry ; but it is like many other  very odd things, probably understood in the Vatican,  or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that among the  different plants which ornament our globe, there is not  one which has received so much honour from man as  the Lotus or Lily, in whose consecrated bosom Brahma  was born, and Osiris delighted to float. This is the  sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in  oriental mythology, and in truth not without reason, for it  is itself a lovely prodigy. Throughout all the northern  hemispheres it was everywhere held in profound  veneration, and from Savary we learn that the veneration  is yet continued among the modern Egyptians. And  we find that it still continues to receive the respect if  not the adoration of a great part of the Christian world,  unconscious, perhaps, of the original reason of this  conduct. Higgins's Anacalypsis.   The following is an account given of it by Payne  Knight, in his curious dissertation on Phallic Worship :—  “ The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This plant  grows in the water, among its broad leaves puts forth  a flower, in the centre of which is formed the seed vessel. shaped like a bell or inverted cone, and perforated on the  top with little cavities or cells, in which the seeds grow.  The orifices of these cells being too small to let the seeds  drop out when ripe, they shoot forth into new plants in  the places where tney are formed : the bulb of the vessel  serving as a matrix to nourish them, until they acquire  such a degree of magnitude as to burst it open and release  themselves, after which, likfe other aquatic weeds, they  take root wherever the current deposits them. This  plant, therefore, being thus productive of itself, and  vegetating from its own matrix, without being fostered  in the earth, was naturally adopted as the symbol of the  productive power of the waters, upon which the active  spirit of the Creator operated in giving life and vegetation,  to matter. We accordingly find it employed in every  part of the northern hemisphere, where the symbolical  religion, improperly called idolatry , does or ever did prevail.  The sacred images of rhe Tartars, Japanese, and Indians  are almost placed upon it, of which numerous instances  occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat, etc.  The Brahma of India is represented as sitting upon his  Lotus throne, and the figure upon the Isaaic table holds the  stem of this plant surmounted by the seed vessel in one  hand, and the Cross representing the male organs of  generation in the other; thus signifying the universal  power, both active and passive, attributed to that goddess.”   Nimrod says :—“ The Lotus is a well-known allegory,  of which the expansive calyx represents the ship of the  gods floating on the surface of the water ; and the erect  flower arising out of it, the mast thereof. The one was  the galley or cockboat, and the other the mast of cockayne ;  but as the ship was Isis or Magna Mater, the female  principle, and the mast in it the male deity, these parts of  the flower came to have certain other significations, which  seem to have been as well known at Samosata as at Benares.  This plant was also used in the sacred offices of the Jewish  religion. In the ornaments of the temple of Solomon,  the Lotus or lily is often seen.”   The figure of Isis is frequently represented holding the  stem of the plant in one hand, and the cross and circle  in the other. Columns and capitals resembling the  plant are still existing among the ruins of Thebes, in  Egypt, and the island of Pbilce. The Chinese goddess,  Pussa, is represented sitting upon the Lotus, called in  that country Lin, with many arms, having symbols  signifying the various operations of nature, while similar  attributes are expressed in the Scandinavian goddess  Isa or Disa.   The Lotus is also a prominent symbol in Hindu and  Egyptian cosmogony. This plant appears to have the  same tendency with the Sphinx, of marking the connection  between that which produces and that which is produced.  The Egyptian Ceres (Virgo) bears in her hand the blue  Lotus, which plant is acknowledged to be the emblem of  celestial love so frequently seen mounted on the back of  Leo in the ancient remains. The following is a translation  of the Purana relating to the cosmogony of the Hindus,  and will be found interesting as showing the importance  attached to the Lotus in the worship of the ancients :—  “ We find Brahma emerging from the Lotus. The whole  universe was dark and covered with water. On this  primeval water did Bhagavat (God), in a masculine  form, repose for the space of one Calpho (a thousand  years); after which period the intention of creating  other beings for his own wise purposes became pre¬  dominant in the mind of the Great Creator . In the first    Phallic Worship    63    place, by his sovereign will was produced the flower  of the Lotus, afterwards, by the same will, was brought  to light the form of Brahma from the said flower ; Brahma,  emerging from the cup of the Lotus, looked round on all  the four sides, and beheld from the eyes of his four heads  an immeasurable expanse of water. Observing the whole  world thus involved in darkness and submerged in water,  he was stricken with prodigious amazement, and began  to consider with himself, £ Who is it that produced me ? ’  * whence came I ? ’ ‘ and where am I ? *   “ Brahma, thus kept two hundred years in contem¬  plation, prayers, and devotions, and having pondered in  his mind that without connection of male and female an  abundant generation could not be effected—again entered  into profound meditation on the power of the Supreme,  when, on a sudden by the omnipotence of God, was  produced from his right side Swayambhuvah Menu , a man  of perfect beauty; and from the Brahma’s left side a  woman named Satarupa. The prayer of Brahma runs  thus :—‘ O Bhagavat! since thou broughtest me from  nonentity into existence for a particular purpose,  accomplish by thy benevolence that purpose.’ In a  short time a small white boar appeared, which soon  grew to the size of an elephant. He now felt God in all,  and that all is from Him, and all in Him. At length the  power of the Omnipotent had assumed the body of Vara.  He began to use the instinct of that animal. Having  divided the water, he saw the earth a mighty barren  stratum. He then took up the mighty ponderous globe  (freed from the water) and spread the earth like a carpet  on the face of the water; Brahma, contemplating the  whole earth, performed due reverence, and rejoicing  exceedingly, began to consider the means of peopling the renovated world.” Pjag, now Allahabad, was the  first land said to have appeared, but with the Brahmins  it is a disputed point, for many affirm that Cast or Benares  was the sacred ground.    MERU   The learned Higgins, an English judge, who for some  years spent ten hours a day in antiquarian studies, says  that Moriah, of Isaiah and Abraham, is the Meru of the  Hindus, and the Olympus of the Greeks. Solomon  built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus, which  because mounts of Venus, mans veneris —Meru and Mount  Calvary—each a slightly skull-shaped mount, that might  be represented by a bare head. The Bible translators  perpetuate the same idea in the word “ calvaria.” Prof.  Stanley denies that “ Mount Calvary ” took its name  from its being the place of the crucifixion of Jesus.  Looking elsewhere and in earlier times for the bare calvaria,  we find among Oriental women, the Mount of Venus,  mons veneris , through motives of neatness or religious  sentiment, deprived of all hirsute appendage. We see  Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of  a priest. The priests of China, says Mr. J. M. Peebles,  continue to shave the head. To make a place holy,  among the Hindus, Tartars, and people of Thibet, it  was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni,  or Arba. This marvellous work of excavation by the slow process  of the chisel, was visited by Capt. Seeley, who afterwards  published a volume describing the temple and its vast  statues. The beauty of its architectural ornaments, the  innumerable statues or emblems, all hewn out of solid  rock, dispute with the Pyramids for the first place among  the works undertaken to display power and embody  feeling. The stupendous temple is detached from the  neighbouring mountain by a spacious area all round, and  is nearly 2 5 o feet deep and 15 o feet broad, reaching to the  height of 100 feet and in length about 145 feet. It has  well-formed doorways, windows, staircases, upper floors,  containing fine large rooms of a smooth and polished  surface, regularly divided by rows of pillars ; the whole  bulk of this immense block of isolated excavation being  upwards of 500 feet in circumference, and having beyond  its areas three handsome figure galleries or verandas  supported by regular pillars. Outside the temple are  two large obelisks or phalli standing, “ of quadrangular  form, eleven feet square, prettily and variously carved, and  are estimated at forty-one feet high; the shaft above the  pedestal is seven feet two inches, being larger at the base  than Cleopatra’s Needle.”   In one oi the smaller temples was an image of Lingam,  “ covered with oil and red ochre, and flowers were daily  strewed on its circular top. This Lingam is larger than  usual, occupying with the altar, a great part of the room.  In most Ling rooms a sufficient space is left for the votaries  to walk round whilst making the usual invocations to the  deity (Maha Deo). This deity is much frequented by  female votaries, who take especial care to keep it clean washed, and often perfume it with oderiferous oils and  flowers, whilst the attendant Brahmins sweep the apartment  and attend the five oil lights and bell ringing.” This oil  vessel resembled the Yoni (circular frame), into which the  light itself was placed. No symbol was more venerated  or more frequently met with than the altar and Ling, Siva,  or Maha Deo. “ Barren women constantly resort to it to  supplicate for children,” says Seeley. The mysteries  attended upon them is not described, but doubtless they  were of a very similar character to those described by the  author of the “ Worship of the Generative Powers of  the Western Nations,” showing again the similarity of  the custom with those practised by the Catholics in France.  The writer says :—“ Women sought a remedy for barren¬  ness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they  appear to have placed a part of their body, naked, against  the image of the saint, or to have sat upon it. This latter  trait was perhaps too bold an adoption of the indecencies  of Pagan worship to last long, or to be practised openly ;  but it appears to have been innocently represented by  lying upon the body of the saint, or sitting upon a stone,  understood to represent him without the presence of the  energetic member. In a corner in the church of the  village of St. Fiacre, near Monceaux, in France, there is a  stone called the chair of St. Fiacre, which confers fecundity  upon women who sit upon it; but it is necessary nothing  should intervene between their bare skin and the stone.  In the church of Orcival in Auvergne, there was a pillar  which barren women kissed for the same purpose and  which had perhaps replaced some less equivocal object.”   The principal object of worship at Elora is the stone, so  frequently spoken of ; “ the Lingam,” says Seeley, and he  apologises for using the word so often, but asks to be excused, “ is an emblem not generally known, but as  frequently met with as the Cross in Catholic worship.”  It is the god Siva, a symbol of his generative character,  the base of which is usually inserted in the Yoni. The  stone is of a conical shape, often black stone, covered  with flowers (the Bella and Asuca shrubs). The flowers  hang pendant from the crown of the Ling stone to the  spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the same  as the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly  used in the worship at the symbol, or one lamp with five  wicks. The Lotus is often seen on the top of the Ling. The characteristic attribute of the passive generative  power was expressed in symbolical writing, by different  enigmatical representations of the most distinguished  characteristic of the female sex: such as the shell or  Concha Veneris , the fig-leaf, barley corn, and the letter  Delta, all of which occur very frequently upon coins and  other ancient monuments in this sense. The same  attribute personified as the goddess of Love, or desire,  is usually represented under the voluptuous form of a  beautiful woman, frequently distinguished by one of these  symbols, and called Venus, Kypris, or Aphrodite, names  of rather uncertain mythology. She is said to be the  daughter of Jupiter and Dione, that is of the male and  female personifications of the all-pervading Spirit of the  Universe ; Dione being the female Dis or Zeus, and there¬  fore associated with him in the most ancient oraculai   temple of Greece at Dodona. No other genealogy appears  to have been known in the Homeric times ; though a  different one is employed to account for the name of  Aphrodite in the “ Theogony ” attributed to Hesiod.   The Genelullides or Genoidai were the original and  appropriate ministers or companions of Venus, who was  however, afterwards attended by the Graces, the proper  and original attendants of Juno; but as both these  goddesses were occasionally united and represented in  one image, the personifications of their respective sub¬  ordinate attributes were on other occasions added:  whence the symbolical statue of Venus at Paphos had a  beard, and other appearances of virility, which seems to  have been the most ancient mode of representing the  celestial as distinguished from the popular goddess of that  name—the one being a personification of a general  procreative power, and the other only of animal desire or  concupiscence. The refinement of Grecian art, however,  when advanced to maturity, contrived more elegant  modes of distinguishing them ; and, in a celebrated work  of Phidias, we find the former represented with her foot  upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of Scopas,  the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an  androgynous animal, was aptly chosen as a symbol of  the double power ; and the goat was equally appropriate  to what was meant to be expressed in the other.   The same attribute was on other occasions signified by a  dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the  polypus, which often appears upon coins with the head  of the goddess, and which was accounted an aphrodisiac,  though it is likewise of the androgynous class. The fig  was a still more common symbol, the statue of Priapus  being made of the tree, and the fruit being carried with the    Phallic Worship    69    Phallus in the ancient processions in honour of Bacchus,  and still continuing among the common people of Italy  to be an emblem of what it anciently meant: whence  we often see portraits of persons of that country painted  with it in one hand, to signify their orthodox elevation to  the fair sex. Hence, also arose the Italian expression far la  fica , which was done by putting the thumb between the  middle and fore-fingers, as it appears in many Priapic orna¬  ments extant; or by putting the finger or thumb into the  corner of the mouth and drawing it down, of which there  is a representation in a small Priapic figure of exquisite  sculpture, engraved among the Antiquities of Herculaneum. The same liberal and humane spirit still prevails among  those nations whose religion is founded on the same  principles. “ The Siamese,” says a traveller of the  seventeenth century, “ shun disputes and believe that  almost all religions are good ” (“ Journal du Voyage de  Siam ”). When the ambassador of Louis XIV asked their  king, in his master’s name, to embrace Christianity, he  replied, “ that it was strange that the king of France  should interest himself so much in an affair which concerns  only God, whilst He, whom it did concern, seemed to  leave it wholly to our discretion. Had it been agreeable  to the Creator that all nations should have had the same  form of worship, would it not have been as easy to His  omnipotence to have created all men with the same sentiments and dispositions, and to have inspired them with the  same notions of the True Religion, as to endow them with  such different tempers and inclinations ? Ought they  not rather to believe that the true God has as much pleasure  in being honoured by a variety of forms and ceremonies,  as in being praised and glorified by a number of different  creatures ? Or why should that beauty and variety,  so admirable in the natural order of things, be less  admirable or less worthy of the wisdom of God in the  supernatural ? ”   The Hindus profess exactly the same opinion. “ They  would readily admit the truth of the Gospel,” says a very  learned writer long resident among them, “ but they  contend that it is perfectly consistent with their Shastras.  The Deity, they say, has appeared innumerable times in  many parts of this world and in all worlds, for the salvation  of his creatures ; and we adore, they say, the same God, to  whom our several worships, though different in form, are  equally acceptable if they be sincere in substance.”   The Chinese sacrifice to the spirits of the air the  mountains and the rivers ; while the Emperor himself  sacrifices to the sovereign Lord of Heaven, to whom all  these spirits are subordinate, and from whom they are  derived. The sectaries of Fohi have, indeed, surcharged  this primitive elementary worship with some of the  allegorical fables of their neighbours ; but still as their  creed—like that of the Greeks and Romans—remains  undefined, it admits of no dogmatical theology, and of  course no persecution for opinion. Obscure and  sanguinary rites have, indeed, been wisely prescribed on  many occasions ; but still as actions and not as opinions.  Atheism is said to have been punished with death at  Athens ; but nevertheless it may be reasonably doubted  whether the atheism, against which the citizens of that  republic expressed such fury, consisted in a denial of the  existence of the gods ; for Diagoras, who was obliged  to fly for this crime, was accused of revealing and calum¬  niating the doctrines taught in the Mysteries ; and from  the opinions ascribed to Socrates, there is reason to believe  that his offence was of the same kind, though he had not  been initiated.   These were the only two martyrs to religion among the  ancient Greeks, such as were punished for actively violating  or insulting the Mysteries, the only part of their worship  which seems to have possessed any vitality; for as to  the popular deities, they were publicly ridiculed and  censured with impunity by those who dared not utter a  word against the populace that worshipped them; and  as to the forms and ceremonies of devotion, they were  held to be no otherwise important, then as they were  constituted a part of civil government of the state; the  Phythian priestess having pronounced from the tripod,  that whoever performed the rites of his religion according to the  laws of his country, performed them in a manner pleasing to the  Deity. Hence the Romans made no alterations in the  religious institutions of any of the conquered countries ;  but allowed the inhabitants to be as absurd and extravagant  as they pleased, and to enforce their absurdities and  extravagances wherever they had any pre-existing laws  in their favour. An Egyptian magistrate would put  one of his fellow-subjects to death for killing a cat ora  monkey; and though the religious fanaticism of the  Jews was too sanguinary and too violent to be left entirely  free from restraint, a chief of the synagogue could order  anyone of his congregation to be whipped for neglecting  or violating any part of the Mosaic Ritual. The principle underlying the system of emanations  was, that all things were of one substance, from which they  were fashioned and into which they were again dissolved,  by the operation of one plastic spirit universally diffused  and expanded. The polytheist of ancient Greece and  Rome candidly thought, like the modern Hindu, that all  rites of worship and forms of devotion were directed  to the same end, though in different modes and through  different channels. “ Even they who worship other gods, says  Krishna, the incarnate Deity, in an ancient Indian poem  ( Bhagavat-Gita ), “worship me although they know it not ''—  Payne Knight.  Mario Cazzaniga. Gian Mario Cazzaniga. Keywords: rito di passage, solo una volta, l’iniziazione, massoneria, esoterismo, democrazia come sistema simbolico, sovranita, stato nazionale, conflitto, liberta, fraternita, iguaglianza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cazzaniga” – The Swimming-Pool Library. Cazzaniga.

 

Grice e Ceccato: l’implicatura conversazionale del plusquamperfectum --  implicatura imperfetta --  il perfetto filosofo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Montecchio Maggiore). Filosofo italiano. Grice: “I like Ceccato – like other Italian philosophers, he has an obsession with geometrical conjunctions  and my favoruite of his tracts is “La linea e la strischia’ – but he has also philosophised on other issues – notably on ‘cybernetics,’ where he purports to give a ‘mechanical explanation’ of language – he has also talked about the ‘mind,’ – ‘mente’ – an expression Italian philosophers hardly use as they see it as an Anglicism, preferring ‘anima,’ – “He has rather boldly philosophised on ‘eudaimonia,’ without taking into account J. L. Ackrill’s etymological findings – but then the Italians use ‘felicita’! – ‘the ingeneering of happiness’ – and also of the ‘fabrica del bello’ --. Grice: “How to, and how not to” “Are all ‘how not to’ ironic? Ceccato thinks not – he has philosophised on sophistry in ‘how NOT to philosophise’ – and he sees Socrates, who claims to be ‘imperfect,’ (i. e. ever unfinished), and echoing Shaw on Wagner, as the perfect philosophy – ‘il perfetto filosofo’!” Filosofo irregolare, dopo aver proposto una definizione del termine "filosofia" e un'analisi dello sviluppo storico di questa disciplina ha preferito prenderne le distanze e perseguire la costruzione di un'opzione alternativa, denominata inizialmente "metodologia operativa" e in seguito "cibernetica". Filosofo prolifico, ha numerosi saggi -- rendendosi noto in particolare nella cibernetica. Pur ottenendo notevole successo di pubblico con i suoi saggi, riscosse scarso successo nell’ambiene filosofico bolognese. Fu tra i primi in Italia ad interessarsi alla traduzione automatica di testi, settore in cui ha fornito importanti contributi. Sperimentò anche la relazione tra cibernetica e arte in collaborazione con il Gruppo V di Rimini.  Studioso della psicologia filosofica, intesa come l'insieme delle attività che l'uomo svolge per costituire i significati, memorizzarli ed esprimerli, ne propose un modello in termini di organo e funzione, scomponendo quest'ultima in fasi provvisoriamente elementari di un ipotetico organo, e nelle loro combinazioni in sequenze operazionali, in parte poi designate dalla espressione semplice e della espression complessa (frastico, frase) e del ‘codice’ utilizzato nel rapport sociale. Fondò ed animò la "Scuola Operativa Italiana", il cui patrimonio è tuttora oggetto di studio e ricerca. Studia Giurisprudenza, violoncello e composizione musicale. Fonda Methodos. Costrue “Adamo II”, un prototipo illustrativo della successione di attività proposte come costitutive dei costrutti (la lingua adamica) da lui chiamati "categorie" per analogia e in omaggio a Immanuele Kant. Insegna a Milano. Diresse il Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche a Milano. Incontró, durante una cena di gala, il Professore di Sistemi di controllo, a Pavia, Mella. Successivamente a questo incontro ispiratore decise di partecipare come attore nel film "32 dicembre" di Crescenzo, interpretandovi il ruolo del folle Cavalier Sanfilippo che si crede Socrate.  Un tecnico tra i filosofi, così intitolò il saggio apparso nelle Edizioni Marsilio di Padova, con i rispettivi sottotitoli: "Come filosofare" e "Come non filosofare”. Altre opere: “Il linguaggio con la Tabella di Ceccatieff”, Actualités Scientifiques et Industrielles, Éditions Hermann, Paris); Adamo II, Congresso Internazionale dell'Automatismo, Milano); “Un tecnico fra i filosofi, Marsilio, Padova); “Cibernetica per tutti, Feltrinelli, Milano); “Corso di linguistica operativa, Longanesi, Milano); “Il gioco del Teocono, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano); “L’anima vista da un cibernetico, ERI, Torino); “La terza cibernetica. Per una anima creativa e responsabile, Feltrinelli, Milano); “Miroglio, Ed.  Priuli&Verlucca, Ivrea); “Ingegneria della felicità” (Rizzoli, Milano); Il linguista inverosimile, Mursia, Milano); “Contentezza e intelligenza (Rizzoli); Mille tipi di bello” (Stampa alternativa, Viterbo); “C'era una volta la filosofia” (Spirali, Milano); Il maestro inverosimile” (Bompiani, Milano) (CL In Italia la Società di Cultura Metodologica Operativa a Milano, il Centro Internazionale di Didattica Operativa. l Gruppo Operazionista di Ricerca Logonica. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La cibernetica italiana della mente nella civiltà delle macchine. Origini e attualità della logonica attenzionale a partire da Ceccato, Mantova, Universitas Studiorum. PRIMI STUDI PER UN ATTEGGIAMENTO ESTETICO NELLE MACCHINE, di C.. LA TRADUZIONE NELL'UOMO E NELLO MACCHINA, by Silvio La Mecanizzizione delle Attivita...  L ' Anatomica methodus, di Andrés Laguna (1499 - 1560 ). Pisa, Giardini, C., comp: Corso di linguistica operativa. A cura di Silvio Ceccato. Centoventotto illustrazioni nel testo. Milano, Longanesi,  lllus. Language and Behavior (1946 ) was published in Italian translation in 1949, thanks to C. (cf. Petrilli). C., padre della cibernetica italiana, che in quegli anni stava mettendo a punto insieme a Enrico Maretti un prototipo di calcolatore “ intelligente ”, di cui si può leggere in una nota su “ La grammatica insegnata alle macchine. Studi in memoria di C. - Page 5books.google.com › books· Translate this page 1999 · ‎Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 5 In memoria di Silvio Ceccato Felice Accame Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, i giornali hanno dedicato pochi, imbarazzati e, a volte, imbarazzanti articoli alla figura di C.. Se qualcuno, tramite questi articoli... Silvio Ceccato's little volume Corso di linguistica operativa (Ceccato 1969 ) sits on a quiet shelf in Lauinger library, the work of a semantic pioneer. C.. C. (Civilta delle Macchine) This monograph presents a discussion of the problems encountered by members of the Italian Operational School in their attempts to develop techniques to be used in...  Foundations of Language, Page 171books.google.com › books 1965 · ‎Snippet view FOUND INSIDE .. with his hand, when he moves the pieces, he performs a manual, a physical activity. Foundations of Language. The two types of activity can be distinguished in a 171 C.. I use an operational approach to mental activity based on C.. TECNICA OPERATIVA " (Ceccato), one of the earliest approaches implemented on a computer (University of Milan). 2 - I look at the. Debbo la spinta a studiare processi di questo tipo alla ' tecnica operativa ' di C., di cui un primo abbozzo in Language with the Table of Ceccatieff. Paris: Herman & Cie. 1951. Die C. si verdano anche articoli in Methodos... C., the Italian pioneer in the analysis of mental operations and construction, told me that once, after a public discussion of his theory, he overheard a philosopher say: " If Ceccato were right, the rest of us would be fools ! C.'s group exploited semantic pattern matching using semantic categories and semantic case frames, and C.s approach (1967 ) also involved the use of world knowled.  It is the purpose of this paper to define and differentiate the  various uses of the imperfect indicative, to discover if possible  their origin and trace their interrelations, to outline in fact the  history of the tense in early Latin. The term ' early Latin ' is  used somewhat elastically as including not only all the remains of  the language down to about the time of Sulla, but also the first  volume of inscriptions (to 44 B. c.) and the works of Varro, for  Varro belongs distinctly to the older school of writers in spite  of the fact that the Rerum rusticarum libri were written as late  as 37 B. c. But exact chronological periods are of little meaning  in matters of this sort, and the present outline, being but a frag-  ment of a more complete history of the tense, may stop at this  point as well as another.   Before proceeding to the investigation of the cases of the  imperfect occurring in early Latin it is necessary to describe  briefly the system by which these cases have been classified. In  the first place all cases of the same verb have been placed together  so that the individual verb forms the basis of classification. 1 Then  verbs of similar meanings have been combined to form larger  groups. There result three main groups (and some subdivisions)  which for the better understanding of this paper may be tabulated  thus: Verbs of physical action or state. Motion of the whole of a body, e. g. eo, curro.   2. Action of a part of a body, e. g. do, iacio.Verbal communication, e. g. dico,promilto.   4. Rest or state, e. g. sum, sto, sedeo.   II. Verbs of psychic action or state.   1. Thought, e. g.puto, scio, spcro.   2. Feeling, e. g. metuo, atno.   3. Will, e. g. volo, nolo.   1 Cf. Trans. Am. Philolog. Ass., XXX, 1899, pp. 14-15. Auxiliary verbs, i. e. verbs which represent such English  words as could, should, might, &c, &c, e. g. possum, oportet, decet.   Such a system has, of course, many inconsistencies. The verb  ago, for instance, may be a verb of action (I. 2) or of verbal com-  munication (I. 3), but since instances of this sort were compara-  tively rare and affected no important groups of verbs it has seemed  best not to separate cases of the same verb.   Again I. 3 is logically a part of I. 2, or the verbs grouped under  III might perhaps have been distributed among the different  subdivisions of I and II. But the object of the classification, to  discover the function of each case, has seemed best attained by  grouping the verbs as described. By this system verbs of similar  meaning, whose tenses are therefore similarly affected, are  brought together and this is the essential point. In a very large  collection of cases a stricter subdivision would doubtless prove of  advantage.   2. The Facts 1 of Usage.   There are about 1400 cases of the imperfect indicative in the  period covered by this investigation. Of these, however, it has  been necessary to exclude 2 from 175 to 180 leaving 1226 from a  consideration of which the results have been obtained. The  tense appears, therefore, not to have been a favorite, and its  comparative infrequency which I have noted already for Plautus  and Terence 3 may here be asserted for the whole period of early  Latin. About three-quarters of the total number of cases are  supplied by Plautus, Terence, and Varro (see Table I).   A study of these 1226 cases reveals three general uses of the  imperfect indicative :   I. The progressive or true imperfect.   II. The aoristic imperfect.   III. The' shifted' imperfect.  Let us consider these in order.  In the following pages I have made an effort to state and illustrate the facts,  reserving theory and discussion for the third section of this paper. These are cases doubtful for one reason or another, chiefly because of  textual corruption or insufficient context. For the latter reason perhaps too  many cases have been excluded, but I have chosen to err in this direction since  so much of the material consists of fragments where one cannot feel absolutely  certain of the force of the tense.  Trans. Am. Philolog. Ass.. The true imperfect shows several subdivisions :   I A. The simple progressive imperfect.   I B. The imperfect of customary past action.   I C. The frequentative imperfect.   Of these I A and I B include several more or less distinct  variations, but all three uses together with their subdivisions  betray their relationship by the fact that all possess or are  immediately derived from the progressive ' function. This pro-  gressive idea, the indication of an act as progressing, going on,  taking place, in past time or the indication of a state as vivid, is  the true ear-mark of the tense. The time may be in the distant  past or at any point between that and the immediate past or it  may even in many contexts extend into the present. In duration  the time may be so short as to be inappreciable or it may extend  over years. The time is, however, not a distinguishing mark of  the imperfect. The perfect may be described in the same terms.   The kind of action * remains, therefore, the real criterion in the  distinction * of the imperfect from other past tenses. I A. The Simple Progressive Imperfect.   Under this heading are included all cases in which the tense  indicates simple progressive action, i. e. something in the 'doing',  ' being ', 4 &c. The idea of progression is present in all the cases,  but there are in other respects considerable differences according  to which some distinct varieties may be noted. All told there are  680 cases of this usage constituting more than half the total.   I I have chosen progressive as more expressive than durative which seems to  emphasize too much the time.   2 'Kind of action' will translate the convenient German Aktionsart while  ' time ' or ' period of time ' may stand for Zeitstufe.   % Herbig in his very interesting discussion, Aktionsart und Zeitstufe (I. F.  '896), comes to the conclusion that 'Aktionsart ' is older than ' Zeitstufe '  and that though many tenses are used timelessly none are used in living speech  without 'Aktionsart.' The progressive effect is also found in the present participle (and in parti-  cipial adjectives), and indeed the imperfect, especially in subordinate clauses,  is often interchangeable with a participial expression, falling naturally into  participial form in English also. How close the effect of the imperfect was  to that of the present participle is well illustrated by Terence, Heaut. 293-4  nebat . . . texebat and 285 texentem . . . offendimus. Cf. Varro R. R. Ill, 2. 2  cited on p. 167. Of these 449 are syntactically independent, 231 dependent. 1 In  its ordinary form this usage is so well understood that we may  content ourselves with a few illustrations extending over the  different groups of verbs.  I.i. Verbs of motion.  Plautus, 2 Aul. 178, Praesagibat mi animus frustra me ire,  quom exibam domo.   1 With the principles of formal description as last and best expressed by  Morris (On Principles and Methods of Syntax, 1901, pp. 197-8) all syntacticians  will, I believe, agree. Nearly all of them will be found well illustrated in the  present paper. For purposes of tense study, however, I have been unable to  see any essential modification in function resulting from variation of person  and number, although some uses have become almost idiomatic in certain  persons, e. g. the immediate past usage with first person sing, of verbs of  motion (p. 15). Just how far tense function is affected by the kind of sentence  in which the tense stands I am not prepared to say. In cases accompanied by  a negative or standing in an interrogative sentence the tense function is more  difficult to define than in simple affirmative sentences. It is easier also to  define the tense function in some forms of dependent clauses, e. g. temporal,  causal, than in others. This is an interesting phenomenon, needing for its  solution a larger and more varied collection of cases than mine. At present  I do not feel that the influence upon the tense of any of these elements is  definite enough to call for greater complexity in the system of classification.  While, therefore, I have borne these points constantly in mind, the tables  show the results rather than the complete method of my work in this respect.   ' In the citation of cases the following editions are used:   Fragments of the dramatists, O. Ribbeck, Scaenicae Romanorum poesis  fragmenta (I & II), Lipsiae -8 (third edition).   Plautus, Goetz and Schoell, T. Macci Plauti comoediae (editio minor), Lipsiae, Terence, Dziatzko, P. Terenti Afri comoediae, Lipsiae Orators, H. Meyer, Oratorum romanorum fragmenta, Turici.   Historians, C. Peter, Historicorum Romanorum fragmenta, Lipsiae.   Cato, H. Keil, M. Porci Catonis de agricultura liber, Lipsiae, and H.  Jordan, M. Catonis praeter lib. de re rustica quae extant, Lipsiae i860.   Lucilius, L. Mueller, Leipsic, Auctor ad Herennium, C. L. Kayser, Cornifici rhetoricorum ad C. Herenium libri tres, Lipsiae.   Inscriptions, Th. Mommsen, C. I. L. I.   Ennius (the Annals), L. Mueller, Q. Enni carminum reliquiae, Petropoli.   Naevius (Bell, poen.), L. Mueller, Q. Enni carminum reliquiae, Petropoli.   Varro, H. Keil, M. Terenti Varronis rerum rusticarum libri tres, Lipsiae 1883.   Varro, A. Spengel, M. Terenti Varronis de lingua latina, Berolini 1885.   Varro, BUcheler, M. Terenti Varronis saturarum Menippearum reliquiae,  Lipsiae.      Id. Amph. 199, Nam quom pugnabant maxume, ego turn   fugiebam maxume.  Lucilius, Sat., XVI. 12, l ibat forte aries' inquit;  I. 2. Verbs of action.  Ex incertis incertorum fabulis (comoed. pall.) p. 137, XXIV.  R., sed sibi cum tetulit coronam ob coligandas nuptias,  T\b\ ferebat; cum simulabat se sibi alacriter dare,  Turn ad te ludibunda docte et delicate detulit.  Plautus, True. 198 atque opperimino : iam exibit, nam   lavabat.  Cf. id. Men. 564 (ferebam), Mil. 1336 (temptabam), Epid.  138 (mittebam); Terence, Andr. 545 (dabam); Auctor ad  Herenn. 4, 20, 27 (oppetebat).  I. 3. Verbal communication.   Plautus, Men, Quin modo   Erupui, homines qui ferebant te. Apud hasce aedis. tu clamabas deum fidem,  Ex incert. incert. &c. 282. XXXII. R., Vidi te, Ulixes saxo  sternentem Hectora,  Vidi tegentem clipeo classem Doricam :  Ego tunc pudendam trepidus hortabar fugam.   I. 4. State.   Plautus, Aul. 376, Atque eo fuerunt cariora, aes non erat.  Id. Mil. 181, Sed Philocomasium hicine etiam nunc est? Pe.   Quom exibam, hie erat.  Varro, R. R. III. 2. 2., ibi Appium Claudium augurem   sedentem invenimus . . . sedebat ad sinistram ei Cornelius   Merula . . .  Cf. also Plautus, Rud. 846, (sedebanf), Amph. 603 (stabam)   &c. &c.   II. 1. Verbs of thought.   Hist. frag. p. 70, 1. 7, Et turn quo irent nesciebani, ilico   manserunt.  Plautus, Pseud. 500-1, Non a me scibas pistrinum in mundo   tibi,  Quom ea muss[c]itabas ? Ps. Scibam.  Cf. also Plautus, Rud. 1 186 ,(credebam); Varro R. R. I. 2. 25.  (ignorabat), &c.  II. 2. Feeling.  Plautus, Epid. 138, Desipiebam mentis, quom ilia scripta   mittebam tibi.     Id. Bacch. 683, Bacchidem atque hunc suspicabar propter  crimen, Chrysale,   II. 3. Will.   Lucilius, Sat. incert. 48, fingere praeterea adferri quod quis-  que volebat:   In these cases the act or state indicated by the tense is always  viewed as at some considerable distance in the past even though  in reality it may be distant by only a few seconds. The speaker  or writer stands aloof, so to speak, and views the event as at some  distance and as confined within certain fairly definite limits in the  past. If, now, the action be conceived as extending to the im-  mediate past or the present of the speaker, a different effect is  produced, although merely the limits within which the action  progresses have been extended. This phase of the progressive  imperfect we might term the imperfect of the immediate past 1 or  the interrupted 2 imperfect, since the action of the verb is often  interrupted either by accomplishment or by some other event.  A few citations will make these points clearer :   Plautus, Stich. 328, ego quid me velles visebam.   Nam mequidem harum miserebat. — '\ was coming to see  what you wanted of me (when I met you) ; for I've been pitying  (and still pity) these women.' In the first verb the action is  interrupted by the meeting ; in the second it continues into the  present, the closest translation being our English compound pro-  gressive perfect, a tense which Latin lacked. The imperfect ibam  is very common in this usage, cf. Plautus, True. 921, At ego ad  te ibam = l was on my way to see you (when you called me),  cf. Varro, R. R. II. 11. 12; Terence, Phorm. 900, Andr. 580.   But the usage is by no means confined to verbs of motion  (I. 1) alone. It extends over all the categories:   I. 2. Motion.  Plautus, Aulul. 827 (apparabas), cf. Andr. 656.   1 In Greek the aorist is used of events just past, but of course with no pro-  gressive coloring, cf. Brugmann in I. Miiller's Handbuch, &c. E. Rodenbusch, De temporum usu Plautino quaest. selectae, Argentorati  1888, pp. n-12, recognizes and correctly explains this usage, adding some  examples of similar thoughts expressed by the present, e. g. Plautus, Men. 280  (quaeris), ibid. 675 (quaerit), Amph. 542 (numquid vis, a common leave-taking  formula). In such cases the speaker uses imperfect or present according as  past or present predominates in his mind, the balance between the two being  pretty even. Verbal communication.  Terence, Eun. 378 (iocabar), Heaut. 781 (dicebam) ; Plautus,  Trin. 212 (aibanf).   I. 4. Rest.   Plautus, Cas. 532 (eratn), cf. Men. n 35. Terence, Eun. 87  (stabam), Phorm. 573 {cotnmorabar).   II. 1. Thought.   Terence, Phorm. 582 (scibam), cf. Heaut. 309. Plautus,  Men. 1072 (censebam), cf. Bacch. 342, As. 385 &c.  II. 2. Feeling.   Plautus, Stich. 329 (miserebaf) ; Turpilius, 107 V R.  (sperabam).   II. 3. Will.   Plautus, As. 392 and 395 (volebatn), Most. 9, Poen. 1231. 1   III. Auxiliary verbs.   Plautus, Epid. 98 (so/ebam), cf. Amph. 711. Terence, Phor-  mio 52 (conabar).  In this usage the present or immediate past is in the speaker's  mind only less strongly than the point in the past at which the  verb's action begins. The pervading influence of the present  is evident not only because present events are usually at hand in  the context, but also from the occasional use with the imperfect  of a temporal particle or expression of the present, cf. Plaut.  Merc. 884, Quo nunc ibas = ' whither were you (are you) going ? '  Terence, Andr. 657, immo etiam, quom tu minus scis aerumnas   meas,  Haec nuptiae non adparabanfur mihi,   ' Rodenbusch (p. 26) labors hard to show that this case is like the preceding  and not parallel with the cases of volui which he cites on p. 24 with all  of which an infinitive of the verb in the main clause is either expressed or to  be supplied. Following Bothe, he alters deicere to dice (which he assigns to  Adelphasium) and refers quod to the amabo and amflexabor of I230 = 'meine  Absicht'. But there is no need of this. Infinitives occur with some of the  cases cited by Rodenbusch himself on p. II, e. g. Bacch. 188 (189) Istuc volebatn  . . . fercontarier, Trin. 195 Istuc voUbam scire, to which may be added Cas. 674  Dicere vilicum volebatn and ibid. 702 illud . . . dicere volebatn. It is true that the  perfect is more common in such passages, but the imperfect is by no means  excluded. The difference is simply one of the speaker's point of view: quod  volui = ' what I wished * (complete) ; quod valebant = ' what I was and am  wishing ' (incomplete). As. 212, which also troubles Rodenbusch, is customary  past.   Nee postulabat nunc quisquam uxorem dare.   Merc. 197, Equidem me tarn censebam esse in terra atque in   tuto loco :  Verum video . . .   In the last two cases note the accompanying presents, set's and  video.   The immediate past also is indicated by a particle, e. g. Plautus,  Cas. 594 ad te hercle ibam commodum.   There are in all 207 l cases of this imperfect of the immediate  past. They are distributed pretty evenly over the various groups  of verbs as will be seen from the following table: No. of Cases. I. I    Verbs of motion,    26  I. 2  it  " action,  17  I.  3 (i   "verbal communication, 31 I. 4   state, 35 II.  1 it " thought,    36 II. 2 " " feeling,  35  II. 3 " " will,    13  Auxiliary verbs, The verbs proportionately most common in this use are ibam  and volebam which have become idiomatic. The usage is  especially common in colloquial Latin, but 16 cases 5 occurring  outside the dramatic literature represented chiefly, of course, by  Plautus and Terence.   By virtue of its progressive force the imperfect is a vivid tense  and as is well known, became a favorite means in the Ciceronian  period of enlivening descriptive passages. It was especially used  to fill in the details and particulars of a picture (imperfect of situa-  tion). 8 This use of the tense appears in early Latin also, but with  much less frequency. The choice of the tense for this purpose  is a matter of art, whether conscious or unconscious. At times,  indeed, there is no apparent reason for the selection of an imper-  fect rather than a perfect except that the former is more graphic,   1 Somewhat less than one-third of the total (680) progressive cases.   5 These cases are Ennius, Ann. 204, C. I. L. I. 201. 1 1 (3 cases), Varro, L.  L. 5. 9 (1 case), and Auctor ad Herenn. 1. 1. 1 (2 cases), 1. 10. 16, 2. 1. 2, 2. 2.  2 (2 cases), 3. 1. 1 (2 cases), 4. 34. 46, 4. 36. 48, 4. 37. 49. All of these are in  passages of colloquial coloring, either in speeches or, especially those in auctor  ad Herenn., in epistolary passages.   3 I use this term for all phases of the tense used for graphic purposes.  and if it were possible to separate in every instance these cases  from those in which the imperfect may be said to have been  required, we should have a criterion by which we might dis-  tinguish this use of the imperfect from others. But since the  progressive function of the tense is not altered, such a distinction  is not necessary.   Statistics as to the frequency of the imperfect of situation in  early Latin are worth little because the chief remains of the  language of that period are the dramatists in whom naturally the  present is more important than the past. The historians, to whom  we should look for the best illustrations of this usage, are for the  most part preserved to us in brief fragments. Nevertheless an  examination of the comparatively few descriptive passages in  early Latin reveals several points of interest.   In Plautus and Terence the imperfect was not a favorite tense  in descriptions. Bacch. 258-307, a long descriptive passage of  nearly 50 lines, interrupted by unimportant questions, shows only  4 imperfects (1 aoristic) amid over 40 perfects, historical presents,  &c. Capt. 497-5151 Amph. 203-261, Bacch. 947-970, show but  one case each. Stich. 539-554 shows 5 cases of erat. In Epid.  207-253 there are 10 cases.   In the descriptive passages of Terence the imperfect is still far  from being a favorite tense, though relatively more common than  in Plautus, cf. Andr. 48 ff., 74-102, Phorm. 65-135 (containing 11  imperfects). But Eunuch. 564-608 has only 4 and Heaut. 96-150  only 3.   Another very instructive passage is the well-known description  by Q. Claudius Quadrigarius of the combat between Manlius and  a Gaul (Peter, Hist. rom. fragg., p. 137, 10b). In this passage  of 28 lines there are but 2 imperfects. The very similar passage  describing the combat between Valerius and a Gaul and cited by  Gellius (IX, n) probably from the same Quadrigarius contains  8 imperfects in 24 lines. Since Gellius is obviously retelling the  second story, the presumption is that the passage in its original  form was similar in the matter of tenses to the passage about  Manlius. In other words Gellius has 'edited' the story of  Valerius, and one of his improvements consists in enlivening the  tenses a bit. He describes the Manlius passage thus : Q. Claudius  primo annalium purissime atque illustrissime simplicique et  incompta orationis antiquae suavitate descripsit. This simplex  et incompta suavitas is due in large measure to the fact that   Quadrigarius has used the simple perfect (19 times), varying it  with but few (4) presents and imperfects (2). A closer com-  parison of the passage with the story of Valerius reveals the  difference still more clearly. Quadrigarius uses (not counting  subordinate clauses) 19 perfects, 4 presents, 2 imperfects ; Gellius,  4 perfects, 9 presents, 8 imperfects. In several instances the  same act is expressed by each with a different tense :   Quadrigarius. Gellius.   processit (bis), f procedebat,   \ progrediiur,  constitit, c congrediuntur,   \ consistent,  constituerunt, conserebantur manus,   8 perfects of acts in 5 imperfects of acts   combat. of the corvus.   Gellius has secured greater vividness at the expense of simplicity  and directness.   This choice of tenses was, as has been said, a matter of art,  whether conscious or unconscious. The earlier writers seem to  have preferred on the whole the barer, simpler perfect even in  passages which might seem to be especially adapted to the  imperfect, historical present, &c. The perfect, of course, always  remained far the commoner tense in narrative, and instances are  not lacking in later times of passages 1 in which there is a striking  preponderance of perfects. Nevertheless the imperfect, as the  language developed, with the growth of the rhetorical tendency  and a consequent desire for variety in artistic prose and poetry,  seems to have come more and more into vogue. 2   The fact that the function of a tense is often revealed, denned,  and strengthened by the presence in the context of particles of  various kinds, subordinate clauses, ablative absolutes, &c, &c,   1 E. g. Caesar, B. G. I. 55 and 124-5.   s The relative infrequency of the tense in early Latin was pointed out on  p. 164. Its growth as a help in artistic prose is further proved by the fact that  the fragments of the later and more rhetorical annalists, e. g. Quadrigarius,  Sisenna, Tubero, show relatively many more cases than the earliest annalists.  This is probably not accident. When compared with the history of the same  phenomenon in Greek, where the imperfect, so common in Homer, gave way  to the aorist, this increase in use in Latin may be viewed as a revival of a  usage popular in Indo-European times. Cf. p. 185, n. 2. was pointed out in Trans. Am. Philol. Ass. XXX, pp. 17 ff.  What was there 1 said of Plautus and Terence may here be  extended to the whole period of early Latin. The words and  phrases used in this way are chiefly temporal. Some of those  occurring most frequemly are: modo, commodum ; turn, tunc;  simul; dudum, iam dudum; iam, primo, primulum ; nunc; ilico;  olim, quondam; semper, saepe; fere, plerumque ; Ha, 2 &c, &c.  A rough count shows in this class about 120 cases,' accompanied  by one or more particles or expressions of this sort. Some  merely date the tense, e. g., turn, modo, dudum, &c. Others, as  saepe, fere, primulum, have a more intimate connection with the  function. Naturally the effect of the latter group is clearest in  the imperfects of customary past action, the frequentative, &c,  and will be illustrated under those headings. Here I will notice  only a few cases with iam, primulum, &c, which illustrate very  well how close the relation between particle and tense may be.  The most striking cases are :   Plautus, Merc. 43, amare valide coepi[t] hie meretricem. ilico  Res exulatum ad illam <c>lam abibat patris. Cf. Men.  1 1 16, nam tunc dentes mihi cadebant primulum.   id. Merc. 197, Equidem me iam censebam esse in terra atque   in tuto loco :   Verum video . . .  id. Cist. 566, Iam perducebam illam ad me suadela mea,   Anus ei <quom> amplexast genua . . .  id. Merc. 212, credet hercle: nam credebat iam mihi.   The unquestionably inceptive force of these cases arises from  the combination of tense and particle. No inceptive* function can  be proved for the tense alone, for I find no cases with inceptive  force unaccompanied by such a particle.   Cf. also Morris, Syntax, p. 83.   5 How far the nature of the clause in which it stands may influence the  choice of a tense is a question needing investigation. That causal, explanatory,  characterizing, and other similar clauses very often seem to require an im-  perfect is beyond question, but the proportion of imperfects to other tenses in  such clauses is unknown. Cf. p. 166, n. 1.   s No introductory conjunctions are included in this total, nor are other  particles included, unless they are in immediate connection with the tense.   4 In Trans. Am. Philolog. Ass. XXX, p. 21, I was inclined to take at least  Merc. 43 as inceptive. This I now believe to have been an error. The  inceptive idea was most commonly expressed by coepi -\- m&n. which is very  common in Plautus and Varro. We have here the opposite of the phenomenon  discussed on p. 177. There are a few cases in which the imperfect produces the same  effect as the imperfect of the so-called first periphrastic conjuga-  tion : Terence, Hec. 172, Interea in Imbro moritur cognatus   senex.  Horunc: ea ad hos redibal lege hereditas.=reditura erat,  English ' was coming ', ' was about to revert ', cf. Greek pi\\a> with  infinitive.   Cf. Phorm. 929, Nam non est aequum me propter vos decipi,  Quom ego vostri honoris causa repudium alterae  Remiserim, quae dotis tantundem <fti£«/.=datura erat &c.  In these cases the really future event is conceived very vividly  as already being realized.   Plautus, Amph. 597 seems to have the effect of the English  'could':   Neque . . . mihi credebam primo mihimet Sosiae  Donee Sosia . . . ille . . .  But the * could ' is probably inference from what is a very vivid  statement. A Roman would probably not have felt such a  shading. 1   I B. The Imperfect of Customary Past Action.   The imperfect may indicate some act or state at some appreci-  able distance in the past as customary, usual, habitual &c. The  act or state must be at some appreciable distance in the past (and  is usually at a great distance) because this function of the tense  depends upon the contrast between past and present, a contrast  so important that in a large proportion of the cases it is enforced  by the use of particles. 2 The act (or state) is conceived as  repeated at longer or shorter intervals, for an act does not become  customary until it has been repeated. This customary act usually  takes place also as a result or necessary concomitant of certain  conditions expressed or implied in the context, e. g. maiores nosiri  olim &c, prepares us for a statement of what they used to do.  The act may indeed be conceived as occurring only as a result of  a certain expressed condition, e. g. Plautus, Men. 484 mulier  quidquid dixerat,   1 Some of the grammars recognize ' could' as a translation, e. g., A. & G.   § 277 g-   8 E. g. turn, tunc, olim &c. with the imperfect, and nunc &c. with the con-  trasted present.    Idem ego dicebam = my words would be uttered only as a  result of hers. 1   There are 462 cases of the customary past usage of which 218  occur in independent sentences, 244 in dependent. This large  total, more than one-third of all the cases, is due to the character  of Varro's De lingua latina from which 289 cases come. This is  veritably a ' customary past ' treatise, for it is for the most part a  discussion of the customs of the old Romans in matters pertaining  to speech. Accordingly nearly all the imperfects fall under this  head. Plautus and Terence furnish 112. The remaining 61 are  pretty well scattered.   As illustrations of this usage I will cite (arranging the cases  according to the classes of verbs) :   I. 1. Plautus, Pseud. 1180, Noctu in vigiliam quando ibat  miles, quom tu Has simul,  Conveniebatne in vaginam tuam machaera militis ?  Terence, Hec. 157, Ph. Quid ? interea ibatne ad Bacchidem ?   Pa. Cottidie.  Varro, L. L. 5. 180, qui iudicio vicerat, suum sacramentum e   sacro auferebat, victi ad aerarium redibat.  I. 2. Plautus, Bacch. 429, Saliendo sese exercebant magis   quam scorto aut saviis. (cf. the whole passage).  Hist, fragg., p. 83. 27, Cn., inquit, Flavius, patre libertino natus,  scriptum faciebat (occupation) isque in eo tempore aedili  curuli apparebat, . . .  I. 3. Terence, Eun. 398, Vel rex semper maxumas   Mihi agebal quidquid feceram :  Varro, L. L., 5. 121, Mensa vinaria rotunda nominabalur Cili-  bantum ut etiam nunc in castris. Cf. L. L. 7. 36, appellabant,  5. 118, 5. 167 &c.   1 This usage seemed to me formerly sufficiently distinct to deserve a special  class and the name 'occasional', since it is occasioned by another act. It is  at best, however, only a sub-class of the customary past usage and in the  present paper I have not distinguished it in the tables. It is noteworthy that  the act is here at its minimum as regards repetition and that it may occur in  the immediate past, cf. Rud. 1226, whereas the customary past usage in its  pure form is never used of the immediate past. The usages may be approxi-  mately distinguished in English by 'used to', 'were in the habit of &c. (pure  customary past), and 'would' (occasional), although 'would' is often a good  rendering of the pure customary past. Good cases of the occasional usage  are : Plautus, Merc. 216, 217 ; Poen. 478 S ; Terence, Hec. 804 ; Hist, fragg.  p. 202. 9 (5 cases), ibid. p. 66. 128 (4 cases). Plautus, Bacch. 421, Eadem ne erat haec disciplina tibi,   quom tu adulescens eras ?  C. I. L. I. 1011.17 Ille meo officio adsiduo florebat ad omnis.   II. 1. Auctor ad Herenn. 4. 16. 23, Maiores nostri si quam  unius peccati mulierem damnabant, simplici iudicio multorum  rnaleficiorum convictam putabant. quo pacto ? quam inpudicam  iudicarant, ea venefici quoque damnata existutnabatur.   Cato, De ag., 1, amplissime laudari existimabatur qui ita lau-  dabatur.   II. 2. Plautus, Epid. 135, Illam amabam olim: nunc tarn alia  cura impendet pectori.   Varro, R. R. III. 17.8, etenim hac incuria laborare aiebat M.  Lucullum ac piscinas eius despiciebat quod aestivaria idonea  non haberent.   III. 3. Plautus, As. 212, quod nolebant ac votueram, de   industria  Fugiebatis neque conari id facere audebatis prius. Cf. the  whole passage.  Varro, L. L. 5. 162, ubi quid conditum esse volebant, a celando   Cellam appellarunt.  III. Terence, Phorm. 1 90, Tonstrina erat quaedam : hie sole-   bamusfere  Plerumque earn opperiri, . . .  Varro, L. L. 6. 8, Solstitium quod sol eo die sistere videbatur . . .  The influence of particles 2 and phrases in these cases is very  marked. I count about 1 10 cases, more than I of the total, with  which one or more particles appear. Those expressions which  emphasize the contrast are most common, e. g. turn, olim, me  puero with the imperfect, and nunc, iam &c. with the contrasted  present.   This class also affords excellent illustrations of the reciprocal  influence of verb-meaning' and tense-function. In Varro there  are 50 cases, out of 289, of verbs of naming, calling, &c, which  are by nature evidently adapted to the expression of the customary  past. Such are appellabam, nominabam, vocabam, vocitabam,  &c. But the most striking illustration is found in verbs of  customary action, e. g. soleo, adsuesco, consuesco, which by their   1 Cf. Trans. Am. Philolog. Ass. XXX, p. 19.   s Note as illustrations the italicized particles in the citations, pp. 175-6.   3 Cf. Morris, Syntax, p. 47, and p., with note.  meaning possess already the function supplied to other verbs by  the tense and context. When a verb of this class occurs in the  imperfect of customary past the function is enhanced. Naturally,  however, these verbs occur but rarely in the imperfect, for in any  tense they express the customary past function.   It is interesting to note the struggle for existence between  various expressions of the same thought. A Roman could  express the customary past idea in several ways, of which the  most noticeable are the imperfect tense, soleo or the like with an  infinitive, or various periphrases such as mos erat. Of these  possibilities all are rare save the first, the imperfect tense. There  are but 12 cases of soleo, consuesco, &c, occurring in the imperfect  indicative in early Latin. These are all cases of solebam, and 9  of them are imperfects of customary past action. 1 One would  expect to find in common use the perfect of these verbs with an  infinitive, but, although I have no exact statistics on this point,  a pretty careful lookout has convinced me that such expressions  are by no means common. 2 Periphrases with mos, consuetudo,  &c, are also rare. Comparing these facts with the large number  of cases in which the customary past function is expressed by the  imperfect, we must conclude that this was the favorite mode of  expression already firmly established in the earliest literature. 8   I C. The Frequentative Imperfect.   In the proper context 4 the imperfect may denote repeated or  insistent action in the past. Although resembling the imperfect  of customary past action, in which the act is also conceived as   1 Terence, Phorm. go; Varro, R.R. 1.2. 1, and II. 7. I, L. L. 5. 126; Auctor  ad Herenn. 4. 54. 67 ; Lucilius, IV. 2, &c.   s A collection of perfects covering 18 plays of Plautus shows but 15 cases of  solitus est, consuevit, &c. My suspicion, based on Plautus and Terence, that  these periphrases would prove common has thus been proven groundless.   8 The variation between imperfect and perfect is well illustrated by Varro,  L. L. 5. 162, ubi cenabant, cenaculum vocitabant, and id. R. R. I. 17. 2, iique  quos obaeratos nostri vocitarunt, where the frequentative verb expresses even  in the perfect the customary past function.   For the variation between the customary past imperfect and the perfect of  statement cf. Varro's L. L. almost anywhere, e. g. 5. 121, mensa . . . rotunda  nominabatur Clibantum. 5. 36, ab usu salvo saltus nominarunt. So compare  5. 124 (appellarunt) with R. R. I. 2. 9 (appellabant). Cf. also L. L. 5. 35 qua  ibant . . . iter appellarunt ; qua id auguste, semita.ut semiter dictum.   4 Cf. Herbig, Aktionsart und Zeitstufe (I. F. 1896, § 59). repeated, the frequentative usage differs in that there is no idea  of habit or custom, and the act is depicted as repeated at intervals  close together and without any conditioning circumstances or  contrast with the present. I find only 13 cases of this usage,  7 of which are syntactically independent, 6 dependent. All occur  in the first three classes of verbs. The cases are :   Plautus, Pers. 20, miquidem tu iam eras mortuos, quia non   visitabam.  Ibid. 432, id tibi suscensui,  Quia te negabas credere argentum mihi.  Rud. 540, Tibi auscultavi : tu promittebas mihi   Mi esse quaestum maxumum meretricibus :  Capt. 917, Aulas . . . omnis confregit nisi quae modiales   erant :  Cocum percontabatur, possentne seriae fervescere :  As. 938, Dicebam, pater, tibi ne matri consuleres male. Cf.   Mil. Gl. 1410 (dicebaf).  True. 506, Quin ubi natust machaeram et clupeum   poscebat sibi ?  Epid. 59, Quia cottidie ipse ad me ab legione epistulas   Mittebat: cf. ibid. 132 (missiculabas).  Merc. 631, Promittebas te os sublinere meo patri : ego me[t]   credidi  Homini docto rem mandar<e>, . . .  Ennius, Ann. 43, haec ecfatu' pater, germana, repente recessit.  Nee sese dedit in conspectum corde cupitus,  quamquam multa manus ad caeli caerula templa  iendebam lacrumans et blanda voce vocabam.  Hist, fragg., p. 138. 11 (Q. Claudius Quadrigarius), Ita per  sexennium vagati Apuliam atque agrum quod his per militem  licebat expoliabaniur.  This class is so small and many of the cases are so close to  the simple progressive and the imperfect of situation that it is  tempting to force the cases into those classes. 1 A careful con-   1 How close the frequentative notion may be to the imperfect of the  immediate past is well illustrated by As. 938 (cited above). In this case we  have virtually an imperfect of the immediate past in which, however, the  frequentative coloring predominates : dicebam means not ' I've been telling ',  but 'I've kept telling', &c. Cf. also Pseud. 422 (dissimulabam) for another  case of the imperfect of the immediate past which is close to the frequentative.  In its pure form, however, the frequentative imperfect does not hold in view  the present. sideration of each case has, however, convinced me that the  frequentative function is here clearly predominant. In Plautus,  Pers. 20, E pid. 131, Capt. 917, it is impossible to say how much  of the frequentative force is due to the tense and how much to  the form of the verbs themselves ; both are factors in the effect.  Verbs like mitto,promitio, voco, and even dico, are also obviously  adapted to the expression of the frequentative function.   It is noteworthy that in this usage a certain emphasis is laid on  the tense. In eight of the cases the verb occupies a very em-  phatic position, in verse often the first position in the line, cf. the  definition on p. 177.   I D. The Conative Imperfect.   The imperfect may indicate action as attempted in the past.  There must be something in the context, usually the immediate  context, to show that the action of the verb is fruitless. There  are no certain cases of this usage in early Latin. I cite the only  instances, four in number, which may be interpreted as possibly  conative :   Plautus, As. 931, Arg. Ego dissuadebam, mater. Art. Bellum   filium.   Id. Epid. 215, Turn meretricum numerus tantus quantum in   urbe omni fuit   Obviam ornatae occurrebant suis quaeque | amatoribus :  Eos captabant.   Auctor ad Herenn., 4. 55. 68, . . . cum pluribus aliis ire celerius   coepit. illi praeco faciebat audientiam; hie subsellium, quod   erat in foro, cake premens dextera pedem defringit et . . .   Hist, fragg., p. 143. 46, Fabius de nocte coepit hostibus castra   simulare oppugnare, eum hostem delectare, dum collega id   caperet quod capiabat.   But in the second and fourth cases the verb capto itself means  to 'strive to take', 'to catch at' &c, and none of the conative  force can with certainty be ascribed to the tense. In the first  case, again, the verb dissuadebam means 'to advise against', not  'to succeed in advising against' (dissuade). Argyrippus says :  ' I've been advising against his course, mother', not ' I've been  trying, or I tried, to dissuade him'. The imperfect is, therefore,  of the common immediate past variety. 1   1 Cf. a few lines below (938) dicebam.     In Auct. ad Herenn., 4. 55. 68, the imperfect is part of the very  vivid description of the scene attending the death of Tiberius  Gracchus. Indeed the whole passage is an illustration of demon-  stratio or vivid description which the author has just defined.  The acts of Gracchus and his followers are balanced against  those of the fanatical optimates under Scipio Nasica: 'While  the herald was silencing 1 the murmurs in the contio, Scipio was  arming himself &c. Though it may be true that the act indi-  cated by faciebat audientiam was not accomplished, this seems  a remote inference and one that cannot be proved from the  context.   If my interpretation of these cases is correct, there are no  certain 1 instances of the conative imperfect in early Latin.   There is but one case of conabar (Terence, Phorm. 52) and  one of temptabam (Plautus, Mil. gl. 1336). Both of these belong  to the immediate past class, the conative idea being wholly in the  verb.   II. The Aoristic Imperfect.   The imperfect of certain verbs may indicate an act or state  as merely past without any idea of progression. In this usage  the kind of action reaches a vanishing point and only the temporal  element of the tense remains. The imperfect becomes a mere  preterite, cf. the Greek aorist and the Latin aoristic perfect. The  verbs to which this use of the imperfect is restricted are, in early  Latin, two verbs of saying, aio and dico, and the verb sum with  its compounds.   There are 56 cases of the aoristic imperfect in early Latin (see  Table II), 48 of which occur in syntactically independent sen-  tences. Some citations follow:   Plautus, Bacch. 268, Quotque innocenti ei dixit contumelias.   Adulterare eum aibat rebus ceteris.  Id. Most. 1027, Te velle uxorem aiebat tuo gnato dare :  Ideo aedificare hoc velle aiebat in tuis.  Th. Hie aedificare volui? Si. Sic dixit mihi.  Id. Poen. 900, Et ille qui eas vendebat dixit se furtivas vendere:  Ingenuas Carthagine aibat esse.   1 Faciebat audientiam seems a technical expression, cf. lexicon.   2 The case cited by Gildersleeve- Lodge, § 233, from Auct. ad Herenn., 2. I.  2, ostendebatur seems to me a simple imperfect and there is nothing in the  context to prove a conative force, cf. 3. 15. 26 demonstrabatur. In these cases note the parallel cases of dixit, cf. id. Trin. 1140,  Men. 1 141 &c, &c.   I note but three cases of dicebam:  Terence, Eun. 701, Ph. Unde [igitur] fratrem meum esse  scibas ? Do. Parmeno  Dicebat eum esse. Cf. Plautus, Epid. 598 for a perfect used  like this.  Varro, R. R. II. 4. 11, In Hispania ulteriore in Lusitania  [ulteriore] sus cum esset occisus, Atilius Hispaniensis minime  mendax et multarum rerum peritus in doctrina, dicebat  L. Volumnio senatori missam esse offulam cum duabus  costis . . .  Ibid. III. 17. 4, pisces . . . quos sacrificanti tibi, Varro, ad  tibicinem [graecum] gregatim venisse dicebas ad extremum  litus atque aram, quod eos capere auderet nemo, . . .  In these cases the verb dico becomes as vague as is aio in the  preceding citations.  Plautus, Poen. 1069, Nam mihi sobrina Ampsigura tua mater   fuit,  Pater tuos is erat frater patruelis meus,  Et is me heredem fecit, Id. Mil. gl. 1430, Nam illic qui | ob oculum habebat lanam   nauta non erat.  Py. Quis erat igitur? Sc. Philocomasio amator.  Id. Amph. 1009, Naucratem quem convenire volui in navi   non erat,  Neque domi neque in urbe invenio quemquam qui ilium   viderit. 1  Id. Merc. 45, Leno inportunus, dominus eius mulieris,   Vi sum<m>a[t] quicque utpoterat rapiebat domum.  In such cases as the last the imperfect has become formulaic,  cf. quam maxime poter at, &c.   1 Rodenbusch, pp. 8-10, after asserting that the imperfect of verbs of saying  and the like is used in narratio like the perfect (aorist), cites a number of  illustrations in which (he adds) the imperfect force may still be felt ! But a  case in which the imperfect force may still be felt does not illustrate the  imperfect in simple past statements, if that is what is meant by narratio.  Only four of R.'s citations are preterital (aoristic), and these are all cases of  aibam (Plautus, Amph. 807, As. 208, 442, Most. 1002). The same may be said  of the citations on p. g, of which only Eun. 701 is aoristic. J. Schneider  (De temporum apud priscos latinos usu quaestiones selectae, program, Glatr,  1888) recognizes the aoristic use of aibat, but his statement that the comic  poets used perfect and imperfect indiscriminately as aorists cannot be accepted. The Shifted Imperfect.   In a few cases the imperfect appears shifted from its function  as a tense of the past, and is equivalent to (i) a mere present; or  (2) an imperfect or pluperfect subjunctive.   The cases equivalent to a present 1 are all in Varro, L. L., and  are restricted to verbs of obligation {oportebat, debebaf) : L. L.  8. 74, neque oportebat consuetudinem notare alios dicere Bourn  greges, alios Boverum, et signa alios Iovum, alios Ioverum.  Ibid. 8. 47, Nempe esse oportebat vocis formas ternas ut in hoc  Humanus, Humana, Humanum, sed habent quaedam binas . . .  ibid. 9. 85, si esset denarii in recto casu atque infinitam multi-  tudinem significaret, tunc in patrico denariorum dici oportebat.  Ibid. 8. 65, Sic Graeci nostra senis casibus [quinis non] dicere  debebant, quod cum non faciunt, non est analogia.*   The cases equivalent to the subjunctive are confined to  sat &c. + erat (6 cases), poteram (3 cases), decebat (1 case), and  sequebatur (1 case). As illustrations may be cited :   Plautus, Mil. gl. 755, Insanivisti hercle : nam idem hoc homini-   bus sat [a] era\ti\t decern.  Auct. ad Herenn. 2. 22. 34, nam hie satis erat dicere, si id modo  quod esset satis, curarent poetae. = ' would have been,'  cf. ibid. 4. 16. 23 (iniquom erat),  Plautus, Mil. gl. 911, Bonus vates poieras esse : = ' might be '   or ' might have been '.  Id. Merc. 983 b, Vacuum esse istac ted aetate his decebat noxiis.  Eu. Itidem ut tempus anni, aetate<m> aliam aliud factum  condecet.  Varro, L. L. 9. 23, si enim usquequaque non esset analogia,  turn sequebatur ut in verbis quoque non esset, non, cum  esset usquequaque, ut est, non esse in verbis . . . This is a  very odd case and I can find no parallel for it.*   1 Varro uses the perfect also of these verbs as equivalent to the present of  general statements. Cf. L. L. 8, §§ 72-74, where debuit occurs 4 times as  equivalent to debet, § 48 (debuerunt twice), § 50 (pportuit = oportet). The perfect  infinitive is equivalent to the present, e. g. in 8, §61 and §66 (debuisse . . .  dici). The tenses are of very little importance in such verbs.   8 Note the presents expressed in the second and fourth citations.   3 The remaining cases are: Plautus, True. 511 (poterai), id. Rud. 269  (aequittserat), Lucilius, Sat. 5. 47 M. (sat erat), Auctor ad Herenn. 4. 16. 23  (iniquom erat), ibid. 4. 41. 53 (quae separatim dictae infimae erant).  Total. Imperfect. Aoristic. Shifted. Progressive. Cust.Past. Frequent. Terence Dramatists Historians Auctor ad Her. Inscriptions The fragments of Cato's historical work are included in the historians.  'Including the epic fragments of Ennius and Naevius.  Verbs and Functions. Cases. Imperfect. Classes of Verbs. Progressive. Cust. Past. Frequent. Aoristic. Shifted. Ind.Dep. Ind. Dep. Ind.  Dep.  Ind. Dep.  Ind.  Dep .I. Physical. Verbal commun. Rest, state, &c.   (tram 220)   Psychical.  Will  Auxiliaries.   american journal of philology.  Historical and Theoretical.   The original function of the imperfect seems to have been to  indicate action as progressing in the past, the simple progressive  imperfect. This is made probable, in the first place, by the fact  that this usage is more common than all others combined,  including, as it does, 680 out of a total of 1226 cases. This  proportion is reduced, as we should remember, by the peculiar  character of the literature under examination, which contains  relatively so little narrative, and especially by the nature of  Varro's De lingua latina in which the cases are chiefly of the  customary past variety. 1 Moreover, the customary past usage  itself, and also the frequentative and the conative, are to be  regarded as offshoots of the progressive usage of which they  still retain abundant traces, so that if we include in our figures  all the classes in which a trace of the progressive function  remains we shall find that 11 55 of 1226 cases are true imperfects  (see table II).   Another support for the view that the progressive function is  original may be drawn from the probable derivation of the tense.  Stolz 2 (after Thurneysen) derives the imperfect from the infinitive  in -e and an old aoristof the root *bhu. The idea of progression  was thus originally inherent in the ending -bam.   Let us now establish as far as possible the relations subsisting  between the various uses of the true imperfect (IA, B, C, D),  turning our attention first to the simple progressive (IA) and its  variations.   The relation between the progressive imperfect in its pure  form and the usage which has been named the imperfect of the  immediate past is not far to seek. The progressive function  remains essentially unchanged. The only difference lies in the  extension of the time up to the immediate past (or present) in  the case of the immediate past usage. The transition between:   ibat exulatutn'' = ' he was going into exile ' (when   l See p. 175.   2 In I. Muller's Handb. d. kl. Alt. II., 2 § 113, p. 376. Lindsay, Latin Lang.,  pp. 489-490, emphasizes the nominal character of the first element in the  compound, and suggests a possible I. E. *-bhwam, -as, &c, as antecedent of  Latin -bam, -ids, -bat. He also compares very interestingly the formation of  the imperfect in Slavonic, which is exactly analogous to this inferred Latin  formation, except that the ending comes from a different root.   3 Cf. Plautus, Merc.  I saw him at a more or less definite   point in the past)  and ibat exulatum = ' he was going (has been going)   into exile' (but we have just met him)  is plain enough. The difference is one of context. In this  imperfect of the immediate past the Romans possessed a sub-  stitute for our English compound perfect tense, 'have been  doing ', &C 1   In the imperfect of situation also the function of the tense  is not altered. The tense is merely applied in a different way, its  progressive function adapted to vivid description, and we have  found it already in the earliest 2 literature put to this use. In its  extreme form it occurs in passages which would seem to require  nothing more graphic than a perfect. Indeed, we must guard  against the view that the imperfect is a stronger tense than the  perfect; it is as strong, but in a different way, and while the  earlier writers preferred in general the perfect, 8 the imperfect  grew gradually in favor until in the period marked by the  highest development of style the highest art consisted in a  happy combination * of the two.   The imperfect of customary past action is, as we have seen,  already well established in the earliest literature. A glance at  Table I would seem to show that it grew to sudden prominence  in Varro, but the peculiar nature of Varro's work has already  been pointed out, so that the apparent discrepancy between the  proportion of cases in Varro and in Plautus and Terence, for  instance, means little. It should be remembered also that this  discrepancy is still further increased by the nature of the drama,  whose action lies chiefly in the present. While, therefore, in  Plautus and Terence the proportion of customary pasts is i,   1 Latin also exhibits some similar compounds, cf. Plautus, Capt. 925, te  carens dum hie fui, Poen., ut tu sis sciens, and Terence, Andr., ut sis  sciens. Cf. Schmalz in I. Mttller's Handb.    s In the Greek literature, which begins not only absolutely but relatively  much earlier than the Latin, the imperfect was used to narrate and describe,  and Brugmann, indeed, considers this a use which goes back to Indo-  European times. Later the imperfect was crowded out to a great extent by  the aorist, as in Latin by the (aoristic) perfect. Cf. Brugmann in I. Mailer's  Handb.   i The power of the perfect lies in its simplicity, but when too much used  this degenerates into monotony and baldness. and in Varro f , the historians with J probably present a juster  average.   The relation of this usage to the simple progressive imperfect  has already been pointed out, 1 but must be repeated here for the  sake of completeness. If we inject into a sentence containing a  simple progressive imperfect a strong temporal contrast, e. g.,  if facit, sed non faciebat becomes nunc facit, olim autem non  faciebat, it is at once evident how the customary past usage has  developed. It has been grafted on the tense by the use of such  particles and phrases, expressions which were in early Latin still  so necessary that they were expressed in more than one-quarter  of the cases ; or, in other words, it is the outgrowth of certain  oft-recurring contexts, and is still largely dependent on the  context for its full effect. Transitional cases in which the  temporal contrast is to be found, but no customary past coloring,  may be cited from Plautus, Rud., Dudum dimidiam  petebas partum. Tr. Immo etiam nunc peto. Here the action  expressed by petebas is too recent to acquire the customary past  notion. 2 The progressive function caused the imperfect to lend  itself more naturally than other tenses 3 to the expression of  this idea. 4   Although the customary past usage was well established in  the language at the period of the earliest literature, and we  cannot actually trace its inception and development, I am con-  vinced that it was a relatively late use of the tense by the mere  fact that the language possesses such verbs as soleo, consuesco,  &c, and that even as late as the period of early Latin the function  seemed to need definition, cf. the frequent use of particles, &c.   The small number of cases (13) which may be termed frequenta-  tive indicates that this function is at once rare and in its infancy  in the period of early Latin. The frequentative function is so  closely related 5 to the progressive that it is but a slight step from   1 Trans. Am. Philolog. Ass., Cf. Men. 729.   s How strong the effect of particles on other tenses may be is to be seen in  such cases as Turpilius, p. 113. I (Ribbeck), Quem olim oderat, sectabat ultro  ac detinet.   4 The process was therefore analogous to that which can be actually traced  in cases of the frequentative and conative uses.   5 Terence, Adel. 332-3, affords a good transitional case : iurabat . . . dicebat  — (almost) ' kept swearing ' ... 'kept saying' &c, cf. p. 47 n. 1. It should  the latter to the former. Latin 1 seems, however, to have been  unwilling to take that step. The vast number of frequentative, 2  desiderative and other secondary endings also prove that the  tense was not the favorite means for the expression of the  frequentative idea. Nevertheless since the progressive and fre-  quentative notions are so closely related and since frequentative  verbs must again and again have been used in the imperfect  subject to the influence of the progressive function of particles  such as saepe, etiam atgue etiam, and since finally a simple verb  must often have appeared in similar situations, e. g. poscebat for  poscitabat, the tense inevitably acquired at times the frequentative  function. We have here, therefore, an excellent illustration of the  process by which a secondary function may be grafted on a tense  and the frequentative function is dependent to a greater degree  than the customary past upon the influence and aid of the context.  That it is of later origin is proved by its far greater rarity (see  Table II).   If the frequentative imperfect in early Latin is still in its infancy,  the conative usage is merely foreshadowed. The fact that there  are no certain instances proves that relatively too much im-  portance, at least for early Latin, has been assigned to the conative  imperfect by the grammars. Statistics would probably prove it  rare at all periods, periphrases with conor &c, having sufficed for  the expression of the conative function.   The most powerful influence in moulding tense functions is  context. 3 In the case of the conative function this becomes all  powerful for we must be able to infer from the context that the  act indicated by the tense has not been accomplished. The   also be pointed out that the frequentative imperfect is very closely related to  the imperfect of situation. To conceive an act as frequentative necessarily  implies a vivid picture of it. (Cf. next note). It is possible, therefore, to  interpret as vivid imperfects of situation such cases as Ennius, Ann. 43-4;  Plautus, True. 506, Capt. 917, but a careful study of these has convinced me  that the frequentative idea predominates.   1 In Greek, however, the imperfect was commonly used with an idea of  repetition in the proper context. This use is correctly attributed by Brugmann  (I. Milller's Handb. &c.) to the similarity between the progressive  and frequentative ideas as well as to the fondness for description of a re-  peated act.   5 Ace. to Herbig, § 62 (after Garland?) there were probably no iterative  formations in Indo-European.   8 Cf. Morris, Syntax, pp. 46, 82, &c. 1function thus rests upon inference from the context- The presence  in the language of the verbs conor, tempto, &c, proves that the  conative function, like the frequentative, was a secondary growth  grafted on the tense in similar fashion, but at a later period, for  we have no certain instances in early Latin. This function of  the imperfect certainly originates within the period of the written  language.   The fact that the preponderance of the aoristic cases occurs  in Plautus and Terence (see Table I) indicates that this usage  was rather colloquial. This is further supported by the fact that  the majority of the cases are instances of aibam, a colloquial verb,  and of eram which in popular language would naturally be con-  fused with/i«. In this usage, therefore, we have an instance  of the colloquial weakening of a function through excessive  use in certain situations, a phenomenon which is common in  secondary formations, e. g. diminutives. The aoristic function  is not original, but originated in the progressive usage and in that  application of the progressive usage which is called the imperfect  of situation. Chosen originally for graphic effect the tense was  used in similar contexts so often that it lost all of this force. All  the cases of aibam, for instance, are accompanied by an indirect  discourse either expressed (38 cases) or understood (2 cases).  The statement contained in the indirect discourse is the important  thing and aibam became a colorless introductory (or inserted)  formula losing all tense force. 1 If this was the case with the verb  which, in colloquial Latin at least, was preeminently the mark  of the indirect discourse it is natural that by analogy dicebam,  when similarly employed, should have followed suit. 2   With eram the development was similar. The loss of true  imperfect force, always weak in such a verb, was undoubtedly due   1 Cf. Greek iXeys, tjv <5' iyi> &c. and English (vulgar) ' sez I ' &c„ (graphic  present). Brugmann (I. Muller's Handb. &c. II, 2 p. 183) denies that the Greek  imperfect ever in itself denotes completion, but he cites no cases of verbs  of saying. Although one might say that the tense does not denote completion,  yet if there was so little difference between imperfect and aorist that in  Homer metrical considerations (always a doubtful explanation) decided  between them (cf. Brugmann, ibid.), Brugmann seems to go too far in dis-  covering any imperfect force in his examples. The two tenses were, in such  cases, practical equivalents and both were colorless pasts.   8 Rodenbusch, p. 8, assigns as a cause for the frequency of aibat in this use  the impossibility of telling whether ait was present or perfect. This seems  improbable.   to the vague meaning of the verb itself. Indeed it seems probable  that eram is thus but repeating a process through which the lost  imperfect of the root *fu} must have passed. This lost imperfect  was doubtless crowded out " by the (originally) more vivid eram  which in turn has in some instances lost its force.   If the aoristic usage is not original, but the product of a collo-  quial weakening, we should be able to point out some transitional  cases and I believe that I can cite several of this character:   Plautus, Merc. 190, Eho . . . quin cavisti ne earn videret . . .?  Quin,sceleste,<eam>afo/7'«dfe&w,ne earn conspiceret pater?   Id. Epid. 597, Quid, ob earn rem | hanc emisti, quia tuam  gnatam es ratus ?   Quibus de signis agnoscebas? Pe. Nullis. Phi. Quarefiliam   Credidisti nostram ?*   In these cases the tense is apparently used for vivid effect (im-  perfect of situation), but it is evident that the progressive function  is strained and that if these same verbs were used constantly in  such connections, all real imperfect force would in time be lost.  This is exactly what has occurred with aibam, dicebam, and eram.  The progressive function if employed in this violent fashion  simply to give color to a statement, when the verbs themselves  {aibam, dicebam) do not contain the statement or are vague  (eram), must eventually become worn out just as the diminutive  meaning has been worn out of many diminutive endings.   In the shifted cases also the tense is wrenched from its proper  sphere. But whereas the aoristic usage displays the tense  stripped of its main characteristic, the progressive function,  though still in possession of its temporal element as a tense of  the past, in the shifted cases both progressive function and past  time (in some instances) are taken from the tense. In those  cases where the temporal element is not absolutely taken away  it becomes very unimportant. This phenomenon is apparently  due in the first place to the contrary-to-fact idea which is present  in the context of each case, and secondly to the meaning of some  of the verbs involved. In many of the cases these two reasons   1 There was no present of this root ace. to Morris, Syntax, p. 56, but cf.  Lindsay, Lat. Lang., p. 490.   'Also if *bhwam <.-bam was derived from *bhu </«- in fui &c., then the  fact that it was assuming a new function in composition would help to drive  it out of use as an independent form, eram (originally *isom) taking its place.   3 Cf. Terence, Phorm.; Adel. 809, Eun. 700. Ennius, Fab. 339.    are merged into one, for the verbs themselves imply a contrary-  to-fact notion, e. g. debebat, oportebat, poterat (the last when  representing the English might, could, &c). In Varro, L. L. the phrase sic Graeci . . . dicere debebant implies that the  Greeks do not really so speak; so Plautus, Mil. gl., 911 Bonus  vaies poteras esse implies that the person addressed is not a  bonus vales. In these peculiar verbs, which in recognition of  their chief function I have classified as auxiliary verbs, 1 verb-  meaning coincides very closely with mode, just as in soleo, conor,  &c, verb-meaning coincides closely with tense. The modal idea  is all important, all other elements sink into insignificance, and  the force of the tense naturally becomes elusive. 2   Let us summarize the probable history of the imperfect in  early Latin. The simple, progressive imperfect represents the  earliest, probably the original, usage. Of the variations of this  simple usage the imperfect of the immediate past and the im-  perfect of situation are most closely related to the parent use.  Both of these are early variants, the latter probably Indo-  European, 3 and both may be termed rather applications of the  progressive function than distinct uses, since the essence of the  tense remains unchanged, the immediate past usage arising from  a widening of the temporal element, the imperfect of situation  from a wider application of the progressive quality. Later than  these two variants, but perhaps still pre-literary, arose the custom-  ary past usage, the first of the wider variations from the simple  progressive. This was due to the application of the tense to  customary past actions, aided by the contrast between past and  present. Later still and practically within the period of the  earliest literature was developed the frequentative usage, due  chiefly to the close resemblance between the progressive and  frequentative ideas and the consequent transfer of the frequentative  function to the tense. Finally appears the conative use, only  foreshadowed in early Latin, its real growth falling, so far as  the remains of the language permit us to infer, well within the   1 Cf. Whitney, German Grammar, § 342. 1.   8 The same power of verb-meaning has shifted, e. g., the English ought from  a past to a present. Cf. idei, &c. If I understand Tobler, Uebergang  zwischen Tempus und Modus (Z. f. V51kerpsych., &c.), he also con-  siders the imperfect in such verbs as due to the peculiar meaning of the verbs  themselves. Cf. Blase, Gesch. des Plusquamperfekts, § 3.   »Cf. note.   Ciceronian period. In all these uses the progressive function is  more or less clearly felt, and all alike require the influence of  context to bring out clearly the additional notion connected with  the tense.   The first real alteration in the essence of the tense appears in  the aoristic usage in which the tense lost its progressive function  and became a simple preterite. This usage, due to colloquial  weakening, is confined in early Latin to three verbs, aidant,  dicebam, and eram (with compounds). It is very early, pre-  literary in fact, but later than the imperfect of situation, from  which it seems to have arisen. A still greater loss of the  essential features of the tense is to be seen in the shifted cases  in which the temporal element, as well as the progressive, has  become insignificant. This complete wrenching of the tense  from its proper sphere is confined to a limited number of verbs  and some phrases with eram, and is due to the influence of the  pervading contrary-to-fact coloring often in combination with the  meaning of the verb involved. In his Studien und Kritiken zur lateinischen Syntax, I. Teil,  Mainz, 1904, Dr. Heinrich Blase has devoted considerable space to  my article, "The Imperfect Indicative in Early Latin" (American  Journal of Philology). Since Blase  professes to present the substance of my article, except to the  'relatively few' German scholars who have access to the American  periodical, and since he makes a number of errors in mere citation  and statement, it becomes necessary for me in self-defense to make  some corrections. 1 But apart from these errors of detail, which  will be pointed out at the proper places, Blase disagrees with some  of the more important conclusions of my paper and it is with the  purpose of elucidating these views in the light of his criticism and  contributing something more, if possible, to a better understanding  of the problem that I offer the present discussion.   The functions of the imperfect indicative in early Latin may  be summarized as follows:   I. The Progressive 2 or True Imperfect, comprising several  types or varieties:   A. Simple Progressive.   1. dicebat = il he was saying."   1 That such corrections are justifiable is proved by the fact that K. Wimmerer, who  knows my article only through Blase's presentation, reproduces several of Blase's in-  correct statements. I regret the unavoidable delay in the publication of this paper  the less because it has enabled me to use Wimmerer's article, "Zum Indikativ im  Hauptsatze irrealenBedingungsperioden," Wiener Studien. The first four pages of his article are devoted to a general discussion  of Blase's critique of my views.   2 In this paper technical terms will be used as follows : progressive = German vor  sich gehendes (less exactly fortechreitendes) ; continuative or durative = wiaftrendes;  nature or kind of action=^Lfc<ionsarf; shifted = verschobenes ; descA\)tive= schilderndes;  reminiscent = erz&hlendes (see p. 365) ; relation (relative, etc.)= Beziehung, etc. Other  terms are, it is hoped, intelligible or will be defined as they occur. Classical Philology. The nature of the action may be either progressive 1 or con-  tinuative (durative). The time is past, but the period covered by  the action of the tense may vary with the circumstances described  from an instantaneous point to any required length. The time  is contemporaneous with, usually more extensive than, the time  of some other act or state expressed or implied. When the tense-  action is continuative and extends into the immediate past or,  by inference, the present of the speaker, I would distinguish a  sub-class :   a) The Imperfect of the Immediate Past:  dicebat—"he was saying" or "he's been saying."  The action may or may not be interrupted by something in the  context. If interrupted, it ends sharply and we may term the  tense the "interrupted" type of this immediate past.   2. The Descriptive Imperfect (better, the imperfect used in  description) .   dicebat="he was saying" (in English often rendered by  "said").   This is in its purest form a simple progressive imperfect  employed in the vivid presentation of past actions or states.   3. The Reminiscent Imperfect (better, the imperfect used in  reminiscence).   dicebat=^ u he was saying" (as I remember, or as you will  remember).   In this usage the imperfect is a simple progressive implying  an appeal to the recollection of the speaker or hearer.   B. Customary Past Type.   dicebat="he used to say, would say, was in the habit of  saying, etc."   The nature of the action is the same as in A except that with  the aid of the context there is an implication that the act or state  recurred on more than one (usually many) occasions. These  recurrences are usually at some considerable distance in the past  and contrasted with the present, but cases of the immediate past  usage (Ala)) with customary coloring occur.   i Hoffmann Zeitpartikeln 2 , p. 185, characterizes excellently this feature of the im-  perfect : " die actio infecta, pendens, die Handlung in der Phase ihres Vollzuges, ein  Geschehenes im Verlaufe seines Geschehens, ein Vergangenes Sein noch wahrend  seines Bestehens." Impebfect Indicative in Eably Latin 359   C. The Frequentative or Iterative Type.   dicebat = "he kept saying" (at intervals very close together).  This type is like B, except that it has no customary element and  the repetitions refer to one situation within comparatively narrow  limits of time.   The link connecting all these varieties with one another is the  progressive function. 1   II. The Aoristic Imperfect.   aibat = "he said" (equivalent to dixit, aoristic perfect).  The time is still past, but the progressive force is lost.   III. The Shifted Imperfect.  debebat = "he ought" (now).   The time is shifted to the present and the progressive force is  very much weakened, in some cases wholly lost, because of the  auxiliary character of the verbs involved.   For a more detailed treatment of the foregoing classes (except  the imperfect in reminiscence) I must refer to Am. Jour. Phil. In what follows I shall select certain points  for discussion by way of elucidation and supplement to what was  said there.   the impebfect of the immediate past   The simplest progressive usage is well enough understood,  but the usage termed by me the imperfect of the immediate past  or interrupted imperfect 2 calls for some remarks. As a type of  this imperfect in its interrupted form cf. Plautus Cas. 178: nam  ego ibam ad te. — et hercle ego istuc ad te. Here the action is con-  ceived as continuing until interrupted by the meeting of the speak-  ers. The fact of the interruption does not, of course, inhere in the  tense but is inferred from the context. Indeed, the interruption  may not occur at all, as will be seen by comparing the second type,  e. g., Stick. 328 f. : ego quid me velles visebam. nam mequidem  harum miserebat. Here visebam is interrupted like ibam above,   1 The nature of the action seems to me the most distinctive feature of the tenses.  In this I differ radically from Cauer, who considers contemporaneousness the essential  feature of the imperfect, cf. Grammatical militans, against Methner,  whose Untersuchungen zur lat. Tempus- und Moduslehre, Berlin, 1901, 1 have not seen.   2 B. Wimmerer Wien. Stud., Anm. 2, calls attention to the fact that  this imperfect of the immediate past in its interrupted form is still common in Italian.     360 Arthur Leslie Wheeler   but the action of miserebat is conceived as continuing not only up  to the immediate past, but into and in the present of the speaker.  But again this continuance in the present is not inherent in the  tense; it is inferred from the context. The nature of the action  is in both these types still progressive, or more exactly, continua-  tive, but temporally stress is laid on that period of time immediately  preceding or even extending into the present. 1   In this usage the Romans possessed a somewhat inexact sub-  stitute for the English progressive perfect definite, e. g., mequidem  . . . . harumnusere6a/ = (practically) "I've been pitying,"a form  which, like the Latin, may be used in the proper context to indi-  cate that the pity still continues in the present. 2 On the other  hand, the English "I was pitying," superficially a more exact  rendering, does not so clearly indicate this continuance in the  present, though "I was going to your house, etc." is an exact  rendering of Cas. 178.   Blase himself has collected some exactly similar cases, 3 of which  he says:   Das Imperf. wird gelegentlich auch von Zustanden gebraucht die  zwar in der Gegenwart des Redenden noch fortdauern aber nur mit Bezie-  hung auf die Vergangenheit genannt worden: Plaut. As. 392 quid quae-  ritas? Demaenetum volebam. Das Wollen dauert fort, aber hier ist  es nur in Beziehung auf die in Gedanken vorschwebende vorausgehende  Zeit bis zur Ankunft vor dem Hause gebraucht.   'Blase {Kritik, p. 6) misrepresents my statement concerning this usage. He cites  from my paper Stich. 328, apparently as given by me in illustration of both the pro-  gressive use in its simplest form and of this immediate past usage, although it was used  as an illustration of the immediate past usage only. Again he quotes me as believing  that in the immediate past usage the action takes place within exactly defined limits  ("genau bestimmten Granzen"). Here is atwofold error. My statement (Am. Jour.  Phil.) is "fairly definite limits" and refers to the simple progressive  usage, not to the immediate past usage. Blase's critique confuses the two usages.   2 There are traces of a tendency on the part of the Romans to express these shades  of thought with greater exactness, e. g., by the combination of a present participle  with the copula, Plautus Capt. 925 : quae adhuc te carens dum hie fui sustentabam.  Here carens .... fui is exactly equivalent to the English "I've been lacking,"  whereas sustentabam is inexactly equivalent to "I've been supporting." But Latin  did not develop such expressions as carens .... fui into real tenses, and remained  content with the less exact imperfect, cf . also iam diu, etc., with the present. See Am.  Jour. Phil. XXIV, p. 185, and Blase Hist. Syntax, p. 256. A complete collection of  such cases would be interesting. I would add here Amph. 132 : cupiens est, Rud. 943 :  sum indigens, and cf. the verse-close ut tu sis sciens (Poen. 1038), etc.   "Hist. Syntax III, 1903, Tempora und Modi, p. 148, Aran. This book had not  reached me when my article in Am. Jour. Phil. XXIV was written. Imperfect Indicative in Eably Latin 361   With the first part of this statement I fully agree, but is it true  that in As. 395 the imperfect is used "nur mit Beziehung auf die  Vergangenheit, etc." ? If, as Blase says, "das Wollen dauert fort,"  then we are forced to say that the imperfect is used not merely  with reference to the past, but with reference to the present. The  speaker really has in mind both past and present, and uses the  imperfect to express this double temporal sense, the action continuing from the past into the present, because at the moment of  speaking the past is somewhat more prominent. The tense is,  therefore, as explained above, only an approximate expression of  the thought. Had the present been more prominent, other elements being equal, some expression like iam diu volo would have  been employed. Blase asserts (Kritik, p. 6) that my statement that the speaker  has in mind both beginning and end of the action is not capable  of proof. It is true, I think, that the speaker has usually no  definite point in mind at which the action began. He simply  indicates the action as beginning somewhere in the past and con-  tinuing in the present. But in the very numerous "interrupted"  cases he has in mind a sharply defined end of the action. Blase's  criticism seems justified, then, only with reference to those cases  of which Stich. 328, .... harum miserebat is a type. But Blase classifies cases of this usage under no less than three  different heads in his Tempora und Modi. In addition to the  case cited above, As. 392 volebam, which he interprets, as I have  tried to show, almost correctly, he cites Trim. 400: sed   'Of. also the use of nunc, etc., with some of the cases: Plautus Merc. 884; quo  nunc ibas? , Ter. Andr. 657 f. : iam censebam.   2 B. Wimmerer Wien. Stud., says: "Sohalteich .... die Konsta-  tierung eines," imperfect of the immediate past or the interrupted imperfect, "fiir  einen glucklichen Gedanken," though he would not make a special type of this use. It  seems to me so common (about 200 cases) as to deserve the degree of special notice  which I have given it (Am. Jour. Phil He adds in a note: "Hier  tut Blase m. E. Wheeler einigermassen unrecht, wenn er dessen Behauptung, dass der  Sprecher in diesen Fallen Anfang und Ende der Handlung tiberschaue, unerweislich  nennt. Wheeler kann dies mit Becht behaupten, wenn es sich um einen Gedanken  handelt, der einen beherrschte bis zu dem Augenblick, wo man ihn konstatiert,"  pointing out also that Blase would be justified only in criticizing the form of my ex-  pression so far as I wished to apply it to the cursive " Aktionsart" (i. e., those cases  where there is no interruption?).     362 Arthur Leslie Wheeler   aperiuntur aedes, quo ibam 1 as "erzahlendes" (p. 148), Merc. 885:  quo nunc ibas as "sogenannt. Oonatus." The function of the  tense is essentially the same in all these cases, the only variant  being the presence or absence of interruption which is inferred in  all cases from the context.   Since Blase classifies so many of these cases under the head of  the conative imperfect, a consideration of that usage seems here  in place.   A "conative" imperfect ought to mean an imperfect which  expresses attempted action, but since there is no trace, at least in  early Latin (cf. Am. Jour. Phil. XXIV, pp. 179, 180), of such  a function, the term is a bad one. 2 Why then retain it, as Blase  does, for those imperfects which express "den wahrenden, aber  nicht zu Ende, geftihrten Handlung?" These imperfects are  chiefly of the type which I have termed "interrupted," where the  context implies it, or imperfects of the "immediate past," where  there is no interruption. 3 In neither case is there anything more  than a simple variation of the progressive (here more exactly  continuative) imperfect.   But most of Blase's cases are not even of this idiomatic inter-  rupted or immediate past variety. They are simple progressives  in contexts which imply that the action was interrupted 4 or not   liftam occurs often in this use : True. 921, Cas. 178, 594, Merc. 885, Tri. 400, etc. ;  cf . Am. Jour. Phil. XXIV, pp. 168-70.   2 Blase Syntax, p. 148, recognizes the inexactness of the term by his expression,  "sogenannten Oonatus." In Greek its unfitness is well expressed by Mutzbauer  (cited by Blase Kritik, p. 10, and Delbriick, Vergl. Syntax II, p. 306): "Ungenau  werden solche Imperf ekta conatus bezeichnet, von einem Versuch liegt in der Form  nichts" (Grundlagender griech. Tempuslehre, p. 45) ; cf. now Wimmerer Wien. Stud.,  1905, p. 264 : " In der Form liegt allerdings von einem Versuche nichts."   ^Wimmerer Wien. Stud., 1905, pp. 263, 264, remarks that he does not see why Blase  appears to think that there is a difference between his conception of the imperfect  de conatu and mine. Blase says (Kritik, p. 11), after defining these imperfects as  above : " Die hier vertretene Anschauung scheint mehr auf die Imperf ekta zu passen,  die Wheeler," the interrupted imperfect " nennt." This is the case, so far as Blase  confines his citations to instances of the interrupted type. There is, then, no essential  difference in our interpretation of the function of the tense in these cases. Blase  clings, apparently against his will, to the old terminology to which everybody seems  to object, whereas I would group these cases under a new term which seems to me  more exact. But Blase does not, as it seems to me, group together all the cases that  belong together.   4 1 use interrupted here not of what has been termed the "interrupted" usage,  whose distinctive feature lies in the fact that the time is in the immediate past, but as     Impeepect Indicative in Early Latin 363   completed: Men. 564 pallam ad phrygionem deferebat (Peniculus  simply depicts Menaechmus as he had last seen him; cf. 469:  pallam ad phrygionem fert) ; Cic. Sulla 49 consulatus vobis  pariebatur (just like all the other imperfects in the passage —  progressive of the descriptive variety); id.Milo 9: interfectus  ab eo est, cui vim afferebat (simple progressive, the interruption  being expressed by interfectus est) ; id. Ligar. 24: veniebatis in  Africam (progressive, the interruption being implied in prohibiti 1  five lines below) ; Caesar B. G. v. 9. 6 : ipsi ex silvis rari propug-  nabant nostrosque intra munitiones ingredi prohibebant (but  prohibebant is exactly like propugnabant — both were interrupted  by the act expressed by ceperunt in the next sentence, and note  the verb-meaning); Sallust Jug. 27. 1: atrocitatem facti lenie-  bant. at ni, etc. ( progressive = they were in the act of mitigating,  but, etc.); ibid. 29. 3 redimebat (progressive); Livy:  mittebatur (progressive); Florus 1. 10. 1: nam Porsenna ....  aderat et Tarquinios manu reducebat. hunc reppulit (progressive  in description — that the act did not succeed is shown by reppulit) ;  Curtius vi. 7. 11: alias .... effeminatum et muliebrieter timi-  dum appellans, nunc ingentia promittens .... versabat animo  tanto facinore procul abhorrentem (again graphic description:  there is here nothing in the immediate context to show that an  effect was or was not produced. In fact versare animum does  not mean necessarily to succeed in turning one's mind, but merely  to work on one's mind; cf. Livy i. 58. 3 : Tarquinius .... ver-  sare muliebrem animum in omnes partes, where versare sums up  the preceding infinitives, but no effect is produced. So in Cur-  tius, loc. cit. , versabat has the same kind of action as is indicated  by the participles appellans .... promittens, which are summed  up in versabat); Ammianus xvi. 12. 29: his et similibus notos  pariter et ignotos ad faciendum f ortiter accendebat ( again graphic  description, cf. ibid. xvi. 32: his exhortationibus adiuvabat).   referring to interruptions in the more distant past. Where the interruption belongs  to the immediate past I have so indicated in the following criticism.   1 Surely the hearer in such a case as this would not have connected even the idea  of " nicht zu Ende gefiihrten Handlung " with veniebatis until he heard prohibiti, i. e.,  the interruption belongs purely to the context and not the immediate context at that.  This is true of many other so-called conative imperfects.     364 Arthur Leslie Wheeler   Vergil Aen. i. 31: arcebat longe Latio, cf. errabant (graphic  description = what Juno "was doing" at the time, and only the  outcome of the story proves that she did not succeed). : hoc equidem occasum Troiae tristisque ruinas solabar, fatis  contraria fata rependens; nunc eadem fortuna viros .... inse-  quitur (immediate past with customary coloring, cf. contrast in  nwnc = I have been in the habit of comforting .... but now,  etc. This is one of the transitional cases between the pure custo-  mary part and the pure immediate past; cf. Am. Jour. Phil.  XXIV, p. 186, where Plautus, Mud. 1123: dudum dimidiam  petebas partem, immo nunc peto; Men. 729: at mihi negabas  dudum surripuisse te, nunc ea<V>dem ante oculos, attines, are  cited. In both of these passages, though there is no customary  coloring, there is the same contrast between continuance in the  past and the present as in Vergil loc. cit. Blase would probably  term both of the Plautus passages "erzahlende"). Tacitus Ann.  i. 6. 3 trudebantur in paludem ni Caesar, etc. (a very common  form of graphic description in Tacitus = the soldiers were being  crowded into .... but (ni) . . . . i. e., the effect was partly  produced, but was prevented, cf. Sallust Jug. 27. 1 above).   In all these cases, then, I can see no essential alteration in the  function of the tense. The idea "der nicht zu Ende geftihrten  Handlung" is derived in each case wholly from the context and  there is no reason for making a special category of imperfects  which happen to occur in contexts of this kind. Moreover, the  meaning of the verb has often been overlooked, e. g., prohibebant  (Caesar B. G. loc. cit.) may easily, with but slight aid from the  context, express "die nicht zu Ende gefuhrte Handlung;" cf.  redimebat, mittebatur, versabat, etc.   Whether the idea of real attempted action ever became con-  nected functionally with the imperfect remains to be investigated.  Certainly this did not occur in early Latin, and I doubt whether  it ever occurred. Among the cases cited by Blase are two which  more closely approximate this idea than any others. These are  Sallust Jug. 29. 3 : sed Jugurtha primo tantummodo belli moram  redimebat, existumans sese aliquid interim Romae pretio aut gratia  effecturum; postea vero quam, etc.; cf. Florus i. 10. 1: reducebat.     Impebfect Indicative in Early Latin 365   It is hard for us to feel the progressive force as the more promi-  nent in such cases. We regard as more important the attempt  which is implied in the context, but the Romans preferred to rep-  resent the act graphically as in progress, leaving the idea that it  was not successful to be inferred. When a Roman wished clearly  to express attempt (real conatus), he chose a clear conative  expression, 1 e. g., conari with infinitive. In strict accuracy we ought not to speak of a "descriptive"  imperfect, but of the progressive imperfect in description. The  term "descriptive" imperfect would be justified only in case we  could distinguish from the simple progressives those cases in which  the tense is used purely for graphic presentation of actions which  might more naturally have been indicated by the perfect. Such  a distinction may often be drawn, especially after the development  of a consciously artistic style, but the separation would be worth  little since the progressive function is equally characteristic of  both. The tense was chosen for graphic purposes because its pro-  gressive function made it the most vivid of the past tenses.   The chief difference between Blase's treatment here and my  own will become evident from a consideration of his definition  (Hist. Syntax) :   Aber seiner Hauptverwendung nach ist das Imperf. im latein. ein  Tempus der Schilderung geworden welches einmal im Nebensatz seine  Stelle hat zur Bezeichnung von Zustanden und Handlungen, die wahrend  anderer genannter Zustanden und Handlungen dauerten, und dann im  Hauptsatz bei Schilderungen von Zustanden, Sitten, Gebrauchen, welche  in Beziehung stehen zu irgead einer vorher oder nachher genannten  praeteritalen Handlung.   ! This whole question needs investigation. All the forms of expression of real  conatus should be collected and compared with the tenses as has been done for "cus-  tom" by Miss E. M. Perkins The Expression of Customary Past Action or State in  Early Latin, Bryn Mawr dissertation, 1904.   2 " Reminiscence, reminiscent" are here proposed as equivalents for the German  "Erz&hlung, erz&hlendes, etc.," since the English "narrative," whether noun or  adjective, does not, as may the German "Erz&hlung," etc., imply an appeal to the  memory or recollection. Blase points out (Kritik, p. 12) that I misunderstood the  Latin equivalents narratio, etc., as employed by Rodenbusch (De temporum usu  Plautino, Strassburg, 1888) who thus translates this peculiar German "Erzahlung"  into Latin. My error may seem pardonable under the circumstances.     366 Abthub Leslie Wheeler   This elevates the descriptive power of the imperfect to a higher  position than seems to me justified, unless one defines all cases  having the progressive function as descriptive which Blase evi-  dently does not do, for he makes separate categories of the  "erzahlendes" (reminiscent) function and, as has been seen, of  the conative, 1 in all of which he recognizes the nature of the action  as progressive.   Again it is to be noted that he speaks of the 'description of  customs,' etc., i. e., he does not regard the use of the imperfect to  indicate customary action as important enough even for a sub-  class, although he makes at least varieties of the reminiscent and  conative uses. I shall take up this point more fully below, 2 merely  remarking here that the cases usually termed customary are fully  as peculiar as those termed by Blase conative and far more  numerous, at least in early Latin.   1 would, then, understand as an imperfect used in description  one which is used in a descriptive passage to present any act or  state vividly to the hearer or reader. What Blase's conception is,  I can not discover. He appears to make a distinction (Kritik,  p. 7) between "Erzahlung" 3 (= here "narrative"?) and"Schilde-  rung" ( — description), e.g., in Plautus Bacch. 258-307, Capt.  497-515, Terence Andr. 48ff., 74-102 — passages which I had  cited as descriptive, 4 he sees "reine Erzahlung, keine Schilde-  rung." On the other hand, in Terence Phorm. 60-135, which I  had also cited, he sees "eine Erzahlung mit einzelnen Situations-  malereien." Without quibbling over our characterization of the   i "Conative" is used in this passage merely as representing Blase's classification.   2 With regard to Blase's peculiar distinction between imperfects in dependent and  independent clauses I would remark that in the study of probably two or three thousand  cases of the tense I have never been able to see any essential difference in function due  to the presence of a case in a dependent clause, cf . Am. Jour. Phil. And certainly customs, etc. ("Sitten, Gebrauchen") maybe described in a subordinate  clause as well as in an independent clause.   sif " Erzahlung " is here used by Blase in its technical sense as explained on p. 365,  note, my objections are strengthened, for there is certainly no special "appeal to  recollection" in the imperfects of these passages. One might as well say that the  descriptive presents and infinitives (so-called historical) in the Bacchides passage,  etc., are different from the same usages in, say, Livy, because here the speaker is  supposed to be telling of personal experiences, which is chronologically impossible in  Livy's case.   4 Some of the imperfects are primarily customary.     Imperfect Indicative in Early Latin 367   passages in question let us consider the main point, so far as it  can be discerned in Blase's discussion: that there is to him some  difference between the imperfects in the first group of passages  and those in the Phorm. 60-135. With his characterization of  the latter passage I agree, and I had classified the imperfects in  it as imperfects used in description ("Situationsmalereien"). 1  But what is the difference in the effect of imperfects in this pas-  sage and those in the Bacchides or those, to take a typical passage  from Blase's Tempora und Modi, in Caesar Bell. civ. i. 62. 3 ?  I give the essential parts of the three passages:   Phorm. 80 if. : hie Phaedria continuo quandam nactus est puellulam  .... hanc amare coepit . . . . ea serviebat lenoni .... neque quod  daretur quicquam .... restabat aliud nil nisi oculos pascere, .... nos  otiosi operant dabamus 2 .... in quo discebat ludo exadvorsum ilico  tonstrina erat quaedam, etc.   Bacch.flf . : dum circumspecto, atque ego lembun conspicor ....  is erat communis cum hospite et praedonibus .... is ... . nostrae  navi insidias dabat. occepi ego opservare .... interea nostra navis  solvitur .... homines remigio sequi, navem extemplo statuimus ....   Caesar Bell. civ. i. 62. 3 (in which Blase expressly characterizes nun-  tiabatur, etc., reperiebat as " schildernde," cf . Syntax III, p. 147): Caesar  .... hue iam reduxerat rem, ut equites, etsi difficultate, .... fiebat,  possent tamen .... flumen transire, pedites vero ad transeundum  impediuntur. sed tamen eodem fere tempore pons in Hibero prope  effectus nuntiabatur, etc.   To me there is no difference between the imperfects in the  passages of the Phormio and Bellum civile, on the one hand, and  those of the Bacchides, Captivi, and Andria on the other. All  seem to me to be progressive imperfects in description, some are  also customary (see the collection) and have been classified  under that head as the more important element. Is it not better  to separate such cases as Phorm. 87 operant dabamus, 90 solebamus from the progressive-descriptive types than to group all  together, 3 as is done by Blase?*   1 This term refers to the imperfects, I suppose, though Blase does not specify  exactly what he means.   2 Primarily customary.   3 Blase apparently takes a similar view of the frequentative imperfect; cf. Kritik,  p. 7 and see below.   4 In his Kritik, p. 7 Blase attempts to refute my assertion that the words of Quad-  rigarius are not exactly given by Gellius ix. 11 by pointing to the words of Gellius : ea res     368 Arthur Leslie Wheelek   The usage termed by Blase "erzahlendes," for which I have  proposed in English the term "reminiscent," seems to me to be  closely related to the so-called descriptive imperfect. Blase not  only considers this an important variety {Syn. Ill),  but is inclined to regard it as perhaps an original function. 1  According to his definition {Syn., loc. cit. after Delbriick) the  imperfect is thus used "wenn der Sprechende etwas aus seiner  personlichen Erinnerung mitteilt oder an die personliche Erinne-  rung des Angeredeten appelliert." Both the descriptive and  reminiscent uses, therefore, result from the use of the progressive  function to represent a past act vividly. The reminiscent effect  is due to the fact that in this usage the past acts are restricted to  those which concern the personal experience of the speaker or  hearer; it is a more intimate usage. As clear cases I cite from  Blase's list: Cicero Rep. iii. 43; ergo ubi tyrannus est, ibi non  vitiosam, ut heri dicebam, sed ut nunc ratio cogit, dicendum est  plane nullam esse rem publicam. Here Cicero clearly indicates  that he is repeating the substance of his own words of the day  before = " as I was saying yesterday, let me remind you." 2 So  Catullus 30. 7: eheu quid faciant, die, homines, cuive habeant  fidem ? certo tute iubebas animam tradere, inique, me ....  idem nunc retrains te, etc., where the poet reminds his friend (?)  of the latter's advice. In both cases the progressive force is  clear, and, as Blase says, the tenses stand in no clear temporal  relation to any preterite in their context. Now since the peculiar   .... sicpro/ecfoest in libris annalibus memorata. But profecto refers to the content,  not to the exact, words of the passage in the libri annates. And when Gellius gives a  word-for-word citation, he introduces it by more definite language, cf . ix. 13. 6 verba  Q. Olaudii .... adseripsi. In ix. 11 he is almost certainly paraphrasing, cf. haut  quisquam est. nobilium scriptorum, and in libris annalibus. This is the opinion of  Hertz, who prints this passage in ordinary type. The name of Quadrigarius is not  given, but Gellius was probably taking the substance of the account from him. I  have excluded this passage from the certain remains of early Latin.   iKritik, p. 15: "War die vorliterarische Periode des Lateinischen ahnlich der des  Alt-Indischen (vgl. Delbruck, p. 272) und des Alt-Griechischen (Brugmann Gr. Or. s ,  § 539. 2), so haben wir in den Resten des erzahlenden Gebrauchs ebenfalls eine uralte  Verwendung zu sehen;" cf. pp. 49 f.   2 The English imperfect is employed in the same way, e. g., " The facts are as fol-  lows, as I was saying yesterday," or in vulgar expressions like " Warn't I tellin' ye?"  Usually the time is denned by some adverb as by heri in Cicero. Notice, too, the  contrast between past and present as expressed in both passages by nunc.     Impebfect Indicative in Early Latin 369   appeal to recollection is the distinguishing feature of this remi-  niscent imperfect, it would seem proper to confine the usage to  those cases in which such an appeal is clear. Without discussing  doubtful cases I content myself with indicating those found in  Blase's lists which seem to me clearly not reminiscent. Plautus  Tri. 400: sed aperiuntur aedes quo ibam 1 (an immediate past of  the interrupted type). In the same category I would place  Cicero Att. i. 10. 2: quod ego etsi mea sponte ante faciebam, eo  nunc tamen et agam studiosius et contendam — -except that here  the action of faciebam is not interrupted, but is continued in the  present, cf. agam et contendam. Other immediate pasts are Ovid  Fasti i. 50: qui iam fastus erit, mane nefastus erat; ibid. 718:  si qua parum Komam terra timebat, amet; ibid. ii. 79: quern  modo caelatum stellis Delphina videbas, is fugiet visus nocte  sequente tuos (notice modo) ; ibid. 147: en etiam si quis Borean  horrere solebat, gaudeat; a zephyris mollior aura venit. Varro  R. r. iii. 2. 14: libertus eius, qui apparuit Varroni et me absente  patrono accipiebat, in annos singulos plus quinquagena milia e  villa capere dicebat. Here accipiebat seems simply progressive  and (also against Blase) contemporaneous with vidi just above.  dicebat is difficult and may, as Blase says, be reminiscent ; cf . the  exact details given by the speaker ; or did the phrase in annos  singulos influence the choice of the tense ? So in Cic. Off. i.  108 : erat in L. Crasso, .... multus lepos; 109 : sunt his  alii multi multum dispares .... qui nihil ex occulto, nihil de  insidiis agendum putant ut Sullam et M. Crassum vide-  bamus, the imperfect seems to be progressive used in description.  In Ovid Fast. viii. 331: et pecus antiquus dicebat 'Agonio'  sermo, the imperfect seems to be customary; cf. antiquus and  Paulus s. v. Agonium: Agonium dies appellabatur quo rex  hostiam immolabat; hostiam enim antiqui agoniam vocabant.   But however much the interpretation of single cases may vary,  this is clear: the progressive force is discernible in all these cases.  It would be better, therefore, to content ourselves with this and  not to discover an additional appeal to recollection, unless such  force is perfectly clear, since the real imperfect function is not  altered whether the reminiscent force be present or absent.   lOf. p. 359.    One more remark needs to be made concerning the remini-  scent imperfect. This category has served as a convenient catch-  all for many cases of the imperfect which are difficult to classify  and especially for those in which it is difficult or impossible to  discern any progressive force, many of which I have classified as  aoristic. To classify these last cases as reminiscent is doubly  wrong ; first, because it usually involves a petitio principii, i. e. ,  an effort to discover imperfect function because the form is  imperfect; secondly, because the reminiscent coloring is con-  nected only with instances in which the imperfect (progressive)  function is clear. The shadowy appeal to memory does not exist  as a separate function It has already been pointed out that Blase would not elevate  this variety of the progressive imperfect to the dignity of a sub-  class. The tense, however, occurs so often in the expression of  custom, habit, method, etc., that it seems to me worthy of sepa-  ration from other varieties of the progressive. In early Latin  I have counted about 450 instances in which the customary  coloring seems tome the most prominent element (see the table).   Blase (Kritik, p. 9) has objected to my statement ( Am. Jour.  Phil.) that verbs whose meaning implies repe-  tition (vocito) or even custom (soleo) are especially well adapted  to the expression of the customary past function. He gives no  reason with regard to the first group, vocito, etc., where the mean-  ing is connected with the form. With regard to soleo, etc., he  says only that the reciprocal influence of verb-meaning and tense-  function appears "nicht nachweisbar, da doch der Verfasser  selbst ihr seltenes Vorkommen im Imperfekt natiirlich findet,  weil sie in jedem Tempus der Vergangenheit 'the customary  past function' ausdrucken." There appears here to be some mis-  understanding on Blase 's part and perhaps my statement was too  brief. I did not mean by reciprocal influence of verb-meaning  and tense-function that the tense borrows anything, as Blase  seems to understand me, from the meaning of the verb, but that  when a verb whose meaning implies repetition or custom occurs   i See p. 378 for further remarks.     Imperfect Indicative in Eaely Latin  in the imperfect tense, the expression of custom becomes especially  clear. The meaning of the verb and the function of the tense  are mutually helpful to the expression of the thought. 1 Verbs  like appello, voco, vocito, dico (="name") imply not merely a  single act of naming, but usually many acts at intervals. 2 There  are numerous instances of such verbs in the imperfect (see the  collection) and nothing seems to me to be clearer than that these  verbs are especially well adapted to the expression of custom — •  past, present, or future. If we compare Varro, M. r. i. 17. 2:  iique quos obaeratos nostri vocitarunt with id. L. L. v. 162: ubi  cenabant, cenaculum voeitabant, etc., we see that in the first case  the tense merely states, while the verb-meaning, together with  the context, gives the idea of custom or habit; in the second  (voeitabant) the verb- meaning is reinforced by the imperfect  tense — both aid in the expression of custom. This does not mean  that a Roman more often used the imperfect tense of such verbs  when he wished to express custom, but that when the imperfect  was used, a clearer expression of customary past action resulted. 3  As to soleo, consuesco, etc., the same principle holds, for cus-  tom and repetition are inseparably connected; but since these  verbs imply by their meaning the very function (custom) in  question, it is clear that the imperfect tense would occur more  rarely. When, however, the imperfect was used, there was, just  as in vocito, etc., a more emphatic expression of the customary  idea; cf. Phorm. 90: Tonstrina erat quaedam: hie solebamus  fere plerumque earn opperiri .... Here tense, verb, and particles  all lend their aid to the expression of the idea of custom or habit.  The same idea would have been expressed less clearly by hie fere  plerumque opperiebamur, or by hie fere plerumque soliti sumus  opperiri, or by hie opperiebamur. In the last form only does the   i Cf . Trans. Am. Philolog. Ass., where I first expressed this  view. That verbs like soleo "dominate the tense" I no longer believe; they  aid the tense, but it is impossible to say whether the tense or the verb-meaning is  more influential in the total effect. Cf. also Morris, Principles and Methods in  Syntax, 1901, p. 72.   2 If the intervals are very close together without the implication of custom, I  would classify as frequentative ; see below.   3 Am. Jour. Phil., and the dissertation of Miss Perkins cited  above.    tense-form become entirely dissevered from the influence of verb-  meaning and accompanying particles, and even here context is  operative. The progressive function inherent in all true imperfects renders  the tense well fitted to express repetition in the past. The repeated  acts may naturally occur at wider or narrower intervals, as the case  may require. All expressions of custom, for example, involve an  idea of repetition, but it is only to cases of the imperfect which indi-  cate an act as repeated insistently, usually at intervals very close  together, that I would give the title "frequentative" or "iterative,"  i. e., imperfects in which this element of repetition becomes more  prominent than any other. It seems to me that the existence of  a few such cases in early Latin is not fanciful. In Plautus'  Captivi: aulas .... omnis confregit nisi quae modiales  erant: cocum percontabatur, possentne seriae fervescere, 2 a single  situation is described wherein the parasite repeatedly and insist-  ently asked, kept asking, whether, etc. There is something more  than mere progressive force, on the one hand, and there is no  idea of habit or custom, on the other. The primary element of  the tense is here repetition. When, therefore, Blase sees in As.  207 ff. repetition, he is right, for repetition in a general way is  present in all cases of the customary imperfect; but he is wrong  in viewing repetition as the more important element. The more  important element seems to me custom and in accordance with  this we ought to classify these cases as customary. 3   iln a review of Miss Perkins' dissertation Woch.f. kl. Phil., 1904, cols. 1277-80,  Blase has since admitted the truth of my assertion with regard to the influence of  verb-meaning: "Die Verbalbedeutung ist massgebend z. B.bei alien Verben, die  'nennen,' 'benennen,' bezeichnen, wie appellare dicere vocare, denn der Name  entsteht durch ein gewohnheitsmassiges Nennen. Damit ist der Grand gegeben (by  Miss Perkins) fur eine Behauptung, die ich .... bei Wheeler bezweifelt habe."   2 Blase (Kritik) misses among my cases Rud. 540, which was nevertheless  cited, but escaped him because by a misprint the imperfect was not italicized. On the  same page he cites ten passages and says that I "hier uberall gewohnheitsmftssige  Handlungen erkenne." This is very inaccurate, unless "hier" refers to the last two  passages, As. 207 ff., Bacch. 424 — the only two of the list which I have classified as  customary. My classification of the other eight passages may be seen by referring to  the collection at the end of this paper.   3 Blase (Kritik) seems to imply that I have said that the frequentative  imperfect is commoner in later Latin. I have nowhere said this and my statement,     Imperfect Indicative in Early Latin 373   the aoristic imperfect  Excessive deference to the principle that a difference of form  implies a difference of meaning and the well-known tendency of  investigators to abhor an exception are chiefly responsible for the  unwillingness of some scholars to admit that the imperfect occurs  in Latin with no progressive force, i. e., as an aorist. While I  can not pretend to criticize this method as applied to Sanskrit and  Greek by Delbruck, 1 it seems to me that there are reasons against  its application, in the same degree at least, to Latin. The situa-  tion in early Latin differs essentially from that in Sanskrit and in  Greek. In the first place there is no 'great mass' 2 of cases of the  imperfect in which real progressive force is not discernible, and  the cases (about sixty) are restricted almost entirely to two verbs,  aibam and eram. This seems to indicate that the phenomenon  arose on Latin ground alone and has its explanation in some  peculiarity of the few verbs concerned. Again the greater wealth  of tenses in Sanskrit and Greek would lead us a priori to expect   Am. Jour. Phil, "Latin seems .... to have been unwilling to  take that step," implies the opposite belief. When I added (ibid., p. 187), " If the fre-  quentative imperfect in early Latin is still in its infancy, etc.," it was naturally not  implied that it ever passed out of its infancy ! The facts in later Latin are not known  because they are not collected. Wimmerer naturally repeats from Blase's Kritik both  these errors ( Wien. Stud., 1905, p. 263). He, too, is of the opinion that it is of no ad-  vantage to separate so-called iterative imperfects from those of customary nature:  " wenn doch in jedem Falle erst auf Grund des gewahlten Tempus aus dem Zusam-  menhange erkannt wird, dass es sich um eine Gewohnheit handelt." To this it must  be answered, first, that it is by no means always, and often not at all, on the basis of  the tense that we recognize the presence of customary action. Such action may be  expressed in many ways, the tense being but one element ; and, secondly, if the cases  interpreted by me as frequentative are really essentially different from any other  variety of the progressive, then they should be classified separately, at least until it can  be proved that they belong elsewhere.   1 It will suffice to quote two of Delbruck's statements. He says of the Greek tenses :  "Man muss sich eben mit der Erwagung begnugen, dass es einem Schriftsteller bald  gut schien, zu konstatieren, bald zu erzahlen, ohne dass wir uns seine Motive immer  klar machen konnten" (Vergl. Syn. II, p. 304, cf. pp. 302, 303). A saner. method is  evinced ibid.: " Den Unterschied zwischen Perfekt und Imperfekt (of Sanskrit)  in den einzelnen Stellen nachzuweisen, sind wir nicht mehr im Stande." This is at least  safe agnosticism, biding its time until the lost distinctions shall be found. Blase is  in entire agreement even as regards Latin with the first statement of Delbrflck, cf .  Kritik, p. 12.   2 Delbruck (ibid., p. 304, of Greek) : "Aber .... bleibt doch auch eine grosse  Menge von Stellen ubrig, bei denen wir einen Grund fur die Wahl des Tempus nicht  ausfindig machen konnen."     374 Arthur Leslie Wheeler   in those languages a larger number of instances in which it is  hard to differentiate similar tenses, whereas the much narrower  tense-system of Latin exhibits a tendency to merge the functions  of similar tenses, cf. the perfect in -v- with the reduplicated per-  fect and the formally aoristic perfect in -s-. In accordance with  this preliterary development we should expect indications of the  same tendency in the literary period. The aoristic imperfect is,  I believe, an illustration of this tendency, resulting from the  merging of the functions of imperfect and preterite (aorist) in  certain verbs. The restricted range of the phenomenon and its  probable explanation (see below) would make it unlikely that we  are here dealing with a survival of an Indo-European confusion.   As illustrations of the aoristic usage I will cite : Plautus Poen.  1069 : nam mihi sobrina Ampsigura tua mater fuit (cf. fecit),  pater tuos is erat frater patruelis meus. Here there seems to be  no difference between erat and fuit. Ibid. 900: et ille qui eas  vendebat dixit se furtivas vendere: ingenuos Carthagine aibat  esse, where aibat and dixit seem to be equivalent. For other cases  see the collection.   It is quite possible that others may be able to detect true im-  perfect force in some of the cases which I have classified as aoristic.  Blase, though not quite certain of his own classification, has con-  vinced me that I may have been wrong with regard to Varro H. r.  ii. 4. 11: in Hispania ulteriore in Lusitania .... sus cum esset  occisus, Atilius Hispaniensis minime mendax .... dicebat ....  L. Volumnio senatori missam esse offulam cum duobus costis,  etc. There are so many exact details here that we suspect  Scrofa of reminiscing. So possibly Varro ibid. iii. 17. 4 dice-  bat. 1 But though perhaps a dozen 2 cases might be taken from the  total of those which seem to me aoristic, enough remain to establish  this category on a firm basis.   The exact process by which the progressive function became  lost can not, of course, be proved. I have suggested (Am. Jour.  Phil.) that it is a weakening due to the constant   'Blase is quite right (Kritik, p. 11) in classifying As. 208 aibas as customary. I  neglected to exclude this from four cases cited from Rodenbusch. It was classified on  my own slips as customary.   2 1 have indicated in the collection those which seem to me questionable.     Imperfect Indicative in Early Latin 375   use of certain verbs in ever-recurring similar contexts, until  in the case of aibam the originally graphic ' force was used out of  the form and aibam became a mere tag to indicate an indirect  discourse. 2 With eram the vagueness of the verb-meaning and  the frequency of its occurrence side by side with fui were the  chief influences. In contexts where there are many other imper-  fects all of a definite time, these usually colorless verbs naturally  take the prevailing color 3 of the context; cf. As. 208 aibas.   In his "Tempora und Modi" (Syn. Ill, p. 145) Blase expresses  his belief that an aoristic imperfect as accepted by Luebbert and  J. Schneider has been proven not to exist by E. Hoffmann (Zeit-  partikeln 2 , pp. 181 ff . ) . But neither Luebbert nor Schneider seems  absolutely to have believed in an aoristic usage. 4 Luebbert says  (Quom, pp. 156 ff.) that in Men. 1145 and 1136 ff. we find aoris-  tic perfect and the imperfect, etc. "promiscue gebraucht da der  Unterschied zwischen beiden gering war." "Grering" indicates  that there was to him some difference, even though it was slight.  Schneider's statements are not consistent. In his De temporum  apud priscos scriptores latinos usu quaestiones selectae, Glatz, he says correctly that in many cases no difference  can be seen between aibat and dixit, and that "aibat aoristi  munere fungi," but he adds that the imperfect represents an act  as "infectam ideoque aliter intellegendam acsi perfectam." Hoff-  mann's supposed refutation is very weak. In the first place he   1 If originally reminiscent, the explanation is the same ; for the reminiscent usage  is due to the speaker's effort to represent a past act graphically.   2 Cf. Am. Jour. Phil., where it is stated that the indirect discourse is  always present or implied (rarely) with aibam. Occasionally the object is represented  by a pronoun. Bacch. 982: quid ait?, Capt. 676: ira vosmet aiebatis itaque, etc.   8 Cf. Blase (Kritik, p. 11): "wo aibam mitten zwischen Imperfekta der wieder-  holten oder gewohnheitsmassigen Handlung steht und unmdglich anders gef asst werden  kann."   4 But cf. O. Seyffert in Bursian's Jahresb.: " Das Imperf. findet sich.  bekanntlich bei den Scenikern mehrfach in einem so geringen Bedeutungsunterschiede  vom Perf . und bisweilen unmittelbar neben demselben, dass man ohne wesentliche  Anderung des Sinnes und oft auch unbeschadet des Metrums (Rud. 543, Capt. 717) das  eine Tempus f iir das andere einsetzen kann. Es zeigt sich dies besonders bei den verba  dicendi; das Imperf. von aio vertritt ja geradezu das fehlende Perfect;" cf. ibid.  LjXXX, p. 336, where Seyffert repeats the statement that aibat, e. g., Ps. 1083, represents  the lost perfect of aio. In Am. Jour. Phil.  I had overlooked this remarkable  anticipation of my own conclusions. confuses different uses of the tense, asserting, for example, that in  Plautus Tri. 400: aedes quo ibam, etc., the imperfect is wholly  analogous to that in Tacitus Ann. ii. 34: simul curiam relinquebat.  commotus est Tiberius, etc. ; cf. iv. 43 sequebatur Vibius Crispus,  donee, etc., and that in the last two cases the imperfect jars on us  because such an action is not usually presented "in der Phase ihres  Vollzugs." Such an application of the tense may seem strange to  a German, but to one who speaks English, it is entirely natural  and could not for a moment be mistaken for anything but a  simple progressive imperfect. To refute such a usage as a supposed  aorist is to knock down a man of straw. The supposed analogy of  these cases to Tri. 400 does not bear on the point, but it may be  remarked that ibam is analogous only in the fact that its action is  progressive and interrupted, but it belongs to the immediate past  type. 1 Hoffmann then cites ten cases of aibat, six of which may  be taken aoristically, and asserts that the tense is in all used  "in voller Gesetzmassigkeit." This assertion rests on entirely  inadequate foundation. 2   the shifted imperfect  Blase seems right in restricting the 'shifted' imperfect to one  class (Kritik) = an imperfect subjunctive with present  meaning; for, as he says, there is no real shifting if the  preterital sense remains. But when he adds 3 that "ein sicherer  derartiger Fall ist weder bei Plautus und Terenz, noch sonst im  Altlatein vorhanden," I can not agree. He accepts as cases  of shifting Varro, L. L. viii. 65: sic Graeci nostra senis casibus  .... dicere debebant, quod cum non faciunt, non est analogia,  and ix. 85: si esset denarii in recto casu .... tunc in patrico  denariorum dici oportebat, and ix. 23: si enim usquequaque esset  analogia, turn sequebatur, ut in his verbis quoque non esset, non,    2 J. Ley Vergilianar. quaestion. specimen prius de temporum usu, Saarbriicken,  1877, apparently believes that eram and fui in Vergil are so nearly equivalent that  metrical convenience often decided between them ; cf . Blase Syn. Ill, p. 164 Anm. I  have not seen this dissertation, but the explanation is, on its face, insufficient.   S0f. his Syntax: " Der Indikativ des Imperfekts hat erst seit Beginn der  klassischen Zeit eine allmahliche Verschiebung aus der Sphfire der Vergangenheit in  die der Gegenwart erfahren."     Imperfect Indicative in Eably Latin 377   cum esset usquequaque, ut est, non esse in verbis. If these are  real cases of shifting, how do the following differ ? Plautus Merc.  983 e : temperare istac aetate istis decet ted artibus ....  vacnom esse istac ted aetate his decebat noxiis. itidem at tem-  pus anni, aetate alia aliud factum convenit; Mil. 755: insanivisti  hercle (perf. def.): nam idem hoc hominibus sa/[a] era[n]t  decern; ibid. 911: bonus vatis poteras esse: nam quae sunt  futura dicis. 1 If the passages from Varro move in the present  (Blase Kritik, pp. 13, 14), the same is true here; cf. Auct. ad  Herenn. ii. 22. 34: satis eratjiv. 41. 53 infimae (infirmae?) erant. 2  That Varro L. L. viii. 74 oportebat stands "zwischen zwei Per-  fekten" (Blase) is accidental. 3   This peculiar shifting was explained by me Am. Jour. Phil. as due to the unreal (contrary-to-fact) idea  present in the context or in the meaning of the verb (oportebat,  etc.) or in both ; cf. Blase (Syn. Ill, p. 149) who also calls attention  to the auxiliary character 4 of the verbs involved and thinks that  the shifting began with verbs of possibility and necessity which  seems a probable view.   In conclusion a few words are necessary with regard to some  general aspects of the subject and its method of treatment. The  original function or functions 5 of the imperfect can not, of course,  be certainly inferred from a syntactical investigation of material  which is relatively so late even with the aid of etymology and  comparative philology. My statement (loc. cit., p. 184) that the  progressive function was probably original was therefore intended   i Cf. Rud. 269 aequius erat, True. 511 poterat, Aul. 424. For the other eases  see collection.   2 But not iv. 16. 23, which I now see is not shifted.   8 And both are cases of debuerunt! In his Kritik, p. 13, Blase denies my assertion  (loc. cit., p. 181, n. 1), that the perfect indie, and the perfect infin. of these verbs are  shifted in Varro, cf . L. L. viii. 72-74 ; viii. 48 ; viii. 50 ; viii. 61, 66. I am glad to find my  view supported by Wimmerer Wien. Stud., 1905, p. 264 : " Denn da der Grund der Ver-  schiebung hier vor allem in der Bedeutung der Verba liegt, so kann konsequenterweise  ebenso gut ein debuit wie ein debebat verschoben werden."   «Cf. Am. Jour. Phil. XXIV, p. 190.   6 It is uncertain whether the original meaning of the tense was vague, admitting  several uses which gradually became narrowed to one (the progressive), or whether  there was one original meaning which split into several related uses. The facts seem  to point to the second alternative.     378 Arthur Leslie Wheeler   only as a probability based upon the existence of this force in  nearly all the cases and upon the generally accepted etymology of  the imperfect form. But nothing like proof was claimed for this  theory. Blase is inclined, following Delbrtick and Brugmann, to  regard the reminiscent usage also as an original one (cf. p. 26,  n. 2), but he rightly says that no statistics can prove which of  these two is earlier. If my view that the reminiscent usage is  rather an application of the progressive than itself a separate  function is correct, then the progressive is older. The existence  of the reminiscent imperfect in Sanskrit and Greek certainly  makes it very probable, as Blase says, that it existed in preliterary  Latin also. If this is so, I am inclined to refer it to the same  general origin as the so-called descriptive imperfect — to the effort  to present a past act (here a personal experience) vividly. 1   But the search for original meanings must ever remain within  the realm of theory; nor can we hope even theoretically to reach  any considerable degree of probability in the establishment of  such meanings without the most careful collection and classifica-  tion of the facts within the period of written speech. And this  should precede the appeal to etymology and comparative phi-  lology. What is actually found in any given language, not what  according to comparative philology ought to be found, should be  our first aim. Although I would not minimize the importance in  syntactical study of the comparative method, it seems to me prop-  erly applied only as a supplement, not as the controlling factor  to which all else is subordinated. Indeed, a premature appeal to  comparative philology may result in premature conclusions,  for an investigator whose head is filled with preconceived notions  drawn from Sanskrit and Greek is all too apt to imagine peculi-  arities in Latin phenomena which he would not have perceived  at all, had he approached by a Latin route alone; and such  peculiarities have little value unless they can be recognized as  Latin without foreign assistance. Once recognized they may,  and often do, receive much additional light from comparative  philology. While it is true, then, that scholars will differ with   •Cf. Am. Jour. Phil., where it was surmised that the descrip-  tive application of the tense was Indo-European.     Imperfect Indicative in Early Latin 379   regard to a few cases' in any given syntactical phenomenon and  the ultimate classification must not neglect the aid of comparative  philology, yet the chief basis of investigation is agreement among  scholars with regard to the great majority of such cases viewed  as purely Latin phenomena. If this agreement is lacking,  comparative philology can rarely bring reliability to the results. The statistical table shows that this investigation is based upon  a collection of 1,223 imperfects. It has been my aim to exclude  from consideration (and from the table) all passages of dubious  authorship, corrupt text, or insufficient context. About 170 cases  have thus been excluded, a seemingly large proportion, but it  must be remembered that much of the literature of the third and  second centuries before Christ is fragmentary and very often  there is not enough context to render classification at all certain.  In so large a body of text it is probable that some cases have  escaped my notice, but most of the ground has been examined at  least twice and such omissions can hardly be numerous or alter  essentially the results. I have subjected the material to a careful  revision and the table differs slightly from that published in  Am. Jour. Phil.  It would seem unnecessary nowadays for any syntactical  scholar to state that he lays no stress on statistics as such, but  when a reviewer 2 attributes to me the conviction that I have  proved this and that by just so many exact figures, it seems  proper for me to disclaim any such conviction. The fact that  exact figures do not in themselves mean anything does not,  however, excuse one from being as exact as possible.   iCf. Wimmerer Wien. Stud.: "die syntaktischen Einzeltatsachen sind  viel zu sehr umstritten als dass auf sie allein eine brauchbare Klassiflkation  und Erkl&rung der Arten eines einigermassen verzweigten syntaktischen Gebrauches  gesttizt werden kdnnte." With this I agree, except possibly as to what is a "brauch-  bare Klassiflkation," but when he says (p. 61), with reference to my inference that the  progressive function is original: "Den Begriff aber hat die vergleichende Sprach-  wissenschaft langst festgestellt," I would suggest that such a conclusion could not be  regarded as 'firmly established' except with several investigations like mine as chief  ies.   2 In Archiv.f. lat. Lex. und Gk. XIV, p. 289.     380 Abthuk Leslie Wheelee   The method of citation adopted in the collection will doubtless  seem to many inadequate. It is especially true, however, of the  classification of tense functions, that very often a large body of  context must be taken into consideration. For this reason very  many of the citations even in Blase's "Tempora und Modi" are  quite useless and misleading because of their brevity. It seemed  best, therefore, to cite as fully as possible in the body of the  article, but in the collection to cite only each form and the place  of its occurrence. Those who are interested in examining a given  usage in detail will in any case revert to the complete context, as  I know by experience. I. Progressive Imperfect  A. Simple Types, including imperfects in description, reminiscence,  and the "immediate" past variety.  Plautus, ed. Goetz and Schoell, ed. minor, Lipsiae, 1892-96.  Amph. prol. 22 scibat; 199 pugnabant .... fugiebam; 251 com-   plectabantur;  aiebas; 385 sci[e]bam; 429erat; 597 credebam;   603 stabam; 711 solebas; 1027 censebas; 1067 confulgebant;   1095 rebamur; 1096 confulgebant. 14   As. 300 scibam; 315 mirabar; 385 censebam; 392 volebam; 395   volebas; 452 volebam; 486 volebas; 888 suppilabat; 889 suspi-   cabar .... eruciabam; 927 ingerebas .... eram; 931 dissua-   debam. 13   Aul. 178 praesagibat .... exibam; 179 abibam;  poterat; 376   erat; 424 aequom .... erat; 427 erat; 550 meditabar; 625   radebat .... croccibat; 667 censebam expectabam ....   abstrudebat; 754 scibas; 827 apparabas. 15   Bacch. 18 (frag, x) erat; 189 volebam; 282 erat dabat; 297   dabant; 342 censebam; 563 erat; 675 sumebas; 676 nescibas;   683 suspicabar; 788 orabat restabant; 983 auscultabat   .... loquebar. 14   Capt. 273 erat; 491 obambulabant; 504 eminebam; 561 aibat;   654 assimulabat; 407 audebas; 913 frendebat. 7   Cas. 178 ibam; 279 aiebat; 356 rebar; 432 trepidabant .... fes-   tinabat; 433 subsultabat; 532 erat; 578 praestolabar; 594 ibam;   674 volebam; 702 volebam; 882 erant erat .... erat   .... erat.  Cist. 153 poteram; 187 exponebat; 566 perducebam; 569 adiura-   bat; 607 ai[e]bas properabas; 721 rogabat; 723 quaeritabas;   759 quaeritabam. 9   Cure. 390 quaerebam; 541 credebam. 2     Imperfect Indicative in Early Latin 381   Epid. 48 amabat; 98 solebas; 138 desipiebam ; .... mittebam; 214  occurrebant; 215 captabant; 216 habebant; 218 ibant; 221 prae-  stolabatur; 238 dissimulabam ; 239 exaudibam .... fallebar;  241 ibat; 409 apparabat; 420 adsimulabam; 421 me faciebam.  482 deperibat; 587 vocabas; 603 dicebant; 612 aderat. 20   Men. 29 erant; 59 erat; 63 ibant; 195 amabas .... oportebat;  420 advorsabar; .... metuebam; 493 eram; 564 ferebat; 605  censebas; 633 negabas; 634 negabas .... ai[e]bas; 636 cense-  bas; 729 negabas; 773, 774 suspicabar; 936aiebat; 1042ai[e]bat;  1046 aiebant; 1052 ferebant; 1053 clamabas; 1072 censebam;  1116 cadebant; 1120 eramus; 1135 erat .... vocabat; 1136  censebat; 1145 vocabat. 28   Merc. 43 abibat; 45 rapiebat; 175 quaerebas; 190 abstrudebas;  191 eramus; 197 censebam; 212 credebat; 247 cruciabar; 360  habebam; 754 obsonabas; 815 censebam; 845 erat .... quae-  ritabam; 884 ibas; 981 ibat. 15   Miles 54 erant; 100 amabant; 111 amabat; 181 exibam ....  erat; 320 ai[e]bas; 463 dissimulabat; 507 osculabatur; 835 cale-  bat .... amburebat; 853 erat; 854 erat; 1135 exoptabam; 1323  eram .... eram; 1336 temptabam; 1140 erat; 1430 habebat. 18   Most. 210 quaerebas; 221 su<b>blandiebar; 257 erat; 787 erat;  806 aiebat; 961 faciebat. 6   Persa 59 poterat; 171 censebam; 257 somniabam .... opinabar;  .... censebam; 262 erant; 301 cupiebam; 415 censebam; 477  credebam; 493 occultabam; 626 pavebam; 686 metuebas. 12   Poen. 391 dicebas; 458 sat erat; 485 accidebant; 509 scibam; 525  properabas; 748 dicebant; 899 vendebat; 1178 aderat; 1179  complebat; 1180 erat; 1231 volebam; 1391 expectabam. 12   Pseud. 286 amabas; 421 subolebat; 422 dissimulabam; 492 nole-  bam; 499 scibam; 500 scibas; 501 mussitabas .... scibam;  502 aderat .... aberat; 503 erat .... era<n>t; 677 habebam;  698 arbitrabare; 718 ferebat; 719 accersebat; 799 conducebas  .... erat; 800 sedebas .... eras; 912 circumspectabam ....  metuebam; 957 censebam; 1314 negabas. 24   Kud. 49 erat; 52 erant; 58 erat; 222 oblectabam; 307 exibat; 324  suspicabar; 378 scibatis; 379 amabat; 452 censebam; 519 age-  bam; 542 aiebas; 543 postulabas; 600 quibat; 841 erat; 846  sedebant; 956a faciebat; 9566 fiebat; 1080 aiebas; 1123 pete-  bas; 1186 credebam; 1251 monstrabant; 1252 ibant; 1253 erat;  1308 erat. 24   Stich. 130placebat; 244praedicabas; 328 visebam; 329 miserebat;  365 superabat; 390 negabam; 540 erant; 542 erant; 543 erat; 545  erant; 559 postulabat. 11     382 Arthur Leslie Wheeler   Trin. 195 volebam; 212 aiebant;.400 ibam; 657 scibam ....  quibam; 901 erat .... gerebat; 910 vorsabatur; 927 latitabat;  976 eras; 1092 agebat; 1100 effodiebam. 12   True. 164 vivebas; 186 cupiebat; 198 lavabat; 201 celebat metue-  batque; 332 dicebam; 333 revocabas; 648 debebat; 719 eras;  733 dabas; 748 volebas; 757 aibas; 813 erat .... valebat ....  petebat; 921 ibat. 16   Vid. 71 miserebat; 98 piscabar. 2   Fragmenta fabb. cert. 86 sororiabant; 87 fraterculabant. 2   Plautus, IA, Total 291  Terence, ed. Dziatzko, 1884.   Ad. 78 agebam; 91 amabat; 151 taedebat; 152 sperabam; 153  gaudebam; 234 eras; 274 pudebat; 307 instabat; 332 iurabat;  333 dicebat; 461 quaerebam; 561 aibas; 567 audebam; 642  mirabar; 693 credebas; 809 tollebas; 810 putabas; 821 ibam;  901 eras. 19   And. 54 prohibebant; 59 studebat; 60 gaudebam; 62 erat; 63  erat; 74 agebat; 80 amabant; 86 erat; 88 amabant; 90 gaude-  bam; 92 putabam; 96 placebat; 107 amabant .... aderat; 108  curabat; 110 cogitabam; 113 putabam; 118 aderant; 122 erat;  175 mirabar; 176 verebar; 435 expectabam; 490 imperabat;  533 quaerebam; 534 aibant; 545 dabam; 580 ibam; 656 adpar-  abantur; 657 postulabat; 792 poterat; exit, suppositic. I expec-  tabam. 31   Eun. 86 eras; 87 stabas .... ibas; 97 erat; 112 dicebat; 113  scibat .... erat; 114 addebat; 118 credebant; 119 habebam;  122 eras; 155 nescibam; 310 congerebam; 323 stomachabar; 338  volebam; 345 erat; 372 dicebas; 378 iocabar; 423 erat; 432 ade-  rant; 433'metuebant; 514 erat; 533 orabant; 569 erat; 574 cupi-  ebam; 584 inerat; 587 gaudebat; 606 simulabar; 620 faciebat  .... cupiebat; 621 erat; 681 erat; 727 adcubabam; 736 erat  .... nescibam; 743 expectabam; 841 erant; 928 amabant; 1000  quaerebat; 1004 scibam; 1013paenitebat; 1065 quaerebam; 1089  ignorabat. 43   Heaut. 127 faciebant; 200 erat; 201 erat; 256 volebam; 260 can ta-  bat; 293 nebat; 294 erat .... texebat; 308 scibam; 366 tracta-  bat; 445 erat .... erant; 536 oportebat; 629 erat; 758 opta-  bam; 781 dicebam; 785credebam; 844 quaerebam; 907 videbat;  924 aiebas; 960 aiebas; 966 erat. 22   Hec. pro. II. 16 scibam; 91 eram; 94 licebat; 115 amabat; 162  erat; 172 redibat; 178 conveniebat; 230 erant; 283 eram; 322  poteram; 340 eras; 374 dabat; 375 monebat .... poterat; 422  expectabam; 455 agebam; 498 orabam; 538 negabas; 561 aderam;  581 rebar; 651 optabamus; 713 credebam; 806 pudebat. 23     Imperfect Indicative in Eaely Latin 383   Phorm. 36 erat; 51 conabar; 69 erat .... supererat; 83 servi-   ebat; 85 restabat; 88 discebat; 89 erat; 97 erat? 99aderat; 105   aderat; 109 amabat; 118 cupiebat .... metuebat; 298 duce   bat; 299 deerat; 355 agebam; 365 habebat; 468 erant; 472 quae-   rebam; 480 aibat; 490 mirabar; 529 scibat; 570 manebat; 573   commorabare; 582 scibam; 595gaudebat .... laudabat ....   quaerebat; 596 gratias agebat; 614 agebam; 642 insanibat; 652   ven<i>bat; 654 opus erat; 759 volebam .... volebam; 760daba-   mus operam; 797 sat erat; 858 aderas .... aderam; 900 iba-   mus; 902 ibatis; 929 dabat; 945 eras; 1012 erant; 1013 erat;   1023 erat. 47   Terence, I A, Total 185  Cato ed. Jordan, Lipsiae, 1860.   p. 36. 2 sedebant .... lacessebamur. Total 2   Dramatic and epic fragments.  Naevius. Bell, pun., ed. Mueller, 1884.   5 immolabat; 7 exibant; 12 exibant; 65 inerant.   tabular, fragmenta, ed. Ribbeck 3 , 1897-98.   I p. 16 IV habebat .... erat; p. 322 II proveniebant.   II p. 30 VII faciebant .... tintinnabant. 9  Ennius, ed. Vahlen 2 , 1903.   Annal. 28 premebat; 41 videbar; 43 stabilibat; 82 certabant;  87 expectabat; 87 tenebat; 138 mandebat; 139 condebat; 147  volabat; 190 sonabat; 202 solebat; 216 erat; 307 vivebant; 307  agitabant; 309 explebant .... replebant; 343 aspectabat; 408  sollicitabant; 459 parabant; 497 fremebat; 555 cernebant. 21  Scenica. 15 eiciebantur; 123 erat; 127 inibat; 251 petebant; 324  scibas.   Saturar. 65 adstabat.   Varia. 45 videbar; 64 ibant. 8   Pacuvius, ed. Ribbeck 3 1, p. 65 XVI conabar. 1   Accius, ed. Ribbeck 3 , p. 162 V ostentabat; p. 162 VII scibam;   p. 165 VI expectabat; p. 205 X erat; p. 210 XII commiserebam   .... miserebar; p. 213 XX educabant; p. 251 XIII mollibat. 8   Incert. p. 273 V ecsacrificabat; p. 282 XXXII hortabar; p. 285   XLV scibam; p. 304 CI expetebant. 4   Turpilius, ed. Ribbeck 3 II, p. 101 II nescibam; p. 107 V sperebam;   p. 120 X videbar. 3   Titinius, ed. Ribbeck 3 II, p. 168 II aibat. 1   Afranius, ed. Ribbeck 3 II, p. 215 VI hortabatur; p. 217 XII sup-   ponebas. 2   Pomponius, ed. Ribbeck 3 II, p. 303 II cubabat. 1   Incert., ed. Ribbeck 3 II, p. 137 XXIV ferebat simulabat. 2   Dramatic and Epic Fragments, IA, Total 60     384 Arthur Leslie Wheeler   Historicorum fragm., ed. Peter, 1883.   p. 70. 9 nesciebant; 72. 23 erant; 72. 27 cymbalissabat; 72. 27 can-  tabat; 73. 37 mirabantur .... reddebat; 83. 27 apparebat ....  habebat .... sedebant; 94. 13 erat; 110. 7 habebat; 136. 5  erant; 137. 8 concedebat; 137. 8 praecellebat; 137. 10 b antista-  bat; 138. 10 audebat; 138. 11 licebat; 141. 29 erant; 142. 37 erant;  143. 46 captabat; 145. 57 erat .... erat .... sciebant ....  apparebat; 149. 81 mirabantur; 150. 85 sauciabantur .... opus  erat .... defendebant; 178. 8 erat .... tegebat; 178. 9 pot-  erat; 179. 23 indigebat; 184. 79 sciebat; 184. 86 erat.   I A, Total 34  Orator, fragm., ed Meyer, Turici, 1842.  p. 192 narrabat .... poteram; p. 231 existimabam .... arbitra-  bar .... stabant .... erant; 236 ferebantur .... lavabantur.   I A, Total 8  Lucilius, ed. Marx, 1904.  393 stabat; 394 obiciebat; 479 erat; 531 serebat; 534 ibat; 1108  gemebat; 1142 ibat (not in Mueller's ed.); 1174 volebat; 1175  ducebant; 1187 haerebat; 1207 premebat.   I A, Total 11  Auctor ad Herennium, ed. C. L. Kayser, 1854. G. Friederich's text in  C. F. W. Mueller's Cicero, Vol. I, has been compared throughout.  1. 1. 1 intelligebamus .... attinebant .... videbantur; 1. 10.  16 postulabat; 1.12. 21 erat; 1. 13. 23 defendebant .... erant;  2. 1. 2 existimabamus .... ostendebatur; 2. 2. 2 videbatur; 2.  5. 8 faciebat; 2. 19. 28 volebat .... metuebat .... videbat  .... sperabat .... verebatur .... hortabatur .... remove-  bat; 2. 21. 33 erant .... habebat; 3. 1. 1 pertinebant ....  erant .... videbantur; 3. 15. 26 demonstrabatur; 4. 9. 13 pote-  rant .... videbant; 4. 12. 18 inpendebant; 4. 13. 19 ingenio-  sus erat, doctus erat, .... amicus erat; 4. 14. 20 erat; 4. 15. 22  removebas .... abalienabas; 4. 16. 23 damnabant .... ini-  quom erat; 4. 18. 25 erant .... poterant; 4. 19. 26 proderas  .... laedebas .... proderas .... laedebas .... consule-  bas; 4. 20. 27 oppetebat .... comparabat; 4. 24. 33 putabas;  4. 24. 34 habebamus .... habebam .... erat .... obside-  bamur .... videbar; 4. 33. 44 adsequebatur .... profluebat  .... erat; 4. 33. 45 pulsabat .... ducebat; 4. 34. 46 videban-  tur; 4. 37. 49 erat .... oppugnabat; 4. 41. 53 veniebat ....  occidebatur; 4. 49. 62 inibat; 4. 55. 68 faciebat.   I A, Total 62  Corpus Inscr. Lat., Vol. I.  201. 6 animum .... indoucebamus .... scibamus .... arbi-  trabamur.   I A, Total 3     Imperfect Indicative in Early Latin 385   Varro, De lingua Lat., ed. Spengel, 1885.   5. 9 videbatur; 5. lOOerat; 5. 128erat; 5. 147 pertinebat; 7. 39erat;  7. 73 erant; 8. 20 erant; 8. 59 erant. 8   De re rust., ed Keil, 1889,   1. 2. 25 ignorabat .... despiciebat; 1. 13. 6 habebat; 2. 11. 12  ibam; 3.2. lstudebamus; 3. 2. 2sedebat; 3. 13. 2erat .... dice-  bat .... erat .... cenabamus; 3. 5. 18 dicebatur; 3. 16. 3 erat;  3. 17. 1 sciebamus; 3. 17. 9 ardebat. 14   Sat. Menipp., ed. Kiese, 1865, p. 198, 1. 1 regnabat; p. 223, 1. 9  findebat. 2   I A, Total 24   Grand Total, I A, 680   B. Imperfect of Customary Action.   Plautus   As. 142 habebas; 143 oblectabas; 207 arridebant .... veniebam;   208 ai[e]bas; 210 eratis .... erant; 211 adhaerebatis; 212 faci-   ebatis .... nolebam; 213 fugiebatis .... audebatis; 341 sub-   vectabant. 13   Aul. 114 salutabant; 499 erant. 2   Bacch. 421 erat .... eras; 424 accersebatur; 425perhibebantur;   429 exercebant ; 430 extendebant ; 438 capiebat ; 439 desinebat. 8   Capt. 244 imperitabam; 474 erat; 482 solebam. 3   Cist. 19 dabat .... infuscabat; 162 habitabat. 3   Epid. 135 amabam. 1   Men. 20 dabat; 484 dicebam; 715praedicabant; 716 faciebat; 717   ingerebat; 1118 eratis; 1119 eratis; 1122 eratis .... erat; 1123   vocabant; 1131 erat. 11   Merc. 217 credebat. 1   Miles 15 erat; 61 rogitabant; 99 erat; 848 erat; 849 imperabat   .... promebam; 850 sisteba<h>t; 852cassaba<n>t; 855 a com -   plebatur; 856 bacc<h>abatur .... cassabant. 11   Most. 150 erat; 153 victitabam; 154 eram; 155 expetebant; 731   erat. 5   Persa 649 amabant; 824 faciebat; 826 faciebat. 3   Poen. 478 praesternebant; 481 indebant; 486 necabam. 3   Pseud. eram; 1180 ibat .... ibat; 1181 conveniebatur. 4   Rud. 389 habebat .... habebat; 745 erant; 1226 memorabam.  Stich. 185 utebantur. 1   Triu. 503 erat; 504 dicebat. 2   True. 81 memorabat; 162 habebam; 217 habebat; 381 sordeba-   mus; 393 habebat; 596 erat. 6   Pragmenta fabb. cert. 24 erat; 26 monebat .... erat. 3   I B, Total 84     386 Arthur Leslie Wheeler   Terence   Adel. 345 erat. 1   And. 38 servibas; 83 observabam; 84 rogitabam; 87 dicebant; 90   quaerebam .... comperiebam; 107 habitabat; 109 conla-   crumabat. 8   Eun. 398 agebat sc. gratias; 405 volebat; 407 abducebat. 3   Heaut. 102 accusabam; 110 operam dabam; 988 indulgebant   .... dabant. 4   Hec. 60 iurabat; 157 ibat; 294 habebam; 426 impellebant; 804   accedebam; 805 negabant. 6   Phorm.  operam dabamus; 90 solebamus; 363 erat; 364 con   tinebat; 366 narrabat; 790 capiebant. 6   I B, Total 28   Cato, De agr., ed. Keil, 1895, and fragmenta, ed. Jordan, 1860.  1. 2 laudabant .... laudabant; 1. 3 existimabatur ....  laudabatur.   Jordan, p. 37. 20 capiebam; p. 39. 8veniebant .... deverte-  bantur; 64. 2 dabant; 82. 10putabant(?); 82. habebatur ....  laudabatur; 83.1 mos erat .... erat; 83. 2emebant; 83. 3 erat  .... studebat .... adplicabat; 83. 4 vocabatur.   I B, Total 18   Dramatic and epic.  Ennius, Ann. 214 canebant; 371 ponebat.   Scenica 355 suppetebat. 3   Incert. Ribbeck 3 1, p. 287 I aspectabant .... obvertebant. 2   Turpilius, Ribbeck 3 II, p. 101 V flabat .... erat. 2   I B, Total 7   Historicor. fragg.  p. 64, 114 unguitabant' .... unctitabant; 1 66. 128 temptabam  .... spectabam .... donabam .... laudabam; 83. 27 faci-  ebat; 109. 1 demonstrabant; 110. 6 proficiscebatur .... seque-  bantur; 123. 13 utebatur; 141. 31 vocabantur; 202. 9 claudebant  .... educebant .... continebant .... cogebant ....  insuebant.   I B, Total 16   I B, Total 2   I B, Total 1     Orators, ed. Meyer, p. 222 vocabant; 355 solebas.  Lucilius, ed. Marx 1236 solebat.     1 Perhaps different versions of the same passage ; cf . Peter. I count them as one  case.     Imperfect Indicative in Early Latin 387   Auctor ad Herenn., ed. Kayser.   4. 6. 9 videbat .... poterat; 4. 7. lOerant .... poterant; 4. 16.  23 putabant .... existimabatur .... putabant .... opserva-  bant; 4. 22. 31 concedebant; 4. 53. 66 erat; 4. 54. 67 solebat.   I B, Total 11  CIL. I. 1011. 17 florebat.   I B, Total 1  Varro, De ling. Lat., ed. Spengel.   5. 3 dicebant .... dicebant .... significabant; 5. 24 dicebant;  5. 25 obruebantur .... putescebant; 5. 33 progrediebantur; 5.  34 agebant .... agebat .... poterat; 5. 35 agebant ....  vehebant .... ibant; 5. 36 coalescebant .... capiebant ....  colebant .... possidebant; 5. 37 videbatur; 5. 43 erat ....  advehebantur .... escendebant; 5. 55 dicebat; 5. 66 dicebat  .... putabat; 5. 68 dicebant; 5. 79 dicebant; 5. 81 mittebantur;  5. 82 dicebatur; 5. 83 dicebat; 5. 84 erant .... habebant; 5. 86  praeerant .... fiebat .... mittebantur; 5. 89 fiebat ....  mittebant .... pugnabant .... deponebantur .... subside-  bant; 5. 90 praesidebant; 5. 91 fiebant .... adoptabant; 5. 95  perpascebant .... consistebat; 5. 96 dicebant .... parabantur;  5. 98 dicebant; 5. 101 dicebat; 5. 105 faciebant .... servabant  condebant; 5. 106 coquebatur .... fundebant; 5. 107 faciebant  .... vocabant; 5. 108 edebant .... ferebat .... decoque-  bant; 5. 116 faciebant .... habebant .... opponebatur; 5. 117  fiebant; 5. 118 appellabant .... erat .... ponebant; 5. 119  infundebant .... figebantur; 5. 120 ponebant .... ponebant;  5. 121 nominabatur; 5. 122 erant; 5. habebat  dabant  sumebant erat vocabatur ponebatur erat vocabatur habebant solebat apponebatur .bibebant coquebant arcebantur ministrabat vellebant utebantur iaciebant corruebant muniebant exaggerabant  portabatur sepiebant relinquebant condebant circumagebant faciebant vocabant fiebat erat erat aiebat coibant vehebantur adibant relinquebatur dicebatur  impluebat compluebat volebant cubabant cenabant vocitabant cenabant exigebant legebant ponebant dicebant involvebant erant dicebant calcabant insternebant appellabant operibantur Scandebant dicebatur erat valebant volebant erat dicebant petebat inficiabatur Wheeler deponebant auferebat redibat exigebatur; dicebant erant ponebant stipabant componebant pendebant accedebat dicebant inspiciebantur dicebant dicebat videbatur dicebantur putabant persolvebantur erat fiebant dicebat circumibant conveniebant dicebant consumebatur vitabant ponebant legebantur spondebatur appellabatur dicebant promittebat consuetude erat dicebant dicebant acciebat videbatur intererat fiebant dicebant appellabant putabant relucebant legebantur poterant dicebantur fiebat erant habebant conducebantur ascribebantur habebant committebant dicebat animadvertebantur arabant dicebant dicebant erat vocabatur erat erant erat dicebantur erat notabant erant utebantur dicebatur pendebat dicebant valebat dicebatur constabat dicebatur dicebant. De re rust., ed. Keil, Lipsiae solebant dicebat poterat .... effodiebat appellabant faciebant vocabant pendebat dicebantur faciebant erant laudabatur providebant dabant dicebant inserebantur vocabant praeponebant putabant appellabant reiciebant hibernabant .... aestivabant vocabat solebat dicebant dicebant habitabant sciebant alebantur redigebant; credebant habebant serebant pascebant habebat ostendebas accipiebat .... dicebat dicebat dicebant erat pascebantur erat erat  habebant erat laudabant aiebat dicebant vocabant dicebantur iubebat putabat appellabant appellabant dabat consumebat habebat adgerebant coiciebat erat laborabat  aiebat .... despiciebat Sat. Menipp., ed. Eiese P. erat radebat vehebantur sol vebat loquebantur solebat; suscitabat habebant habitabant. Total  Imperfect Indicative in Early Latin Imperfect of Frequentative Action.   Plautus, Asin. dicebam; Capt.  percontabatur; Epid. mittebat; missiculabas; Merc. promittebas; Miles dicebat; Persa visitabam negabas; Kud.  promittebas;  True. poscebat Ennius, Ann. tendebam vocabam. Historicor. fragg. expoliabantur Total  Aoristio Imperfect   Plautus, Amph. aibas erat; As. aibat Bacch. aibat;  Capt. aiebatis(?); Cist. ai[e]bat  ai[e]bat; Cure. Aiebat aiebat; Epid. Aiebat agnoscebas; Men. aiebas aiebat; Merc. poterat ai[e]bant aiebat 8aiebant aiebat aiebat aiebant; Miles ai[e]bant aiebat erat erat; Most. aiebant aiebat aiebat;  Poen. aibat aibat erat; Ps. Aiebat aibat aibat; Eud. Aibat erat aiebas(?); Stich. aibat; Tri. aibas aibat aibant aibat aiebas aibat. Terence, Adel. erat erat aibat; Andr. aiebat aibat; Eun. Scibas dicebat; Heaut. erat; Hec. aibant; Phorm. Aibant sat erat. Historicor. fragg. poterat Varro, Der. dicebat dicebas Auctor ad Herenn.poterat erat 2 Total Shifted Imperfect   Plautus, Merc. 6decebat; Miles sat era[n]t; 911poteras; Rud. aequius erat; True.poterat Terence, Heaut. poterat Lucilius (Marx) sat erat. Varro, De 1. L. oportebat debebant oportebat sequebatur oportebat. Auctor ad Herenn satis erat infimae erant. Arthur Leslie Wheeler I.PEOOBESSIVE (TeUB) ImPEKFECT Total II. Aobistic III. Shifted A. Simple B, Cast. G. Fre- Prog. Past quent. Plautus Terence Cato Dramatic and Epic Orators Lucilius Auctor ad Herenn. Varro Except historical works the citations from which are included among the  historians. Laberius and later writers not included.  3 Nepos and later historians not included.   4 Hortensius and later fragments not included. Grice: “Ceccato developed a theory very similar to mine – Like myself, he is an unusual philosopher!” -- Silvio Ceccato. Ceccato. Keywords: il perfetto filosofo, logonia – logonico, tabella di Ceccatieff, Adamo II, lingua adamica, operativismo, Teocono, ingegneria della felicita, il genitore come ingegnero, tutee di Dingler, tutee di Bridgman, influenza di Gentile, modelo cibernetico della communicazione, adattazione, soprevivenza, organo ipotetico – organo e funzione – codice conversazionale, modello mentale, psicologia filosofica, adamo II, lingua adamica, -- --  l’aspetto perfettivo, non-perfettivo, imperfettivo della conjugazione Latina -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceccato” – The Swimming-Pool Library. Ceccato.

 

Grice Cecina: il circolo di Cicerone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A friend of CICERONE, and an expert on divination. According to Seneca, he wrote a book about lightning. Aulo Cecina. Cecina.

 

Grice e Cecina: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The husband of Arria Peto Maggiore , and both belonged to the Porch. Cecina became involved ina plot against the emperor Claudius. He was condemned to commit suicide and his wife encouraged him to go through it be committing suicide first, and passing the knife in the proceeding with the infamous utterance, ‘It does not hurt.’ Cecina Peto. Cecina.

 

Grice e Ceila: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Cheilas. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Celestio: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Celestio became an ally of Pelagius, and argues that because sin is a act of free will, the existence of sin proves the existence of free will. Celestio.

 

Grice e Celio: Roma antica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He wrote a history of medical thought and translated some of the works of Sorano. Celio Aureliano. Celio.

 

Grice e Cellucci: l’implicatura conversazionale del paradiso – aus dem Paradies, das Cantor uns geschaffen, soll uns niemand vertreiben können -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Santa Maria Caputa Vetere). Filosofo. Grice: “I love Cellucci; for one, he wrote on Cantor’s paradise, which is an extremely interesting tract and figure! There’s earthly paradise and heavenly paradise and Cellucci knows it!” – Grice: “Cellucci, like me, also philosophised on ‘logic,’ in my case because of Strawson; in his, because of me!” Si laurea a Milano. Insegna a Siena, Calabria, e Roma. Si occupa soprattutto di logica e teoria della dimostrazione, filosofia della matematica, filosofia della logica, ed epistemologia. Altre opere: “Breve storia della logica italiana: dall'Umanesimo al primo Novecento” (Lulu, Morrisville); “Perché ancora la filosofia” (Laterza, Roma) – perche no? “La filosofia italiana della matematica del Novecento” (Laterza, Roma); “Filosofia e matematica” (Laterza, Roma); “Le ragioni della logica, Laterza, Roma); “Teoria della dimostrazione” (Boringhieri, Torino); “Alcuni momenti salienti della storia del metodo” La Cultura; “I limiti dello scetticismo, Syzetesis); “La logica della scoperta, Scienza & Società, Creatività; Conoscenza scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi. Scienza e senso comune, ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino); Razionalità scientifica e plausibilità. In I modi della razionalità, eds. M. Dell'Utri & A. Rainone. Mimesis, Milano); Filosofia della matematica, Paradigmi,  Il paradiso di Cantor, Bibliopolis, Napoli La filosofia della matematica, Laterza, Roma); Breve storia della logica: Dall'Umanesimo al pr imo Novecento  [Lulu Press, Morrisville; Perché ancora la filosofia Laterza, Rome, La filosofia della matematica del Novecento, Laterza, Rome, Filosofia e matematica, Laterza, Rome, Le ragioni della logica, Laterza, Roma; Teoria della dimostrazione, Boringhieri, Turin, “La rinascita della logica in Italia”, in “Momenti di filosofia italiana, ed. F.Pezzelli & F. Verde. Efesto, Rome – quando e morta? -- Alcuni momenti salienti della storia del metodo,  La Cultura. La logica della scoperta, Scienza e Societa. Creatività. “Aristotele e il ruolo del nous  nella conoscenza scientifica”, In  Il Nous di Aristotele, ed. G.Sillitti, F. Stella & F. Fronterotta. Academia Verlag, Sankt Augustin; Conoscenza scientifica e senso comune. In  La guerra dei mondi. Scienzae senso comune, ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino, Razionalità scientifica e plausibilità, In  I modi della razionalità, ed. M. Dell'Utri & A. Rainone.Mimesis, Milano; “La preistoria della logica polivalente nell'antichità o la storia antica,  Bollettino della Società Filosofica Italiana. Gli approcci di Turing alla computabilità e all'intelligenza. In Per ilcentenario di Alan Turing fondatore dell'informatica, Accademia Nazionale dei Lincei, Scienze e Lettere, Roma; Intervista di Antonio Gnoli, La Repubblica; Breve storia della logica antica; Ripensare la filosofia. Un colloquio con (e su) Carlo Cellucci; La spiegazione in matematica. Periodicodi Matematiche  (For Grice, unlike Kantotle, mathematics “7 + 5 = 12” has zero-explanatory value; Dialogando con Platone, in Il Platonismo e le scienze, Carocci, Roma); Logica dell'argomentazione e logica della scoperta”, in Logica ediritto: argomentazione e scoperta, Lateran University Press, Vaticano); Ragione, mente e conoscenza, in Fenomenologia della scoperta, Bruno Mondadori, Milano); Filosofia della matematica top-down e bottom-up. Paradigmi. L’ideale della purezza dei metodi, I fondamenti della matematica e connessi sviluppi interdisciplinari  Pisa-Tirrenia, Mathesis, Rome); Per l'insegnamento della logica.  Nuova Secondaria. La logica della macchina, in Le macchine per pensare,La Nuova Italia, Firenze); Logica e filosofia della matematica nella seconda metà del secolo, in La filosofia della scienza in Italia nel ‘900, Angeli, Milano; Bolzano,  Del metodo matematico, Boringhieri, Torino; Il ruolo delle definizioni esplicite in matematica; in C. Mangione (Ed.), Scienza e filosofia,Garzanti, Milano; Storia della logica, Laterza, Bari, Il fondazionalismo: una filosofia regressiva, Teoria. La complessità delle dimostrazioni nella logica dei predicati del primo ordine, Logica Matematica, Siena. Il ruolo del principio di non contraddizione di Parmenide nelle teorie scientifiche. Verifiche. “È adeguata la teoria dell’ adaequatio?” Scienza e storia, Il Laboratorio, Napoli. Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi. Bibliopolis, Napoli. Proprietà di coerenza e completezza in L-omega1-omega. Le Matematiche. Proprietà di uniformità e 1-coerenza dell’aritmetica del primo ordine, Le Matematiche. La logica come teoria della dimostrazione, in Introduzione alla logica, Editori Riuniti, Roma. La qualità nella dimostrazione matematica, in La qualità, Bologna (il Mulino). Teoremi di normalizzazione per alcuni sistemi funzionali, Le Matematiche. Logica matematica. EditoriRiuniti, Roma. Il problema del significato. Il Veltro. Una dimostrazione del teorema di uniformità. Le Matematiche. Un connettivo per la logica intuizionista. Le Matematiche. I limiti del programma hilbertiano, Società Filosofica Italiana, Roma. L’evoluzione della ricerca sui fondamenti, Terzo programma. Operazioni di Brouwer e realizzabilità formalizzata, Pisa, Classe di Scienze. Concezioni di insiemi, Rivista di filosofia. Qualche problema di filosofia della matematica. Rivista di filosofia. Un’osservazione sul teorema di Minc-Orevkov, Unione Matematica Italiana. La filosofia della matematica, Laterza, Bari). La teoria del ragionamento matematico: meccanico o non meccanico? In  L’uomo e la macchina, Edizioni di Filosofia, Torino. Categorie ricorsive, Bollettino dell’Unione Matematica Italiana. Filosofia della matematica. Paradigmi. La ricerca logica in Italia. Acme, Cisalpino, Milano. Prospettive della logica e della filosofia della scienza, ETS, Pisa, Logica e filosofia della scienza: problemi e prospettive, ETS, Pisa); Temi e prospettive della logica e della filosofia della scienza contemporanee, CLUEB, Bologna, Logiche moderne, Istituto dellaEnciclopedia Italiana, Rome, Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi, Bibliopolis, Napoli, La filosofia della matematica. Laterza, Roma.  C. Cellucci ha illustrato gli scopi della logica matematica di Peano. Anche se con motivazioni diverse, tali scopi sono pressoché analoghi in Peano e Frege, e consistono principalmente nell ' ottenere.  Infiniti  LM Prima di addentrarci nelle questioni concernenti gli insiemi qualsiasi, facciamo una breve rilettura di quello che sappiamo sugli insiemi finiti. Lo studio degli insiemi infiniti è iniziato ad opera del matematico tedesco CANTOR Infiniti    Cardinalità di insiemi finiti LM Cosa vuol dire che in una palazzina ci sono 10 appartamenti?   Infiniti     Cardinalità di insiemi finiti LM Per contare gli appartamenti abbiamo associato univocamente a ciascuno di essi un numero (naturale) tra 1 e 10.  In termini matematici, abbiamo determinato una corrispondenza biunivoca tra l’insieme degli appartamenti e l’insieme ω10 = {1,2,3,4,5,6,7,8,9,10}  Infiniti  LM f è un’iniezione di A in B se è una corrispondenza biunivoca tra A e un sottoinsieme di B Siano A e B due insiemi qualsiasi e f : A → B una funzione, ossia una legge tale per cui   per ogni a A esiste uno e un solo b B tale che f (a) = b.     Definizione 1 (Corrispondenza biunivoca)    f è una corrispondenza biunivoca tra A e B se per ogni b B esiste uno e un solo a A tale che f (a) = b.    Definizione 2 (Iniezione)        Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 13 / 75    LM   Esercizio 1    Dire quali di queste funzioni sono iniezioni e quali sono corrispondenze biunivoche, giustificando la risposta. (a) f:N→{numeripari},n􏰀→2n (b) f : {esseri umani} → {donne}, figlio 􏰀→ mamma (c) f : quadrati → R, quadrato 􏰀→ area del quadrato (d) f : {quadrati centrati in O} → R+, quadrato 􏰀→ area del quadrato (e) f : {quadrati centrati in O} → R, quadrato 􏰀→ area del quadrato     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 14 / 75    LM   Esercizio 1    Dire quali di queste funzioni sono iniezioni e quali sono corrispondenze biunivoche, giustificando la risposta. (a) f:N→{numeripari},n􏰀→2n (b) f : {esseri umani} → {donne}, figlio 􏰀→ mamma (c) f : quadrati → R, quadrato 􏰀→ area del quadrato (d) f : {quadrati centrati in O} → R+, quadrato 􏰀→ area del quadrato (e) f : {quadrati centrati in O} → R, quadrato 􏰀→ area del quadrato    Soluzione dell’Esercizio 1 (c) niente (d) corrispondenza biunivoca (e) iniezione    (a) corrispondenza biunivoca (b) niente  Questo caso scriveremo |A| = n; LM Cardinalità degli insiemi finiti In conclusione, per contare gli elementi di un insieme finito ci servono l’insieme dei numeri naturali N = {0, 1, 2, 3, 4, 5, 6 . . .}; i sottoinsiemi di N della forma ωn = {1,2,3,...,n}; la nozione di corrispondenza biunivoca.   Definizione 3 (Cardinalità degli insiemi finiti)    Sia A un insieme e n un numero naturale. Diremo che A ha n elementi (o anche che ha cardinalità uguale ad n) se esiste una corrispondenza biunivoca tra A e l’insieme {1, 2, 3, 4, . . . , n}. In Diremo che A è un insieme finito se esiste n N tale che |A| = n; Diremo che A è un insieme infinito se non è finito.     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 15 / 75   Proprietà della cardinalità di insiemi finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro.  Proprietà della cardinalità di insiemi finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro. (2) un sottoinsieme A B di un insieme finito è un insieme finito.  Proprietà della cardinalità di insiemi finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro. (2) un sottoinsieme A B di un insieme finito è un insieme finito. (3) se A è un sottoinsieme proprio di un insieme finito B, allora |A| < |B|. Riflettiamo un po’ su queste proprietà. Due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro.   Ci sta semplicemende dicendo che le corrispondenzee biunivoche  A a b c d  e f g h B  1 2 3 4  equivalgono a  A a b c d  e f g h B  La nozione di corrispondenza biunivoca vale anche tra insiemi infiniti (ad esempio, i punti di una semicirconferenza sono in corrispondenza biunivoca con i punti di una retta). La nozione di corrispondenza biunivoca vale anche tra insiemi infiniti (ad esempio, i punti di una semicirconferenza sono in corrispondenza biunivoca con i punti di una retta).  Questo ci permette di estendere il concetto di "equinumerosità":    Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o  sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|.  Ovviamente, se gli insiemi sono infiniti la cardinalità NON è un numero. Nel caso di insiemi finiti "<" è l’usuale simbolo per l’ordinamento tra numeri. Nel caso di insiemi infiniti denota una nozione astratta nuova, introdotta per analogia. Sempre "imparando" dagli insiemi finiti e utilizzando le funzioni, possiamo introdurre una nozione di "maggiore numerosità".   se A è un sottoinsieme proprio di un insieme finito B, allora |A| < |B|. Inoltre, |A| < |B| se e solo se esiste un’iniezione di A in B    B a b c d  g h A      Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo  |A| ≤ |B|. La stravaganza dell’infinito naturali N. LM Abbiamo ora a disposizione gli strumenti per confrontare la cardinalità di insiemi qualsiasi. Prima di procedere oltre, entriamo nello spirito giusto per studiare gli insiemi infiniti con una storia stravagante: l’albergo di Hilbert (immagini tratte da "A. Catalioto, Seminario TFA 2015") L’insieme infinito protagonista di questa storia è l’insieme dei numeri IonilTraLnquillocercava M una camera.... Pensò di trovarla all’Hotel Infinito,  noto per avere infinite stanze.     Ion non ebbe fortuna perché l’hotel ospitava i delegati del congresso di zoologia cosmica. Siccome gli zoologi cosmici venivano da         alassie, e di galassie ne esiste un numero infinito, tutte le stanze erano occupate. tutte le g  Soluzione del problema...  Il direttore dec ide di spostare lo zoologo della stanza 1 nella 2, quello della 2 nella 3 e così via... così può mettere Ion nella stanza 1! In generale, viene spostato lo zoologo della stanza «n» nella stanza «n+1»  Il problema si complica perché arrivò un rappresentante dei filatelici per ogni galassia per partecipare al congresso interstellare dei filatelici  Il direttore, come soluzione al problema, decise di spostare l’ospite della 1 nella 2, quello della 2 nella 4, quello della 3 nella 6 e così via... In generale mettere l’ospite della stanza «n» nella stanza «2n»  Così, gli zoologi occuparono l’insieme delle stanze dei numeri pari e i filatelici occuparono l’insieme delle stanze dei numeri dispari, visto che il filatelico n-esimo nella coda ottenne il numero di stanza «2n-1»  rimettere tutto in ordine e a chiudere tutti gli hotel, eccetto l’Hotel Cosmos   I costruttori dell’Hotel Cosmos avevano smantellato tantissime galassie per costruire infiniti hotel con infinite stanze.    Furono costretti, però, a        Quindi venne chiesto al direttore di mettere le infinite persone di infiniti hotel nel suo hotel, già pieno.     COME FARE ?   Ion propose di usare solo le progressioni dei numeri primi poiché se si prendono due numeri primi, nessuna delle potenze intere positive di uno può equivalere a quelle dell’altro. In questo modo nessuna stanza avrebbe avuto due occupanti!  Vediamo cosa ci ha insegnato questa storia.      Mostrare che N ha la stessa cardinalità dei suoi seguenti sottoinsiemi propri (1) A={nN, n≥7} (2) A={2n+1, ninN} VediamLo cosa ci ha insegnato quMesta storia.   Mostrare che N ha la stessa cardinalità dei suoi seguenti sottoinsiemi propri (1) A={nN, n≥7} (2) A={2n+1, ninN}   Soluzione 2 01234 n 7 8 9 1011 7+n 01234 n 1 3 5 7 9 2n+1  L’ultimo partecipanti, che sostanzialmente ci racconta che l’insieme prodotto N × N ha la stessa cardinalità di N) è più complicato e ci torneremo più tardi. I risultati dell’Esercizio 2 sono una vera e propria rivoluzione del pensiero. caso descritto nella sto ria(quello degli infiniti convegni con infiniti    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 30 / 75   Povero Euclide! LM Abbiamo imparato che se togliamo all’insieme N i primi n0 termini (pensate n0 grande quanto volete!), quello che resta ha esattamente la stessa cardinalità di tutto l’insieme. Crolla così il principio fissato da Euclide: "il tutto è maggiore di una sua qualsiasi parte" (Elementi,300 a.C.) Ricordiamo che Euclide è probabilmente il più grande matematico dell’antichità e i suoi Elementi (opera in 13 libri) sono stati la principale opera di riferimento per la geometria fino al XIX secolo. Quello citato è uno degli 8 enunciati di "nozioni comuni" contenuti nel Libro I, quello in cui vengono fissati tutti i fondamenti per la trattazione di tutta la geometria nota all’epoca. Povero Galileo! D’altra Lparte, di questo problemMa si era accorto anche Galileo, senza trovarne soluzione: "queste son di quelle difficoltà che derivano dal discorrere che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno agli infiniti, dandogli quegli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente, perché stimo che questi attributi di maggioranza, minorità ed ugualità non convenghino agli infiniti, dei quali non si può dire uno essere maggiore o minore o uguale all’altro" (Nuove Scienze, 1638) Parafrasando Galileo, possiamo dire che la teoria della cardinalità di Cantor è esatta il giusto attributo di maggioranza, minorità ed ugualità che convenga agli infiniti mente  Riepilogo e domande Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite.    Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|.  Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.   LM Riepilogo e domande Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite.    Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.   Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse?  Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|.  Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.   Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è una "cardinalità infinita" più piccola di tutte le altre?  Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è una "cardinalità infinita" più piccola di tutte le altre? c’è una "cardinalità infinita" più grande di tutte le altre?  Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite.    Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.   Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è una "cardinalità infinita" più piccola di tutte le altre? c’è una "cardinalità infinita" più grande di tutte le altre? Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione (m,n) 􏰀→ 2m3n mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria...    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 34 / 75    Se A B, allora |A| ≤ |B|. Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione (m,n) 􏰀→ 2m3n mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria. La funzione f : A → B, a 􏰀→ a è un’iniezione di A in B. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione (m,n) 􏰀→ 2m3n mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria. Se A B, allora |A| ≤ |B|. Soluzione. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|.  Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni  n N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva.    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 35 / 75    LM   Teorema    Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni  n N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0 un qualsiasi elemento a0 A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in grado di associarean=1unelementoa1 A,a1 ̸=a0. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni  n N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0 un qualsiasi elemento a0 A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in grado di associarean=1unelementoa1 A,a1 ̸=a0. Meccanismo ricorsivo: supponiamo di aver associato ai numeri 0, 1, . . . , n gli elementi distinti a0, a1, . . . , an di A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0,a1,...,an}, quindi siamo in grado di associare al numero n+1 un elemento an+1 A distinto da tutti i precedenti. Conseguenza immediata del Teorema e dell’Esercizio 3:   Ogni sottoinsieme infinito di N ha la stessa cardinalità di N.  Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni  n N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0 un qualsiasi elemento a0 A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in grado di associarean=1unelementoa1 A,a1 ̸=a0. Meccanismo ricorsivo: supponiamo di aver associato ai numeri 0, 1, . . . , n gli elementi distinti a0, a1, . . . , an di A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0,a1,...,an}, quindi siamo in grado di associare al numero n+1 un elemento an+1 A distinto da tutti i precedenti. Conseguenza immediata del Teorema e dell’Esercizio 3:   Ogni sottoinsieme infinito di N ha la stessa cardinalità di N. In particolare, {p N della forma p = 2m3n, n, m N}, ha la stessa cardinalità di N. Quindi N × N ha la stessa cardinalità di N. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 35 / 75           LM Cardinalità numerabile Quindi la cardinalità dell’insieme numerico N è "la più piccola cardinalità infinita". Per questo si è meritata un "nome proprio" e un simbolo speciale א0 = |N| prende il nome di CARDINALITA’ NUMERABILE.  Il simbolo "א” è l’aleph, prima lettera dell’alfabeto ebraico.     Diremo che un insieme A è numerabile se |A| = א0, cioè se A può essere messo in corrispondenza biunivoca con N.       14/3/18 36 / 75     LM NZQR Ricordiamo brevemente cosa sono per poi confrontare le loro cardinalità. Esistono insiemi infiniti con cardinalità diversa (maggiore) da quella numerabile? Per rispondere a questa domanda usiamo gli insiemi numerici come prototipo. N = {0,1,2,3,4,5,6...} Z = {...,,−3,−2,−1,0,1,2,3,...} numeri NATURALI numeri INTERI 􏰁p 􏰂 Q = q , p intero, q ̸= 0 naturale numeri RAZIONALI R numeri REALI Valgono le inclusioni strette:   I numeri interi Z = {...,,−3,−2,−1,0,1,2,3,...} I numeri interi sono un’estensione dei numeri naturali, nata dall’esigenza di poter fare liberamente la sottrazione. Si ottengono considerando tutti i numeri naturali e tutti i loro opposti. Possiamo rappresentare l’insieme dei numeri interi tramite punti di una retta ordinata. Basta fissare un punto che determina lo zero fissare un’unità di misura disegnare tutti punti equidistanti dal successivo.   -6-5-4-3-2-10 1 2 3 4 5 6 In un certo senso, i numeri interi sono "il doppio" dei numeri naturali, quindi è ragionevole pensare che siano un insieme numerabile.    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 38 / 75   Corrispondenza biunivoca tra N e Z LM an = n  2 sen=0oppuresenèpari −n+1 senèdispari 2     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 39 / 75    Corrispondenza biunivoca tra N e Z LM -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4  14/3/18 n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678          39 / 75    LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678        -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 40 / 75   LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678         -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4   n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678       -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 42 / 75   LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678       -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 43 / 75   LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678       -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 44 / 75   LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678        -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Ann  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678       -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    14/3/18 46 / 75    -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678        Abbiamo così ottenuto che Z è numerabile. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 47 / 75             􏰁􏰂 LM I numeri razionali Q = qp , p intero, q ̸= 0 naturale I numeri razionali sono un’estensione dei numeri interi, nata dall’esigenza di poter fare liberamente la divisione. Si ottengono considerando tutte le possibili frazioni con a numeratore un numero intero (che quindi determina il segno della frazione); a denominatore un naturale non nullo. Cerchiamo di farci un’idea di "quanti siano" i numeri razionali.    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 48 / 75     􏰁􏰂 (i numeri interi sono discreti). LM I numeri razionali Q = qp , p intero, q ̸= 0 naturale I numeri razionali sono un’estensione dei numeri interi, nata dall’esigenza di poter fare liberamente la divisione. Si ottengono considerando tutte le possibili frazioni con a numeratore un numero intero (che quindi determina il segno della frazione); a denominatore un naturale non nullo. Cerchiamo di farci un’idea di "quanti siano" i numeri razionali. Tra un numero intero e il suo successivo non c’è nessun altro numero intero   01    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 48 / 75   Densità dei numeri razionali Invece tLra due numeri razionali dMistinti c’è sicuramente un altro numero razionale (ad esempio la loro media).   0 12 1 In realtà ce ne sono infiniti (tutte le possibili medie delle medie). 01131 424     113 084828481 Si intuisce che i numeri razionali coprono abbastanza bene la retta. 1537    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 49 / 75    LM Da quanto abbiamo detto sembrerebbe che i numeri razionali siano molti di più dei numeri interi (sono densi sulla retta reale), ma anche in questo caso gli insiemi infiniti tornano a stupirci:    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 50 / 75    LM Da quanto abbiamo detto sembrerebbe che i numeri razionali siano molti di più dei numeri interi (sono densi sulla retta reale), ma anche in questo caso gli insiemi infiniti tornano a stupirci:     Q ha cardinalità numerabile.  Per dimostrarlo, basta esibire una corrispondenza biunivoca tra Z e Q, che possiamo pensare come un modo di "etichettare" con numeri interi gli elementi di Q. Per fare questo utilizzeremo il cosiddetto (primo) metodo diagonale di Cantor. Trovare un percorso che passa una sola volta per ogni stellina e numerare le stelline man mano che si incontrano (nota: verso il basso e verso destra ci sono infinite stelline!) ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· LM ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· . . . . . . .  11 20 14/3/18 1 → 2 6 → 7 15 → 16 ··· ↙↗↙↗↙ 3 5 8 14 17 ↗↙↗↙ 4 9 13 18 ··· ··· ··· ··· ↙↗↙ 10 12 19 ↗↙    52 / 75    Primo metodo diagonale di Cantor: costruire la tabella... LM 1234567 1111111 ··· ··· ··· ··· ··· 1234567 2222222 1234567 3333333 1234567 4444444 1234567 5555555 . . . . . . .    ... e percorrerla con il metodo che abbiamo determinato LM 1→23→4567··· 1111111 ↙↗↙ 1234567 ··· ··· ··· ··· 2222222 ↓↗↙ 1234567 3333333 1234567 4444444 1234567 5555555 . . . . . . .    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 54 / 75    LM Abbiamo così mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che tutti i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile.    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 55 / 75     LM Abbiamo così mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che tutti i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Resta da dimostrare che se A e B sono due insiemi numerabili, allora A B è numerabile. Questo produce una corrispondenza biunivoca tra A B e N. LM Abbiamo così mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che tutti i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Resta da dimostrare che se A e B sono due insiemi numerabili, allora A B è numerabile     Dimostrazione. visto che A e B sono due insiemi numerabili, allora esiste una corrispondenza biunivoca tra A e l’insieme dei numeri pari e una corrispondenza biunivoca tra B e l’insieme dei numeri dispari. A ←→ {pari} B ←→ {dispari} = A B ←→ N.    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 55 / 75   Voglia di misurare... LM 0? LA DIAGONALE DEL QUADRATO DI LATO UNITARIO NON HA LUNGHEZZA RAZIONALE! Abbiamo visto che i numeri razionali coprono abbastanza bene la retta. I Pitagorici pensavano che tutte le lunghezze fossero razionali (ossia che i punti corrispondenti ai razionali coprissero tutta la retta) e invece scoprirono presto che manca qualcosa...    1  ?    Quali numeri mancano? Per capire come estendere i numeri razionali in modo da ottenere tutte le possibili lunghezze, ricordiamo che ogni numero razionale si può scrivere come allineamento decimale finito o periodico (con periodo diverso da 9). Facciamo l’estensione di Q più ragionevole che ci viene in mente R = {allineamenti decimali con un numero arbitrario di cifre}     ed è quella giusta, nel senso che i numeri reali sono in corrispondenza biunivoca con i punti della retta (difficile da dimostrare). Quali numeri mancano? Per capire come estendere i numeri razionali in modo da ottenere tutte le possibili lunghezze, ricordiamo che ogni numero razionale si può scrivere come allineamento decimale finito o periodico (con periodo diverso da 9). Facciamo l’estensione di Q più ragionevole che ci viene in mente R = {allineamenti decimali con un numero arbitrario di cifre}     ed è quella giusta, nel senso che i numeri reali sono in corrispondenza biunivoca con i punti della retta (difficile da dimostrare). −π −2−√2−101 √22 π 22   Quindi, geometricamente, possiamo pensare di aver "tappato i buchi" sulla retta lasciati dai punti corrispondenti ai numeri razionali (abbiamo aggiunto tutti i numeri irrazionali). Non sembra che siano stati aggiunti tanti elementi... invece...    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 57 / 75   LM l’insieme dei numeri reali R NON ha cardinalità numerabile!     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 58 / 75     LM R NON ha cardinalità numerabile!! Dimostreremo questa sorprendente proprietà in tre passi: l’intervallo (0, 1) non è numerabile; due intervalli distinti (a, b) e (c, d) hanno la stessa cardinalità; ogni intervallo (a, b) ha la stessa cardinalità di R (Ricordiamoci che R è in corrispondenza biunivoca con i punti della retta, quindi i due insiemi hanno la stessa cardinalità)    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 59 / 75   Secondo metodo diagonale di Cantor LM Dimostriamo, per assurdo, che l’intervallo (0, 1) non ha cardinalità numerabile. Ipotesi per assurdo: supponiamo che (0, 1) abbia una quantità numerabile di elementi ed enumeriamoli nel modo seguente: . Il numero reale x = 0,β1 β2 β3 ... con r1 = 0,a11 a12 a13 a14 ... r2 = 0,a21 a22 a23 a24 ... r3 = 0,a31 a32 a33 a34 ... βj ̸=ajj, βj ̸=0, βj ̸=9, j appartiene all’intervallo (0, 1) (è positivo e ha parte intera uguale a zero), ma è diverso da tutti i numeri reali rj , in contraddizione col fatto di aver enumerato tutti i valori nell’intervallo.    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 60 / 75     LM Quindi sicuramente la cardinalità dell’intervallo (0, 1) è diversa da quella del numerabile. Passiamo a dimostrare che tutti gli intervalli della retta reale hanno la stessa cardinalità, dando solo un’idea grafica della dimostrazione.   Esercizio 4    Determinare (geometricamente) una corrispondenza biunivoca tra due intervalli aperti (a, b) e (c, d) della retta reale.  Suggerimento: allineare i due segmenti e considerare un punto P come in figura: a c b d P      Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 61 / 75    LM   Soluzione dell’Esercizio 4    P  a c b d  si proietta ogni punto di (a,b) in un unico punto di (c,d) dal punto P esterno ai due segmenti. Ovviamente questa operazione geometrica si può scrivere in formule utilizzando la geometria analitica e si trova la corrispondenza biunivoca cercata.     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 62 / 75   LM Infine, per mettere in corrispondenza biunivoca un intervallo limitato, diciamo (−1, 1), con tutta la retta reale, serve una sorta di “meccanismo di amplificazione” (proiezione stereografica). Diamo un’idea geometrica della corrispondenza biunivoca: disegnamo la retta reale; dalla retta reale “stacchiamo l’intervallo (−1, 1)” e disegnamone una copia;  −1 1 R     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 63 / 75     LM Proiezione stereografica disegnamo la semicirconferenza di raggio 1 tangente alla retta reale in 0; indichiamo con P il centro di tale circonferenza; P   −1 1 R     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 64 / 75     −1 1 LM Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 Proiezione stereografica fissiamo un qualsiasi punto dell’intervallo (−1, 1); P   R     65 / 75   Proiezione stereografica fissiamo un qualsiasi punto dell’intervallo (−1, 1); proiettiamolo verticalmente sulla circonferenza; P    −1 1 R     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 66 / 75     LM −1 1 Proiezione stereografica tracciamo la retta per P e il punto della circonferenza; associamo al punto di partenza in (−1, 1) i punto intersezione tra la retta considerata e la retta reale; P     R   Se facciLamo questa operazione per ogni punto dell’intervallo (−1, 1) costruiamo una corrispondenza biunivoca tra questo intervallo e tutta la retta reale. −1 1 Il meccanismo di amplificazione funziona perchè proiettiamo tramite una semicirconferenza che ha tangente verticale agli estremi: i punti molto vicini a −1 o a 1 si proiettano sempre più lontano. P        Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 68 / 75 M        LM Cardinalità del continuo La cardinalità della retta reale prende il nome di cardinalità del continuo. Possiamo dividere i numeri reali in tre gruppi: razionali irrazionali algebrici: le soluzioni di equazioni algebriche a coefficienti interi (ad es. tutte le radici quadrate, cubiche, ecc...) irrazionali trascendenti: tutti gli altri irrazionali (ad es. π) Conosciamo esplicitamente tantissimi irrazionali algebrici e abbastanza pochi trascendenti. Abbiamo visto che i numeri reali sono molti di più dei numeri razionali (ma ricordiamoci anche che i numeri razionali sono densi in R). Si può essere più precisi sulle informazioni riguardanti la cardinalità dei numeri irrazionali. Precisamente, si può dimostrare che i numeri irrazionali algebrici sono una quantità numerabile; quindi i numeri irrazionali trascendenti sono veramente tanti!    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 69 / 75     QuantLe e quali altre cardiMnalità ci sono? Studiando gli insiemi numerici abbiamo trovato due cardinalità distinte, quella del numerabile e quella del continuo. E’ del tutto naturale porsi due domande: ci sono cardinalità intermedie tra queste due? ci sono cardinalità superiori a quella del continuo? La prima apre una questione particolarmente affascinante (o frustrante, dipende dai punti di vista) che prende il nome di Ipotesi del continuo nda ha una risposta stup ci sono infinite cardinalità (infinite) distinte! La seco efacente:    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 70 / 75     LM   CH “Continuum Hypothesis”    non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei reali.  Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera.    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 71 / 75     LM   CH “Continuum Hypothesis”    non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei reali.  Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. CH “Continuum Hypothesis”    non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei reali.  Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. nel 1963 Paul Cohen dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si può nemmeno dimostrare che CH sia vera. Per fortuna i modelli della matematica applicata non dipendono dalla validità o meno di CH, quindi la sua indecidibiltà non incide sui risultati che vengono utilizzati nella vita reale (fisica, ingegneria, informatica...)   CH “Continuum Hypothesis”    non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei reali.  Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. nel 1963 Paul Cohen dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si può nemmeno dimostrare che CH sia vera. Quindi, la CH è indecidibile nell’ambito della usuale teoria degli insiemi, nel senso che è altrettanto coerente prenderla come vera che prenderla come falsa.    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 71 / 75      {a} {b} {c} {a,b} {a,c} {b,c} {a,b,c} LM L’insieme delle parti Per rispondere alla seconda domanda introduciamo una nuova nozione.   Insieme delle parti    Dato un insieme X, il suo insieme delle parti P(X) è dato da P(X) = {A sottoinsieme di X}.  Esempio. Se X = {a,b,c}, allora P(X) è l’insieme formato dai seguenti 8 insiemi: Si può dimostrare che se |X| = n allora |P(X)| = 2n > |X|.    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 72 / 75     LM Esistono infinite cardinalità infinite   Teorema di Cantor    Sia X un insieme. Allora |P(X)| > |X|. Come conseguenza del Teorema di Cantor, otteniamo che     esiste una sequenza di cardinalità infinite, ciascuna strettamente maggiore della precedente.   Partendo da |N|, che sappiamo essere la cardinalità infinita minima, basta iterare il passaggio all’insieme delle parti: |N| < |P(N)| < |P(P(N))| < |P(P(P(N)))| < |P(P(P(P(N)))))| < · · ·    Dimostriamo il teorema di Cantor. L’applicazione ”x 􏰀→ {x}” è un’iniezione di X in P(X). Quindi |P(X)| ≥ |X|. Dimostriamo ora che non esiste un’applicazione biunivoca tra X e P(X). Supponiamo, per assurdo, che esista e indichiamola con ”x ↔ A(x)”. Consideriamo l’insieme C P(X) C = {x X tali che x ̸ A(x)}. L’ipotesi per assurdo garantisce che esiste un’unico x0 X tale che C = A(x0). Si ha che se x0 C = A(x0), allora, per come sono definiti gli elementi di C, deve essere x0 ̸ C = A(x0)  se x0 ̸ C = A(x0), allora, per come sono definiti gli elementi di C,  deve essere x0 C = A(x0) Le contraddizioni trovate dipendono dal fatto che abbiamo supposto che ”x ↔ A(x)” sia biunivoca. Se ne conclude che non può esistere nessuna corrispondenza biunivoca tra X e l’insieme delle sue parti. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18    74 / 75 Aus dem Paradies, das Cantor uns geschaffen, soll uns niemand vertreiben können. Insiemi infiniti 1. Introduzione Finch ́e gli insiemi che si considerano sono finiti (cio`e si pu`o contare quanti sono i loro elementi mettendoli in corrispondenza biiettiva con i numeri che precedono un certo numero naturale) la nozione di insieme pu`o fornire un comodo modo di esprimersi, ma non `e indi- spensabile. Di fatto Cantor per primo elabor`o la nozione di insieme per risolvere problemi di quantita` di elementi in insiemi infiniti (cio`e non finiti). Definizione. Si dice che due classi hanno la stessa cardinalit`a quando c’`e una biiettivit`a tra le due classi. In tal caso si dir`a anche che le due classi sono equinumerose. Definizione. Si dice che un insieme A `e finito se esistono un numero naturale n e una biiettivit`a da A sull’insieme dei numeri naturali che precedono n; in questo caso diremo che A ha n elementi. Se ci`o non succede, si dice che l’insieme `e infinito. Se un insieme A `e finito e un altro insieme B `e contenuto propriamente (contenuto ma non uguale) in A allora A e B non sono equinumerosi, cio`e non c’`e alcuna biiettivit`a tra i due. Questo risultato dipende dal fatto che per nessun numero naturale ci pu`o essere una biiettivit`a tra l’insieme dei numeri che lo precedono e l’insieme di quelli che precedono un diverso numero naturale. L’ultima affermazione non si estende agli insiemi infiniti; lo giustifichiamo con un con- troesempio gi`a considerato da Galileo Galilei nel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. I numeri pari sono un sottinsieme proprio dei numeri naturali, ed entrambi gli insiemi non sono finiti; inoltre la funzione che a un numero naturale associa il suo doppio `e una biiettivit`a dai numeri naturali sui numeri pari. Cos`ı si deve dire che i numeri naturali sono tanti quanti i numeri pari pur costituendo questi un sottinsieme proprio dell’insieme dei naturali. Per gli insiemi finiti non solo si pu`o dire se hanno lo stesso numero di elementi, ma anche se uno ha piu` elementi di un altro o meno. Per fare ci`o ci si rif`a alla relazione d’ordine naturale tra i numeri naturali che contano gli elementi di ciascuno dei due insiemi. Per gli insiemi infiniti non si pu`o utilizzare lo stesso metodo. Come decidere allora quando un insieme ha piu` o meno elementi di un altro? Ci si potrebbe limitare a dire che un insieme `e finito o infinito. Tuttavia l’esperienza di vari insiemi infiniti porta naturalmente a domandarci se si pu`o stabilire una gerarchia simile a quella fra gli insiemi finiti. Prenderemo a modello le stesse propriet`a degli insiemi finiti. 2. Cardinalit`a Definizione 1. Siano A e B due insiemi. Diremo che la cardinalit`a dell’insieme A `e minore o uguale a quella dell’insieme B, e scriveremo |A| ≤ |B| quando esiste una funzione totale iniettiva di A in B. Questa relazione fra insiemi non `e un ordine, n ́e stretto n ́e largo. Non `e stretto perch ́e |A| ≤ |A|, per motivi ovvi (basta considerare la funzione identit`a). Non `e un ordine largo, perch ́e pu`o accadere che |A| ≤ |B| e anche |B| ≤ |A|, con A ̸= B. Un esempio `e proprio quello in cui A `e l’insieme dei numeri naturali e B quello dei numeri naturali pari. Scopo di queste note `e di studiare le propriet`a di questa relazione. Attraverso essa potremo arrivare al concetto di “uguale cardinalit`a”, che `e ci`o che ci interessa. 1  2 (2) (3) INSIEMI INFINITI Esempi. (1) Se A `e un insieme e B A, allora |B| ≤ |A|. Se Z `e l’insieme dei numeri interi e N quello dei numeri naturali, allora |Z| ≤ |N|. Ci`o pu`o apparire paradossale, ma vedremo che non lo `e. Consideriamo infatti la seguente funzione: 􏰈2x se x ≥ 0, −2x−1 sex<0. Si pu`o facilmente verificare che f : Z → N `e non solo iniettiva, ma anche suriettiva. Se X `e un insieme finito e Y `e un insieme infinito, allora |X| ≤ |Y |. Supponiamo che X abbia n elementi. Faremo induzione su n. Se n = 0, la funzione vuota `e quella che cerchiamo. Supponiamo la tesi vera per insiemi con n elementi e supponiamo che X abbia n + 1 elementi: X = {x1, . . . , xn, xn+1}. Per ipotesi induttiva esiste una funzione totale iniettiva f: {x1,...,xn} → Y. Siccome Y `e infinito, esiste un elemento y / Im(f) (altrimenti Y avrebbe n elementi). Possiamo allora definire una funzione totale iniettiva g : X → Y che estende f ponendo g(xn+1) = y. Diamo subito la definizione che ci interessa maggiormente. Definizione 2. Siano A e B due insiemi. Diremo che A e B hanno la stessa cardinalit`a, f(x) = e scriveremo |A| = |B|, quando esiste una funzione biiettiva (totale) di A su B. Non daremo la definizione di cardinalit`a, per la quale occorrerebbe molta piu` teoria e che non ci servir`a. Sar`a piu` rilevante per noi scoprire le connessioni fra le due relazioni introdotte. 3. Propriet`a della cardinalit`a di insiemi infiniti (C1) Se A `e un insieme, allora |A| = |A|. (C2) Se A e B sono insiemi e |A| = |B|, allora |B| = |A|. (C3) SeA,BeCsonoinsiemi,|A|=|B|e|B|=|C|,allora|A|=|C|. Queste tre proprieta` sono quasi ovvie: basta, nel primo caso, considerare la funzione identit`a; nel secondo si prende la funzione inversa della biiettivit`a A → B; nel terzo si prende la composizione fra la biiettivit`a A → B e la biiettivit`a B → C. (M1) Se A `e un insieme, allora |A| ≤ |A|. (M2) SeA,BeCsonoinsiemi,|A|≤|B|e|B|≤|C|,allora|A|≤|C|. La dimostrazione di queste due `e facile (esercizio). C’`e un legame fra le due relazioni? La risposta `e s`ı e sta proprio nella “propriet`a antisimmetrica” che sappiamo non valere per ≤. Il risultato che enunceremo ora `e uno fra i piu` importanti della teoria degli insiemi e risale allo stesso Cantor, poi perfezionato da altri studiosi. Teorema 1 (Cantor, Schr ̈oder, Bernstein). Siano A e B insiemi tali che |A| ≤ |B| e |B| ≤ |A|, allora |A| = |B|. Dimostrazione. L’ipotesi dice che esistono una funzione f : A → B iniettiva totale e una funzione g : B → A iniettiva totale. Per completare la dimostrazione dobbiamo trovare una funzione biiettiva h: A → B. Un elemento a A ha un genitore se esiste un elemento b B tale che g(b) = a. Analogamente diremo che un elemento b B ha un genitore se esiste a A tale che f(a) = b. Siccome f e g sono iniettive, il genitore di un elemento, se esiste, `e unico. Dato un elemento a A oppure b B, possiamo avviare una procedura: (a) poniamo x0 = a o, rispettivamente x0 = b e i = 0; (b) se xi non ha genitore, ci fermiamo; (c) se xi ha genitore, lo chiamiamo xi+1, aumentiamo di uno il valore di i e torniamo al passo (b). Partendo da un elemento a A, possono accadere tre casi: • la procedura non termina; scriveremo che a A0;  3. PROPRIET`a DELLA CARDINALIT`a DI INSIEMI INFINITI 3 • la procedura termina in un elemento di A; scriveremo che a AA; • la procedura termina in un elemento di B; scriveremo che a AB. Analogamente, partendo da un elemento b B, possono accadere tre casi: • la procedura non termina; scriveremo che b B0; • la procedura termina in un elemento di A; scriveremo che b BA; • la procedura termina in un elemento di B; scriveremo che b BB. Abbiamo diviso ciascuno degli insiemi A e B in tre sottoinsiemi a due a due disgiunti: A = A0 AA AB , B = B0 BA BB . Se prendiamo un elemento a A0, `e evidente che f(a) B0, perch ́e, per definizione, a `e genitore di f(a). Dunque f induce una funzione h0 : A0 → B0, dove h0(a) = f(a). Questa funzione, essendo una restrizione di f, `e iniettiva e anche totale. E` suriettiva, perch ́e, se b B0, esso ha un genitore a che deve appartenere ad A0. Se prendiamo un elemento a AA, allora f(a) BA: infatti a `e genitore di f(a) e la procedura, a partire da b = f(a) termina in A. Dunque f induce una funzione hA : AA → BA che `e iniettiva e totale. Essa `e anche suriettiva, perch ́e ogni elemento di BA ha genitore che deve appartenere ad AA. Analogamente, se partiamo da un elemento b BB, allora g(b) AB e g induce una funzione iniettiva e totale hB : BB → AB che `e suriettiva, esattamente per lo stesso motivo di prima. Ci resta da porre h = h0 hA h−1. Allora h `e una funzione h: A → B che `e totale, B iniettiva e suriettiva (lo si verifichi). Esempio. Illustriamo la dimostrazione precedente con la seguente situazione: sia f : N → Z la funzione inclusione; consideriamo poi la funzione g : Z → N 􏰈4z se z ≥ 0, −4z−2 sez<0. Quali sono gli elementi di N che hanno un genitore? Esattamente quelli che appartengono all’immagine di g, cio`e i numeri pari. I numeri dispari, quindi, appartengono a NN, perch ́e la procedura si ferma a loro stessi. Consideriamo x0 = 2 N; siccome g(−1) = 2, abbiamo x1 = −1; poich ́e −1 / Im(f), la procedura si ferma e 2 NZ. Consideriamo invece x0 = 4 N; siccome g(1) = 4, abbiamo x1 = 1 e possiamo andare avanti, perch ́e 1 = f(1), dunque x2 = 1 N. Poich ́e 1 / Im(g), abbiamo che 4 NN. Studiamo ora x0 = 16 N; siccome g(4) = 16, abbiamo x1 = 4; siccome f(4) = 4, abbiamo x2 = 4 N; siccome 4 = g(1), abbiamo x3 = 1 Z; siccome 1 = f(1), abbiamo x4 = 1 N. La procedura si ferma qui, dunque 16 NN. Si lascia al lettore l’esame di altri elementi di N o di Z. La relazione ≤ si pu`o allora vedere non come una relazione d’ordine largo fra insiemi, ma piuttosto come un ordine largo fra le “cardinalit`a” degli insiemi. Non vogliamo per`o definire il concetto di cardinalit`a; ci limiteremo a confrontarle usando le relazioni introdotte. Il teorema seguente dice, in sostanza, che la cardinalit`a dell’insieme dei numeri naturali `e la piu` piccola cardinalit`a infinita. Teorema 2. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dimostrazione. Costruiremo un sottoinsieme di A per induzione. Siccome A `e infinito, esso non `e vuoto; sia x0 A. Evidentemente {x0} ̸= A, quindi esiste x1 A \ {x0}. Ancora {x0, x1} ≠ A, quindi esiste x2 A \ {x0, x1, x2}. Proseguiamo allo stesso modo: supponiamo di avere scelto gli elementi x0, x1, . . . , xn A, a due a due distinti. Siccome {x0, . . . , xn} ≠ A, esiste xn+1 A\{x0,...,xn}. Dunque la procedura associa a ogni numero naturale un elemento di A e la funzione n 􏰀→ xn `e iniettiva. 􏰃 Questo risultato ha una conseguenza immediata. g(z) = 􏰃  4 INSIEMI INFINITI Corollario 3. Sia A N. Allora A `e finito oppure |A| = |N|. Dimostrazione. Se A non `e finito, allora `e infinito. Per il teorema, |N| ≤ |A|. Ma |A| ≤ |N| perch ́e A N. Per il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |A| = |N|. 􏰃 Un altro corollario `e la caratterizzazione che Dedekind prese come definizione di insieme infinito. Corollario 4. Un insieme A `e infinito se e solo se esiste un sottoinsieme proprio B A tale che |B| = |A|. Dimostrazione. Se A `e finito, `e evidente che un suo sottoinsieme proprio non pu`o avere tanti elementi quanti A. Supponiamo ora che A sia infinito. Per il corollario precedente, esiste una funzione iniettiva totale f : N → A. Definiamo ora una funzione g : A → A ponendo: 􏰈f(n+1) seesistenNtalechex=f(n), x se x / Im(f). La condizione “esiste n N tale che x = f(n)” equivale alla condizione “x Im(f)”. La funzione g `e ben definita, perch ́e f `e iniettiva; dunque, se x = f(n) per qualche n, questo n `e unico. Osserviamo anche che x Im(f) se e solo se g(x) Im(f). Verifichiamo che g `e totale e iniettiva. Il fatto che sia totale `e ovvio. Supponiamo che g(x) = g(y). • Se x / Im(f), allora g(x) = x; dunque non pu`o essere y Im(f) e perci`o g(y) = y, da cui x = y. • SexIm(f),`ex=f(n)perununiconN. Allorag(x)=f(n+1)Im(f). Perci`o g(y) = g(x) = f(n + 1) Im(f) e quindi, per quanto osservato prima, y Im(f). Ne segue che y = f(m) per un unico m N e g(y) = f(m + 1). Abbiamo allora f(n+1) = f(m+1) e, siccome f `e iniettiva, n+1 = m+1; perci`o n = m e x = f(n) = f(m) = y. Qual `e l’immagine di g? E` chiaro che f(0) / Im(g). Viceversa, ogni elemento di A\{f(0)} appartiene all’immagine di g, cio`e Im(g) = A \ {f(0)}. Se allora consideriamo la funzione g come una funzione g : A → A \ {f (0)}, questa `e una biiettivit`a. In definitiva |A| = |A \ {f(0)}|; se poniamo B = A \ {f(0)}, abbiamo il sottoinsieme cercato. 􏰃 Notiamo che, nella dimostrazione precedente, A \ B = {f (0)} `e finito. Come esercizio si trovi in modo analogo al precedente un sottoinsieme C A tale che |C| = |A| e A \ C sia infinito. 4. Insiemi numerabili Il teorema secondo il quale per ogni insieme infinito A si ha |N| ≤ |A| ci porta ad attribuire un ruolo speciale a N (piu` precisamente alla sua cardinalit`a). Definizione 3. Un insieme A si dice numerabile se |A| = |N|. Un sottoinsieme di N `e allora finito o numerabile. Abbiamo gi`a visto in precedenza che anche Z (insieme dei numeri interi) `e numerabile. Piu` in generale possiamo enunciare alcune propriet`a degli insiemi numerabili. Teorema 5. Se A `e finito e B `e numerabile, allora A B `e numerabile. Dimostrazione. Se A B, l’affermazione `e ovvia. Siccome A B = (A \ B) B possiamo supporre che A e B siano disgiunti, sostituendo A con A \ B che `e finito. Possiamo allora scrivere A = {a0,...,am−1} e considerare una biiettivit`a g: N → B. Definiamo una funzione f : N → A B ponendo 􏰈an se 0 ≤ n < m, g(n−m) sen≥m. g(x) = f(n) =  4. INSIEMI NUMERABILI 5 E` facile verificare che f `e una biiettivit`a. 􏰃 Teorema 6. Se A e B sono numerabili, allora A B `e numerabile. Se A1, A2,..., An sono insiemi numerabili, allora A1 A2 ··· An `e un insieme numerabile. Dimostrazione. La seconda affermazione segue dalla prima per induzione (esercizio). Vediamo la prima. Supponiamo dapprima che A ∩ B = . Abbiamo due biiettivit`a f : N → A e g: N → B. Definiamo una funzione h: N → A B ponendo: f 􏰄n􏰅 2 h(n) = 􏰆 n − 1 􏰇 g 2 Si verifichi che h `e una biiettivit`a. In generale, possiamo porre A′ =A\(A∩B), e abbiamo AB = A′ (A∩B)B′; questi tre insiemi sono a due a due disgiunti. I casi possibili sono i seguenti: (1) A′, A ∩ B e B′ sono infiniti; (2) A′ `e finito, A ∩ B `e infinito, B′ `e infinito; (3) A′ `e finito, A ∩ B `e infinito, B′ `e finito; (4) A′ `e infinito, A ∩ B `e infinito, B′ `e finito; (5) A′ `e infinito, A ∩ B `e finito, B′ `e infinito; (6) A′ `e infinito, A ∩ B `e finito, B′ `e finito. Ci basta applicare quanto appena dimostrato e il teorema precedente. Si concluda la dimostrazione per induzione della seconda affermazione. 􏰃 Il prossimo teorema pu`o essere sorprendente. Un modo breve per enunciarlo `e dire: L’unione di un insieme numerabile di insiemi numerabili `e numerabile. Teorema 7. Per ogni n N, sia An un insieme numerabile e supponiamo che, per m ̸= n, Am ∩ An = . Allora A=􏰊{An :nN} `e numerabile. Dimostrazione. Per questa dimostrazione ci serve sapere che la successione dei numeri primi p0 = 2, p1 = 3, p2 = 5,..., `e infinita. Sia,perogninN,gn:An →Nunafunzionebiiettiva. SexA,esisteununiconN tale che x An; poniamo j(x) = n. Definiamo allora f(x) = pgj(x)(x). j (x) Per esempio, se x A2, sar`a f(x) = 5g2(x). La funzione f : A → N `e iniettiva; quindi |A| ≤ |N|. MaA0 Aequindi |N| = |A0| ≤ |A| ≤ |N|. Per il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |A| = |N|. 􏰃 Il teorema si pu`o estendere anche al caso in cui gli insiemi An non sono a due a due disgiunti; si provi a delinearne una dimostrazione. Questo teorema ha una conseguenza sorprendente. Teorema 8. L’insieme N × N `e numerabile. Dimostrazione. Poniamo An = { (m, n) : m N }. Gli insiemi An sono a due a due disgiunti e ciascuno `e numerabile. E` evidente che 􏰉nN An = N × N. 􏰃 Ancora piu` sorprendente `e forse quest’altro fatto. Teorema 9. L’insieme Q dei numeri razionali `e numerabile. se n `e pari, se n `e dispari.  B′ =B\(A∩B)  INSIEMI INFINITI. Un numero razionale positivo si scrive in uno e un solo modo come m/n, con m, n N primi fra loro (cio`e aventi massimo comune divisore uguale a 1). Ne segue che l’insieme Q′ dei numeri razionali positivi `e numerabile, perch ́e a m/n (con m e n primi fra loro) possiamo associare la coppia (m, n) N × N e la funzione cos`ı ottenuta `e iniettiva. Dunque |N| ≤ |Q′| ≤ |N × N| = |N|. L’insieme Q′′ dei numeri razionali negativi `e numerabile, perch ́e la funzione f : Q′ → Q′′ definita da f(x) = −x `e chiaramente biiettiva. Per concludere, possiamo applicare altri teoremi precedenti, tenendo conto che Q = Q′ {0} Q′′. 􏰃 C’`e un altro modo per convincersi che Q′ `e numerabile, illustrato nella figura 1. Si   1/5 1/4 1/3 1/2 1/1 2/5 3/5 4/5 3/4 5/4 2/3 4/3 5/3 3/2 5/2 2/1 3/1 4/1 5/1  Figura 1. Enumerazione dei razionali positivi immagina una griglia dove segniamo tutte le coppie con coordinate intere positive. Possiamo percorrere tutta la griglia secondo il percorso indicato e associare in questo modo a ogni numero naturale un numero razionale, incontrandoli tutti. Trascuriamo naturalmente i punti in cui il quoziente fra ascissa e ordinata `e un numero razionale gi`a incontrato precedentemente (per esempio, nella prima diagonale si trascura il punto (2, 2) che corrisponderebbe al numero razionale 2/2 = 1, gi`a incontrato come 1/1; nella terza diagonale si trascurano (2, 4), (3, 3) e (4, 2)). 5. Esistenza di cardinalit`a A questo punto sorge naturale la domanda se ci sono insiemi infiniti di un’infinit`a diversa da quella dei numeri naturali. Non ci siamo riusciti nemmeno considerando l’insieme dei razionali che, intuitivamente, dovrebbe avere piu` elementi dei numeri naturali. C’`e una costruzione che produce cardinalit`a maggiori. Prima per`o definiamo con preci- sione ci`o che intendiamo. Definizione 4. Se A e B sono insiemi, diciamo che A ha cardinalit`a minore della cardinalit`a di B, e scriviamo |A| < |B|, se |A| ≤ |B|, ma non `e vero che |A| = |B|.  5. ESISTENZA DI CARDINALIT`a 7 Il modo corretto per verificare che |A| < |B| `e questo: • esiste una funzione totale iniettiva di A in B; • non esiste una biiettivit`a di A su B. Notiamo che non basta verificare che una funzione iniettiva totale di A in B non `e suriettiva. Per esempio, esiste certamente una funzione totale iniettiva di N in Q che non `e suriettiva; tuttavia, come abbiamo visto, |N| = |Q|. Un altro esempio: l’insieme N {−2} `e numerabile, anche se la funzione di inclusione N → N {−2} non `e suriettiva. Infatti la funzione f : N → N {−2} definita da f(0) = −2 e f(n) = n − 1 per n > 0 `e una biiettivit`a. L’idea per trovare un insieme di cardinalit`a maggiore partendo da un insieme X `e dovuta a Cantor. Teorema 10 (Cantor). Se X `e un insieme, allora |X| < |P (X)|. Dimostrazione. Dimostriamo che esiste una funzione totale iniettiva X → P(X); essa `e, per esempio, { (x, {x}) : x X } cio`e la funzione che all’elemento x X associa il sottoinsieme {x} P(X). Dobbiamo ora dimostrare che non esistono funzioni biiettive di X su P(X). Lo faremo per assurdo, supponendo che g: X → P(X) sia biiettiva. Consideriamo C ={xX :x/ g(x)}. La definizione di C ha senso, perch ́e g(x) `e un sottoinsieme di X, dunque si hanno sempre due casi: x g(x) oppure x / g(x). Siccome, per ipotesi, g `e suriettiva, deve esistere un elemento c X tale che C = g(c). DunquesihacC oppurec/C. Supponiamo c C; allora c g(c) e quindi, per definizione di C, c / C: questo `e assurdo. Supponiamo c / C; allora c / g(c) e quindi, per definizione di C, c C: assurdo. Ne concludiamo che l’ipotesi che g sia suriettiva porta a una contraddizione. Perci`o nessuna funzione di X in P(X) `e suriettiva. 􏰃 L’insieme P(X) ha la stessa cardinalit`a di un altro importante insieme. Indichiamo con 2X l’insieme delle funzioni totali di X in {0, 1}. Definizione 5. Se A `e un sottoinsieme di X, la funzione caratteristica di A `e la funzione χA : X → {0, 1} definita da 􏰈1 sexA, χA(x)= 0 sex/A. Possiamo definire due funzioni, f:P(X)→2X eg:2X →P(X)nelmodoseguente: per AP(X)siponef(A)=χA;perφ2X sipone g(φ)={xX :φ(x)=1}. Teorema 11. Per ogni insieme X si ha |P(X)| = |2X|. Dimostrazione. Proveremo che g ◦ f e f ◦ g sono funzioni identit`a. Sia A P(X); dobbiamo calcolare g(f(A)) = g(χA): abbiamo g(χA)={xX :χA(x)=1}=A, per definizione di χA. Sia φ 2X; dobbiamo calcolare f(g(φ)). Poniamo B = g(φ) = {x X : φ(x) = 1}. Occorreverificarecheφ=χB. SiaxX;seφ(x)=1,alloraxBequindiχB(x)=1; se φ(x) = 0, allora x / B e quindi χB(x) = 0. Non essendoci altri casi, concludiamo che φ = χB. Ora, siccome per ogni A P(X) si ha A = g(f(A)), g `e suriettiva e f `e iniettiva. Analogamente, per φ 2X, φ = f(g(φ)) e dunque f `e suriettiva e g `e iniettiva. 􏰃  8 INSIEMI INFINITI 6. La cardinalit`a dell’insieme dei numeri reali Con il teorema di Cantor a disposizione, si pu`o affrontare il problema di determinare la cardinalit`a dei numeri reali. Intanto dimostriamo un risultato preliminare; consideriamo l’intervallo aperto I={xR:0<x<1} e dimostriamo che |I| = |R|. Consideriamo la funzione f : R → R, √ 2  1+x−1 f(x) = x 0 Un facile studio di funzione mostra che f `e iniettiva e che Im(f) = I. Allo stesso risultato si arriva considerando la funzione g(x) = π2 arctan x. La considerazione di I ci permetter`a di semplificare i ragionamenti. Sappiamo che ogni numero reale in I si pu`o scrivere come allineamento decimale: 21 = 0,500000000000 . . . 31 = 0,333333333333 . . . √71 = 0,142857142857 . . . 22 = 0,707106781187 . . . π4 =0,785398163397... dove i puntini indicano altre cifre decimali. Prevedibili in base a uno schema periodico nei primi tre casi, non prevedibili negli ultimi due che sono numeri irrazionali. Il numero dieci non ha nulla di particolare. Si pu`o allo stesso modo sviluppare un nu- mero reale come allineamento binario. Gli stessi numeri, scritti a destra dell’uguale come allineamenti binari, sono: 21 = 0,100000000000000000000000000 . . . 13 = 0,010101010101010101010101010 17 = 0,001001001001001001001001001 √ 22 = 0,101101010000010011110011001 . . . π4 =0,110010010000111111011010101... e le cifre si ripetono ancora periodicamente nei primi tre casi. In generale un numero r I si scrive come r = 0,a0a1a2 ..., dove ai = 0 oppure ai = 1; in modo unico, se escludiamo tutte le successioni che, da un certo momento in poi, valgono 1. Questo `e analogo ai numeri di periodo 9 nel caso decimale. Dunque abbiamo in modo naturale una funzione f : I → 2N: f(r) `e la funzione φ: N → {0, 1} definita da φ(n) = an dove a0, a1, · · · sono le cifre di r nello sviluppo binario di r. La funzione f `e totale e iniettiva, quindi concludiamo che |I| ≤ |2N|. se x̸=0,  se x = 0.  7. IL PARADISO DI CANTOR 9 Vogliamo ora definire una funzione g: 2N → I. Prendiamo φ 2N; la tentazione sarebbe di definire g(φ) come quel numero reale il cui sviluppo binario `e 0,φ(0) φ(1) φ(2) . . . ma questo non funziona, perch ́e, se per esempio la funzione φ `e la costante 1, il numero 0,111111 . . . `e 1 / I. Se anche escludessimo questa funzione, avremmo il problema del “periodo 1”. Dunque agiamo in un altro modo. Alla funzione φ associamo il numero reale il cui sviluppo binario `e g(φ) = 0,0 φ(0) 0 φ(1) 0 φ(2) ... cio`e intercaliamo uno zero fra ogni termine. E` chiaro che, se φ ̸= ψ, allora g(φ) ̸= g(ψ), dunque g `e iniettiva e totale. Teorema 12 (Cantor). |R| = |P (N)|. Dimostrazione. Abbiamo gi`a a disposizione le funzioni f: I → 2N e g: 2N → I, entrambe iniettive. In particolare, |I| ≤ |2N e |2N| ≤ |I|; per il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |I| = |2N|. Sappiamo poi che |I| = |R| e che |2N| = |P(N)|. Dunque |R| = |I| = |2N| = |P(N)|, come voluto. Occorre commentare questo risultato. Per dimostrarlo abbiamo usato il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, quindi non abbiamo potuto scrivere esplicitamente una biietti- vit`a di R su P (N). Ma non `e questo il punto piu` importante. La conseguenza piu` rilevante del teorema `e che non `e possibile descrivere ogni numero reale, perch ́e, come vedremo in seguito, i numeri reali che possono essere espressi con una formula sono un insieme numerabile. 7. Il paradiso di Cantor Un’altra applicazione del teorema di Cantor porta alla costruzione del cosiddetto “paradi- so di Cantor”. Questa espressione vuole indicare l’esistenza di una successione di cardinalit`a infinite ciascuna strettamente maggiore della precedente. Allo scopo basta iterare il passaggio all’insieme dei sottinsiemi, per esempio a partire dall’insieme dei numeri naturali, per ottene- re una successione di insiemi la cui cardinalit`a, per il teorema di Cantor, continua a crescere strettamente: |N| < |P(N)| < |P(P(N))| < |P(P(P(N)))| < ··· < |P(...P(P(P(N))))...)| < ··· Si potrebbe ancora andare avanti; definiamo, per induzione, P0(X) = X, Pn+1(X) = P(Pn(X)). Allora possiamo considerare l’insieme Y1 = 􏰊 Pn(N), nN e si pu`o dimostrare che |Pn(N)| < |Y1|, per ogni n N. Dunque abbiamo trovato una cardinalit`a ancora maggiore di tutte quelle trovate in precedenza e il gioco pu`o continuare: consideriamo Y2 = 􏰊 Pn(Y1) nN e ancora |Pn(Y1)| < |Y2|. E cos`ı via, costruendo una gerarchia infinita di cardinalit`a sempre maggiori. Oltre a interrogarci sul prolungarsi della successione delle cardinalit`a infinite sempre mag- giori, `e del tutto naturale domandarsi se tra |N| e |P (N)| c’`e o no una cardinalit`a strettamente compresa tra le due. Piu` in generale, ci si pu`o chiedere se, dato un insieme infinito X, esiste un insieme Y tale che |X| < |Y | < |P(X)|. 􏰃  10 INSIEMI INFINITI Cantor ipotizz`o che non ci siano insiemi Z tali che |N| < |Z| < |P(N)|, e questa ipotesi ha preso il nome di ipotesi del continuo. Non `e questo il luogo dove discutere questa questione, risolta brillantemente da P. J. Cohen nel 1963: l’ipotesi del continuo `e indecidibile rispetto agli assiomi della teoria degli insiemi, nel senso che `e altrettanto coerente prenderla come vera che prenderla come falsa. Non si tratta di argomenti semplici, tanto che per i suoi studi Cohen fu insignito della Fields Medal che, per i matematici, `e l’analogo del Premio Nobel. Esercizi Si ricordi che kN indica l’insieme dei numeri naturali multipli di k, N≥k l’insieme dei numeri naturali maggiori o uguali a k, e N>k l’insieme dei numeri naturali strettamente maggiori di k. Esercizio 1. Si dica, motivando la risposta, se gli insiemi 3N {2, 5} e 2N \ {10, 8} hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 2. Si costruisca una funzione biiettiva tra gli insiemi 4N { 32 , 7, √2} e N>9 . Esercizio 3. Si dimostri che per ogni insieme finito X, se f : X → X `e totale e iniettiva, allora `e biiettiva. Si dia un esempio di un insieme infinito in cui l’analoga propriet`a non sussiste. Esercizio 4. Si dimostri che per ogni insieme finito X, se f : X → X `e totale e suriettiva, allora `e biiettiva. Si dia un esempio di un insieme infinito in cui l’analoga propriet`a non sussiste. Esercizio 5. Si costruisca una funzione biiettiva tra gli insiemi Z { 32 , √3 2} e 3N. Esercizio 6. Si dica, motivando la risposta, se gli insiemi (5N \ {5, 15}) {√3, 25 } e 2N {11, 17} hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 7. Si dica, motivando la risposta, se gli insiemi N≥50 5N e 3N ∩ 2N hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 8. Sia A un insieme numerabile e sia a / A. Si costruisca una biiezione tra gli insiemi A e A {a}. Esercizio 9. Sia A un insieme numerabile e sia a A. Si costruisca una biiezione tra gli insiemi A e A \ {a}. Esercizio 10. Sia Π l’insieme dei numeri reali irrazionali. L’insieme Π `e numerabile? Esercizio 11. L’insieme di tutte le funzioni da Q all’insieme {0, 1, 2, 3} `e numerabile? Esercizio 12. Sia P = {I | I N e I `e un insieme finito} l’insieme delle parti finite di N. Qual `e la cardinalit`a di P ? Esercizio 13. Si dica, motivando la risposta, se l’insieme P(3N) `e numerabile. Carlo Cellucci. Keywords: il paradiso, Peano, logico filosofico, philosophical logic, logica filosofica, il paradiso di Peano, la rinascita della logica in italia, storia della logica in italia, formalismo, platonismo, teoria dell’adequazione, calcolo di predicato di primo ordine, regole d’inferenza, spiegazione matematica, logica antica, la logica nella storia antica, connetivo, connetivo russelliano, connetivo intuizionista, prova, dimostrazione, Aristotele e la mente, il nous, l’anima. Concetto di nomero, definizione splicita, implicita, gradual del numero, peano, frege, logica della scoperta, revivirla? il paradiso di Rota, il paradiso di Cantor, parmenide, non-contradizzione, il significato, il problema de significato, il problema del significato in Hintikka, Grice divergenza connetivo logico e connetivo nella lingua volgare (‘non,’ ‘e,’ ‘o,’ ‘si,’ ‘ogni’, ‘alcuno (al meno uno)’, ‘il,’.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cellucci” – The Swimming-Pool Library. Cellucci

 

Grice e Celso: l’orto a Roma sotto il principato di Nerone– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A follower of the Garden who lived during the principate of Nerone.

 

Grice e Celso: Roma antica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The son of Archetimo and a friend of Simmaco, he taught philosophy in Rome.

 

Grice e Cefalo: all’isola -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. Cefalo was a rich friend of Socrates who enjoyed philosophical discussions.

 

Grice e Centi: l’implicatura conversazionale di Savonarola e compagnia – dal pulpito al rogo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Segni). Filosofo italiano. Grice: “I like Centi; he is better than Kenny!” – Grice: “Centi dedicated his life to Aquinas, o “San Tomasso,” as he called him – first-name basis – But he also philosophised on other figures notably Savonarola – However, he is deemed the expert on ‘Aquino,’ as he also called him – as we call Occam Occam! –“ Grice: “According to Centi, Aquino is a Griceian!” Uno dei massimi esperti della filosofia d’Aquino. Emise la professione solenne. Si addottora presso l'Angelicum di Roma sotto Garrigou-Lagrange. Insegna alla Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino, Maestro in sacra teologia dal maestro generale dell'Ordine domenicano Costa. Collabora con numerose testate cattoliche, tra le quali “Il Timone”. Noto soprattutto per il suo commento alla filosofia d’Aquino. Curato per i tipi di Salani la prima traduzione integrale in italiano della “Somma Teologica”. Commenta anche la Summa contra Gentiles, il Commento al Vangelo di san Giovanni (Città Nuova, Roma), il Compendio di Teologia, diversi opuscoli (Contra impugnantes Dei cultum et religionem, De perfectione spiritualis vitae etc.) e varie Questiones Disputatae.  Oltre al commento d’AQUINO, si occupa anche di altre importanti figure storiche come SAVONAROLA e Beato Angelico. È stato membro della commissione storico-teologica incaricata di revisionare la filosofia di Savonarola e ne ha difeso l'ortodossia, dimostrando la falsità delle “Lettere ai Principi” a lui attribuite che avrebbero rivelato le sue intenzioni scismatiche e sostenendo che la scomunica inflittagli fosse illegittima e che la vera ragione della sua condanna fosse la sua opposizione alle politiche espansionistiche di papa Alessandro VI.  Altre opere: “La somma teologica, testo latino dell'edizione leonina, commento a cura dei domenicani italiani, C., Salani, Firenze, poi ESD, Bologna); “Somma contro i Gentili, POMBA (Torino); Catechismo Tridentino. Catechismo ad Uso dei Parroci Pubblicato dal Papa Pio V per Decreto del Concilio di Trento, Edizioni Cantagalli, Siena); “Savonarola. Il frate che sconvolse Firenze (Città Nuova, Roma); “La scomunica di Savonarola. Santo e ribelle? Fatti e documenti per un giudizio, Ares, Milano); “AQUINO: Compendio di Teologia e altri scritti); Selva, POMBA, Torino); “Il Beato Angelico. Fra Giovanni da Fiesole. Biografia critica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, Inos Biffi); Le altre due Somme teologiche Studio Domenicano. Nel segno del sole. Aquino, Ares, Milano. Speranza, “Grice ed Aquino”. Aquino e un proto-griceiano intenzionalista (grammatico speculativo) – l’intenzione del segnante. Il problema del segno (segnante, segnato, segnare, segnazione, segnatura). Un segno e monosemico. La figura retorica della metaforia permesse interpretare un sengno de maniera allegorica, ma e rigorosamente referenziale. Un segno che e presente rinviano ad una segnatura – segnato/segnatura -- un evento che ha la realta come punto di riferimento. Un segno particolare  o particolarizato è quello del sacramento, o segno efficace, che testi-monia la presenza della grazia divina e fa quel che dice di fare. Un segno e naturale, ma un segno puo essere ‘ad placitum’ – ‘grammatica speculativa’ – modus significandi – un segno e dal segnante legato no iconicamente ma arbitrariamente, libremente, ad un concetto. Un segno naturale o un segno iconico e invece correlato per causalita (efficace) e per iconicita o similitudine al segnato. I modo di correlazione del segno e del segnato puo essere meramente causale (consequenza – segno naturale), o arbitrario -- modo iconico, modo arbitrario non-iconico. Il “De interpretation” (cf. Grice e Strawson, “De Interpretatione”) è una delle sei opere di logica contenute nell’Organon aristotelico. Il testo chiarisce la relazione che intercorre tra logica e linguaggio. Analizza in particolare il rapporto fra le otto parti del discorso e il giudizio che scaturisce dalla combinazione di queste parti. AQUINO, nella sua “Expositio libri Peryermenias” sviluppa un commento serrato all’opera aristotelica. L’Expositio tomista è stata interpretata e commentata durante il corso di logica tenuto da Gimigliano presso l’Istituto Filosofico San Pietro di Viterbo aggregato al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Al termine del corso il tutee elabora un’interpretazione su un paragrafo del primo libro dell’opera tomista attraverso la stesura di un contributo scritto. Non tutti i paragrafi sono stati analizzati e tutti i contributi sono raccolti all’interno di questo lavoro. Introduzione e conclusione sono ad opera di Gimigliano. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, id est definire quid sit nomen et quid sit verbum. In graeco habetur, primum oportet poni et idem SIGNIFICAT. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur.  Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum.  Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.  His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur.  Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo ARISTOTELE praetermisit tractatum de hypotheticis enunciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis.  Si quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum; secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera.  Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant: sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae.  Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota, non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici. Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus: quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce, notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet vocum significationem exponere.  Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter, quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno.  Circa id autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum sententiam ARISTOTELE. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus res.  Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus ARISTOTELE nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.  Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce, sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae, quae naturaliter significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud omnes.  Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae, idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione.  Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones. Ad quod respondet BOEZIO quod ARISTOTELE hic nominat PASSIONES ANIMAE conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo significatas.  Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert; et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.  Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus.  Est ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et falso.  Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima.  Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem.  Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem.  Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet.  Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a ratione artis.  Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum.  Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum, falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.  Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et divisionem simpliciter.  Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi: huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum.  Nec est instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita compositio, licet non explicita.  Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus, et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel falsum esse.  Postquam philosophus determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen.  Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat.  Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit quod nomen est vox significativa.  Sed cum vox sit quaedam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas.  Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales, ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas artificiales in abstracto.  Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit: secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium.  Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi.  Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus.  Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit, manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositae.  Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet.  Deinde cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter.  Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum est.  Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis, ut dictum est.  Deinde cum dicit: CATONIS autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur.  Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem.  Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera.  Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat.  Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari.  Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati.  Sed hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.  Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum.  Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit nomini, sed verbo.  Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur subiecto.  Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive accidentaliter.  Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones significant remotionem actionis vel passionis.  Si quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum.  Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum quid.  Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens.  Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari.  Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit.  Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem.  Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel non esse.  Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema compositionis.  Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse verum, vel falsum.  Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum compositum.  Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio.  Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod ARISTOTELE prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae.  Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum.  Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.  Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed naturaliter.  Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib. qui intitulatur CRATILO, ARISTOTELE obviando dicit quod omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat AD PLACITUM, id est secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem relinquantur.  Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.  Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa est.  Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum.  Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam.  Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera.  Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse unam.  Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione.  Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae.  Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium.  Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est.  Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.  Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa.  Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur ARISTOTELE valde subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter.  Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos pluralitatis.  Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.  Circa quod considerandum est, secundum BOEZIO, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit.  Sed haec expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod ARISTOTELE, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans.  Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, “Petrus currit.” Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi.  Deinde cum dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum SIGNIFICAT. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum.  Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in praesenti.  Alexander autem existimavit quod ARISTOTELE hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus.  Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo BOEZIO dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoc contradictio et cetera.  Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa.  Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, PLATONE non disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, PLATONE autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit PLATONE, essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba ARISTOTELE. Ipse enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut PLATONE posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, “Socrates ambulat”. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam.  Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et cetera.  Circa primum considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic accepto.  Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem affirmationem.  Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae.  De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis.  Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis.  Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera.  Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem.  Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariae.  Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici.  Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum.  Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal.  Deinde cum dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali.  Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae.  Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et cetera.  Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum praemissa.  Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa), sunt contradictoriae.  Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari affirmativae universalis negativa.  Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria.  Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum.  Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus.  In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse ARISTOTELE utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam PLATONE, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus praedicantur.  Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus.  Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera.  Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis.  Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria.  Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi.  Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen.  Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba.  Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro; et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum est.  Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis.  Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera falsa.  Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod affirmans vel negans mentiatur.  Est ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur.  Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori parte.  Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit.  Deinde cum dicit: at vero neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera.  Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis.  Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt.  Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.  Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate eveniant.  Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse.  Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus.  Est autem considerandum quod, sicut BOEZIO dicit hic in commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod BOEZIO attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum.  Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo.  Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt.  Sed hanc rationem solvit ARISTOTELE in VI metaphysicae interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio.  Si autem utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est.  Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur.  Quidam vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem.  Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant.  Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens.   Sed si providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.  Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant.  Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX metaphysicae.  Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter.  Similiter ex parte voluntatis divinae differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio est et cetera.  Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum.  Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione.  Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel falsa.  Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera.  Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum.  Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum.  Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est.  Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur per respectum ad praesens.  Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres.  Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis.  Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum.  Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur.  Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis ARISTOTELE. Dicit enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit.  [Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae.  His igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum.  Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas.  Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam BOEZIO ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae.  Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor enunciationes.  Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Grice: “You tell me one of them Italian philosophers is a priest, and I refuse to call him a philosopher – the same with them Irish Catholics, like Kenny, and even non-Irish, like Copleston!” Tito Sante Centi. Tito S. Centi. Keywords: gemitus, Aquino’s cry – natural sign of his illness – gemitus infirmis, gemitando infirmus signat infirmitas -- tomismo, segno, segnante, segnato. Aquino, why Aquino is hated at Oxford. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Centi” – The Swimming-Pool Library. Centi.

 

Grice e Centofanti: l’implicatura conversazionale della filosofia italica, no romana – Appio -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Calci). Filosofo italiano. Grice: “I love Centofanti; he is a silvestro indeed, born in the rus of Tuscany – dedicated all his life to the philosophy of Tuscani – notable are his philosophical explorations on “Inferno’s Dante,” to use the Cole Porter mannerism; but my favourite are his notes on Plutarch’s “Romolo” – how much he hated the Etrurians, he made them second-class! – and most importantly, the Platonic tradition in Italy – as part of a larger exploration on ‘Italian philosophy,’ as such; at Oxford, Warnock did not give a dedicatee for his history of English philosophy, but in a typical Italian manner, Centofanti dedicates his history of Italian philosophy to a member of the nobility! – the duca de Argento!” – Figlio da Giuseppe e Rosalia Zucchini. Si laurea a Pisa. Insegna a Pisa. Altre opere: “La prova della realtà esteriore secondo Mamiani”; “La verità obiettiva della cognizione umana”; “Alighieri. (Galileiana, Firenze); Pitagora, in Monumenti del giardino Puccini, Pistoia); “Sull'indole e le vicende della letteratura greca” Società editrice fiorentina, Firenze); “Storia della filosofia, (Prosperi, Pisa); “Del platonismo in Italia” (Prosperi, Pisa); “Notizia intorno alla cospirazione e al processo di T. Campanella”; “Alighieri” (Crescini, Padova); “Storia della filosofia italiana” (Prosperi, Pisa); “Noologia – noologico – il noologico --. Una formula logica della filosofia della storia” (Nistri, Pisa); “Del diritto di nazionalità in universale e di quello della nazionalità italiana in particolare” (Nistri, Pisa); “Sul risorgimento italiano” (Vannucchi, Pisa); “Il Romolo di Plutarco” (Le Monnier, Firenze); “Averroeismo in Italia”; “I poeti greci nella traduzione italiana, Preceduti da un discorso storico sulla letteratura greca (Mazzajoli, Livorno); “Aosta”; Sopra un luogo diversamente letto nella Divina Commedia” (F. Bencini, Firenze); Al commento di Buti sopra Alighieri” (Nistri, Pisa); “Galilei” (Nistri, Pisa); “Campanella”. “La letteratura greca dalle sue origini sino alla caduta di Costantinopoli; “Pitagora” (Le Monnier, Firenze). Dizionario biografico degl’italiani. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo -- Non prima giunge Pitagora a CROTONE che tosto vi opera un mutamento grande cosi nell’animo come nella cosa pubblica. I crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell’uomo, e vinti dall’autorità del sembiante, dalla soavità dell’eloquio, dalla forza delle ragioni discorse. E Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde. A Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all’ordine liberale e giusto. Non soli i lucani, i peucezi, i messapi, ma I ROMANI (pria di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco e Caronda, e il re NUMA escono legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l’obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d’Abari, il mistico viaggio all’inferno. I crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell’invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte. Quando e come si forma questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento solo, ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l’essenza e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai quali egli appartiene, l’arcano della società da lui instituita, e il simbolico linguaggio adoperato fra suoi seguaci dano occasioni e larga materia alle congetture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl’interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando surgeno gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggi mai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture delle dottrine apocrife, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi veli alla posterità che e curiosa d’investigarla. Non dirò delle arti usate da altri per trarla in luce nè delle cautele per non cadere in errore. Basta mostrare la natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non impede l’azione e la moralità conduce alla scienza. Ragione ed autorità sono cosi bene contemperate negli ordini della disciplina che avesse a derivarne il più felice effetto all’ammaestrato [tutee]. Tutto poi conchiude in una idea religiosa, principio organico di vita solidaria, e cima di perfezione a quella setta filosofica. Condizione prima ad entrarvi e l’ottima o buona disposizione dell’animo. Pitagora, come nota Gellio (Noctes Atticae, I, 9) e uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) osservando la conformazione ed espressione del volto e da ogni esterna dimostrazione argomentando l’indole dell’uomo interiore. Ai quali argomenti aggiunge le fedeli informazioni che avesse avuto. Se il giovinetto presto impara, verso quale cose ha propensione, se modesto, se veemento, se ambizioso, se liberali, ecc. E ricevuto, comincia la sua prova; vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisogna imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, ti fa freddo al sacrificio generoso, ti fa chiuso alla morale dolcezza, o ti rende impuro a goderle. Imperocchè il giovinetto voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè. Un esercizio laborioso conforta il corpo e lo spirito. Breve il riposo, semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar l’astinenza, e corporali gastighi reprimessero dalla futura trasgressione l’anime ritornante a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede dall’opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne restino indegnamente soperchiati, e questa è superbia. La domande cavillosa, la questione difficile, l’obiezione forte sbaldanza presto l’ingegno prosuntuoso, e a modestia prudente e vigorosa lo conforma. Il disprezzo giusto e stimolo a meritare l’estimazione d’altro; accortamente i ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti doma la compiacenza nell’ornamento vano. Questo accrescimento del mito é opera di Bruckero (Hist. crit. phil., II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips.). Chi recalcitra ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente, un terzo egoismo è alimentato dal privato possesso di una cosa esteriore immoderatamente desiderata. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole espansione del l’umana socievolezza, vincesi con la comunione del bene, ordinata a felicità più certa della setta. Quei che appartene ad un pitagorico e a disposizione del suo consorte. Ecco la verità istorica. Il resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale della setta pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità dell’idea -- cosa molto notabile. “Pythagorici”, dice Diodoro Siculo, “si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum *fratre* dividebant” (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto “ideón te medėn fysiofai” – “proprium nihil arbitrandum” -- riferito da Laerzio (VIII, 21) consuona al principio ideale della setta: e ogni conosce il detto attribuito a Pitagora da Timeo. Fra due amanti dover esser comuni le cose – “κοινά τα των φίλων”. Anche la domande cavillosa, le vesti squallide, il corporale gastigo abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche. Ma i tre punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali donde si dirama la co-relazione tra l’ordine morale e l’ordine intellettuale, e stato con profondo senno determinato e valutato, sicchè l’educazione e formazione di ogni procede al provveduto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina e l’autorità. Nell’età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignora da non pochi l’arte vero dell’*obbedienza* e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta. Il fanciullo presume di essere un uomo. E l’uomo che si lascia dominare dal fanciullo. Nell’Italia pitagorica voleasi dar forma all’uomo e la presunzione non occupa il luogo della scienza. La solidità della cognizione radica nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha una nozione sempre scarsa della verità che impara, finchè non ne ha compreso l’ordine necessario ed intero, e la nozione imparata non basta, chi non v’aggiunga l’uso e la varia esperienza della cosa, perpetuo e sapientissimo testi-monio della verità infinita. Poi non ogni verità puo essere intese pienamente da ogni e puo dover essere praticata. Onde l’autorità di quelche la insegna o che presiede alla sua debita esecuzione. L’alunno, non per anche iniziato al gran mistero della sapienza, riceveva la dottrine dal maestro senza discuterla. Il precetto e giusto, semplice, breve. La forma del discorso e simbolica; e la ragione assoluta di ogni documento, il nome di Pitagora che così ha detto e insegnato. “Dutòs ipa” – “Ipse dixit” -- Di questo famoso “ipse dixit” credo di aver determinato il vero valore. Alcuni filosofi, secondo chè nota Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di *Zacinto*! Ma Cicerone, Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., lo attribui ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza. “Tantvm opinio præiudicata poterat ut eliam sine ratione valeret auctoritas” (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l’”ipse dixit” l'avrebbe detto Pitagora stesso, riferendolo a *Dio* maschio, solo sapiente vero e dal quale riceve il suo domma – “ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv” -- come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) rifiuta il titolo di *sapiente* e adotta il titolo di ‘filosofo’, perché la sapienza (sofia) vera, che è quella assoluta, a Dio solo appartiene. Meiners e incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicasi quel precetto alla vita e dai buoni effetti ne argomenta il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che puo venire da questo severo tirocinio, moltissimo dove conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix&uubia ) per due, tre, o cinque anni, e proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero. E la baldanza dell’espressione spesso argomenta impotenza all’operazione. Non diffusa nel discorso l’anima, nata all’attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera l’espressione sua propria col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto, ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richiede non dirado questa difficile virtù del *tacere*, fedelissima compagna della prudenza e del senno pratico. Persevera l’alunno nella sua prova fino al termine stabilito. E allora passa alla classe superiore e divene de’ genuino fratello, amante, discepolo (pvýccol óuenetai). Fa mala prova, o sentesi impotente a continuarla, ed e rigettato o puo andarsene, riprendendosi il suo bene. Dura l’esperimento quanto e bisogno alla diversa natura del candidato: ed all’uscit od espulso ponesi il monumento siccome a uomo morto. Che questo monumento e posto, non lo nega neppure Meiners. All’abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon governo della setta, bisogn formare il discepolo. Ma qui ancora il mito dà nel soverchio. L’impero dell’autorità dove essere religioso e grande. Ma il degno di rimanere nella setta, e che passa alla classe superiore, comincia e segue una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d’esame. Alzata la misteriosa cortina, il discepoli divene college, compagno di giocco, condizionato a non più giurare sulla parola del maestro, puo francamente ragionare rispondendo – conversazione --, pro-ponendo, impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. La aritmetica e la geometria apparecchiano ed elevano la mente alla più alta idea del mondo intelligibile. Interpretasi la natura, speculasi intorno al necessario attributi dell’ente parmenideano; trovasi nella ragione del numero l’essenza del cosmo. E chi giunge all’ardua cima della contemplazione filosofica ottene il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto e di venerabile (“TÉNELOS kai OsBaotixÒS”), ovvero chiamasi per eccellenza “uomo”. Compiuti il corso di literae humaniores, gli studi, ciascuno seconda al suo genio coltivando quel genere della dottrine, o esercitando quell’ufficio che meglio e inclinator. Il più alto intelletto alla filosofia; gli altri, a governar le città e a dar la leggi al volgo. Della classe de’ pitagorici e detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc. Intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere. E quanto ai gradi dell’insegnamento, notisi una certa confusione di una filosofia neoplatonica con l’anticho ordine pitagorico, probabilmente più semplici (V. Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII, etc.). Vivesi a social vita e la casa eletta al cenobio dicesi uditorio comune (õpaxóïov). Prima che sorgesse il sole, ogni pitagorico dove esser desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero la cose fatta, lla cosa parlata, la cosa osservata, omesse nel giorno o ne’ due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l’una all’altra si succede. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adorava e salutava la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li dispone a conformarsi al concento della vita cosmica ed e eccitamento all’operazione. Passeggiav soletto a divisar bene nella mente la cose da fare. Poi applica alla dottrine e tene il con-gresso nel templo. Il maestro insegna, l’alunni impara, ogni piglia argomento a divenir migliore. E coltivato lo spirito, esercita il corpo -- al corso, alla lotta, ad altri ludi ginnastici. Dopo il quale esercizio, con pane, miele ed acqua si ristora e preso il parco e salubre cibo, da opera al civile negozio. Verso il mancar del giorno, non più solingo come sul mattino, ma a due, ovvero a tre, dasi compagnevol passeggio ragionando insieme della cosa imparata e fatta. Indi si reca al bagno. Cosi viene l’ora del comun pasto, al quale sedeno dieci per mensa. Con una libazione e un sacrificio lo apre: lo imbanda di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosamente lo chiude con altra libazione e con una lezione opportuna. E prima di coricarsi canta al cadente sole e l’anima già occupata e vagante fra molteplici cure e diversi oggetti, ricompone con l’accordo musicale alla beata unità della sua vita interiore. Il maestro rammenta all’alunno il generale precetto e la regola ferma della setta; e quell’eletto sodalizio, rendutosi all’intimo senso dell’acquistata perfezione, rianda col pensiero l’ora vivuta, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormenta. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all’uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα.xos ov diVÍTTETA!” “et eam quæ nunc vocatur ecclesia significat id quod apud ipsum Pythagora est Ouaxoslon (Str., 1. 15). Questo e l’ordine, questo il vivere della Società Pitagorica secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Ogni facoltà dell’uomo vi e educata ed abituata ad operare un nobile effetto. La salute del corpo conduce o sirve a quella dello spirito. E lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella feconda disposizione della sua potenza, concordasi di atti e di letizia col mondo e trova in Dio il principio eterno d'ogni armonia e contentezza. Così il pitagorico era modello a quel che lo riguarda: il quale anche con la sua veste di lino bianco mostrasi diviso dalla volgare schiera e singolare dall’altro. La breve narrazione della cosa che fin qui fu fatta, e necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa e quindi una sua propria nota ed anche sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio onde la verità possa essere separata dalla favola quanto lo comporta l'antichità e la qualità dell’oggetto che e materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano puo parere in alcune sue parti, pur ha una certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alla varia opinione che altri ne ha; e quando la tradizione rimane ha un fondamento nel vero primitivo dal quale deriva, o nella costituzione morale e nella civiltà della setta a cui quel vero storicamente appartiene. Che se nella molta diversità della sua apparenza mostra un punto fisso e costante a che riducasi quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscontrasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee principali. Prima in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione dell’uomo per singolarissima partecipazione alla virtù divina. Seconda in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel nome di quest'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla setta pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalla quale conclusione ultimamente risulta, Pitagora e un filosofo, ed e certissimamente un’idea storica e scientifica. L’Italia poi senz’ombra pure di dubbio è il paese dove quest’idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e fortuna, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del mito e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembra essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora (o Grice) sia insieme un filosofo e una filosofia perenne. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno che non lasciandosi andare l’agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un filosofo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla filosofia, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un filosofo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per rispetto alla filosofia. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione del filosofo e assolutamente richiesta alla spiegazione del mito e alla ricupera della storia e timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale. Potendosi conservare Pitagora alla storia della filosofia (unita longitudinale), e separar questa dalle favole, pecca di scetticismo vano chi non sa contenersi dentro questo termine razionale. Vediamo ora se a questa nostra deduzione logica aggiunge forza istorica la autorità positiva di un autore rispettabile, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge la orgia e la instituzione pitagorica con quella orfica, dionisiaca, e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al figliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alla cosa greco-latina ed alla cosa barbarica (Erodoto, II, 81.; IV, 95 — Isocrate reca a Pitagora la prima introduzione della filosofia -- φιλοσοφίας εκείνων TTPŪTOS ES tous Ezanvas éxóulge (in Busir., 11). E Cicerone lo fa viaggiare per la Liguria (De Finibus, V. 29). Ed Eraclito, allegato da Laerzio, parla di Pitagora come di filosofo diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente la umana cognizione e a farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina -- Laerzio, VIII, 5. -- la cui allegazione delle parole di Eraclito è confermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (“xaxoteXvinv”) l’erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, ogni verità e nella mente, la quale sa trovare la scienza dentro di sè e basta a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e opportuna testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d’una filosofia che quasi possa dirsi “cosmopolitica” o universale in senso hegeliano. “Vir erat inter eos quidam praestantia doctus plurima, mentis opes amplas sub pectore servans cunctaque vestigans sapientum docta reperta, nam quotiens animi vires intenderat omnes perspexit facile is cunctarum singula rerum usque decem vel viginti ad mortalia secla. (Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30). A dar fondamento istorico all’altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo, il quale nota che PITAgora e con questo nome appellato perchè nel dire la verità non e inferiore ad Apollo pizio (Diog. Laerzio, VIII, 21). E noi qui alleghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepostera del valore etimologico del nome (pizio, pizagora) con quello scientifico del filosofo, ma per mostrare che prima degli alessandrini il nome di “Pitagora” (pizio, pizagora) era anche nell’uso dei filosofi quello di un essere umano e di una più che umana virtù, ala Nietzsche, e che nella sua straordinaria partecipazione alla divinità (Apollo pizio) fonda l’opinione intorno alla di lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma Aristippo, testimoniando che i crotoniati lo appellano “apollo iperboreo” (Lascio Diodoro Siculo, Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri filosofi meno antichi, i quali peraltro ripeteno una tradizione primitiva o molto antica. Ma ciò non basta. Un filosofo, innanzi alla cui autorità volentieri s'inchina il moderno critico, ci fa sapere che principalissimo fra gli arcani della setta pitagorica era questo: tre essere le forme o specie della vita razionale: Dio (pizio Apollo), ľ uomo e Pitagora -- Giamblico nella Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (“èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας”) quod huiusmodi divisio a υiris illis inter praecipua urcana (“èv toiS TAVT atroppñtois”) servata sit animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice “animalium” ma “animantis” -- zúov; che è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella traduzione latina (three rational lifes: God, man, and Pythagoras). sono obiettivamente divise. Nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune principio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole né la ragione dell'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1). A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit., 19) ci lasciò notato che, fra la cosa pitagorica conosciute da tutti (“γνώριμα παρά πάσιν”) era anche questa: “και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv”, vale a dire, che ogni natura animate e omogenea. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele, è principalmente “Pitagora” -- la natura media (demonica) tra quella puramente umana e quella divina -- idea demonica e fondamento organico dell’instituto. Poi, l’uno parla di un essere semplicemente animato. L’altro dell’ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza e divulgatissima come quella che risguarda l’oggetto sensate e la seconda appartenere alla dottrina segreta, per ciò che risguarda all’oggetto intellettuale. Non ch'ella non puo esser nota nella forma, in che la notiamo in Giamblico, ma chi che non sa che si e veramente Pitagora, non penetra appieno nel concetto riposto della setta. Qui si vede come il simbolo (segnante) fa velo all’idea (segnato), e con qual proporzione quella esoterica e tenuta occulta, e comunicata quella essotericha, quasi a suscitar desiderio dell’altra. Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele. Ed Aristotele ci è storico testimonio che l’ombra dell'arcano pitagorico si stende anche alla filosofica dottrina. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita e Pitagora e il segno di quella condizione demoniaca che media tra la condizione puramente divina (pizio Apollo) e la condizione puramente umana. Ond’egli è nesso fra l’una e l’altra, e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che la nostra natura e capace. Ora la filosofia anche nell’orgia pitagorica e una dottrina ed un’arte di purgazione (catarsi) e di perfezionamento, sicchè l’uomo ritrova dentro di sé il dio primitivo e l'avvera nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente scopriamo l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società religiosa e filosofica e coordinata col magistero che nel di lui nome vi e esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata con quella della setta (cfr. grice, setta griceiana), e possiamo far distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore e mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de’ pitagorici: l’uomo esser bipede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser simile al nume pizio Apollo, e l'uomo per eccellenza, o quell’istesso che dice la verità: i suo detto e l’espressione di Dio che da tutte parti risuonano: e lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della natura sempiterna.  Alcuni videro in questa tetratti il tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio. Altri, a grado loro, altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico (Vita di Pit.) e da Porfirio ai quali riguardavamo toccando della tetratti e che sono la formola del giuramento pitagorico – “Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν” – “Non per eum, qui animae nostrae tradidit tetractym fontem perennis naturae radicemque habentem” (Porph., V. P., 20). Il Moshemio sull’autorità di Giamblico (in Theol. Arith.) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell’anima. Poco felicemente! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, s. 20). Noi dovevamo governarci con altre norme -- e altre sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora qua uomo o filosofo, ma a Pitagora qua persona o idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell’idea primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito, e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia trovato e determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato è sempre uomo ed idea: un uomo tirreno che dotato di un animo e di un ingegno altissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini, capace di straordinari divisamenti, e costante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi, fa cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo, che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume ideale, si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi, non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio, che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni. Si va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto, l'idea divina, im personata in Pitagora, era organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa forma attestano una verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti, che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta, e il principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa naturalissima a intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all ' indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi scansi i suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono di lui raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi, nume e legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù, Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo - tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti, incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima; conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici, e della medicina pitagorica; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma primitiva: e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con legittimo criterio, a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo la parti. zione che ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo, città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che i moderni critici più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora, senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie, le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven., I, pag. 53; Niebuhr, Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente introdusse fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal), congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V. P., VII, XXX; Porfirio, id., 21, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta, come fu osservato dall' Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all ' incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv. fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li curgo dubita assai il Grote, History, ec., tomo II, p. 530 e segg. -- del comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII; Valerio Massimo, I, 7; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la civiltà cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX, 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min. ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città: tutta la vita, una disciplina; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica: e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre domina l'aristocrazia, ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i banchetti: e la donna (cosa notabilissima), non casereccia schiava, ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo medesimo Apollo. Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica. Che diremo delle instituzioni jeratiche? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro, ma non richiesto al nostro bisogno. Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri, il teologo per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni. Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea, fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la concordia loro: ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica, che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia, e Platone ce lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi. Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis illustran. dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph., p. 339. Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse, la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica, e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica. Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile, le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V. P., XXX. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas... venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII, 16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica -- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses. Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1. Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito, disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva, dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria. Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal., vol. III, pag. 26. E anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica, e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici, scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane, e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose, ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi, i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana, ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela, dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec. potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento, col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in questi cenni istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima: e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell. Gall., VI, 5; Diodoro Siculo, VIII, 29; Valerio Massimo, II, 10; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi: Hi terrae, mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum, ac quid Dii velint, scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt, in vulgus effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque ulteram ad Manes, III, 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita. Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato, nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit. Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la teoria dei numeri e della musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1, pag. 296. Ma il grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente, che di tutte le parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia; ma anche generalmente alle terre greche e italiane, e congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana; che era l ' idea scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza.  Questa è la con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c. V. 33. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che, achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute, repubbliche in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni pronti, e volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età, e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione: con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono ! Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect., XX; Tuscul., 1, 30), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm. XCIX. – Dicearco, ap. Giamblico, V. P., XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo (Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere: ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri unum (Str., IV, 23.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè perfezione dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà, al cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo; ma deve anche storicamente accettare questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise in guerra le sue idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo, venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello almeno italo-greco, era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma essendo composta di elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe dovuto esercitare, con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice, e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune. Im perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino dell'amore, onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini, e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari. Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora, racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si professava no, e la speculazione era libera, tutte queste dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia, nella fisica, nella psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si potrebbe se non a frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud Delphos.  Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono: e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale, non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche, ma che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose; e il libero arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e coordinazione, e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si determina, e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella geometrica, e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa, questa eterna ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella morale, nella politica, in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai profani, e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati. Questo io credo essere il sostanziale e necessario valore del principio, nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine, fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero. E perocchè questo emanatismo è vita, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1, 5) sulla filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp., III, 18), se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono (των όντων... οι αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle matematiche, ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa, se non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione, ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna cosa può essere, notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero, che si deduce ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti, si risolve da ultimo in una unità sintetica, che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome che dicesi primamente usato da Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p. 48), che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo, ma per rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee: γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione corporea, e appartiene alla fisica generale dei pitagorici. Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque, inteso a combatterli, non valutò bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di atti intellettuali, che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui, e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle, o raggi di una co mune sostanza eterea, debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela, e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose. Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica, che ordina tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le cose. Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne, non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere. Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so. spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto. Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore l... II, 3. Noi qui osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali, un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita, filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento, una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico, insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis honesta. (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer., VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P., 22 ), suo. navano spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P., XXXII). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis, rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1, 42. La teologia fisica era altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare. Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, (L. 1, c. 1, 4, 12) e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggito ri; XIII, 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose, che sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma, guarda sparsamente le cose, che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema, le avrebbe trovate più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano, quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di discipline, di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello, la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga, quanta è la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi erano in essa, come già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima formatasi organicamente a corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici, ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano, a che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari, quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche, e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto, e necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi motti satirici? da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla: aspettare i tempi opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi forte, che se ne volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali, fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P., 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica, non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur somigliano tanto a vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse. Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni, le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza, quando non si convengono con le leggi della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali. Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici, fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi, e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata religione del segreto, ec., celebravansi di primavera, quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura. I secondi, d'autunno; quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto giorno era il più solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose e ri. petute grida ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa, la notte misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda iniziazione, il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall' intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora. Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società; questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito, la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni, quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio, VIII, 4); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav, äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima, fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi, non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima, ma che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare, che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, VIII, 15, confermato da Giamblico, V. P., XXXI, 199, da Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il principio fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica, e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners: aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur ' egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza, che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento, nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg.  Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti, che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo, e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno, quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche pelasgica, quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non creda: forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia; corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere, che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea, di qualunque natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del secolo, e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni, nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà, potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo  A superare tutti questi limiti bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali, e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella, disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno; questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi: frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello tirannico stoltamente irruppero a di struggerli.  Pitagora, come Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque (Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti alla durata dell'Institutopitagorico. Imperocchè, secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet. tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano pensiero.Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina, professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e danzando: chi divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio, e preparavano a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide, Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all' impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus.... scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos. IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII, 20.  Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare, per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio, di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù, mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri: mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo tempio a Pitagora. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo. Non prima giunge a Crotone che tosto vi opera un mutamento grande cosi negli animi come nella cosa pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell'uomo, e vinti dall'autorità del sembiante, dalla soavità dell'eloquio, dalla forza delle ragioni discorse. Ed Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde: a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all'ordine liberale e giusto. Non soli i Lucani, i Peucezi, i Messapi, ma i Romani (pria di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco, e Caronda, e il re Numa escono legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l'obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d' Abari, il mistico viaggio all'inferno. I giovani crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell'invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte. Quando e come si formò questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento solo ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo Pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l'essenza e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai quali egli appartiene, l ' arcano della società da lui instituita, e il simbolico linguaggio adoperato fra' suoi seguaci diedero occasioni e larga materia alle con getture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl'interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando sursero gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggimai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture dei libri apocrifi, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi veli alla posterità che fosse curiosa d'investigarla. Non dirò delle arti usate da altri per trarla in luce, nè delle cautele per non cadere in errore. Basti aver mostrato la natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. Diciamo ora dell'Instituto. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non impediva l'azione, e la moralità conduceva alla scienza;  e ragione ed autorità erano cosi bene contemperate negli ordini della disciplina, che avesse a derivarne il più felice effetto agli ammaestrati. Tutto poi conchiudevasi in una idea religiosa, principio organico di vita comune, e cima di perfezione a quella famiglia filosofica. Condizione prima ad entrarvi era l' ottima o buona disposizione dell'animo; e Pitagora, come nota Gellio, era uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) (Noctes Atticae, 1, 9) osservando la conformazione ed espressione del volto, e da ogni esterna dimostrazione argomentando l'indole dell'uomo interiore. Ai quali argomenti aggiungeva le fedeli informazioni che avesse avuto: se'i giovinetti presto imparassero, verso quali cose avessero propensione, se modesti, se veementi, se ambiziosi, se liberali ec. E ricevuti, cominciavano le loro prove; vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisognava imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, freddo ai sacrifici generosi, chiuso alle morali dolcezze, o ti rende impuro a goderle. Imperocchè il voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè. Esercizi laboriosi con fortassero il corpo e lo spirito: breve il riposo: semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar l'astinenza: e corporali gastighi reprimessero dalle future trasgressioni le anime ritornanti a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede dall'opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne restino indegnamente soperchiati: e questa è superbia. Domande cavillose, questioni difficili, obiezioni forti sbaldanzivano presto gl'ingegni giovenilmente prosuntuosi, e a modestia prudente e vigorosa li conformavano: il disprezzo giusto era stimolo a meritare l'estimazione altrui; accortamente i ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti domavano le puerili compiacenze negli ornamenti vani. Questo accrescimento del mito é opera del Bruckero. Hist. cril. phil. Par, II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips. Chi recalcitrasse ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente un terzo egoismo è alimentato dal privato possesso delle cose esteriori immoderatamente desiderate. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole espansione del l'umana socievolezza, vincevasi con la comunione dei beni ordinata a felicità più certa dell'instituto. Quei che apparteneva ad un pitagorico era a disposizione de' suoi consorti. Ecco la verità istorica; il resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale dell'Instituto pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità dell'idea; cosa molto notabile. Pythagorici, dice Diodoro Siculo, si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum fratre dividebant, etc. (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto "ideóv te undėv fysiofai", "proprium nihil arbitrandum", riferito da Laerzio (VIII, 21) consuona al principio ideale della scuola: e tutti co noscono il detto attribuito a Pitagora da Timeo: fra gli amici dover esser comuni le cose, "κοινά τα των φίλων". Anche le domande cavillose, le vesti squallide, i corporali gastighi abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche: ma i tre punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali, donde si diramano le molteplici correlazioni tra l'ordine morale e l'intellettuale, erano stati con profondo senno determinati e valutati, sicchè l'educazione e formazione di tutto l'uomo procedesse al provve duto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina era l'autorità. Nell'età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignorano da non pochi le arti vere dell'obbedienza e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta; fanciulli che presumono di essere uomini, ed uomini che si lasciano dominare a fanciulli. Nell'Italia pitagorica voleasi dar forma ad uomini veri: e la presunzione non occupava il luogo della scienza, e la solidità della cognizione radicavasi nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha nozioni sempre scarse delle verità che impara, finchè non ne abbia compreso l'ordine necessario ed intero: e le nozioni imparate non bastano, chi non v'aggiunga l'uso e la varia esperienza delle cose, perpetue e sapientissime testimonie della verità infinita. Poi non tutte le verità possono essere intese pienamente da tutti e possono dover essere praticate. Onde l'autorità di coloro che le insegnano o che presiedono alla loro debita esecuzione. Gli alunni, non per anche iniziati al gran mistero della sapienza, ricevevano le dottrine dalla voce del maestro senza discuterle. I precetti erano giusti, semplici, brevi; la forma del linguaggio, simbolica; e la ragione assoluta di tutti questi documenti, il nome di Pitagora che così ebbe detto e insegnato ("dutòs ipa", "ipse dixit". Di questo famoso ipse dixit credo di aver determinato il vero valore. Alcuni, secondo chè scrive Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di Zacinto. Cicerone, Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza: "tantum opinio praejudicata poterat, ut eliam sine ralione valeret auctoritas!" (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l'avrebbe detto Pitagora stesso, riferendolo a Dio, solo sapiente vero e dal quale avesse ricevuto i suoi dommi -- "ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv" -- come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) avea rifiutato il titolo di *sapiente*, perché la sapienza vera, che è quella assoluta, a Dio solo appartiene. Il Meiners erra incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicassero quei precetti alla vita e dai buoni effetti ne argo mentassero il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che potesse venire da questo severo tirocinio, moltissimo dovea conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix &uu.bia ) per du, tre o cinque anni era proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero, e la baldanza delle voci spesso argomenta impotenza all'operazione. Non diffusa nell'esterno discorso l'anima, nata all'attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera il verbo suo proprio col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richie dono non di rado questa difficile virtù del tacere, fedelissima compagna della prudenza e del senno pratico. Perseveravano gli alunni nelle loro prove fino al termine stabilito? E allora passavano alla classe superiore e divenivano de' genuini discepoli, o familiari (pvýccol óuenetai). Facevano mala prova, o sentivansi impotenti a continuarla? Ed erano rigettati o potevano andarsene, riprendendosi i loro beni. Durava l'esperimento quanto fosse bisogno alle diverse nature dei candidati: ed agli usciti od espulsi ponevasi il monumento siccome a uomini morti. Che questo monumento fosse posto, non lo nega neppure il Meiners. All'abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon governo dell'istituto, bisognava formare i discepoli; ma qui ancora il mito dà nel soverchio. L'impero dell'autorità doveva essere religioso e grande. Ma i degni di rimanere, e che passavano alla classe superiore, cominciavano e seguitavano una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d'esame. Alzata la misteriosa cortina, i discepoli, condizionati a non più giurare sulla parola del maestro, potevano francamente ragionare rispondendo, proponendo, impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. Le scienze matematiche apparecchiavano ed elevavano le menti alle più alte idee del mondo intelligibile. Interpretavasi la natura, speculavasi intorno ai necessari attributi dell'ente; trovavasi nelle ragioni del numero l'essenza delle cose cosmiche. E chi giungeva all'ardua cima della contemplazione filosofica otteneva il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto e di venerabile (TÉNELOS xal OsBaotixÒS), ovvero chiamavasi per eccellenza uomo. Compiuti gli studi, ciascuno secondava al suo genio coltivando quel genere di dottrine, o esercitando quell'ufficio, che meglio fosse inclinato: i più alti intelletti alle teorie scientifiche; gli altri, a governar le città e a dar leggi ai popoli. Delle classi de' pitagorici sarà detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc.; intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere: e quanto ai gradi dell' in segnamento, notisi una certa confusione d'idee neoplatoniche con gli antichi ordini pitagorici, probabilmente più semplici. Vedi Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII, etc.). Vivevasi a social vita, e la casa eletta al cenobio di cevasi uditorio comune (õp axóïov). Prima che sorgesse il sole ogni pitagorico doveva esser desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero le cose fatte, parlate, osservate, omesse nel giorno o ne' due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l'una all'altra si succedettero. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adoravano e salutavano la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li disponesse a conformarsi al concento della vita cosmica, e fosse eccitamento all'operazione. Passeggiavano soletti a divisar bene nella mente le cose da fare: poi applicavano alle dottrine e teneano i loro congressi nei templi. I maestri insegnavano, gli alunni imparavano, tutti pigliavano argomenti a divenir migliori. E coltivato lo spirito, esercitavano il corpo: al corso, alla lotta, ad altri ludi ginna stici. Dopo i quali esercizi, con pane, miele ed acqua si ristoravano: e preso il parco e salubre cibo, davano opera ai civili negozi. Verso il mancar del giorno, non più solin ghi come sul mattino, ma a due, ovvero a tre, davansi compagnevol passeggio ragionando insieme delle cose im parate e fatte. Indi si recavano al bagno. Cosi veniva l'ora del comun pasto, al quale sedevano non più di dieci per mensa. Con libazioni e sacrificii lo aprivano: lo imbandivano di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosa mente lo chiudevano con altre libazioni e con lezioni op portune. E prima di coricarsi cantavano al cadente sole, e l'anima già occupata e vagante fra molteplici cure e diversi oggetti, ricomponevano con gli accordi musicali alla beata unità della sua vita interiore. Il più anziano rammentava agli altri i generali precetti e le regole ferme dell'Instituto; e quell'eletto sodalizio, rendutosi all'intimo senso dell'acqui stata perfezione, riandava col pensiero le ore vivute, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormentava. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all'Uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα. xos? ov diVÍTTETA!: et eam, quae nunc vocatur ecclesia, significat id quod apud ipsum (Pythagoram) est 'Ouaxoslov (Str., 1. 15). Questi erano gli ordini, questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Tutte le facoltà dell'uomo vi erano educate ed abituate ad operare nobili effetti: la salute del corpo conduceva o serviva a quella dello spirito: e lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella feconda disposizione delle sue potenze, concordavasi di atti e di letizia col mondo, e trovava in Dio il principio eterno d'ogni armonia e con tentezza. Così il pitagorico era modello a coloro che lo ri guardassero: il quale anche con la sua veste di lino bianco mostravasi diviso dalla volgare schiera e singolare dagli altri. La breve narrazione delle cose che fin qui fu fatta, era necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa, e quindi una sua propria nota ed an che sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio, onde la verità possa essere separata dalle favole quanto lo comportino l'antichità e la qualità degli oggetti, che son materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano possa parere in alcune sue parti, pur dee avere una certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alle varie opi. nioni che altri ne abbia; e quando le tradizioni rimango no, hanno un fondamento nel vero primitivo dal quale derivano, o nella costituzione morale e nella civiltà del popolo a cui quel vero storicamente appartenga. Che se nella molta diversità delle loro apparenze mostrino certi punti fissi e costanti a che riducasi quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscon trasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora, vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee principali: 1a in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione degli uomini per singolarissima partecipazione alla virtù divina; 2a in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel nome di que st'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla società pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalle quali conclusioni ultimamente risulta, Pitagora essere o poter essere stato un personaggio vero, ed essere cer tissimamente un'idea storica e scientifica. L'Italia poi  senz'ombra pure di dubbio, è il paese dove quest' idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e fortune, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del mito, e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembrano essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora sia insieme un personaggio e un'idea. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno, che, non lasciandosi andare 1 agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un uomo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla patria, alla nascita, ai viaggi, alla sapienza, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un uomo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per' rispetto all'idea. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione della persona vera fosse assolutamente richiesta alla spiegazione del mito, e alla ricupera della storia, sarebbe timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale: potendosi conservare Pi tagora alla storia, e separar questa dalle favole, pecche rebbe di scetticismo vano chi non sapesse contenersi den tro questi termini razionali. Vediamo ora se a queste nostre deduzioni logiche aggiungessero forza istorica le au torità positive di autori rispettabili, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge le orgie e le instituzioni pitagoriche, con quelle orfiche, dionisiache, egizie e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al fi gliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alle cose greche ed alle barbariche (Erodoto, II, 81.; IV, 95. — Isocrate reca a Pitagora la prima intro duzione nella Grecia della filosofia degli Egiziani: φιλοσοφίας (εκείνων ) TTPŪTOS ES tous "Ezanvas éxóulge (in Busir., 11 ). E Cicerone lo fa viaggiare non pure nell'Egitto ma e nella Persia. De Finibus, V. 29). Ed Eraclito, allegato da Laer zio, parla di lui come di uomo diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente le umane cognizioni e a farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina (Laerzio, VIII, 5. -- la cui allegazione delle parole di Eraclito è con fermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (xaxoteXvinv) la molteplice erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, tutte le verità sono nella mente, la quale dee saper trovare la scienza dentro di sè, e bastare a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e op portuna testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d'una filosofia che quasi possa dirsi cosmopolitica. Vir erat inter eos quidam praestantia doctus Plurima, mentis opes amplas sub pectore servans, Cunctaque vestigans sapientum docta reperta. Nam quotiens animi vires intenderat omnes Perspexit facile is cunctarum singula rerum Usque decem vel viginti ad mortalia secla. Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30. A dar fondamento istorico all' altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo; il quale scrisse che Pitagora fu con questo nome appellato perchè nel dire la verilà non fosse inferiore ad Apollo Pitio. Diog. Laerzio, VIII, 21. E noi qui alle ghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepo stera del valore etimologico del nome con quello scientifico dell'uomo, ma per mostrare che prima degli Alessandrini il nome di Pitagora era anche nell'uso dei filosofi quello di un essere umano e di una più che umana virtù, e che nella sua straordinaria partecipazione alla divinità fonda vasi l'opinione intorno alla di lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma Aristippo, testimoniando che i Crotoniati lo appellavano Apollo iperboreo. Lascio Diodoro Siculo (Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri scrittori meno antichi, i quali peraltro ripetevano una tradizione primitiva, o molto antica. Ma ciò non basta. Uno scrittore, innanzi alla cui autorità volentieri s'inchinano i moderni critici, ci fa sapere che principalissimo fra gli arcani della setta pitagorica era que sto: tre essere le forme o specie della vita razionale, Dio, ľ uomo e Pitagora. Giamblico nella Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας) quod huiusmodi divisio αυiris illis inter praecipua urcana (èv toiS TAVT atroppñtois) servata sit: animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice animalium, ma animantis, Súov; che è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella traduzione latina sono obiettiva mente divise, nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune prin cipio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole, né la ragione del l'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1.) A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit., 19) ci lasciò scritto, che fra le cose pitagoriche conosciute da tutti ("γνώριμα παρά πάσιν") era anche questa: και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv, vale a dire, che tutte le nature animate debbonsi repu tare omogenee. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele, è principalmente Pitagora; la natura media tra quella puramente umana e quella divina: idea demonica, probabilmente congiunta con dottrine orientali, e fondamento organico dell'instituto. Poi, l'uno parla di esseri semplicemente animati: l'altro dell'ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza poteva essere divulgatissima, come quella che risguardava oggetti sensati; e la seconda appartenere alla dottrina segre. ta, per ciò che risguardava agli oggetti intellettuali. Non ch'ella non po tesse esser nota nella forma, in che la leggiamo in Giamblico; ma coloro che non sapevano che si fosse veramente Pitagora, non penetravano ap pieno nel concetto riposto dei Pitagorici. Qui si vede come il simbolo facesse velo alle idee, e con qual proporzione quelle esoteriche fossero tenute occulte, e comunicate quelle essoteriche, quasi a suscitar desiderio delle altre. Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele; ed Aristotele ci è storico testimonio che le ombre dell'arcano pitagorico si stendevano anche alla filosofica dottrina. Di ciò si ricordi il lettore alla pagina 402 e seg. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita, e Pitagora essere il segno di quella che media tra la condizione puramente divina e l'umana. Ond' egli è nesso fra l'una e l'altra, e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che la nostra natura possa esser capace. Ora la filosofia anche nelle orgie pitagoriche era una dottrina ed un'arte di purgazione e di perfezionamento, sicchè l'uo mo ritrovasse dentro di sé il dio primitivo e l'avverasse nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente sco priamo l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società religiosa e filosofica, e coordinata col magistero che nel di lui nome vi fosse esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata con quella dell'instituto, e possiamo far distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo, e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore, e mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de' Pitagorici: l'uomo esser bi pede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser simile ai Numi, e l'uomo per eccellenza, o quell'istes so che dice la verità: ei suoi detti esser voci di Dio che da tutte parti risuonano: e lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della natura sempiterna. Parlare di questa Tetratti misteriosa sarebbe troppo lungo discorso. Alcuni videro in essa il tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio; altri, a grado loro, altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico (Vita di Pit.. XXVIII, XXIX) e da Porfirio (id., 20) ai quali riguardavamo toccando della Tetratti, e che sono la formola del giuramento pitagorico: Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν. Non per eum, qui animae nostrae tradidit Tetractym, Fontem perennis naturae radicemque habentem. (Porph., V. P., 20) Il Moshemio sull'autorità di Giamblico (in Theol. Arith. ) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell'anima. Poco felicemente ! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, $ 20, p. 581. ) Noi dovevamo governarci con al. tre norme -- E altre sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora - uomo, ma a Pitagora, idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell'idea primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito, e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia tro vato e determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato, è sempre uomo ed idea: un pe lasgo - tirreno, che dotato di un animo e di un ingegno al tissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini, capace di straordinarj divisamenti, e co stante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi, fa cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo, che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume ideale, si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi, non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio, che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni. Si va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto, l'idea divina, im personata in Pitagora, era organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa forma attestano una verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti, che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta, e il principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa naturalissima a intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all ' indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi scansi i suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono di lui raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi, nume e legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù, Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo - tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti, incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima; conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici, e della medicina pitagorica; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma primitiva: e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con legittimo criterio, a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo la parti. zione che ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo, città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che i moderni critici più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora, senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie, le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven., I, pag. 53; Niebuhr, Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente introdusse fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal), congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V. P., VII, XXX; Porfirio, id., 21, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta, come fu osservato dall' Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all ' incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv. fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li curgo dubita assai il Grote, History, ec., tomo II, p. 530 e segg. -- del comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII; Valerio Massimo, I, 7; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la civiltà cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX, 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min. ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città: tutta la vita, una disciplina; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica: e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre domina l'aristocrazia, ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i banchetti: e la donna (cosa notabilissima), non casereccia schiava, ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo medesimo Apollo. Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica. Che diremo delle instituzioni jeratiche? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro, ma non richiesto al nostro bisogno. Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri, il teologo per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni. Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea, fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la concordia loro: ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica, che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia, e Platone ce lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi. Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis illustran. dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph.,  Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse, la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica, e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica. Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile, le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V. P.. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas... venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII, 16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica -- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses. Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1. Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito, disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva, dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria. Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal., vol. III, pag. 26. E anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica, e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici, scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane, e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose, ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi, i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana, ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela, dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec. potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento, col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in questi cenni istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima: e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell. Gall., VI, 5; Diodoro Siculo, VIII, 29; Valerio Massimo, II, 10; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi: Hi terrae, mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum, ac quid Dii velint, scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt, in vulgus effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque ulteram ad Manes, III, 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita. Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato, nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit. Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la teoria dei numeri e della musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1, pag. 296. Ma il grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente, che di tutte le parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia; ma anche generalmente alle terre greche e italiane, e congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana; che era l ' idea scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza.  Questa è la con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c. V. 33. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che, achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute, repubbliche in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni pronti, e volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età, e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione: con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono ! Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect., XX; Tuscul., 1, 30), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm. XCIX. – Dicearco, ap. Giamblico, V. P., XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo (Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere: ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri unum (Str.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè perfezione dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà, al cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo; ma deve anche storicamente accettare questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise in guerra le sue idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo, venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello almeno italo-greco, era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma essendo composta di elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe dovuto esercitare, con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice, e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune. Im perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino dell'amore, onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini, e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari. Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora, racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si professava no, e la speculazione era libera, tutte queste dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia, nella fisica, nella psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si potrebbe se non a frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud Delphos.  Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono: e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale, non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche, ma che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose; e il libero arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e coordinazione, e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si determina, e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella geometrica, e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa, questa eterna ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella morale, nella politica, in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai profani, e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati. Questo io credo essere il sostanziale e necessario valore del principio, nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine, fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero. E perocchè questo emanatismo è vita, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1, 5) sulla filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp., III, 18), se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono (των όντων... οι αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle matematiche, ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa, se non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione, ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna cosa può essere, notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero, che si deduce ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti, si risolve da ultimo in una unità sintetica, che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome che dicesi primamente usato da Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p. 48), che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo, ma per rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee: γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione corporea, e appartiene alla fisica generale dei pitagorici. Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque, inteso a combatterli, non valutò bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di atti intellettuali, che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui, e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle, o raggi di una co mune sostanza eterea, debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela, e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose. Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica, che ordina tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le cose. Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne, non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere. Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so. spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto. Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore l... II, 3. Noi qui osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali, un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita, filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento, una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico, insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis honesta. (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer., VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P., 22 ), suo. navano spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P., XXXII). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis, rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1, 42. La teologia fisica era altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare. Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, (L. 1, c. 1, 4, 12) e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggito ri; XIII, 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose, che sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma, guarda sparsamente le cose, che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema, le avrebbe trovate più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano, quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di discipline, di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello, la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga, quanta è la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi erano in essa, come già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima formatasi organicamente a corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici, ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano, a che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari, quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche, e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto, e necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi motti satirici? da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla: aspettare i tempi opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi forte, che se ne volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali, fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P., 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica, non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur somigliano tanto a vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse. Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni, le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza, quando non si convengono con le leggi della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali. Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici, fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi, e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata religione del segreto, ec., celebravansi di primavera, quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura. I secondi, d'autunno; quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto giorno era il più solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose e ri. petute grida ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa, la notte misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda iniziazione, il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall' intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora. Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società; questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito, la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni, quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav, äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima, fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi, non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima, ma che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare, che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, confermato da Giamblico, V. P., XXXI, 199, da Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il principio fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica, e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners: aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur ' egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza, che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento, nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg.  Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti, che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo, e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno, quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche pelasgica, quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non creda: forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia; corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere, che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea, di qualunque natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del secolo, e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni, nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà, potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo  A superare tutti questi limiti bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali, e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella, disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno; questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi: frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello tirannico stoltamente irruppero a di struggerli.  Pitagora, come Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque (Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti alla durata dell'Instituto pitagorico. Imperocchè, secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet. tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano pensiero. Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina, professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e danzando: chi divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio, e preparavano a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide, Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all' impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus.... scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos. IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII, 20.  Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare, per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio, di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù, mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri: mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo tempio a Pitagora. Dacier non determina l'anno della nascita di Romolo, e pone la fondazione di Roma nel primo anno della VII Olimpiade, 3198 del mondo, 750 avanti G.C. Riferisce la morte di Romolo al primo anno della XVI Olimpiade, 3235 del mondo, 38 di Roma, 713 avanti G. C. Gli editori di Amyot rinchiudono lo spazio di tutta la vita di Romolo dal l'anno 769 all'anno 715 av. G. C., 39 di Roma. I. Intorno al gran nome di Roma, la gloria del quale è già distesa per tutti gli uomini, non s'accordano gli scrittori in asserire chi e per qual cagione dato lo abbia a quella città. " * Fra le varie cagioni, alle quali si attribuisce dagli scrittori l'oscurità della prima storia romana, deve annoverarsi prima l'incendio de' Galli, nel quale fu rono distrutti monumenti d'ogni maniera. Spesso già dopo il Beaufort, e a' di nostri più che mai, s'è disputato, se l'origini di Roma, quali le narrano Livio e Dionigi, sieno verità storica o favola poetica. Quello che può dirsi in generale si è, nè tutto nelle tradizioni da lor raccolte esser favoloso né lutto vero. Cice rone in più luoghi ci attesta che nei conviti era uso cantare le antiche memorie e le antiche imprese. Un carme epico, però, su questo argomento prima di quel d'Ennio non si conosce; e che un solo carme sia stato fonte di tutte le storie di Roma sotto i re non è possibile a credersi. Plutarco stesso ci mostra d'aver avuto alle mani molti e fra lor dissenzienti che scrissero intorno ad esse. Vi banno certo, e ognun se n'avvede, nelle lor narrazioni delle cose poetiche, ma ve d’ha di semplicissime e schiette, come quelle che riguardano l'antica forma di governo, la religione, i sacerdozj; tratle, non possiam dire, se da’ libri dei pontefici, o da' pubblici annali, i quali, al dir di Cicerone, risalivano almeno al tempo de' re. Uoa delle guide scelte da Plutarco è Diocle di Pepareto, autorevole tanto, che Fabio Pittore anch'egli in molti luoghi il prese a guida. Diocle però scrisse non tutta la storia, ma le origini solo, ossia la fondazione di Roma, e non pare sia sceso più in giù di Romolo. Plutarco per alcun poco lo segue solo, indi con allri ch'ei nomina in diversi luoghi. Il primo tra essi è il re Giubba, che avea [ Ma altri dicono che i Pelasgi, dopo di essere andati va gando per la maggior parte del mondo, ed aver soggiogata la maggior parte degli uomini, si misero poi ad abitare ivi, e che dal lor valore nell'armi diedero il nome alla città.? Altri vogliono 3 che essendo presa Troia, alcuni, che sen fuggirono, trovate a caso delle navi, sospinti fossero daʼventi in Etruria ed approdassero alle foci del Tevere, dove, es sendo le donne loro già costernate e perplesse, e mal tolle rar potendo più il mare, una di esse, che chiamavasi Roma, e che di nobiltà e di prudenza sembrava di gran lunga su perar tutte le altre, abbia suggerito alle sue compagne di abbruciare le navi. Ciò fatto, dicono che gli uomini da prima se ne crucciassero: ma poi, essendosi per necessità collocati d'intorno al Pallanzio, e riuscendo loro in breve tempo la cosa meglio assai che non avevano sperato, esperimentata avendo la fertilità del luogo, e bene accolti ritrovandosi dai vicini, oltre gli altri onori che fecero a Roma, denominarono la citlå pure da lei, ch' era stata cagione che si edificasse. E vogliono che fin da quel tempo siasi conservato il costu me che hanno le donne, di baciar nella bocca i loro con sanguinei ed attenenti; poichè anche quelle, quand' ebbero abbruciate le navi, questi baciari e queste amorevolezze usa ron cogli uomini, pregandoli, e cercando di mitigarne la collera. Altri poi affermano, Roma, figliuola d'Italo e di scritta la storia di Roma dalla sua origine, e ch'egli chiama diligentissimo. Non cita Dionigi che una volta e per dissentirne; ma in troppi luoghi, ove bol no mina, s'accorda con lui. Costoro invasero la Tessaglia in tempi antichissimi, ed è certo che almen 1800 anni prima dell'era nostra erano sparsi in tutta la Grecia ed anche in Italia. a Poichè fafen significa valentia o fortezza. 3 Così Eraclide sovrannomato Lembo, contemporaneo di Polibio. 4 Invece d'Etruria e Tevere l'originale ha Tirrenia e Tebro. 5 Strabone racconta d'un caso consimile accaduto intorno a Crotone, presso il fiume Neeto (1. VI ). Ma il fatto che alla fondazione di Roma appartiene, e narrato da Aristotele presso Dionigi d'Alicarnasso (St., l. I ). Sennonchè egli dice che le navi erano greche, e le donne che le abbruciarono, prigioniere troiane. Specie di fortezza sul monte Palatino fabbricata dagli Aborigeni o primi abitanti del paese.? Nondimeno Antioco siracusano, vissuto un secolo prima d’Aristotele, af. ferma che lungo tempo prima della guerra troiana eravi in Italia una città nomi nata Roma.  Leucaria, ' altri la figliuola di Telefo d'Ercole, ad Enea spo sata, ed altri quella di Ascanio, figliuolo di Enea, aver po sto il nome alla città; altri aver la città fondata Romano, figliuolo di Ulisse e di Circe; altri Romo di Ematione, da Diomede lå mandato da Troia; altri quel Romo signor dei Latini, il quale aveva scacciati i Tirreni venuli da Tessaglia in Lidia, da Lidia in Italia. Nè già coloro che con più giu sta ragione sostengono che fu alla città questa denomina zione data da Romolo, concordi sono intorno alla di lui ori gine. Conciossiachè alcuni dicono ch'egli figliuoio fu di Enea e di Dessitea di Forbante, ed ancora bambino fu portato in Italia insieme con Romo fratello suo, e che, periti essendo. gli altri schifi per l'escrescenza del fiume, piegatosi placida mente sulla morbida riva quello, in cui erano i fanciulli, essi, fuor di speranza, restaron salvi, e da essi fu poi la città appellata Roma. Alcuni pretendono che Roma, figliuola di quella Troiana sposata a Latino di Telemaco, partorito abbia Romolo; ed alcuni che ne sia stata madre Emilia, fi gliuola di Enea e di Lavinia, congiuntasi con Marte; " e al cuni finalmente raccontano cose favolosissime intorno alla di lui generazione, dicendo che in casa di Tarchezio re degli Albani, uomo scelleratissimo e crudelissimo, si mostrasse un portento divino. “ Imperciocchè narrano che, sollevandosi un membro genitale dal focolare, continuasse a farsi vedere per molti giorni, e, ch'essendovi in Etruria l'oracolo di Tetidė, fosse da questo recata risposta a Tarchezio, che una vergine si dovesse congiunger con quel fantasma, dalla quale nasce rebbe un figliuolo per virtù chiarissimo, ed insigne per for tuna e per gagliardia. Avendo pertanto Tarchezio dello que sto vaticinio ad una delle sue figliuole, e comandatole di usar Seguendo l'ottima lezione, meglio Leucania. Meglio: la moglie di Ascanio figliuolo d'Enea. 3 Della venuta di questi Lidj in Italia parla Erodolo nel primo. 4 Con più diligenza Dionigi d'Alicarnasso, nel primo delle sue Storie, reca i nomi de' greci e de' romani autori, i quali tennero queste sentenze diverse in. torno all'origine di Roma. E son essi Cefalone, Damaste, Aristotele, Calia, Senagora, Dionisio calcidese, Antioco siracusano, ed altri. 5 Simili apparizioni sono frequentissime nella storia de' secoli oscuri. 6 Forse di Temide, chiamata da' Romani Carmente, a cagione appunto de ' suoi oracoli. D'un oracolo di Telide mai non s'intese parlare.con quel mostro, dicono ch'essa non degnò di cið fare, ma in sua vece mandovvi una fante; che Tarchezio, come seppe la cosa, gravemente crucciatosi, le fece prender ambedue per farle morire; ma che poi egli, avendo in sogno veduta Vesta, 4 che gliene vietò l'uccisione, diede a tessere alle fanciulle imprigionate una certa tela, con questa condizione di dar loro marito, quando avesser finito di tesserla; che quelle però andavano tessendo di giorno, ma che altre per ordine di Tarchezio ne disfacevano il lavoro di notte; che, avendo la fante partoriti due gemelli, Tarchezio li diede ad un certo Terazio, comandandogli di toglier loro la vita; che co stui, avendogli deposti vicino al fiume, una lupa andava poi frequentemente a porger loro le poppe, ed augelli d'ogni sorta, portando minuti cibi, ne imboccayano i bambini, fin tanto che cið veggendo un bifolco, e meravigliandosene, prese ardire di avvicinarsi, e ne levo i fanciulletti; e che finalmente essi, in tal maniera salvati e allevati, attaccarono Tarchezio e lo vinsero. Queste cose sono state scritte da un certo Promatione, che compild la Storia Italiana. Ma il racconto, che merita totalmente credenza e che ha moltissimi testimonj, è quello, le di cui particolarità principali furono la prima volta pubblicate fra'Greci da Dio cle Peparetio, seguito in moltissimi luoghi anche da Fabio Pittore. Vi sono pure su queste varj dispareri; ma, per ispe dir la cosa in poche parole, il racconto è in questa maniera.“ De’re, che nacquero in Alba discendenti da Epea, il regno " Vesta, perchè il portento erasi fallo vedere nel focolare.? Storico sconosciuto. 3 Storico anteriore alla guerra di Annibale, ai tempi della quale visse Fabio Pittore, che scrisse gli Annali di Roma, e, come già si accenno, ed è pur detto qui appresso, in moltissimi luoghi lo prese a guida. Fabio, che segui Diocle in moltissimi luoghi, qui l'abbandona, e Livio dice che Proca lasciò l'impero al primogenito Numitore, aggiugnendo plus ta men vis poluit quam voluntas palris aut reverentia ætatis; pulso fralre, Amulius regnat. Due cose combattono adunque l'opinione da Plutarco adottata, cioè la testimonianza contraria degli altri storici, e il diritto incontrastabile che il primogenito aveva fra gli Albani alla paterna corona. 5 Da Enea fino a Numitore ed Amulio, nello spazio di 353 anni, vi furono tredici re d'Alba. Toltine i quarantadue anni regnati da Amulio, sono 311, seb bene Virgilio ne conti soli 300. Alba era una città del Lazio presso Roma.pervenne per successione a due fratelli, Numitore ed Amulio. Essendosi da Amulio divisa tutta la facoltà loro in due parti, e contrapposto al regno le ricchezze e l'oro trasportato da Troia, Numitore scelse il regno. Avendo Amulio dunque le ricchez ze, e quindi maggior possanza che non aveva Numitore, usurpó facilmente il regno; e, temendo che nascessero figliuoli dalla figliuola di questo, la creò sacerdotessa di Vesta, onde viver dovesse mai sempre senza marito e serbando verginità.3 Al tri chiamano costei Ilia, altri Rea ed altri Silvia. Non molto tempo dopo fu trovata gravida contro la legge alle Vestali costituita; e perch'ella non ne sostenesse l ' estremo suppli zio, Anto, figliuola del re, intercedette per lei, pregando il padre. Fu però chiusa in prigione a condur vita affatto sepa rata da ogni altra persona, acciocch'ella non potesse nascon dere il suo parto ad Amulio. Partori poi due bambini grandi e belli oltre misura; onde, anche per questo vie più intimo ritosi Amulio, comandò ad un servo che li prendesse e get tasseli via. Alcuni dicono che questo servo nominavasi Fau stolo, ed alcuni, che non già costui, ma quegli, che da poi li raccolse, avea questo nome. Posti adunque i bambini in una culla, discese egli al fiume per gettarveli dentro, ma, veggendolo venir giù con gran piena e fiolloso, ebbe timor d'inoltrarsi, e depostili presso la riva, andò via. Quindi, crescendo il fiume, sollevossi dolcemente dall'inondazione la culla, e fu giù portata in un luogo assai molle, il quale ora chiaman Cermano, ma una volta, com'è probabile, chiamavan Germano, poichè chiamavan Germani i fratelli. III. Era quivi poco discosto un fico selvatico, il quale appellavano Ruminale, o dal nome di Romolo, come pensa la maggior parte, o perchè vi stessero all'ombra sul mez * Nomitore scrive sempre Plutarco. • Aveva prima Amulio fatto uccidere insidiosamente il figlio di Numitore per nome Egesto (Dione ). Trent'anni a quelle fanciulle sacre conveniva esser caste e senza marito. 4 Varrone chiama Germalus il luogo, e Cermalus il dice Festo. Da Var rone prese Plutarco ciò che leggiamo in questa vita dell'anno lla fondazione di Roma e della nascita di Romolo, il quale calcolò l'uno e l'altro (anzi calcolo fino il giorno e l'ora in cui Romolo fu concetto ) coll'aiuto di certo Tacozio matema lico greco e suo amico. 5 Tito Livio l'afferma assolutamente. ] zogiorno bestiami che ruminano, o piuttosto per essersi ivi al lattati i fanciulli, perciocchè la poppa dagli antichi fu chia mata ruma, e Rumilia ' chiamano una certa Dea, che si crede abbia cura del nutrimento degl'infanti, alla quale sacrificano senza vino, º facendo libamenti di latte. A'due bambini, che quivi giacevano, scrivon gli storici, che stava a canto una lupa che gli allattava, ed un picchio, che unitamente ad essa era di loro nudritore e custode. Credesi che questi animali sieno sacri a Marte, e i Latini hanno distintamente in grande onore e ve nerazione il picchio; onde a colei, che quei bambini avea parto riti, fu prestata non poca fede mentr’ella affermava d'averli par toriti da Marte: quantunque dicano che ciò ella credesse per inganno fattole, stata essendo violata da Amulio 5 datosele a vedere armato. Sonovi poi di quelli che vogliono che il nome della nutrice, per essere un vocabolo ambiguo, abbia dato motivo alla fama di degenerare in un racconto favoloso. Im perciocchè i Latini ehiamavano lupe non solamente le fiere di tale specie, ma le femmine ancora che si prostituiscono: e vo gliono che di tal carattere fosse la moglie di quel Faustolo, che allevó que’bambini, la qual per altro chiamavasi Acca Larenzia. A costei sacrificano ancora i Romani, e nel mese di aprile il sacerdote di Marte le reca i libamenti, e chiamano quella festa Larenziale. Onorano pur anche un'altra Laren • Lo stesso Plutarco la chiama Dea Rumina nelle sue Quistioni Roma пе. n. 57.? Ciò viene attestato anche da Varrone. Come poi di Ruma erasi fatta la Dea Rumina, cosi di Cuna si era fatta Cunina, divinità che proteggeva i fan ciulli in culla. 13 La conservazione prodigiosa e l'agnizione del fanciullo Romolo ne ram mentano i casi di Ciro fondatore d'un altro impero. E non è questa la sola favola straniera, con cui i Romani tentarono di nobilitare i primordi delle loro istorie. 4 Sono molti gli esempj di donzelle che abusando la credulità di que' primi tempi copersero col velo della religione i loro errori. 5 Coloro che accagionano Amulio di questo fatto, dicono ch’ebbe in ciò intenzione di perdere la vipote, perchè le Vestali pagavano colla morle simili errori. 6 Due feste di questo nome si celebravano a Roma: l'una nell'ultimo d’apri le, l'altra ai 23 di dicembre. Plutarco, nelle sue Quest. Rom., pretende che in aprile si festeggiasse la nutrice di Romolo, e in dicembre la favorita di Ercole, Ma Ovidio afferma invece il contrario, e in ciò vuolsi credere ad uno scrittor romano piuttosto che ad un greco.zia, e, per tal cagione, il custode del tempio di Ercole, es sendo, com'è probabile, scioperato, propose al Nume di giuo care a’dadi con patto di ottenere, se egli vincesse, qualche buon presente dal Nume; e, se per contrario restasse vinto, d'imbandire al Nume stesso una lauta mensa, e di condurre una bella donna a giacere con lui. Dopo ciò, geltati i dadi prima pel Nume, indi per se medesimo, vide egli vinto. Ora volendo mantenere i patti, e pensando cosa ben giusta lo starsene alla convenzione, allesti al Nume una cena, e tolta a prezzo Larenzia, ch'era giovane e bella, ma non per anche pubblica, l'accolse a convilo nel tempio, ove disteso avea il letto: e dopo cena ve la rinserrò, come se il Nume fosse per aversela. Dicesi per verità che il Nume fu insieme colla donna, e che le impose di andarsene sull'alba alla piaz za, e, abbracciando il primo che ella avesse incontrato, sel facesse amico. S'abbattè però in lei un cittadino avanzato in età e di molte ricchezze, che aveva nome Tarruzio il qual era senza figliuoli, siccome quegli, ch'era senza moglie vis suto. Costui usò con Larenzia e le volle bene, e morendo la sciolla erede di molle e belle facoltà, la maggior parte delle quali essa lasciò in testamento al popolo. Raccontasi poi che, essendo ella già molto celebre, e tenuta come persona cara ad un Nume, disparve in quel medesimo luogo, dove quella prima Larenzia seppellita era. Quel luogo si chiama ora Ve labro, perché, traboccando spesse volte il fiume, traghetta vano co' barchetti per quel sito alla piazza; e questa maniera di trasporto chiamano velalura.?. Alcuni vogliono che sia detto cosi, perchè coloro che davano qualche spettacolo, coprir facevano con tele quella strada che porta dalla piazza al cir co, incominciando di là; 3 e la tela distesa a questa foggia nel linguaggio romano si chiama vela. Per queste cagioni è ono rata la seconda Larenzia appo i Romani. * Le frodi del sacerdozio politeistico son descritte estesamente da Daniele pel сар. XIV. Son pur messe più volte in derisione da Aristofane. a Velabrum dicitur a vehendo: velaturam facere etiam nunc dicuntur qui id mercede faciunt. Varrone, De L. Lat. I. IV. 3 Vi era il nome di Velabro molto prima che si pensase a coprir con tele la strada di cui qui si parla, usanza introdotta la prima volta da Quinto Catulo nella dedicazione del Campidoglio. Plin., 1. XIX, c. 1. Faustolo pertanto, il quale era custode de'porci di Amulio, raccolse i bambini, senzachè persona se n'avvedes se: ma per quello che“ più probabilmente ne dicono alcuni, ciò si fece con saputa di Numitore, ' il quale di nascosto som ministrava il nutrimento a coloro che gli allevavano. Nar rasi pure che questi fanciulli, condotti a Gabio, apprendes sero le lettere e tutte l'altre cose che convengonsi alle persone ben nate: e scrivesi che furono chiamati Romolo e Remo 3 dalla poppa, poichè furon veduti poppare la fiera. La nobiltà che scorgevasi nelle fattezze de’loro corpi, fin dall'infanzia diede subito a divedere nella grandezza e nell'aria, qual fosse la di loro indole. Crescendo poscia in età divenivano amendue animosi e virili, ed aveano un coraggio e un ardire affatto intrepido ne' rischi più gravi. Romolo però mostrava d'essere più assennato e di aver discernimento politico nelle conferenze che intorno a’pascoli ed alle cacciagioni ei te neva co’vicini, facendo nascere in altrui una grande estima zione di se, che già manifestavasi nato per comandare, assai più che per ubbidire. Per le quali cose si rendevano essi amabili e cari agli eguali ed agl’inferiori; ma conto alcuno non facevano de' soprantendenti ed inspectori regj, e de'go vernatori de’bestiami, considerandoli come uomini, che punto in virtù non erano più di loro eccellenti; né delle minacce loro curavano, nè del loro sdegno. Frequentavano gli eser cizj e i trattenimenti liberali, non pensando già cosa degna di un uomo libero l'ozio ed il sottrarsi alle fatiche, ma bensi i ginnasj, le cacce, i corsi, lo scacciar gli assassini, l'ucci dere i ladri, il diſendere dalla violenza coloro che ingiuriati vengano. Per queste cose eran essi già decantati in ogni parte. V. Essendo nata una certa controversia fra i pastori di · Egli fondava le sue speranze di ricuperare il trono in questi fanciulli; ciò che diminuisce in gran parte l'interesse di questa favola. * Dionigi d'Alicarnasso dice che i due fanciulli vennero istituiti nelle gre che lettere, nella musica, e nelle belle arti. Furono poi spediti a Gabio, città dei Latini e colonia d’Alba, distante circa dodici miglia da Roma, siccome a luogo di maggior sicurezza. 3 Il greco usa sempre il nome Romo, che ricorda il più antico, e s ' appressa più a quello di Romolo. Amulio e que’di Numitore, e questi conducendo via de’be stiami agli altri rapiti, ciò non comportando i due garzoni, diedero loro delle percosse, li volsero in fuga e li privarono di una gran parte della preda, curando poco l ' indegnazione di Numitore; e ragunavano ed accoglievano molti mendici e molti servi, dando cosi adito a principj di sediziosa arditez za. Ora, essendo Romolo intento ad un certo sacrifizio (im perciocchè egli era dedito a’sacrifizj e versato ne’vaticinj ), i pastori di Numitore, incontratisi con Remo, che se n'an dava accompagnato da pochi, attaccaron battaglia. Riporta tesi percosse e ferite dall' una parte e dall'altra, restarono finalmente vittoriosi quelli di Numitore, e Remo presero vi vo. Quindi fu condotto ed accusato da loro innanzi a Numi tore: ma questi non lo puni per tema del fratello, ch'era uómo severo; al quale però, andatosene egli stesso, chiedeva di ottenere soddisfazione, essendo stato ingiuriato da’servi di lui che regnava, egli che pur gli era fratello; e sdegnando sene insieme anche gli Albani, persuasi che Numitore fosse ingiustamente oltraggiato, Amulio s’indusse a rilasciargli Remo, perchè ad arbitrio suo lo punisse. Avendolo Numitore ottenuto, se ne tornò a casa, e guardando con istupore il gio vanetto per la di lui corporatura, che di grandezza e di ga gliardia superava tutti, e veggendo nel di lui aspetto il co raggio e la franchezza dell'animo, che non lasciavasi vincere, e si mostrava in sensibile nelle presenti sciagure; in oltre sentendo che i fatti e le imprese di lui ben corrispondevano a quanto egli mirava, e soprattutto, com'è probabile, coope- · randogli un qualche Nume, e dando unitamente direzione a principj di cose grandi, egli, locco per ispirazione od a caso da desiderio di sapere la verità, interrogollo chi fosse, e in torno alle condizioni della sua nascita, aggiungendogli fiducia e speranza, con voce mansueta e con amorevoli sguardi e benigni; onde quegli vie più rinfrancatosi prese a dire: « Io » non ti nasconderò cosa alcuna; imperciocchè mi sembri più » re tu, che Amulio; mentre tu ascolti e disamini avanti di » punire, e quegli rilascia al supplicio le persone non ancora » disaminate. Noi credevamo da prima esserefigliuoli di Fau » stolo e di Larenzia, servi del re; e siamo due fratelli nati ROMOLO. » ad un parto; ma da che ci troviamo accusati e calunniati » appresso di te, ed in repentaglio della vita, gran cose dir » sentiamo di noi medesimi, le quali, se sien degne di ſede » sembra che abbia da farne giudizio l'esito del presente pe » ricolo. Il nostro concepimento, per quel che si dice, è un » arcano: il nostro nutrimento poi e la maniera onde fummo » allattati, sono cose stravagantissime ed affatto disconve » nienti a'bambini. Da quegli uccelli e da quelle fiere, alle » quali fummo gittati, siamo noi stati nudriti, da una lupa » col latte, e da un picchio con altri cibi minuti, mentre gia » cevamo in una certa culla presso il gran fiume. Esiste an » cora la culla e si conserva con cinte di rame, dove sono » incisi caratteri che appena più si rilevano, i quali un giorno » forse potrebbono essere aʼnostri genitori contrassegni inu » tili di riconoscimento, quando noi morti fossimo. » Numi tore, udilo questo discorso, e veggendo che bene corrispon deva il tempo all'aspetto del giovane, non iscacciò più da se quella speranza che il lusingava; ma andaya pensando come potesse nascosamente abboccarsi intorno a queste cose colla figliuola, che leneasi ancora strettamente rinchiusa. VI. Faustolo intanto, avendo sentito ch'era preso Re mo e consegnato a Numitore, esortava Romolo ad arrecargli soccorso, e gli diede allora una piena informazione intorno alla loro nascita, della quale per lo addietro favellato non avea che in enigma, e fattone intender loro sol quanto basta va, perchè, badando essi a ciò ch'ei diceva, non pensassero bassamente. Quindi egli, portando la culla, incamminavasi a Numitore, di sollecitudine pieno e di tema, per quella pres sante circostanza. Dando però sospetto alle guardie del re, ch'erano alle porte, ed osservato essendo da loro, e confon dendosi sulle ricerche a lui fatte, non potè far si, che quelle non si accorgessero della culla, che al d'intorno ei cuopria colla clamide. Erayi fra di esse per avventura uno di coloro, che avevano ricevuto i bambini da gittar via, e che furon * Non costumavasi in que' tempi il tener guardie alle porte della città; però Dionisio di Alicarnasso nota, che, temendosi allora in Alba qualche sorpresa, facevansi dal re custodire le porte. presenti quando vennero esposti. Costui, veduta allora la culla, e ravvisatala dalla forma e da' caratteri, s'insospetti di quello ch'era, nè trascurò punto la cosa: ma subito, fattala sapere al re, gli presentò Faustolo perchè fosse esaminato, il quale, essendo costretto in molte e valide maniere a ren der conto dell'affare, nè si tenne affatto saldo e costante, nė affatto si lasciò vincere: e confessò bensi ch'erano salvi i fanciulli, ma disse ch'erano lontani da Alba a pascere ar menti; e che egli portava quella culla ad Ilia, che desiderato avea spesse volte di vederla e di toccarla, per aver più si cura speranza intorno a' suoi figliuoli. Ciò che suole addi venire agli uomini conturbati, e a quelli, che con timore o per collera operano alcuna cosa, addivenne allora ad Amulio: conciossiachè egli mandò sollecitamente un uom dabbene, è di più anche amico di Numitore, con commissione d’inten dere da Numitore medesimo, se gli era pervenuta novella al cuna de'fanciulli, come ancor vivi. ” Andatosi dunque costui e veduto Remo poco men che fra gli amorevoli amplessi, diede ferma sicurezza alla di lui speranza, ed esortò a dar subito mano all' opere, e già egli stesso era con loro e unitamente cooperava. Nè già le circostanze di quell'occasione davano comodità di poter indugiare neppure se avesser voluto: im perciocchè Romolo era omai presso, e non pochi cittadini correvano a lui fuori della città, per odio che portavano ad Amulio, e per timore che ne aveano. Inoltre egli conduceva pur seco una quantità grande di armati distribuiti in centu rie, ad ognuna delle quali precedeva un uomo, che portava legata d' intorno alla cima di un'asta una brancata di erba é di frondi, le quali brancate da’Latini sono dette manipuli; donde avvenne che anche presentemente dura negli eserciti loro il nome di questi manipularj. Ma Remo avendo solle vati già que' di dentro, e Romolo avanzandosi al di fuori, 3 * Plutarco oblia d'aver detto poco avanti, che ad un solo era stato com messo l'esporre i bambini. Dionisio dice a molti. È egli verosimile (chi qualche critico non contento della spiegazion di Plutarco ) che un tiranno si accorto come Amulio dia una tal commissione ad un uomo dabbene é amico di Numitore? Non è almeno più verosimile quel che narra Dionigi, che Amulio cioè spedisse a tutt'altr' uopo a Numitore un messo, e questi mosso da pietà gli scoprisse ciò che sapeva aver Amulio deliberato? ROMOLO. sorpreso il tiranno, che scarso di partiti e confuso, non s'ap pigliava nè ad operazione, nè a cosiglio veruno per sua sal vezza, perdè la vita. La maggior parte delle quali cose, quan tunque asserite e da Fabio e da Diocle Peparetio (che, per quello che appare, fu il primo che scrisse della fondazione di Roma) è tenuta da alcuni in sospetto di favolosa e finta per rappresentazioni drammatiche: ma in ciò non debbon esser punto increduli " coloro, che osservino di quai cose ar tefice sia la fortuna, e che considerino come il Romano Im pero non sarebbe giammai a tal grado di possanza arrivato, se avuto non avesse un qualche principio divino, e da non essere riputato mai troppo grande e incredibile. VII. Morto Amulio, e tranquillate le cose, non vollero i due fratelli nè abitare in Alba, senza aver essi il regno, nè averlo durante la vita dell'avo. A lui però lasciato il go verno, e renduti i convenienti onori alla madre, delibera rono di abitare da se medesimi, edificando una città in quei luoghi, dove da prima furon essi nudriti, essendo questo un motivo decorosissimo del loro dispartirsi;? e, poichè unita erási a loro una quantità grande di servi e di fuggitivi, era pur forse di necessità che o restassero privi intieramente d'ogni potere, sbandandosi questi, o separatamente se n'an dassero ad abitare con essi. Imperciocchè, che quelli che abitavano in Alba, non degnassero di ricevere in loro -com pagnia que’ fuggitivi e di accoglierli quai cittadini, manife stamente si mostra, principalmente da ciò che questi fecero per procacciarsi le donne, prendendo cosi ardita risoluzione per necessità e loro malgrado, mentre non potean far mari taggi in altra maniera, e non già per intenzione di recar onta, poich'eglino onorarono poi sommamente le donne ra pite. In appresso, gettati i primi fondamenti della città, avendo essi instituito a' fuggiaschi un certo sacro luogo di franchigia, chiamato da loro del Nume Asileo,• vi ricevevano * Ma e in ciò e in altro avrebbe Plutarco dovuto mostrarsi un po' meno credulo. Quel dispartirsi inutilmente s'aggiunge dal traduttore. Fu motivo deco rosissimo ad edificar la città la memoria dell'educazione loro in que' luoghi. 3 Non è ben cerlo qual fosse la divinità con tal nome adorata, poichè fra ogni persona, ' senza restituire né il servo a' padroni, né il debitore a' creditori, nè l'omicida a'magistrati, affermando che quel luogo, per oracolo d'Apollo, esser doveva inviola bile e di sicurezza ad ognuno, sicchè in questo modo fu ben tosto la città piena di uomini: imperciocchè dicono che ivi dapprincipio le abitazioni non fossero più di mille. Ma già queste cose addivennero dopo. Vogliendo essi l'animo alla edificazione della città, vennero subitamente in discordia per la scelta del luogo. Romolo aveva fabbricato un luogo, che chiamavasi Roma quadrata per esser quadrangolare, e però volea ridur quello stesso a città: e Remo voleva che si edi ficasse in un certo sito assai forte dell'Aventino, il qual sito per cagion di lui fu chiamato Remonio, e Rignario presente mente si chiama. Quindi commettendo essi d'accordo la de cision della contesa al fausto augurio degli uccelli, e po stisi a sedere separatamente, dicesi che mostraronsi a Remo sei avoltoj, e dodici a Romolo: alcuni però vogliono che Remo gli abbia veramente veduti, ma che Romolo abbia mentito, e compariti non gli sien questi dodici, se non quando a lui venne Remo. Questa è poi la cagione che i Ro mani servonsi ancora negli augurj specialmente degli avoltoj. E scrive Erodoro Pontico, che anche Ercole solea rallegrarsi veggendo un avoltoio, quando mettevasi a qualche impresa, conciossiache quest'uccello è innocentissimo fra tutti gli altri animali, non guastando egli punto né i seminati, né le piante, né i pascoli che sono ad uso degli uomini; ma si nutrisce di corpi' morti soltanto, nè uccide od offende animale alcuno che viva; e si astiene da'volatili anche morti per l'attenenza ch'egli ha con loro, quando le aquile e le civette e gli spar vieri offendono pur vivi ed uccidono quelli della medesima specie; e però, secondo Eschilo, Come fia mondo augel che mangia augello? gli antichi il solo che ne parli è Plutarco: sembra però potersi congetturare che fosse Apollo. · Dionigi d'Alicarnasso dice invece che v'erano ricevuti i soli uomini li beri; ma di ciò può dubitarsi assai ragionevolmente. Fortezza fabbricata da Romolo sul monte Palatino in luogo di un'altra più antica che v'era prima. Plutarco, usando il presente, ne induce a credere che questa a'suoi tempi ancor sussistesse.Di più gli altri ci si volgono, per cosi dire, negli occhi, e continuamente si fanno sentire; ma l'avoltoio veder si lascia di rado, e difficilmente ritrovar ne sappiamo i pulcini: ed ebbero alcuni molivo di stranamente pensare che essi qua discendano da una qualche altra terra fuor della nostra, dal l'essere appunto rari ed insoliti; ' siccome vogliono gl'indo vini che sia ciò che apparisce, non secondo l'ordine della natura e da se, ma per ispedizione divina. Accortosi Remo della frode, n'era molto crucciato; e mentre Romolo sca vava la fossa per alzarvi in giro le mura, egli e derideva il lavoro e ne frastornava i progressi: finalmente, saltandola per dispregio, º restò ivi ucciso o sotto i colpi di Romolo stesso, 3 come dicono alcuni, o, come altri vogliono, sotto quelli di un certo Celere, ch'era un de' compagni di Ro molo. In quella rissa caddero pur morti Faustolo e Plistino suo fratello, il quale raccontano che aiutò Faustolo ad alle var Romolo. Celere intanto passò in Etruria; e i Romani per cagion sua chiamano celeri * le persone pronte e veloci: e Celere chiamarono Quinto Metello, perchè dopo la morte del padre in pochi giorni mise in pronto un combattimento di gla diatori, ammirandone essi la prestezza in far quell'apparato. Dopoché Romolo seppellito ebbe Remo co' suoi balj in Remonia, si diede a fabbricar la città, avendo fatti chiamar dall'Etruria uomini, che con certi sacri riti e ca ratteri gli dichiaravano ed insegnavano ogni cosa, come in una sacra ceremonia. Imperciocchè fu scavata una foss cir colare intorno a quel luogo, che ora si appella Comizio, e riposte vi furono le primizie? di tutte quelle cose, le quali per legge erano usale come buone, e per natura come ne cessarie; e alla fine, portando ognuno una picciola quantità i Nidificano sulle cime scoscese dei monti. L’Alicarnasseo dice che Remo salto il muro e non la fossa. 3 Alcunisostengono che Remo fu ucciso nella mischia contro l'espresso di vieto di Romolo. Vocabolo greco che significa cavallo veloce. Sul monte Aventino. Gli Etruschi erano versatissimi nell'arle degli augurj e nelle cerimonie re ligiose, state loro insegnate, dicevasi, da Targete discepolo di Mercurio. Come presagio che l'abbondanza regnerebbe nella eiltà. di terra dal paese d'ond' era venuto, ve la gittarono dentro e mescolarono insieme ogni cosa? (chiamano questa fossa col nome stesso, col quale chiaman anche l’ Olimpo, cioè mondo): indi al dintorno di questo centro disegnarono la città in guisa di cerchio. Il fondatore, inserito avendo nel l'aratro un vomero di rame ed aggiogati un bue ed una vacca, tira egli stesso, facendoli andar in giro, un solco profondo su'disegnati confini; e in questo mentre coloro che gli vanno dietro, s'adoperano a rivoltar al di dentro le zolle, che solleva l'aratro, non trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Separano pertanto il muro con una linea, chiamata per sincope pomerio, quasi volendo dire: dopo o dietro il muro. Dove poi divisano di far porta, estraendo il vomero e alzando l'aratro, vi lasciano un intervallo non tocco: onde re putano sacro tutto il muro, eccetto le porte; poichè se credes sero sacre anche queste, non potrebbero senza scrupolo nė ricever dentro, nè mandar fuori le cose necessarie e le impure. IX. Già da tutti comunemente si accorda che questa fondazione sia stata ai ventuno d'aprile:: e i Romani festeg giano questo giorno, chiamandolo il natal della patria. Da principio (per quel che se ne dice ) non sacrificavano in tal giorno cosa alcuna animata: ma pensavano che d'uopo fosse conservar pura ed incruenta una festa consecrata alla na scita della lor patria. Nientedimeno anche innanzi la fonda zione essi celebravano nel medesimo giorno una certa festa pastorale, che chiamavan Palilia: ma ora i principj dei mesi romani non hanno punto di certezza nella corrispon denza co’greci. Dicono ciò nulla ostante per cosa indubitata, che quel giorno, in cui gettò Romolo le fondamenta della * Ovidio dice invece dal paese vicino (et de vicino terra pelita solo ), a significare che Roma soggiogando i paesi vicini, diverrebbe all'ultimo padrona di tutto il mondo. » Inutili e imbarazzanti queste parole. Meglio sarebbe: mescolarono le va rie quantità di terra. 3 Il testo dice: l’undecimo giorno delle calende di maggio, secondo l'an lica maniera di numerare i giorni. Del resto, dopo Dionigi d'Alicarnasso, Euse bio e Solino, i moderni cronologi s'accordano a dire che Roma venne fondata 754 anni prima di G. C. * I lavoratori ed i pastori rendevano grazie agli Dei per la figliazione dei quadrupedi (Dion. I. 1. ) città, fu appresso i Greci il trentesimo del mese, e che fuvvi una congiunzione di luna, che ecclissò il sole, la quale cre dono essere stata veduta anche da Antimaco poeta da Teo, accaduta essendo nell'anno terzo della sesta olimpiade.? Ne' tempi di Varrone filosofo, uomo fra tutti i Romani ver salissimo nella storia, eravi Tarruzio? suo compagno, filo sofo anch'egli e matematico, il quale a motivo di specula zione applicavasi pure a quella scienza che spetta alla tavola astronomica, nella quale riputato era eccellente. A costui fu proposto da Varrone l'investigar la nascita di Romolo e de terminarne il giorno e l'ora, facendo intorno ad esso dagli effetti che si dicono cagionati dalle costellazioni, il suo ra ziocinio, siccome dichiarano le risoluzioni de' problemi geo metrici; conciossiache sia ufficio della speculazione medesima tanto il predire la maniera della vita di alcuna persona, da tone il tempo della nascita, quanto l'indagar questo tempo, datane la maniera della vita. Esegui dunque Tarruzio ciò che gli fu ordinato: e avendo considerate le inclinazioni e le opere di quel personaggio, e lo spazio della vita e la qualità della morte, e tutte conferite insieme si fatte cose, tutto pieno di sicurezza e fermamente profferi, che Romolo fu conceputo nella madre il primo anno della seconda olimpia de, nel mese dagli Egizi chiamato Cheac, il giorno vigesimo terzo, nell'ora terza, nella quale il sole restò intieramente ecclissato, e ch'egli poi fu partorito nel mese Thoth, il giorno vigesimo primo, circa il levar del sole, e che da lui gittate furono le fondamenta di Roma il nono giorno del mese Farmuihi, fra la seconda e la terza ora: imperciocchè stimano che anche la fortuna delle città, come quella degli uomini, abbia il suo proprio tempo che la prescriva, il qual si considera dalla prima origine, relativamente alla situa zione delle stelle. Queste e simili cose pertanto più altrar ranno forse i leggitori per la novità e curiosità, di quello che * Delle varie opinioni sull'epoca della edificazione di Roma tratta Dionisio, il quale merita fede sovra gli altri per avere veramente, com' egli afferma, svollo con molto studio i volumi de' Greci e de' Romani. • Era egli pure amico di Cicerone, che parlandone nel II de Divinat. si esprime così: Lucius quidem Tarutius Firmanus, familiaris noster, in primis chaldaicis rationibus eruditus elc.possano riuscir loro moleste per ciò che v'ha in esse di fa voloso, X. Fabbricata la città, prima divise tutta la gioventù in ordini militari: ed ogni ordine era di tremila fanti e di trecento cavalli, ed era chiamato legione dall'essere questi bellicosi trascelti fra tutti gli altri. In altri officj poi distribui il restante della gente, e la moltitudine fu chia mata popolo. Creò consiglieri cento personaggi i più cospi cui e ragguardevoli, chiamandoli patrizj, e senato chiamando la di loro assemblea. Il senato adunque significa veramente un collegio di vecchi. Dicono poi che que' consiglieri ſu rono chiamati patrizj, perchè, come vogliono alcuni, padri erano di figliuoli legittimi, o piuttosto, secondo altri, per ch'eglino stessi mostrar potevano i loro padri, la qual cosa non poteva già farsi da molti di quei primi, che concorsi erano alla città; o, secondo altri ancora, cosi chiamati fu rono dal patrocinio, col qual nome chiamavano e chiamano anche presentemente la protezione e difesa degl' inſeriori, credendo che fra coloro che vennero con Evandro, vi fosse un certo Patrone, il quale prendevasi cura delle persone più bisognose e le soccorreva, e che dal suo proprio abbia egli la sciato il nome a questa maniera di operare. Ma certo si ap porrebbe molto più al verisimile chi si credesse, che Romolo cosi gli abbia appellati, pensando esser cosa ben giusta e conveniente, che i principali e più potenti cura si prendano de’più deboli con sollecitudine ed amorevolezza paterna, ed insieme ammaestrar volendo gli altri a non temere i più grandi, e a non comportarne mal volentieri gli onori, ma anzi a portar loro affezione e a riputarli e chiamarli padri. Imperciocchè fino a' nostri tempi ancora que’ cittadini, che son nel senato, chiamati son principi dagli stranieri, e padri coscritti dagli stessi Romani, usando questo nome di somma dignità e di sommo onore fra quant'altri ve ne ha mai, e lontanissimo dal poter muover invidia. Da principio adunque furono detti solamente padri, ma poi, essendosene aggiunti a quell'ordine molti di più, detti furono padri coscritti: e cosi di questo nome si rispettabile servissi Romolo per di slinguer l'ordine senatorio dal popolare. Separò pure dalla moltitudine de' plebei gli altri uomini, che poderosi erano, chiamando questi patroni, cioè protettori, quelli clienti, cioè persone aderenti; e insieme nascer fece reciprocamente fra loro una mirabile benevolenza, che per produr fosse grandi e scambievoli obbligazioni: perocché gli uni impiegavano se medesimi in favor de' suoi clienti, esponendone i diritti e pa trocinandoli ne' litigj, ed essendo loro consiglieri e procura tori in tuite le cose: gli altri poi coltivavano quei loro patroni, non solamente onorandoli, ma aiutandoli altresi, quando fos sero in povertà, a maritar le figliuole ed a pagare i loro debiti; nė eravi legge o magistrato alcuno, che costringer potesse o i patroni a testimoniar contro i clienti, o i clienti contro i patroni. In progresso poi di tempo, durando tuttavia gli altri obblighi, fu riputata cosa vituperevole e vile, che i magnati ricevessero danari da uomini di più bassa condizione. XI. Ma di queste cose basti quanto abbiam detto. Il quar to mese dopo l'edificazione, come scrive Fabio, fu fatta l'animosa impresa del ratto delle donne. Dicono alcuni che Romolo stesso, essendo per natura bellicoso, ed inoltre per suaso da certi oracoli, esser determinato da’ fati, che Roma, nudrita e cresciuta fra le guerre, divenir dovesse grandis sima, siasi mosso ad usar violenza contro i Sabini, non avendo già egli rapite loro molte fanciulle, ma trenta sole, siccome quegli, cui era d'uopo incontrar piuttosto guerra, che ma ritaggi. Questa però non è cosa probabile: ma il fatto si è, che veggendo la città piena in brevissimo tempo di forestieri, pochi dei quali avean mogli, ed i più, essendo un mescuglio di persone povere ed oscure, venivano spregiati, nè sembra va che dovesse esser ferma la di loro unione, e sperando egli che l'ingiuria, ch'era per fare, fosse poi per dar in certo modo qualche principio di alleanza e di comunicazione coi Sabini, placate che avesser le donne, diede mano all'opera in questa maniera. Primieramente fu sparsa voce da lui, che ritrovato avesse nascosto sotterra un altare di un certo Nume, che chiamavano Conso, o si fosse il Nume del consiglio (poi Sellio scrive con maggior verisimiglianza, essere ciò accaduto nel quarto anno. In fatti, come mai una città, per così dire, nascente, avrebbe fatta im. presa cotanto ardita, che doveva eccitarle contro un si pericoloso nemico? chè i Romani anche presentemente chiamano consiglio il luogo dove si consulta, e consoli quelli che hanno la maggior dignità, quasi dir vogliano consultori ), o si fosse Nettuno equestre: conciossiachè questo altare, ch'è nel Circo Massi mo, in ogni altro tempo tiensi coperto e solamente scuopresi ne' giuochi equestri. Alcuni poi dicono che, dovendo essere il consiglio cosa arcana ed occulta, è ben ragionevole che l'altar sacro a questo Nume tengasi coperto sotterra. Ora, poichè fu scoperto, fece divulgare ch'egli era per farvi uno splendido sacrificio, un giuoco di combattimenti ed un so lenne universale spettacolo. Vi concorse però molta gente: ed egli sedevasi innanzi agli altri, insieme cogli ottimati, in toga purpurea. Il segno, che indicato avrebbe il tempo del l'assalto, si era, quand'egli levatosi ripiegasse la toga, e poi se la gittasse novamente d'intorno. Molti pertanlo armati di spada intenti erano a lui; e subito che fu dato il segno, sguainando le spade e con gridi e con impeto facendosi ad dosso a’ Sabini, ne rapiron le loro figliuole, lasciando andar liberi i Sabini stessi che sen fuggivano. Vogliono alcuni che trenta solamente ne siano state rapite, dalle quali state sieno denominate le tribù; ma Valerio Anziate dice, che furono cinquecento ventisette, e Giubba seicento ottantatrė vergini, la qual cosa era una somma giustificazione per Romolo; con cioşsiachè dal non essere stata presa altra donna maritata, che Ersilia sola, la quale servi poi loro per mediatrice di pace, si vedea ch'essi non erano venuti a quella rapina per far ingiuria o villania, ma con intenzione soltanto di ridurre in un sol corpo le genti, ed unirle insieme con saldissimi vin coli di una necessaria corrispondenza. Alcuni poi narrano che Ersilia si maritò con Ostilio, uomo fra’ Romani sommamente cospicuo, ed altri con Romolo stesso, e ch'egli n'ebbe anche prole, una figliuola chiamata Prima, dall'essere stata appunto la prima per ordine di nascita, ed un figliuolo unico, ch'egli nominò Aollio, ' alludendo alla raunanza de'cittadini sotto di ni, e i posteri lo nominarono Abilio. Ma Zenodoto da Trezene in queste cose ch'egli racconta, ha molti contradditori. XII. Dicesi che fra i rapitori di quelle giovani fossero Quasi volesse dire aggregamento, dal verbo 6027.i6w, che significa raunare. alcuni di bassa condizione, ai quali avvenne di condurne via una, che per beltà e grandezza di persona era molto distinta e che in essi incontratisi poi alcuni altri de' maggiorenti si sforzassero di toglierla loro di mano, ma che quelli che la conducevano, gridassero che la conducevano essi a Talasio, giovane insigne e dabbene; e che però gli altri, sentendo ciò, prorompessero in fauste acclamazioni, in applausi ed in lodi, e taluni ritornando addietro andassero ad accompa gnarla, per la benevolenza e propensione, che avevano verso Talasio, di cui ad alta voce ripetevano il nome; onde venne che da'Romani fino al di d'oggi nelle loro nozze si canta ed invoca Talasio, come da'Greci Imeneo: conciossiaché dicono che Talasio se la passò poi felicemente con quella sua moglie. Ma Seslio Silla il Cartaginese, uomo alle Muse accetto e alle Grazie, diceаmi che Romolo diede questo vocabolo per segno pattuito del rapimento; e che quindi tutti, portando via le fanciulle, gridavan Talasio, e per questo mantengasi nelle nozze una tal costumanza. Moltissimi poi credono, fra ' quali è anche Giubba, che ciò sia un'esortazione ed incitamento ad attendere ed al lavoro ed al lanificio, detto da'Greci talasia, non essendo per anche in allora confusi i vocaboli greci cogl' italiani. Intorno alla qual cosa, quando falsa non sia, ma veramente si servissero allora i Romani del nome di la lasia, come i Greci, potrebbesi addurre qualche altra cagion più probabile. Imperciocchè, quando i Sabini dopo la guerra si pacificarono coi Romani, si pattui circa le donne che non dovesser elleno impiegarsi per gli uomini in nessun altro lavoro, che nel lanificio. Ond'è che durasse poi l'uso ne'ma trimonj che andavansi novamente facendo; che tanto quelli che davano a marito, quanto quelli che accompagnavan le spose ed intervenivano alle nozze, gridassero per ischerzo Tulasio, testificando con ciò, che la moglie non era condotta ad altro lavoro, che al lanificio. Ed ai nostri di costumasi pure di non lasciar che la sposa, passando da se medesima sopra la soglia, vadasi nella casa dov'è condotta, ma ve la portano sollevandola, poichè anche quelle vi furono allora portate per forza, nè v ' entrarono spontaneamente. Aggiungono alcuni, che anche la consuetudine di separar la chioma alla sposa con punta di asta indica essere state fatte le prime nozze con contrasto e bellicosamente, delle quali cose abbiamo diffusa mente ragionato nei Problemi. Fecesi questo ratto il giorno decimo ottavo, all'incirca, del mese detto allora Sestilio, e presentemente Agosto, nel qual giorno celebrano la festa de' Consuali. Erano i Sabini e numerosi e guerrieri, ed abita vano in luoghi senza mura, siccome persone, alle quali con veniva essere di gran coraggio, e privi di ogni timore, essendo essi colonia de' Lacedemonj: ma non pertanto, veggendosi eglino astretti per si grandi ostaggi, e temendo per le loro figliuole, inviarono ambasciadori, che facessero a Romolo mansuete istanze e moderate, esortandolo a restituir loro le fanciulle, e ritrattarsi da quell'atto di violenza, ed a voler poi stringer amicizia e famigliarità fra l'una e l'altra gente col mezzo della persuasione e legittimamente. Mentre Romolo però non rilasciava le fanciulle, e confortava pur i Sabini ad approvar quella società, andavano gli altri procrastinando nel consultare e nell'allestirsi. Ma Acrone, re de'Ceninesi, uomo animoso e pien di valore nelle cose della guerra, guar dando già con sospetto le prime ardite imprese di Romolo, e pensando che dovess’essere a tutti omai di spavento per quello che fu da lui fatto intorno alle donne, e che non si potrebbe più tollerarlo, se non ne venisse punito, si levo pri ma di ogni altro a far guerra, e mosse con un poderoso eser cito contro di Romolo, e Romolo contro di lui. Come giunti furono a vista l'uno dell'altro, rimirandosi scambievolmente, si sfidarono l'un l'altro a combattere, stando fermi intanto su l'armi gli eserciti. Ed avendo Romolo fatto voto, se vin cesse ed uccidesse il nemico, di appendere l'armi a Giove egli stesso, il vince in effetto e l'uccide, e, attaccata la bat taglia, ne mette in fuga l’armata e prende pur la città. Non fece però oltraggio veruno a quelli che vi sorprese; ma li obbligó solo ad atterrare le case ed a seguirlo in Roma, dove stali sarebbero alle medesime condizioni dei cittadini; nè vi fu altra maniera, che più di questa facesse poi crescer Roma, la quale, a misura che andava soggiogando, aggiungeva sempre a se stessa, e divenir faceva del suo corpo medesimo i soggiogati. Romolo intanto, per rendere il voto somma mente gradevole a Giove, e per farne pure un giocondo spet tacolo a'cittadini, veduta nel campo una quercia grande oltre modo, la recise e la ridusse a forma di trofeo, e v'acconcið con ordine e tutte vi sospese l’armi di Acrone. Quindi egli cintasi la veste, e inghirlandatosi lo zazzeruto capo di alloro, e sottentrato colla destra spalla al trofeo tenuto fermo e di ritto, camminava cantando un inno di vittoria, seguendolo tutto l'esercito in arme, ed accogliendolo con gioia ed am mirazione i cittadini. Una tal pompa diede principio e norma ai trionfi che si son falti in appresso. E questo trofeo chia mato fu col nome di voto appeso a Giove Feretrio, dal verbo ferire usato da'Romani: imperciocchè avea egli fatto pre ghiera di ferire e di atterrare quell'uomo: e quelle spoglie chiamate sono opime da Varrone, siccome chiamano essi opem le sostanze: ma sarebbe più probabile il dire che cosi sieno appellate per cagion del fatto eseguitosi; perché appellano opus l'operazione. L'offrire poi e il consacra r queste opime non permettesi che al capitan dell'esercito, quando valoro samente di sua propria mano abbia ucciso il capitan de' ne mici; la qual sorte è occata a tre soli condottieri romani, il primo dei quali ſu Romolo, che uccise Acrone il Ceninese; il secondo Cornelio Cosso, che uocise Tolunnio Etrusco; e dopo questi Claudio Marcello, che uccisé Britomarte re dei Galli. Cosso e Marcello però, portando essi i trofei, entrarono condotti in quadriga; ma Dionisio va errato in dir che Romolo si servisse di cocchio: imperciocchè si racconta che Tarqui nio, figliuolo di Demarato, fu il primo fra i re ad innalzare in questa forma e con tal fasto i trionfi; quantunque altri vogliono che il primo, che trionfasse in cocchio, fosse Pu blicola: e si possono già vedere in Roma le immagini di Romolo, che il rappresentano in alto di portare il trofeo tutte a piedi. " Plutarco s'inganna, poichè anche un semplice soldato poteva guadagnare queste spoglie. Marcus Varro ait, dice Festo, opima spolia esse, etiamsi manipularis miles delraxerit, dummodo duci hostium. E l'esempio stesso di Cosso, recato qui appresso, è a Plutarco patentemente contrario, essendo pro vato che Cosso, quando uccise Tolunnio, era appena tribuno militare, ed Emi. lio il generale. Dopoche furono soggiogati i Ceninesi, stando tuttavia gli altri Sabini occupati in far i preparamenti, quelli di Fidena, di Crustumerio e di Antenna insorsero unitamente contro i Romani; e restando similmente superati in battaglia, furono costretli a lasciar depredare le città loro da Romolo, a tra sportarsi eglino ad abitare in Roma, ed a vedere diviso il loro paese, del quale distribui Romolo a'cittadini tutto il re sto, eccetto quella parte, ch'era posseduta da'padri delle fan ciulle rapite, lasciando che se l'avessero questi' medesimi. Quindi mal sopportando la cosa gli altri Sabini, creato con dottiero Tazio, mossero l'esercito contro Roma; ma era dif ficile l'inoltrarsi alla città a motivo del forte, ch'era in quel luogo, dov'è ora il Campidoglio, ed eravicollocata una guar nigione, di cui era capo Tarpeio, non la vergine Tarpeia, come dicono alcuni, mostrando cosi Romolo di poco senno. Ma fu bensi Tarpeia, figliuola di questo comandante, che in vaghitasi dell'auree smaniglie, di cui vedeva ornati i Sabini, propose di dar loro in mano per tradimento quel luogo, chie dendo in ricompensa di un tal tradimento ciò ch'essi porta vano alle mani sinistre. Il che da Tazio accordatosi, aprendo ella di notte una porta, li accolse dentro. Non fu pertanto Antigono solo (come si può quindi vedere ) che disse di amar que' che tradivano, ma di odiarli dopo che avesser tradito; nè il solo Cesare, che disse pure, sopra Rimitalca Trace, di amare il tradimento e di odiare il traditore: ma questo ė verso gli scellerati un, sentimento comune a tutti quelli che abbisognan dell'opera loro, come bisogno avessero e del veleno e del fiele di alcune fiere: imperciocchè aven done caro l'uso nel mentre che se ne servono, n'abbomi nano poi la malvagità, quando ottenuto abbian l'intento. Avendo questi sentimenti anche Tazio verso Tarpeia, co mando che i Sabini, ricordevoli delle convenzioni, non ne gassero a lei nulla di ciò, ch'aveano alle mani sinistre, e trattasi egli il primo la smaniglia, l'avventò ad essa, e le av ventò pur anche lo scudo, e, facendo tutti lo stesso, ella per cossa dall'oro, e seppellita sotto gli scudi, dalla quantità op pressa e dal peso, se ne mori. Anche Tarpeio, inseguito poscia da Romolo, fu preso e condannato di tradimento, siccome afferma Giubba raccontarsi da Galba Sulpizio. Fra quanti poi fanno menzione di Tarpeia, men degni d'esser creduti sono certamente coloro, i quali scrivono, ch' essendo ella figliuola di Tazio condottier de' Sabini, e presa per forza in consorte da Romolo, operò quelle cose, e n'ebbe quel gastigo dal pa dre; ed è pur Antigono uno di questi. Ma il poeta Simulo farnetica affatto, pensando che Tarpeia abbia dato per tradi mento il Campidoglio a' Galli, e non a'Sabini, innamoratasi del re loro; e ne parla in questa maniera: Tarpeia è quella da vicin che in velta Stava del Campidoglio, e già di Roma Fea le mura crollar: poichè bramando Co' Galli aver letto nuzial, de' suoi Padri sceltrati non guardò gli alberghi. E poco dopo sopra la sua morte: Non però ad essa i Boj, non le cotante Genti de' Galli diedero sepolcro Di là dal Po; ma da le mani, avvezze A infuriar ne le battaglie, l'armi Gittaro contro l'odiosa giovane, E poser sovra lei fregi di morte. Sepolta quivi Tarpeia, quel colle nominato fu Tarpeio dal nome di lei, finchè consecrandosi dal re Tarquinio un tal luogo a Giove, ne furono trasportate le reliquie, e manco ad un tempo il nome di Tarpeia; se non che appellano ancora Tarpeia quella rupe nel Campidoglio, giù dalla quale preci pitavano i malfattori. Occupatasi quella cima da' Sabini, Ro-. molo irritato li provocava a battaglia; e Tazio era pien d'ar dimento, veggendo che, se anche venisse costretto a cedere, era già in pronto pe'suoi una ritirata sicura. Imperciocchè sembrava che il luogo tramezzo, nel quale doveasi venire alle mani, essendo circondato da molti colli, avrebbe ren duto per la cattiva situazione il combattimento ad ambedue le parti aspro e difficile, e che in quello stretto breve sarebbe stato e l'inseguire e il fuggire. Avendo per avventura il fiume non molti giorni prima fatta inondazione, avvenne che ri masta era una melma cieca e profonda ne'siti piani, verso là, doye ora è la piazza; la qual cosa ne si manifestava allo sguardo, nè poteva essere facilmente schivata, affatto peri colosa e ingannevole, verso la quale, portandosi inavveduta mente i Sabini, accadde loro una buona avventura. Concios siachè Curzio, uomo illustre, e tutto pieno di coraggio e di brio, cavalcando veniva innanzi agli altri di molto, ed, en tratogli in quel profondo il cavallo, sforzossi per qualche tempo di cacciarnelo fuori, colle percosse incitandolo e colla voce; ma, come vide che ciò non era possibile, abbandono il cavallo, e salvò se medesimo: e per cagione sua chiamasi ancora quel luogo il Lago Curzio. Allora i Sabini, schivato il pericolo, combatterono validamente; ma quel combatti mento non fu decisivo, quantunque molti restassero uccisi, fra'quali anche Ostilio. Costui dicono che fu marito di Ersi lia, ed avo di quell'Ostilio, che regnò dopo Numa. XV. Attaccatesi poi di bel nuovo in breve tempo mol l' altre battaglie, com'è probabile, fanno principalmente menzione di una, che fu l'ultima, nella quale, essendo Ro molo percosso da un sasso nel capo, e poco men che ucciso, ritiratosi dal resistere a'Sabini, i Romani volsero il tergo, e via cacciati dalle pianure se n'andavano fuggendo al Pal lanzio. Romolo però, riavutosi alquanto dalla percossa, voleva opporsi coll’armi a quelli che sen fuggivano, e, ad alta voce gridando che si fermassero, li confortava a combattere: ma, veggendosi tuttavia la gente al d’intorno data ad una fuga precipitosa, e non essendovi persona che ardisse di rivol gersi contro il nemico, alzando egli le mani al cielo, prego Giove di arrestare l'esercito e di non trascurar le cose dei Romani cadute in desolazione, ma di raddrizzarle. Com'ebbe fatta la preghiera, molti presi furono da vergogna di loro medesimi in riguardo al re, e il timore di quelli che fuggi vano, cangiossi in coraggio. Primieramente durique ferma ronsi dove ora è il tempio di Giove Statore, che potrebbe interpretarsi di Giove che arresta. Poi si unirono a combat tere di bel nuovo, e risospinsero i Sabini fino al luogo, dove ora è la reggia, e fino al tempio di Vesta. Quivi, preparan dosi essi a rinnovar la battaglia, rattenuti furono da uno spettacolo sorprendente e maggiore d'ogni racconto. Concios siachè le figliuole rapite de'Sabini furono vedute portarsi da diverse bande fra l'armi e fra i cadaveri, con alte voci e con urli, come fanatiche, a'loro padri e a'mariti; altre con in braccio i piccioli infanti, altre colla chioma disciolta, e tutte co’più cari e teneri nomi ad invocar facendosi quando i Sa bini e quando i Romani. Si commossero pertanto non meno gli uni che gli altri, e diedero loro luogo in mezzo agli eser citi. Già i loro singulti venivano uditi da tutti, e molta com passione destavasi alla vista e alle parole di esse, e vie più allora che dalle giuste ragioni, ch' esposte aveano liberamen te, passarono in fine alle preghiere e alle suppliche. « Qual » mai cosa, diceano, fu da noi fatta di vostro danno o di vo » stra molestia, per la quale si infelici mali abbiamo noi già » sofferti e ne soffriam tuttavia? Fummo rapite a viva forza, » e contro ogni diritto, da quelli che presentemente ci ten » gono; e, dopo di essere state rapite, trascurate fummo dai » fratelli, da’ genitori e da'parenti per tanto tempo, quanto » è quello ch'essendoci finalmente unite con saldissimi vincoli » a persone che ci erano affatto nemiche, ci fa ora timorose » sopra que' medesimi rapitori e trasgressori delle leggi, i » quali combattono, e ci fa sparger lagrime sopra quei che » periscono. Conciossiaché non siete voi già venuti a vendi » car noi ancor vergini contro chi ingiuriare ci voglia; ma » ora voi strappate da’mariti le mogli e da'figliuoli le madri, » recando a noi misere un soccorso assai più calamitoso di » quella non curanza e di quel tradimento. In tal maniera » amate fummo da questi: in tal maniera compassionate siamo » da voi. Che se poi guerreggiaste per altra cagione, dovre » ste pure in grazia nostra acchetarvi, renduti essendo per » noi suoceri ed avoli, ed avendo contratta già parentela; ma » se già per cagion nostra si fa questa guerra, menateci pure » via insieme co'generi e co'figliuoli, e rendeteci i genitori » e i parenti, nè vogliate rapirci la prole e i mariti, ve ne » preghiamo, acciocchè un'altra volta non divenghiamo noi » prigioniere di guerra. » Avendo Ersilia dette molte di si fatte cose, e mettendo suppliche pur anche l'altre, fecesi tregua, e vennero i capitani ad abboccarsi fra loro. In que sto mentre le donne conduceano i mariti e i figliuoli ai padri e a' fratelli, e da mangiare e da bere arrecavano a chi ne abbisognava, e medicavano i feriti, portandoli a casa, e fa cevan loro vedere com'elleno avevan della casa il governo, come attenti erano ad esse i mariti, e come trattavanle con amorevolezza e con ogni sorta di onore. Quindi fu pattuito che quelle donne che ciò voleano, se ne stessero pure co'loro mariti, da ogni altra servitů libere e da ogni altro lavoro, (siccome si è detto) fuorchè del lanificio: che la città fosse di abitazione comune a'Romani e a' Sabini: ch'essa fosse bensi appellata Roma dal nome di Romolo, ma tutti i Romani Qui riti dalla patria di Tazio, e che regnassero amendue e go. vernasser la milizia unitamente. Il luogo, dove si fecero que ste convenzioni, si chiama sino al di d'oggi Comizio, poiché coire chiamasi da' Romani l'unirsi insieme. Raddoppiatasi la città, furono aggiunti cento patri zj, scelti dal numerº de'Sabini; e le legioni fatte furono di seimila fanti: e di seicento cavalli. Avendo poi divisa la gente in tre tribù, altri furono chiamati della tribů Ramnense da Romolo; altri della Taziense da Tazio; e quelli ch'erano nella terza, chiamati furono della Lucernese per cagion del bosco che fu d'asilo a molti che vi si ricovrarono, i quali furono poi a parte della cittadinanza, chiamando eglino lucos i boschi. Che poi tre appunto fossero quelle divisioni, il nome stesso lo prova, dette essendo anche presentemente tribú e tribuni quelli che ne son capi. Ogni tribù aveva dieci compa gnie, le quali dicono alcuni che aveano il medesimo nome di quelle donne; il che però sembra esser falso, imperciocchè molte denominate sono da’luoghi. Ma molti altri onori bensi furono a queste donne conceduti, fra'quali sono anche que sti: il dar loro la strada, quando camminavano, il non dir nulla di turpe in presenza di alcuna di esse, il non mostrar * Dionigi dice: « ciascun cittadino dovea chiamarsi in particolare Romano, » e tutti insieme Quirili. » Ma la formola Ollus Quiris lætho datus est mostra che anche in privato si chiamavan Quiriti. Intorno all'uso e all'origine di tal nome e a mille altre questioni di romana istoria vedi oggi l'eccellente opera del Niebhur. - Ma una tal denominazione gli fu data molto tempo dopo Romolo. 3 Sono stati qui dotati due errori di Plutarco: a lempo di Romolo la legione non fu mai di 6000 ſanti, nè di 600 cavalli, come potrebbesi agevolmente dimo. strare. , sele ignudo, il non poter essere chiamate ! dinanzi a coloro che soprantendevano a’delitti capitali, e l'esser permesso anche aʼloro figliuoli il portar la pretesta e la bolla, ch'era un ornamento appeso d'intorno al collo, cosi detto dalla figura simile a quelle che si forman nell'acqua. I due re non consultavano già subito unitamente intorno agli affari, ma ognuno di loro consultava prima separatamente co'suoi cen to, e cosi poscia li univano tutti insieme. Abitava Tazio 2 dove ora è il tempio di Moneta, 3 e Romolo presso il luogo, dove sono que' che si chiamano Gradi di bella riviera, e sono là, dove si discende dal Pallanzio al Circo Massimo; e dicevano ch'era in quel sito medesimo il corniolo sacro, favoleggiandosi che Romolo, per far prova di se, gittata avesse dall' Aventino una lancia che aveva il legno di corniolo, la punta della quale si profondo talmente, che non fuvvi alcuno che potesse più svellerla, quantunque molti il tentassero; e quella terra ben acconcia a produr piante, coprendo quel legno, pullular fece e crescere ad una bella e grande altezza un tronco di corniolo. Quelli poi che vennero dopo Romolo, il custodirono e venerarono, come la cosa più sacrosanta che avessero, e lo cinser di muro: e se ad alcuno che vi si ap pressasse, paruto fosse non esser morbido e verde, ma in. tristire, quasi mancassegli il nutrimento, e venir meno, co stui con gran clamore il dicea subitamente a quanti incontrava, e questi non altrimenti che se arrecar soccorso volessero per un qualche incendio, gridavano acqua; e insiemecorrevano da ogni parte, portandone colå vasi ripieni. Ma, nel mentre che Caio Cesare (per quello che se ne dice ) faceva fare scalee, gli artefici, scavando al d’intorno e da presso, ne maltratta rono senz' avvedersene le radici, e la pianta secco. I Sabini accettarono i mesi de'Romani; e quanto fossevi su questo proposito che tornasse bene, l'abbiamo noi scritto nella Vita di Numa. Romolo poi usò gli scudi de’Sabini e mutò l'ar. * Una Sabina accusata di omicidio non poteva esser giudicata dai soliti ma gistrati, ma si unicamente da' commissarj del senato. · Teneva Tazio i monti Capitolino e Quirinale; Romolo il Palatino ed il Celio. Cioè Giunone Moneta. matura sua propria e quella de' Romani, che portavano prima scudi all'argolica. Facevano in comune i loro sacrifizj e le lor feste, non avendone levata alcuna di quelle che proprie erano dell’una o dell'altra nazione, ma anzi avendone aggiunte altre di nuovo, siccome quelle delle Matronali, 4 data alle donne in grazia dell’aver esse disciolta la guerra, e quella delle Carmentali. ” Alcuni pensano che Carmenta sia la Parca destinata a presiedere alla generazione degli uomini, e perciò onorata ella sia dalle madri. Altri dicono ch'ella fu moglie di Evandro d’Arcadia, indovina ed inspirata da Febo, la quale sia stata denominata Carmenta, perchè dava gli oracoli in versi, mentre i versi da loro chiamati vengono carmina; ma il suo vero nome era Nicostrata: e questa è l'opinione più comune. Sonovi nondimeno di quelli che più probabil mente interpretano Carmenta, quasi priva di senno, per mo strarsi fuori di se negli entusiasmi; poich'essi appellano carere l'esser privo, e mentem il senno. Intorno poi alle Palilie si è già favellato di sopra. E in quanto alla festa de'Lupercali, 3 potrebbe parere dal tempo in cui si celebra, che ordinata fosse per cagion di purificazione, perocchè si fa ne' di nefasti del mese di febbraio, il qual mese potrebbesi interpretar purgativo; e quel giorno era chiamato anticamente Febbruato. Il nome poi de'Lupercali significa lo stesso che nell'idioma greco Licei: e quindi appare esser quella solennità molto antica, portata dagli Arcadi, che vennero con Evandro. Ma, comune essendo quel nome tanto al maschio quanto alla fem mina, potrebb’essere che una tale appellazione dedotta fosse dalla lupa; poichè noi veggiamo che i Luperci di lå comin ciano il giro del loro corso, dove si dice che fu Romolo esposto. Difficilmente poi render si può ragion delle cose * In tali feste, che si celebravano il primo giorno d'aprile, le matrone sa grificavano a Marte ed a Giunone, e riceveano doni dai loro amici. * Feste solennissime, cha celebravansi agli 11 ed ai 15 di gennaio a pie del Campidoglio vicino alla porta Carmentale. Carmenta, madre e non moglie di Evandro, come osserva Plutarco stesso nella 56 Quest. Rom., veniva adorata auche sotto il nome di Temi. Celebravasi ai 15 di febbraio in onore del Dio Pane delto Lupercus, per che teneva lontani i lupi. che in quest'occasione si fanno; conciossiache essi scannano delle capre; poi, condottivi due giovanetti di nobile schiatta alcuni toccano loro la fronte con un coltello insanguinato, ed altri ne li forbiscono subitamente con lana bagnata nel latte: ed i giovanetti dopo che forbiti sono, convien che ridano. Tagliate quindi le pelli delle capre in correggie, discorrono ignudi, se non in quanto hanno una cinta intorno a’lombi, dando scorreggiate ad ognuno che incontrino. Le donne adulte non ne schivano già le percosse, credendo che conferiscano ad ingravidare, e a partorire felicemente; ed è proprio di quella festa il sacrificarsi da’Luperci anche un cane. Un certo Buta, che espone nelle sue Elegie le cagioni favolose circa le cose operate da'Romani, dice che avendo quelli, ch'erano con Romolo, superato Amulio, corsero con allegrezza a quel luogo, dove la lupa avea data la poppa a' bambini, e che que sta festa è un'imitazione di quel corso, e che vi corrono i nobili Dando perrosse a chi s'incontra in loro, Come in quel tempo con le spade in mano Fuor d'Alba vi correan Romolo e Remo: e dice che il mettere il coltello insanguinato sulla fronte é un simbolo dell'uccisione e del pericolo d'allora, e che il terger poi col latte si fa in memoria del loro nutricamento. Ma Caio Acilio2 scrive,. che prima della fondazione di Roma si smarrirono i bestiami guardati da Romolo, e che, avendo egli fatte suppliche a Fauno, ne corse in traccia ignudo per non venir molestato dal sudore, e che per questo corrono d'intorno ignudi i Luperci. In quanto al carie, se quel sa crifizio fosse una purificazione, potrebbesi dire che lo sacri ficassero, servendosi di un tal animale come atto ad uso di purificare; imperciocchè anche i Greci nelle purificazioni si servono de'cagnuoli, e sovente usano quelle cerimonie che chiamate sono periscilacismi. Ma se fanno tali cose in gra * Poeta greco che scrisse Delle origini, o Delle cagioni. · Caio Acilio Glabrione, tribuno del popolo nell'anno di Roma 556, avea scritta in lingua greca una storia citata da Cicerone e da Livio, il secondo dei quali afferma, ch'era stata voltata in latino da Claudio. 3 Vedi Plutarco, Quest. Rom., n. zia della lupa e in ricompensa dell'aver essa nodrito e salvato Romolo, non fuor di ragione si sacrifica il cane, perchè egli è nemico dei lupi, quando per verità quest'animale non sia piuttosto punito per esser di molestia a' Luperci nel mentre che vanno scorrendo. Dicesi poi che Romolo fu il primo ad instituire la consacrazione del fuoco,“ avendo egli elette le vergini sacre, appellate Vestali; la qual cosa alcuni riferiscono a Numa. Ma per altro narran gli storici, che Romolo fosse distinta mente dedito al culto degli Dei, e raccontan di più, ch' egli fosse anche indovino, e che per cagion del vaticinare por tasse il lituo, ch'è una verga incurvata, ad uso di disegnarsi gli spazj del cielo da coloro che seggono per osservare gli augurj: ed asseriscono che questa verga, la quale custodi vasi nel Pallanzio, si smarri quando la città presa da’Galli; e che poscia, dopochè i Barbari furon discacciati, trovata fu illesa dal fuoco in mezzo ad una gran quantità di cenere, dove ogni altra cosa perita era e distrutta. Stabili pure al cune leggi, fra le quali ben rigida è quella che non permette alla moglie di poter mai lasciare il marito, ma permette bensi che sia scacciata la moglie in caso di avere avvelenati i figliuoli, o in caso di parto supposto, e di aver commesso adulterio: e se taluno per qualche altro motivo ripudiata l'avesse, ordinava quella legge che parte delle di lui so stanze fosse data alla donna e parte consecrata a Cerere; e che quegli medesimo che ripudiata l'avea, sacrificasse agli Dei sotterranei, Cosa è poi particolare, ch'egli, il qual non avea determinato verun gastigo contro quelli che avessero ucciso il padre, desse il nome di parricidio a qualunque omicidio, ' come fosse questo cosa veramente esecranda, e quello impossibile. E ben per molte età parve ch'egli a ra gione non avesse riconosciuta possibile una tale iniquità, " S'intende in Roma, poichè già in Alba eranvi e questo fuoco sacro e le Vestali, da una delle quali dicesi nato lo stesso Romolo. · Cicerone dice che questa verga fu trovata in un tempietto de' Salii, sul monte Palatino, 3 Plutarco ha qui probabilmente in mira la celebre legge, Si quis homi nem dolo sciens morti ducil, parricida esto; la qual legge però viene da alcuni attribuita a Numa. ed conciossiachè quasi pel corso di seicent'anni non fu com messo in Roma verun delitto si fatto; ma narrasi che dopo la guerra di Annibale, Lucio Ostio fu il primo che ucci desse il padre. Intorno a queste cose però basti quanto si è detto sin qui. L'anno quinto del regno di Tazio, incontratisi alcuni di lui famigliari e parenti negli ambasciadori, che da Laurento venivano a Roma, si sforzarono di rapir violente mente i danari; e, poichè essi resistenza faceano e difesa, gli uccisero, Fatta un'azione cosi temeraria, Romolo era di parere che convenisse punir subito gli oltraggiatori; ma Tazio si andava scansando dall' aderire a ciò, e sorpassava la cosa; e questo fu ad essi il solo motivo di un'aperta dissensione, portati essendosi con bella maniera in tutt' altre cose, affatto operando, per quanto mai è possibile, di comune con senso. Quindi gli attenenti agli uccisi, non potendo per cagion di Tazio in alcun modo ottenere che coloro puniti fossero a norma delle leggi, assalitolo in Lavinio, dov'egli sacrificava insieme con Romolo, gli tolser la vita, e si diedero ad ac compågnar Romolo, siccome uomo giusto, con fauste accla mazioni. Egli, trasportato il corpo di Tazio, onorevolmente lo seppelli nell'Aventino, presso al luogo chiamato Armilu strio: nė punto si curò poi di punire quell' uccisione. Scrivono però alcuni storici, che la città di Laurento intimorita gli consegnò gli uccisori di Tazio, e che Romolo gli lasciò an dare, dicendo che stata era scontata uccisione con uccisione: il che diede qualche ragione di sospettare, ch'egli volentieri si vedesse liberato da chi gli era compagno nel regno. Nulladi meno non insorse quindi sconvolgimento veruno, nè si mos sero punto i Sabini a sedizione: ma altri per la benivoglienza che gli portavano, altri per la tema che aveano del di lui potere, ed altri perché il tenean come un nume, persevera vano con tutto l'affetto ad ossequiarlo. L'ossequiavano pur * Scrive Dionigi d’Alicarnasso che i re di Roma erano obbligati a trasferirsi ogni anno a Lavinio per sagrificare agli Dei della patria; cioè ai Penati di Troia che v'erano rimasti. • Luogo dell'Aventino, dove le milizie andavano a purificarsi nel giorno 19 di ottobre. anche molt'altre genti straniere; e gli antichi Latini, man datigli ambasciadori, fecero amicizia e lega con esso lui. Prese poi Fidena, città vicina a Roma, avendovi, come vogliono alcuni, repentinamente mandata la cavalleria, con ordine di recidere i cardini delle porte, ed essendovi soprag giunto poscia egli stesso all'improvviso: ma altri dicono che furono primi i Fidenati? ad invadere, a depredare e a dan neggiar in molte guise il territorio romano ed i borghi mede simi; e che. Romolo, avendo loro teso un agguato, e uccisi avendone assai, s' impadroni della città. Non volle demolirla però, nè spianarla, ma la rendette colonia de' Romani, man dati avendovi duemila cinquecento abitatori, il terzodecimo giorno di aprile. XX. Insorse quindi una pestilenza, che perir facea gli uomini di morti repentine senza veruna malattia, e rendeva anche sterile la terra, ed infecondi i bestiami. Oltre ciò fu la città bagnata da pioggia di sangue;: cosicchè s'aggiunse a quelle inevitabili sciagure una grande superstizione. Ma, da che le medesime cose avvenivano aạche a que' di Lau rento, già pareva ad ognuno, che, per essere stata violata la giustizia, tanto sopra la morte di Tazio, quanto sopra quella degli ambasciadori, l'ira divina malmenasse l'una e l ' altra città. Dall'una e dall'altra però dati reciprocamente e puniti gli uccisori, si videro manifestamente cessar quei malanni: e Romolo purificò poi la città con que' sacrifizj, i quali dicesi che si celebran anche oggidi alla porta Ferentina. Prima che cessata fosse la pestilenza, vennero i Camerj ad assalire i Romani e fecero scorrerie nel paese di questi, con siderati già come impotenti a difendersi per cagione di quella calamită. Romolo adunque mosse tosto l'esercito contro di loro, e, superalili in battaglia, ne uccise seimila. Presane poi la città, trasporto ad abitare in Roma la metà di quelli * Cosi anche Livio; ma Dionigi d'Alicarnasso incolpali d'aver rubate le vettovaglie che i Romani traevano da Crustomerio. dice soltanto 300; da quel che segue in Plutarco apparisce che questo numero è minore del vero. Queste pioggie di sangue, tanto terribili agli anticbi, compongonsi molto naturalmente da insetti o da esalazioni tinte in rosso; ed anche ne' tempimoderni se n'ebbero esempj. ch'erano restati vivi; e da Roma passar fece un numero di gente, il doppio maggiore, ad abitar in Cameria il giorno primo di agosto, coll'altra metà che vi aveva lasciata. Di cosi fatta maniera gli soprabbondavano i cittadini, sedici anni circa dopo la fondazione di Roma. Fra le altre spoglie trasporto da Cameria anche una quadriga di rame: questa fu appesa da lui al tempio di Vulcano col simulacro di se medesimo, che veniva incoronato dalla Vittoria. Rinfrancalesi in questo modo le cose, i vicini più deboli si sottomisero alla di lui si gnoria, e, trovandosi in sicurezza, se ne stavano paghi e contenti. Ma quelli che aveano possanza, da timore presi ad un tempo e da invidia, non pensavano che convenisse ri maner più neghittosi e trascurati; ma bensi opporsi a' pro gressi di Romolo, e cercar di reprimerlo. I Vei ^ pertanto, i quali possedevano un vasto paese, ed abitavano in una grande città, furono i primi fra ' Toscani ad incominciare la guerra, con pretender Fidena, siccome cosa di loro ragione: il che però non pure era ingiusto, ma ben anche ridicolo; perocchè, non avendo essi dato soccorso veruno a' Fidenati, mentre in pericolo ed oppressi erano dalla guerra, ma aven doli lasciati perire, ne pretendevano poi le abitazioni e 'l terreno, mentr' era già in mano d' altri. Essi adunque aven do riportate da Romolo risposte ingiuriose e sprezzanti, si divisero in due parti: coll’una assalirono l'esercito dei Fide nati, coll'altra se n'andarono contro di Romolo. A Fidena, rimasti superiori, uccisero duemila Romani, ma dall'altro canto superati da Romolo, vi perdettero sopra ottomila dei loro. Combatterono poi di bel nuovo intorno a Fidena: e si confessa da tutti, che la massima parte di quell'impresa fu opera di Romolo stesso, avendo ivi fatto mostra di tutta l'arte, unita all'ardire, e sembrato essendo gagliardo e veloce assai più che all' umana condizion non conviensi. Ciò per altro che vien riferito da alcuni, è del tutto favoloso e interamen te incredibile, che di quattordicimila che morirono in quella battaglia, più della metà ne fosse morta per man di Romodo; + Abitanti di Veio capitale della Toscana. Esagerazione presa per avventura da qualche inno di vittoria. Cosi anche come sembra che per fastosa millanteria dicano anche i Messenj intorno ad Aristomene, che tre volte sacrificatè egli avesse cento vittime per altrettanti Lacedemonj da lui me desimo uccisi. Romolo fuggir lasciando quelli ch'erano re stati vivi, e avean già date le spalle, s' inviava alla di loro città. Ma quelli che v'eran dentro, per una tale calamità, non fecero più resistenza, anzi divenuti supplichevoli stabi lirono concordia ed amicizia per anni cento, rilasciata a Ro molo molta quantità del loro paese, da essi chiamato Sette magio, cioè la settima parte; e cedutegli le saline presso al fiume; ed inoltre datigli in mano per ostaggi cinquanta dei loro oltimati. Anche per la vittoria avuta sopra costoro egli trionfo a' quindici di ottobre, avendo fra molti altri prigioni il capitano stesso de' Vei, uomo vecchio, ma che sembrava che in quelle faccende portato si fosse senza quel senno e quella sperienza che si convenivano all' età sua. Per la qual cosa anche al presente, quando sacrificano per avere otte nuta vittoria, conducono un vecchio colla pretesta per la piazza del Campidoglio, attaccandoli una bolla da fanciullo; e il banditore va gridando: Sardi messi all' incanto;? imper ciocchè dicesi che i Toscani sieno colonia de' Sardi, e la città de' Vei è in Toscana. Questa fu l'ultima guerra fatta da Romolo. In ap presso schivar egli non seppe ciò che a molti, o piuttosto quasi a tutti, suole avvenire, quando dal favore di grandi e straordinarie fortune sieno in possanza ed in sublime stato eleyati. Pieno però di baldanza per le cose da lui operate, e portandosi con più grave fasto, già si toglieva da quella sua affabilità popolare, e la cangiava in un molesto contegno di monarchia, cominciando a recar noia e dispiacere dalla foggia dell'abito col quale si vestiva; conciossiachè egli mettevasi in le donne d'Israele, precedendo a Davide, che ritornava dalla vittoria dei Fili stei, cantavano: Saulle uccise mille, e Davidde diecimila. Settemagio o Seltempagio spiegasi comunemente per Cantone di sette borghi. a Siccome i Sardi non procedono dai Lidii, cosi erra Plutarco nell'assegnar l'origine della costumanza qui parrata; la quale, per testimonio di Sinnio Capi. tone, s'introdusse soltanto dopo che il console Tiberio Gracco ebbe conquistata la Sardegoa. dosso tonaca di porpora, e portava toga pretesta, e teneva ra gione standosi agiatamente a sedere sopra una sedia ripiegata all'indietro. Erangli poi sempre d’intorno que' giovani chia mati Celeri, dalla prestezza che usavano ne' ministerj. Ed avea altri che, quando andava in pubblico, lo precedevano risospingendo con verghe la calca, e portavan cinture di cuoio, onde legar prontamente quelli ch'egli avesse loro or dinato. Perchè poi il legare, che ora da’ Latini dicesi alli gare, anticamente era detto ligare, Liclores sono da essi chiamati coloro che portan le verghe; e queste verghe chia mate son baculi, dal servirsene che facevano allora, come di bastoncelli. Pure è probabile che questi ora nominati Liclores, insertavi la lettera c, fossero nominati prima Lito res, essendo quelli che in greco si direbbero Liturgi: 2 im perciocchè i Greci chiamano ancora añitov il popolo, e lady la plebe. Morto che fu in Alba l'avolo suo Numitore, quan tunque a lui toccasse regnare, ciò nullostante, per far cosa gradevole al popolo, vi pose una maniera di governo libero, e d'anno in anno creava un governatore agli Albani. Ma in questo modo ammaestrò anche quelli, che poderosi erano in Roma, a cercare una repubblica senza re ed arbitra di se medesima, dove scambievolmente governassero e fossero governati. Conciossiachė neppur quelli ch'erano chiamati patrizj, aveano già più parte alcuna negli affari, ma sola mente nome e figura onorifica; i quali, raunandosi in consi glio, piuttosto per costume che per esporvi il loro parere, stavano tacitamente ascoltando ciò ch'egli ordinasse, e se ne partivano poi col non aver alcun altro vantaggio sopra la gente volgare, che d'essere stati essi i primi ad inten dere quello che si era fatto. Ogni altra cosa però era di mi nor importanza, rispetto all'aver egli da per se stesso divisa a' soldati la parte di terra acquistata coll'armi, e restituiti gli ostaggi a' Vei, senzachè que' patrizj il volessero o per * Erano la guardia presa da Romolo per la propria persona. * Cioè ministri pubblici. 3 Nel testo leggesi ai Sabini, e il Dacier non ammette il cambiamento fatto dall'Amyot e seguito dal Pompei. Egli considera qui due atti diversi di Ro. molo; uno che si riferiva agli Albani, l'altro ai Sabini. suasi ne fossero: nel che sembrò ch' ei recasse grande con tumelia al senato, il quale per questo fu poi tenuto in sospetto, e diede luogo alle calunnie, quando poco tempo dopo fu d'improvviso levato Romolo dalla vista degli uomini; la qual cosa segui a' sette del mese ora chiamato luglio, ed allora Quintile, non avendo egli lasciato intorno al suo fine nulla di certo e d'incontrastabile, fnorchè il tempo già detto: imperciocchè anche presentemente si fanno in quel giorno assai cose che ci rappresentano il doloroso avvenimento di allora. Nè apportar ci dee meraviglia quest ' incertezza, quando, morto essendo Scipione Affricano? dopo cena, in casa propria, non v'ha modo onde poter credere o provare qual fosse la maniera della sua morte: 3 ma alcuni dicono che, essendo egli per natura cagionevole, si morisse da per se stesso; altri ch'egli medesimo si avvelenasse; ed altri che i suoi nemici, avendolo assalito di notte, lo soffocassero: eppure Scipione, quando fu morto, giaceva esposto alla vista di tutti, ed il suo corpo, da tutti essendo osservato, potea dar motivo di formar qualche sospetto e conghiettura intorno alla sua morte. Ma, essendo Romolo mancato in un subito, non fu vista più parte alcuna del di lui corpo, nè reliquia del di lui vestimento. Onde alcuni s'immaginavano che i senatori, assalito e trucidato avendolo nel tempio di Vulca no, smembrato n'avessero il corpo, e ripostasene ognuno una parte in seno, portato l'avesser via. Altri pensano che non già nel tempio di Vulcano, nè dove fossero i soli sena tori, foss' egli svanito, ma ch' essendo per avventura fuori in un'assemblea presso la palude chiamata di Capra, o sia di Cavriola, si fecero subitamente meravigliosi e ineffabili sconvolgimenti nell'aria e mutazioni incredibili, oscurandosi il lume del sole, e venendo una notte non già placida e quieta, * Il Calendario romano segna in questo Populifugium, None Caprolineæ, e Festum ancillarum, cose tutte, che possono aver relazione al fatto, come si vedrà in seguito * Cioè Scipione figliuolo di Paolo Emilio adottato da Scipione Affricano. 3 Si sospettò per alcuni che lo avvelenasse la moglie. Non si fece per altro nessuna indagine per conoscerne il vero, onde Valerio Massimo disse: Raptorem spiritus domi invenit, mortis punitorem in foro non reperit. ma con tuoni spaventevoli e con venti impetuosi, che da per tulto menavan tempesta; onde la turba volgare qua e là di spersa fuggi, e i primati si raccolsero insieme. Cessato es sendo poi lo sconvolgimento e ritornata a risplender la luce, e di bel nuovo andatasi a ragunar la moltitudine in quel luogo medesimo, dicono che fu allora cercato e desiderato il re; e che i primati non permisero che se ne facesse più esatta ricerca, nè che venisse presa gran cura; ma che esor tarono tutti ad onorarlo ed averlo in venerazione, come sol levato fra gli Dei, e come, da re buono ch'egli era, fosse per esser loro un Nume benigno. Affermano però che la mol titudine, udendo questo, se n'andava allegra, è lo adorava piena di buone speranze: ma che vi furono pur anche laluni, i quali, aspramente e con mal animo biasimando il fatto, metteano costernazion ne' patrizj, e li calunniavano, come cercassero di dar ad intendere al popolo cose vane e ridicole, quando eglino stessi stati erano gli uccisori del re. Essendo adunque essi cosi costernati, si racconta che Giulio Procolo (uomo fra' patrizj principale per nobiltà, e tenuto in somma estimazione pe' suoi buoni costumi, fido amico e famigliare di Romolo, e già con esso lui venuto da Alba ) andatosi nella piazza, e facendo giuramento sopra quanto v’ha di più sacrosanto, disse alla presenza di tutti, che, camminando egli per via, apparso eragli Romolo, che gli si era fatto incontro in sembianza bella e grande assai più che per lo addietro, adornato d'armi lucide e sfavillanti; e ch'ei però sorpreso ad una tal vista: « O re gli aveva » detto, per qual mai offesa da noi riportata, o per qual tuo » pensamento, hai tu lasciati noi esposti ad ingiuste accuse » e malvagie, e la città tutta orfana, e in preda ad un im » menso dolore? » E che quegli risposto aveagli: « È piaciuto, o » Procolo, agli Dei, che essendo io per cosi lungo tempo rima » sto fra gli uomini, e fondata avendo città di gloria e d'im » pero grandissima, vada novamente ad abitare su in cielo, » donde io era venuto. Tu pertanto sta di buon animo, e » fa sapere a' Romani che colla temperanza e colla fortezza * Per opera, dicevasi, del Dio Marte padre dello stesso Romolo. » arriveranno eglino al sommo dell'umano polere: ed io » sarò il Nume Quirino a voi sempre benevolo. » Queste cose parvero' a' Romani degne di fede, si pe' buoni costumi di chi le narrava, come pel giuramento che fatto egli aveva: ed in oltre cooperava a farle credere un certo affetto divino, simile ad entusiasmo, dal quale si sentivano tocchi: onde non fuvvi alcuno che contraddicesse, ma lasciato ogni so spetto ed ogni calunnia, si diedero a far voti a Quirino e ad invocarlo qual Nume. Un tale racconto ha della somiglianza con ciò che vien favoleggiato dai Greci intorno Aristeo Proconnesio, ' e Cleomede d’Aslipalea. Imperciocchè dicono che Aristeo morto sia in una certa officina da tintore, e che, andati essendo gli amici suoi per dar sepoltura al di lui cor po, fosse svanito; e che alcuni, i quali tornavano da un loro viaggio, dicessero di averlo incontrato che camminava per quella strada che porta a Crotone. Di Cleomede poi dicono, che essendo grande e gagliardo di corpo oltre misura, ma stolido in quanto alle sue maniere e furioso, facesse molte violenze, e che finalmente in una certa scuola di fanciulli, percossa colla mano una colonna che sosteneva la volta, la rompesse nel mezzo, precipitar facendone il tetto. Periti in questo modo i fanciulli, raccontano che, venendo egli inse guito, se ne fuggisse in una grand’arca, e, avendola chiusa, ne tenesse il coperchio cosi fermo al di dentro, che non fu possibile alzarlo, quantunque molti unitamente di far ciò si sforzassero; e che, spezzata poscia quell' arca, non ve lo ritrovassero nè vivo, nè morto; onde stupefatti mandassero a consultar l'oracolo a Dello, e risposto fosse dalla Pitia: L'ullimo degli eroi è Cleomede D'Astipalea. 4 Dicesi pure esser anche svanito il corpo di Alcmena, mentre portavasi a seppellire, ed essersi in iscambio veduta giacer nel cataletto una pietra. E moll' altre in somma raccontano * Aristeo dell'isola di Proconneso nella Propontide, storico, poeta e grau ciarlatano, visse ai tempi di Creso. » Isola al di sopra di Creta. 3 Nel tempio di Minerva ove Cleomede si riparó. 4 Plutarco cita una sola parte della risposta, la quale cosi Gniva: Onoratelo coi vostri sagrifiaj, perchè più non appartiene ai mortali. d' di tali favole lontane dal verisimile, divinizzando le persone che son di natura mortali, e mettendolé insieme co' Numi. XXIV. E per vero dire il non riconosere nelle virtù sorte alcuna di divinità, ell ' è cosa empia e villana; ma ell'è altresi cosa stolta il voler mescolare la terra col cielo. Sono dunque da lasciarsi queste opinioni, quando, secondo Pin daro, si ha già sicurezza, Ch'è della morte al gran poter soggetto Bensi il corpo ognun, ma resta salvo Lo spirto ancor, d'eternitade immago. Conciossiaché questo solo è quello che abbiam dagli Dei, e che di lassú viene e lassù pur sen ritorna, non già in com pagnia del corpo, ma quando sia più che mai dal corpo al lontanato e diviso, sgombralo della carne, e mondo e puro del tutto. Imperciocchè l'anima, quando è secca ed inaridita, secondo il parere di Eraclito, ” è allora nella sua maggiore eccellenza, volando fuori del corpo, come baleno fuor di una nuvola; dove quella, ch'è mista col corpo e dal corpo cir condata, è come un vapore grave ed oscuro, che difficilmente si accende e s ' inalza. Non si deggion dunque far salire al cielo contro natura i corpi degli uomini dabbene insieme cogli spiriti, ma tener per fermo che le virtù e l'anime per loro natura e per giusto decreto divino sieno sollevate a can giarsi di uomini in eroi, di eroi in Genj, e se perfettamente, come nelle sacre espiazioni, purificate e santificate sieno, schive da quanto v ' ha di mortale e soggetto alle passioni, tener si vuole non per legge di città, ma per verità e secondo una ben conveniente ragione, che cangiate vengano di Genj in Numi, ottenendo cosi un bellissimo e beatissimo fine.? In quanto poi al soprannome di Quirino dato a Romolo, altri vogliono che significhi Marte; altri dicono che cosi fu egli chiamato, perchè anche i cittadini nominati eran Quiriti; ed altri pretendono che ciò sia, perchè gli antichi appellavano Quirinum la punta o l ' asta; e il simulacro di * Eraclito d'Efeso, vissuto poco dopo Pittagora, riguardava il fuoco sic come principio universale delle cose. Esiodo fu il primo che distinse quesle quattro nature, gli uomini, gli eroi, i genj, e gli Dei. Giunone, messo in cima d'una punta, detto era di Giunone Quirilide; e Marte chiamavano l'asta collocata nella reggia: ed onorayan quelli che valorosamente portati si fossero in guerra, col donar loro un'asta: onde affermano essere stato Romolo appellato Quirino, per dinotarlo un certo Nume bel licoso e marziale. Gli fu pertanto edificato un tempio nel colle detto Quirino dal nome di lui. Il giorno, in cui egli svani, si chiama fuga di volgo, e None capraline: perché in quel giorno, discesi dalla città, sacrificano alla palude della Capra. Usciti fuori al sacrifizio pronunciano ad alta voce molti nomi usati nel loro paese, come Marco e Caio, imitando la fuga ed il chiamarsi vicendevolmente di allora con timore ed isconvolgimento. Alcuni però dicono che questa non è già imitazione di fuga, ma bensi di fretta e di sollecitudine, riferendone la ragione ad un altro si fatto motivo. Quando i Galli, che avevano occupata Roma, ne furono scacciati da Camillo, e la città, spossata ed indebolita, mal potea per anche riaversi, mossero l'arme contro di essa molti de' La tini, avendo per lor capitano Livio Postumio. Accampatosi costui poco lontano da Roma, inviò un araldo, il quale dicesse ai Romani che i Latini suscitar volean di bel nuovo la già mancata antica famigliarità e parentela, coll' unire ancora insieme le nazioni per mezzo di maritaggi novelli: e che però, se eglino mandassero loro una quantità nume rosa di fanciulle e di donne senza marito, pace n'avrebbero ed amicizia, siccome da prima per un egual modo l'ebbero pur co’ Sabini. Udite avendo queste cose i Romani, temeano in parte la guerra e in parte consideravano, che il dare a quelli in mano le donne era lo stesso che il porle in ischia vitů. Mentre stavano eglino cosi perplessi, una serva nomi nata Filotide, oppur Tutola, come altri vogliono, li consi gliava di non fare nè l'una cosa nè l'altra, ma di schivare per via di frode tanto l'incontrar guerra, quanto il concedere ostaggi. Era la frode', che Filotide medesima, e con lei altre serve avvenenti e ben adornate, fossero, come persone li bere, mandate a' nemici; e ch'ella alzerebbe di notte tempo una fiaccola, ed allora i Romani far si dovessero addosso a' nemici stessi già sepolti nel sonno, e li trucidassero, Cosi 8* per appunto addivenne, essendosi fidati i Latini. Alzó Filotide la fiaccola da un certo fico salvatico, tenendola al di dietro ben riparata e coperta con tappeti e cortine, acciocchè lo splendore non fosse da' nemici veduto, e chiaro si mostrasse a' Romani, i quali, come il videro, subitamente uscirono fuori affrettandosi, e per una tal fretta chiamandosi spesse volte l'un l'altro nel sortir dalle porte; ed essendosi avven tati allora improvvisamente sopra i nemici, e superati aven doli, celebrano una tal festa in grazia di quella vittoria; ed un tal giorno è chiamato le None capraline, per cagion del fico salvatico, detto da’ Romani caprificus. Fanno poi un convito alle donne fuori della citta all'ombra de' rami di fico; e si portano quivi le serve con ostentazione, raggiran dosi intorno, e facendo giuochi; e poscia reciprocamente si battono e si percuotono con pietre, come allora che diedero soccorso a’ Romani, e combatterono insieme con essi in quel conflitto. Queste cose sono ammesse da pochi storici: ma intorno all'uso di chiamarsi a nome in quel giorno, e intorno all'andare alla palude della Capra, come ad un sa crifizio, sembra conveniente l' appigliarsi piuttosto alla prima ragione, se per verità non fosse accaduto in diversi tempi bensi, ma però nel giorno medesimo, l'uno e l'altro acci dente. Dicesi poi che Romolo fu levato dalla vista degli uo mini di anni cinquantaquattro, avendone avuli trentotto di regno. · Toglie qui Plutarco un anno dalla vita di Romolo, e ne aggiugne uno al suo regno. Secondo Dionisio egli mori d' anni 55, dopo averne regnati 37. Silvestro Centofanti. Keywords: filosofia della storia, platonismo in Italia, Pitagora, Galilei, il Romolo di Plutarco, la prova della relita steriore e la oggettivita della cognizione, storia della filosofia romana, Campanella, Alighieri, il noologico, filosofia della storia, formola logica. Il concetto di nazione italiana, Aosta, vide Ennio.  Refs.: “Grice e Centofanti” – The Swimming-Pool Library. Centofani.

 

Grice e Cerambo: la setta di Lucania -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean.

 

Grice e Cerano: la filosofia sotto il principato di Nerone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher in Rome in the time of Nerone. Cera

 

Grice e Cerdo: l’anima di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) – Filosofo italiano. Only the soul resurrects.

 

Grice e Cerebotani: l’implicatura conversazionale della botanica linguistica –  e il prontuario -- il toscano di Ceretti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lonato). Filosofo. Grice: “Ceere-botani is a genius, and I’m amused of his surname, since a linguistic botanisit he surely was! His ‘prontuario del periodare classico’ charmed everyone, including his ‘paesani’ of Brescia – the little bit on Lago di Garda! There’s a stadium in his name! He also played with Morse, which means he was a Griceian, since he was into the most efficient way of ‘transmit’ information! ‘quod-quod-libet, he called it, what Austin had as Symbolo!” Presentato da Marconi. Linceo. Altre opere: “L’organismo e l’estetica della lingua italiana classica” Inventa il teletopo-metro, l’auto-le-meteoro-metro, il tele-spiralo-grafo, ecc. Il pan-tele-grafo-cerobotani o tele-grafo fac-simile, cioè apparecchio a comunicare immediatamente e per via elettrica il movimento di una penna scrivente o disegnante ad altre comunque distanti.  Emise idee sulla tele-grafia multipla. Fonda il Club elettro-tecnico, coll’intervento della regia Legazione italiana. Inventa il tele-topo-metro, uno strumento che serve misurare la distanza tra due punti. Altre opere: 'La tachimetria senza stadia'. Fa costruire una stazione meteorological. Amico di Marconi. Riesce a trasmettere La Divina Commedia a 600 km di distanza. Nel settore della geodesia, inventa il teletopometro, un apparecchio che serve a misurare le distanze fra due punti che sperimenta sulla marina da guerra. Inventa il nefo-metro, per misurare le nubi. Costruzione di una stazione meteorologica automatizzata nelle montagne del Caucaso. Questa stazione e dotata di strumentazione in grado di comunicare le variazioni atmosferiche direttamente a Roma attraverso segnali a radiofrequenza, ed era alimentata elettricamente con delle batterie che si dovevano ricare ogni due o tre anni.  Il teletopometro serve a misurare la distanza tra un punto mobile ed un punto fisso. Il Santo Padre l’esegue la misura della distanza tra la cupola della basilica di San Pietro e le stanze papali. Il teletopometro fu usato a inizio secolo per eseguire i primi rilievi topografici in Liguria, ed è stato soppiantato poi dal telemetro monostatico.  Inventore di un telegrafo a caratteri, che fu sperimentato con successo tra Roma e Como. Inventa un ricevitore a caratteri senza filo, che rende più docile il Coherer.Inventa una serie di strumenti per le miscurazioni, come il autotelemetereografo e il tele-curvo-grafo. Inoltre, ha anche costruito un pantelegrafo, ed è stato il primo a tentare una trasmissione radio inter-continentale, esperimento che riuscì a Marconi. Il tele-autografo è uno strumento che sirve a trasmettere un segno (disegno o scritto) a distanza. Costruì un teleautografo che, con un penna, permetteva di comandare il moto di una penna ricevente, comandata elettricamente. Grazie al suo apparecchio, riuscì a trasmettere un segno a 600 chilometri di distanza. Il sistema di rilevazione della posizione del pennino, e di comando, è completamente diverso da quello del pantelegrafo Caselli. Nel settore della telefonia, inventa un selettore per una chiamata individuale, per centralini telefonici e telegrafici inseriti in un circuito; il 'Qui-Quo-Libet', oggi chiamato telegrafo stampante. il teletipografo, o telefono scrivente, o telegrafo stampante. Il teletipografo è una macchina da scrivere collegata ad un telegrafo, il quale a sua volta viene collegato ad una ruota, il 'tipo', sul quale sono impresse le lettere dell'abecedario.  In trasmissione, l'operatore scrive sulla macchina da scrivere, e il telegrafo invia una serie di impulsi elettrici che codificano il carattere inviato, come nel codice morse. In ricezione, il telegrafo riceve gli impulsi, e, in base al segno, comanda il 'tipo', con il quale viene stampato su carta il carattere ricevuto. Lo stesso apparecchio è utilizzabile sia in ricezione che in trasmissione, e sfrutta la normale linea telefonica.  Questo strumento permette di trasmettere un carattere alfanumerico ad una velocità di 450 segni al minuto (più di 90 parole, come una normale macchina da scrivere dell'epoca), e quindi tre volte superiore rispetto al codice morse.  Usato per le comunicazioni tra la Segreteria di Stato e gli uffici vaticani.  Inventa un orologio elettrico senza fili, capace di regolare il movimento di altri orologi collegati con la stessa fonte d'energia.  Studia la luce fredda. La lampadina ad incandescenza sfrutta l'energia della corrente elettrica per effetto Joule, mentre la luce fredda è luce generata sfruttando la corrente con dei condensatori, in modo tale da eliminare il calore. Questo tipo di illuminazione ha trovato impiego nelle lampade al neon. Lo stesso principio della luce fredda è anche alla base della tele-visione.  Altre opere: Direttorio e Prontuario della Lingua Italiana. Dizionario biografico degli italiani UN SAGGIO DELL’OPERA. Nervatura del periodare e dire classico italiano (“I () i. ABBOZZI E LINEE I ) I l N DIRETTORIO E PRONTUARIO DELLA LINGUA ITALIANA sI:(1 ) NI ) () (i I, I S(H: I l 'I ()1: I ANTICHI a) V 1, I ' () N A “. 'I' AI;. 'I'I l'. Vl. I; l 'I l'IN EI. I, l E i FROENAIO  ('n i grande mov/r, l'archi: o c', ''a / ) a italiana - (, e mesi da V /i ) i o / /i, le gio. a m. ' - /Xivisione -. 1//a f, ggio in cem, l ’ abi/e, intangibile il valore dimo, fra l ' - l ' 7 de /fo di scrittori gratissimi e figure rºt/or he, le me/a/ore non sono la lingua - Voi: i stile senza la lingua - V)all'integrit. 1 del tessuto la psiche della lingua italiana - Via lingua italiana adopera al risveglio del sopito genio italiano - Prima demolire e poi riedificare - L'una e l'altra cosa dal Direttorio imp, ric a. miun senso da lingua, chi ct // ruga a ſe la c/o cuzione può essere cosa convenzionale e arbitraria -. I mularne un mom/i le//a ne va del /'intrinseco valore e della. ila importanza adunque e valore ancora didattico del DIRETTORIO. Opportunissimo ad ogni pemma e gra - devolissimo il PRONTUARIO l/aniera di  la S (17 ) a 62.  Sono agli sgoccioli della povera vita mia, e sarebbe gran peccato se mancando questo uomo mancasse anche quel po’ di bene che mi sono lavorato per la patria mia adorata.  sicura, un repertorio, l’archivio della sua bella lingua. Se niun’opera dell'uomo può essere mai si conipletº e perfettº che non sia anche suscettibile di modificazione e di ammenda, molto più devesi ciò affermare di un saggio che vorrebbe aver cerche tutte le innumerevoli regioni e più riposte di una lingua, e particolarmente di un saggio siffatto, il cui indirizzo. o dirò meglio il cui voto Sarebbe di somministrare ordinatamente e con la scorta di acconce riflessioni, le devizie, le grazie, e le pieghe tutre dell’italico idioma. Sarebbe quindi temerità, milanteria a dargli nome di opera perfetta e completa. Il modegi i.clo che per: in fronte, cioè, non altro che di semplice ABBOZZO E DI LINEE vuole adunque temperare il malsuone che farebbe dirlo alla scoperta: i) DIRETTORIO E PRONTUARIO. Uscito dall'aringo delle scuole, ove lo spirito comincia sanamente a vedere, e prende triove forme, ed è avido di nuove cose, ed agile e svelto si addestra ad imporare, lui tosto sollecito di lavorarmi mano maro una certa maniera di altre tanti 'dde-Aic, un quante le discipli te nelle quali l’ufficio mio portava che mi erudissi, e delle quali era vago. E così col decorrere degli anni mi vennero riempiti parecchi vade-mrcum, sia delle Sacre Scritture, sia della Morale e della dogmatica, e sia ancora delle cosidette scienze esatte, della storia, di alcune lingue moderne e finalmente di una maniera di scrivere dei nostri classici italiani, che mi º brava non solo diversa dalla comune e vol gare d’oggidi, ma che mi piaceva e mi andava all’animo che nulla più. Andò poi tanto nn, i 'anore, la delizia, la vigoria che veniva il sito spirito dailo strid e ibri di quei gloriosi dei 300 e 500 che mi misi alla dura di farini gia dentro terra, scandagliarne le ragioni ieg he, sapere dell’onde e perchè di questo notevolissimo, sostanzialissirio divario, e presi subito a sviscerarne tutti gli autori che quel l’Accademia slie il più bel fior ne coglie i propone si come maestri di;ingua ed ai quali dà nome di “classici”. II l'ade-Meetini della linea italiana cresceva indi a dismisura, di che man in no che si accumulava il materiale, anche l’aculeo della me, e venivº ogrori più assottigliandosi, ghiotta come n'era, avi da vi più e brenese di elaborarsi sicuri, costanti criteri qual che la m sria e lo stile del saggio classico si fosse, mercè dei quali riconoscer ip os e I i s ! º º ci, sicuº, che giammai in n saggio volgare e moderno. Sgom:onto e in caſi piacciº insieme a ripensare le aspre fatiche Che con diuturnº i reità ho durate per anni ed ºnni, solo di vederla a purtg di ragione e chiarirmi di quel tanto encomiato ma non mai spiegato non so che. Stupendo, meraviglioso i tito quello che il lorno i.ll l I l CAN/ A  r ci lasciarono scritto un Varchi, un Bembo, un Cinonio, un Corticelli, e molti altri. Sottili le disanime di un Bartoli, amplissime le ricerche, gli si udi di un Gherardini, da sim fuor g. gr mi. Ai. le dissertazioni di un Padre Cesari, ma dopo tutto ciò, dello scrivere classico non si è porta e discussa altra cosa che gli accidenti e le apparenze dell’essere, non il suo vero essere vitale, quidditativo, sostanziale. L'essere. ia ma, ura dell’ELEGANZA si rii i ſino tuttavia og cilta, e cgili a loro hº e rºg, vi i ce.re ch: i ganzo è al postutto un non so che. Ma è appunto questo non so che che io voglio a tutt’uomo tor di mezzo, e farla intuire, non che sentire, l'essenza, la quiddità immanente di quello che dicesi: Il ci º N / A.E stimulato dall’ardore di questa idea tenacissima misi mano ad un lavoro arduo e faticoso quanto niun’altro: mettere cioè a riscontro di tutti quegli infiniti luoghi del 300 e 500 che più mi ferirono la medesima cosa detta mºdernar:ente. Riempiti poi che mi vennero per siffatta guisa ben cento e cento fascicoli, e pºstº luindi nenie a tute le più minuti circostanze del differire che fa il linguaggio º di riº: d l 'ic: classico, mettendo di ogni luogo in rilievo quelle voci, tutti quei momenti del logos, quelle curve, quelle pieghe, e quella maniera di costrurre che è sol proprietà di ogni scrittura antica e classica, di º cosa all’opposto niente cc:nsine º una cenna volgare e moderna mi notai da prima di ogni penna classica, e di ogni stile, il mantene e ripetersi inalterato, sia di un medesimo assetto e tornio periodale, sia di certe singolarissime  locuzioni: ci; mi sfuſi i denti qui.iti i s. a più i ngo e la virtù 2 e di 3 ti -, ingr. l Ti s. “I e investigandone ad un tempo, e quanto possibile acutamente, gli intimi rispetti e le più riposte correlazioni logiche, mi vennero a non molto veduti e costantemente confermati tre ordini distinti di quella cosa onde a mio senno di genera l’eleganza: e sono appunto le parti della prima sezione di questo saggio. Cose di indole organica e che più strettamente si rife riscotto al tessuto periodale: inversioni, separazioni, compagini, locuzioni elittiche ecc. Parole e forni e notevoli, e il cui retto uso adopera anche alla l'ila del DISCORSO e all'ossetto costruttivo.Verbi e alcune altre voci generalmente note, ma dal cui retto uso alla elocuzione garbo si deriva e vigoria.  E' in 'b e º ci reggi e 1 in to gº e sº ort che: - 'n - 1 v altri studi, altre sollecitudini me ne impedivano, l’avrei già allora consegnato alle stampe, malgrado l’indole del tempo che abborrisce dal cosidetto purismo. Era naturale che, compenetrato come era di questo purismo, gli scritti che misi poi fuori intorno alle mie elucubrazioni scientifiche º v-vºno essi pire ris mire del 300 e 500. A vedere lo spirito al tutto singolare e diverso onde sono guidate le lettere d’oggidì, basti ricordare come siano mal capitati i miei manoscritti, e come gli inca ricari della stampa, non che loro andassero all’animo, ma neanche puº e re. p v. i), c gion di ssinpio, aveva scritto che quel litogo era oscuro che nulla uscita vi si scorgea» (simile a: selle scura el la dii iita via era smarrita) per la stampa si volle ritoccare e completare: a quel luogo era tanto oscuro che.... ». E dove: i n sºn va che l in', se a condiscºndervi o se rimanerme ne » (simile a: non Sap 'a che farsi. Se su 'i salisse o se si stesse, l3ecc.) iº lo vidi inve::: Inp. 1a così: non sapeva che cosa do vessi farc. Se vi dovessi accondiscendere ecc. ). Dove: « nè questo già ner sancr farmi sl, al viadon sss (tolto di peso dal Bartoli) si sta impò invece: nè questo già perchè egli vi adoperasse sapere darmi o li dove ancora affermava di avere fatto a una cosa a spasso », di « esserini pensato non so che di a arer cessato una mala ventura º, di giºcº l'aiiiino a checchessia » ecc. ecc., oimè, dolente mè! che invece mi freero dir el "vevo ! alla cosa al risseggio » che ci aveva pensato di noti so che, che la mala l’entura era ceS Sgla o che aveva un’arimo grande per ecc.. ! ! l: di questi pretesi titocchi ed ammende Sono Sconciamente straziati e snaturati i miei manoscritti che si pubblicarono cella mediazione di chi non aveva paia o di rivonica, i nº chi classici.E' quindi agevole immaginare lo si to del mio animo (ora che fi palmente mi accingo a pubblicarle queste mie fatiche giovanili) di frºnte all'indirizzo del mondo linguistico d’oggidì. Forse si griderà al retrogrado, al pedante, che vuole imporre cose vecchie e smesse, e rimettere sul mercato masserizie da rigattiere e da cassoni. Ma ad enta di tutto ciò tri pensiero già ſin d’ora mi sorregge e mi conforta, ed è che di questo saggio, quantunque in contrario sia per seguirne, col l’immensa copia di esempi tolti dai saggi mastri, e di ogni forma e di ogni stile, riun critico, per acre e spiacevole, potrà mai impugnarne il lato DlMOSTRATIVO, che cioè il Glamiera di Scrivere degli antichi è gitelia che ti si dimostre, ed è altra dalla comune e volgare dei mestri giorni. E qui lascio la parola a nomi autorevolissimi, e prima a quell’entusiasta che fu del 300 e 500, l’abate Giuberti, il quale pieno di sdegno verso lo scrivere moderno, lo dice, nel suo PRIMATO, senza una pietà al mondo. Pedestre, terragnuolo, ermafrodita, evirato, senza nervo e colore, di mezza temperatura, non si alza dal suolo e striscia per ordinario, allia e svolazza, non vola mai, una fosca meteora, non un astro che scintilla. E più avanti si rifà all'affrontata, e lo chiama scucito, sfibrato, spettinato, sregolato, scompaginato, rugginoso, diluto, cascante, floscio, gretto, goffo, deforme, un bastardume: un intruglio, un centone, un viluppo di brandelli, e ciarpe straniere, uno stile da fare stomaco, spirito francese camuffato alla nostra le ecc. ecc. ), mentre, tutto ammirazione e venerazione verso gli antichi prosegue e scrive: a Paiono talvolta ritrarre gli aculei sentenziosi dei proverbi e le folgori dei profeti. Quanta leggiadria e gentilezza non annidassero nel maschio petto di quegli uomini a cui la schifiltà moderna dà il nome di barbari! In quella era vera coltura Ciò che oggi chiamasi coltura è in molti piuttosto un'attillata barbarie. Anche il laconico ma forbitissimo Gozzi lamenta che l'Italia non sa più come parli e ognuno che scrive fa come vuole, una fiera dove corrono tutte le nazioni e dove tutti i linguaggi si sentono. S’impa racchi a II n a I l m g II a S m 0 I I i C a td e tr 0 Il Cd, S e Il I a a r red 0, S e n 1 a 0 n 0 re, St 0 p er di re S e Il I d l ibertà e dà quindi sulla voce agli scrittorelli senza studio e fatica necessaria ad acquistare un sicuro possedimento di quella lingua in cui si scrive, i quali scrittorelli non avendola per infingardaggine curata mai, atterriscono tutti col dire, che essa è inutile e col farsi beffe di chi vi li a p er d II t 0 d e II tr 0 gli 0 C C h i. Il melodico e terso Salvini deplora esso pure i traviamenti letterari dei suoi tempi, presagisce e nota. Guai alla lingua italiana, quando sarà perduta affatto a quei primi padri la riverenza! Darassi in una babilonia di stili e di favelle orribili, ognuno farà testo nella lingua, inonderanno i solecismi e si farà un gergo e un mescuglio barbarissimo. Chi non sa che il grande Davanzati, è una maestà, un portento in opera di lingua? Ma ecco come alloguisce coloro che già ai suoi tempi facevano a fidanza con lo studio e con l’uso della lingua. Fingete di vederla (la nostra antica favella) dinanzi a voi quì comparire in figura di nobilissima donna, maravigliosamente adornata, con la faccia in sè bella, quanto amorevole, ma ferita sconciamente, e travolta le sue fattezze e tutta laida di fango, e che ella vi dica piangendo e vergognando. Guai a me, che straziata sì m’hanno, come voi, quì mi vedete, quelle mani straniere.  Io vi chieggo mercè. E ora sia lecito anche a me, sotto l’egida e fra le trincee di questi valorosi, di dire brevemente quello che ne sento, ciò è a dire chiarirci di alcune idee, ed anche discorrere l’opportunità ed il valore non solo dimostrativo, ma anche didattico di questo DIRETTORIO. Asserendo che nei dettati alla moderna non vi sento quella leggiadria, quel garbo, quel candore, quel non so che di soprasensibile che regli antichi, non è già mia intenzione di censurarne le alte concezioni e menomarne comechessia il valore e la spigliatezza, e sia nella scelta e convenienza delle metafore e delle immagini, sia nella vivacità e pompa delle descrizioni, e sia in questa o quella cosa, che del resto, i cn è, vi, p v': c velli rs it:li no, ma che può essere comune e sº bene neiie in altre lingue. Se l’essere, il valore di una lingua dimorasse sol nei vocaboli e nelle figure rettoriche, cioè ièci traslati, nelle metafore e nelle immagini, non sarebbe l'idioma, e ne andrebbe del carattere non ch’altro e dell’estetica della lingua in quanto lingua le varie lingue tornerebbero ad una, e renderebbero immagine di III la sola cantilena che sia suonata ora con uno, ora così altro istrumento, differendo l’una dal l’altra solo quanto può differire il suon di una tromba da quello di: 1): l ri: ti:.I e concezioni, il modo di pensare, la disposizione e l’ordine del le idee sono di una persona che ne ha la lingua, non altro che il suo stile, cioè un fatto suo individuale, una maniera di DISCORRERE secondo intende e sente. Come non può essere che un uomo si cessi la sua individualità e ne prenda un’altra, così sarebbe opera disperata chi si affidasse di pigliarsi lo stile d’altri. Ma la cosa che negli ameni dettati degli antichi si impone alla nostra ammirazione e vuol essere oggetto di considerazione e di stu si o, è l'intrinsec. e sei le ferma sostanziale, c S nip e la medesima, di qualsivoglia stile, dalla quale allo spirito più che al senso quella soavità viene cottel diletto che mal si cercherebbe nella materialità delle voci, è la grazia, quel vago ascoso e nudico onde ogni stile torna a quello che dicesi stile elegante: simile alla luce che, mentre senza di essa ogni cosa è spenta e al senso della vista non è solo che un suo raggio apparisca, la natura tutta subitamente risveglia, e alle molteplici individualità del visibile dà vita e vigoria di ghºzzo infinito, la lingua è rispetto allo stile quello che la luce, la forma sostanziale delle cose, rispetto alle individualità. Comr l’origine e l’essere di tutte le infinite individualità della luce, le quali sono perchè sono i sensi, è un solo, oltre la barriera dei sensi e fuori di cifra, fuori della ragion di quantità, fuori delle angustie delle individualità, e come al  -  tresì la sostanza delle cose è costantemente e universalmente una,  inaccessibile ai sensi, e, come che essa pure non sia ai sensi che per le sue individualità, cioè per quello che dicesi materia seconda, specie od accidenti, ell’è tuttavia ben altra cosa che le infinite sue individualità, così l’essenza della vera lingua non può essere che costantemente UNA, un “non so che” di soprasensibile, quantunque ai sensi svariatissima nelle sue individualità, che sono appunto quello che ha nome stile. Si parla di stile più o meno elegante, più o meno piacevole, ma non si pon mente alla ragione intrinseca di quel grato che per lo stile allo spirito si deriva, il quale, non nella materialità dello stile, ma bensì nell’intima vitalità della lingua essenzialmente dimora; simile al vago della bella natura, di cui più che il senso lo spirito nostro si diletta, e che non dal sensibile si genera e dagli accidenti, ma da quel l’occulto che ne è l’essenza vera, il principio di vita. E poichè ci venne dato nei veri della natura, notisi ancora una acutissima considerazione onde la natura stessa ci è maestra, che cioè come cosa qualsiasi non può essere individualità di una forma sostanziale ove ne manchi la sostanza (a cagion d’esempio individualità del l'oro, del legno. ove manchi la sostanza dell’uno e dell’altro, individualità di un essere sia vegetale che animale ove manchi la vita) così non solo non può essere lo stile di una lingua stile elegante, ma addirittura non ci può essere stile veruno ove manchi la lingua.l: ora si capirà anche meglio l’eff to di soc”:inzi.. he cioè la natura, la forma sostanziale di una lingua, e più che di ogni altra della nostra cara lingua italiana, nei cui visceri ogni cosa è vita, delizia, soa vità e pace, è ben altra cosa della materialità dei vocaboli, sia nel proprio che nel traslato, non altrimenti che di un ricamo, di un disegno il cui pregio agli occhi della mente nulla si muta mutandosene la materia. Che monta all’estetica, al valore architettonico, al concento delle linee di un monumento, di un edificio, l’essere costruito più tosto con una che con altra pietra? Siano pur preziose le parti organiche di un essere vivente quanto si vuole, che giova se vi manca la vita? Di Apelle si narra che, invitato da un giovane pittore a dare il suo giudi zio intorno all’effige della bella Elena, esclamasse. Non la hai saputo fare bella, l'hai fatta ricca. Metto pegno che chi discorre queste pagine e non ha colºu' º di lettere altro che moderna, gli nar di tre o mare, di sm morire, e poco si tiene che non mi mandi con Dio e mi dia anche nonne di esaltato e di sofisticone. Non meraviglio. Il medesimo sarebbe di chi è abituato alle cantilene da villanzoni o solo alle canzonette da piazza e da trivio e altri  volesse di punto in bianco ringentilire il suo udito volgare e bastardo, e recarlo per niun’altra via che tessendone gli elogi, a dilettarsi delle grazie vereconde di un Pergolese, delle profondità pottoniche di un Palestrina, di un Orlando di Lasso, dei portenti delle fughe di un Bach, delle poderosità melodiche di un Beethoven, di un Heyden, di un Haendel: od anche di chi non vede più là delle Sorde larve e Sozze di certe oleografie, più i degli imbratti di un pennello pedestre e terragnuolo, ed altri ne deplorasse la decadenza, lamentasse le turpitudini volgari e moderne a petto delle inarrivabili sublimità degli antichi in opera di pittura e di scultura. Ah! siamo sinceri, e confessiamo ch’è oggimai agonizzante la psiche del metafisico e dell’estetico, e non che sopito il senno antico, ma anche il senso del genio e del bello che irradia nelle opere dei nostri padri, è oggi a termini del più miserando languore. Che altro ci rimane adunque se non di por mano a tutti quei mezzi che adoperano, secondo scrivono l'8artoli, Costa, Casati, ed al tri molti, alla riforma, ad una sostanziale elaborazione del pensiero, ridestando e rivocando a vita l’originale candore, il sopito e per poco spento genio italiano è l’elaborato mentale, soggiunge a tal uopo Giuberti, è di sì intimo messo inoculato al linguaggio, che sarebbe violato e guasto il concetto, ove la parola mutasse, o l'ariasse un nonnulla. Nè altri opponga che se la bisogna sta come qui si afferma, e si tratti veramente di guasto vitale e sostanziale più che organico del l’umana intelligenza, vano sia per essere ed inefficace ogni umano conato, e che solo il miracolo di una nuova creazione potrebbe ripararvi. Ma non è così, ed è la cosa appunto che vuolsi ora sanamente ponderare. Non è vero che lo spirito eletto dei nostri padri, la mente italiana sia il tuttº esiint: e lo dimostrano i dettati e le opere più recenti di quei chiari nomi che sulle orme dei gloriosi antichi, e frutto di dittti i rime fºriche, riverberano il genio antico. O l’indole dei tempi, o i periodi delle invenzioni e delle macchine, che fanno del pensiero fantasia, o il grido della ribellione al soprasensibile, onde è incatenata la mente, l’ontologico dilegua, è in onore e si prende lo scettro del magistero didattico, la menzogna dell’essere, il mondo dei sensi, l’individuo, la materia, o questa o qual altra mai si fosse cagione, la mente nostra è oggimai avvizzita e recata a una ciarpa, a un intruglio, il senso del vero e dell’estetico sciancato, evirato, l’imaginativa incespicata, aggrovigliata, e non è quindi non solo a stupire, se la maestà e la virtù dell’italico idioma non è più sulle penne dei moderni dettatori, ma se è altresì e tal mente soffocato il senso del vero essere della lingua italiana, che ne è misconosciuta e recata a vilipendio l’alta virtù, ignorato vergognosamente il sublime lavorio che questa lingua privilegiata mirabilmente adopera negli aringhi della vita intellettuale. Con queste mie calde parole parmi di avere toccato dove veramente ci duole e penso che saranno poi tanto più autorevoli in quanto esse collimano coll’enfatico sentire di un Davanzati, di un Bartoli, di un Bembo, di un Varchi, di un Salvini, e ultimamente di un Mamiani, di un Giuberti, e perfino di quell’ammiratore delle nostre glorie letterarie, il grande Goethe. Non si pensi poi che con queste affermazioni io mi lusinghi di avere senza più conquistato il favore e l’omaggio di chi è fuori dell’orbita di queste ai suoi sensi inesplorate regioni. Nò, non ho altro in animo che di agitzzarne la voglio, e che si mett meno ti volt, quegli argomenti con cui inoltrarci, ed esplorarle queste opulentissime regioni.Considerando la profondità e la vastità dei miei studi in opera di lingua, ripensando le trite disamine di quanto trovasi scritto su questo materia e rifacendomi mi oi ist cei eri che mi sei elaborato intorno a quello che costituisce il fascino dell’eleganza, non mi perito di asserire che codesto mio DIRETTORIO sarà per essere appunto il saggio desiderato, quella scorta sicurº ed unica, quella palestra nella giale addestrerº: chi vi si ºccire con i i rivocare l'avito sentire, le occulte virtù dell’italico idioma. Con un terreno vergine e di fresco dissodato è agevol cosa farvi di buoni seminati, ed anche conseguire sana e coniosa messe. Ma se il terreno è stracco, illanguidito, e per male erbe che vi crebbero im bastardito. nulla giova il farvi ritrove seminagioni; gli è mestieri estir parne dapprima la zizania, ucciderne i parassiti e non prima riseminarvi in sulla vanga che non sia accuratamente purgato e risanato. Anche con un corpo ammalato di febbre maligna e male in essere di visceri e di stomaco nulla approderebbero, anzi guasterebbero, i corro boranti e le vivande, se mercè di opportuni farmaci non sia stato prima guarito di ogni male e tornato perfettamente sano. E così è di chi si disponesse a ricevere nuovi semi di quella lingua che egli non può nè sentire nè ipperire perchè il suo senso, rigoglioso tuttavia di cesti e mºssº bestardº, non può altro che sdegnare e ribellarsene, o di chi volesse nutrirsi di quei cibi prelibati che gli ammaniscono le letture antiche e classiche, essendone lo stomaco ricalcitrante, come quello che lº paciucche volgari e mederne hanno viziato e guasto. Sarà dunque opportuno, chi veramente vuole rigenerare e tornare t:sso e si misuoo Ioio top cluoulli, il lusi li op lºI033. Osloo lº::.looue liuis o oltu l ' ºssige il gp o ti lº si p ºsòssi pilºp ºliº ºpei.l. It us el ' i' i ti - e ! ss outigui illuu.ioldsoul Oiesstv. Un li vº: i bl) ºl! Sº! ).le daiºlº slioni i euuuo5 oliomb u lius sºli o i M o duº lºop i silos gllep luo!. ilo Ao olloilo,S Ip lo33s o lo s ſ olt.loqt lº 0 ai i ti: osto o.lilt: uou o 55eniull ouuuun, Ilop ollos e o uuuoò il AS o ºlsiiqo. OI -toni civili lonn 'ouo; o il 9 AIR alloni si sn p op su o!! ). Il ti -Issºlº 3 atlº, lui: ºtti.lo ol olodlu o l illoulillº ºa so Qrº uviu:I  i poi il tt i tr. ss Lt: lº), ci uo:t., e o isoluo5 eu o optAn.. ui, oggi, i 'ti i ti:: ti io lº t:l lido su tre et 't i3: lIou 'Il 2005U )It is It ul it e sul i ti cieloiti i lili è il trilos i luopll S i tit il sot! ti) º il lo, st 3, 8 l.it, º t ti 3llit 8 º A  i el:  tlii lp 't ult: ulti del 9 l lu ti iº - il so, si s... 'ti i.i....lºli  i; ss ',...... i - i ! i ti&ui  o soli º in l It:ISS º o loti u -  Rutp li ºt toº, ti o, i poi tu º 3 lt è loM o.lgIl lli t..li) op. N..lo slp: 01S, clti, pu Sclip ci, i Ip º lossº t'il pº 'it:5 s: i isl il pºp OiiSAS º al! Se oè, si va 1 otIº tifos. º ºlio p: 0.it tios oso.I -05! A osio; op: i n.lip top t millus G, i tº o 3 As il il 3 osseti lap ei liti in el o Isoi cui il bis '09: loui.it o!!isso) ſi è is 'Glös tipicº -.10ul ti o º lill A i, 5 ti! Sii ! s ºu (olis 10S il q.li i ſiti allº guas iA liliti Il ci º ! A O, 0i) (ſili) i lº!a il p iù.tvi336 | Il ſul SI, riu aus ottiliº I iosi pe.oſse.I l º d lp Girl: Iº tunio.lui uli olei è eluoul el gu: A è tºiplit; o tiri uſi:p 3iiiiSpo otto i p up:I o Aoati olsanb Ip 3Juulo n.ISUS | E.li o illo5 luntti iiiis ol.Iodp e oilun W  o  S.- “Si - Si – s S. S - S 2 s - s- S 2 s. Cose di indole organica e che più strettamente si riferiscono al tessuto periodale  Il grato e l’efficacia del dire dimora assai volte più che nel valore dei vocaboli e delle l gla o ini) tali lui,ppi: Rida A au ºi i tg ei p..iiil I pil, ivi op oi il I attº cul.o, ind oilºni -lallagui gi! A p !.lvi 5i A º 3 op.It: ci.vt mt! pſ. I; ii ti Iguas  sº Aoin:il nr. - i s Istºnli  a reput. 5 o islip i 51 o 3: Ss li Ili oipnlS ossenb oput ºss ºi i IIIess: lp Oliput ouvs 1: i su Ifil si al c. 5 i.In 15i giri i rp:5ucu. li odita, uno º Iovi ouault: sti: è o niti: ti; olio; Itzu Io ip a ol! Ilds OI aulluas Ip o piis lgido opuali ti OIAi().L.: St | (l Gisonb Ip guided uso 'ofoni dr5 lui ig.it, i Jr. sp: l o, aiuougers -ued eua3del loo eliricituo3 oood: oSod il mio zn glpo. I p o puoizilouºp Ip riodo esami ottº oro:ni oirs e insis AIA e W  ologIpo o Soduco l oillouap bus Uieto n.. nip o Ies gipol.I riolle pº  oluopeA lap e Cisgiº Iap 5 i5sti p.s. p r, iº le p.It, i gol q  -uoo 'oullios opinismq Ons Iap oua.I.io II euil. Iddrp o Iri Ind otte! Ieri  i pure di vertiginosi cicli, e di un tempo oltre ogni misura, e di cui niun atto, niuna parte potrebbe mai mutare senza guastarne l’equilibrio, la Pace. Lungi da me la pazza ipotesi, la chimera del così detto equivalente meccanico, ma è pur cosa ſi afes iter d’ogni dubbio che la vita, il principio semplice di un corpo animale non è, e non può essere sorza i qualitative e ri e che gii è (are a ciò di si intimo nesso coll’integrità del tessuto organico, che tanto sol che intristisca questo f 12 f.f. º gt eii, i si.. i tiri i d. -, uf,3 giui tura o cosa qualsiasi anche minima, non solo ne soffre l’organismo, ma talora si spegne, è finita la vita stessa animale. E altrettale è appunto della bella, delicatissima lingua nostra italiana. Ne va del valore intrinseco e della vita non ch’altro, ove sia ignorato o male osservato il retto uso di certe articolazioni e particelle, o o sia a la siruttura e la curva sconciata, l’ordine dell’azione traviato, e l’occulto di certe voci previlegiate mal sentito od esso pure ignorato. E qui non accade ch’io ne dica di più, che con queste parole e coll’anzidetto ti è ora molto bene palese quello che il DIRETTORIO vuol darti, ed anche come usarne rettamente ed utilmente. Non dovremo poi starci contenti all’esserne soltanto risanati, del guasto sentire e dei torti appetiti, ma saremo anche vaghi di avere a nostro piacere e commando e avvenendo di trovarci sulla penna le grazie, le dovizie di questa lingua troppo cara e più che aitre efficacissima e poderosa. Ed ecco che a tal uopo ti verrà assai volte opportuno ed utilissimo il PRONTUARIO, che fa seguito al Dl RETTORIO, e col quale si completa l’ardito torneo di questa mia palestra. Mentre col DIRETTORIO, cioè collo studio assiduo sulle linee del medesimo, ti troverai la mente uscire gagliarda e serena dai vincigli di una morbosa rigidità, e la parola altresì più leggiadra nelle forme, e nei movimenti agile e destra, il PRONTUARIO sarà per ogni penna vuoi da ringhiera, vuoi da pergamo, vuoi da effemeridi, o che altro mai, fornitore, ove bisogni, di costrutti classici e di un corredo di lingua proprio di quella cosa che altri venisse ragionando. Ed ecco come ne userai. Ti farai a quella parola, verbo o sostantivo che hai sulla penna, ed anche al nome di quel tema, cosa, luogo, fatto, forza, passione, virtù, vizio, arte, disciplina onde prendi a ragionare, e il PRON TUARIO ti darà tutto quello che ti bisogna, cemento grammaticale e materiale di lingua. ii fornirà di ogni idea generale un copioso corredo di vocaboli e di modi di dire con brevi istruzioni ed esempi che  ti ammoniscano come e quando rettamente adoperarli. Ti dirà quale verbo o predicato sia proprio o meglio convenga a quel tal nome, cioè alla cosa di cui è nome, soggetto od oggetto che egli sia, quale attributo all’uno e all’altro, quali epiteti, aggettivi od avverbi deno tanti con proprietà di espressione la maniera o il grado di essere o di agire. Ed anche ti dirà i nomi delle parti componenti ciò che ha parti, cioè a dire come rettamente e con eletti vocaboli e propri denminare i componenti e le attinenze di cosa qualsiasi. Ti fornirà da ultimo o più veramente vorrebbe fornirti, e lo farà completamente quando sarà opera compiuta i vocaboli propri di quella tal arte o professione, e così di puro ingegno come altresì di mano, e degli affetti dell'animo, dell’esterno operare e del muoversi ed agire di checchessia, e in ciascun argomento i particolari e propri modi di ragionarne, usati nello scrivere che ne han fatto gli antichi, e dove questi ci mancano, presi da quel che ne abbiamo in voce viva adope rati da maestri di buona lingua. SAGGIO DIRETTORIO  cioè ritagli di alcuni vapitoli delle sue tre parti. S.- “Si - Si – s. S. S - S 2 s - s- S 2 s. Cose di indole organica e che più strettamente si riferiscono al tessuto periodale. Il grato e l’efficacia del dire dimora assai volte più che nel valore dei vocaboli e delle frasi, in un certo spiro di virtù occulta, procedente vuoi da una singolare disposizione e collocamento delle parole, vuoi da una certa forma compaginativa, e vuoi finalmente da certi vezzi di finissimo intaglio, e di raſſilature e tagli a corona. Ed ecco tracciati i quattro capi che ci forniscono a larga mano il materiale di questa prima parte. Inversione e separazione. Particelle e compagini a foggia ed uso classico. Virtù organica di alcune altre voci. Locuzione elittica. Sel a aranzi o 1, i cº II, N cºrsi o 1, i  SEC.) NI): ) (; I, I ANTI ('I I I SC'It I'l' To) RI E ('I, ASSI ("I  Intendiamoci, non è del I per lui lo ch i l' igi I lill e, ch' io voglia pur allegare esempi d’iperbuto. Non farei che ripeter quello che ne hanno scritto ii (il lio, il l'1 l. ll (1 li !li, il Zilli il li, il Ct - il e tanti altri, i quali al postutto conchiudono che quegli soltanto può giudicarne e servirsene rettamente che ha l’orecchio educato alla scuola dei buoni scrittori. In opera di lettere e di estetica nè mi picco di superiorità, nè mi darebbe mai l’animo di prolierirne giudizi, e nè anche di elaborarne acute e sollili delinizioni con le ſa ad esempio il Tommaseo), e molto meno di porgerne teorie e Ilorine da seguire. Uscirei dall’indole e scopo di questo saggio, che è semplicemente quello di mostrare ordinatamente e con grande copia di esempi il dicario che ella il linguaggio così dello classico e quello di oggidi, ed anche di somministi al c. chi ne losse mai cugo, un modo opportunissimo, collo studio cioè degli esempi, di rieccitare nei nostri pelli lo spirito classico, e di tornare a quella forma di dire e di pensare che è la le penne di quei grandi. Siavi di 11 11 I po' balo, che a litrios 1 a 1 lo col vorrebbe prima far vedere come l'ordine inverso – L’INVERSIONE --, sia il diritto o questo l’inverso, raccolgo solto questo capitolo, e Ini diviso secondo un certo criterio buona copia di quel costrutti antichi, nei quali il collocamento delle parole e l’accozzamento delle parti è altro dal colgare e comune dei nostri giorni. Non è però il differire soltanto di un costrutto antico, e come che egli sia, dal moderno, che ciecamente Ini Imuove ad allegarlo e proporne lo studio, ma scelgo quelle maniere che sono più che altre frequenti e più in uso appo i classici, e nelle quali il singolare costrutto è qualità dirò così in lernet, e ormai al III sapore, ad il garbo che lº li a V l'elolo a pezzi il dili al dolo.  La sola TRASPOSIZIONE di questa o quella particella p. es. non vi essere, non lo vedere, non vi rimanere, ecc. - a e ne, la creslllla, per non o vi essere stata valevole gia sei anni che regnò (doardo, la calca degli accorrenti allogava i vescovi e lav.: è necessario che tu per niente a non rispondessi a persona, ma sempre acessi vista di non li vedere e non ii udire l’irren: noi possiamo i ce le si avagali lettori di non le motteggiare (gli al ll il a niere? a non vi prosperare? a non vi proteggere? Segn.: si potrebbe a Ialun contenere di non se gli avventare egli stesso alla vita? º Scull.:  o una semplice inversione di parole umana cosa è aver compassione degli allilli. Zali.. e me anche quel tanto a loro il vello il fine, il li sono oggetto e materia di questo Caploio, ma quella trasposizionr e inversione, onde al periodo, come si è detto, viene talora vaghezza ed anche alla frase maggior forza e gravità: one che allore verullo, ch io mi sappia, le abbia ma da quindi addiello rilevate, e messe in Vislia siccome prerogativa dello scrivere antico e classico, lo è la cosa al punto che prendo io ora a dimostrare, ma senza apparato e pompa veruna d lunghe e trite discussioni, e in un forma semplice al possibile ed evidenlo. Ma prima di farmi a quest’opera mia e di mostrare queste separazioni e dulle le altre cose di questo saggio divisale in articoli, la mi di richiedere il le loro benevolo che gli piaccia di rimanersi da ogni commento e giudizi sopra i singoli articoli, che a guardarli lo singolo non sono allo che mini vie, ma di aver l’occhio a Illella gran massa d'oro, della quale ogni articolo non vuol essere che una imponderabile particella NON DER … CHE … MA in luogo di non perchè …ma … Ciò è a dire: il per disgiunto dal clie e frammessovi l’oggetto o predicato.  1. ignal, o poco pi illico irl cosl li e o per dar rassic, valido  V. gl’illel'11lare clic: non llll'olio cagione di... lecchessia gl' Insulti e le Villalie che il ri limiti gli lanciasse, ma il suo procedere indecoroso cec. esporrebbe il silo a 11 ello solo sopra cosi: non pºi clie ei mi dicesse insulto o rillania, ma ecc.  L'esperto il 1vece, o chi ha e sente le maniere antiche e classiche disgilige il bell il l vigo assi Is e ci si non per insulto o rillania che ei mi i licesse, il t....  Pochi esempi e basteranno a farlerle assaporare il grato, ed anche inlerider e la relaliva il rip, rli - IliII1ento che niun articolo, per esiguo, è cosa di sì poco momento che, a conserto di mille e IIIille altre ond è forni ore codesto direttorio, non sia anch’esso un argomento di vita, per quali lo II il loscopico, un umile virgulto di quell’albero rigogliosissimo e poi il post che è il linguaggio classico.  Signor mio, io non vengo nella tua presenza per rendella ch’io attenda dell’ingiuria che nn è stata ſul lat... ma... o 13occaccio. Nè questo già per saper d ai mi ch’egli vi alopei disse che in quello s in arrimento non ci rimase al riso dai la milo..... l li..... smarri, ma pur di nsi per l'ergogna che per animi o che gli bastasse a tanto, ſullosi cuore disse. Bartoli. Non opera ra per appello o propensione che si sentisse a questa ed a quella cosa, ma pure a guida della ragione e del placer di Ilio Cesari, Ed anche senza la correlazione di non e' mai può talora aver luogo si alla disgi Illzi 11. Standosi adunque l’uggieri nella camera, ed aspettando la donna, a rendo, o per la lice, durata o per cibo saluto che nel nulla lo stresse, o forse per usanza, una grandissimo sole, gli renne reali lui....... I; i carri. rispose che ben si ricordava che andalo era ad albergare con la fante del maestro Mazzèo nella camera della quale area bevuta acqua per gran se le ch'a rca a 13o crio.« e riponessegli l’anima sua sicuramente in mano, chè ben potea farlo, per l'uomo santo e lollo che sapere: lui 'Nsri e litrioli,Ed in generale, sempre che la cagione o non cagione. Il 1olivo, ocra sione di checchessia è l'oggetto stesso, non il rispellivo verbo, si pºne primieramente quello a guida di per per cagione, per motivo, quindi il relativo che e finalmente il verbo: sol per l'amore che io nutro per le, non perchè io nutro ec e per i lucia le mia ch'io porto » ecc. ecc. Nolisi da ultimo che la stessa forma per... che... può avere altresì forza di: per quiet n lo ch. Al, i ciò sara: i i ben altro e più rile V al I ri-Si liti nel [.. lil. io il tv: i 1. ci zioni elillich r.  Cilf: pronome relativo di quello, questo, costui, tale, quanto, uno ecc. si disgiunge dalla voce cui si attiene posponendolo al verbo e appar  tenenza relativa al primo inciso.  a... il sole è alto e la per lo i tignon, culi o cd ha tutte le pietre asciulle: perchè tali parola 'slo lo sci di p ii, le ri sono che la mi all in di tmzi li il solo l'abbia i ts ull, poi i n n...... I3oce. “. Quanti leggiadri gorani, li quali, non l'alli, ma Gallieno, Ip poci di li' o li si illui puo di ri i no 1 li li all ' s NN, mi - la nullino lesinarono coi lor per l en ll, con poter mi col ct mi ci che lº, la sera i 1 nºn lo appresso nel l'alli o non lo conti on lli lo i passi li li a lo.e colui è più car o ai ril, e più la mis, i se si un ali signori onorato con pl e mi gi o nolissimi i cºsti letto, che poi il lom in roli parole dice, o a alli; 1 i cin (lo l i gogna, l rol, il l mondo pi esºn le ed argomento assai, rielen le che le rii li li la I l poi i lil si l anno nella leccia dei rizii i mise i rice'n li di blu nel nulli. I 3 c.La speranza del per loro si è data a chi lo ruolo: e colui l'ha per mio dono, che del suo peccato duole la l'odi.(nche di esse e il conlessore nello in poi i la penitenza discreto. ll e alcuna cosa pruolº la re o sos le me l'e' una persona, che non può l'alll rai o. IPassa V.Con questa melajora e somma bi erità diciamo: uno aver dipinto  1) Anche la lingua francese offre esempi di costruzione non guari dIsstmlle; tel brllle au second rang qui s'éclypse au premier. che dello o lalto ha cosa calzante per l'appunto che non polea star me glio ». Davanzati. « Quando.... tal cosa verrà ben falla che non si pensa. Dav. « Qualche gran fallo dee esser costui che riballo mi putre o l?occ (coslui che.... dee essere...(Oggi si direbbe saper di guerra o ragion di stato che fa lecito ciò che e utile. Il popolo la direbbe un time in I)av. i gi ii) si | | il ll es.. si direbbe. E in colal guisa, non senza grandissima utilità, per presto accorgi mento, fece coloro, rimane e scherniti, che lui. Iogliendosi la penna, a rea il ('r('alli lo sch e l'm iro so. I3 cc. E quello essere che era s'in aginò l?arſ. a 1)issele: non isl in sti c. moglie mia, uomo tlcuno mai essere nostro amico, il quale la reggia on I ro il nos/ I o cuoi e o, IP: Indolfini.co Colui non fate citt e Neri i tio. che non rºtolo rirºre sul no e' lie / - di ilſilli. Quegli al bisogna di poco che poco desidera ». Albertano. a 1 ssai son di quegli che a capital pena son dannati, che non sono dai prigionieri con tanta guati liti sei riti. Rocc.a Indò per questa selra gridando e chiamando a tal'ora tornando indietro, che elli si crºllera in noi in zi di malare o lº scr.« E i ri si riduce rat no come a un porto, in perocchè saperano che ('hristo ri remira, e non gli polerano andare dietro in ogni luogo e ta lora crederano che fosse in un luogo, ch'egli era in un altro ma vener, do in Iº e la mia. Cav. Solo Iddio sa i nostri occulti ed il nostro fine, che il giudicio umano molto è fallace: che spesse volte tal cosa ci parrà buona ch'è ria, e tal uomo ci pare rio ch'è buono Cav.rispose che delle sue cose e ai nel suo rolere quel farne che più gli piacesse. Bocc. Propose di rolere andare al mostra lo luogo, e di redere se ciò fosse rero che nel sonno l'era pari lo. I3ore.a I)a Pietro martire a Solo quel lirario era che già S. (toslino futc, ct da Futu sfo mi al nicheo, suo maestro, a S. (n broſio: l'uno lullo fiori e legge rezze. l'altro frutti e saldezza, Dav.a l)i I)icembre dicono che nulla nasce che si semini, pur semina o i zo, o fare in su lui ranga. piselli e sul ri le fu mi. I)il V.a Quella potenza con ragione si stima maggiore d'ogni altra, la quale con sussidio di minori mezzi può conseguire più felice nºn lº il suo line o Segneri.a gitta l'ammo e tal pesce li rerrà pigliato che ralfa il tributo per lite » (esari. ARTICOLO (5  Due nomi, aggettivi od avverbi relativi ad un sol Soggetto 0 verb0 a) Si separano frapponendovi il verbo.  b) Anche il complemento indiretto disgiungesi talora dal rispettivo diretto, pure frapponendovi i verbo.  c) Gli aggettivi si trovano talvolta framezzati dal sostantivo.  \ l 1 g.... l sl e silli, i - i scolla la, l I l: - Il l  i pez, a il II iscir: \l::: ' s." ;  i viaggi chi blo  s.... il liri. I sing il il suº pensi li stili e li - si si i. II. Il li sºlº lirli resi i vigli, sl 1 il II, Lici II l ' s  l; in ºsservazioni.  Vs sa sono li al rialli, ss nel s', i rºssi,. maestri s, l. I li alll I  castigatori. I 3. l: ln i ritiri il ', con i tiri, l isp, N.. ll delle sue cose era nel suº  i, lei e quel farne cºl pari ai li pºrti ss i \ ella quale gran parte i ipoti di un de sui soldati \ l.  i qui i rolli per chi mi ieri sono, nel n. ilio alle donne stanno cli, agli ucnini, in quanto, pii alle donne che ci il rion lui ii molto pati la rº e lungo, quando si n: a 'sso si mossa la si l: Nali,  lº si l ri'il miº l.l l ' i '', un fiero i nº, l un forte. I 3, i.  lº, i  Trori i no, in luogo, le loro i rom: mi stanchi. Il grossi piloti reni buoni.I)i ſanta ma i tiri lui e di cosi nuova in i pieni..... l3 o. E l appresso, questo non si lanci le la rozza rocr' e rustica in con le il l e o il latili nel riclit NN, il ct oli canto lire' i no mi tr Nl l o r, li suono, e nel cui calcoli e nelle cose bellich cosi noti in come li lei i t. snc: lissim ſi l lira' il n. li mi rilici e, in grandissimi ti i pomerili e con presti aliula nel lit.... I 3 c'e' I n uomo di scellerata vita e di corrotta, il quale lui chiamato le lo il lla Alu Nsti e. lº ce.I' mi nella nostra città un grandioso in cui la nl e ricco. l ore. A piè di una bellissima fontana e chiara, che nel giardino era, a sluirsi se n'urnalò ». Bocc.  Voi ordineremo onorevole compagnia di buone donne, e anche di buoni uomini e forti, che li possano portare, e larci cessare la gente ulosso. Cavalca. e questo addicenne che quanto è maggiore la infermità e più puz zolenie, lanlo il medico, s' egli è buono, più s'appressa all'inlermo, e di più si studia di guarirlo losſo. Cavalca. e (in cort disse loro, il lil tulo come al rºssºro la re, e' eleggere atlcune buone persone e fedeli che rendessero queste cose, sicchè. Cavalca. Essendosi tutto il bianco vestimento e sottile loro appiccato alle ('t l'ni...... ». 13,:C.1ncora quegli rampolli che sono occhiuli di molte e grosse gen me e spesse, impe occhè dore sa di moltitudine delle gemme e spesse iri ſia l'abbondanza della genei a lira rili. Cresc.«.... oltre al credere di chi non lo uli presto pati la loro val ornato Giambillari.« Patira questo ignorante popolo e rozzo quelle lungherie, e parere rallen le chi altra ra l il ll, un ali di uli I e. l): I V ill.1 rera ad un'ora di sè stesso paura e della sua giovane la quale lullaria gli pur era di reale e o lui oi so o del lupo si rangolare... I3 cc « e oggi se fiore ho di sapere e nome rie il più la rel si cl e lui gli ai 1 - ringhi, e roglio oggi mai rimane mene o. I)avaliz.a Tu che di nascosta ch'ella era ed impercettibile. la remule's li molti ' I rut / la bile il ricorut at i Neri Si...., Stºgli.« Non prima dir parola le rolle di correzione che dileguato si foss' ogni accusa lorº. Sºgn.chi men riuſ ut I lui al lungo studio e sollecito da lui adoperarlo in lui piccolo a rincere ogni pazioncello e Cesari.a Belli sono i fiori e vezzosi; mi ai coni e dice il prorerbio, in mol no all In I l i non islam l), no... Silvi! i.a I greci panegirici ancora non ci amo mica una pura oziosa lode, ed inutile ma...... Salvini.a lalalore se questo spirito, di carità ma nca che insieme le leniſti ed unite le irre in bici di ('ris lo blu / le e in orle qui il li catal 'rc rºm ſono ut ſul rsi. S: il Villi.a lunque non li par questo luogo buono, lorº iò si gran copia di erbe e si saporite, un fiume che mena i più dolci pisciatelli di questi potesi ed assai, e alore non ci bazzica mollat gen I e che ci possa i tr lui il miº r. I 'i l'el l/. NON … PRIMA … CHE.... quando in luogo di: Il0ml.... prima che e quando a valore di: C0mle prima....; come.... così.. II0Il Si toSto.... che....; appena.... che. il IIIala pcIld.... Che... ;Non selzi il l ' 1 lo senso di co; il 'la li l' ' gl., Inl \ 1 Il Sºl la colla illica l 'Inghi e prol di sci i tagli, il lis, rag olio logica, la Virli, il vigo e l'uso vario e rello di questa e di cento e cento alle singolarissime strutture, molto più che se vi sono per avventura esempi di una forli alcun poco diversa, sono questi, esempi di autori non alili hi, ma che solari lo hanno scritto sulle orme degli antichi Inºltre colle scril (Il re del 300 e 500 colesto I)il el Iorio è veramente, e senza eccezione vertina, il sicuro Direttorio, e appena che vi si trovi un sol esempio, che colmi il III e con i radisca.  Mello ſui due periodoli di origine antica e classica, con parole quasi egli li SI 'I Il III non... prima... che..., ma che l' Illo e l'all si ass: il live si. e la sala si li va il rialli si sia Il pi IIs li sl: non.. primat. che.., e sia l'on.le dell'ulio e dell'altro sigllili: l:  I - Non lo volle prima al suo cospello che egli si fosse pentito e avesse le testato il sile) fallo no.  Non venne prima al suo cospello che egli nel cuore con punse e sl, il sl 1, ſtillo  Mentre il vago del primo periodello consiste manifestamente nella separazione dei due incisi della forma avverbiale demolante precedenza di tempo:  prima che:  lasciando cioè il che solo al posto suo e antiponendo il prima, cioè avanti il verbo del primo inciso ed accanto alla rispettiva negazione e parlicella negativa, non o nè che ella sia: nel secondo pe riodello la stessa forma: non... prima.. che.., indica invece simultaneità di azione, è ormai ci ripagilialiva che il lilli il ra lingua, e orna al 'il II ra: con e prima...; come... prima: come pill los lo..; poichè prima..., con '... così: ecc.  Noli Irli esſendo il considerazioni che, più che le mie parole, ſi darà materia di senſirle, non che di falle, il grillo, la spontaneità del costrutto, la morbidezza e soavità della curva, il velluto negli esempi che quì li allego. SSEM L'I DI UN: Il0Il.... prima.... Che.... ed anche senza la negazione, I)I UN: prima... che …in luogo della forma volgare: Il0m... prima che; oppure:.... prima che  Delºrm inò di non prima mi torri e a lui il riglia che egli gli arresse alloltrinali e costumi ali ai la licati e I), v. 12.perche' essa rc i goſ n. Nani e le lissº, si esse il piu' recel et lui ci al ogni suo comando: ma prima non potei e che l e onl, inola lo Iosse in Purgatorio ». Doce.Mouli, a cui rullo, col ti l'a 1 / i ti al cio: in prima all I o le c', che ella s in ſegnò li reale i lielli di tiro …dirò come una di queste sui ti 'ºssº, il cosi l mi 1 e si lil e si mostri - li, osse lui ll, il ſei no, l'unº su di lui ci ti i prima al N. nl I e il I moi ll rull: con dolla che i lioli di rºsse con sei il I.lasciano slal e i pensieri....... e gli e li: i in I so mi ci li. che prima siamo sli acchi, che i libici mi disposto, e apparecchio lo le cose oppo lui ne (('un l'ºliº e li ill ci, la r il.Prima prelerirebbe cioe' ini, l be tullo il mondo, che Idilio fosse lºslini onio di falsità pure in un primº lo Iºr (ii rel. a nè prima ri formò che il di s. gueul, 13oce. perchè messosi in cammino prima non si listelle che in Londra per rºmanº o. I 3 cc.« rolle non solo disporre, ma intera nºn le conchiudere il patrºn letali, nè prima reslò li lire che non utlisse: l'in l?elier cui ci ritmi le Segr. 13 Così coperse lui nuli di lell'utilull ºrti, di lui con lolla nel le mi pio, quando non prima di parola le rolle di correziose, che dileguato si fosse ogni accusa lo re... Segri.« ('osì comerse la nudità della Santrilotti at. a lui sopraggiunta presso una fonte, quando non prima rimprororare la rolle di disonestà, che rili ralo si fosse ciascun apostolo. Segni. I 1.« e rolera parlargli, se ne scusò Luigi per non arene licenza, nè prima lo rolle ascoltare che il generale l'a resse a ciò licenziato, di che il cardinale ne prese grandissima edificazione ». (es.« Quiri riposatisi alquanto, non prima a larola andarono, che sei canzonette cºn tale furono o. I3o c. 15.a Prima sofferirebbe d'esser e squal lato che tal cosa contro l'onor del suo signore nè in sè nè in altri consentisse, Doce. ESEMPI DELLE FORMI E COMPAGINATIVE,  DIMOSTRANTI CONTEMI L’ORA NEITA I)I AZIONE  Il0II prima l Il0Il...... I10Il Si toSto..... che... ilppella il IIIilla perla.....  EI) ANCII E DELLE EQUIVALENTI:  C0mle primiù....; C0mle.... prima....; come piuttosto  poichè prima....; come -... così...  slli il tille V lgi l'I e ci li Nlo che su bilo, che, ci. I. Non prima e libri al boillu lo il gºl in cesto in lei l a che la cugion, della noi lo lei mi isºli a mio n li a ppoi i re. I 3.Il ct c'Ncat e 5 in bella, per ogni sorta di tici ll e non li di prima Nºli - di alo uno che gli li o I il sºlo se mio lo sta la a lola. Caro. l. Il ct: l tesle in tilt ne reni ſono i pi ppo, e il so il 1 l po'. Ne' non prima la l rila che gli l'ha. I lav …l doll, che sarà, io li promello cli gli non ne senti il prima l' al re', che lei riti liti e li isl il l il c. l 1 l'. Idilio. lisse, li Il 1 li lo i cui, e non elilu il n 1 l o di lirilli, lo che ſli si coni in tal il pil irli, e lº ri.e non elil, e li rile, l'intillnerali la mia sl i il che il reti lo si l irolse al l l. in on lui ma i Nplut mi, su bilo il n 1 l l.Non prima al talli lo ri mi li a mo di ril lo i ti noi, che lo slo, Nlton no ci ri li di lui. I l at col 1. se non lo sº e nelle di ''I I I nosissimi al ligut. Segl. Nè prima il rule o che pi ruppero in lullo da disperati, in gen il il ct o. Se gliL'isl, Nso (io li ho li sui bocca in lesina lo conferma l'orch è mor prima, l lorº letto: \ un renis/is. el modo ricºnles plagotn mi rotn linells. che nel rersell seguente soggiunse su bilo: \ un quid dia i: a lei le mili il l cle su lislam lidi resl rat clona le mih l'. Segli. Inzi non prima r han con le rila una grazia alquanto spesiosi, ch'essi pretendono tosto che lui lo il dì roi li dobbiate e accompagnar ne' corteggi, e apportar ne' cocchi, e servire nelle anticamere ». Segn. \ on rel lissº io º non prima io roglio, cominciare a parlare, che il Santo P ofele I)a riele mi toglie le parole di bocca ». Se gli. Non prima riule ro ossequiosi sol lorni eIlersi i mari alle loro pianle'. e tributarie stemperarsi le murole ai loro palali: non prima sperimentarne a loro pro luminosa la molle, ombrato il giorno, rugiadose le pietre, fe conda la solitudine, non prima cominciarono a debellare i popoli con la forza o a premerli con l'impero, che si ribellarono arrogantemente dal culto del vero Dio ecc.. Segn. Non prima contemplò quiri assisa la forma pubblica di giudizio ap prestatosi a condannarlo, non prima i giudici apparsi nel tribunale, non prima gli (ircustlori uscesi sui l os/ri, nºn prima il popolo concorso (t)) ol lalamente a mirarlo, che non potendo più reggere alla rergogna, ristelle un poco, e di poi, tra lo furiosamente uno stile, si diº la mortr. Segn. Troppo indegna cosa è il reale e che non prima risolva usi quelli donna, quel cittadino, quel catrali, re, o ai rºslire con maggior sempli cità, o a con rersare con maggior riserbo, o di ricere con maggior rili ratezza, che subito cento male lingue si ci fu zzino al molleggiarli. Segli Non prima l'innocente colomba uscì fuor del nido, che diede fra le ugne di un rapace sparriere. Segn.IIa un ingegno diabolico e pronto, un proceder ſardo, un pati lar grare, un arriso subito, un ritratta i si in su l la II, che non gli c prima messo un lascio innanzi che r la I l o a lui la sua riſortolot o. Caro.  « Non si tosto poi la riſolse in mano, che la fece di sorpe ritornar gut ». Sºgli.  E appena ebbe letto le predelle parole, che li subito sopra di loro renne una luce con la n la chiarezza, che essendo il rore nelle oscuro e' si redeano innanzi chiaramente come di bello di chi ti o. Cavill a. ()uiri appena ) il che ecco l'ar male degli Areni, i quali quali lo pl in al riale ro i nostri, diede l o l u llo insieme in col mal e latin li li li. I 3: l'1. Appena egli posò il piede in terra, che mentre si mira col (l'ul ll ' 'n i. quiri l'inchiolarono..... Si gn.E a mala pena e libe apri la la bocca, che gii, o rinò misert nºn le. l'iore 17.Ed appena erano le parole della sua risposta ſimile, che ella Nºn li il tempo del mar Iorire esser renulo o Docr'.a.... e'l figliuolo essendo andato per il n calino per lat (lolcit. appena era il ferro entrato nella carne un'oncia che il porco cominciò a gridare i Sacchi.« Appena si sollera ra un leggiero, diletica nºn lo di senso negli animi i di un lierna raſo, di un Franco, di un lemºdello, che in con lui nºn le I lilli ignuoli correrano chi ad allui)arsi nei ghiacci chi.... Segn.« Appena era comparsa nel campo la generose (iiudillo che l'atlli subito quasi alla risſa di un insolito, lune, rintser lilli incitmlali a si gran beltà ». Segn.Il ralen l'uomo senza più tranti andare, come prima chlie tempo questo racconlò.... ). I3cc ('.a riri sicuro che come prima addormenta lo ſi fossi saresti slalo (tm mazzalo) ». ROCC. a dore egli come prima ebbe agio fece al messere grandissima festa ». Docc. -. E in altro luogo ripel e il 13 cc. la stessissima frase: « Ella, come prima el be agio fece il Saladino, grandissima festa »..... la qual cosa come prima si udi per la Lombardia, lolse laul (li credi lo o, (iiamb.  “e promellendogli ancora largamente di levarsi in aiuto suo. come egli prima possº in campagna. (iianl).la cui poichè prima ne in lese, si son li prende i si. che…). 3il 'l.  « L (quila come piuttosto di ciò s'accorso'. enl, è lui la sol lo sopra e così s'andò la (iiore, e con togli il caso, lo pregò che...... l'iorenz. e quando egli ci sarà, io lo me è e come tu mi senti, cosi il ia en li ai r in questa cassa e se i ra i cl clen I ro. I3 cc. con le prima, lº sl he. Come lu gii, disceso cosi il lil o I russe. I 3 ('.Come ti ſei rola il sen li tono cosi se ne scese o alla sl 1 di lui lº ce Come ride corre e al pozzo. cosi ricorerò in casa e se i rossi le uli o 3 ).... per le quali parole il mio marito incolla nºn le s'allo nºn lo e' ccme al lorni en la lo il set le cosi tipi e l'uscio e riense ne dem l'o, º slots si con m cco e questo non la lla mai e lº il S.Come io giunsi ed ecco sopi arreni, l'irl ro 13ore 19 NOte e Aggi U1 1 m te  all' articolo 8  12) Simile alla coes-ruzione tedesca: nicht eher... als.... Il luogo di ehe oppure bevor, che sta per l' itero prima che,13, Quel non, che li i lo I r. I s-li alti - Ilpi, a 1 lie della  sesso Segneri, è lorse scivolato di liti per il la ai valori e i Segneri, ai quale sapeva male, pensº io, o gli veniva del guasto e dello storp Io a dire: che udisse.  14, l'oni Ine!lte il lesto e i i pr. e le 11 e le 1 di... II, 'il:lo all'ait, si rassolini, li, i lle 11. Il perdori sl il 1. l)llº I – Il re 1 il ll li si, gol i.  15 Il Corticelli si l plico Ia, il il 1, par. 1, se qui con le e di ragione, imperocchè rilerenido, lo stesso - Impio, osserva che la par ticci la prima con la negativa ha la proprieta di significare talvolta infi nattanto che, e talvolta subito che. I - Il ll il 1, si l: i 1ei la se conda parte di questo Inedesimo al tiroio S. Mia che li citato non prima fol mi da se S lo frase o modo avverbiale colli e vorrebbe e valga infin tanto che, non so cui possa Ilia I capire nella 'lini, che il grato sente e intende (lei II l 'ti er-e III l i lill 1. Il nel significato di infintanto che, lira Ilei la s partiz le due lil - la l l'avverbi, prima che, tra li l'11 | tendov -: o li e -il-sogllita o leve sllssegllire.  16 Qil - o prima 1 e 1::l'i; 1: de l eher li di piuttosto, più presto. Ma ad ogni modo, resta sempre il grafo della di sgiunzione e trasposizione dell'inciso che,  1, Binda che i ll'en III al clie fa r, ti ra questa o qllelia for Inti in coInfronto di un'altra clle III i dl o con i lille e volgare, non è In lo avviso che questa sia sempre lilello bilonia, e sia la sli: 1 ter addlr IIura. \ che i Inodi tos:o che, subito che non solo a ragi m d' s III pi - II: il 1 li che non ne usasse quando ben torni, anche il I recenti e cinque º to Simile a questo subito che, IIIa in Iorma piu gaia e pil ſorte è il da te si o ratto che:....... ed r si lev o ratto Ch', la ci vide passarsi (l: V: l Int (m.  18) Al che i Latini usarono ut i greci o snello stesso siglli  l'rim.1 di passare a l alti e altri tazi, i no: voglio qui rimanermi di ºsservare che (Il testº: come.... così..... è ben altra cosa della forma coin. parativa, p. es., del sieguente passo: nè sia chi ne stupisca, perche come l'uomo è vissuto cosi generalmente muore. Notisi però che di questa forili º comparativa ai buoni scrittori piu che il diretto: come... così...,  a: a Va assil I lll'ill Ilio l'assetto in V clso: cosi... come...; che cosi in alti e non come l'ho citato lo trovi questo inedesimo passo nel testo originale del pil dre Seglieri: li siti e li I tre still list il per le cosi l'ul, irlo lilllore generali Irelle, come è vissuto n.Assaporalo il grata di codesta lli versi rime anche negli eseIl pi se gllenti:Queste sono le operazioni (le l' ill: Ino: all III: estrº l e, a Irl III ollire...., l - gli cosi Coni e lº, il 1 lt il ſil 1 l. - - - - - - e ce, aci per i re cosi lo III: i glie loro come lo Ilge gli ed intelligenza il ogli i sa, e pera º norevole I l Ill sa.... » l' 1:1 lo l Illi.Io potrei cercare lulla Siena e Ilol Ve ne troverei illmo, che cosi II i s.esse belle come il si.La li la dre, che le tl, l ire l: I 1:. ll ll l: I g il va Il ferirla, poi, le le seppe Il rito Il. dI S. l a no esco con lido che cosi or: la p 1 l el l e l'Isll st 11: l III, I | 1, come, Zi l', i Vrebbe potuto risal lia l' iller IIl l: illo. ll, cosi i ns, come gli 1 ll dal V a ntl gli si gel1 o 1 pl il 1, rot! S si III in id), Il Irgli ». I3: l.«...... ll I II li assi. Il ril. ll I 1:1 e-1 r il pil  sapere di V (I, cosi II slla l la legg.. I 1st a 1 il ss 1 vs 1 1,  come voi ora il I persl 1: i let ss. l la s. l '. I 3: l. e … se li, V. - ti.. ll cosi !) il liti e In Il lidosi come il l V el'elil e la V il si, 13a l.« A Ilzi cosi il ssista Idcl I o il V revole il Il le:is eri come i 1:ì ll pil II: i n1 il Se tl.Se l'uomo la il sottil I geg. l lo i teli e lo chiali o, il salda me noria, loli se li puo e l'1, i re: le cosi -: S I lllll liti de Vizi, come li virtll,. lPass: l V.lº, il vero, li, cosi come lei, il... - Illesi: da li ll. I l il l re i ti li.. -. I 3, i.“. - - - - il ilse la V I rl I si sa delle liti.... per le cosi come,  lisa V Vedula trielite: so - ei 1, si via tre il - i l: spegnere per o!: ºr  i li ll li i' l I l: il ct, lì 11. - lo Il Vila: “i sa slla i livi gli in stra quella cosa la qual e egli ha più cara, a flernlando che se egli potesse, cosi come questo, ma lto pit volentieri gli mostreria il suo cuore », l?occ. “e che cosi fosse servita cosi ei come se sua propria moglie « I (lsse ». I3C) (('.«..... rispose che così era il vero come quello Irti le aveva detto ». Fioretti.« E son certo che cosi a V verrebbe come voi dite, dove così a ndasse la e bisogna come avvisate ». I3 a.« Ma non illte:ldendº essa che questa fosse così l'ultima come era sta e ta la prima ». Bocc.e Sio Irli conoscessi cosi li pietre preziose, come i ini, sarei e buon gioielliere ». I.ib Motl.19; Ho annesso agli ani e li liti in li Il testo esempi di un come.... e...., e sì per mostrare l'allal - ia, mie a 1 he per rilevar e la diffe renza. A cenlla bellsl 1 il l Il s.o come.... e.... alla con impara nella di dlle atti, Ina Vi senti al che la relazione | 11:1 lo di: in quel mentre, in quella che..., precisamente al fora..., e qlla ido, di quando..., tanto....; di che ti sia l all o p III, l i rili pari le lilli e si ra., il 1 e l'allegato, gli esempi che seguono:e IO Ini leva diritto, e come i i vole: l IIIa ridare chi fosse, e che a Vesse, ed e., Iri esser I.: Inler 1 1: v. I l sul l. 1 litot e 2, 3oCome noi pro lia il e s II h, a e ge')till III: I mie!'e V (Ing Il i: ll' ! ! li,, (si ri.Come pili i vecchia la V. AV relIl mio tilt li in li iori -: l:di. l il bit. ll e pill ripostigli, e più si cerebb il le s II -, e come piti adoperate e liti per ferite e ! ti ve nio, poi io che si lo i come le vesciche, le quali come pili solo lo rientate, e pii - empiono,. (.ar.()sserverai lili -1 e si pllo talora sotſi' il lil re, ti: nel I e  torni bene, e punto illlia n soffra il senso.  l'rima di uscire di questo come, cli i lili: lelli voci re Illonti sulle penne degli alti li, p la eliri per il III: il clii il 7 Zii e collettivita, di completare e mette e qui il Vppenali ll l a rigor di ordine s: rebbe materia del capit, i gli ºli,,,, il ll li - Il pi l'1 ol':i, sia di un semplice come, che, -: l li a lli I chi, lui ora Iorzi di siccome, poscia che, conci ossia che, subito che, li quale il. col... quale, precedute dalle voci modo, via ecc., e quali (lo di che, di finchè ed anche di quanto n 1 modi: come spesso, come presso?) e talora lillalrilen e di im, con, di qual maniera, guisa e simili, sia de 'I I riport come che, a valore quali ido, di avvegnache, I: I: Ido li in qualunque marie ra che, e talora anche di uli semplice come (siccome. “e com'è Illisse di verilo e'l freddo gra il le, V eg. ) io l'ill l'e ll 11 di que” bacherozzoli o F, ronz.  a Come villan che egli era il canili, di lilltalli, gli illò della s lll'e a sulla testa sì piacevolmente che … Fier liz. I concia -si: chè egli  era villa li, cosi ſi celido come si lol la r llli Villa lì lì.  ti e come colui che pi col l lev:I | Il ra a V V a 9. l 3 ct'.  “..... un giorno verso la sera elitrò li ei gia i dilio illi: gi valle hella e  vistosi, come quella che Ioriº ita era di vestiti riti di seta e d'argelli avea intorno le piu nuove ed is;uisite legge che si lisa-ser, (iozzi  a.... e com'e' vedeva i lºlirici in posi, novella illelite ridava all'arle º Bart. e dissegli che come nona sonasse il chiamasse» Bocca Come la donna udi ques.o levatasi in pie, comincio a dire....» Doce.  E dire il vero, com'e' l: rai, Ild ri. Illesla (til lido ilz:i di l)io il lin llc, l'e, è lllli il n. St gli...... e com'ei Ill iIII per li re, lei scaccia la... ft III l'il' li lllllg, si eliſ on I ); i V.a Questo animale, come sentirà l'odo e del pesce, ilscira fuori e con il a ciera a mi: ng la rsi di Ill peso 1 il ni, Fiºrenz.“ - - - - - - come pervennero alla città di Gaza li l iuoli inlerinarolio si gra veli elite d'ulio Inc. rilo e le el'a ll lisleri It I l (il Val 1. Io voglio andare a trovar modo come il s 1 di qlla elitro » lº - e segretamente deliberero io che si dovesse trovare ogni via e ogni modo, come poi sistro la r 1:1 ril e (ies Il Cav.... e da quivi innanzi penso sempre modo e via come e glieli potesse  ll l':ll'e o li l el'. … che per certo se p ssibili fosse ad avere pi e ebbe come i il V esse » i 3. li Il l..... l Ebbe l: nuova come (ialobal era il is l il V..... come ti se lui spesso ad Ira.. I3llon: i ferrilli!):l, come il cºlessi I ea voi? Vlessere, dlle tl):17 /:ll di ma lo » 13. In Itlal I l 'lieri, i 11: il prezzo).Come è il V, si ro Il le? e il V I l come li, il 'll? e lº quale, di ſlal lo fila. e... e di li a 1 lo come li -: -st:: Il  a I.:i giova:le, plai lig il, l ' s -. ll avev. a - la li paglia nei a selva sli tirrita, i ri. I come presso lo ss o il Vlag::l, i cui I l bilo: ll il si se...... l3 e.  I ) Iss i llora l: i giova il lº come i l so io: l italizi presso di di ver il berga l'? » I 3 i.Veduti e gli allegati i seri ini i lil 1 | li i lisi di tiri come il form la selm plice, passiamo ora agli esempi del collip - come che, in quell'lls, e val(il chilo (li: i rizi:  (*) Notale queste forme: come avete mom e? com'è il vostro nome? Vostro padre corn e ha nome? Sono st m.lli alle tedesche ed inglesi: Wie heissen Sie? Wi e ist der Name? What is the name? ecc.Usane anche tu, e la sera il francesismo: come vi chiamate? ecc. e simili. Si che l'ha anche il Boccaccio questo chiamarsi in significato di aver nome, ma ne us a tm maniera ben diversa e più leggiadra, che non fa il moderno. Esempio. « Domandò Giosefo un buon uomo, il quale a capo del ponte si sedea, come qui vi si chiamasse. Al quale il buon uom, rispose: M a sera qui si chiama il ponte all'oca ». I) al qual esempio ognuno intende che quel si non è particella pronominale riferita a quivi, qui, ma sta per gente, uomo, on, man th ey the people - e qui si chia:n a vuol dire: qui la gente dice, qui si dice, qui tutti chiamano, o cosa stmlle. Di esempi del modo aver nome in luogo di chiamarsi abbonda ogni libro classico: “ Beata Margherita fu fi gli uola d'uno ch'ebbe nome Teodosio, Il quale era Patriarca ed era gentile uomo e adorav gli Idoli... “ Cav., ed io non Glan noto, ma Giuffredi ho nome Bocc. ec. - Nel tempo d'un Imperatore pietoso e santissimo, il quale ebbe nome Teodosio Iu un senatore della città di Roma, il quale ebbe nome An tigo no, uomo di grande affare, e molto congiunto al detto Imperatore... Tolse questi mog te, una donna, la quale ave a nome Eufrasia, donna religiosa, e molto temente l ddlo n. CaV. 33  a) L'avverbio come che non ha quel senso di perciocche nel quale tanto frequentemente è in bocca d'alcuno.  Il suo natural significato e d'avvegnache, ancora che, ben che (Bar toli). Notisi però che anche in questo senso trovasi il piu SOVC Ilte, l) Ull al principio del periodo, ma entro a questo acconciamente innestato. In testa al periodo prelerilai: quantunque, quantunque volte, benche, avve gnaCChe ecc.  « AVVisando che dell'acqua, come che ella gli piacesse poco, trovereb º be in ogni parte » Fierenz.  “......e sempre che presso gli veniva quinlo poica (n mano, come e che poca forza l'avesse, la lontanaval o 13o.  "...... ed oltre a questo, come che io sia al titº, io sono inoltro, colite « gli altri, e con le voi vedete, io: io, i s a I r; i vec li a Lioce.  º...... il quale, come che II lotto - ingegnassi di pir, r, salito:ier,  º al flat ol' della fede e l'isi d l'1, i ra Ilon III. Il tono liv st 1. alore di hi a piena a V ºa la b rsa e li li rli dI - ii a lei le s III sse » l?occ. a Ella ll (lilediCa Il li l' ', conne che li l s, il lit: i rito, se la ll I li « fallo llli crede. 1 e esser III, I » I 3 t.« L'ira in fervelllissili lo Il rore accenti si r.:; e come che e questo -C Vento 1: egli iol 1, 1, 1 a VV 11: 1, 1: là con ni:::::: danni s'è nelle donne Veillllº º Bocc.  º...... si è adoperato i 111a Iliera di ri..., come cime inolfi il Liegano, a ((Il dann, a lido d'errore il dire.... » I3: l'I.  «...... e come che gran moja nel cuor fi nis e, º eriza n. il tar viso, in braccio la pose al famigliare e dissegli: te..... 13 cc.  « I Inalla cosa è aver rimp.issione d gli: Il Il ti; e ceme che il claso una a persona stea bene, a colori e mass III, III e 11 e 'I l ' st, ' quali.... » 13 r.  b) Anche per comunque, in qualunque maniera, e ad i era lui si desimo come che, scrive Il I al I l l', - lizia Illi. Il sospet lo d'errore.In questo caso pero e il come non il come che) l'avverbio risolv: toile lei sului (le111enti: in qualunque maniera, e ii che li e la rispettiva. giunzione o pronome realivo, congiuntivº: nella quale ecc. o Nuovi tormenti e nuovi torinºlltilt i Mli V gg, Ill. l'I1, come che io, « mli Inuova, E come che lo li li V l il.... » l)a ille. « Come che questo sia stato o no.... o lorº. a Come che in processi di tempo s'avvelisso. Docc. « Come che loro venisse fatto » l?occ. « Ora come che la superbia si li renali, o per l'un modo, o per l'al.ro...» Passavanti.« Ma come ch'ella li governi e volga l?rili lavora per me non tol la « mai » Petrarca.  c) Notevole anche il come che dei seguenti esempi, nei quali sia il valore di un complice come i siccome,  « E come che il povero corvo fosse persona antica e di gran ripºrta « zione....., molti lo venivano a visitare, e come si usa, pil con le parole « che con fatti, ognuno gli profferiva e aiuto e favore ». l'iel'eliz.  3  - - - - - - m: disposi a non voler più la dimestichezza di lui e per non averne ragione, nè sua lettera, nè sula 1 Imbasciata più volli ricevere; come che io e l'elo, se li lu fosse perseverato,..... veggendolo io consu  « Illare, colli e si fa la neve al sole, il limito dll r, proponilla mt, si sarebbe a piegato » Boce.  I3mila però che il come che di questi ed allrl siiiiili esempi senza nu Intero, 11, li si vuol leggere i dlli filo e pr. llllll iare con quell'accento che il comme che a valore il quantunque, benchè, che sarebbe imbra il o troppo rincrescevole e noi ne aver sti a lei in senso, ma profferirlo in guisa che il come risalti e recli egli solo l'impronta di siccome, im perocchè. La congiunzione che non ha qui a far nulla col come, nè sta ad al.ro ulfficio, oliº di semplice collg Illizione o nesso di puro OrnaIlento, e la portersene all'he l'Il rialle e', 'Irle appllll., fece, tra l'altri, e assai si velli e il lºlere:lzuola. Particelle e compagini a foggia ed uso classico;  avverloi, cioè, col ngiu 11 azioni e voci il n go - I nera n lo è o li in iu 11 i valore altro cl neº rela a tivo, 1 r) a tu ltto i 1 n t rii msec », i1 in in nea 1 nerì te Clirò cosi, e il nero 1 i te al costruutto, con i lcº il gran to del tcsst 1to l crio la ale, il va ago. lo il coro lit collega -  1T nel nto gli slo: nrtite i lec.  Ad alculle di sili. Il l Irella l. I li gi i tiri lici li nomine di 1 - pieno, e ci sono ce le colali particel.... ess, proprie della lingua toscana, le quali, oli e il 11 11 11 -si l i i s ll la III, il alla tela gl a - Intili: Ile, clie pi l'eblo sl. 1' st 117 -s. l II l' - I lil a cle aggli Ingallo a - l'orazione forza, grazil. ori a 111 mil... se li n. I ro. Il cerla maliva pr - prietà di linguaggio... C. rl Icelli. CIl mio ed altri.  Ma vorrei qui rilevare che codesti autori fanno appunto oggetto di particolare osservazione le l ' Vlt i l (..l'.I l.E che non inati, o ti ifici o altro cile di ornamento e di ripieno; men.re le l ' V l l I (I, I l l. e 4 t ), il V º il N I, e le V () ('I IN (i I, NIEI è VI,E, di cui e parola in questo e in altri capitoli del I)II E I'l'ORl(), sono argomento di studio da quindi addietro al tutto igno rato e assai più rilevante che non sia cosa puramen le ori:arm2miale, come quello che adopera all'origitial candore e alia NEI VA I V del perio dare classic. NON SI (tanto)... CiiE NON...  Per squadernare che io faccia un libro, il derio di penna volgare o colta, a gran pena ch'io vi Irovi pure il periodo a lornia e sll'ulltila clie negli esempi che qui ſi allego. E dire ci clia è si bella, strella, evidente e di un garbo tutto ilaliano ! L'ebbero a grado assai ed usarolila di Irequente scrittori non pur del [recento ma e ti i cinquecento ed anche dei piu recenti, – di età cioè, non di sonno e di ullura, ch'ella è antica e non invecchia mai.  ltisport pressa poi al 11 sl 1 o: per quanto... lulla via..., e talora a 11 ne ai cori e tali vo: qui un lo... all.rellan lo.... Cili è però mestieri di ben altri, i lilo a 1 il ri: il lique suscellibile sia dell'uno che dell'altro 1 ggi il coinvºlte i Sy  Pochi esempi, ma quanto basti ad aguzzarlene l'appetito: .... e le giustizial to a sioni in calesine in diverse lor pan li debbono  a re e al rei si nun li, nè si l ruora alcuno muri e o cosi bello e leggiadro, che ustio li', pur intenſe non luiuslidisca e generi sazietà. Varchi. E dunqu su penso che l'osse un re libero di carila, che non è si poco site noti avarizi, e, a lui pia, che li lle le cose ci colle, onde ella di mld l'a, più te, e l'uni, e in. ch ella non la ceca se medesima. Cavalca. .... m. a e la loro si alla lo alla mia che una paroluzza si che la non  si può dire, che fiori si senta o. liocc. ....pei e che mai uomo non mi vuol si sce, e lo parla e che egli non roglia la sia pari udu e, e se ci cruene che... i 13ove..... Mi ss, i disse la donna, il giovane con che alle il laccio non so, ma egli non e un casa uscio si serrate, che come egli il tlocca non s a lui a... I c.percio, che egli non c alcun si o bito, al quale io non ardisca di da ciò cl, bisogna, ne si lui o o zolico che io non annoi bidisca l'ºnº r, il il di ciò che io cori di litrº.il in ii...... ancora che egli non loss mollo chiuti o il dì, ed egli s ci sº in sso il cappuccio in util: li li occhi, non si seppe si, io ci o cali non posso prestamente conosciuto dalla donna - lº no: si p co che oltre a diecimila dobbre non calesse e lº ins, s. capelletto: Messer lo piale, non dil cosi, io non mi onirs se ne tatto e le nè si spesso, che i sempre non mi i colºssi i sa, i n i 'mente di lulli i miei in rili. che io mi ricordassi dal ci, ci e, a qui, in lino a quello che con lº stilo mi sºnº i 80 t. ve mai enti e così ci rendo cedrete coi, niuna spesa lalla si ſnºdº, è si s., lo sa, ne tanto magnifica, che ella non sia di molli, per molli mancatinenti, biasimarla l' º '.e 1,i, il re in guardi, che i cari sia le nulle si lº lui il li) con l rul 'lo alla fase a degli uomini quanto l'ºrº ristº: niuna è si chiut l'ut (' eccci fetil e in la quale non stia oscura, e sconosciutº sºlº l'u n'atrizia ». l', i licli il. - - E la chi potremo noi lidire' più il vero, che da voi, il quale si" riputato sion tanto spendente che in roi non slot onesta mºsso" " si le massaie, tale che non dobbiale ºsserº reputato liberale? ». andolº. si eli, a I, sperar mi ero cºſiº I)i quella ſera la gaietta pelle.; del I n po, la dolce slogionº, Ma non si, che paura non mi dºssº La rista che mi apparre di un lºrº º l)ante. - - - - - i vini campo, fu mai si ben collirottº, che in esso º orticº ". o alcun primo non si l'orossº mescolato fra l'erbe migliori º l' iamme" « Non ci sarà tanto dolce la consolazinoe che prenderete del sºlire,.... che egli non vi debba altresì essere utilissimo il al re... C - sari. (29).« e dilellami di pensare di lei maggiormente, che reca maggio: virtù e maggior ſortezza: e so bene ch'io non potrei tanto mensa, che più non ci avesse da pensare a Caval a.«... e' l dimonio disse: Al mondo non è per cui lo si gr. 1 nel, che I, lali, non gli perdoni, se si converte, ma qualunque uomo si accal.. per I l pºnilºnso o per altro modo, se llio non gli ha misericordi, si e ci rius I., Cavalca. non è si aspra e malatgerole che alcun pur non la les, le i Cav.« non è si magro carallo che alla bietola non rigni in il 1 lo.. S º..... con piacere inci 'dibile del mio stillin, che son d se la trº Sloi (), che per si la lo on i re non si l is 'n lor e il tr..... );...a Io ne ho parecchi esempi ma per dir crro, non son cos: i ſissini: che non possan ricevere latin lo accorcia in n 1 l in I pm la l... li « Qual luogo è si sui grossi nto, che i c. coli non ti tra il ct 1 nel 1: insidie alla loro incut u lui one's là?, S gl, 30« un lento morire di dodici anni, per una penosissimi a: i riti iii: nè tanto leggiera, che quasi sempre non isl ess, in agonia. se tanto il re alle forze della sua carità, che sempi e non in licasse i sei zio di Dio e delle anime n. 13a l'I.« Non istelle o però sempre quiri in Tucuscima fermi si ciºe l'uno e l'altro non iscor esser tal rolla a seminatre e mielere il lle tll re isole di quel contorno ». Bart.« Che se non è mai tanto aspro dolore che il len per non lº distri li ed anco non lo annulli, perchè la prudenza e la costati ai rom l dr G almer in itigare? ». Caro.a Secolo non però tanto di rii li sterile che qualch. n e si ri; i non producesse ». Dav. - « Sicchè bisogna guarda i ri da animo delittº ºlo. perchè alla osti, nazione non è si difficile impresa che non riesca. Fiºr º.a V ero è nondimeno che in questa pati (e di nasconi, si tl riti º gli renne fatto di conseguirlo si interamente che ti º di quello, che fuor che agli occhi di Dio egli pensava essere occill I, r; l uſ gli atll ri. nºn si palesasse ». Dart. – 38 –  NOte  all clrticolo 7. ?S) To II: Ilive e per i 1:1 1: la..... Il Not so.... but that.... Es.: I noi so but that I l l:lve g ancd at rva - sonº l'1: v. l. ll, Willls  ver not so Il 1 l v d... A cºl bu:i tinat i -li si stile  t: 2!) ();: non si u, le motº..... ! ! (r -,, e al I li e !::i ll l: llll rºl, l tall  ll...... o si pºte:to... o tre.... vi il lla  -. v. l i non meno,,, cime VI, ina: qui li a l. egi 12 linette i'a, la cosa e i'altra; I l V i l IV V:) 11 egua i rincari e il pregio di virtù e in nuriero di lei le!. l....., l i i 30 (). li è in ſo..! i; iprimo incis, l' ri: Ni: in It:ogo è si s -::  cin e voi i pl: i non te !, trici 1 e ti.  13  n0n Ciii... (anzi, ma...)  l' vi l' non rli slli gg ad Il col: il liso, ci chi si l i delle in circ venti li e ſi ha - - il l e per le  fornire e c i cl: ssi i: I l. E li ul: ssaggio dei  model i i non cli: « E vi la lo il tg ci li:. spicca il I l. non v li e'  viali ecc. il III il s lis.. l si gli e il solo  cile gialnili: li si riliv li i ll ': 1' ll -: il lassiche,  | Non sº, l l: li lilai i ". I sici in l:il guisa, ma luitino, se  lingua a que” gloriosi.  l:s il de vi: il re ciò e,i lire: si oln in he uscir de  condo pari a me, pole a riti per il che | Il il colport Isse, lanlo è diverso questo modo, non che dall'antico e lui si li l'ente sulla Appo i classici vale a dunque quando non solo, (Illando non solo non. Il Bartoli e parecchi altri sottili investigatori in opera di lingua appuntarono il Vocabolario che definì il non che: Particella e crersalir. e di negazione, e corressero aggiungendo: alcune role sì, alcune colte no ma e del si e del no niuna regola. Io non pretendo crear regole; rife risco l'Osservato e se altri fai assene regola, al sia di lui.Dico adunque che Dante. Doccaccio, Cavalca, 13a Ioli, di altri li grande autorità dànno al non che senso di non solo non quando regge in passato e talora anche il presente del modo congiuntivo: in altri casi vale sempre o quasi sempre non solo.Il Cesari però adopera l'un per l'altro. Forse ch'io inal, apponga o che il valoroso Cesari (lui sgarrasso? Non oserei asseverarlo. Il ma od anzi del secondo inciso ordinariamente non ha luogo di lando. vi è inversione di frase, e però il non che sussegue, non precede, come si farebbe direttamente. Nè per questo torna al non che moderno, che la relazione di non solo non e mai vi si sente ſul lavi, ed è lontano le mille miglia di assumere il torto significato di siccome anche e ancora (C('.Senza inversione di frase può per altro il mal precedere l rrelativo non che, come fecero, Boccaccio. Partoli e tant'altri senza rimerci. Loggi e dimmi se vi ravvisi il non che moderno ! E' affare di ori ginal candore, integrità e vago non pur della frase, ma del peri do ancora, che i moderni non curano affaſ (c, lo bistrattano, e pare che i cciano a chi più lo strazia.(38).  Non che io faccia questo.... ma se roi mi dicesſe ch'io dirorassi nel fuoco, credendori io piacere, mi sarebbe diletto ». Borc.« Non che la mattina, ma qualora il sole era più alto..... ra si poteva (1 ntl (tre ). T30CC.a non che a roi ma a me han contristati gli occhi ! ! ». Bocc. « Di qua, di là, di giù, di su li mena. Nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena ». Dante.a Quanti leggiadri giovani, li quali non ch'altri, ma Gallieno, Ippo crate o Esculapio arrieno giudicati sanissimi..... ». Bocc.« Ed oltre a questo non che alcuna donna, quando fu fatta (la legge ci prestasse giuramento, ma niuna ce ne fù mai chiamata ». Rocc. (30). « Ma non che punto giovasse a rimetterlo in miglior senno, che anzi ne riportò parole disconce e di non liere strapazzo ». Bart. 40'. «... e da questa tanto generosa e salda risposta rimase il buon capi tano si commosso e sì mutato nel cuore, che non che prunlo (tltro dicesse per isrolgere il santo dal suo stabile proponimento, ma egli medesimo determinò di rimanersi, e correr quella medesima fortuna che lui, nulla curando, nè la perdita della sua mare, nè il pericolo della vita ». Bari. «... e non che il desse al ballesimo, ma da indi innanzi cominciò una sanguinosa persecuzione ». I2art.« Sostenne (Socrate, con grandissimo animo la porertà. intanto che, non che egli mai alcun richiedesse per bisogno il quale avesse ma ancora i doni da' grandi uomini offeritegli ricusò m. Rocc. (Comm. sopra la Co media di Dante).  « Li quali piaceri lauto all' una parte ed all'altra aggradirono, che non che l'un dall'alli o aspettasse l'essere in ritato a ciò, anzi a doverci essºre si lot e cct in nl ro l'un atll al! I o, in rilanci.. l occ.() la che il San lo ri in tre line di calci i giù a rompicollo in rati i temi pi di ſtuciulli e il mal dl mi ma che di ragione, ballendo sopra dei sassi a pil del nº iro, poi l' noi in all zza di reano º immaner imiranti, in ton che la ni avvenisse il lor che anzi non mi andarono pur leg gri li ul, li si ºr a nolo di Sai, i rol rol, della promessa, in risibile mi il lit ma il ct - sl n. 1 li s l alti i l. ll. I 3, l.Il Sult 1 io non che si mostrasse il till I N l li li, l.. o si ritirasse in sè i cd 'simi per non lo si ut e r, i ma, ma anzi con sembian Ie e modi d' ui a schiella ci ſia balili e il ct pi e l i tiri i tiri in li, lui lo aggradira, fino a bere per man loro..... l?arl. - - « l' rciorch è c'illi era di sì l in Nsrl rilai, e li e non che egli l'ultrui on le con giustizia vendicasse, anzi in limite con valup eroli, illà a lui fattene Nosl e ne rai. I 3 cc.«.... e questo set persi sì con la meml, la e, che quasi mini no, non che il sapesse, ma nè suspicat, a o lº c.Ma con ciò non che li domasse che anzi maggio in ente gli inasprì: itl che.... ». I3:art.« Ma non che cessasse con ciò la l. 1, in e la suoi i rallelli, che anzi maggiormente le crebbe a 13ari.a Le mie scrilure. e de nei passati, allora e poi le lemmi occulle rinchiuse, le quali non che ella potess lega re nè ancora rederle º, IP:ulldolf.« Ma, non che il corno nasca egli non se ne put e nº pedala nè ombra o. l 31 t ('.a... se ce li rai in corte di lotti si e' reale la scellerata e lorda rila dº coi lipi, poi, non che, gli ºli (il malco si juta la cris' il mio, ma s', gli lossº cºn i si tro la sen-a fell, giudeo si ritornerebbe l'oce.illiri o il rili, e scorallo, non che se ne adontasse. I remi il mulo lui il ſì dal tempio per nascondersi doc, chessia de Cristo che lo minacciava, (es. 41).e nessun alito di le ter, di luci costume, nè di sentimento, non che gentile ma nè un erno si è mai potuto appiccare in Intel srl rigºrio animo v (s.  Il salarmino cielo, non che gli altri, piorera a noi ", il ſiorno ch'elli nacquero. Filoe. (ſ2.Non che polare è cosa perniciosissima salire sopra i lrulli e scull picciarli molli anazzosi, o auando è nebbia che gli fa sdºrnire º, l)av. (ppena el io a dissi di crederlo non che li scriverlo ». Bocr'. 13', si r, tutti di tingere a tale alle ot, ch' minali ali alberi non che a ritm-i le bicicl, o. Segn (1 ).« Tutto 'I I, in po di cita, che mi può dare ancor let maltra, ſia pocº a rammemorare, non che a rendere all'Accademici lo ſtraziº che io debbº ". T):) V.« I)i cosa, che egli roglia, ma io dico si' rolesse l'asin nostro, non ch' altro, non gli sia detto di no ». Bocc. (ſf).« Madonna, se voi mi date una camicia io mi ſtellerò nel fuoco non ch' altro ». BOCC. «.... e sfacciati più ancor dell'antico Cam non dubitate per beffa nudar chi dorme non che in ritare di molti a mirarne la nudità º ). Sogn. «.1 dunque, come ha rerun di roi gran premura di assicurare l'eterna sua salvazione, mentre passeranno i dì in lieri, non che le notti, senza che di ciò mai ri ricorra alla mente un leggier fantasma? ». Segn. (46). «... non sorrenendoli prima, per sommo loro dispregio neppur di un salmo, non che di alcun più onorevole funerale ». Segn.«... al sentirsi rimbombare quellº ch m ! nella mente, Don Abbondio non che pensare a trasgredire una tal legge si pentiva anche dell'aver ciarlato con Perpetua ». Manzoni. (47).  NOte e Aggiunte  all'Articolo 13.  (38) Non sarai poi di si corta vista che non ti avvegga di equivoca zione, a volere, come fanno certuni, sempre e non altro vedere e inten dere che il ragionato modo non che, sol che si trovi un che accanto alla particella non. Il seguente esempio ſe ne chiarisca: « Come, disse il ge « loso, non dicesti così e cosi al prete che ti confesso? La donna disse: « Non che egli te l'abbia ridello, Irla ogli basterebbe se tu fossi stato « presente: Inai si che io gliele dissi: ». I3occ. Separa quel non dal che, intendilo nel senso di non già che ecc., o altro di simile, e la frase è chiarissima. Ma col senso (li nonche lì lì le cavi alcun costrutto.  (39) Traduci: non solamente niuna donna ci prestò giuramento. Ina. Poni mente costrutto egualissimo dol seguente esempio: « Il re udendo « questo e rendendosi certo che IRuggeri il ver disse, non solamente che « egli a peggio dover operare procedesse, ma di ciò che fatto avea gl'in crebbe ». I30 ('. cioè: non solamente non procedè a peggior operare, ma.... E chi dubitare a dunque che in costrutli si fatti il non che ha senso di non solamente che, e l'uno e l'altro, come che altra voce non segua che comunque il neghi, vaga e breve forma avversativa e di ne gazione? Osserva come in molti degli esempi (e potrei allegarne a centinaia) che fanno seguito a questo primo del Boccaccio il non che ha senso di non solo non, o come a tutti codesti non che risponde un'im perfetto o presente congiuntivo, il quale solo che al non che si sostituisca il non solo non, torna al passato o presente indicativo. Ma quanto è migliore quel costruito! Ammira stretta commessura e soavità di tornio! Traduci come sopra: non solo non giovò, e così nei seguenti esempi.41) In questo esempio del Cesari non vi senti forse quel vigore che nei precedenti. Vuoi saperlo? Manca il ma od il che anzi come suol fare il Bar (li. Inseriscilo il fatti ed oti leni subito un tornio COI'l'ettis simo, e al tutto col fornire a quello costan.emente adoperato dal Bartoli e dal I3Occaccio.(2) Non t'illuda la costruzione, il vertisei e trovi sempre il non che il discorso: o Non che gli altri, ma il saturnino cielo pioveva a InOre ». E di siffatti modi a migliaia ne troverai soluadernando i classici, di ogni età e di ogni sfile. (43) Inversione: non che di scriverlo ma nè di crederlo. 44) Invers, come sopra, e così negli esempi (le seguono (5) Qui piacque al liocc. di esprimerlo il ma non ostante l'inver. sione. Noterai di quesio e del seguente esempio la naniera non ch'altro, la quale pare che andasse assai all'animo al nostro valente oratore I3arbieri. L'ha sempre sulla penna e ben dieci o dodici volte la trovi in una sola predica. Vale: non solo, checchessia d'altro che voi pensi nte, ma perfino....(6) Se ti sorge dubbio intorno al senso di quel non che, non hai che a consultare il contes, e saprai subito se vale: siccome anche, oppure non solo, l'arla di coloro che neppur lesti si sentono una a sol volta rapire violentemente i pensieri a Dio ».(7) l'8occaccio, l)a Valnzali e lº arti li avrebbero 'se, coerentemento all'ossorvato, costruita la frase un po' diversamente. « Al sentirsi rim « bombaro (Illell'ehm' nella mente, l)on \bbondio, non che pensasse a « trasgredire una tal leg e ma si pentiva persino del'aver ciarlato con « IPerpetua ». I3ada veli' che non ho detto con ciò che sia errato o men bello il poriodo del Vlanzoni. l'olga il cielo ch'io a ridisca di censurare od appuntare comecchessia quelle troppo care, adora le pagine. SE NON SE NON CHE  SE NON FOSSE (che, giù)  forli e li dire costantemente risale dagli antichi e buoni scrittori, ed oggi invece s degli sani enl e neglelle e al lullo smesse, se non che ad alcuni oratori, specialmente da chiesa, pare di rammentarsene profferendo assai volle un solenne se non che, ma a grande sproposito, e insignificato di ma che non l' ha. (48;.40) Sulla penna a classici le dette forme hanno ben altro valore e vo gliono dire: se non fosse stato che, a meno che, lollo che, salvo se, salvo che, altrimenti che.  Il Bartoli ragionando di questa ed altre sorniglianti maniere, cui il periodo deve nesso, brevità e leggiadria | IIIa italiana, soggiunge: (((“ () - Inuti Ilie poi abbiano a servirvi, o sol per cognizione o ancora, per uso ». Grazie dell'avvertimento, ma noi seguiremo più che le parole il suo e Sempio.  L' Asia del Bartoli è uno stupendo velluto contesto e lavorato ad opera di ricami, Irapunti e compassi di così fa la gioielli,  º le sullò tali Nso e se non che ci lui lo sl 1 o, e ralsesi del calore, ella ne ſacerat mille pezzi. Fiorenz.º (i rotn cosa è slitta col slot. e se non che la lati della Iu, io non la ('re' le roi,. I 'i rel/.()nde non è lui in pºi lati e in sè a lijello il non di rerlo, nè di colpa (trerne l l'oppo; se non fosse già che atll li desse o all' uno o all'altro la cagione, la quale....?... Passav« Il miglior piacere, e 'l più sano è il ſitcºre boccone, o quasi, peroc ch è tutte le menº brut clen I l o sl i rino, nel loro luogo: se non fosse già che la persont a resse losso o asmat. o altro in ſei mili, che lo facesse ambascia, o noja lo slar boccone. Passav.« E se non fosse che egli temera del Zeppa egli arrebbe della alla moglie una gran rillatnici così rinchiuso con e era ». I3oce.a e se non fosse ch'io non coglio mostratrº.... io direi che dimani...». I 3 co.a e se non fosse ch' egli era giovane, e sopra i remira il caldo, eſili arrebbe a rulo troppo a sostenere ». Dolci -.« E arrei gridato, se non che egli, che ancor dentro non era, mi chiese mercè per Dio e per roi ». Tocc.« E se non che di tutti un poco riene del caprino, troppo sarebbe più piacevole il pianto loro ». Rocc. (49.« Cosa che non fosse mai stata redula, non ri crederei io sapere in segnare, se ciò non fosser già starnuti ». Rocc. (traduci: a meno che si trattasso di....).« Era la terra per guastarsi se non fosserò i Lucchesi, che rennero in Firori: o yo. G. Vill.« Se non fosse il soccorso, che il nostro Comune ri mandò così Sit bito. la città di Rologna era perduta per la Chiesa. G. Vill.« Se non fosse il rifugio della terra, pochi ne sarebbero scampali ». (; Vill. (5ſ).« E se non fosse che i Fiorentini ci mandarono inconta nºn le lorº ambasciatori,.... Iologna era l'ulta guasta ». M. Vill.«... e niuno seppe mai il fallo suo, se non ch'ella il confessò in peni lenzia al prete, dicendo la cagione e 'l processo del sito isriamento, e la grazia ricevuta m. Passav.« Queste nuove cotanto felici fecero alzare al Saverio le mani al cielo, e piangere d'allegrezza, poichè gli giunsero agli orecchi colà nella costa di Comorin, dore laticara nelle opere che di sopra contammo: e se non che Tuiri (tre a presente alla mano una troppa gran messe d'anime che rac cogliera, sarebbe incontamente ilo a Celebes a farvi grande quella piccola cristiani di m. I3art.  º -..... baluardi non commessi come oggidi nelle nostre fortezze, con (tl di cortina fra mezzo, ma srelli e isolati, se non quanto cerli pomli vanno (i con il nicare il passo della gola dell'uno, a quella dell'altro ». Bart.  Era donna di gran nascimento e ricchissima, se non quanto i Bonzi l'acerano a poco a poco smunta fino a spolparla ». Bart. 51).  « E non sarebbe rimaso riro capo di loro, se non che gilardo l'armi e gridando mercè, rende ono i legni rinti e sè schiari ». I3art.  (.... e l'arrebbon linito, se non che un di loro gridò che il serbassero (Il riscatto ». I3art.  º - - - - - -. ri diò in altra parte con la nla foga, che del tutto arenò: e se non che tagliarono tosto da piè l'albero della rela maestra, agli spessi e gran colpi che dara, coll'alzarsi e 'l calar della poppa mobile e ondeg giante, si aprira » lºart.  « Egli (un cerlo 13onzo tanto più infuriara e ne faceva con lulli alle peggiori: finchè il re il mandò cacciare come un ribaldo fuori di palagio. e disse: che se non che egli era in quell'abito di religioso, a poco si ter rebbe di fargli spiccar la testa dal busto ». I3art.  NOte  all'articolo 1 f.  (48). Quante vol. e si vedono questi ora Iori riprender fiato, mutar sembiante o proseguire, con vi quando più grave e quando più di messa, e lentamente, articolando un solenne: Se non che! lo non so di ninno scrittore antico e se del più recenti almeno puro e corre.to, che adoperasse mai il se non che in quella forma e senso che in certi dettati o a dir meglio imbratti moderni.(49). Da questi esempi del Boccaccio si vede che gli era tutt'uno il se non che e il se non fosse che, ed usava indifferentemente l'un per altro. (50). Pare che a G. Vill. sapesse meglio il costruito diretto e senza la congiunzione che, il quale sol che s'inverta o s'inserisca un verbo torlìa (Vidolltelnonte all'anzidetto: « Se non fosse che 'l nostro Comune « Imandò così sul [o il Soccorso occº. ».(51). Nota bella elissi: se non fosse stato che i Bonzi la impoverirono a segno che.... oppure: a meno che ella s'impoverì di tanto di quanto potevano sul suo cuore i Bonzi i quali la smunsero fino a.... NON  Stranissimo e fuor d'ogni regola positiva, come che di buona, anzi  ottima lega parve all'autorevolissimo Bartoli l'uso di questa particella. « Però che, dicº egli, considerandola secondo la natura e la forza che ha di negare e distruggere quello a che s'appicca, pare che contradica, dove talvolta, se nulla opera. Inaggiormente afferma; e sol un buon orecchio sa dirci quando vi stia bene e quando no ».  Così avvisa il Bartoli, e con lui ogni allro scrittore cui occorse di ragionarne. Ma io non m'acquelai e volli non per tanto esaminarla e stu diarvi dentro, e vederla a punta di ragione, intenderne cioè e discernerne il come, quando e perchè. E non fu fatica inutile, parini anzi averla colta che nulla più. Tre costantissime osservazioni mi vennero fatte che ogni caso comprendono del non che non nega.  Non oso erigerle a norma o regola di eleganza. Menzionerolle e me ne passo.  a). La congiunzione salvo, salvo se, salvo che, a meno che e simili,  e l'ammonizione altresì di guardia, cautela, accortezza, vigilanza che cosa non si faccia, non si dica o l avvenga, che poi dispiaccia o comunque metta male, è costantemente susseguita, –- simile al se garder dei Francesi – dalla particella non.  b, che, commessura di comparazione risolvibile nel suo equiva. lente: di quello che, è susseguito dal non sempre che nel primo inciso non vi abbia non od altra voce negativa o comunque avversativa. In caso contrario non ha mai non che vi aderisca. – Appunto come avviene del que dei Francesi, nesso comparativo or seguito or nò dal ne senza il pas. – (55).  c). L'inciso dipondente dai verbi: temere, dubitare, sospettare, suspi care, ed anche dalle voci: per timore, paura, e simili – espresse o sol tintese – il quale si governa comunemente a guida di che o che non, solº reggosi e sta elegantemente senza il che pure a nodo o tramezzo della particella non, ma sì che il soggetto tramezzi e l'una e l'altro.  Seguono gli esempi divisati, conformemente al ragionato, in tre dif ferenti gruppi.  « La casa mia non è troppo grande, e perciò esser non vi si potrebbe salvo chi non volesse starvi a modo di mulolo, senza far mollo o zillo alcuno ». BOCC.  « salvo se i Bonzi non levassero popolo e li ci allizzassero contro ». Bart. “ Una cosa vi ricordo, che cost, che io ei dica. voi vi guardiate di non dire ad alcuna persona. Iº occ.º l'irºgli da parte mia, che si guardi di non arer ll’oppo cre  - dilo o di non credere alle lavole di Giannotto,  l3 cc. º l Ittºsto la rete, che coi diciate bene i desideri l' Nl li, e guardatevi che non ri renisse nominato un po' il n till I...... 13,.  « e sta bene accorto che egli non li l'ºnºs le luci ni tdosso o locc.  º e lì la loro lo luna in quello che la olerano più la col e vole, che ('SSi medesimi non dimandavano,. 13,ce.“ Ma lullo al rinculi addicenne che ella arrivato non avea ». Boce. º tºndo più animo che a sci co non si appartenera, Bocc. º... Se non ci chi è di rim alo e pli lori che non s no io o l?art. (.... che io ho l'oro lo donna da molto piu che tu non se', che meglio mi ha conosciuto che tu non laces, 13(Compagni, non ci lui bale, l'opera sia altrimenti che voi non pen Sale ». DOcc.« Se io vi polºssi più esser la nu lui che a non sono, la ulo più ri strei, (1tl am lo più cara cosa, che non son io mi i sensi. I ne mi rende le m. 130ce. « rispose che per più spazio che non ha da l a iulino al cielo era fuoco ardente ». Passav.« Assai volte già ne potete aver recluta i clico, delli e di scacchi troppo più cari che io non sono. l o e... più assai ce n'erano, e li oppo più belle che queste non sono ». IB ) c.« Voi m'ono ale assai più che non docerale una persona non cono sciula e di sì poco alla re ci ne son io, (aro.« Ma troppo altro gli incolse che non avere di risalo. Ces. « Perchè dunque sì rall risluti ri, che gli altri facciano la m lo bene di più che non ſale voi: e però inquiela, li deriderli, disturbarli? ». Segn. « Ben conosco per me medesimo la grave: sa del mio pericolo mag giore ancor che non di le...... Segm.« Forse a rete voi li rido il rosli o pello la più frequenti percolimenti di pietra, che non portare nel suo slam pali irolamo. Segn. l « Nelle donne è grandissimo tre alimento il set persi guardare del prendersi dello amore di maggio e uomo ch'ella non è o. Boce.  « Dubitando non ella confessasse cosa, per la quale.... ». lRocc. «.... temette non per isciagura gli renisse smarrita la via ». Boce. « I)i che egli prese sospetto non così fosse come era ». 13occ. « Chi vuol fa, e la cosa ancor non rielala, la fa con timore non ella si vieti ». Davanz.  "Forte temeva, non forse di questo alcun s'accorgesse ». Bocc. “.... i quali dubitavan forte non Ser Giappelletto gl'inganasse ». Boce. “ Di che Alessandro si maravigliò ſorte e dubito non forse quegli da disonesto amore preso, si moresse a così l'attamente toccarlo ». Doce. «... sospettando non Cesare gli togliesse lo stato ». Davanz.« Tenealo a bada (Cesare Ienea a bada il Cardinal Polo ch' era ancora al lago di Garda) perchè le nozze di Filippo si compiessero prima che ('gli arrivasse, temendo non la sua presenza le intorbidasse ». I)avanz. « La quale udendo questo, temendo non lorse le donne per troppa lrella tanto l'uscio sospignessero che s'aprisse..... ». I3occ.(0r questo gli dava lroppo gran pena: conciossiachè egli temeva non lorse egli losse caduto in quella durezza di cuore.... ». Cesari. « tanto i santi sono teneri e sfiduciati d'ogni lor desiderio, non forse la natura ne gabelli qualche cosa sottº inteso: per timore che... o temendo mon....) ». Bart.« Ma gli parve di soprastare alcun poco non forse la troppa sua sollecitudine gli noiasse (tenendo non forse....) ». Cesari. «... presso in che di letizia non morì ». Barl. « Io temo non colui m'abbia ris lo ). I 30cc. -  NOte  all'articolo 18,  (55). A prova di quanto atºserisco non basta si alleghino esempi col nom, questi confermano il primo caso, ma occorre anche mostrare come il che del secondo inciso allora soltanto va senza il non che nel primo inciso si trova un non o altra forma comunque avversativa.Eccone però un saggio: «..tutti presti, tutti pronti ad ogni vostro « piacere verranno nè più (più tempo) staranno che a voi aggradi». Bocc. « Conservate il vostro, non ispendete più che portino le vostre facoltà» Pandolf«.... nè avete voi più desiderio di udirmi, che io ho di farvi mas Sai ». Pandolf.Alla parte 2. articolo 11 si ragiona tra l'altre cose anche di questo che a valore di: di quello che, e si allegano molti altri esempi con o senza non in conformità a quello che qui mi avviso. E' poi tanto vero che, in locuzioni si fatte, cotesto non l'una o l'altra volta ci deve essere, che ove al Boccaccio, non sapeva buono (come che di ragion ci stesse, ma per suono forse men grato che all'orecchio ne veniva) la seconda volta, no ! lasciava la prima avvegna che non ci avesse luogo: « E chi negherà questo i contorto ) quantunque egli si « sia, non molto più alle vaghe donne, che agli uomini, convenirsi dona « re?» (In cambio di: molto più alle vaghe donne che non agli uomini...)  Alcune altre voci  il cui valore ed uso vario secol ndo lo scriverc clegli arm tichi ed anche de 1 migliori nºn oderrni, reca a talora al l'assetto di nuove e vaghe fornme, così che al periodo non nel no che alla frase, e vicle I nza 1 ne vierne, garbo e sapore.  Nel precedente capitolo allegai ed illustrai maniere – particelle, compagini e tramezzi – di una forma e ragione tulla interna, coesiva  dirò così e inerente alla struttura e nervatura del periodo. Ora vuolsi invece studiare e prelibare il grato di tal'altre voci, le quali quantunque rechino un senso delerminato ed adoperino sull'esteriore soltanto del pe riodo, son però tali e tal collocale che a lasciarle, sostituirne altre o co munque tramutarle sconcerebbe e n'anderebbe di quel candore ed ele ganza che è sol retaggio della lingua antica.Dada neh ! che nel commendare che farò questa e quella maniera, non è mia intenzione che tu poi la usi a tutto pasto, come fanno certi scrittori i quali si danno l'aria di purissimi imitatori del trecento, dove non ne sono, a dir il vero, che odiosi conl raffattori e lo mettono così in discre dito anche ai meno avversi. Questi colali non sanno far alll'o che infar cire i loro dettati di maniere solo antiche e male accozzale.Tienlo ben mente, non è scrillo sì elegante che non sia anche semi plice e spontaneo, nè può esser mai bellezza quella che si distacca ed esce comechessia di euritmia.Più che la teoria siati adunque criterio e guida un buon orecchio, conformato però – mercè di lungo studio e severo - al ſorbito perio dare soavissimo e grave dei nostri classici.  ARTICOLO 4  MISSfil  Delle novità che ci venite a raccontare! Chi non sa degli italiani, per idiota che il vogliate, che la voce assai è altrettale che molto? Con buona pace vostra, risponderei a chiunque fosse quel benigno che volesse mai censurarmi ed opporre ch'io ridico cose molissime, non è il valore  4 soltanto, ma l'uso altresì di alcune voci e particelle, anzi questo più che altro ch'io mi proposi di ragionare. Mai, sol rarissime volte, leggendo un qualunque moderno di mezza inta mi venne scontrato l'avverbio ed anche aggettivo assai al locato e si vago che negli esempi, fra mille e mille, che quivi appresso.Quale aumentativo (sehr, ti s. very di aggettivo e di avverbio, si che l'adopera e forse l roppo, anche il moderno, ma giammai, o quasi mai. accoppiato a sostantivo, o sostantivo egli medesimo in ogni genere e numero come che invarialbile.E quant'altri e più minuti scandagli restano tuttavia a fare prima che e siamo rivocale e ristorale le avite bellezze dell'italico periodare ! VIIro che piali e ciance! Sollecitiamo a che la via lunga ne sospinge ». (71).  E disse parole assai a Paganino le quali non montarono un frullo ». l 30 (”.Ed assai n'e' uno che nella strada pubblica o di dì o di molle lini a mo. l 3occº.senza le rostre parole, mi hanno gli effetti assai dimostrato delia ros rai bene colenza n. 13 cc....Spero di tre e assai di buon lempo con le co. lioco. Entrati in ragionamento della valle delle donne, assai di bene e di lode ne dissero o. I 3 ' ('.... applicò subito l'animo a guadagna lo, e gli si dia a dire assai delle cose da farlo ra eredere della sua cecità lioco. Il I occotccio l'usò delle volte assai. I 3arl. «... ed a Luigi non ebbe assai delle volte questo rispello riguardo) º. Cesari.« Minuzzatolo e messori di buone spezie assai, ne fece un manicº retto troppo buono ». Bocc.a La prima persecuzione ſu mossa alla Religione essendo anche tiri assai degli apostoli ». Ces.« Nè vi stelle guari che egli ride assai da discoslo ritornare il Car pignat con assai allegra faccia ». Fiorenz.In compagnia di assai numero di soldati per andare di danni il l live) lo. (iiamb.... la mia guardia ne prende, e si stretta la lenca, che forse assai sºn di quegli, che a capital pena son dannati, che non sono da prigionieri con lan la guardia serrati ». Bocr'. ()r chi sarebbe quella sì ci udele Ch'a rendo un damerino si d'assai, Non direntasse dolce come il miele? ». Lorenzo de' Medici (73). E oltre a ciò rireggiamo (acciocch'io laccia, per mºno ºrgognº di noi, i ghiottoni, i tarermieri e gli altri di simile lordura disonesti uomini assai, i quali.... essendo buoni uomini repulati dagli ignoranti, (tl lim0mº di sì gran legno son posti ». Bocº. t. A rispondere, assai ragioni vengono prontissime ». Bocc. «..... nel quale erano perle mai simili non vedute, con altre care pietre assai ). Bocc.« Assai sono li quali essendo stoltissimi, maestri si lanno degli altri e castigatori ». Bocc.«... dove molti dei nostri irali e d'altre religioni trovai assai ). Bocc. «... che assai faccenda ce ne troveremº tuttavia ). Ces.  NOte  all'articolo 4  (71) Della frase: essere assai a checchessia (per basilare a,...) che l'ha delle volte assai e il Boccaccio e il Cav. e loro più scelti imitatori, parlerassi ad altro luogo.  (72) Nota il genitivo. La voce assai non è qui avverbio Ina sostantivo oggetto, e va unito col complemento della vostra ecc. La forma obbligua assai di, del.... suona talora Ineglio che la diretta. Osservala negli  esempi seguenti. Conf.: tanto tanto di... alquanto di...). (73). Uomo d'assai significa valoroso.  NUIIIII, NIENTE NONNUlillſ, NUlill0, NIUN0 ecc.  Negli esempi che senza più qui allego – alcuni dei moltissimi che ho raccolto, e recanti ciascuno l'una o l'altra delle proposte voci – vuolsi singolarmente notare:  a) come le particelle negativo niente, nullo, nulla, niuno escano ta lora, ed anche elegantemente dai confini che il vocabolario loro inesora bilmente prescrive e si lasciano governare, sol che l'orecchio e la cosa il consenta, a maniera di aggettivo e sostantivo;  b) come in nostra lingua il niente e il nulla, oppure non nulla, (simili al rien dei francesi) si spendono per qualche cosa, e il niuno e il nulla pur vagliano per alcuno. Alcuni Grammatici ne fecero regola ch'io non so come a tanti e sì autorevoli esempi, che dimostrano il contrario, non sia mai stata impu gnata e ripudiata. « Quando si usano, scrive tra l'altri il Corticelli, per « via di dimandare, di ricercare, o di dubitare, oppure con la negazione « o particella senza, hanno senso affermativo... Sì che alcuni esempi ve n ha, ma ve n'ha allresì in cui le delle voci affermano e tuttavia non negazione, non senza non dubbio o dimanda comechessia.  Leggili questi esempi, intendili, assaporali, e sii certo che come il senso avrai libero e sano, questo, più che niun'altra norma, ti guiderà sicuro alla scelta convenevole di questa o quella voce ed anche in quella forma e ragione che nei libri mastri di nostra lingua. .... invincibili dicendo i romani cui nulla ſorza vincea ». Dav. .... si stava così a spellando senza piegare a nulla parte ».  a Inall'ulfizio naturale delle nozze nulla ricerca impedimento all'eser cizio libero delle più nobili sue operazioni ». Bart.  «... in tal modo che nullo più mai ardito fosse d'andare all'eremo Cav.  « Se nulla potenza a reste, bastava uno ad uccidermi ». Cav.  senza molti segni che si nolano, com' egli si ha niente indizio della cosa, l'iel'eliz. .... di subito si rivolse al sasso brancolando con le mani se a cosa nessuna si potesse appigliare ». Cav.  1 llora disse la 13adessa: se tu hai a disporre niun luo l'alto, o l'ºro se ruoi pensa e nulla di questa tua fanciulla, pensanº losto, impercioc ch º....... (.av.  Quando la mia opinione resti denudata e senza ippoggio di ragion nessuna...... o. Martelli.  Ed a ogni modo è, se non maggior brºne, minor male pendere in questo caso, anzi nel troppo che nel poco, acciò transi più tosto alcuna cosa che ne manchi nessuna e. Varchi.  non intendo però di quella lunghezza asiatica fastidiosa, della quale fu ripreso Galeno, ma di quella di Cicerone, al quale non si poteri aggiungere cosa nessuna, come a Demostene cosa nessuna lerare si po le ru m. Varchi.  Se nulla ri cal della nostra amicizia abbia le compassione alla mia miseria n. Fiorellº.  tssaggiare qua e là un nonnulla di... ». Bocc.  a... alla quale (allezioncella) mi sento attaccato un nonnulla ». Ces. “ e se li hai nulla a lare con lei tornerai domani e non ci far questa Seccaggine stanotte ». Bocc. « Ciascuno che ha niente d'intendimento ». Passav. 82. « remuta meno l'acqua e gli uomini e il cammello, affogarano di sºlº, º cºrcando d' intorno se niente d'acqua trovassero, e non trovando t'enº, -1 mlonio..... ». Cav.“ Su bilanente corsi a cercarmi il lato se niente (qualche cosa) v'avessi ». Docc. « Potrebb'egli essere ch' io a ressi nulla? o I3oce. “ Gli si fece incontro e salutandolo il domandò s'egli si sentisse niente ). I30cc.(Come noi facciam nulla nulla, e non hannº allro in bocca: quel l'allra lacera e quell'altra diceva.... ». Fier.º... º forſe nºn lº ſa resistenza al nemico, giammai in niun modo acconsentendogli acciocchi il rinca, e poi del tuo sposo (G. c. possi essere coron (tl (1, peroco lº 'gli il nemico e le bole, come ſu uno, a chi ardita in en le se ne fa brile, e anche fori come leone a chi in nulla nulla gli con sente ». Cav.« Non perciò a me si mostra ragione che nulla basli a derogare l'autorità e la ſede o. I3ari.«... e per sangue e per rilli d'animo superiore ad ogni interesse, che punto nulla sentisse del basso, non che, come questo dell'empio, Bart. « Mostrare se egli ralesse nulla ». I3occ.... ri potr questa scusa legittima, scusa sa ria, o non piuttosto una scusa che se vai nulla prorerebbe anche che non dovreste coltivare i ro stri poderi con lanta diligenza, che non... ». Segn.« al quale io debbo quel poco ch'io raglio nel predicare, se nulla raglio ». Segn.« Vecchi che, perdute le gambe, pare ram sempre pronti, chi nulla nulla gli aizasse. a digrignar le gengive ». Manz.« Se nulla può sull'animo rostro la voce della ragione, sia le religioso, perchè religione e ragione è tutt'uno ». Tomm.« per la qual cosa furono tutte le castella dei baroni tolte ad Ales sandro, nè alcun' altra rendita era che di niente gli rispondesse » Rocc. (83). « Ed arrisandosi che fatto non gli verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli disse.... ». Docc.« Trorossi in Milano niuno che contradicesse alla potestade? ». No Vellino antico.«.... e se egli ce n'è niuno che voglia metter su una cena a doverla dare... ». Bocc.«... ma se nessuno di quelli che, o si burlassero del fatto tito, o... ». Fier.«.... e dovunque sapeva che niuno cristiano adorasse Cristo, il fa ceva pigliare e mettere in prigione.... ». Cav.« egli sarebbe necessario che tu li guardassi da una cosa: e questo si è, che se nessuno ti domandasse di qualche cosa, che lui per niente non rispondessi a persona, ma... ». Bocc. (84). NOte  all'articolo 9  S?, voleva ci lir qualche cosa, alcun che di..... e così il niente e nulla di tutti gli I tri es IIIp di Iu -! IIIedesimio gruppo S3). Il niente d quest, i del s..: 1: es  n i  I Il tv l':la a in l'il llll tiltra II la lllera della si sºsi V, niente, ed i ll Il..:ll (Ill. ll ilìtelis IV, di negazi rile, si inile all'avverbi, punto del N. edente. Torna sottoso pra alle forme; un menomc olle, in n in mo,do ive Iles Wegs, iIn gering S[.(ºll ((''.E spaurita e sbig || 1o per le pelle e per gli gravi tormenti che e aveva veduti sostenere a per at ri nell'altra v.a, la rendogli i parenti  e gli amici carezze e le sta, non si ra! grava niente ». Pass. «....il quale l'est e. Irle lº rili la si vide i pescatori adosso, salito  e a galla, senza Inlli versi niente, mostrando l'esser in ort, tu preso ». Fier'.« Niente avevano sonno o pensiero d'andarsi a riposare in sul « letto, niente, vevano voglia d'esser consola | I, quando vedevano, () a pensavano che la infinita carita di I) o aveva dato il suo figliuolo a a patire tante pene e tale morte senza niun peccatº o colpa sua». Cav  Si avverſa, si rive il Pil ti, che questo niente in sentimento di non) quando si usa senza il non si mette piu comunemente avanti il verbo, e quando si unisce col non si pospone al verbo.  (84). No.a anche qui la maniera per niente in quel senso che nella nota precedente.  ARTICOLO 21  IIITRI (che) – filiIR0 (che) – AllTRIMENTI (che)  Quan! inque il significato e l'impiego di queste tre voci a base di una medesima radice e a governo di un comune valore, poichè in ognuna vi senti con prevalenza l'allributo allro cioè altra persona, allra cosa, altro modo non sia cosa lanlo singolare e peregrina che anche una penna volgare talvolta non ne usi, tuttavia la maniera di usarne appo i classici è sì diversa e molteplice, e indi anche il vago e vario foggial' della frase sì notevole e commendevole, che credo ſarò cosa non meno grata che utile a dirne alcunchè partitamente, e profferirne di ciascuna e di ogni uso distintamente alcuni esempi.a). Altri o altrui (non altro, che è fallo) posto assolutamente è pronome, e suona quanto: allr'uomo, altra persona, un altro, uno, alcu mo, chicchessia. Si trova appo i classici tanto in caso retto che obliquo.  « Molto dee indurre a dolore o al dispiacere del peccalo, considerando che l'anima è lavata e purificata nel sangue di G. C'. e altri l'abbia im brattata e lorda nella bruttura dei peccati ». Passav.« Per non fidarmi ad altri, io medesimo tel son renulo a significare ». I30cc'.« Sentendo la reint, che lº milia della sua morella, s'era (le liberala, e' che ad altri non resta rai (t (lire.... ». I30cc. « Il che la donna non da lui, ma da altri sentì ). I30(''. «... in tanto che a senno di minima persona rolea fati e alcuna cosa, nè altri far la colera a suo m. Bocc.«. (ndiamo con esso lui a Itomai ad impetrare....: ma ciò non si ritolº con altrui ragionare ». Bocc. « Oh quanto a me tarda che altri qui giunga ! ». Dante. « Irrere pertugio dentro da la muda La qual per me ha 'l litol della fame. E 'n che con rien che ancor ch'altri si chiuda, Dante.« La confessione per la quale altri si rappresenta a quegli che... ». Passa V.a... non solamente i peccati veniali, ma esiandio i mortali i quali altrui (tresse al lutto dimentica li ). Passa V.« Il secondo modo, come si dee studiare, e cercare la divina sciens(1. si è innocentemente, cioè a dire, che altrui riva santa mente ». L'assav. « Si restiemo una cotta, che non si potea reslire senza aiuto di altri. Vill.« Non hanno altro mestiere che di pescare altri perle, altri pesce p. 3a l't.a... che per accorto e sottile intelletto che altri abbia mai non ne giunge al chiaro ». Bart.« Quanto altri più sa della lingua ben ripresa nelle sue radici lºnſo più va ritenuto in condannare ». Bari.... nè teme punto ciò che altri di lei dirà. Segn.... e partirane con quel disprezzo che altri fa delle cose sogge e della bruttura ». Ces.« Egli mi pare, che niuna persona, la quale abbia alcun polso, º dore possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimast. altri che noi n. 13 del. Inverti e vi riconosci il ragionato altri: Egli mi pare che altri clº noi ci sia rimaso, il quale.... b). ll i clº, altro che vagliono entrambi fuor che, ma sì che altri che non si riferisce che a persone e torna al dire: altruomo, qualunque alla prºsolia che..... ed altro che ad altra cosa qualsiasi. Questo altro, (illº che, in significato di altrimenti, in altra maniera... che, ecc., è una di quelle forme che andavano assai all'animo al valoroso Bartoli, e l'usa Spessissimo in Inel miracolo di facondia che è la Storia dell'Asia. Ma os serva come e con quanta grazia:  Io non so potersi dire di... altro che bene o. E altrove: « Ma poichè º il videro felino di non conceder la disputa altro che a questi patti, sel presero in pazienza ed accellarono. Traduci: non in altra forma che. “ E ancora: « E perciocchè quivi non era per rimanere altro che inutil mente, gli ispirò al cuore di andarsene al Meaco o, ecc. ecc. che ad allegarli tutti codesti esempi non ne verrei a capo in parecchie centinaia di migliaia.  Al lllllo simile a questi luoghi del Bartoli è l'altro del Bocc.: « non º avendo avuto in quello convif [o) cosa altro che laudevole o: e altrove: (AV ea grandissima vergogna, quando uno dei suoi strumenti fosse altro che falso Irovalo ». Nè guari dissimile quel del Davanzati: « Con gente « sì accagna, crudele e superba puoss'egli altro che mantener libertà o « morire? ». ſar al Ira cosa).  Bammento l'intercalare non chi alti o, di cui si è ragionato al Capo Secondo - Articolo 13, e piacermi ancora menzionare il modo: senz'altro..., che opplre, e talvolta anche rileglio: senza... altro che: « senza amici altro che di mondo o invece di senza all i amici che...: « senza famiglia allro che bastarda o, o senza affelli altro che brutali o ecc.. IBart). Ed oltre a questo anche il seguente, gli alissimo: niuno, nessuno, reruno... altro che....: « aspirando a niun fine all ro che nobile ». « Portatovi da mium stimolo di senso altro che puerile e rello o a...inteso a rerum lavoro altro che di mente ». «... I rallenendosi con niuna femmina altro che onestissima ». I3ar[.. Segm. ecc. ecc. Nola qui l'allro a forma di averbio, mentre congiunto al senza, niuno, reruno ecc. sarebbe ad uſicio di ag gettivo. Chi legge e studia ne' classici le ritrae queste forme anche senza avvedersene. « II vietare con semplici parole, senza autorità altro che « privata non si direbbe propriamente divieto, ma sì quel di legge e di « decreto ». Tom.  c). Analoga a questº forma avverbiale altro che è l'altra, anche oggi nola e continissima non altrimenti che.« Noi dimoriamo qui, al parer mio, non altrimenti che se esser vo lessimo testimone di quanti corpi morti ci siano alla sepoltura recati ». Doco.« Non gli concedè che si ritornasse altrimenti che promettendo di ri « tornare altro volte a rivederlo ». I3art. (Cioè gli concedè... non in altro modo che promettendo, oppure sì reramente che promettesse. Conf. Cap. II. A rticolo 25).Ma nota da ultimo di questo altrimenti (altrimenti che) un uso ben diverso delle forme che qui sopra: come cioè la voce altrimenti in molte  guisa ad altre collegata e con un costrutto e commessura di ottima ra gione entro il periodo leggiadramente contesta, sia talora altresì sol orna mento e tramezzo, non mai inutile e superfluo, se pur non necessario, e non altro, a dirla col Corticelli, che pura proprietà di lingua. Rinforza la negazione e vale in nessun altro modo.  a Della sua pelle senza ſorarla altrimenti se ne sarebbe potuto fare un bel vaglio ». I30cc.«... e pauroso della mercatanzia non s'impacciò d'investirne altri menti i suoi danari, ma..... ». I3oce.« recita fino a un punto il contenuto senza altramente leggerlo ». Caro. « I Siluri, oggi estinti, mostra Tacito nel suo Agricola, che ri renis sero già di Spagna, e al guiscelo da molti segni, che io non replico ora altrimenti non potendo per ria di quelli sapere quando e' ri siano venuti ». Giambulari..... il nostro bene, la nostra rera felicità non dipende altrimenti no, dall'amore che noi portiamo a persona, la quale all rºllan lo ne porti a noi,..... ». I3arbieri.« E' dunque mestieri fermamente attenersi a quelle idee, a quelle speranze immutabili, che non sono l'opera dell' uomo, che non dipendono altrimenti, da una opinione passeggera, che rengono acconce a "ulli i bi sogni, che.... ». I3arbieri.« e senza tenere altrimenti conto della sua obbliga la ſede.... ». Giall bulari.« E tanto basti aver accennato di quelle, che per poco che sia, al niente che riliera il saperlo, non può altramente che non sia troppo ». Ball «... non aspettò altrimenti che il disegno si colorisse ». Giamb. «... non arendo altrimenti che dargli si lerara il cornon da collo (iiamb.« Le sue cose e sè parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse rimise nelle sue mani ». Bocc. un ful I e.tlsou e Iop olooos Ufonq lºp uomiios ilf ouuxupuoqqu o.luluud lp onloAuslp o toluetu ºttº º ſullº I I ouu Auuuulo ot ouo. I touo A olsenb ll I luttuº nId otor I allop luou ouulloAul lp ipotu itino le outleti oli elzºti l' º l.zzoIl fu A ip otl.) os º  trou olto.o un o o Iuliud lop el Aol I lol 55tui ti º º S otto it: i tºlsoni) cl ouol Ru.i uoo Illu) I tollo olios cui lu u uutti i litio o.ilto. llo i - lo tºllo Alun ottu.tellulos 'ortll lito.Ioll lui Ruo IV o op.otto: 1 o. ll 'llout Ill.I. “  Isopullios o Iosso otiosso i  “olu.opluuuuuuli ella A e allo Ip:lloti - lllllº º oil. Issi III, II F o ollo.o! I -.tuti o o luouo td 1 o olio A o.it: i sºli. Il 1 li tºlsl-º sonl) o o lo stºp ll out. I votolelu o il 'u Iso:) Il ) A LI - Ipotti i lotti e io lº otlos IA ".  eodo]uttlollo outsioloou otus olos: li titoli onl) Ip A o.Il ol Iso.IddV out Ao;iuniti o totu lo vos luo. I lºtti I I.) o, dt: ti Il plº o il uAInfioso oln) eo.lolol o eluuun oli l'illS º il ossImpo.Il tetto SIS Il l III euto ollo]Jo uono lº o lod os os, ou o alle p letti ossitto, ve º tº IV e void 1. ll il l e o la tollo un 1: Is ll It, looluu.Iou;il p o Iul e n.InsIl pl. I sei “I lumbs un.oltº otto puºiolli: Iduloso liuloop) Ied otto.III') ott o lo Isol.Ioli onl Ip ottil. Il od oil.Il leso, e il -ulououout outIoztto Vito e il p.olio III lo o.olio o.I l: \ Il “Il d | 12 | | Il sollia.osop o lou.oo Iuulio II lo ottoutele in lull l' "lº ºlotºs º o | II. Il -Iu.Iouoi ouopuolo.ld o Inddºl otto le vo.In lon.o utin o 55es e Ilillº.ilsotti lod o su Islenb uru lp otto voi o utili ulds ezilos essudiº.I | Il III ed l miº o ns o olios ouour pidui orie, o vo otlriori olio lord III trim opotu u onios eupulo, etil e oil.on. l oil o Ip olfettes oil.it il a ºsteo il o negli Ion A ou ouo olio in Ile e se il N. Ierio. In oiloti in love u “ouoduloo is opito illed ollop elziloti o le zut: sos ld Ilesse litolzltifo. ouuuiosi di lui os usul [.. etti e il Ip o | | | | | | |. ll tº o lo l.tolto) sod l) ouopzlullop el o optito. Io l ott e elliot II o II) ml. ll los o utopuoli, ) allo, Ao eI.Io.osolio.ol.i e lpini oil.o nello,osi Iloil oliolli. I ti o Atº III. Il N i lºl li Idl tioli o I.). Il luttoso oft: A otl.oltelloouoptIoonppe 'otiuillirio o ostili osti i millepitoli Itito. el.IIIIIIop olilout -eoplollo.I n.InfII e III: lo esonb o lo s oliº o In VoI o Iellios II, lo  (s) osogssu Io e Iuº pop.Ieo I o UUIpsspn U IUP55oIo,I -Iep eIes II e eu OIun Oo l-IoU I II epU IO “I UIop t Iu II5olo o IoA  -I.Ios OI Opuooos 'eooA u IIon I O unsenb pp e UIopssIULuo po  auloIllla Iuolzno oT sillessi, enalagge, anòfora, iperbate, tropi, metonimia, iperbole, prolipsi catacresi eutimema, epicherema e va discorrendo.Lessi e m'imparai i relativi saggi, assaporando a brevi tratti oi l'uno, or l'altro dei più celebrati componimenti. E qui vi ammirarsi la Pura semplicità del Villani, e là la nobile dolcezza del Giambulari e quando celebrarsi la faconda brevità del l)avanzali, quando la rigida su blimità del Machiavelli. E or questo or quello esaltarsi, e la severa ele ganza del Varchi, e l'abbondante gravità del Guicciardini.Ma dopo tutto ciò, venendo ai fatti. falliva ogni prova. In opera di eleganza, meno alcune frasi che a forza di udirle pil l' Ine ne ricordava e le inseriva sforzatamente, e anche le più volte a sproposito, tra le ciarpe di una dizione sempre mia e di un periodare sconveniente, avveniva di me quel che di un gastronomo, il quale senza impararne altrimenti il me stiere e nulla suppellettile avendo di cognizioni pratiche, pure al saggio di questo e quel manicarello e mercè di un buon corredo di nomi, a. cesse professione d'arte cucinaria.Quarle sconciature ! quanle ingrale dissonanze ! quanti piastricci rincrescevoli ed insipidi! E non se ne può altrimenti. Il commettere ordire di frasi e periodi più tosto ad una che ad altra foggia è cosa tutta soggettiva, è affar di sentimento e vigor mentale. Il quale se guasto o Inal composto, ed il linguaggio altresì. La ridice adunque, il midollo, non le foglie e i fiori si vuole medicare, riformare, ringentilire, a volere che l'albero di selvatico e malvagio risani, Trulli buoni renda e soavi. – Chiesto parecchie volle dai Tedeschi, Francesi ed Inglesi del modo ond'io mi resi lo studio di lor ſavelle proſi! Ievole a segno da reputarini si al parlare che allo scrivere un lor connazionale, diei risposta che fa ap punto pel caso nostro. Perare la mia mente, il mio pensiero ad eſligiarsi in delineamenti e forme straniere non importa appo me l'accostare alla 'nia l'altrui favella, mettere a riscontro l'una parola all'altra e violentare lue e più disparatissimi linguaggi, mercò di contusioni e scontorcimenti, a combaciarsi l'uno all'altro, fatica da farla i provetti ed investigatori delle ultime recondite ragioni filologiche, non via ad imparare lingue fo. restiere: sistema orſo, le diosissimo, lunghissimo e mal sici Iro. Il metodo delle sempiterno raduzioni è una bizzarria, un perditempo, tortura delle menti, inutile, anzi esiziale. E' sempre il linguaggio a conflitto col lin guaggio: non il concetto ad assisa dicevole e sua, e quindi il parlare e scri vere insipido, barbaresco, a urti, a stropiccio, a singhiozzi; indi il de turparsi della propria ed altrui favella; indi lo studiare che si fa ben otto anni la lingua latina ed uscirne appena balbuzienti, quando due anni – chi veramente slidiasse ed avesse alleli o da ciò – basterebbero a farne poco men che un Cicerone. A dunque il ripeto, recare il mio pen siero a riprodursi in effigie di altro idioma vale, a casa mia, legare imme diatamente la parola all'idea, suscitare, a forza di leggere, trascrivere e ripetere ad alta voce e pensatamente gl' idioſismi, le frasi più elette, i per riodi più caratteristici ed anche lunghi tratti, un senso, cioè a dire, im pressioni e senzazioni, pari alla natura ed indole di quel medesimo idioma. ma sì che facendomi a quel linguaggio, le risento e al risentirsi spontaneo scorre dalla lingua il linguaggio stesso. E' un fatto incontestabile. Io ho memoria assai tapina, ho studiato sempre solo e senza guida, non ho mai salto tradizioni, eppure, la mercè di un tal sistema, e a tirocinio di po chissimo tempo mi son reso signore di alire lingue.Egli è il dunque per convnizione di fatto ch'io dico e sostengo che ſilichè l' italiallo d'oggidì si contenta di vederla soltanto ed ammirarla l'eleganza e non è punto del mondo sollecito di recare a proprio sentire il caratteristico elegante e classico, non gli verrà mai fatto per fantasti gare, lambicare, comporre e travagliarsi ch ei faccia, di ritrarre il grato dei gloriosi antichi, ma il suo linguaggio sarà sempre suo, ritratto sempre del suo sentire, del suo pensare. Egli è mestiere di una radicale riforma. Noli erudi e dissertazioni, non indagini, non rile analisi o scrutini filolo gici. Troppo presto. Lo ſaremo sul nostro quando sapremo parlare. Ora lia li sll'o compito studiare accuratamente il magistero del favellare periodare classico; decomporne le parti e quegli elementi imprimerci che ne costituiscono il caratteristico e bello.I ritornando a d'ondo il giusto sdegno, mi trasviò, dico che ad apprendere con sicuro profilo ed anche usare convenientemente quella figura che si chiama con il nemici le elissi, ci bisogna prelibare assen natamente, e leggere, e poi rileggere ancora quegli esempi che in varie guisa la contengono, e ch' io li porgo, gentil lettore, schierati in due di sliIl le classi e solo: I. Voci e il dtsi che comporlot no, e licenza. II. l'articelle e il ct si cui si alliene il prete mi esso.  ("LASSE I.  Voci e frasi che comportano reticenza  l: previlegio di alcune voci o parole, che hanno luogo nel discorso, e luttavia non vi sono, di poterle, chiunque legge ed ascolta, agevolmente intendere, e sentire, e lorse più che non si otterrebbe esprimendole.  Molte di colali reticenze sono in uso anche oggidì, e le ha il popolº continuamente in bocca, e di queste non accade occupal selle.  Ma ne sono alcune che il moderno ordinariamente non usa, e solº pur quelle onde, a mio senno, vagamente si abbellano e prendono sa pore e forza gli ameni dellali dei migliori scrittori.  Te ne offro, caro lettore, che mi lusingo di averlene ogginai in vaghito, eletti e copiosi esempi, colli la maggior parte nell' Eden deli ziosissimo del trecento e cinquecento, e che mi parve di ordinare lº articoli recanti in fronte il segno di quella voce che secondo il sºntinº degli esperti in opera di lettere, in qualche modo si omette, e va Pº intesa. Torno a dire che non è l'assetto della collezione ch'io metto innanzi, e quello che io ne sento– che non mi dà niente noja se ad altri non piace o se ne facesse anche beffe – ma oggetto del mio lavoro è la Lingua degli antichi, e non altro che la lingua. cioè il costruire e fraseggiar clas sico in quanto differisce dal volgare e moderno, mostrato con esempi, e di tante e sì diverse forme, e di autori colali e in numero tanti !  ARTICOLO 1. Ifilif; IMIlMENTE: (si bene; in guisa ecc.)  L' omettersi a suo tempo e luogo l'una o l'altra di queste particelle dà alla frase un garbo che il profferirle non farebbe.Dove, quando e come te lo diranno assai chiaramente gli esempi. (101).  «... e così dicendo, con le pugna le quali aveva che parevan di ferro tutto il viso gli ruppe ). Bocc. (Traduci: le quali aveva sì ialle).  « Di ciò che... so io grado alla ſottunu più che a voi, la quale ad ora vi colse in cammino che bisogno ci ſi di renire a casa mia ». tale) Docc.  « Diceva un chirie e un sanctus che pareva un asino che ragliasse ». BOCC.  (ad ora'  Alfermando sè, di spezial grazia da Dio, avere una donna per moglie, che lorse in Italia ne losse un'altra ». I3occ.« Parti egli d'aver fatta cosa che i moli ci abbian luogo? ». Bocc. «... e andronno in parte, che mai nè a lui nè a te, di me perverrà alcuna novella ). I30 cc.« E messa in terra parte della lor gente, con balestra e bene armata, in parte la fecero andare, che...... ». Bari. (102)« E guardi bene colui che avendo l'autorità di prosciogliere della mag giore escomunicazione, assolvi altrui che non lasci della forma della chiesa niente; però che gravemente peccherebbe ». Pass. (ass. altrui in guisa che).«.... e tanto andò d'una in altra (parola), ch'egli si ſu accordato con lei, e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona s'accorse ». Bocc. (talmente - sì chetamente e furtivamente).« Costei è una bella giovane ed è qui che niuna persona del mondo il sa ». Bocc. (in tal luogo e maniera).  “... Sere, andiamocene qui nella capanna che non ci vien mai per Soma ». Bocc. (lal nascosta e sicura che,º pensando che in quelle contrade non area luogo dove egli potesse stare nascoso che non fosse conosciuto pensossi di iuggire ad alcuna isola rimola ». Cav. in guisa, sì perfettamente.“... con inciò a gillar le lagrime che pareano nocciuole ». Bocc. “ cºddº, l'ºppºsi la coscia e per lo dolor sentito, cominciò a mug ghiar che pareva un leone ». Lo c.“ Dirºmulo nel viso quale è la molto secca terra, e la scolorita co mºre ». Bocc. (103).« IIa roi adunque in parte la lortuna posto che in cui discernere pole le quello che ancora giani ma non potesſe vedere... Bocc. E da indi innanzi penso sempre modo e via come ei glieli potesse lurare ». Fier. 104.() h. non li ricordi della cosa dell'Aquila e dello Scarafaggio, che non lui moli la più bello rende la ' o Fierenz. Iale, sì bene ordita, che...). Egli allora con una superbia che mai la maggio e... ». Fierenz. (105).... roi l'a re le colta che niente meglio... Ces. talmente, sì bene che...), \ on gli bastando più l'animo di andare in procaccio, si condusse ad atto talora, che... m. Fiel'eliz.  (t... ... e conchiuso di appiallargli un bel figliuolo che non vedeva altro che lui n. Fiorenz un igliuolo, l'altrº ente bello e caro, che non vedeva.... « Guarda come ciascun membro se la rassomiglia, che egli non ne perde nulla. Fier. (in modo, il glisa, sì perfettamente. « Per ciò bestemmia, che non par suo fallo. Malin. Se ne scantona, che non par suo allo. Malm. - 1)ice le cose, che non par suo fatto o. I 3el ll. lilli. « Se non fosse lo scrivere, sarebbe un modo di vivere che non m'arrem mo bisogno, ed in rece sua serrirebbe il tener a mente ». Caro. (un modo di vivere tale che..).« E questo pensiero la innamorara sì l'orte di Dio, che non si po - Irebbe dire, e ricrescevale l'odio di sè e della sua vita passata, che con - - grande empito si sarebbe molla, s'ella tresse credulo che piacesse a Dio o. º CaV.  «... che se io fossi serrata e rinchiusa tullo di domane in prigione e tenuta ch' io non potessi andare a cercare di lui, penso mi che immansi  che fosse sera, io sarei trova la morla ». Cav. - «... e andò la infermità montando che i medici il disfidaro (l'ebbero. per disperato). Cavalca.- a Giunse alla porta e con una verghella. L'aperse che non ebbe alcun - rilegno ». Dante (106), in modo, sì presto, sì facilmente. « Si reslieno una cotta che non si potra reslire senza aiulo d'allri ». - Vill. (Iale foggiata che...). NOte  all'articolo 1,  i101) Analizza un po' la frase nostra lombarda: egli è afflitto come mai, e mille altre di somiglianti, nelle quali vi senti oltre l'elissi di tale talmente, anche quella de verbo essere che regge la frase: la quale omis sione è, tra l'altre cose, oggetto di ossrvazione nel seguente articolo. (102) Guarda come ai valenti in itatori del Trecento uscissero della penna spontanee le frasi e maniere dei loro Inaestri.(103) Qui si è forse la voce quale che con leggiadria sta sola e cessa la corrispondenza di tale. Simile all'allegato è quel del Petrarca: « Piaceni a almen che i Iniei sospir sieni quali Spera il Tevere e l'Arno ». (caliz. 29). (104) cioè quel tal modo acconcio e sicuro; non un, nè il, la cui onis sione dice assai piu che l'articolo non farebbe.(105) E' forma superlativa adoperata spessissimo dai buoni scrittori. (106) E cosi dovrebbesi intendere, a In 1o avviso, anche il secondo verso della Divina CUII, III edia: « Nel II mezzo del cali Iilin di nostra vita -- Mi « ritrovai per una selva oscura – Che la diritta via era sinarrita ». Cioè oscura tanto, a segno che.... E nºn dare a quel che, senso, chi di poichè, perchè (Tomm.) e chi di per dove i Cinomio ed altri). Con questo modo di sentire (tanto, si fattamente), è l'uomo che pervenuto all'età delle tumultuanti passioni si trova coine in una selva tale oscura che non ne vede più uscita, Inentre col chè, perchè ne risulta un senso al tutto  opposto; quello che è causa diventa effetto.  ARTICOLO 2.  flilSSI DI UN VERB0, quando in maniera subordinata  e quando a SS0luta  u). I no stesso verbo di due incisi o membri l'uno all'altro comunque copulati, l'una o l'altra volta, si lace, ove nol vieti pericolo di ambiguità o bisogno di precisione. (« Ti avrei rii a modo che alla Maddalena ». Fior. – che avvenne alla Maddalena). Si sopprime il più nell'inciso secondario, dipendente subsunto, il quale talvolta il primo luogo occupa e tal'altra il secondo. Assai vaga e commendabilissima è l'ommissione, non pur del verbo, ma e di sua appartenenza dopo un che pron.) nesso comparativo, il cui membro principale suona, espresso o sottinteso; tale, così...., in quel modo e grado, quel... che: ecc. (« avere in quell' onore che padre ». Bocc. – cioè nel quale si ha o si deve avere un padre. Si osservi di più che ornettesi talora tal verbo, che anche nel primo inciso è sottinteso (« Richiedersi un uomo del saper che il Padre Nugnez ». Bart. – cioè a dire che sia del sapere onde è il Padre Nugnez, opp.: fornito di quel... ond' è fornito).  b). Anche il verbo soggetto ad un che congiunzione (dass, als, ut, quam) ed al quale risponda un modo – qualità o grado di azione – che sia più che il verbo da avvertire e rilevare, si tralascia molte volte non senza leggiadria di frase e sapor di stile. Il vescovo rispose che vo lentieri ». Bocc. – cioè che il farebbe volentieri la qual cosa avviene non solo di un che a governo di altro verbo (es.: disse, rispose che...), ma altresì del che correlativo di tale, così, il più e « lºd egli con una Su perbia che mai la maggiore, Fier – che non ebbe o non fu mai la mag giore).  Gli esempi che li reco, disposti in quell'ordine che dianzi, non solo vogliono dirti che è veramente crisi, ma anche farlene sentire il grato e stimolarli allo studio assiduo ed elica e di questa e mille altre somi glianti venustà. ... perchè egli chiama rimedii, quei che gli atlli i Ncellerat lesse o. l)av. quei che gli altri chiamano  a rate ciri, ha questa tarola della penitenzia da quello mºdº da cui la navicella dell'innocenza, cioè da Gesù Cristo e dallº Sltº Pº sione ». Passa V.  « E poichè non potevano sassi si colsero a gittar maledizioni e calun nie ». 13art. e poichè non potevano gilla' sassi. ... se la faceva la maggior parte dell'anno, all'ºstºsº (lell'Indie, con riso; e quando più sontuosamente, con un pºco d'ºrlº condite sol di lor medesime n. 13arl. e... se la faceva tºll llli lº d'erbe...) º 107):  a punzecchiò un poco la donna e disse: ºdi l' quel ch' io? ». Bocc. (quel che odo io).  Io non so, disse... se a coi sia intervenuto quello che a me, che tutto il dormire di questa notte m'è andato in un sºgnº" continuo di...». Ces.  e però re intervenuto quello che (tll'eremila col suo con lo 0 n 0 º. lierell?.  « I)eh, non..., che redi che ho così rilla la ren Iurat les lè che non c'è persona ». lSocc. - -  «... sforzandosi tutto di di non parere quei dessi che dianzi, tanti oltraggi gli dissero e così luidi: l)av.  ierata del parto e daranti di linº renula, quella reverenza gli fece che a Padre ». Bocc.  «... i quali tenevano il Saverio in quell'amore che Padre, e in quella reverenza che santo ». Bart.  si tiene un santo).  º indicasso di ufficio e nei lºdºsini ierri che il re, inviato a... ». Barl. (ed essendo ºi medesimi ferri nei quali era stato il re ).  (nel quale si tiene un Padre..., nella quale  “... fare a modo che la madre al lº ºillo quando lo ſa bramare la pOppſl n. Fioretti.  « Ma di sè non curò punto più che se non bramasse di rivere, e non le messe di morire ». Bar. di vivere).  «... stimerebbono le anime del l'ill galorio rose quel che noi Spine: chiamerebbono rugiade quel che noi solli. Segni.  ºi Iliello che avrebbe curato se non braInasse  “... trendosi a credere che Tºllo a lor si convenga e non disdica Che alle altre. I3occ.... che si conviene e l 1 l I disdice alle altre..« E quelle medesime forse hanno in India l'iti li e gl'ingegni che in lºlºgna: e in quello medesimo pregio sono i lottolº roli costumi in Austro che in Aquilone » Bocc.« Come il Paragone l'oro, così l'arrersi di dimostra chi è amico ». I 3 c'e'. “ Ed intendi sanamente, Pietro, che io Non l'n minº, come l'alt e, ed ho voglia di quel che l'altre; sì che l'ºrch º io non me ne l) l'ocutc''i non cºndonº da te, non è da di menº male, I3 cc'.“ - ºgli medesimo determinò di rimanersi e Correre quella medesima fortuna che lui, nulla curando me la pºi dila della sua mare, nè il pericol, della sua vita ». Bocc." Iº lº uomini della condizione che essi, maestri e promotori del l' idolatria, altro non era da (t Spell (Irsi... I 3ar[.." l'Ili all'incontro era fermo di rimanersi al mi e lesimo rischio che ºsi, parendogli la r da mercenaio, non da buon poi sloi e', se at bbandonass la greggia... o. I3art. Se io piango ho di che o. I; rec. di che | Iilliger. “ La ſan le piangeva forte come colei che arera di che, Boce. “ Le quali ſcortesie, molti si sforzano di fare, che benchè abbian di che, sì mal far le sanno, che prima le l'anno assai più comperar che non ragliano che ſale l'abbiano. I loce. (di che doversi sforzare a farle, º Dirò quello ch' io avrò fatto e quel che no, Ifoc,« Voi l'avete colta che niente meglio ». (les in maniera che meglio non si poteva cogliere).“ Di certo non lu mai uomo innamorato così l'alcuna persona che ne facesse o sentisse quello che Luigi per amore di Dio  « Dice il Sere che gran mercè, e che... ». Il che vi tiene obbligo di gran mercè).  « E rispose a sè medesimo che mai no o l'assav.  “... e se di niente ri domandasse, non dite altro che quello che vi ho detto. Messer Lambertuccio disse che volentieri e tirato fuori il coltello... come la donna gl' impose così fece p. Bocc. -  « Tornali a Sacai, si ad una ono loro intorno tutti i cristiani a udire  voda Lorenzo che norelle recasse: ed egli a tutti, che felicissime: e contò...». I3: il 1.Prese una tal gentilezza e proprietà che mai la maggiore ». Ces.... ri con cerrebbe a lui lornare e sarebbe più geloso che mai ». l3 ('.llli 2 di Giugno 1S33 lu incorona la 1 nn 13olena con la maggior pompa che lei ma mai o. I )av.Fracassata l'armalat. g) e mite le lilora di cadaveri, con più virtù e lierezza che mai quasi ci esciutti di numero.... Dav. 108).... godendo che l'ossei o così vilipesi e br amando che peggio ». Fier. li e li avveri sso di peggio.Vli repliche il lorse... V e di mente che si, ma.... Caro. ! Il rint ºn li, come lo dimosissimo del noti li io, sarebbe quinci pus sotto dentro le l a a predica e ad l abi e a Persiani, con quella riuscita che pochi mesi aranti un lei ren le religioso dell'ordine di S. Francesco, e certi all il seco, li aliili con stelle e mo) li la saraceni. Bart.  N Ote  all' alrticolo 2.  10), I, I.issi, a lui lo rigore, sarebbe anz doppia: e quando la faceva pI i sontuosame te, se la faceva con.Troppo ci sarebbe che dire se tutte si adducessero le reticenze vaghe parimenti e vigorose di questo potentissimo scrittore Guarda, per dirne pur qualche cosa, con quanta grazia. I 13artoli adoperasse un altra eissi simile a questa che abbiam tra Irlano e, non qualche volta soltanto, Irla soven, che due e tre la riscontri talora nella Imedesima pagina, cd e quei 1 di una proposizione al pit ve li recati ad un solo mercè di ll li V el'ho (olillllle e generale, cioè in lire di valore lil delel'Illinato essere  fare, mettere, ecc.), che !., una sola volta ed a cui guida reggonsi le altre voci di riol: liti il che, come, dove e della diversa azione attri butiva: debboni prenderla alla scoperta contro de lºonzi, rivelare gli rrendi e le andi or vizi, e metterne gli insegnamenti in dispregio e i costi tini in abboninazione del popolo ». « Ciò farebbono levando  popolo in Funai come si era fatto in Amangucci, e mettendo le mer anzie de Pol togliesi in preda, la nave a fuoco, e quanti v'avea di loro al taglio delle scimitarre o invece dei gerundi predando, incendiando e tagliando) – I) in Sancio, come padre comune, a tutti dava albergo, (a tutti largamente di che sustentarsi ».10s Simile il modo nostro lombardo: contento, allegro, tristo, afflit, come mai, che fu già menzionato alla nota 101. Anche la lingua te desca ci somministra esempi non guari dissimili, ARTICOLO 12.  I VERBI: VOIERE, DOVERE, p0IERE  (mögen, können. diirien)  comportano reticenza ove all'ombra di altra idea, verbo o qual altro sia si termine, sì leggiadrati len le riparano che più grata ed eſlicace torna la loro parte assenti, che non ſarebbero presenti.  Come e in quanlc guisa e li chiaris ono gli esempi. Non leggerli soltanto, ma studiali, assaporali e fil di prenderne dilello. Egli è in questa maniera che il pensare e, per conseguente, anche il dire prende a mano a mano quel tornio di azione, quelli Iorina al resi di eleganza che nei dettati dei migliori scrittori.  « E vede ra la bruttura dei peccati suoi, e i demoni d' intorno ag gravando queste parole in molti modi, vedendo ch ella non sapeva ancora che si rispondere ». Cav. che cosa dovesse o polesse rispondere. « Qui ha questa cena e non saria chi mangiarla ». Cav. chi potesse O volesse mangiarla). « Qui è buona cena e non è chi mangiarla ». I30cc. «... ſecesi compagno..., per lasciar chi succedere ». Dav. « I)i tanta santili che li dei nomi non al re ritmo a cui entrar dentro o. Fiorelli. (non avevano persona in cui polessero entrare”.« Viene il demonio per sospignerlo quindi giuso. Di che S. Francesc non avendo dove fuggire si rivolse al sasso lo stucolando con le mani...». Cav. i non avendo luogo dove potesse filggire.« Allora disse la liadessa: ligliuola mia, e non ci ha dove tu dorma: ed ella disse: «lore coi dormi in ele, e io dormirò.... ». C: V.« ('h e la mia rila acerba, Lagrimi a nolo II o rasse ove acquietarsi ». Pelr. « Non sapiendo dove andarsi, se non come il suo ronzino stesso dore più gli parera ne la porta ro ». 13 cc.« Non sapeva nè che mi fare, nè che mi dire se non che l'rale Ri naldo nostro compare ci renne in quella... I 3 t.« I)i Giusea, do ho io già meco preso partito che farne, ma di te stillo Iddio, che io non so che farmi. I 3 ('C'.« Imperocchè quello libro (l' ipocalisse è di grande solligliezza ad intenderlo ). I3ll I. Corn. l)all I e.« E redendosi il leone ingiurialo lanlo, e ſi rendo preso un ſolo slot di intra due, o dargli morte o perdonargli n. Volg. Es p. (se dovesse dargli morte....). º Tullº la rila sua acra spesa in lontanissimi pellegrinaggi, cer cºndo i luoghi santi del Giappone, doru nque e, a qualche idolo o cerimonia con che prosciogliersi dai peccati a Bari.ln lendi sºnº nºn lo, marito mio, che se io volessi far male, io tro l'ºri ben con cui: che egli ci sono le ben leggiadri che mi amano, e co gliomini bene l'oro con cui poterlo lare.Sr lossº un palagio, e l'osse e siandio lullo d'oro e d'argento e bello quanto pil polºsso essere, e non fosse chi l' abitare e non ci stesse per sonti, il n grande peccato sarebbe questo lº Giord.Perche... chi saperlo? chi ride nel secreto di Dio il perchè di que sto gore i nutrsi così '. Cesari.e l.odulo sia lalello, se io non ho in casa per cui mandare a dire che lui non si aspellato 13 non ho persona... per cui io possa mandare). E se ci losso chi farli, per lullo dolorosi pianti udiremmo o. Dav. Il loroso qui i lo mai alcun altro (19.trasporta casi dove il vento.... Bari dove voleva il vento). (110). (atlandrini... pºi c'e' lissimo librº srco medesimo d'esser malato lilllo sºlo tra il latlo qli doni di nullò: Che fo? l)isse lº uno: A me pare, che tu torni a casa, e i lilli in sul lello. I clie dello io il re?... A me pare l'ori i ba riare a...V (Ilen l uomo, io ho la più persone in leso, che lui se sa essimo, º nelle cose al l si l i n olio e col nºi: e per ciò io saprei colentieri da le, I tale delle l e l'afgi l il repuli la cerace, o la giudaica o la saracena, o la cristiana loce. Vorrei sapereli a dalla per la sua presto a dore fare ciò ch'ella gli comandasse ». I 3 (''. | | |.Ella rimase lulla con lenta, pur e ch'ella polesse fa, e cosa che gia piacessº, e rimase a pensa e con queste cose si facessero più presto mm e mi l '. (il V: il n.\ 'il' atli Illes la dolorosa notal re lulli mori, e, e mirando or l' uno or l'altro, non saprei qui al primo si piangesse o Cav. si dovesse piangere. l?irollosi tutto a docet li orare modo come il giudeo il servisse, s' av risò di lot rºlli una forza d'alcuna ragion colo, alla s. Bocc.a 1 me pai rebbe che noi andassimo a cerca senza star più ». Bocc che noi li ll'emiro, dovremmo andare.Ma se alcuno si moresse e dicesse: perchè non fu questo rivelat, ad 1 ml mio innanzi che quel li atle morisse, che, come sorerenne all'uno, così avesse sovvenuto all' all I o ”. Cav. avesse potuto..... E fallo questo, gli disse: quello che a me parrebbe che tu facessi sarebbe questo, che tu pigliassi di molti pesci e ponessegli l'um dopo l'altro dalla bocca di questa lana sino al buco della serpe.... ». Fierenz. a N on sapeva che farsi, se su vi salisse o se si stesse ». Botc. (che ci si dovesse fare, se dovesse...).« Io non so quale io mi dica ch' io faccia più, o il mio o il tuo pia cer,. I3, c. non saprei qual dei due io debba, o mella conto ch' io faccia, se il lilio o il lli i piacere.a Ond' io a lui: dimandal tu ancora Di quel che credi che a me satisfaccia: 'h'io non potrei, tanta pietà mi accordi ». Dante. (mi vogliº, ini debba, o mi abbia a sodisfare). « Nastagio udendo queste parole, tutto limido dire nulo.... cominciò ad aspettare quello che facesse il catraliere n. Docc.  « E perciò dunque proromper ('risto in eccessi a lui così disusati di maraviglia? ». Segn. (volle, dovette Cristo prorompere).  NOte  all'articolo 12.  (109 ) Forma di grado superlativo, frequell Issillo -lilla penna i classici e con lume alla lingua tedesca e inglese.  (110) Negli esempi fin qui allegati avrai osserva lo clic e una delle voci: chi, cui, che, dove, onde, ove, se il soggetto, oggi 11 o o circost: i nz: principale cui - riferisce con il lique l'azione del III do elit Iro.  i 111) Gustalo, anche negli esempi che a questo film Ilo segui o, quel congiuntivo che cessa l'all l'o, veri o ill de si gllida. 'l'ori la loro is: I lente al: mögen, dirfen delle solite forme tedesche. E dire che si è scritto e di scusso tanto intorno a quei facessimo del l'assava iti. Non per opere « di giustizia che li oi facessimo » (oè che noi potessimo Irlai fare V. - sione del testo di S. Iº:nolo: « non ex operibus ill-titi que facimus nos. E chi la disse scorrezion degli stampa [ori, che e il rilugio ordinario degli ostinati; chi licenza del traduttore e chi l'una e chi l'altra (º belleria. Il Bartoli all'incontro, che se l'era il trecento tornato, per così dire, in natura, sente in quel facessimo non il fecimus e II è anche il face remus, che sta bene, dicegli, nell'italiano quel che nel la Inal sone. rebbe; ma un non so che di elittico, come sarebbe a dire: quantunque ne facessimo o altro di somigliarmi e. Vielle a dire in 1 nelllsi i le cºllº, i militi che lion lo dica e nessuno, ch'io sappia, l'abbia mai deti', espressamente, in tale e simili costrutti vi è sempre clissi di uno dei verbi potere, volere, dovere. Il'INDEfINITO DI UN VERB0  obbligato ad uno dei verbi potere, role e, sapere, dovere, si trala scia alcune volte, con un sapore e con un garbo ſullo italiano. L'oppostº del ragionato all'articolo precedente: là questi verbi, non espressi, erano sottintesi in un altro verbo; qui sono appunto questi medesimi verbi che ne sottintendono un altro. Quando e come agli esempi.  “ Ti orºlli (o di notti in ono onor quanti seppe ingegno e amore ». l3 cc. seppe o il mare e Irovare  Sºnº lºro non può l tono un cibo, ma desidera di variare ». Doce. (non può soffrire.  l: I tiri spesso rolle insicuri e si la cella rai no, ma più a ranli, per la  solenne guardia del geloso, non si poteva. I; ci ma di più non si po teva fare).º... non c'n li tlc mi cco in preconi nè in prologhi. Quando volete cose  Che io possa, but N lui il m con lo... (il l'. lo era un asinaccio che non poteva la rila, Fiorenz. non poteva reggere).l'ºr la qual cosa ci ri unº, che ci e scendo in lei a mor con linuamente, ed una malinconici sopralli di aggiungendosi, la bella giovane, più non potendo, in fermò ed eridem le mente di giorno in giorno, come la neve al sole, si consumara o. I3 cc. pil non potendo reggere.Voi mi ſono aste e mi accarezza sle allo, a assai più che non dove vate una persona non conosciula e di sì poco a fare come son io o, Caro. che non doveva e onorare una persona, o fare con una....... Spatccia la mente si lerò e come il meglio seppe, si resti al buio...». I3 cc.« Il percosse Iddio in la parte che non potea meglio per isrergo (/n (trlo ». Cesari, che li in pole a fare, accadere meglio.....lºra bassello di persona, e pieno e grasso quanto potea (quanto pol ea mai esserlo, divenirlo.E già tra per lo gridare, e per lo piangere e per la paura, e per lo lungo digiuno, era sì rinto che più a ranli non potea. ». Bocc. non po leva andare, reggere, sostenero).('on gen le sì laccagna, crudele e superba puoss' egli altro che man temere libertà o morire º v. l); V al 17.E tanto basti a rer accennato di quelle che per poco che sia, al niente che riliera il saperlo, non può altrimenti che non sia troppo ». Bari (non può essere, non può fare).« Ma lulli erano a campar la vita, se potessero con la fuga o. Dav. (se potessero mai farlo con).« Ora con quante più dimostrazioni di riverenza sapevano, di nuovo l'imarbora ramo. I3art, la croce sapevano fare, esprimere, tributare). « Adorni il meglio che sapevano ». Rart.« La lena m'era del polmon sì munta Vell'andar su, ch'io non potea più oltre a Dante, Maniera comune ad altre lingue).« l 'ea finalmente preso sì allo grado di perfezione che non si potea più là ». Ces.« La natura della cosa porta così e non se ne può altro ». Ces. (dire. fare altro).  «... se ne rennero in un pratello nel quale non vi poteva d' alcuna parte il sole ». Bocc. (non poteva avere azione... -- Nolalo anche negli esempi che seguono questo particolare uso del verbo potere, che è bello, forte e tutto italiano).  « La bottega dello speziale debbº essere posta in luogo, dove non possano l'ºn li e solo o. I): I V.  (... pendici boscose, per i venti di tramontana che molto vi possono smaltate di così duro ghiaccio... ». I;art. Segn.  «... in paese di terren magro e sil restro, e in lornia la i là d'allis simi monti, onde il lreddo vi può eccessivamente: e pur r è caro di Ie gne ». Bart.  () [LASSE II.  Voci e frasi cui si attiene il pretermesso  Meritano all'enzione in modo particolare e studio quei costrulli che l'erario ad l Il senso che grammaticalmente non hanno, od è altro, e ! all le avanza il malural valore delle parti onde si compongono. La qual costi procede, io m'avviso, da un colal modo di significare, dirò così la lente e lºroprio soltanto di questa o quella voce, alla quale, in tale lal all ra forma ad perala e convenientemente collocata, viene una forza e indi alla mente un' idea che il senso e l'intelletto subitamente appren dono, ma il maniera assai più vaga ed evidente che non farebbe un se gno di valore letterale ed esplicito.  Le elissi della classe precedente erano quelle di certe voci mani festamente pretermesse ed alle tuttavia a sol lin[endere. Ora vuolsi al l' incontro allegare e proporre allo studio del giovane filologo molti esempi di quelle voci le quali, non che si tralascino, ma stanno per più altre dicono più assai che non faccia il material suono. ().  () A me sembra, dirò col Gherardini, che, indirizzando la mente a ritrovar questi ascosi concetti, si abbia a ritrarre dalla lettura un diletto ignoto a chi non penetra più là dai lievi egni delle idee che l'autore intende risvegliare. PreVengo che per non isparlire, più che non l'isogni, la materta. pillºvelli di alcune menſi varle soltanto e rimandare il lettore ad altro capitolo di altre ragionarne anche oltre i lerimini dell'Articolo e dire di altri usi più notevoli.  ARTICoLo 1.  lascio le discussioni intorno alla natura di questa particella, se sia O possa essere, secoli l g' sci il lori, alla cosa che semplice preposizione, se si verili e il posto il luogo di altre voci, e se finalmente, i saldi si ad i Ilicic, che di semplice pi e posizione, si i lorº clip i cicli con i voti lolio, li a gli altri, il Ghe rardini, da lui le ho idea pl e le press e soliti esa, o sia dessa all' in con l'o, e così pare il mio, e lo ſcroll l: di Iroppe altre idee, torna a l lIn Se gli e la l li se il l il si l radl Il l'ebbe sull' rogando il re parole, la con i ponenti in ci o la sintesi e slenuandone Illindi il sapore e il vago di II li ascosa vi li Islà: e comincio subito co; - l' addii re, prima di lillo, esempi di un ct ad Iso ben diverso che di sem plice preposizione, e di un gol I loro, di rina belli, virli cd elicacia, che non si potrebbe a pezza con la lunque al ra v. e.  ()sserver: li: il come l'essere una al parlicella ora articolata e ora no, iol è, con le dicono, allar di colli o di ſol ma sl l'iore soltanto, ma adopera sull'essenziale valore e quiddi là del liscorso. Le frasi, a cagion d'esempio: con lo scudo di pello: stendersi di un vento a poppa: pianura di mare: quardare al concupiscenza, ecc. ecc. si scollcierebbero e guaste rebbero non chi altro ad incorporare comunque l' articolo con un a co tale; laddove altre coll'articolo, p. es.: male allo al camminare: virer.' all' altrui mercede ecc. ecc., perderebbero lor sapore e forza sopprimen (l lo): lo) come assai sovente colesl a risveglia nell'animo un senso che torna pressº a poco ai modi: allo scopo, a fine di, ad elfello di, al hoe ul: in confronto, per rispello a..., al rispello di..: in forma di.., in modo di... a guisa di.., conforme, i clatira nºn le t... quanto d..: a lorsa di....ricorrendo a... con, col mezzo: dopo, di lì a., a distanza, ad inter rallo, della durata di..: intorno a: ecc. ecc.. e come talvolta li par che codosi a come acutamente osserva il Gherardini, si continui alle ideº sottintese: inducendosi, recandosi, nellendosi.......: guardando, ponendo mente: esposto, occupato, inteso, raccomandato, solo posto ecc.Dopo gli esempi di un a che mi avviso altra cosa che una semplice preposizione e voce cui si attiene evidentemente il pretermesso, porrò, quasi a complemento di quello che parmi doversi dire intorno all'uso antico e commendevole della particella a, altri esempi di un a che, se pur è segno di semplice preposizione, non però a quel modo comune e volgare d'oggidì.  Si leggano e rileggano colesti esempi, ma attentamente, assennata mente, ed ad alta voce, così cioè da gustarne il vago e sentirne proprio la forza, il peregrino che lor viene dalla particella a, e gioverà a render sene al tutto padroni, e ridirli e riſarne, occorrendo, de somiglianti, ma sì che appariscano cosa naturale e tua, non opera di studio e d'artificio, gioverà, dico, più assai che non ſarebbero vaghe teorie, mille sacciute definizioni e divisioni, che in materia di eleganza guastano talora, non  che n'aiutino lo studio, ciò è a dire il pratico profitto. (138)  « Mi metterò la roba mia dello scarlatto a vedere se la briga lui si roll legrerà n. 13 cc. tafline di... opp. e sarò vago di...a Che senza dolerlene ad alcun tuo parente, lasci fare a me a vedere se io posso raffrenare questo dia rolo scatena lo m. Bocc.« Vè caghezza di preda, nè odio ch' io abbia con ra di roi, mi i lºrº partir di Cipri a dovervi in mezzo mare con armata mano assali, c. lioccº, º allo scopo di... aſlinchè vi dovessi.....() ne's la cosa º perdonare ai poreri quando errano, ed esot minuti e sè stessi a vedere se negli animi suoi alcuno diſello per arren litrº nascoso si stesse ! ». Casa, Uff.a ()ra ci raccomandiamo a questo Santo morello a vedere s' ('Ili lº niuna forza in mare che ci faccia riare e l'ancore nostre, V. SS Pad. « I ccise un suo mimico, e per camparsi dalle forze della Itaſſio nº si fuggì a franchigia in un monastero ». Barl.«... disse che egli sarebbe a sepultura ricerulo in chiesa ». I3ocr'. «... or mi bacia ben mille volte a vedere se lui di rºm o. I3o e'. «Spessissime volte io ho mangiato e bruto non a necessità, ma a volontà sensuale ». San Bern. Tral. Cosc. Cioè: ho mangiato e bevutº non a fine di soddisfare t....« Per quanto io posso, a guida mi l'accosto. l)alle. mi accompa gno pronto a esserli guida,a Ver è ch'io dissi a lui, parlando a giuoco: lo mi saprei lerar per l'aere a rolo. Dante. (a fine di pigliarini giuoco.« Se tu studi nella continenzia, fa di abitare non a diletto ma a sanº tade ». I)on Gio. Cell.« Leggi non solamente a consolazione e diletto degli orecchi, mi con pensamento, intelletto e fatica d'animo. lºsop. Cod. Fars. « onde se il frutto ti piace più che il fiore, cioè leggere il librº º trarne ammaestramento....... guarda al line che importano le parole ». Esop. Cod. Fars.E andando il leone, poco dopo queste cose, a diletto sprovveduta mente gli renne dato nel laccio del cacciatore ». Pass. 139.... nondimeno a cautela si ordinò che....... Caro. « Io ro che l campo là do Sul (teini l omani a spasso andiamo a risilare ». I'illci Luig. Morg. (a scopo a titolo, a modo di... ). Caro figliuolo, se roi amarale avere a donna questa damigella. roi non lorº rotte le nºr bargagno -. Vill. M. destinandola a esser vostra moglie.l 'endo... una gru ammazza la.... quella mandò ad un suo buon cloco...... e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse o Bo, c. Federigo andò a V inezia, e gillossi a piedi del... Papa a miser - cordia, per ottenere, o implorando... Vill. G.Molle colle si conduce l'uomo a ben fare a speranza di merito, od altro suo rantaggio, più che per propria rirli o Nov. ant.« Chi potrebbe dire quanti già a diletto lasciarono le proprie sedie, e alloga romsi nell'altrui? ». I3oce.('osa ordinaria, dic 'egli, che chi è rivit lo dissolutamente a fidanza della divina misericordia, morendo ne sconlidi ». I3art. 140). Maledello è da l io ogni uomo che pecca a speranza ». Pass. (141). La speranza del perdono. Si è data a chi la ruole: E colui l'ha per mio dono. Che del suo peccato duole: \ on chi a speme peccar suole, Ch' io non faccia la rengianza la l'ond.Paolo, sepulto rilmente in terra, risusciterà con gloria: roi, coi sepolcri de ma mi ed esquisiti ed a trali, risusciterele a pena ». Vit. SS. IP: l d.Trasse di prigione la della ln per il rice, e isposolla a moglie nella e il là ali Patriot, Vill. (i. i trad. destillandola a esser moglie. E Maddalena, piena di contrizione, si seri è l'uscio dietro e spo gliossi alla disciplina, diessi a piatti nei e amarissimo mente i suoi peccati ». Caval.... e da rasi ne' piedi e nelle gambe, e da casi nelle braccia, e lo gliera la cintola sua spianata la fornita di spranghe, ch'ella solera por lare a vanità, e spogliarasi ignuda, e batte casi con essa tutta dal capo (il piò, sicchè ella filatra lilla san Ilie o, Caval.a I)i lui rimase uno figliuolo che ebbe non e' l rrigo, che 'l ſece eleſſ gere a Re de Vomani ». Vill. (i. 142).I)ormendo in sieme... nel suo lello piccolo a due, ma ben fornito ». Sacch. cioè fatto per servire a due persone),  Ed assai bene circonda la di donne e d'uomini, da tutti conforta la al negare. I3 # 1 (3).  a V elele com' io son gra ricciuola e male alla al camminare ». Fier.  a Rincorandolo al taglio ». I3occ. a soffrire, a volersi permettere il taglio. “ Chi adunque s'interporrà a che voi coll'anima non possiate a ro stri amici andare, e stare con loro, e ragionare, e rallegrarsi e dolersi? ». Boce. (ad impedire che..., opp. con tale effetto che...):º 1 roi non sarebbe onore che vostro lignaggio andasse a pover tade ». Nov. ant. (a languire nella povertà).“... di poi sempre meco medesimo dedussi quei suoi deli, sentenz º ammonimenti a mio proposito ». Pand.«... e molti altri che a narrar li saria fastidio ». Giamb. a volerli narrare, se si dovessero narrare, opp. facendosi a narrarli.« Vom prima decaduti ri mirano a ril fortuna che los lo suonano a ritirata, a raccolta, se non fors'anche a vergognosissima fuga. Segn. Sta ma nº, anzi che io qui renissi, io trovati con la donna mia ir casa una femmina a stretto consiglio ». I3 cc.« Chiamare, venire a parlamento.... o. I)av. – (osì dicesi: Suonare a capitolo dei fra i).« Il santo fra le fu insieme col priore del luogo, e fallo sonare a ca pitolo, alli irali raunali in quello mostrò Ser ('appellello essere stato un s(1n lo so. E la C.« ('ongiurarsi alla rovina, alla morte di... ». I3arl. (a conseguire la.. «... e saranno solleciti a quello che da maggio i sa, i loro coman dalo ». Pand. (a far quello).  « I)i seta, d'oro e d'osli o era coperto E dipinto a bellissime figure Alaiml. Gir. (con ornamento di...).« Una coltre la corala a certi compassi di perle grossissime ». I3 cc. (a forma, il maniera di..., col...).« ('ollirare a campagne di seminali e giardini di delizie ». I3a (a modo..., in tal malliera....« ('olesti luoi denti falli a bischeri n. 3 cc. (a guisa di... a simili! Il dine di...).« Volendo ciascuno la propria insegna, e ſu forza d'allargarsi in più colori, e quel medesimi in dirersi modi formare a doghe, a sbarre a traverse, a onde, a scacchi, ed in mille altre maniere o. I3orgh. V. « E quelle recchie loro col fazzoletto sul riso a saltero.... V e contº elle ci ſan gli occhiacci torti ! ». I3uon Fier. (144.« I pesci nolar redeam per lo lago a grandissime schiere ». Ioce. la modo di..., – schaaren Weise, Zll...).« Venite a me ispesso, ma non venite a troppi insieme che forse non sarebbe il meglio ». Sacch. (145).«... renendo da me, non renile a molti, ma a due o tre o. I3ocr'. (non molti insieme, ma due o tre per volta).« E come gli parve tempo cominciò a mettere coperta nºn le ſanli in Faenza a pochi insieme o Vill. (i.a Il conte vedendo che la Chiesa non gli mandara da mari se non ti slenlo e a pochi insieme, le melle... ». Vill. (i.« Le gocciole del sudore del sangue di G. C. che per tullo il suo lº nero corpo a onde discorrevano in terra.... ». Med. Alb. Cr. (Fºcerſili grande onore regnendogli incontro a processione con molli armeggiatori o Vill. (i.“ Come da più lelisia pinti e l ralli Alla liata quei che vanno a rºta, Lºran la voce e l'allegrano gli alli: Cos... ». Dante, vanno in modo simile a ruota,(0r chi se lui che ruoi sedere a scranna? ». Dante. (sentenziare a lnodo che fa il (iiudice in tribunale.« La licina prese a vero la parola e incontamente la significò al Re di lºro ucit sito fra lello » (i Vill, per cosa simile, o conforme al vero). “ Se io parlassi a lingua d'angelo e a lingua d'uomo, e non avessi col rilà sì la I ei rom e la campana che si ball e o. (ir. S. Gir. in modo sº. mille a Illello che puo mai fare un angelo ecc.,li gli amando la nudità serrò la resle di (risto: voi, vestiti a seta, arcle perduto il reslimento di Cristo - Vit. SS Pad. (146). Vom scºrre mai se non a suo senno, I ): ille, Conv. 147.  v  I na gioranº... bella li a lull e l'alli e... ma sopra ogni altra bizzarra, spiacevole e ril rosa intanto, che a senno di niuna persona voleva fare al c'll not cost, nd” (il tri ſul l lut role ra a suo, l 3,.\ (ii resse l?omolo a senno suo. V una tecon ciò il popolo a Religione e Divinità,. I ): V.lo roglio del I e di costui che renne lui di, alel mio a mio senno, arri'. gnacchi non l'abbia merita lo. Pass, come mi pare e piace).... fallo a ress' io a senno del mio cane figliuolo e non egli del rec chio padre !. l)av.Dorma ri e da cantar l'usignuolo a suo senno liocc. quanto e col le V Il le.Ma non si arendo con quei pesci caratlo a suo senno la fame.... ». I I'.... l (t m lo c'h e a senno vostro io, lo debbo tre le l il 1 le pel contralatte no. (i il b.\ on ne corrò meno di li cºn l' ollo, come egli me ne prestò e jam mene questo piacere, perchè io gli misi a suo senno e l'occ. 1 (S). e in somma si pose in cuore di colei e io e contrario a tutte quelle cose. eh ella si dilella ra quando ella era rana: e questo lutto a senno e volontà del suo maestro, e con e ci lui piacesse Cav.... e atmcora pensatrano di domandati lo che modo e che rila t ressero a tenere, e ancora quello che dovessero fare delle cose corporali, impe rocchè ogni cosa volerano che fosse a suo senno e a sua volontà ». Cav. i 149). ... tutto quel rimanente di pianura a mare n. 13art. 150). (posta vicina al mare, che si illiene al mare, e anche piana come il mare.  ('a mm e rut a tetto, (la zzi.  I Ncio a strada. I3oe('. ... e se la collut ne' loro luoghi a mare l ro raramo riso...., allora de lizia ramo ). I3arl. ... incontra un rento che le si stende a poppa. l?art. I che sollia e spinge innanzi investendo soavemente la poppa).  « Portava a carne cilicio aspro. Cav. ſrad. a strazio di viva carne  “... faceva asprissima penitenza, portando a carne sacco asprissimo e di sopra un rozzo vestimento o. Cav.  “... negozi che non si fanno tutta ria col notaio a cintola, ma con fede e lealtà di semplice parola. liocc. (par che dica: col nolajo attaccato O appeso alla cintola.  ma con ballerano pianali, dove i nostri con iscudo a petto e spada  in pugno, sloccheggiarano quelle menº bront o. Dav.  « Messa si prestamente una delle robe del prete con un cappuccio grande a gote,... si mise a sedere in coro... I ce che arrivava fino alle... o da coprirsi le gole)  a La moglie ne lece piccolo lamento a ciò che ella dovea fare ». Vill. G. a petto, in confronto di....« Ma io credo a rei rene dello pure assai. Aſſà sì, a quello che porla il tempo, non a quello che ſulla ria rimarrebbe n. Ces.« Troppo ci è da lungi a fatti miei, ma se più presso ci fosse...... Bocc. (per rispetto, relativamente a....« Ciò che daranti dello ſtremo, poco è a quello che dire intendiamo ». I3 cc.« E tanto basti a rer accennato di quelle che per poco che sia, al niente che riliera il saperlo, non può all rimenti che non sia lroppo ». Bart. « Che è questa pena a quello che merita sti? ». I3occ.« Ma che è a Dio la oll racola la superbia di un rerne? ». Dav. « Dall' età di Demostene a questa ci corre 400 anni, o poco più, che alla frale vita nostra possono parere spazio lungo; ma alla natura de' secoli e all' eterno è un batter di ciglia ». I)av. (15 l.« V ent'anni ! che spazio son dessi all'eterno? tu se' ma la merce tanlessa se ruoi ch' io li baralli a quello o. l)av. (1 o 2.« Ma lasciamo andare questa comparazione e simili, le quali sono piccole all'altre spese, che si fanno soperchie ». Pandolf.« Le cacce, i parchi, le conigliere, le colombaie, i boschi e i giardini che ri sono già inviati, sono cose ordinarie, a quelle che si possono fare ». Caro.« Essendo conosciuta così allera, Che tullo il mondo a sè le pſ rºot vile ». Ariosto. (cioè: tutto il mondo, paragonato a sè, le parea vile). « Noi abbiam casa d'aranzo, alla famiglia che siamo ». Cecch.  « Domandò quanto egli dimorasse presso a Parigi: a che gli ill risposto che forse a sei miglia ad un suo luogo ». Bocc. (153). Ch'era presso alla città forse a due miglia ». Fioretti « Appresso delle sue terre a tre giornate ». Sacch. «... io vi era presso a men di dieci braccia ». BOCC. Onde seguì a poco tempo che 'l predetto Irale non resse all'Ordine e lorn Ossi (al secolo ! ». Vit. SS. Pad.  “ Lo l'isloit rispose, a lui parere gran fatto, ma dovendosi a pochi di lorni (tre redrebbe chi di loro losse che dicesse il cero ». Sacch.  “ Egli è la fantasina, della quale io ho avuta a queste notti la maggior lºtti l'a che mi ti s'a rºsse o lºocc. (intorno a queste...., in una o alcune delle scorse notti. (154).Forse a otto dì alla sua promessa vicini. I3 cc. Fiam. lla nosli a lo desiderio grandissimo e in certo modo certezza d'ac col lo..., non ostanti le cose delle a questi giorni in contrario ». Caro. E a questo sci irri e toscano basta la lezione delli rostri tre primi l'atmlº, l'ºl rarcati e l'occaccio, e di certi buoni che hanno scritto a questi tempi ». Caro (circa, in lorno a questi tempi  « Il cui dilello a rendo il maestro redulo, disse a suoi parenti che dove un osso lracido, il quale area nella gamba, non gli si carasse, a costui si con renica del lullo o tagliare l’ulla la gamba o morire, ed a trargli l'osso potrebbe guarire ». Boc ricorrendo al mezzo di... appigliandosi al partito di...). (155).« A grave e crudel morte ti fa i ) morire o, Cav. di morte cagionata da grave e crudel supplizio).c... in un suo orlo che egli la cort ra a sue mani, l?occ. A buone lanciate li ribullarano rovescioni giù dalle scale ». Bart. (a forza di..«... aggrappandosi a mani e piedi su per greppi inaccessibili ». Bart.... miun alti o di sua grandezza aver avuto due nipoli a un corpo: recandosi le cose ancor di fortuna a gloria ». Dav. (156).« Vi dico che 'l cui rallo è mul rilo a latte d'asint... Ed ln l'ennero clº il puledro ſu noi ricato a latte d'asina ». Nov. ant. 157).« Il Demonio tutto di pugne a coltello i peccatori, e non gridano, e non s'agitano, e non si difendono, e non se ne curano: ma lo sto sentiranno il duolo delle fedile, se non se ne medica no ». Fra Gior (cioè: « punge cacciando mano a coltello ». Gherardini).  « I rrecarci in collo un fascio di legne, e rende alo a pane ed ad altre cose da mangiare ». Fioretti. (gegen Brod., mediante permuta di...). a che parimente l' uman sangue, anzi il cristiano, e le dirime cose a danari e renderano e compra citno o l'80cc.« Qual colpa, qual giudicio, qual destino, Fastidire il vicino Porero, e le fortune alflitte e sparte Perseguire, e 'n disparte Cercar gente, e gradire Che sparga il sangue, e venda l'alma a prezzo ». Petrarca, Non per vendere poi la sua scienza a minuto, come molti fanno o. Bocc.  Schiacciara noci, e rendera i gusci a ritaglio ». I;occ.  “ Vicere all'altrui mercede ». Giamb. (appoggiato, mercè dell'altrui... (158). -º 1 ndando un dì a vela relocissimamente la mare... ». I;occ. (cioè: la nave commessa a la vela. 159.“ Malacca, tornata peggio che prima su gli sparenti e su la diffi. denza era tutta a popolo ed a romore, l art. 160,“... e mise il mare in così sforma la tempesta che quattro di e qual tro molti corsero perduti a fortuna, senz'altro miglior governo che..., Bart. abbandonati alla fortuna, in balia della....;  1 -  « Non è sì magro cavallo che alla biada non rigni un tratto ». Fie. renz. (che al Vedere la biada.« Non possiamo a certe stravaganze tenerci di non le motteggiare. Caro. « E molte volle al fatto il dir riem menu) p. I)alte. « Se tu non te ne al redessi ad altro, si le ne dei a rivedere a questo, che noi siam sempre apparecchiate a ciò, Bocc.ſt Ma dimmi: al tempo de dolci sospiri. A che e come concedette Amore Che conoscesſe i dubbiosi desiri? ». I)ante. al vedere che cosa, facendo attenzione a che cosa. « Conoscere all'abilo. alla furella, e simili.  « La città si reggeva a consoli o Vill. (i. (con governo di.... (161. « La della città si resse gran tempo a governo e signoria degli Impe r(Ilori di Roma ». Vill. G.« Se li vorrai ricordare di qual patria lu sii nato, conoscerai che ella non si regge a popolo, come ſacera già quella degli Ateniesi, ma è gorer nata da un signore solo ». Varchi.« ("h e la città allora si reggesse a Consoli o con l'autorità del suo con  siglio o senato, lo dicono chiaramente gli scrittori nostri » Bargh. Vin.  Seguono altri esempi di un'a ad altro valore che di semplice pre posizione e di usi assai diversi, ed in parte anche noti. Non ne faccio serie distinte, che sarebbe troppo lungo, ma ne scelgo alcuni e li di spongo qui alla meglio, l' un dopo l'altro. " " º "gli º º º ninno che voglia metter su una cena a doverla dare a chi vince ». Bocc. la quale sia da darsi a chi  ": lº º l'"ºn lºrº in su un ronzino a vettura venendosene ». Docc. destinato a lirar la vel | I ra”.  “... con le note rele a chi più mi esalli, I; art. tale [llo, ad hoc: chi pil...).  Inler indire a morte o l'iel'eliz. º lº Iºsti a baldanza del Signore si il batteo rillanamente... ». Bocc con lº e' Illanti da compiacere all'ardire...).a l?ilo) ma ndo a d'onde mi era poi l'lilo...... Fier eliz. (al luogo onde). 1 cc (sotti nel castello... vicinissimo a dove ºggi all blano 13asilea (iia il (al luogo dove.('on atmdò a pena della testa. I3 c. (bel Todesstrafe). 1 ml e pare essere a campo, tanto cento viene su questo letto » Sicch. Fr. esposto all'aria del campo.lº a mal rete in sino a Pisa a questi freddi i... Cecchi, (cioè esposto a | Iesi freddi lo i diesel villeº la donna rimasti sola, racconciò il larselto da uomo a suo dorso, l30cc. (sì che facesse pel suo dorso (162).“ Qualunque altro trilla la resse, quantunque il tuo amore onest., slalo fosse, l'arrebbe egli a sè amata p) i loslo che a te. l oce. (cioè: l'avrebbe egli ama la destinandola a sè per sposa, piuttosto che cederla ti le o. (illerardilli.“ Ed il popolo tutto a grandi voci ringraziò ladio. Vi ss Pad. (163, l'ill d.In abito di peregrini ben forniti a denari e care gioie... ». Doec. cioè: il lallo, per quello che spella, relativamente.....1 Firenze il luglio e l'agosto si sta male a pesce, perchè si arriva sempre i radicio e pazzolen le o. I Redi I e II. I 64.l'ol re, in li a prendere q. c. ad istanza, ad indotta di alcuno o. I3oce. I ): I V. I 3:ll'1.  I tesla finalmente a mostrare come anche l' a copulativo e ad ufficio di semplice particella prepositiva venisse allora adoperato dagli autori classici il lima i maniera assai diversa che non si faccia comunemente e volgarmente col linguaggio di oggidì ed è pur degna di osservazione e di studio.  « lo estimo, ch'egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando Do menedio me manda altrui o. IBocc. (165).  c ('he cosa è a ſarellare ed a usar co' sa ri? ». I3oce.  lo dico che è cosa commendevolissima a mangiare e dormire con sobrieldì m. 13art.  Giunto (un cervo) a una stalla di buoi, entrò fra essi: de' qua'i buoi uno parlò al cerro lali parole: Questa è cosa nuova e disusata a star con noi ». I sop. Cod. Fars. « Misericordia si è a perdonare l'olese che sono fatte...., a consigliar chi dubilat, e ammaestrare chi non sa m. Fior. Virl. A. M.  « Mi si arricciano i capelli a ricordarmi di quella orrenda entrata, e sola vittoria di Gallia o. Dav. (166.  «... ed ultimamente per renne l'anello) alle mani ad uno, il quale area figliuoli belli e virtuosi, e molto al padre loro obbedienti ». Bocc.  « 1 cciò che a mano di rile uomo la gentil giovane non renisse, si dee credere che quello che arrenne, Egli Iddio per sua benignità per mettesse ». Bocc. (167. ... ed egli ricercò di more colmen le La basso che stesse contento a dazi ordinari, senza metter muore angherie, (iial b.  Ma siccome noi reggiano l' appetito degli uomini a miun termine star contento...». Bocc. (168.  «... e len negli ſarella infino a vendemia. I3occ. (169.  « L'ora ju a sospetto; la cagione presa per colpa: e la procura la quiete le rò rumore ». DaV.  « Da lui le parti si allolla cano allo no a fidanza di sentirlo parlare. Bari.  « Non ti nara rigliar se io le dimesticamente ed a fidanza richiederò I3occ. (con conſidenza) (170.  «.....passalo a Mantova il cerno, il Padre lo tra millò a Casliglione a speranza che l'aria ma lira e la bella postura del luogo lo risanatsse di... S.  « Non pensando che li mandassero a processione cerli re rsi con l' gli han manda li p. Caro (17 l.  « Era fornito l' altare a bellissimo disegno e con molto splendore col (tlchè..... » IBarl.  « Gli parlava a capo scoperto ed occhi bassi (es.  « Arregnacchè a sua colpa la naricella sia fracassata e rolla º l'assav.  « Il peccato nº ha quegli che 'l ja, perocchè l la a mala intenzione o I'l'. (iiol (l.  « In due maniere sono perdule l'orazioni dell'uomo: s'egli non le fot a buon cuore; o s'egli le fa, e non perdona a colui che natº lº ". (i l'. S. Gir.  a 1)unque loi lu ricordanza al Sere! Fo bolo a Dio che mi vien voglia di darli un sergozzone n. 13, c.  e Slot che lo: io li lai di medico re al mastro 13anco che è molto mi o (1 mlico. Sacch. i 2;.Signor mio, io son presto a contessori ci il vero, ma fatevi a ciascun che mi accusa dire quando e dove io gli tagliai la borsa, ed io vi dirò quello cli e io ci ri ) la llo, e quel che no. 13 cc. (173.l'ulte queste cose in lesi io gia i ceti a 1 e a uno ricchissimo padre e lº la miglior rosli o di colo, l'alla loll.l clendo º l'ucidide l e lui e ad Erodoto le sue storie, s'accese cla  (I 'nº' Noi ci il bi: i ne'. Salvi i li. I 4. e l not figliol lat.... non essendo ci slui ma, e udendo a molti cristiani.. -- mollo con nºi, la l e lui ci is list not leale..... l oce.  i menduni o alibi due li fece pigliare a tre suoi servitori ». Bocc. ll fece prende e a' suoi uomini ». Sacch.chiunque per le circostanti parli passa ra rubar faceva a suoi soldati.. l) co.e appresso. Nè lece la rare e sl i picciare alle schiave ». Bocc..... Può e deve per sè dei irare a tutti questi capi infiniti ed efficci - cissimi i corili rli, (al. I 5.a guisa che la veggiamo a questi palloni Francesi ». Bocc. a quella guisa che far veggiamo a coloro che per allogar sono, quatrº - clo prendono alcuna cosa. 13o.Mollo a reali le donne riso del cattivello di Calandrino, e più n ci - ri e libri ancora se slalo non fosse, che lo inci ebbe di vedergli torrº' ancora i rapponi a coloro che lollo gli avevano il porco. Docc. I., ol, ndo la r e nè più nè meno che s'acesse ceduto fare al maestrº - ct tal, le... l i r.l mal ripo' a gillossi alla mano di Paolo: la qual cosa (per la un tal e si relendo quei ba) bat i prende e la mano di Paolo a quella bestia. - - - - alls Nero..... A li apost. | | 6.Sbigottiti per le pene e per li tra ci tormenti che avea veduti Sos tº 7 ti, a peccatori li l': il ril Vlli... l'assveggendosi guastati e a quelli che c'eran d'intorno... ». Boce.... e ad infiniti ribaldi con l'occhio me l'ho ceduto straziare (il mai ») I 3, (-.. goira, di qui e beni che li reali gode) e a questi padri ». Ces: a ! Lasciarsi ingannare ad una rana e slolla speranza ». Pass. (177). Lasciarsi colgere al piacere all rui. Caro.Lasciarsi colge all'obbedienza del superiore, Ces. Lasciarsi rincor e' a questa gente, l?art.Lasciarsi occi pare e vince e alla paura, per forma che... ». C º Ed egli tutto fuoco lasciandosi tira e al suo usalo ferro e d'alletto. Ed io roglio che lui gli conosca, acciocchè regga quanto discre º º men le tu li lasci agli impeti dell'ira trasportare ». 130cc.  t « V assene pregalo da suoi a Chiassi, quiri vede cacciare ad un ca valiere una giovane, ed ucciderla, e diroiarla da due cani o Doce. (178).  « ILa giovane sentendosi toccare a: - nºani di c li l il, il 1 le ella sor, i l tutte le cose amara..... senti i l la erº nell'a mm, quanto, se ios se stata in Paradiso ». Bocc. 179).  NO te e Aggiti inte  all'Articolo 1. :138) Gli esempi che ti allego, divisati e ord. nati come meglio seppi, sono in numero Inolti e di Iliolte forme e baster: illo; ma son ben pochi del resto, anzi pochissimi a quelli che mi vennero a mano. Non ne ver rei a capo in parecchie centinaia di pagine se Illſ e prendessi a recitare le proprietà, i privilegi, le perogative, gli usi iroll eplici di cosi fatta particella, scandagliarne e discuterne le intime ragioni logiche, erigerne teorie e apprestarne criteri; fallica, del restº, di n. llli pro e per poco no civa. Ella è assai spesso elemento essenziale di Ip idiotismo, o maniera di dire leggiadra e propria della lingua italia tra es. fare a chi piu Iman gia, beve, grida, ecc., e come tali e non in par (Illi luogo da ragionarne, si come quella che d'Illi si intimo, lodo si lega, o per cosi dire si ſolide cogli altri elementi, che ad estrarla, appena la riconos i, e vi si però sell irrle, gustarne ed apprezza; II e la fa, zii, il ll - da sè sola, Ina nel suo tutto; il che pili convenientemente ſaremo alla terza parte di questo I)irettorio.  I)i più l' a articolata (III en, preti ess: a 1 in li od altre voci di II, la moltitudine sterminata di maniere avverbiali, nelle quali quella medesima preposizione a, che talora il lica spartiſamente disposizione: a uno a uno; a decine a decine ecc.; tal'altra del ta III do, Iorma: andare a piedi, a cavallo; fare checchessia alla buona, alla carlona; a poco a poco, a otta a otta; vesti a oro, drappo a fiorami ecc., e signi a 1:1, ora, quan-- do imitazione: vestire alla francese ecc., e quando fisica e morale disposi Ziolle: a viso aperto; a occhi chiusi; a malgrado ecc., lIiolti dei quali nodi, cioè i meno noti e pur degni da inci Ilcarsi, si addiirra:ino, corredati al solito di buona scelta di esempi, quando ratteremº degli avverbi o for me avverbiali in particolare,  (139). Nota il modo andare a diporto, a diletto cioè a scopo di diletto ecc. Simile anche l'altro del Passavanti: Guardare a concupiscenza cioè con appettito di rea concupiscenza. Cosi si dovrebbe intendere anche il modo (divenuto) Volgaro: andare a spasso, cioè non nel significato di an dare a passeggio, ma in quello di andare scrivere, leggere ecc.) al scopo di svago, di diletto, di passo. al 10,. Ti aſiuc.: (ull'allino, col intelizione che confidando e ricorrendo alla livina il seriº rili: lle soglia poi la V V ed Incillo e perdono. I 1, l: la traduzione del molo luogo: maledictus homo qui peccat in spe. Ma Ilia lil, e lº iu vaga e lo I e la Irase italiana! Vi senti l'anilino 11 i - osl, illo e resi resi li ti so a ore, il cliale, Vinto dalla pas sic, Ile, Inti Illit do pur spel I li ai li la V Vt di Irle:lto e perdono continua Iel 1, ne a 1 I test Illlarsi i pc.I? Nota la rase: eleggere a re, a maestro, a direttore, cioè ad uf I l i, (il... SIII il ricevere a servitore. l'elilella, che Griseida non I s se l'all 1', ai loro presi, e per lui el'. ll v pendendo, ricevere mol \ -- a servidore... l 3, l 'Il sl, avere a maestro, a padre, a si  giore, l Ne l il roll, il Sesil I allegri da poi che l'elobo lo a signore, l'av. S. Analoghi anche i modi: avere ad o more ad orrore:..... ed s, il fr. ta lite nostre sord, de zze, ma n avrà  ad crrore d'esser da noi i co, da 11 Segn.; avere, tenere; a schifo, a vile; recarsi a vergogna; tenere, avere alcuno a savio, a folle: N Il tr es. i tu a molto folle e la l... » e c. Sell. l'Isl.: avere a tale: « Mlo - rand i poverta lolio Ila e l re r1 llezza l'eo, acciocchè noi il do vessli, i a tale avere. » (ill 111. l.eli.: avere checchessia a misfatto: « A non « minor misfatto aveano il lei e una pulce che un uomo ». Bart. avere a niente. Anni 1 -1 a i l’aut re che il luno, per lui sia in istato di gran polenza, prenda il dire di Villa il gelare e arrogantare i miseri e pic averli a niente.» l'isp. Cod. Fars.| 13, l. a. arti, lata Ilo, di questo e del seguenti esempi, dipendente lei il l l e V g. In - re: a portare, a dovere, a fare ecc. o in a 1 l di sol: Igli, l,, sia il il logº dell’ull o dell'altro verbo (vd: l'ast di Illi e ! ll I lil.S: il l V el sl at le porti li o le inonache. 115 C1 e fra l'era da cori veri e li molli alla volta. E' proprio il zii viel del I cd si li. Ed an li a due, a tre e si traduce zu zwei, zu drei e.I 6 Simile: Sopra vestito a bianco come neve, Vlirac. Madd., ed a 1 le l: i rinse notissimi la vestire a lutto, a bruno: E vedrai mella morte l ' Illi. Il I | 'ltte vestite a brum le li:lle l'el -, l'etrarca, \ mire - della quale si sedeva il la limatrona tutta piena di lagrime vestita a bruno., l'i. e z! modo, secondo, rili e il senno suo. No alo anche lº: li es. I | i le segli no, lui e sto mollo: la re checchessia a suo senno, a seiºno altrui.. che è bello e proprio della Lingua italiana.1 - Si!! i:ll": lo misi a suo senno, a senno, a talento di..., è l'altra a sua posta, a suo avviso, a posta di....... cºli e lo ss 1 in do per il ri sultº all, pie o altri membri in sua volontà se iroli a posta d'altri. IPal d lf. Conf. Parte II, Cap. III, Serie 3: Modi avverbiali a governo di a.)l º Vl: si ro (i valra pare che piu che il modo: a senno piacesse ta lo 1 l'altro: a senno e volontà.150 l 'a d (Illesti esempi ha alcun che di comune a tutti, ma non è - "Il pre il nº de into. Si infilo, gli slalo, che è evidente e di un sapore che lo: si potrebbe dire. (151) Ha ripetuto la nota frase di Dante:....mill'all ni..., e l'Iti “tºo Sli zio all'eterno, che un muover di ciglia Al cerchio che più tai di ill e leio è tOrtO ». (152) Nota il costrutto: barattare a... Con il Premiº Ilari (153). Senza entrare in discussioni nulili a chi, noi la filos list della lingua, ma la lingua stessa si vuole (Il racemente imparare, li II lºttº Illi alcuni esempi di un a che si riferisce allo spazio sia di 1 li luogo e torna press'a poco ai modi: indi, di li a, in capo a, Icntano, di stante tante ore, tanti metri ecc. Le frasi dell'uso: oggi a otto; lettera di cambio a sei mesi lida per sei mesi) e simili, sono modi di un a a quell'ilso e valore º il gli esempi che quivi arreco.(154) Questo a è somigliantissimo all' a dei precedenti esempi la to alla forma, non quanto al senso che manifesta Iriente è assai diverso. (155 ) Questi esempi recano una che par significhi col mezzo, mercè di, ricorrendo a ecc.(156) Nota qui anche la frase: recarsi a gloria. (inf. V b. Recare, Parte III).(157) Così dicessi: Quadro a olio, ad acquarello e va dicendo. (158) L' a di questi eseIIIpi ha i rain (li: abbandonato a, appoggiato a, in balia di ecc.(159 ) Crinf. sotto Nave IP ultitario) - VIa niere propri della Natiti a (160) Nota la bella frase: essere una città a popolo ed a rumore, cioè in rivoluzione, in balia del popolo ecc. – E piaceni (Illi II, il vantº le altre: andare a rumore Bart, levarsi a rumore, levar popolo Iº i rt., I)av. ecc. ecc.).(161) Mefferai a sacco anche questa frase: reggersi a re, a consoli, a popolo ecc.(162) Simile anche l'altro, pure del Boccaccio: La donna li fece a p. prestare panni stati del marito di lei, poco tempo davanti morto, li ciuali « come vestiti s'ebbe, a suo dosso fatti parevano ».(163) Dicesi anche, ed è notissimo. a bocca aperta, a struarcia gola, a braccia tese. « I)al sommo d'una rovina si vede Ina donn:i..., la quale « avendo il figliuolo in mano, lo geſta ad un suo... che sta nella strada « in punta di piedi a braccia tese per ricevere il fanciullº o Vasari. (164) Prima di passare ad altro ti piaccia altresì por In, nto, tra le altre molte che le son notissimo e non accade occuparsene, alle maniere: essere a studiare, a giocare, a desinare, a dormire, e nºn ho: trovare, ve dere, stare a giacere; porsi a sedere e simili; il cui a, si bev, rifl 'fi, e si è quella semplice preposizione di vincolo o relazioni o come: venire, andare, cominciare, disporsi a far checchessia, ma necenna attualità di azione ed implica il senso delle parole: nello stato di, occupato in, attento, inteso, dato, ridotto e simile. « Io mi credo che le Suore sien l'uffe a dormire ». Bocc.: « Che Venerdì che viene, voi facci:lto sì che M Iºa olo Trav orsari « e la moglie e la figliuola o tutte le don; e lor parenti, e il l'e. In A i a piacerà qui sieno a desinare moco ». Rocc.:. Venuta a dunque a con « fessarsi la donna allo abate, ed a piè posta glisi a sedere... » Bocc.: « Costoro avendola veduli'a a sedere e cucire.... o IBC) c.:. Altre stallino « a giacere, altre stanno ºrie », l)n mtc.; e Sfi:lmo:) Inc it:) veder l:i gli ri: a Inostra ». Petr.; e Veduti gli alberelli de silli i colori, quale a giacere e quale sottº sopra, e penneli tutti git at qua e là e le figure tutte il Illbrattate e gli isl, -: i bit, p lisò... » Sa ll.: Si III osse correndo verso a la Cl re e trovandola a mungere e 1: i...., (a: « I); pinse un re a (sedere coll ol'e lli lilli gli lss II e V dl ialli. - l am dei Incrdi: am Studie ren, am lesen, am spielen sein, e simili di alcune provincie della Ger II l: l Ilia, e appllini o l'a del c: la lol V e In altri casi l'a di un in finito soggetto a V el'lno, loli a m - Vlt; tl, i dll re, la zu.165, l 'a di questi esempi st: l'a rti oli per altra preposizione articolata e sappi ch'elli e V zzo 1, si a n a preporre talvolta all'infini, o,  a maniera di sostantivo e soggetto comunqil di una proposizione assolu ta o dipendente, la preposizione a live e dell'articolo, ecc. (166. Trad. lel I l rilarini, e lui 'i gli 1 volta che mi avvenga il ricorda l'ini, so oft, quoties recordor ecc.167 i Venire alle mani; a mano di alcuno e anche Iriodo figurato i le significa: venire in potere d'alcuno.16S) Nota la frase: star contento a qualche cosa. Cont. Contento, l'arte II, Capo V.).169) Simili i modi andare a città Vo' in fino a città per alcuna « Irli:l vicelli la o lº si... per Vai l'll lno illo, cle andava « a città, l o in illera el tº:ca e vale i nda, e per fatti suoi al capoluogo. Di un viaggiº (ore. ll e la sºsta di ll'i: in altri, iº fa e non dicessi che va a città; andare a santo;.. ll v. l t. ll li i possº andare a santo, e nè il niun bila il luogo ». Boc.; andare, recare a marito –.... e questa Il l:nti ! nº ll e lo o ire a marito, e le festa bis lo fa a è apparecchiaio, Do..:.. lo - a: a re dei di delle feste che io recai « a marito » l 30..: essere a riva di... e l ', a riva di Reno dllo est l' e citi » I), v.: menare a prigione l'a e il gºl al de ll cisiolle di ri e Illiri... che ella si illlllo ne menarono a prigione, ma tutti li misero al a taglio delle spade ». V ill. G. ecc. ecc.(170) Non lo scambiare con l'a fidanza del primo gruppo di questo medesimo numero. Lo stesso dicas del In lo seguente a speranza. i 17 1) I 'a di questi esempi sta evidentemente in luogo di una delle pre posizioni: con, per, in, da.17?) Coi verbi: fare, lasciare, vedere, udire e qualche altro simile, che reggono un'azione in infinito, il sol getto operante di questa, osserva assennatamen e il Fornaciari, si suole, per distinguerlo nettamolto dal l'oggetto, cºstruire collo preposizione a, che corrisponde all'accusativo a - gente melle locuzioni latine con jubeo, sino, video, andio ecc. – Messo to scalmanente si pone il soggetto colla preposizione da, riguardandolo come semplice causa dell'azione. Laddove a dire a esprimesi ancora il rispetto, l'ordine di moto, dirò così, a chicchessia o checchessia hin, her), l'atten zione, il concorso positivo della volontà, l'azione comunque diretta del soggetto principale verso l'agenl e, o, come dice il Fornaciari, verso il soggetto operante, cui egli ſa fare, od al cui ar o dire porge l'orecchio, volge lo sguardo ecc.Ed ora ritorna agli esempi e sappi s'egli è indifferente e affare di garbo soltanto, con lo molti asseriscono, e tra gli altri lo stesso IP. Cesari, il porre in sifatte locuzioni l'a per da o viceversa. Trattandosi poi di cosa  dicevolissima se pur non necessaria ed opportuna all'interezza e verità del discorso e tuttavia dai moderni niente osservata, parvelli di allegarle un buon numero, e ciò all'effetto di toglierne il mal vezzo se Inai bi sognasse di riformarne il gusto.(173) Ognuno sa che il fare dei modi: far portare, far lavorare, far medicare ecc. equivale ad ordin: re, coma Ildare che si porti e, altro di somigliante. Ora vuoi vedere se quell'a lla sua forza e il n vuºl essere scambiato col da: costruisci ((il comandare, e il 1:1 l 'lie chessia: chicchessia, sarà nè piu nè meno di colmal, dare a chicchessia 'io di reatamente) che ei faccia ecce. quando il far fare che chi sia da l 1 es sia è comandare che si faccia da chi li essia e -- la fa ! (sia cioè che il comando venga da lui li et la III elte o - li sta r il till iſlie trasmesso).; 174) Se avesse detto: udendo da.... sal ebbe stata, l'horen 1 e O ll ricevere materiale involſrl)ti l'io, e aslla le cºlle a l' lel st sia che lo si ascolti, sia che llo, con l at Inzi - nzi; Il lil I l e i leti, udendo a, volle precisamente significare l'an. zuhoren, l star o ce clio, tender l'11 di o, l'udire (oli attenzione e concorso li vol ! 11a. 175) Cioè: dee fare che da 11, l I questi capi si derivi Quel deri vare è qui adoperato a forma di verbo callsativo e sigla I a far deriva re (conf. parte II. Natura ed essere val o di alcuni verbi e(176) Tra (luci: volge:ldo la vista, gli ardi li do a Illella ln l lin, la ti: i le prendeva la mano di Paolo.177) Sostituisci l'al fine permettere e saprai li ferenza da a. (178) Questo esempio ci porge ma era di altre osservazio i cle non fanno qui. Conf. Natura ed essere vario di alcuni verbi ci l'arte II. (179) Il Gherardini spiega cosi: La giovane sentendosi ti recare venuta o pervenuta alle madri di colui occ.; pare al Gherardini di sentire il quell' alle mani, la voglia altresi che aveva di pervenire a...180) Nota differenza tra la frase: sentir dello scemo e l'altra: sentir di scemo in checchessia, cioè aver difetto, ecc. Conſ. Verbo Sentire, l': i e III).181) Nota la questa frase far del...., simile alla precede le sentire, ave re del...), che è Imaniera bellissima e nostro.º 182) E altrove: « Come state dello stomaco? » cioè per rispetto in fatto di...., in quanto a...  Cilf (cong.)  Prima di farmi all'oggetto da trattarsi, piaceni premettere cosa la quale non li verrà si strana e Irivola che non ſi sia anche il lile e a grado altresì d'averla udita. “ (lº è prontone, dice il vocabolario, ma è anche congiunzione di  frequentissimo uso dipendente di verbo, da avverlio, e da comparativi; º coll'accento sta per poiché, perchè -  l' “osi la pensano granai e filºlogi che l'urolio e che sono, nè sa  prei º solº cui cadesse in animo di contraddirvi. l' olga il cielo ch'io ººº º lilli di tenerla a leva, ma a censore di sì tillo, autorevole magistero º il falli, che in omaggio a al do Irina pongo qui il chº, S! " ºn liti il tonº, o il la sa cli, il ragionato estè. Ma se li pur in mia i a V, e  - - irº che questo che di frequentis sillo liso. I pendente ci v. l  - Si p. ssa:ili le intendere o sentire tuttavia pronone, cioè lº chº, nè più nè meno, del precendente numero A lizi, diro 'll 'i'i, lº sll sl tit, ti ma il rale di semplificare e vedere il lill lo tiri I l ss,,  - i gºl.... l III di strano ch'io abbio di concepire, io non so e  A cdr e sentire nella voce che, adope, sola o al I e di altra voce, Se non il pl o non e' e non altro mai che il promonte, | Il lido in una, quando in altra forma.  l' essi i S  \ ºpi ilarli poi di questa ini era l' intendere e sentire, ti  Pºi lui appressº i monti e pon i no e l'intrinseco valore Virli sillclica di Irla i  - l\ ini: gli orsi, chi ben la consi deri, in altre voci pron nera' i ritmi le gi annuali ali:l'irroli cinque differenti manici e di un colal che cong.  | i l. I l a sla al riti il che vo non, sale. I3 cc.  2a Mio fratello è pil dello che pio. :3a... che vºli che li cosi rilla la ventilra che non è persona, Boc. ſa « Non era ancora arriva lo che io e gi i partito.. ;)a lº si pensava che ingannando i l i crilin fosse appresso al tutto  signore n. Vill. (i.  Questi esempi reali, il che dei casi nellovati dal Vocabolario, e che ippo i Cirali ma ci addini in asi rigorosamente congiunzione. Ma se ci testo che la fa il resì, e li si sv: r al guisa, da pronome (v. numero precedente, e il qui il lice cilalo che comporta decomposizione in una ad altra gilisa dello stessº i rom ne, chi ini viola di riguardarlo, senza inello con le pronoln e sen| Irlie al suolo i rispellivi elementi? Il che del primo esempio lesla in me il senso dei modi: di quello che, di quella cosa la quale. Quel del secondo vale, a mio intendere, quanto le voci: di ciò di questa cosa il verbo del secondo incis, virtù di elissi, omesso. ll Ierzo lo riconosci agevolmente quale il che del numero precedente, solo che nell'avverbio così ſi intenda l'equivalente: in tal modo. Anche il quarlo lo ravvisi evidentemente pronome framellendovi la voce allora che va lui forse sol ſintesa, ed i cro che la frase torna subito all'altra: in quell'ora, in quel tempo nel quale ecc.  Più malagevole a concepirsi pronomi pare, a prima giunta, il che del quinto caso, nè mi basterebbe l'animo di asserirne la possibilità se testimonianze ai lorevolissime non li vi confortassero. Come infatti ri guardarlo questo, stesso che quale pari ella ad ollicio di pura e semplice  congiunzione e punto capace di virtù pronominale, se non vi è paro' a cui congiungersi, non un congiuntivo od indicativo che sia comunque obbligato al che, ma un indefinito? Eppure ant'è. Proprio il verbo del citato esempio, ch'io voltai al congiuntivo, il Villani e lo mette all'inde finito, ed eccolo nella sua originale integrità: « E si pensava che, in “ gannando i Fiorentini, e venendo della città al suo intendimento, es. sere appresso, al tutto Signore ».l'erchè parini da ragionarla così: Se quello stesso che, cui noi avremº Ilio obbligalo un congiuntivo od indicativo, sì come nodo, il ppoggio tramezzo di questo ed altro verbo, appio i classici rinviensi Ialora susse. guito dall' indefinito, che a nostro modo di intendere mol palirebbe a - solutamente, egli è pur gioco forza che quegli antichi, usando egualmente ol l'uno ol' l'altro modo, avessero di un colal che alla apprensione, allro senso che di semplice appoggio di tramezzo che si voglia.l) e molti esempi che, oltre l'allegato, mi vennero qua e la scontrati le tre poligo (Illi alcuni pochi. l eggili allentarne le e di rini se io mi li In apponga.« Manifesta cosa è che, come le cose temporali sono transitorio  nortali, così in sè e fuor di sè essere piene di noia. I3 cc. \ - giamo che poichè i buoi alcuna parte del giorno hanno faticato, solo il giogo ristrelli, quegli essere dal giogo alle viali, I3oce. -– a Si ve dova della sua speranza privare, nella quale portava che, se I lor  « misda non la prendeva, ſeriamente doverla avere egli n. Bocc. i E parendo loro che quanto più si stellava, venire il maggior indegna « zione dei Fiorentini.... ». Vill. – (Proposto s'avea al lutto nell'animo che, se necessario caso l'avesse rilenillo, di rinunciare l'Iſlicio... Vill. – « Seco deliberarono che, come prima tempo si vedessero, di rubarlo o Bocc. -– « Pirro per partito aveva preso che, se ella a lui ritornasse, ci fare altra risposta n. Bocc. – «.... la precedente novella ini lira a « dover simili nelle ragionare d'Il geloso, estimando che ciò che si a fa loro dalle lor donne, e massimamente quando senza cagione inge  «losiscono, esser bel ſalto m. I3 cc. – ecc. ecc. ecc. Costruzione stranissima, e al nostro orecchio per poco errata, quali lo a colesto che ogni altro flicio si disdica che di semplice congiunzione,  I 'allo invece pronorme, recalo - con inque si opponga il rigido gramina - tico – a valore di ciò, o questa cosa, e la sintassi è chiarissima, logico  il nesso, e l'orecchio pienamente soddisfatto. E quanti altri luoghi piani ci vengono ed evidenti mercè di sì fa II: interpretazione, senza la quale stranissimi li credi ed anche errali. Ti basti, per ogni altro, il seguente del Boccaccio: « E lui come po a rai mostrare questo che ſi affermi? Disse lo Scalza: Che il mostrerò « per sì fatta ragione, che non che lui, ma costui che il niega dirà che i « dica il vero ». – E che ha mai qui a fare quel che se noi vale questo, questa cosa?Ella è pur cosa degna di osservazione che altre lingue ancora a dir perano ad officio o valor di congiunzione quella stessa voce che è all'esi pronome, e pronome non pur relativo, ma anche dimostrativo, cioè: oi tos. quod, que, dass (anticamente anche das si scriveva dass, lh tl ecc. ecc. Talchè io mi figuro che quegli antichi della prima scuola, dicendo,  a cagion d'esempio: comandò ch'ei studiasse – er befahl, dass er sl il dieren sollte. – ecc., volessero dire, oppur suonasse loro quanto: collan lº  questa cosa (dasº: studiasse »: ed anche nei medi composti di che ed altra voce – ll'eposizione od altri i - intendessero tuttavia e vi sentissero  non altro le il proliome, orti relativo, ora dimostrativo. 239. Neh! lo ripeto, è una mia opinione e resti lì.lº riprendendo ora il filo del nostro assunto, dico che il che cong.;  ha virtù dirò così concentrativa e Irovasi nei libri mastri di nostra lingua  assai solvente. - I di comparazione e recante senso di: di quello che - l. il significa di affinchè, sinchè, prima che, senza che, Ne m on, jlto i cºllº e sillili.. llpl calo a lil:inlera e valore dell'avverbio  di tempo: quando.... quando, alcuna rolla... alcuna rolla, di quando in  quando ch'è, ch'è ed anche parle.... ma le. Il che, per dacchè 210, poichè, posciacchè, perchè 241 poi che (242)  è notissimo e comunissimo, nè porla il pregio di ragionarne.  \ iuno dice a trovarsi, il quale meglio nè più acconciamente ser risse al limit la rolul dl mi m signor e, che se i ri rut ella, l?occ  lo non coglio che lui ne I l a rl pii la coscienza che ne bisogni o. I 3 (' '.  \ orella non quali i meno di pericoli in sè contenente che la mar l a lui li I tu roll (t ). I 3 cc. ... che io non so il no ben mesce e ch'io set ppia informare ». Bocc. lº migliori ol) e le dando che li sali non e' di no..... lSocc. \ on le doti più dolore che la si abbia. l occ.  (n si era la cosa cºn il lut ut lanto che non illi in en li si curatra degli uomini che morire no che ora si cui e're bbe di capre l occ.  \ on li molea renir molto più ni di doll in, nè di speranza, nè d'autorità, nè di gloria, che di già s'a rºsse acquista lo. Caro.  « I fallo i sono poco solleciti, e prima cercano l'utile loro che del padrone. Pandolf. che quello del.....  a I)arano rista di non tener più con lo di lui, che si facessero cogli allri ». Ces. ... io ri a cillà e poi lo queste cose a Se) lontcorri, che m' (tilli di non so che mi ha ſallo richiedere. I3 cc. allinchè mi aiuti a questo ggello ch'è.....  (i uan da ra d'intorno dove porre si potesse che uddosso non gli mc rigasse ». Bocc.  «... gli menarono innanzi una sua nipol e ch c'ra rimasta, di sºlli' anni, ch are rai nomi e Maria, e lasciatron gliela che egli la gol'ºrnd Ssº Comº gli paresse. Cav.  a... recatasi per mano la slanga dell'uscio non restò di ballºrni che per isl racco la slanga le calde di mano o l'ierenz. (243). ... precetto che non parlisse che non me lo pagasse ». Caro.  «... juggì via e non riposò mai che egli ebbe ritrovato Riondello Bocc.  ((...  nè mai ristette ch'ella ebbe tutto acconcio ed ordinato p). ROCC. - non si ricordò di dire alla fante che tanto aspettasse che Fede l g0 l'emisse ». Bocc. ... si pensò di dovere per quello pertugio i tante volte gualare che ella redrebbe il giorane in atto di polergli parlare ». Docc. -  “ Ma fermamente lui non mi scapperai dalle mani, che io non ti paghi sì delle opere lue, che mai di niun uomo farai beife, che di me non ti ricordi ». Doce. 244;.  º sempre gli (al rilano mancherà qualche cosa mai ſi farellerà che non ti rechi spesa. I'and.  ((...  “ Von posso passare per la strada che non mi regga additare o I;oce. “... e l 'nsò non potere alcuna di queste li e, più l' ma che l'altra lodarº, che il Saladino non a resse la sua intenzione ». Bocc.« Mai la sera non rimetterete a riposare che prima non abbiate fatto ſes(tmº della coscienza n. [3art.Giarda le adunque quelle grelole che sono sotto l'abbeveratoio della rostra gabbia, che per la molla acqua che ci si versa sopra sono im fradiciale in modo che voi non ri da rete su due roll e col becco che voi le spezzerete e farete una buca sì grande che re ne potrete andare a vostro bell'agio ». Fierenz.«... non canterà stanotte il gallo due volte, che lui ben tre alla fila arrai negato di conoscermi ed esser de' miei o. (es. 2..« E questo è il riro della fortezza al tutto inespugnabile ad ogni altra forza che d'assedio e di fame o filorchè, se non. I art.  « I)onolle che in gioie e che in ratsella nºn li d' o o e al di rien lo e che in danari, quello che ralse meglio d'altre decimila dobbre o. I3oce.  « Questo regnò anni trentaselle, che re dei lomani, e che impera loro n. I)a V.  « I'(Il li ch' è ch' è Ne m (t lo) l'i n. l): I V.  « Fu ascolto con giubilo unirersale e m' ebbe in ricompensat, che in danari e che in roba, un ricco presente ). I3art.  NOte  all'articolo 11,  239) Alle congiunzioni perchè, sicchè, fuorchè, affinchè, che se, poi chè, dopo che ecc. rispollidono le le lesclle lielle quali il che rendesi tra - dotto ora vo () was ed ora da 0 den – coll1 razioni (riduzioni di was e das, e sono: warum, darum, so dass, ausserdem, damit wofern, nach dem. ecc., 240). Dalla prima volta in poi che io risposi alla vostra non vi ho pIù Scrillo ». Calo.. Essendo limiti i due anni che Luigi era entrato « lella compagnia ». Ces.241 Nè solo per l'enim, etenim, mam, ma anche per l'eo quod, e cur; « Vlla prima giunta mi fece un cappello che io non l'avessi aspettato ». Caro.Disse: Beatrice, l da di l)io vero Chè non soccorri quei, che ti amò  alto Che Ilsi io per te della V o!gare s ll el l ' » - I), i lite. 242). Nota per o costruzione fuori della quale il che per poichè, dopo chè lì lì la lr 1:1 i lu go: tuttº si disarmo e cenato che egli ebbe se ne e andò a ripos lire ». Fier. - è poi che egli ebbe cenato - e... ci condurrà alla stanza della serpe, dove condotto che sarà, io ti prometto ch'egli lloli ne sentirà prima l'od re, i lle da naturale istinto forzato, e le torrà la vita ». Fierenzuola. Ci si dl lano e compito ch'io ebbi; e gua rito ch'io fui; e letto ch'egli ebbe: e discesi cine noi fummo ecc. ecc. 243 Vlla pari e I V rti. S è par li di tl: la costruzione nolì guari dis simile a quella di questo e dei tre seguenti esempi; potendo differire l'una dall'altra solo in ciò: che, ve in quella la V ore prima è espressa, in que sta può essere soltintesa. Ma sia che quest, che si trovi ad ufficio di finchè, sia che si senta nel periodo l' omissione della voce prima, è sem pre vero che a questo che si attiene alcunchè di sentito e non espresso. 21 ). Il primo che vale: finchè, prima che; il second: senza che, Nota anche i tre seglie, nei quali il che ha evidentemente senso di senza che,2 (5). Fallo futuro presente il verbo reſto da' che e il costrutto è unum et idem che il pre edeinte del F. e enzuola. (illarda l' erenz: e non vi da rete su due volte col be, che voi le spezzeret (n Ces N ºn canterà sta notte il gallo dlle volte che lui ben 1 l'e negllera 1 dl conosce l'Illi.  CHI  In questo e nel segui le n il loro li porgo una maniera di dire, che il lis; Izzo grammi, i lico (listi prova add ril lilla e se lendola se ne slrignº gli vien del concio e si con loro e, per il la col l?arloli, più che non fanno i cedri troll (Iula ndo sentono il tutor, Vla 1, il s o di lui. Chi -a all'epos lo e sente il..., e la virtù che viene alla frase per l'elissi di alcune parti del dl scorso ci si allengono a certe voci ecc., non che intenderla questa In Iniera per l la ed in quel pregio che un vezzo assai grazioso Il ll garbo sl l'.E sappi alunque che anche la particella chi la quale bene adoperata, dice il Puoti, dà molta grazia al discorso – simile alla poch'anzi ragionata che, ha lal virtù sulla penna a valorosi nostri classici, ch. dice altro e più che non dica il letteral suono della voce. Tien luogo quando dei casi obliqui a vario rispetto, cioè senza il segnacaso di, a, da, per, con, che, e quando di chiunque, chicchessia, ed anche di se chicchessia, se all ri muti ecc.Mlal però si potrebbe stabilire quando il segnacaso e quando altra roce sia da sottintendersi, che le più volte l'una e l'altra spiegazione egualmente 1a. « I biloni cosl III li, scrive l'Alamanni, mal si ponno il 11 a parare chi troppo invecchia, ciò è a dire, soggiunge certo lale, da chi troppo invecchia. E son con lui. Ma chi mi vieta d'intenderla anche così: se altri, se l'uomo, o quando l'uomo l roppo invecchia, o in allra sì fatta guisa? « Ma qualunque spiegazione piaccia, l'asta andar d' cordo su questo che il chi (son parole del Fornaciari per proprietà º i « lingua si usa spesso ed eleganlelneri le cosi in certi modo assoluto. « Di rado avverrà di potere le proprietà delle lingue in I lilli i luoghi « spiegare a puntino nel modo stesso ».Sentilo questo chi e gustalo negli esempi del Trecento ed anche del simpatico nostro Manzoni. o  «... la casa mia non è troppo grande, e perciò essº non ci si por trebbe, salvo chi non volesse star a modo di mulolo, senso la r moll o zitto alcuno ». I30(C.« Molto da dolersene è e da piangerne... chi ha punto di sentimento, o di conoscimento, o zelo delle anime o. Passa V.«... e con tutto ciò non si potevano difendere da lui, chi in lui si scontrava solo: e per paura di questo lupo e cºn nºi o ſi lan lo che nºs suno era ardilo d'uscir fuori della terra n. Fiorelli.« E non è da farsene maraviglia, chi pensasse lo sterminato bene ch'elleno portavano alla persona sua. Cav.Sì come veder si può chi ben riguarda... ». Dante (CoirV.. « Quinci si van, chi vuol andar per pace ». Danle. potransi far più forti piantamenti, chi vorrà...». Cresc. « Sì come la candela luce, chi ben la cela ». I3 l'un. « Come pienamente si legge per Lucano Poeta, chi le storie 'orri cercare ». G. Vill.« Sì come per lo dello suo trallalo si può reale e', e intendo re, chi º di sottile intelletto ». G. Vill.« Furonri sventuratamente sconfitti, e così arrien e chi è in rºllº di fortuna ». G. Vill.« Da volar sopra 'I Ciel gli area dal'ali Per le cose mortali, lº son scala al Fattor, chi ben le slima ». Pelr. (per chi, a chi, se allli mai « Invoco lei (la SS. Vergine, che ben sempre rispose Chi la chitml ) con ſede ». Petr.« I quali trionfando degli animi dei pazzi cittadini, la misera città variamente lacerarono, con acerba ricordazione di quelli inlºlici secoli liſt con non minor gioia, chi queste cose andrà considerando, della tran (I lillità dei presenti ». Scipione Ammir. Stor ſior. - Le quali lui le cose sono esempi rarissimi di gran povertà, umiltà cd (in negamento di sè medesimo, chi pensa che talora per mantenere una di Iºsle loro ragioni, sogliono i mondani nellere a sbaraglio ogni aver loro, e la loro anche la vita un duello... Ces.º V ºcchi che, perdule le zanne, parcram sempre pronti, chi nulla nulla gli dissasse, a digi ignar le gengive.....; o, Manzoni.('osì il lurore contro costui il ricario, che si sarebbe scatenato peggio, chi l'avesse preso con le brusche e non gli avesse voluto conce der nulla, o a con quella promessa di soddisfazione, con quell' osso in bocca s'acque la ra un poco e... ». Manz.  ARTICOLO 20  Sf (C0mg.)  Anche la particella se vuoi qual congiunzione sospensiva e condizio nale, vuoi qual desideraliva, è appo i classici una di quelle voci previ legiale sotto cºlli ripari in parole, ossia aggiunti, laciuli talora o non  completamente espressi. Il che avviene di un se. – a. recante senso:ì così, e in certa forma di gi Iran lenlo, volo e simili: lo esprimente ricerca, indagini ecc. soppresso e si linteso il verbo che lo precede: per ve:  dei e, per sentire, osservare e va dicendo.  Non misteri della lingua al dunque, non licenze degli scrittori come sano sentenziare alcuni (i rammatici dall'orecchio volgare e guasto, (246) | ma virtù e proprietà delle particelle, onde cioè la ragione intrinseca di cerle contrazioni e maniere si relle e vigorose, le quali sien pur strane e niente intese a pochi sperli, ma a chi sa di lingua, non altro sono, all'incontro, che vezzi e gioie.  l;oce. Così l dio mi dea bene, con l'egli è vero, ch'io mi veniva...). Se Dio mi aiuti, io non l'utri ei mai credulo o. I 30cc'.a se m'aiuti Iddio, tu se' pore o, ma egli sarebbe mercè che tu fossi  | Se Dio mi dea bene, che io mi i re mira a slitr con le co un pezzo.  molto più o. l occ. a se Dio mi salvi, di così alle ſemine non si vorrebbe aver miseri  cordia ). I 3 cc'. « I), h, se Iddio ti dea buona ventura, diccelo come tu la guada  gnasti ». Bocc. « Subilamente corsi a cercarmi il lato se niente r'avessi ». (per sentire se). Bocc.«... l'un degli asini, che grandissima se le arera, tratto il capo del capestro, era uscito della stalla ed ogni cosa andava fiutando, se forse trovasse dell'acqua ». Bocc.«... s'egli è pur così, ruolsi realer ria, se noi sappiamo di riaverlo » Bocc.« Cercando d'intorno se niente d'acqua trovassero ». V. SS. PIP. «... brancolando con le mani, se a cosa nessuna si potesse appi gliare ». (per vedere, per sentire se..... Cav.« Corse per tutta la città se per centura la polesse trovare ». Cav. « Lesse come Libona area lallo gillar l'arte, se egli avrebbe mai tanti danari clie..., e colali scempiaggini e canità da increscere buona mente di lui ». (per sapere, scoprire se...). DaV.« Venite qua, guardate bene... Toccale i polsi se han molo tasta º  il cuore se palpita ». (per sentire...). Segn. (247).  NOte  all'articolo 20  (246). Uno di questi cotali poi ch'ebbe ragionato della sinchisi, con fusione di costruzione nel periodo e dell'anacoluthon, che è quando, lice egli, si pone qualche cosa in aria, e senza filo di costruzione, e intendeva appunto di parlare degli esempi di questo numero, del precedente e di al tri che ragioneremo, riprende fiato e soggiunge: a l)i queste figure non « mancano esempi e nei latini e le lorstri allt l'i, ma non si vogliallo a imitare, essendo anzi errori che mo. Sono | Igure, scrisse il valent'll In « inventate per iscusare i falli, nei quali sono talvolta incorsi per una la « fiacchezza anche i più celebri autori ». –- Cavalca, Boccaccio, Dante, l'e trarca ecc. ecc. ecc., che duraste gli alli e i decellºni in escogitare e ci Ill porre gl'immortali nostri libri, e vi si udiaste di l: rlo più chiaramente e leggiadramente che per voi si potesse, solleci'i, sopra tutto, di dare alla vaga, tersa precisa vostra lingua un tornio ed una forma facile ad un tempo, decorosa ed elegante, siatene pur grati agli acliti a sservatori della posterità che a guardarne noi poco sperti vostri lettori scopersero ne vorstri componimenti i solecisilli, le magagne, gli scerpelloni nei quali voi pure, e quel che più monta, tutti ad un modo, con tutto lo studio e saper vostra, portatevelo pur in pace, talvolta incorreste!....  (247) Alcune volte l'omissione di per vedere, per sapere e simili la luogo molto leggiadramente anche senza la soggiuntiva se. « Ed è lecito º il nrola d'usare queste sorte negli olſi i temporali a cui prima tocchi « la volta: come si fa degli ufficiali della città... ». Pass. cioè per sapere, per stabilire ecc.)  ARTICOLO 24  VENIRE  l)el Vario uso e valore così del verbo venire come di molti altri se n parlerà alla distesa nella III." Parle di questo Direttorio.  Quello che ora piacermi merilovare è una certa forma di dire, bella, brevissima ed evidente in cui il verbo reni e non è quell'ausiliare comu I missili o con le guidasi e lorº la passivº in qualsiasi verbo transitivo-attivo, e che tien luogo dell'ausilia e essere, ma è al arnese mercò cui l'azione transiliva-alliva volge ad altro rispello, prende un ordine, dirò così, in verso e ci fa l'effetto di cosa che dall'oggetto soppravvenga al soggetto o di azione emessa indipendente nelle dal concorso di mente e volontà del soggetto, sì che il sol parli ipio aiutato dal verbo venire semplifica e t duce ad una parola le voci: a crenire ad alcuno lo lui la mente, impensatla mente che.... (286i.  Intendila questa bella maniera nei pochi esempi che ti allego. E' tutta italiana e classica, nè so di altra lingua che ne appresti un'altret tale. Solo coi verbi così del li dei netti dei l alini, parmi di sentire alcun che di somigliante. Ma lasciamo ora questa cosa, che troppo vi sarebbe che dire, ed anche a ragionarlo e discuterne poco o nulla rimonterebbe; e passiamo subito agli esempi.  «... e venutogli guardato là dove questo Messer sedea e... il renne considerando ». I3occ. e essendo avvenuto ch'egli vide.... « A queste la rete che coi diciale bene e pienamente i desideri ro stri: e guardatevi che non vi venisse nominato un per un altro: e come delli li arrete elle si parliranno o l'occ. (che per mala ventura non tv venisse di nominare).a Credetlimi, quando presi la penna, dovervi scrivere una convene role lettera: ed egli mi venne scritto presso che un libro ». Bocc. (ma trovo all'incontro di avervi scrillo.«... spacciatamente si levò e, come il meglio seppe, si restì al buio, e credendosi tor certi veli piegati, li quali in capo portano, le venner tolte le brache (li.... m. 130cc.« La prima cosa che venne lor presa per cercare lu la bisaccia ». Bocc.  «... le quali i bisaccie, son si somiglianti l'una all'altra che spesse volte mi vien presa l'una per l'altra ». Bocc.« Fornito il suo ragiona e disse a Simone: melliti più dentro mare, e gilla le reti a vedere se nulla ti venisse pigliato ». Ces.« V atti al mare, gilla l'anno, ti verrà pigliato un pesce sbarragli la bocca e ci troverai lal monela che raglia il tributo per due o. Ces. «... così andando si venne scontrato in quei due suoi compagni ». I30 c.a... facendovi qua e là nola, quelle bellezze nelle quali ci venisse scontrato ). ((S.« Perchè io entrando in ragionamento con lui delle cose di que paesi, per arrentura mi venne ricordato Lelio. Filoc.Fu un giorno al suo Padre lui lo ama ricalo d' un grave sospetto: cioè che cercando la propria coscienza con ogni possibile diligenza, non gli veniva trovato mai nulla che a suo parere, arrivasse a peccato re miale... gianni mai avvertiva ch'egli sapesse miai trovare.... Ces.«... gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla conti apposta parte scom)illa dal li a ricello, con lui insieme se n'andò quindi giuso ». (avvenne ch'egli perse per ventura il piè....). Bocc. «... venne questa cosa sentita al Fontarrigo ». Bocc.« I ll imamente essendo ciascun sollecito venne al giovane veduta una ria da potere alla sua donna occultissimamente andare ». Bocc. a Mira lavoro di tribulazioni e d'affanni che ti dee venir adoperato nell'anima...». Bart, che ti avverà di dovere anche a tuo malgrado ado perare..... (287).  NOte  all'articolo 24  (286). IRecasi, la mercè di un sil fatto costruito, ogni verbo a quella cotal proprietà che è sol privilegio di alcuni, i quali senza mutarne altri menti la voce si trasformiano d'uno in altro es - ºre; e dresi p. es. perdere alcuno irreparabilmente fare che altri rovilli, spari-ra) e perdere, altre si, checchessia (cioè rimanerne privo, sì che il primo d ce azione diretta, il secondo quella che non dal sºggetto all'oggettº, ma oggettivamente in relazione al soggetto intervielle Conf. Natura e essere di alcuni verbi et. IParte II.).  (287)Che tu dei adoperare -offrire) non solo è inen bello e languido, Intl am(:lle inesatto e lìoll V (l'O). N. ll Vi -(ºlti l'idea della le cessità dell'atto, indipendentemente dal concorso della volontà.: Tra. Dizioni e forme notevoli e il cui retto uso adopera anche alla vita e all'assetto C0Struttivo  Le cose che abbiamo vedute ſin qui sono senza dubbio gran parte di quello oride il costruirre classico è altro dal volgare e moderno. Ma non si starà contento a questo solo, chi desidera istruirsi davvero ed è veramente vago di riformare il suo dire e conformarlo a quello dei clas sici, recarlo cioè a quel candor di coricelli, Vigor di espressioni e tornio di periodo che è sol proprietà della lingua degli antichi.  E però, prima di passare alla Parte il I., la quale somministra ordi natamente il correlazi. I1 e coesione con certi verbi e voci previlegiate un copiosissimo corredo di lingua, e le dizioni più elette dell'italico idioma piaceni mentovare collettivamente alcuni altri capi nei quali il moderno non sempre s'accorda coll'antico º dai quali la costruzione italiana prende talora sapore e leggiadria.  Natura ecl essere vario «li alcu 11 n i vo rl,i, suscettibili cioè di vario foggiare riflessivo o irriflessivo, coll'affisso o scenza, e capaci di Cloppia ragioi i ce li agire O Cli valore a cloppio orcli 1 ne cº rispetto, tra 1 1sitivo e il n transitivo, attivo e I neutro.  Intendo qui di offrirli, o mio le! I re, partite serie di esempi che i mostrino quasi in azione corle proprietà e passioni di alcuni verbi, negli accompagnamenti che prendono, nei casi che reggono e Irelle lalicelle che in cellano o rigellano 13arloli, e come essi prendano or un essere ed or un allro, e diventino quel che vuol siano chi gli ado pera, puri alliri o puri neutri, o neutri passivi o assoluti. Ho detto negli accompagnamenti che prendono, avuto cioè riguardo al vario ordine dell'azione, non al vario messo o rispello in che sta ogni verbo, e in ogni lingua, col suo corredo; chè non si vogliono qui riprodurre tutte quelle inſi nite categorie, classi, divisioni e suddivisioni che fecero e fanno tuttavia grammatici e linguisti: il lime, del resto, e in Filosofia utilissime, ma non mai a far di leggiadria, sapore ed eleganza. Di que verbi poi, il cui governo, sulla penna e lingua a classici, relativamente al loro oggetti, dipendenza e corredo si discosta come chessia, o è altro che il volgare e comune d'oggidì, ed anche dell'uso e valore vario di molti altri verbi, si dirà alla dislesa nella Parte III., ove, lra l'altre cose, si ragiona in proprio delle convenienze grammaticali e concordanze reciproche.NEUTR [ ASSOLUTI, CIO È VERBI coMUNQUE RECIPROCI o RIFLESSIVI – NEUTRI PASSIVI, ATTI V I PIt() NOMINA LI () TRANSITIVI PASSIVI – A IDOPERATI ASS() LUTAMENTE  Sono alcuni verbi che nelle menti e sulle penne de Imigliori nostri scrittori si trasformano assai voli e dallo esser loro comune e volgare e tornano di attivi prol li il trali, o trailsitivi passivi, neutri assoluti, liberi da ogni affisso o particella.  Piaceni fornirtene un elet o saggio: per lui del rest o, anzi pochissimi al gran numero che potrei allegare. Studiali, intendili e senti il garbo, il sapore, la forza che viene alla frase dall'uso dicevole e giusto di una tal malliera e striltli.  ACCIECARE - « In prima si commette in occulto, poi l'uomo accieca, in e tanto che pecca manifestamente e fa faccia, e non si vergogna » Cavalca.  Al)I)Ol.ORARE – « Or lorniamo a Maria Maddalena, ch'era illella ca a Imera e addolorava sopra i suoi peccati ». Cavalca.  Al FONDARE andare a fondo) – « E più galee delle sue affondarono in « Inare con le genti ». Vill.- - v. - - - - - - -  «....più volte si videro su l'affondare, e poichè non potevano dar volta, « gran che fare ebbero a una litenersi e torcere finchè.... » Bart. AGGHIACCIARE – «Come fa l'uomo che spaventato agghiaccia » I)ante. « Ghiacciò il mare...., fu grande freddura e ghiacciò l'Arno » Vlil. ALZARE - ABBASSARE – « Ma già innalzando il solo, parve a tutti di « ritornare ». Bocc. – Simile al to rise degli inglesi -- il cui causativo to raise).SCInarido al continuo per la ci là tutte le campane delle chiese, infillo che non alzò l'acqua.... ». Vill.L'altezza del corso del fiume, che per lo detto ring rgamento era to nuta, abbassò e cesso la piena dell'acqua ». Vill. – Equivalente dl sinkem tedesco e to sink inglese – attivo senken, to sink).« Poichè il sole cornincia abbassare e allentare il caldo.... » Cresc. ANNEGARE - AFFOGARE – e Mescolansi le compagnie con l'acqua ora « a petto e ora a gola; perduto il fondo, sbaraglia i si, annegano » I)a V.« Mal credendo che un legno si lacero potesse esser sicuro, mentre  faceva tant'acqua e le pareva di continui annegare ». I3art.  « Alla guisa che far veggiamo a coloro che per affogare solº quan  « do prendºno alcuna cosa.... » Bocc. APPIGLIARE – e Sugano l'umor del campo, e non lasciano esser nu  « triti i sogni nè debitamente vivere e appigliare ». Cresc. APPRESSARE – « Più e più appressando in ver la sponda Fuggelni er  « ror ». I): lillte.  « Quando il cinquecentesimo anno appressa ». I)ante  APRIRE – « La terra aperse non molto da poi... – qui non ti conto con, e « la terra aperse ». I) il tam.ARRATBBIARE – «..... per quanto ne arrabbiassero i demoni, mai però  a non ardirono più a valti che... » Bart. «...ed all'uscio della casa, la donna che arrabbiava, lato vi delle Ina lli, « il mallClò oltre.... » I20 cc. »«...nel soddisfare alle loro passi il arrabbiano, sinºni: no, sono infe. « lici ». Cosa riASSALIRE – «Il fante di Rinaldo veggendolo assalire, come cattivo, mi ha « cosa al suo aiuto adoperò » Bocc. (cioè: veggendolo che era assalit, lui essere assalito).ASSII)ER ARE – «...assiderarono tutta la notte, senza pallini la ascill « garsi, senza fuoco, ignudi, infranti ». I): v.ASSOTIGLIARE - INGROSSARE - -. Il collo digrada va sottile, e nel ven « tre ingrossava, e poi assotigliava, digradando con ragione ſino alla « punta della coda ». Vill. Parla di certa serpe di fuoco apparsa in  aria). ATTENERE – «.... lanciato da banda tutt'o ciò che attiene a costumi ».  Bart. ATTENTARE – «... desidera ido e nº n attentando a fare imprese e ho  a non fanno, che non attentano di fare gli altri ». Bocc. BISOGNARE –- Questo verbo mi darà ina) eria da ragionare le più ava lli). « Come costoro ebbero udito questo, non bisognò più avanti ». B c. – Il Bartoli guarda come l'ha egli pure identica la stessa frase. I  « Bonzi come riseppero di quel così vituperevole cacciamento, non « bisognò più avanti, perchè si inettessero tutti a rumore ». – E qui dagli ai puristi, ai trecentisti, quando un Bartoli non solo ne parlava con sommo rispetto, ma di loro da vizi e studiosamente si arricchiva.  CALMARE – «.... il vento calmò e un altro 1; e scosse e le dava alla nave « appunto per poppa ». Bal'.  COMPUNGERE – e Forte nel cuor per la pietà compunsi ». Dittain.  (.()NCIARE i maltrattare – E la fa Iligiia di casi vellendo costoro cosi  a conciare, corsero a (iesti cori gri a n pianto, e sl gli si inginº celli:ì rono « a piedi, e dissero: Signore, la Maddalena e caduta in terra e pare « limorta e... ». Cavalca.Il Puoti nota che li el vocabolario noi e registrato questo verbo in forma neutra, come ve lº si qui adoperato,  CONFONDERE – «.... onde se si messo nel pianto confondo, maraviglia non « è ». Dittam.  CONTIA ISTARE - Allora, vedendola la badessa e si contristare, disse « a lei: or che t'è addivenuto, figliu la mia Fufragia, perchè così a crudelinelli e piangi e contristi? » (avalca.  CONVERTIRE - Si prop, sero di convertire alla fede di Cristo ». Vill.  DEGNARE - «... nè v'è uomo, benchè povero, che degni far servizio della « sua persona ». Bari. Simile al daigner dei francesi).  I )EI,IZIARIE a.... e se talvolta le llloghi a mare trovava llo ad avere « un uovo di testuggini e alcun poco di pesce allora deliziavano ». Bari.  IDILETTA IXE - Vergognisi chi le reglia in virtude e diletta in lus « suria ». Nov. Ant.  DIMAGRARE - INGRASSARE - I primi quindici di dimagrano e negli a altri quindici di ingrassano ». Cresc. a Ingrassando e arricchendo indebitamente.... ». Vill.  I) ISFARE a E di vero inali ſul lis fatta nè disfarà in eterno, se non al di « del giudizio ». Vill.  DOLERE –. E cortamente di lui tanto dolsi quanto donna del far di « buon marito ». I)itta in« La speranza del perdono si è data a chi la vuole. E colui l'ha per a mio dono, Che del suo per rat, duole ». Jac. Tod.  ESALTARE – « Della detta pugna esaltò si esaltò il capitano di Mela a no, e il re Giovanni abbassò. Vill.a IDC lla sopra detta vittoria la città di Firenze esaltò molto ». Vill.  FENDERE - Vnche se ne fanno convenevolmente taglieri, e bossoli, « i quali radissime volte fendono ». Cresc.GLORIARE - –... pensomi che l'ºmºnima sua fosse tratta a quella beata  a contemplazione di vedere Gesù, Figliuolo, suo carissimo, così gio a riare, attorniato dagli angeli suoi, i quali così volentieri gli face « vano festa con somma letizia ». Cav. Traduci: colmo, circondato di gloria).IMPICCARE - – Di questo verbo, otlre a molti altri di egual forma enatura, si è il senso passivo assoluto (non per riflessione si ggettiva cioè, ma d'altronde) di cui è capace, e senz'altrimenti variarla – simile al vapulo dei latini – la forma attiva. Pare però che solo l'infinito di tali verbi abbia il privilegio di ricevere un cotal senso passivo.« Fu condannato ad impiccare ». Vill. I cioè ad essere impiccato). « La battaglia fu ordinata, e le forche ritte, e 'l figliuolo messovisi a  « piè per impiccare ». Vill. – Conf. più avanti sbranare. INCHINARE (far riverenza a... } – « E voleseIni al Maestro, o quei mi fe  a segno Ch' io stessi cheto ed inchinassi ad esso ». Dante. INEBRIARE – « I)ando loro lle celli) a beccare, Sillbito inebriano e lloll  « possono volare ». Cresc. « Egli giuocava ed oltre a ciò inebriava alcuna volta ». Bocc. INERPICARE – « All'alba scassano i fossi, riempiendoli di fascine, inerpi « Cano Sll lo steccato.... » I)a VINFERMARE (anmmalare) – a.... E da questo discorse un uso che niuna « donna infermando, non curava d'avere a suoi servigi un uomo..... Ol Che.... » BOCC'.« Egli è alcuna persona, la quale ha in casa un suo servo, il quale inferma gravemente.... ». BOCc. « Avvenne che per soverchio di noia infermò. Bocc. « Avvenne che il detto Patriarca ammalò a Imorte ». Vill. « infermare, ammalare a morte ». Bocc. Vill. Caval ecc. « La povera donna cadde tramortita e ammalò gravemente ». Gozzi. INFINGARIDIRE – « Non badavano n.ITe faccende pubbliche, e insegna « vano a cavalieri Romani infingardire ». I)av. (Conf. Pigrizia Pron tuario).INFRACIDARE – « Infracidinsi l'ossa di quella persona che fa cose de « gne di confusione e di vergogna. Lo infradicidare dell'ossa signifl « Ca..... ». Passa V.« Il nutrimento dei frutti infracida leggermente, perocchè la natura « non l'ordinò, nè produsse ad altro fine, se non accio hè infracidas « se ». Cresc.INNAMORARE – « Concede alle anime che di lei innamorano agevolezza « di Volare in cielo ». Fioretti.  INVII,IRE - RINVELIRE – « Ma poichè si vide ferito invili sì forte... ». Part.«....la quale (merce) allora appunto rinvili che egli non la voler ». Rart. « Il ladro surpreso nel fallo invilisce ». Vill. LAMENTARE – « Una donna in pianto scapigliata e scinta o forte ia « mentando.... ». NOV. Ant. e Giusto duol certo a lamentar mi mena ». Potrarca. LAVARE – «... prestamonto lo menai a lavare ». Firenz. LEVARE – « Io sono costumato di levare a provedere le stelle ». Nov. aInt.  « Ma vedendolo furioso levare per batter e glie... » BC (c.  º llll'altra volta la ino  MARAVIGLIARE – L'anime... maravigliando doventare sinorte ». Dante.  « Con tutto il maravigliare n'eran lietissimi Mll I,TI l?ILIC.ARE – « Mla cldo e l'a llie lìte:  « adosso in aggiore », lºore.  « I)ebb no alunque studiare i padri come  ». Fia Ill.  multiplichi  e con clue Iniestier ed uso s'allmeriti, e divenga fortunata  ſilli.  -..... que rime 1tlti i cresce a io e moltip  Il lonte ». I)av. l'ENTIIAE – « SI cl, e pentendo e per lollando  l)allte.  « Assolver non si può li noli si sieme puossi ». l)ante. « (.lli (li trolls PROVARE -- La Marza car, vellla cert: quali a Inosca dello Iara ca l'ovello dl lilll'allle o lo Provan benissimo alla ril nei luoglli caldi Prontuario. I? AFFIXEI)I).ARE IN IS(..VI.l) \ I RIE (tale a lui  a contro il Sallesi ». V Ill.  al s'affr, tti si s old fa di pentire ».  la calca gli multiplicava ognora  a ſalniglia, ! ». lPall.lol  licheranno llaraviglio -:1  fo, l'a ll vita  Ne pentire e  llSciIlllllo ».  V,iere iil  l'laln.  la ll pero in sul nero  e - apore  ». l):) V. (.. ll  noso aleli f. Pianta -  a è quasi sempre d ' e a ed e leggieri a pesarla, e tosto raffredda e io sto riscalda. Cresc. « I Fiorentini si tennero forte gravati, e il riscaldarono nell'i gue: ra  IRIIP AI: AIRE L'inglese to repaire (on I. lo stesso verbo, IParte Il I. « Nella quale Fiesole º gran parte riparavano dei suoi seguaci ». Amet. « Come vide correre al pozzo, corsi ricoverò in casa e sorrossi dentro ».  I30 ('.  «.... tutta la lla V e dis armi: i ta dalle opere in m te, mal  nu:i:a  e dalla tempesta, e.. aver bisogno di ricoverare a Mºnla ca e Iulvi  a sverl):n l'e ». 13:art.  ROVINARE - Piuttosto vuoi rovinar colla caparbietà tua, che esaltati a col buon consiglio di chi li vuol bene ». l 'ieronz.  a Mentre che io rovinava e li è col reva precipitosamente a fiacca collo)  o in basso loco, Dinanzi agli occhi mi si fu offerto Chi per lungo si  a lenzio parea fioco ». Dallite.  a L'altissima scimmia del tempio di S. lteparata ſu da un fulmino, il  a tanta furia percossa, le gran parte di quel  M:I (Ini:n volli.  e Rovinò g il mister, mente da un lalzo della montagna ».  a l'asst, l' illla volta sull traileo che Il tº t. (A') fatto ». Segn.  pilona lo  rovino ).  l3,) i t.  rovinare... non è gradi  a lºietro aveva gia preso la china giù rovinando... se non che... »  Cesari. e Clio non rovini, lli vi i l i lil: r.:i bali: l'i slli trabocchetti, i 'l:º  a sopra saldisini p.I vini: i I, lov Ilie troverete?. Segn.  SALI) AIRE - It.A MI Al AIR(i IN AIRI. I rite g randi non è mal trovato - e a saldino in ventiquattr'ore e che perfettamente rammarginino ». Red.  SBANI)ARE --.... le (-a coiiil ritte isselli iti, perchè al grido a del st ) Ve li sbandarono, l...  SI3I(r()TTI I º I. – La li ill:1 - 1/: pll'1 o sbigottire, con voce assai piace vele rie, ose.... » I3oce.  SRR.AN ARF - Illvii “i i sll Ille. la do iº la annata di lui ad un  e desinare, l: qual, v. d. ll -t: IIIedesima giovane sbranare ». B.)cc. Aggiungi i modi: mandare o menare chicchessia ad annegare, a uc cidere, e simili, ci e ad essere annegato, ucciso Indi a quattro dl, col ta:nto -piarne, scope, ta, fu mandata uccidere, I3a t. ccc., cliº li  son frequentissimi in tutti i lor li bilogia il guai del trecento e cinque ei to; e li segi:iti a bella cosa a vedere: dura a sof frire; – « Case vaghissime a vedere, comodissime ad abitare ». 3:1 rt. Demonia crribili a vedere ). V |!! - V si lt l'1, l'ille, elle mi racolo furono a riguardare ». I3... solº i maravigliose e pau rose a riguardare ». Vili.... l: Il l: -:1 e l'il 1:1 i lt, il N' -  a stagio gravosa a comportare, che per lo loro piu' volte gli venne dosi dºri di ll 1 le; - l. I3, Forl II (ll dire che abbia Illo cºntinua in mt boscº 1, scrivi il 13 arioli, IIIa Il li sempre si agevoli e piare a intendere che i 1: pia in di....i e, v. altri si av veng: i il: l II; 1 - il 1 l ' I - I riti l' ignII llo. I ' ' ncere poi di troppo ilt! - In ant III:I: 1 re, che amp ma, o creda po tersi mai trovare un verbo:itti, o chi in qui, sta o simile gui-, non siasi talora uscito a riche in significazione assolut: niente passiva. E s che i rutissimili (.ss e v. 11 ri. di lirl II i qual. In Forli' ciarl,.le.::i: dimi ed altri la intendono e - i ga: o l Iversalme, sarei tº itato il rigil:i ril: i re corri ti 'i: 1:1, li i leli iti:itti vi si getti: l II l de' verbi: fare, lasciare, vedere, udire. Ho veduto, udito, lasciato... a mare liare, biasimare... Tizio a Sempronio - rubare, prendere, por tare, lavorare e il na cosa a chicchessia o checchessia.Mlal, l. Io: Ilo il cli: no i lil I la 'ti i lil Il di al front i rili e Inl Itt e il:ì il tro: i:l ll 1: i: li si. I l it,Vli sia però lecito di osservare le villa di irolti esempi in cui il soggetto i porant e il preposizione a ion piò cssere l'i cells itivo a rentrº dei lati; li, e li:: lì il ve li vi ttiva, a tri menti che - orcendo e guar 1:1 dollo la sintassi: e bast, per tutti il - guente del Boern cio: Va -- e l og: 1o di suoi a Chiassi, qui ivi a vede cacciare i d uli i Vallicº: il nº. io va ti ucciderla e divorarla a da due cani ». Si di: • i:) I cacciare, 'l'uccidere e divorare che l'l1:ì. Il no di mi li ssi: -si V., (belle sta, il lil:) di scorretto: velt e-ser i: i ti li lì i rivali, il lill cavalli ºre ed eserla cioè: e la stessa essere ) u (Isa e divorata da due cani. Qual'1 do invece s'oncordanza sarebbe e sconnessione troppo rincrescevole e male ancora si atterrebbero le parti al loro tutto, se si volesse riguar (lare il cacciare quale verbo di significazione, noi Imeno che di fur ma, attivo, il cui soggetto, cioe', cavalliere accusativo agente, ed og gettº, una giovane. Ed oltra ciò si ponga mente a quel che segue, che e appunto il suallegato esempio: Illvita i suoi parenti ecc., Qiii è omessa o sottintesa la ra tisa dell'aziº alle o l a o da, e però lo sbranare di senso non altro che assoluto passivo. Ma e non e egli forse quel medesimo cacciare, uccidere e divorare del periodo precedente?  SI) IRI 'CIRE - « Esse Ildo essi li oli gular sopra Majolica, sentirono la nave a sdrucire » I30 ('.  SERIRARE rinchiudere ecc., Olm! che dolore ti venne quando tu il vede sti serrare là dentro, fra le mani dei lupi rapaci, che desideravano di velldicarsi di lui ». Caval.E pensonni che questo ti fosse si gravide il dolore di vederlo così rinchiudere e con lui non potere essere alcuno di voi, che quello del la morte non fu maggiore. » Caval.Allora una delle suore, la quale vide visibilmiente gittare lnel poz  u  ( e zo, gridando forte.... » Cava! Tra due l: essere gittata (lal dellº - lli, nel pozzº ). SM V I, I'IRE - - « (..il iarolo a smaltire ». Cres.  STANCARE a E avvenendomi così piu volte, e io pure volendº mi me - a tere per entrare, stancai, sicchè io rimasi tutta rotta del corpo... ». Ca.Val.STRANGOLARE - Aveva ad un'ora di se stesso paura o della giovane, « la quale gli pare, vedere o da orso o da lupo strangolare. » Boce. TEI)IARE - Alquanti cominciarono a tediare e a dire.... » Fier. TIRARIRE i tirare) --. E come a messagger che porta uliv. Tragge la gente « per udir novelle, E di calcar nessun si mostra schivo... » Dante. a () (corso lor l'asilmondo, il quale con un gran last me in mano al « rumor traeva. » I30 ('C'.º..... il topo che nelle sue branche era stato, riconosciuta la voce del « leone, trasse al suo rumore, e ricordandosi di tanta grazia....» Voi gar. di Esopo. a Maravigliando pur trassi a lei. » I)ittani. « Vide ontrare un topo per la fenestrella, che trasse all'odore. » Nov. V nt.« E la fama di questa opera di santa Marta s'incominciò a spandore e per tutte le contrade d'intorno, e per tutta la Giudea di questo modo a ch'ella teneva, sicchè tutti gl'infermi e poveri traevano a Betania, « e chi non poteva venire si faceva recare, e vi si riducevano come a « un porto. » Cavalca.  e Un piovºnº i grillorando a scacchi, vincendo il compagno, suona a a martello per mostrare a chi trae come ha dato scaccontato, o quan ti do gli ºrde la casa i lillllo Vi trae. » Sacchi,«... tutto quasi ad un fine tiravano assai crudele. » Bocc.  – Nota la questa frase: tirare ad un fine, per aver la mira ecc. Anche del vento del mare ecc. di cesi che tira, v. gr. violentissimamente a ll e beccio ». I3a 1 t.Per nº lì tornare a 1', dire le stesse cose, vi piaccia qui di por mente ad altre II1:ì il lere che si ill bllo: le e dell'ils. Tirare da uno e cioè sol Ili gliarlo); tirar via un lavoro, tirar giù un lavoro cioè non badare che a finirlo in fretta, anche st; pazza idol; tirar giù di una persona (dirne male se, za Ibla discrezione al III ndo,: tirare al peggiore: a Egli 1tlti io che ſi evin (i i lil I::lco tirava al peggiore ». Da V.; ecc.  « Ari ippò l'insegna e trasse:: - la il I grida 'I l... » I)av. “...... e scorrendo per le vie s'intoppano negli alimbasciatori, che udito « il l ril 1g (111 di (i e II, 1 lli, a llll traevano, e svillaneggianli...» I)a V «.... la vaghezza di ricolº oscere i gran personaggi, sicche in calca la « gelite - ll al trarre il vederli., (es. l ri. TI IRB.ARE –. Il cielo e lill!) io:i turbare. » Nov All. VERGOGNARE - SVERGOGNA IRE.... a qual cosa -oste no, per lui, li a sia il lo, temendo e vergognado ». 13ocr'.« Allor: il crav: lo tilt, svergrgnò ». I v. Esoi). Conf. Disonorare, svergognare – Prontuario).  V()I,(iERE - V () I, I AI? E. ()r volge, sign(l' In 1, l'ill decimo allllo, Ch'io a fili sommessº, al di-.  go ». I'et: Noto e 'n ulso anche og  gi(lì, ma chi pensa e vi sento Ina i 'a fol'Irla assoluta?) a Noril lan'lo III oltr a voiger pr. In queste ruote., I)ante. « Il tifone voltò e preso altra via, la burrasca subito rallentò...» VERBI RIFILESSIVI o con L'AFFisso, AvveC NAcri è superfluo, o NoN NE CESSARIO ALL'INTEGRITA DEL SENSO,  L' posto di quello le si è vedi o lestè. Egli è un colal vezzo de gli scrittori, oggi rarissimo e per pc o smesso, render reciproci alcuni verli: he (li la III l'a ll l solo.  I 'alliss, mi li, ci, si.: Il paglia verbo si rive il Ft il naciari, a come forse meglio lirebbesi, riflessivo, ha virli al l'a di concenl '::: l'azione nel si ggello, quasi come quella sperie di cerbo medio greco che i grai lilli alici dicono sul biellivo.  Nella Serie IV seguente ragioni: Isi di alcuni verbi, il cui soggellº non è agente, ma causa dell'azione d'allronde. E come altretta i mi parer ble da riguardare i pronominali di questa serie: pensarsi, sedersi. cominciarsi, entrarsi, morirsi, ecc. ecc. volendosi esprimere azione che il soggetto non solo fa, ma si fa fare: e però, per esempio, mi penso, voler dire: faccio me o a me pensare, o faccio sì che io penso: mi vede, chec chessia, mi entro, mi comincio, mi muoio V. g. di cordoglio, di crepa cuore, ecc. ecc., significare: faccio mie vedere, entrare, cominciare, morire. e, che è lo stesso, faccio si che io vegg, entro ecc. E quanti più altri co. strutti e modi, che misteri della lingua si appellano, ci verrebbero piani e ne sentiremino la ragione intrinseca e logica, l'original candore, se l' genio studiassimo e l'indole della lingua, la natura cioè dei verbi, l'ordine dell'azione, il vero, non storto valore delle frasi ecc.! Sturdiali i seguenti  esempi, e saprai come e con quanta grazia.  V V EIASI Sapete ormai che a far vi avete se la sua vita vi è cara.» lo c. AVVIS ARSI –..... la qual cosa veggendo, troppº s'avvisarono ciò che  « era e..... » IBO (('. e perchè... s'avvisò troppo bene con lo dovesse fare a... » Boer, « Ma io vi ricordo che ella e piu malagevole cosa a fare che voi per avvelt Ilvo lli v'avvisate. » l Bo.CAMPARSI - - « Appena si campano le dºnne con gli occhi adosso; che a farebbero sdlmenti a te gli anni e quasi rimandate?» I)av.  (()NTINI AI? SI e... liguarda ll do Emilia sembianti le fe”, che a grado li fossitº, che essa i coloro che detto a Veano, dicendo si continuasse». I3 cc. I) I BITARSI - « e saravvi, mi dubito, condannato in perpetuo. » Caro. EN'ITIRA IRSI «E grillingtºndo alla terra, in vendo l'entrata, senza uccision a vi S'entrarono o. Vill. a Ruperto vi s'entrò dentro. » Vill. l'SSERSI - «... e messosi la via tra piedi non ristette, si fu a casa di «lei ed entrato disse.... » B i.Sempiterne si son le mºzzate, le ferite, i vermi crudi, le stati ran. « golose ecc. ) I):) Vanz.“ In ogni parte dov le noi ci siamo, con eguali leggi siamo dalla a lla tll ril trattati. » Boi ('.“ Io mi sono stato, da echè..., il più del tempo a Frascati. » Caro. l'AIRSI - e Che monta a te quello che i grandissimi re si facciamo?» Boce. “ Divano º sta di non tener più conto di lui che si facessero cogli nl « tiri. » (esari.MORIRSI – « Finalmente, dopo due anni, fra le lupo si mori di vecchiaia».  Fioretti. «... e così morendosi in poco d'ora, mostrò quanto ciascun uomo sia « mal Infol InatO.....» SCglì.  NEGARSI – « E' il vero che l'amore, il quale io vi porto, è di tanti forzi « che io non so come io mi vi nieghi cosa. Tra luci: che io faccia al lile, « induca me a negare a voi cosa ecc., che voi vogliate che io faccia º  BOCC. PARTIRSI (v. Dividere – IProntuario, –... dell'isola non si parti ». I3ocr'. PENSARSI – (Conf. Pensare - IParte III,. – SoInigliantissimo il sich  denken dei tedeschi. – Pensarsi è una specie di pensiero, una fol'Inil  d'induzione, d'imaginazi lie, d'invenzi Ile. Nel pensarsi e sovellle ll il iImaginamento o supposizione non tutta conforme al vero; nel cre dersi è il silnile, Ina Ilon talnto. -- Solº parole del Tollll I laseo. Le Spa - lo per quel che valgono. Io dico che pensare viale formar giudizi, e pen sarsi, un imaginarsi pensando, un farsi o formarsi pellsieri relativa IIlente a checchessia.« Quale la vita loro in cattività si fosse ciascun sel può pensare ». BOCC.« La sera ripensandosi di quello che egli aveva fatto il dì... ». Fioretti «...mi disse Parole per le quali io mi pensai Che qual Voi siete tal « gente venisse ». I)ante.“ sappiellolo che nella casa, la quale era allato alla slla, a Veva « alcun giovane e bello e piacevole, si pensò (Traduci: si fece, si recò a pellsare, escºgitare) Se per lugio alcuno fosse nel Inllro...». Bocc. º...... e si pensò il buon uomo che ora era tempo d'andare.... ». Bocc. SPERARSI –- «... e sperandosi che di giorno in giorno tra il figliuolo e 'l « padre dovesse esser pace.... ». Bocc.USCIRSI – «....io vi voglio mostrar la via per la quale voi possiate « uscirvi di prigione ». Fier.« S'usci di casa costei e venne dove usavano gli altri Inerendaliti ».  TBocc. VERBI CAUSATIVI, cioè INTRANSITIVI o NEUTRI – siA si MPLICI, si A PASSIVI – I&I,CATI AID USO E FORZA TRANSITIVA.  Alcuni grammatici non la guardano tanto da presso e mettono in fascio liransitivi e intransitici, o transitivi di fallo e di apparenza soltanto, dando nome di attivi transitivi o di azione transitiva (imperfetta, come dicono essi) a certi verbi di lor natura neutri e però sempre intransitivaper Iliesto sol che loro risponde nell'oggetto in cui, per cui, su cui, od a ºi º è o si riferisce l'azione, non un caso obliquo, come vorrebbe il natura messo o rispello, ma, per certo lui il vezzo di lingua o tornio di frase, l'accusativo o caso rel.. - ll che avviene, vi i per elissi di I lº svela is o preposizione espri mente "in dell'azione, rispetto aila i stanza o termine cui si ri "sº, lº sºnº:. io h Fei io se stesso, e la sua donna comini  c'Io ct piange e. I 3 º li, o solº a se stesso...:.... cominciò º ſi correre il regno saccheggiando I; I. io è il dire pel regno:  ( Ma pure ingendo di non aver posto mente alle sue parole passeggiò º due o tre volte il giardino, sempre ril, inava (iozzi: « venivano il giorno cerli pescatori al lago di Ghiandaia per pescarlo ». Fier., º Tristo chi vi per cui rimando aliora le solita te libiche pianure '. Stroc  chi; e ci si dicesi: nº l'11tri il liti in se', nel I e le scale, il monte, ecc.: rotſionati e discorre e un jail!; liti ti un pº' irolo: andai e una riu. –... la via che ad andare abbiamo. I ce. passati e il fiume: passare ll no con il coltello dare ad una donna in uno stocco per inezze il pelo e passarla dall'altra parte I, centi si, desinarsi qualche ºsº, ecc. ecc., vuoi per rili li erla p i licelli, preposizione, o altro aderente al verbo con piani e ai per - con i re un paese: obe dire - ob - audire il padre, la madr: riandare un lavoro, la vita ecc. – (ili cominciò a spiana e quella grand'ella, qual gli pareva che fosse riandare l'ulta da capo la sua vita. I; il I., n. ll per reva azione di  rella che dal soggello agente Irapassi all'oggetto paziente. Ma lo è di verbi si illi e li vuolsi o li ragionare. Nella Serie II. allegai ai verbi al liri-pi o nominali che sulla penna a classici ci si pre sellli II l ' il lillili il neutri se in plici, la cui azione, cioè transitiva e ri Ilessi sul soggello li a emoli si rel: il lasitiva, non più emessa. lira il rimanente e inerente al soggello. Qui invece mi pongo alcuni altri neitli i di lor nallira. In alli al sl 1 il lei e altresì il cagionars, altronde della rispelliva azi si rie, si gg i è riori: hi la fa, ma a chi la la lare. Nolissimo, a cagi li d'esempio, il doppio uso del verbo Non ci re. l)i esi: la campana, l'isl 1 lu meri lo suona, lila allresì e bene: io suono, ed anche: io suono la campana, il cembalo ecc. Il primo è neutro in Iran silivo: l'azione del sil riare, ni: ridar lu ri suono, aderente al seg. gello, del sogg l sogge! I ci: il si rondo e il lerzo invece non è verbo che dica azione chi si s Io, il cli: i ar. vale: io laccio sonare io faccio sì che un isl 1 Imen lo renda silon Vl tried sino modo spiegasi il III zionare al livo dei verbi qui soll shie ali: e il di p. es. cessare chec  chessia torna a questo: fare che una cosa essi, linisca.  (*) I, a lingua tedesca è ricca pi assai che l' Italiana, francese ed inglese di tal maniera neutri intransitivi. Lasciando stare il gran vantaggio che ha di collegare a nodo di una sol voce qualsivoglia verbo con la rispettiva dipendente preposizione sia dell'oggetto diretto che indiretto o complemento, gran numero di verbi neutri (che, spogli di ogni affisso, reggono un caso obbliquo, o l'accusatlvo con preposizione, e però d'ordine e rispetto indiretto relativamente al loro corredo) trasforma ad altro rispetto e indole quasi transitiva attiva, premettendo ed affigen dovi la particella be, Es: den Rath be folgen (den Rath folgen): dem Herrn bedienen (dem IIerrn dienen; einen Freund beschenken; don Feind bedrohen; Etwas bezweifeln Etwas be sorgen; Jemand behelfen, beweisen, befallen, belasten ecc. ecc.Si che di alcuni anche il Vocabolario ne riconosce l'uso attivo, ma li pºne accanto tal altro verbo che risponde bensì al senso della cosa, ini non n è l'equivalente letterale e non ſi mostra come il suo valor ma lui l'ale, l'azione neutra resta lullaria, avveglia che dipendente e soggetta a chi la ſa fare. Dice p. es. che cessare, attivo, vale rimuovere, sospendere, sºlirſtrº ecc. e ne convengo quanto al senso, ma non quanto alla ra. gione intrinseca e letterale della parola, secondo la quale il cessare non è propriamente azion transitiva del soggetto che cessa, v. gr. un pericolo come sarebbe il dirsi rimuovere un pericolo ecc., ma egli è sempre azion leutra della cosa che cessa. Si è il pericolo che cessa, e il cessarlo non è, a rigor di frase, un rimuover!, che si Iacria, ma vale far sì che il pericolo, comunque non abbia più luogo. Il qual modo far fare, onde spiegasi la forza transitiva di cui è capace il verbo neutro, vuolsi applicato a qua lunque altro che comechessia il comporti.  NI3. – Si fa qui menzione di quei verbi soltanto il cui uso alliro - causaliro – il V Vegnachè ordinariamente assoluti o costruiti neutral mente – è virtù, è particolarità antica e classica. Di allri molli, dei quali una tal proprietà è tuttavia comune di generalmente nola, non accade or cuparcene. Nostro compito è richiamare a vita le smarrite o poco nole hellezze, proprietà, virtù e dovizie dell'avilo, italico idioma.  (*) Di tal fatta verbi è ricchissima fra tutte l'altre viventi) la lingua inglese. E per menzionartene alcuni eccoti: to fall (cadere e far cadere, to drop (cader giù, gocciolare e far cadere o gocciolare, to drink (ubriacarsi e far......), to fly (volare e far.....), to sink (calare, andar giù e far.....), to wave (ondeggiare e far.....), to fire, to well, to play, to please ecc. –. Nella lingua tedesca, invece, si è mercè di una piccola alterazione che il verbo di neutro si rende nel modo esposto attivo: Steigen (ascendere), steigern (far ascendere); folgen-folgern; nahen - nahern (e anche nahen cucire); sinken - se nicen; trinken – tranken, dringen - drāngen; schwanken - schwänken; erharten - erhärten; erkranken - krānken; fallen - fallen, stiche In - stechen; schwimmen - schwemmen; springen - sprengen; wiegen - wagen; einschlafen - einschläfern; liegen - legen; sitzen - setzen; stehen - stellen; rauchen - rauchern; abprallen - ab prelien; fliessen - flössen; schwallen - schwelten, lauten - làuten; (es laPomba so...., es wird gelePomba) ecc. ecc.  Io non so di niun grammatico o filologo il quale parlasse mai od accennasse a coteste verbali analogie, rispetti e relazioni etimologiche. E quanti, a cagion d'esempio – non esclusi Ollendorf, Filippi e Fornaciarl –, s'ingegnano per molte altre vie e a tutto lor potere, e per dichiarazioni e per esempi, di mostrare e far capace il lor discepolo dell'uso e valore, l'un dal l'altro assai diverso, di clascuno dei surri feriti verbi stellen, setzen, legen, quando una parola soltanto basterebbe e farebbe più assai; dicendo cloè che ll son verbi causitivi: stellen di stehen, setzen di sitzen, e legen di liegen.  S'io lavorassi o dettassi comunque una grammatica, distinguerei quattro gran classi di verbi:  I.a – Attivi transitivi – lo anno. L'azione transitiva è mia. II.a –. Attivi causativi. – lo guariseo alcuno, io risano, io suono, io cesso  ecc. – Mio l'atto causativo, ma non gli l'azione stessa del guarire ecc.  III.a – Meutri relativi. – Io corro (una via), io piango (alcuno) ecc. (Conf Il ragionato testè).IV.a – Meutri assoluti. – io vivo, io dormo, ecc. Il dire: vivere una vita.  tranquilla, dormire un sonno dolce, placido ecc. non toglie al vivere, al dormire la sua forza neutra assoluta, ma é sol modo elegante che torna nè più nè meno all'altro: vivere, dor mire placidamente, e pºrò altro non è l' accusativo che un verbale o simile spiegativo dell'a zione o qualità del soggetto, non già vero accusativo od oggetto paziente. “ Dormito hai, bella donna, un breve sonno., Petrarca.CESSARE – «...da troppo più erano in lorze, ma il Saverio ne cessò ogni pericolo ». Bari.«...e cominciò a sperare - e nza sia per clie, ed al quallo a cessare il desiderio (lell: l III olt. l 3o t.Così a dilnque, l la sua pr inta e si riazzevol risposta, Chichibio  cessò la mala ventura e la il 1 ossi col sito -... ». Bove. E se pure i liti e li rig. Vi volesse soprarſi lº  cessatelo con pazienza e sopp rti / i 'le..... l'a ll dollini. Eglino si l vera lo sotto i rii il l i s'1-s......it, livºr cessare  la neve e la notte e le sov l instil V a. l ore 11 i. Cristo pregò il lº; i dr. lle cessasse il calice le! l -- i il di lui ».  ( la Val. e l'el terna li slla voli e, lil cessossi e la lº tissi da FI l elize ». V ll I.: s cessarsi di q. c. 1 - lei tºls e, rilla nerselle. (:) | Astenersi lº l'a lt 1 l:ì i l. La terra fu cessata dai livelli lº stilt la c. l.  « l'el cessare i pesi d llllo si, it: i cl l - e gli stessi, con la Illiato ».  (es: ali. « Per cessare ogni vista di tiri, la gran le zza s. Cesari. CONVENIRE. - indi convenuto, le ini, e il dizi: io, che è participio non  del neutro, ma del call sativo ccn venire, e si n 1 l I a chi è fatto con venire o gli fu intimato di convenire« Questa (l'anima, dinanzi da sè, il Clti i lu lu parte del mondo, può a convenire chi le aggrada » (iitll.a Chi conviene altrui il giustizia di pi st Ilnolli ». (iiulo. « I)ilmalizi a gillsto gill di 1, i: i - o sia le convenuto ». Bo c. cioè siate stato chi: Irlat, (1:111 o vi è lll' '.CIRESCERE - « Questo luovo tono di vita, crebbe in lui lo studio della Virtuſ ». Cesari.E indi a poche linee torna a in ora la stessa frase:. Questa piena de « di alzi alle crebbe il lui lo stll dio della Virt il il segno... ». « E crebbono assai l: l 'ilt: i (li tºis: l... V Ill.E questo pellsiero la illlia Ino a va sì forte di l io: che lì lì si potrebbe a dire, e ricrescevale l'odio di sè e della sulla vita passata, che con grande empito si sarebbe morta s'ella avesse ci eduto che piacesse più a I)io». Ca Valca. Il testo li rincrescevale, ma niuno degli intelli gellti dubitò mai ch'egli sia altrº tale che ricrescevale, il quale sta qui non in significato neutro, come nota qualche espositore, ma cau  sativo retto da pensiero, il quale non solo la innamorava ecc. ma adoperava ad accrescere vie più l'odio di sè e c. Noterai qui anche l'altro causativo: si sarebbe morta. E chi dubitarne se da quel che segue chiaro, a parisce che per lei sola si rimase che d'odio non morì? DERIVARE. - «.... cºme il giardino con fare il solco deriva l'acqua alle piante, così.... ». Segn.«....che può e deve per sè, senza ch'io e litri in queste vane dispute, « derivare (il folgern dei tedeschi) a tutti questi capi infiniti ed effica cissimi con forti ». Caro.FALLIRE – « Ma il barbaro amore questa promessa falli ». Rart. « Guarda in che li fidi ! Risposi: nel Signor che mai fallito Non ha « promessa a clli si fida in llli ». IPetr.« Onori avevano grandissimi e sfolgorantissimi; come altresì fallendo il loro voto, erano seppellite vive ». Cesari.Nola qui le frasi: fallire il colpo, alli, e la ria. Fallire neutro, vale: li tallº all'e, V Cnil lilello - le lire e - V el sagi li ''I raro, commellere fallo,  andare a vuolo - si leiler n: - la debolezza vostra per conto della « carlie è maggiore che non crediale, ed a passi folli la lena vi fallirà o. Cesari. – « Sentendosi il marchese agli sll'eli e pallendogli tutti i pal a lili da scioglierne..... (es. \ i rolli: il falli la speranza ». I liv. Ml. (Conſ. Dilello ecc. Pi ritira iFINIRE –– a Per cessare il pericolo o finir la vergogna dell'essere sl Iriale sullla bºcca dei suoi 1 ratelli.... ». Bart.  « Chiedeva lo riposo per interce e di non morire in quelle fatiche, a Ina finire, con il pi di viver, si duro soldo o l)av.« Finite i peccati.... Io vi prega v. 1 che finiste le oscenità dei teatri ». Ceskani.« III camera dell'ill fºr III o, (Ill: Indo peggiori, gli albarelli e le alilpolle « Inoltiplicano e l'apuzzano e lui aggravano e finiscono». l)av. – IPoni niente triplice rispe:to o ti e differenti maniere del verbo finire: a) - a... di sollecitarlo non finiva glanina i p. Bocc. – Finire di vivere O finire Selz'altro: a Mall vive il do 11 ll IIi erit:i Ilo di bell finire ). Passa V. b) - « Un lavoro di grande artista dagli altri si giudica terminato « quand'egli illon l'ha all ra finito a suo inodo ». Grassi,c) - Finire la vergogna, finire le oscenità, finire un infermo, come sopra. –- Nel primo modo è neutro, 11el secondo attivo tra lisitivo, nel terzo attivo ('allSativo.FUGGIRE – (Conf. Fuggire - Parte III. Chi avea cose rare o mercanzie « le fuggia in chiese e in luoghi religiosi si ll ' ». Vill.  MANCARE - « Questa asprezza delle grida era Imaggiore che dell'arme « per attrarre l'aiuto a quella parte di quei dentro, e mancarlo ov'era e l'agguato ». Vill.« Nè a lui basta l'avermi mancato la sua difensione e l'osserni il v - a cato, ch'egli rsi ride della Inia rovina ». Fiorenz« Mancare ad alcuno il proprio soccorso ». (iillb. A on f. ll - i vari di questo verbo - Parte III.  MONTAIRE a..... e così in poco d'ora si mutò la falla co fortuna ai Fio. « rentini, che in prima con falso viso di felicità li avea lusingati e « montati in tanta pompa e vittoria ». Vill.Anche i francosi dà mmo nl loro il rallsitivo monter va l'il'e altresì i rall - sitivo. I tedeschi mutano steigen in steigern, e gli inglesi to rise I'm to raise.  MORIRE – Nei preteriti) a Messere, fammi diritto di quegli che a torto « m'ha morto lo figliuolo ». Bocc.« Tutti gli altri, coll'arme in mano, uccidendo, l'illmo presso dell'altro a furono morti ». Bart.)lss 13 rullo plaliani e ite: Velestlla? l?ispose Caliandrillº: oimè si! ella  m'ha morto o lº i.  - - - - - e ln, il i gl I l va 1, l. (.li la lill Il lesti nostri Pontefici e Sa cerlot, º hanno morto questo Gesù Nazzareno, per cui... » Cavalca., Vedi un altrº º semplo dei Cava a s. ti o Crescere,.  Mista l'o di illma: la pel lidinº la super bla era il veleno che avea morto l'umana natura ». (es.Fu incarcerato ed a ghiado di coltello, morto ». Dav.  Avendovi morto la ſua 11 l o elito | I solle.... » l)a V. Fra l III olti isl lel verbi, morire le ultra linelli e il toreno: e Morire di alcuno e lº i loro esser:le l'i: la morato, morire v. gr. d, uno scoglio, di una spiaggia i fili: I l a tºrto e lº iallo el'a lln  sentiero s gli Imbo. (.li e in liesse il 1 l la n o della lacca Là ove piu. he a mezzo muore il lembo ». l)ante.l'ASS ARI. Conf. Passare - p.lli III. (i la Iri Irla i lioli fu qui ponte,  Il 1. lo si lui e passo slli li e spille Illit lillique... » e l'rego un ge:11: le li i portasse a a.ti a riva di un fiume. Quegli,, per natural cort sia, o per che pur gi a lesse dell'anima, volen e tieri il compla llli e passo llo ». Bart.I mi: rilla I e i soldat,, lire il v vien le lunghe navigaziºni passa vano il tempo e la noia giocando illrsieme alle carte ». Bart. - Passare il tempo, frase notissima e volgare, non vale adunque, rigo rosamente parlando, trascorrerlo zubringen) come comunemente si crede, Ina sì rimuoverlo, scacciarlo, farselo passare (sich die Zeit Ver tre ben, cioe parsa lo in senso causativo. Se così non fosse come il lig e vi: e la noia? I a noia non si trascorre, ma si rimuove di Zeit Ilind di I.: ll e W. Il vertreiben, non zul rilmgeilm), MI: il l?o, le o, moli e l'altri, con i fertili e la cla scudo al mio pensiero. ') po.. er detto che alla donna conviene talvolta di Inorrarsi in ma 'I: onla e gravi i 1:1, se questa la nuovi ragionamenti non è rimossa -:: - il l '::: il cli, degli innamorati il lilini i lorº avviene. Essi, se:I l il 1: Irri li vezza il I l ' - I ', gli i filigge, lì:almn Ino di, di illl:: 1:1 re a da passare quelle ». l 'r erni..I )i, he lo n vedi che codesto passare e il rimuovere sopra detto.  I 'I l? I)I.I E Tinete eum qui potest animi: In et corpus perdere in gehell ma li ig: tris, Vlath.: ' '|... Il cui numero la loi, scritto essendo completo, ed egli tolse  di I lil: do e lo ebbe perduto senza riparo » Cesari, Perdidit I)eus II emoria III: Iddio ha perduta, cioè distrutta, la nº e Ilioria dei sll per l'i ll Illini ». l'assia V.  (!) È ben altra cosa il dire perdere checchessia – cioè rimanerne privo – e dire: perdere uno, perderne l'avere, la riputazione ecc.  Quì perdere denota azione diretta di volontà che fa che altri si perda, rovini; quando nel primo modo è cosa che, indipendentemente dalla mente e volontà del soggetto, al soggetto co me clessia avviene.  A gli esperti del Breviario romano ricordo la bella discussione di S. Agostino intorno al doppio senso dell'espressione: perdet eam del noto eflato di G. C.: qui amat animam suam perdet eam, cioè o l'uno, o l'altro: colui che ama veramente la sua anima, perchè sia beata l'IOVERE - NEVICARE - TONARE – Sue beltà piovon fiammelle di e fuoco alimate d'uno spirito gentile ». Dante (Convito).a.... e però dico che la belta di quella piove fiammelle di fuoco ». Dante altrove Conv.)« Il Saturnino cielo, non che gli altri, pioveva amore il giorno che a e ili nacquero ». Filocolo.Sospira e suda all'opra di Vulca 'lo, IPer rinfrescar l'aspre saette il Giove, Il quale, tuona, rnevica, or piove ». Petr.Questo e i precedenti esempi in strano chi la o non esser certi verbi, che si chiami lo illip I somali, si rigi il sili, elle lilli che non siano slali Ialora adoperati - e lo si può ſulla via anche a maniera di al livi, sia retti solamente Vegge il la cagi li che il lato priore ». l)ante: Innanzi che la ballaglia si comincli - si porre una piccola acqua ». Vill. Pio rele, o Jian ne, e li o in lei il voraci le possessioni. Segn.  Quando il giali (ii ve lona Pell. e par el l e il libe che squarciata « lona, l anti, sia reggeri li ricorsi il II Il caso. Nè pol rassi perciò mai lidariri i re di errore il dire come elletri e le till illegali: le stelle pio rono in luenze: i nu voli pio con sassi, e c.  SOLAZZARE - Non avvali pe: ne, Irla di pipistrello era lor inodo, e e quelle solazzava, - che ti venti si trovean da ello ». Dante  TIR.ASTI I,I. ARE e \l trastullare i fanciulli ill el le;l p. 13ocr'.  VENIRE - - - E l' ste detta fu quasi tutta se la raſsi e venuta al niente  senza colpa dei nermi. I n. Vill.  nell'eternità, darà opera che sia perduta, eloè resa inerme, la farà perdere nel tempo: oppure: colui che ama la sua anima nel tempo la perderà nell'eterno.Quanto all'uso di perdere a maniera assoluta ti è forse noto, ma non ti verrà discaro un qualche esempio: «... Essere tutto della persona perduto e rattratto » Bocc. «... e mise il mare in così sformata tempesta che quattro dì e qnattro notti corsero per « duti a fortuna senz'altro inlglior governo che... » Bart.“ Guarda come ciascun membro se le rassomiglia ch'egli non ne perde nulla, Fler. Nota ancora gli usi: andar perduto di checchessia o dietro a chicchessia i perdersi d'animo; amare perdutamente ecc. ecc.CAPITOLO III.  Voci e rnaniere il noleclinabili  Non sarà certo alcuno, per ignaro e poco sperto in opera di lingua - il quale leggendo e studiando nel clasisci non s'avvegga che anche nel l'uso di certe voci o maniere indeclinabili - oltre a quelle che ad altro oggetto l'agiolai ed illustra i più sopra - consiste talora il vago e l'effica cia del discorso, e vi è molte volte diversità tra l'antico e il model'In.. Anche a queste forme vuolsi adunque por mente, e farne oggetto di | esame e di studio. Le dispongo a ordine di classi o serie sol per divisarne comunque la materia, non per logica ragione che me ne richiegga. Assapora, studia e sappi quando e con le usarne, discretamente cioè e con lo senno, sì che alla frase lorni garbo e naturalezza, non mai al fetta la e l'ill ('l'eso e vole ricercatezza.Ti verranno anche qui, come al rove, scontrati esempi già addot.i. Se il ripetere lalora annoia, in opera di forma al tutto didattica torna anzi - utile e grato, e vale qui più che in altre discipline il noto proverbio: Re petita iuvant.  SERI E I.  MIA NIERE A VVER BIALI o I o RM: IN C: EN FIRA I, E Albo PERATE FREQUENTE M ENTE I) A I (I, A Ssl ('I A I) Fs l' RIM l. 1: E l I, GI: A l M (N ) (E SU'PERLATIVO 1) I QU' ALITA, AzioNE, o Cosv Ql A LSI Asl.  Le quali tornano solo sopra alle volgari: immensamente: incompare: bilmente; inesprimibilmente, assoluta non le: onnina nºn lo nel modo mi. glio e, possibile ecc. ecc.  COMI E ME(il,I(); II, MIlGI.I () ('ll E.....; CI IE NIENTE MEGLIO; CIll: NUl.l.A  l'III'; ECC. ECC. - – - Spacciatamente si levò e, come il meglio seppe, si a vestì al bllio ». 13, c.« Senza liti, la cura e prestamente come si potè il meglio... » Boc. . - “..... riprese animo, e cominciò come il meglio seppe..... » Bocc.. “...... a dorni il meglio che sapevano m. Bart.“..... tutti pomposamente in armi dorate e in vestimenti i più ricchi  a e gai che per ciascun si possa ». Bart.AI,  « Voi l'avete colta che niente meglio». Cos. «.... con quella modestia che io potea la maggiore ». Fierenz. Inv. costr. con quella maggior modestia ch'io potea. )  - -  POSSIBILE; QUANTO PUO' ESSERE; AL TI "ITO; IN TUTTO; ECC. «.... purissinra l'aria ed asciutta e secca al possibile ». Bocc.« Vi terrò sermone di nel quale io sarò parco al possibile ». Cesari, º..... pregandolo di porgere, quanto per lui si potesse, alcuni subitº, « ed efficace l'ilno (lio ». Balt. e Luigi ne fu lieto quanto potea essere, ma..... » Ces. « E però al tutto è da levarsi di qui ». Bocc. « () che il prete fosse al tutto ignorante, che non si pesse discernere i peccati. o fare l'assoluzione..... » Passav.a Fortezza al tutto illespugnabile ad ogni altra forza che d'assedio « () (li fa II le o. B:ì rt.« Si pose in cuore e determinò al tutto di visitarlo personalmente ». Fi, retti.a Malvagia femmina. io so ciò che tu gli dicesti, e convien del tutto l'io sappia...... » Boce.  “..... non ha bisogno delle 11 i lodi ſi è cll'io l'a lti le lodi slle e e però Inc le taccio in tutto ». i l IIll).  PIU' CHE ALTRA COSA; QUANTO NII N ALTIA(); ecc. « Assai più che  a altra femmina dolente, a casa se ne tornò ». I3o. e Lo scolare più che altro uomo lieto, al tempo impostogli andò alla a casa della donna.... » Boc ('.  “..... il che voi, meglio che altro uomo ch'io vidi mai, sapete fare con a Vostro sºllino e col V (Stre ll (Vello ». I30 ('.a Vergine madre, figlia del tuo Figlio, l'Ilile ed alta più che crea a tura, Te: Irlino fisso d'eterni i collisiglio.... » I)allte.«.... d'altezza d'allirno e di sottili avvedimenti quanto niun'altra dalla « I):ltº Ira dotata ». Bocc.« Più tosto si richiede onostà e modestia, la quale fu in lei quanto a in alcuna altra ». IPandolf.a... la rendi (Malacca j, collo industrie della sua carita e coll la virtù e dei miracoli, illustre quanto mi un'altra ». Bart.  PER COS.A I)EI, MONI)(); C()I, AI, MIA (i (i I()R... l)EI, MONI)(); II, ME  GI,IO IDEL MONDO: PUNTO DEL MONI)(); SENZA.... AI, MONI)(); ecc. – a.... e quantulinque in contrario avesse della vita di lei udito, per a cosa del mondo nol volea credere ». lºoc ('. --- (Simile la fraso del l'uso: per tutto l'oro del mondo – nicht um die ganze Welt) « Alla maggior fatica del mondo rotta la calca, là pervennero dove... » Bo(('.« Alla maggior fatica del mondo gliel trassero di mano, così rabbuf a fat () o mal concio d'Olm l' orº ». Fior.a Io gli ho ragionato di voi, e vuol vi il meglio del mondo ». Rocc.« Punto del mondo iron potea posare ne di, nè notte ». Bocc. « Ne la Inella Vano senza una fatica al mondo ». Fiel'enz.  A CHIEI)ERIE \ I, IN(il \: \I. I)I SC) I PR A: (() MIE I)I() VEI, I)ICA:....E'  I N.A FAV ()I..A \ I)IIXE; Sl: NZ A VIISI IN A: ec....... ed a chiedere « a lingua sapeva onorare cui nell'alimo gli capeva che il valesse ». l30 cc.  « Il popolazzi,.. asso, st L. e ti emend al di sopra, ridicolo, impau e rito ». I ): v.... un catarro che li accolla io questi gi il 'ni come Dio vel dica». Caro. «.... colle l'a II lilli, fierall 'i! te è una favola a dire. Flereinz. « La giovane, la quale senza misura della partita di Martuccio era stata dolente, ti derido illi e il li:iltri. sser. In rto, lungamente  pialise ». Doce.  AVVERBI I) I TEMl PO Ass v I I REQUEN I I VI po I (I. AssicI E D AI MoloERNI RARE VOI,TE EI) AN('l I E S (' ) N V ENI ENTF VI l.N l'F, A l)() l'ERATI.  Solº, e ben si vel. io il amezzi e talora anche vºi per sè insignIl lill. I l l sentire e del pensare rivelano assa i volle, chi li Is I l s, che di gentil e di fino. Ad intendere a che li gli oli | lesl Iraniere avverbiali siano cosa da non dove si l rais li tre pas e il por nelle alla sconve nienza di allre voci che venissero sul gale, per quanto equivalenti c  (lell'lls.  I, A I PI? I VI \ (.()S \ \loid 'il: 1 o, e st. In tla prima cosa che faceva, clle dI va, che li l' I, le ill e I e I blie i. (olf. Al llla si Sel ie. I - il I l I so: volte, i vi si va via, la prima cosa a visit to il corpo di l l lo so S. Z:lolo º lº i:li. (n'egli era  a levati, la prima cosa spendº via il rile, i ora zione mentale. » l3: l 't. (o s.VI.I. \ l'IRI MI V di primo in alto il prima giunti (.lle lisogli a sciolla Il 1 Se la l - i lrn 1. ll il I alla prima acconsentono º, l):n V (in tilt to li alla prima ti sti lou, i l:t lizione... o V ill I ) \ Iº lº I M.A... Illando l'alto livlio Vl sse da prima quelle cose a bello. » I ): l.llto.« Lasso che male accorto lui da prima ! » l'elr. Parla dei primi istanti dell'amor sul.)IN PRIMA – « In prima si commette in occulto, poi l'uomo accieca in « tanto che pecca manifestamente ». Caval. « Io voglio in prima andare a Roma ». Bocc.  DI PRESENTE subitamente incontamente).  Matteo Villani elle questa forma di di e continuo alla penna, e per quanto a me ne paia, non mai usata a significare il ro che su bila mente: nel qual senso la rove ete nel primo libro della sua Cronica delle vol, allilelio cinquanta. I3artoli. Ma non inferire la ciò che sia inal Isa! anche il senso di: al presente. L'ha il Caro, il Lasca, il Segneri e noi,  altri: « Ma forse che di presente non v'è l'Ics Iso? Segn  di presente e gli cadde li Iurore ». I3ore. a... tutte le Imadri che avessero fºr ll illlli ferirli gli o tav: l'1, l. detto monastero e la badessa li piglia va e pi Vagli llel mezzo del a chiesa...., e di presente erano saniati d'ogni info, Irlita., Cav.... e poi le fece il segno della Santa Croce nella sua fronte. All ra « il demonio incominciò di presente a gridare e... » (a V.Se l'andò di presente alla madre e contolle tutta l'ambasciatº. » Nov. Ant. Le illimicizie. In riali trascono di presente. » (ia la teo. a \ppena avvisato da lui questo peso l'intrepidimento, di presente º so ne riscosso ». CesI)I TIRATTO – a...il domandò se..., ed egli di tratto rispo- di si. (-. I) \ INI)I INNANZI – « E da indi innanzi si guardò di Inai piti.. » I3o:. a Chianrossi da indi innanzi non più... Ila.... » (iia lill).l'EIR INNANZI – «....o tennero per innanzi Messer Betto sottile ed iniel: a dellte cavaliere. » Boicº a...o fatene per innanzi vºstro piacere. » Rocc. I).A ORA INNANZI - «...da ora innanzi spenderemo la nostra diligenza « in cose... » Bart.  « In fede buona, discio, io voglio da ora innanzi credere come il re, e cioè in nulla ». Da V.– Così dicessi: da oggi a 20, 30....dì: Mi seguiterai da oggi a venti di º. Vit. S. Girol.DA QUELL'ORA INNANZI –. E da quell'ora innanzi gli pºrtò sempre « onore e river olza. » Fioret.  I) I MOLTI MESI INNANZI....... con le collli cl) o l or Ill ort, l':n ve: i rii a molti mesi inmanzi. » Rocc.DA QUINDI ADDIETRO. A te, corpo mio, sia pena e vergog vi e  « confusione la tua mala vita che ti hai fatta da quindi addietro, se a tu ci vivessi conto migliaia d'anni. » Cav.  DI POCO Inolfo) TEMPO VV VNTI... Di poco tempo avanti a marito a vomiltºn lº..... » IBoc ('.  DA POI IN QI A CIIE.... - - « Da poi in qua ch'io servo a stia Vltezza a non ebbi mai motivo di querelarmi. »  POI AD UN GRAN TEMPO per buona pozza di poi -, senza che  a poi ad un gran tempo non poteva mai andare per via che... » Fioret.- IPOS(.I.A A NON MIOLTO): IP()SCIA \ I) l E, TRE... ANNI. –....benchè il « perfido, che convertito non dalla verita, lira dall'interesse, si era illdotto non ti d essere, lila a filigersi cristiano, poscia a non molto apostasse. » I3 irt.A lui al che si deve la conversione cleposcia a due anni si ſè di... e d'InCli: sllo forlin. o I 3: i rt.l'OI. – v. Poi in significato di poichè, congiunzione, Serio 5.) « tue giorni poi lo i lidir no rel: ma la detti (iialma. » I)a V.a Le mie scritture e dei miei passati allora e poi le tenni occulte, e  e l'inchillse, le quali non chi e la potesse leggere, nè anche vedere ». IPalld()|f.DI POI, I).AIPPOI postea, la liber. dal au I e - Il giorno di poi  a che Curiazio Materno lo sse il suo Cat ne... » I)av. Fecesi questo primo ufficio a mano e di poi se ne fù borsa. » Cron.  M () l'(ºll.  - S'arrende Cappiali, si lv ro a dappoi la rocca, -aivo - a l'avel e o V Ill.  l) A IPOI CI IE...: POI CIIE.. posi ea quan Ne furono assai allegri, « da poi che l'ebbe il signor Tav rit.  a E molti enºni, quasi me razionali, poi che pasciuti erano be; le e il giorno, la molte alle lor, a se, senza al il correggimento di pa store, si tornav: lo satolli. I3 ).  r. « Quale i fioretti dal lot il no gelo, li lati e chiusi, poi che il sol r e l'imbianca si drizzi in tu! ti: pe: ti il loro stel.. » l)a nte.  - Poi che innalzai un co pit 'e riglia vidi il maestro di color che saillmo se dor tra la fil sofi a larniglia o l)ante.  IN QUEI, TANTO in quel frattempo i 17 w is henº « Quando -: ti o  a un colore e quando sotto un'altrº allungava sempre la cosa, e secre  e tamente in quel tanto attendeva a In tte, si in I tinto., (iiaml). I F. I I I V () I TIC: \SS \ I I) ELI E V () I 'TE. Non a quella chiesa che.... a ma alla più vi in: le più volte il portavano. Doce..... ed a Luigi non ebbe assai delle volte questo riguardo ». Cos. I N MIFIDESIMO. - Gelò in un medesimo per timore e avampò per a rabbia ». I3art.  IN  (*) Nota uso altro del comune d'oggidi. « Da poi o di poi, scrive il Bartoli, sono avverbi  | - « di tempo come il poste a dei lattni: non così dopo, che è preposizione e vale post, nè riceve « dopo sè la particella che, come i due primi. Perciò i professori di questa lingua condannano « chi stravolta e confonde l'uso di queste voci facendo valere l'avverbio per preposizione, e « questa per quello che è quando si dice: da poi desinare, o dopo che avrò destinato; da poi  « la colonna, da poi mille anni, dovendosi dire dopo desinare, da poi che avrò desinato, - « dopo la colonna, dopo mille anni..... Due testi son prodotti da un osservatore in prova di  « quello ch'egli credette che in essi la particella dopo abbia forza d'avverbio di tempo: ma, « o 1o mal veggio, o egli in ciò non vide bene, però che poco dopo e picciolo spazio dopo, « che leggiam nel Filocolo (e ve ne ha d'altre opere esempi in moltitudine) sono altrettanto che « dire dopo poco e dopo picciolo spazio: nè perciò che dopo si posponga per leggiadria « perde il proprio suo essere di preposizione, cambiando natura solo perciò che muta luogo. » (Torto e diritto),TUTTO A UN TEMPO. –- Si vide egli una volta venire innanzi quel  « figliuolo scialaquatore che tutto a un tempo illil izzito di freddo e e smunto di farne, a gr. ll fatica poi i più reggere lo spirito lli sulle a labbra ». Segn.AI) I NA; AI) (N () R V. - I. - lio, e il riº lite illl collo ad una le l gi che e l'azioliali. (iiillo.E fatto questo al padre - i ti e, con i ti o dino li avere ad un'ora a cio che in sei mesi gi loves - e dal re ». I3 cc.a Tu puoi quali lo ti vogli ad un'ora piacere a Dio ed al tuo signore ». l3a) (.FII ad un'ora l: ti inta II: i r; V Igli, e il ti: i ta a rieg l'ezza solº l'appli -, ch, a pena sapeva che ſi rs dovesse Bar!.a S'io avessi mille cuori in corpo, credo, tutti scoppierebbero a e un'ora ». (a vill.....e lo slle - rel. l: elie l l' il, clli ' lei i 'o che ella fosse spira 1:1, a un'ora piangevano i figlill lo e la IIIa - dl e o. (..i Val.AI) () IR.A: A TEVI IP() ZIl re e lit, Zeit, frilli - e il '..... il III la ll (lſ) ll ll (le' suoi quanto al ra i vos- li Illi.: I 'a via e se ad ora giunger e potesse d'elitro rvi. l?oce.Io so grado alla ſor. I: I: pi oi, la III: ll ad ora vi colse In a cammino che bis 2: o vi Ill di ve la mia piccola ci sa. Bocc.. – Quell'ad ora, se il il ring oliato al (.: p. Locuzioni e lillich e, pilò al 11 le sigllifici:'e': in u il trio mi cºn lo ſtile - e i l Zeit Ve! llia! 1 llissell.ALI,()R \, CI IE.... - MIo -s. (r, l il all ora che - guardali do voi egli crederebbe º li voi sapete l'in - ll - ci, Bocc. - - Allora che e il coin: sto li ai l'ora che, cioe a quell'olti nella quale. Vu, i vederlo? «.... cominciò a rilere e disse: (iiot ſo a che ora, verº e il di qua allo 'n oltr i di noi in fo: - ti re, che mai voluto moll t'avesse, credi ti cºllo e gli ori (le -se che tu fo: - i il ln igli r di « pi:itore del miº endo, con le ti - \ clii (iioti o prestamen! e rispose: a Messore, e ved, i cllo e: i il ''t l 'oblio allora che......., col Ile sopri). AI.I,()R \ \ I, I.() R.... E allora allora ve: i cori in 1 il to a venire ill a torno alle gote il poco di lanuggine ». Fierenz. « Se la Irla il giò allora allora in sl1: pro - ilza ». Fiºr liz. «.... fil percosso da un accidente di filºiosissima gocciola, la quale allora allora i 'a in atto di sopraffarlo e co- Il lorº ndosi... ». Segn. CIII E' CHIE E'. a... fatti ch'è ch'è solº l'1 t.. ri o. I ):) v.  CIIE..., CIIE parte.... parte () e - o re: ni) che re dei rom inni e che a imperatore ». Dav.QI ANDO..., QI VNI)(). Quando sotto lº col re prº testo e quando  a sotto il li filtro.... ». I3: i rt « Quando a piè, quando a cavallo, º eco il che il destrº gli vi lliva ». T30C ('.l'N POCO.... I N AI.TIRO (un po o orn, il poco di noi - Intanto ecco a (Illi, cianº i l un poco e ci:n nci i un altro..... noi siamo a.. ». Cos. I)I CORTO, DI POCO. I)I FIRESC() (id), l di corto si attºri il tv l e a quindi a mezzo anno seguì. I3art.« I più furono dei grandi, che di nuovo eran stati rubelli, rimessi in a Firenze di poco ». Vill.a....mercecchè questo era timore di uno che aveva di poco cominciato « a peccare ». Segn.a... forma generica di teli fare che sul l usa l'e il demonio a riguada a gnarsi quei che l'ha di fresco lasciato per darsi a 1)io ». Segn. A (i IRANI)E ()IR.A. -. Va, figli la mira, e clla Ina queste mie suore, che a ti aiutillo, e fatelo buono assai l'unguento e domattina il lande ete a a grande ora, si colme tll la i detl () ». (a V.Si parla dell'unguento col quale la Maddalena di ve:a ungere il corpo del Maestro suo nel. ionumento. E adunque fuori di dubbio (le la frase a grande ora è altretta le cli a buon'ora. Ma il valoroso Cesari nota questo modo nei dia gli di S. (i regol io, e gli pare clie signi! Ichi anzi l'opposto, cioe' tardi, ad ora avanzata.I PRIMI A (III: A (i I? AN VI \ I I IN() -... ll e il colpagno prima che a a gran mattino, chiamandolo e scotendo o per farlo lisen Ire del sonno, se º le avviole». I 3:art.A I, I NOi (), V IP () (.() A NI) \ I I: I ) () l ' () I, I N (, () V Nl) \ IRI.. A V Vlsa: l.losi o cle a lungo andare o per lorº o per il litore le converrebbe venire a dovere i piaceri di Pericoli fare, con altezza d'animo seco pro  pose.... ». I3 cc. e.... (ºd In questo con 1 il tar lì, ll la lollo la pezza a vanti e le perso la se ne avvedesse l'ul e a lungo andare, essendo un giorno il Zeppa il casa, Spinelloccio venne a chiamarlo ». Borc.  Così si dilra fatica a difenderlo, ma spero che a lungo andare la verità verra pur sopra. Caro.« Chi si vergogna di apparire malvagio è facile a lungo andare che all ora si vergoglli di essere tale o. Segl).  I)ev'egli telider sull'uditorio le masse deila divina parola, senza restarsi per stanchezza di lati, che a lungo andare gli succeda, o sºlldol' di fronte.... ». Segn.e Dopo lungo andare, vincendo le naturali opportunità il mio piacere, soavemente m'a (ld l'Inel tai o, Borº.  Si dostò il silo mal illnore, e che a poco andare livelltò l'ov (ºllo, fl'e  lesia, rabbia ». Giuberti.  Non so però di millm altro scrittore e li ll sasse mai il modo a poco andare il luogo dell'altrº, a non lungo andare. V me pare di sentire nell'a lungo andare dei citati esempi non tanto il significato di dopo lungo tempo, quanto quello di continuando su quel tenore, andando avanti cosi, il quale significato mal si cercherebbe nel modo: a poco andare.IPrima di passare ad altro ti piaccia, o luon lettore, notare di questo andare un altro uso avverbiale bollissimo ad andare d'alcuno, e si gnifica: conforme alla durata del tempo che impiega quel tale a fare un determinato cammino a l)icosi che, ad andare di corrieri, sono  sel e ovvero otto giornate; ma elli vi peliaro ad andare più di due  mesi ». Mold. Vit G. C.  NON MOLTO STANTE; POCO STANTE. perchè..... non molto stante partorì un bel figliuolo maschio ». Bocc.“ E il buon pastore vegliava sopra le pecore sue; e io nni stava allora “ presso a lui e piangeva di cuore, imperocchè io vedeva bene a che partito e ci conveniva venire. E poco stante e disse... ». Cav. “... dissº; e poco stante - e ne vide il buon esito ». Bart.IN POCO ID OR A -- E cosi in poco d'ora si mutò la fallace fortuna ». Vill..... quandº le si coinil: i) a cambiare il sereno in torbido e 'l vento I'l'ospel'evole in coli'; il rio e si font, che in poco d'ora ruppe un'or ribile tempesta. Barte così i lorendosi in poco d'ora, irrostrò quanto ciascun uo, lo sia sempre Inal in Ioriato, di ciò che passi nell'intimo di se stesso ». Segn.  SEMPRE (il E., 2 ni, olta ch....: per tutto il tempo che...; - so. It als...:  so l' Ilge:ils.. sempre che p -so gli veniva, quanto poteri “ll In: i fo: zii li i vesse, la lont: in: va ». I 30 ....ti fa l'ſ, con il iº lira? I ra che tu io da uno li ricorderai. Sempre che l Il 'I viverili. (I e Il III lili,, lº e  - Add II e le forme avverbiali, bisognerebbe compi l'opera e porre Iri al mi allri modi di In li e costruire il to italiano, dai quali ap prendere le lo Izi li varie ri la livinnelli e il tempi, e corre cioè accell li: l' e il I e II limiti e il quando di un fallo, e con le esprimere la durata di checchessia. I cori e lo spazio di lempo decorso. o la decorrere da un prelisso le minº, e come gli aggiunti, le circostanze per rispello al pre semle, al passato e al ſul tiro, ecc. e c. Ma questo lo vedrai nel Prontuario s: II, la parola Tempo.  AVVERBI I I Morbo A: UII A Ioi A, oi: v. SEMPLICE E e RA AR ricolATA (*)  A I3U ()N.A FEI)E (red 1. ll Il lllll III a buona fede llo la Cagioli della a ai 1 l' - Il I la lorº ita. ll I)1, ». (.a V.  Di buona fede, con bucna fede in buona fede solo i nodi, loli si lo dl f.  ſei eliti dall' Ilegato, ma anche diversi fra di loro: Semplice uomo e di buona fede o V ill. Il pr, ritente ritrovisi in buona fede »  a 'I'utti gli il milli del boilo enti lorº porta i con buona fede ci è con le alta o. 'I Irl.  A ſ;I ()NA EQI ITA' -. il suº - gliore si ptio a buona equità lo le: (o ri lilllari cari l ' s ll lo » lºt),Sill','': a buon diritto li lil I l di ragione; a Sotto  nome di Ghibellino occupa questo patrimonio, che di ragione s'a spetta il Guelfo ». Salv.  (*) Conf. Particella A, Cep. I v.A ROTTA –... In zzando in un tratto il bel discorso di suo fratello, e si parti a rotta ». Fier. cioe pieno di mal talento, stizzito,tutto veleno ecc).In tal guisa scrivendo a rotta se ne compilerebbero i grossi volumi.  (es. Simili le frasi scrivere in borra, borrevolmente --- abboracciare un libro. I)av - Caro - Gillb. A I) ()V EIRE - (osa fatta a dovere overnarsi a dovere » A FII) \NZA - Non ti maraviglia e se lo te dimesticamente ed a fidanza a rielli e del do o. IBoc.A FI RORE: A FURIA - Quando il rumore contro il re si levò nella  terra, il popolo a furore corse alla prigione a Bari. e Temevano gli uomni li lt il:giurio ed esso (i ('. lº sostoli ho gran dissime essendo dannato così ingiustamente (a furore di popolo ». Cav. ci è abband intito, dato in preda... ) a Carlo v'andò coll'esſere to, a furia ». l, l'll i. A SI º V VIENI ()... prende questo servo e quello per lo braccio: Te, ficcal qui. Fuggono a spavento, di lino nel luine: rimas() al blli ggiIrlai della morte, con due colpi si sventra ». Da V.A (.() I 'SO I. \ NCI VI'().... volmita le sue bestemmie in una foga di ben nove versi a corso lanciato, senza il fiatar di mezzo ». Ces. \ SI, A SCI (): \ I 'I V ((A (() I.I,() Cori ele, precipitarsi a slascio, a fiacca collo v. Correre, IProntuario).e due schiere di lenici a fiaccacollo, della selva nel piano e del a piano nella selva si fuggirono in intro a Dav.E gia so: i gialliti dove il fossi on firma l'resso alla terra, e la fin tanto forte. Ognilli a fiaccacollo VI ruina: Chè 'l ponte è alzato e si in chiuse le porte ». Bern.A SGORGO; A RIBOCCO.... fonti... le quali doccia no a sgorgo per dar a bere e saziare a ribocco i slloi V ml: nfi di Villo dolce ». Medit. del | Vlb. (lollº (l' ) ((º  A (IR AN I 'IN A a.... ll'el a tanta la grande gol to che vi veniva, che a a gran pena vi capeva » Cav.A ((i RAN) E ATIC V.... (con le luci tanto confitte dentro di quelli  e occhi) che a fatica vi si vedevano ». (iiamb. a I)i cento mila, a gran fatica un solo ». Segn. Traduce il noto effato di S. (ii l'olio in co: Vix (lo con tull) l Il till I lolls lllllls ». )a Quel figliuolo scialacquatore che tutto a un tempo intirizzito di freddo e smunto di fame a gran fatica potea più reggere lo spirito in e sulle labbra ». Segn.a Quella povera vedova, la quale vi avea a gran fatica riposti due soli piccoli... » Segm. duo minuta). ... a fatica poterono le insegne campare dalle folate del vento ». Dav. ()ttone, contro alla dignità dello imperio, si rizzò in sul letto e con e preghi e lagrime gli raffronò a fatica ». Dav.« A fatica, risposi io, gli ha potuti per un grosso nuovo cacciar di a mail a un pescatore ». Fir. As.  \ MAI O STENTO a mala pena) -.... e a malo stento si tonno ch'ella nol a fe (o o. Iº nt ('.A GRANDE AGIO -- a... tanto che a grande agio vi potea metter la mano  « e il braccio ». Bocc.  A TORTO – « Messer, fa IIIIII diritto, di quegli che a torto In'ha morto  a lo figliuolo ». I30cc. .A NI IN PARTITO; A NI UN IP. \ I Tt ) egli a niun partito s'indl Isse a coin  a piacermelo ». Dart. (Conf. Partito, parte III. « E certaIllelìte se ciò non fosse, il clitori, li li credo i già che Irli sarei « contentato a patto veruno (li comparire stamane su questo pulpito ». Segn.– Keilles Wegs, un keine il Preis. - Simile l'altro avverbio dell'uso e classico: per niun verso, per niente, v. Serie seguente).  A CREDENZA (senza proposito, non serialmente e daddovero) –. E'  a debbono essere da sei o sette anni che un brigante di quei lilli ha a tolto a litigar III eco a credienza e Vieille alla volta lnia ard Itamente ». Car().« Sicchè lion (1 edo far I)io bravate a credenza quandº i lºg 'i a fferma a che repentina succedera la morte ai mormoratori ». Segn.  A BALl).ANZA -- a...e questi a baldanza del Signore si il batteo villana  III e ille.... » Bo(:('. – « Che a dirlo latilio, soggiunge il Cesari, non si direbbe più breve di a questo: I) Inini patrocini fretllesi.  A MAN SALVA senza tiri re di punizione o vendetta ecc.; impunemente)  a....e quello con tutta la ciurma ebbero a man salva ). I3oce « Senza che al ll no, o marinaio o altri se l'acci orgesse, una galea di corsari sopra venne, la quale tutti a man salva gli prese ed andò a Via ». RO(('.« E perchè tante diligenze? non potea egli averlo a man salva ovun a que volesse? » Segn. (parla del fratricidio di Caino).  A MIA POSTA; A TI"A, A SI' A POSTA; ecc. – Somiglia all'altro mento  vato sotto A, Cap. IV: a suo senno; e significa gosì in disgrosso: con for Ine all'ordino posto, secºndo aggrada ecc.« Io non posso far caldo e freddo a mia posta, come tu forse vorresti». BOCC.«.... mi disse che tu avevi (Illinci una vignetta che tu tenevi a tua posta ).a... Ma quell'altro magnanimo, a cui posta Restato In'era, non mutò aspetto ». Dante al cui ordine). Lascia pur dire il mondo a sua posta » Caro. aspettava solza mandarsi a lui dinunziando od entrare a sua posta, come avrebbe potuto ». Ces.... del resto se volesse andarsene, facesse pure a sua posta ». Ces. Il tempo è cosa nostra..., e a nostra posta sarà d'altrui, e quando Vorremo ritornerà nostra ». IPandolf. Farassi, disse Malerno, altra volta a tua posta ». Dav. Non si doe a posta d'alcuni milensi levare a mariti le loro consorti de beni e del mali, e lasciare questo fra le sesso scompagnato in preda alle vanità sue e alle voglie aliene ». Dav.«... ma lascia dire e tien gli orecchi chiusi, Non ti piccar di ciò, sta pure al quia; Gracchi a sua posta, tu non le dar bere ». Malm.  (r  (l\  A  \  \  A .A  V  - Oltre agli altri significati della V o posta, olre i son noti o del l'uso, nota anche quello di agguato, e però la frase: stare in posta. – Si pºsero il cuore di trovare quest'agnolo e di sapere se egli sa pesse Volare: e piu notti stettero in posta ». Doce.  MIIC), A SI () AVVISO zza e chiarita, che a suo º avviso a Vanzi va per sette a rili la bellezza del sole ». Cav. (il II).A – Vennono i Magi a guida della stella, V it. SS. PP.  "... (Illi, l'alt alllll III e lo gliti li l'Israel a guida della colonna ». Vit. SS IPI.  SECOND A - Venendº giù a seconda di l iilline eri in un grosso al e bero attraversato il l leti o le! ! util, a (-1)ITO: A MISNAI) ITO per i pp, li o Illiile ()Inbre Ilio e St l'OI Il Ill I e il Il l a dito... I l liteINDOTTA - Scrive e in a indotta di un qualche amico ». Giub. TENI () NE; A RILEN l'() co. l l:: Fal e clle clessi:i,  opei a re, lavorare a tentone; il nºda, procedere a rilento. SI PI? () lº() SI 'I'() - Fra - della era te a sproposito, gramma t (a 1 rbitraria..., Mla lizl3 Al RI)()SS(): \ BISI) ()SS() I.el l. Ville a cavallo senza sella e guarni Il lent: fig. alla peggio, alla buona, alla carlona.“... titlito è Irleglio, il dicit re lº tºga rozza e a bardosso che in cotta  las Iva da Irie reti I ce.. l): V...... tilt. I3rotier.... E ogni liofil Ill se le scolla, Veggendogli una cupola a bisdos « So )). Bll roll.I II)()SS() Non un sol l'eroerin º ome in l'annonia, nè soldati veg º gentisi pit | rti seri ti a ridosso, ma molti a viso aperto alzavan « le Voci ». l)a V.Ridosso, sost. vale: renaio lasciato il secco dalle acque. –- Cavalcare a ridosso è lo stesso che cavalcare a bisdosso.RANI) A \ RANDA (appresso, rasente, ed anche a mala pena, per l'ap punto). Dal tedesco Rand margine, orlo, estremità....«... A randa a randa, cioè risente rasente la rena, coiè tanto at costo a e tanto rasente che non si poteva andar più là un minino che, a IBl1t.  « Quivi fermammo i piedi a randa a randa ». l)ante. «...era apparita l'alba a randa a randa ». Morg. «...e poi gli mise in bocca l'na gocciola d'acqua a randa a randa » Segr. Fior. IBACIO (al rozzo, all'uggia º contrario di: a solatio. « I susini simiani nelle orti, lungo i muri, a bacio fanno bene. Dav. (.()NTR VILI,l ME (che ll ) m l'i(ove il llllll (º il dirittll l':ì \ Qlla dro a con trallume – faro che li ossi:ì a contrallume.  SPRAZZO (sparso di mil utissime macchie l'anºni a sprazzo, lavorati a sprazzo.SEST'A misuratamente, precisamente, per l'appunto) -- I)a sesta, com  passo. Nota il modo: colle seste. Parlare celle seste, cioè parlare cal colato, misurato, compassato.  «...e menandogli un gran colpo che passò a sesta per la commettitura « dell'osso, gli spiccammo il braccio » Bocc.A SCHIANCIO – Da schiancire – schrag treffen, schief Schlagen. « Tagliandolo a schiancio in giu dall'urna parte, salvo il Imidollo... » Pallad. Fobbr.« Le sue pertiche del salcio, si ricidano rotondamente, o almeno li n « molto a schiancio ». Cl.A SGHEMBO: A SGIIIMBESCI() / di traverso, obliquamente, – «Sull'elirio a sgembo giunse il colpo crudo. Bern. Orl. «...campi divisati Per piano, a pl Imbo, a sghembo ». Bllº lì. Fier. « Capito al pizzicagnol, chieggo un pezzo di salsiciotto, ed ei Inel ta grlia a sghembo ». Buon. Fiei'. «... Se non che a sghembo la lancia lo prese ». Morg. « Pare ogni palco appunto un cataletti IRestato, come dire, in Iºlel a Galestro. Che la natura fece per l'Ispetto, Ed ogni tetto a sghimbescio « Il Il canestro... » Alleg. – Tagliare, lavorare, operare, camminare a sghimbescio. A MICCINO a poco a poco, a poco per volta) – Fare a miccino, collº all Imare con gran risparmio; dare a miccino; parlare a miccino.«... E' un dare a miccin la ciccia a putt I, Vccio ch'ella moli fila cia poi « lor male ». Fil', rim.«... Senza chè qui fra noi I)el buon si debbe far sempre a miccino ». Alleg.« Favellare a spizzico, a spilluzzico, a spicchio e a miccino a è dir poco e adagio per n In dir poco e male ». Varch.A GHIAIDO – « Fu incarcerato ed a ghiado morto » (cioè di coltello). l)a V. A M AI, OCCHIO – « Antonio, mirando quel dischetto a mal occhio, dice « va e pensa Va infrì sè stesso: ond'è... » Cº V. A SOLO A SOLO; A TU PER TU a quattrocchi, da solo a solo). « I)esidero di fa Vollare a solo a solo )). V. S. (i. l3. «...mangiare un poco con lui a solo a solo ». Rini. Ant. « E' mio marito, e non è ragionevole ch'io Ini p inga a colitenderla a seco a tu per tu v. Varch.« A tu per tu d'ordinario indica, se non contesa, almeno un non s. che di lì (r)) amichevole o di riottoso ». Tomln).A IOSA – a Idiotismi lombardi a iosa, frasi adoperate a sproposito, « periodi sgangherati.... » Mlalz.– Simili: a ufo, a macco, a diluvio, a masse, a larga mano, ad usura, a oltranza, a gola, a buona misura ecc. e Iddio renderà al bonda lito a mente, a buona misura, tormento e pena a coloro che fanno la su  « perbia». Passav. – Retribuet abundanter facientibus superbiam. Sai:Il A GUISA CIIE...: A MODO CIIE..., DI... – « A guisa che far veggiamo a h a questi palloni francesi.... ». Rocc. i a... schiccherare a guisa che fa la lumaca ». Bocc. ti « Fare a modo che la madre al fanciullo quando lo fa bramaro la  « poppa ». Fioretti.  « F: l'(a modo che alla Maddalol)a.... » Fioretti.  entrò in una siepe molto folta, la quale molti pruni e arboscel « li avevano acconcio a modo d'un covacciolo o d'una capannetta ». Fior.A PEZZA: A GRAN PEZZA di gran lunga, di lunga mano, a dilungo )« Iddio la IIIa lì dato 1 elill, a lille desll'i: - i lol prendo, per avvell « tura S III lile a pezza li rl III i ti l'lleri ». lSucc. « Tu non la pareggi a gran pezza ». l 3 a... che Villce a pezza le forze il ii il II alla natura ». Ces. «... che a pezza li in poterono i no, l'1:li a liostrº ». Giuli....al qual peso pollai e gli a gran pezza lo! I SI se lliva sufficien a te n. Ces. ET - A buona pezza, a pezza sia al 1 ora per: da un pezzo. Il Corticelli lo fa altresì avverbio di tempo a vu i tre, º io e a dire col significato di: a lungo andare, indi a gran tempo e.:: il l: l V a Illel lil - go della Nov..º in cui il 13o a clo, il ricolllla lir di Tebaldo, l'e  putato uccisº dal 1. l re: ti sºlo i clie: l i vº: lo ſtesso, dice: l' 1. l e I edeva no all or I e II la lr e 11, se i vi ebber iatto a pezza i in li e a lilolto l'Irl | o s, il 1 o l -se che lor e lì i rio « chi fosse stato l'll (iso.Pezza per tratto di teli e ti In e te l: il sito dai classici:...a e le quali, quando a lei i i nip.. - rido e la buona pezza di mot  a te...., l 3,. \ V, l: do ss 1 di buona pezza di notte e il ogpl I lioli o il l ' Illi: e... l.... ed i: questo con I lilla rotto una buona pezza iva il l i soli: si ll il V.. desse º lº). Erano a buona pezza pia. Il l... » lº. A I) II, l'NG ()...lila po. I sa – 1, piti il V ".go, a dilungo le pi Vinci e ill « gannò ». l)a V.A (..ATA FASCI () Fa cela di voi gli l a catafascio ». l 'a taff.  Io non fu mai. lle solo di gloria Vago, lº vivi, a raso e scrivo a Ca « tafascio ». Vlatt. Fraliz. l.ibli (i rte a catafascio.  \ I,I, I S.ANZA ()ltre i cliest.: se si lal::lo ba nelletti regali... ll !)  e inoln Ine: l'e, all'usanza (li (1:la, di co- e dl gla il valore, ll lì.... ». Calo. «.... se la faceva la maggi. parte le 'a nero, all'usanza dell'Indie, e con l'iso, e quando pit sontuosa ine:lie oil... » Bart.  ALI, I SAT(); AI, SOI, IT().... lle resta V a dl di rilli all'usato di strane « tentel)llate ». Fiel'.«... e ne rinfocola V a l'iberio, per ll è al solito lllllga lllente in lui a V a vampati, ne uscisse o saette il rov in se. l)av.“..... non ga e al solito, Irla cori tlc it to... e co; i visi, benchè a ce on e ci ai ln (stizia, pil V (ralli elite cagles lli.... l):ì V.  AI, CONTINU () Sonando al continuo, per la città tutte le campane... » V ill.  AI, TUTTO - Conf. Tutto, Cap. III e l'elisorili che Marta s'inginoc a chiò a piedi di lei e disse: Madre dolcissima, al tutto sono appa a recchiata d'ubbidire, chi io sento n. ll'admin la mia che l vostro par « lare Imi conforta ». (.a V.  AI, CERTO – - a Se....., al Certo i denloni ne farebbero, gran rumore ». Iºart.  AI.I.A SCOPERTA –..... potè poi mettersi con lui alla scoperta in più a ragionamenti. » Bart.Al, DIRITTO – « Il Sole..... feriva alla scoperta ed al diritto sopra il te « nero e delicato colpo di costei. » Bocc.ALLA DISPERATA – «....nnellare d'attorno bastonate alla disperata. » BaI l.ALLA SPIEGATA – «.... appunto culme la nave... sulla quale tornò non e potesse levar mille fasci di lettere, che dicessero alla spiegata quan a to egli veniva a raccontare. » Bart. ALLA SPICCIOLATA –. Tagliare a pezzi alla spicciolata. » l)av. – Andare alla spicciolata o spicciolati vale: andare pochi per volta e non ilì Ordinanza: l'O(o dopo si Inossero gli altri bravi e discesero « spicciolati, per non parere una compagnia. » Manz.ALLA SPARTITA –. Le varie scienze brancate non hanno più alcun « Vincolo coinline che insieme le c' III ponga e le organizzi; si no a ce « fali, vivono alla spartita e tenzonano fra di loro. iub. ALLA STAGI,IATA – Andare alla stagliata per la via più corta i: «.... E vanno giorno e inotte alla stagliata. Non creder sempre per la a calpestata ». Morg.ALLA DISTESA – « Ben è vero che quella grandine di concettini e di « figure non continua cosi alla distesa per tutta l'opera ». Manz. ALLA 1)IROTTA – Piovere alla dirotta. « Che lavorio non si pigli alla dirotta per alcuna cupidità, ma piut « tosto per servizio dello spirito ». Ca V.ALLA SCAPESTRATA senza ritegno, – « Ruzzando..... troppo alla sca « pestrata..... ». Bocc.a Correndo alla scapestrata e senza ordine niuno, cadono nell' ag a guato ». M. V. – Simili, all'impensata; all'improvviso; alla spensie rata; alla sciammanata – « Mi diletta oltre Imodo quel vostro scrivere a alla sciammanata cioè scomposto, se llcito, o, Caro; a fanfara – “..... non usavano i vecchi nostri far le cose a fanfara ». Allegri; alla carlona; alla rinfusa; alla sbracata; alla cieca; a mosca cieca; a chius'occhi –. Negligolza dc lettori che passa lo il vizio, a chius'occni» V ill. ecc. ecc.  ALL' AVVENANTE (a proporzione, a ragguaglio... dispensavanº loro a oltrate all'avvenante ». DaV. a.... e fece fare... le monete dell'argento all'avvenante ». G. V.  ALLA MEN TRISTA (a farla bucina) –. Passato il quarto di, Lorenzo, se a condo il consertato, non ritornò; talcli è già altri il farºvano molti, « altri, alla men trista, prigione ». Bart.« Stava in gran dubbio di sè, certamente credendo che il re, alla men « trista, il disgrazierebbe ». I3art.  ALLA CIIINA – «... i piaceri sono monti di ghiaccio, dove i giovani cor. « rOIlU alla china ». I)a V.  ALI,A BRUNA – « Uscire di casa, ritornare, il sene alla bruna, i di notte « tempo ).PA RTE TERZA  Verbi e alcune altre voci generalmente note, ma dal cui retto uso all'elocuzione garbo ne deriva e vigoria  (APITOLO I.  Verloi di particolare osserva, Aio1 ne  non quanto all'ordine dell'azione, che se ne è parlato alla Parte ll º Cap. 2º, ma quanto alla varia maniera di usarne, così cioè da risultarne ora un senso e ora un'altro, e quando una frase più che altra concellosa eſlicare e chiara, e quando Ina forma di dire piacevolis ima. In assello di espressioni elegantissime, nulla comuni ad altre lingue e al tutto con forini all'indole, all'original candore dell'italico litigliaggio.Uno dei capi che formano il carattere di una lingua è, senza dubbio, l'uso frequente e vario di certi verbi previleggiati, onde quel tal linguaggio prende una piega, una forma che lo distingue da ogni altro, reca un'im pronta decisa e sua, e rivela l'indole, la natura della nazione che lo parla I; sli a entra al to do, io ſo, lo gri, i sel. I pul, lo li arr, lo li hº to trill, lo shall ecc. ecc. degli inglesi: al bringen, Schlagen, selsºn, lath rºm ziehen, reissen, allen, hallen e er. l i l des hi: al lati e doti lºrº mºtivº quel gal dler, falloir, aller, ceni, e crc. d. I rili esi.Niuno per fermo potrà mai farsi a credere di saperlo l'inglese, il tedesco, il francese se non conosce appieno l'uso molteplice di cotali verbi. Ma e dovrà poi dirsi che noi italiani conosciamo l'italiano, lo par liano, lo scriviamo, quando molti usi e vaghissimi di alcuni verbi sºli º gli scrittori nostri del trecento e cinquecento e loro valenti imitatori, o ci sono al tutto ignoti, o non vi badiamo gran fallo, fuggono al sensº º quel ch'è peggio, non pigliano al rina ſatiri di apprenderli?Mentre nel Prontuario trovarsi in diversi luoghi. “ioè quando sºlº una parola e quando sotto un'altra, l'uso e il significato altresì diversodi ognuno il ſitº si re bi, in questo Capitolo sono invece raccolti in pro prio, ci si il li del is fli e, iro, i molti sensi e gli usi inoll piici di questi si illli i crli. \' scopo poi il liv sarne in qualche non lo la I al ria,  i, li i di li 'il ſole e portata loro, due orditi (listi, ci:V ci li pi li, si incli di più ampia sv al l: VitaliiD. llli i cºrti non si li prºnti, il che anche di questi, cioè dei 'oro Ilso l g.gior grazia e vigoria. Il dis(ºr sor. -  S  1 º  Verbi più notevoli, ciò è a dire rigogliosi e fecondi di più ampia e svariata vitalità, e sono: andat e, dare, fare, prendere, levare, met tere, recare, portare. it jutlatre, sentire, stare, tornare, venire.  Arm ci are  Noli II l via di etill irli qll il I agioli alimenti e andarmene in discus si ti sul come e ind, che a fil e ass. I li II e i di ºrgan, a il più delle volte a lin, ia, gialli rina approda e laio a anche trilore; imperocchè allo si ling r. a p. l si la fatica con (edio e danno di chi legge e li in pro º cli il lr Iriesi e gli anni in istu diare, raccogliere, e vergar car lei e per passi di quanto scrisserº grammatici e il logi rh, e li arreco subito alcuni sempi colti li i migliori libri di Ilarsi i lingua, dai quali potrai di leg gieri a ndere l'uso vario e vagilissimi del vei bo andare: e metto anche pegno che pur leggendoli nel tendovi un po' di studio, saprai senza scandagliarne altrimenti le rip. ste ragioni il logiche, convenevolmente imitarli e rifarne, occorrerlo, d aitrella!. ... e son cerlissimo che cosi a cre' l e blu conto coi dile, dove così andasse la bisogna come a risale: ma lla andrà all imenti. Boce. (410). Manda vanglisi di Ilona e d'Italia gli aguzzamenti dell'appelile; le poste correrano dall'uno all'altro mare: se n'andavano in banchetti i grandi delle città: rovinavansi esse cillà..... Dav. ll.(neste cose belle dicerano in pubblico: ma in sè discorrera ciascuno: questa colonia in piano potersi pigliare con assalti e di molte col medesim, a dire e più licenza di rubare: aspettando il giorno se n'andrieno in ae cordi e lagrime: un poco di gloria rana e pietà pagherieno lor fatiche º sangite ». Da V.“. Somiglianº si può dire anche il genio e la natura degli abitatori I tillo va in delizie e in piaceri di musiche e di odori e di n. 13al l “ Lo ingegno di Verone degli anni teneri se n'andò in di pignºre, in tagliare, cantare, cavalcare ». Dav.  “.... lullo il dormire di questo molte m'è andato in un sognar continua di nomi, cerbi crc. ). (es.  “... e per non andare in troppe parole... Se in.  Che fama andrebbe al lui mi i secoli di ieri e I;a, 2... ºbbºlo per rili poi ci li ti resi nel l' u tutti e ne andò gran timore per lullo, il regno. I al I. I tempi vanno u mi irli, N ſi i St ! ! 1. l’ulla la città di isti i patiti ne andava a rumore I3. I 413,... la gen I e andò a fil di spada q io ti l ne volle l'ira e il giorno... l ralosi il pool ogni cosa andava a ruba. (0 utndo questa cili, la l 'dei lgo in presa, andatoci a ruba ogni CoSa..ln questi mutnici e si li sº quel luogo il quale andò a ruba ed a Sa CC0. I.Ma º non crei propri iani e il liri i titoli I e il I il enci si che face rain, i monaci qualche li ha o di quelli in blio che, le quali miseramente anda vano a ruba T, il lil.  º mi ios li si i 'le, che li ci mi i ssis si incli il non irresi ſtiamº mai andando me la vita?In queste cose l'isogna andar cauto; ma lo si e va il capo cantis  sino.... \:.  A chi con in el l e così i ti e mi isl 1 il ris va la vita pºi giustizia i  a... e giudicò che e' lusse al pi p si andassene G che volesse dire che egli ci ſi presto al gni suo placer. Fi, l'. ... vi andasse anche la vita, io sono e sarò si mpre al l ostro pit (e re... Ci s  a I', il lil, i cl e ne andrebbe dell'onor stuo...... (: l', n.  a E se n'andasse il collo, sempre il rero son per dir li Sacchi.  () ual delle due ri pa; lunque più con i nerole: che ne vada l'onor vostre, orrei o che ne vada l'onor divino? Si, si. r ho inteso: ne vada pur, (lile. ne ratula l'onor divino. pl i cli, sull' isl il nostro. Segli  a Sim il cosa diceran quel di Tci n. eh il pm a rosso le ren d'Ital e andrebbe a male se la V era si spirl issa'..... I ... ma in vano andaremo i pri, gli i?.  « Lo stral rolò: con lo sl rale un volo Subito mi sci. che vada il colpo  a vôto o l'iissi).Allora domanda consiglio di tua salute quando vedi le cose del mondo andarti molto prospere, e fa ragione che tu se' alto allora a sdruc. ciolare ». Mar lili. V es.  º I) il nulla º quando Ma io ride che li detti lei Sacerdole andavano a quel medesimo ch'egli intendea... Sal Isl.  Ortando la cosa fosse andata per lo contrario....... Fier. (416).  “ (r se li tºsle i tgton son in mileste. Se le tocchi con mano, s' elle ti vanno, con chi intoli..... I 3el ll.  i na circºla dirà: quell'uomo mi gol in una fanciulla saggia: quel l'uomo mi andrebbe. Son molte le cose che la bano al gusto e che non vanno (tl e il roll le re. l'orn Ill.  () irando tlcuno o non intende, o non ruol intende e alcuna ragio ne chi della gli Nict. Nuole dire: ella non mi va, non mi entra, non mi ralsa, non mi rape, non mi quadra, e il re parole così lalle o. Varchi. ... l'ira e li cruccio, il 'nendo, andava disposto di lui li rituperosa mente morire 13 cc. (418).... ma non che la nl o di rivenisse di loro, che anzi non ne andarono  pur leggermente offesi... I3arl. « Quanto all i più sa della lingua ben app s. nelle sue radici, lanto più va ritenuto in condannare ». Bart.... e da principio va ritenuto lipoi comincia a poco a poco ad arricinarsi alle pristino compagni. Si gri i 19«.... se prorar lo potesse, andrebbe asciolta ». Ariosto. a Le trecce d'or, che dorruen fare il sole. D'invidia molta ir pieno, IE A1 at li fre'don ne va poco contento IPull. Mi l'.« Perchè lal, che qui grande ha sugli Argiri Tutti possanza, e a cui l' (cheo s'inchina, N'andrà, per mio pensar, molto sdegnoso ». Monli. «... nè però fu tale La pena, ch'al delitto andasse eguale ». Ariosto, « Si potrebbe indovinare che noi andassimo facendo e forse farlo essi all res) n. 130cc.« Concediamo che spendiale in Noren li con rili, in allegrie e, quel che anco conceduto non andrebbe in men che onesti amori o Menz. pros. () uesto ſarà il mestier come va fatto. Mtilln).a Le ragioni contrarie, a roler che sieno bene e pienamente rifiutate. vanno con chiarezza e con fedeltà esposte. Salv.e dunque non va segnato mai in principio d'alcuna parola quesi 3 segno. Salv.  a... acciocchè resti si potesse e forni di cavalcatura cd andare orrevole. I 3 o. (20. ... o Nseri utili al loro i I3oluzi: con unº º l'andarsene rasi barba e ca pegli ». Bari « Von area cominciato nella religione ad andar dispetto e vilmente ». vestire alla buona, cienciosanielle. Fior. Ces.«... perocchè il rigore toglie la con lidenza: e dove questa lor manchi andranno con voi copertamente, che appunto è quello di che il demonio si varrà m. Bart.  Con lor più lunga via con rien ch'io vada. Petr. (421. «... io vi porterò gran parte della ria, che ad andare abbiamo, a carallo. Bocr'.a... ma la bestia voleva pur andare a suo cammino. Continuare, proseguire. Fier.«... e dove..... da niuna parte il loro cammino a sè vietato sentono ii fiumi, riposa la mente le lor umide bellezze menando seco, pura º  cheta se ne vanno la lor via. I 3: Illo.... Lu (lor lco se n'andò al suo viaggio... l' 1 r.... Ma lasciandoli gridare balassi a ir pel fatto tuo v. Fior. 122,.... ed ella colal salratichella, facendo rista di non avvedersene,  andava pur oltre in contegno ». Bocc.  «... un vento sempre intavolato per poppa e così fresco che anda vano a più di cento miglia al giorno. Bart.  a Siale in procinto di rela, che non andrà a due anni che di costà chiamerò molli uli roi n. 13arl. (23. - -« Tulli i cristiani di quel poi lo iurono intorno al l'. Cosimo, a pre garlo con lagrime che non frammettesse troppo a campar la vita, chè il perderla andava a momenti... Ilari.a... Ma poco tempo andrà che l'uoi ricini Faranno sì che lu potrai c'hiosarlo... T)il rile.«... e costoro si levarono tutti smar il talendo questa parola: poco andò che noi reulen mo....». (.av.« Essendo già la metà della notte andata, non s'era ancor potuto Telmullalo adultorm en la re. I30cc.« Ouesla notte che è andata, si sognai ciò che l'è apparito ». Stor. S. Ells [ach. « () uei area poco andare ad esser morto. Pelr.  Si notino Jin (il men le le ini (iniere: son..... anni e va per......:  « Io la persi, son quattro anni finiti e va per cinque, quant'è da settembre in qua n. 13occ.  a Signor mio, son questi 1)ebili premi a chi l'ado di e cole? Che sola senza te già un anno resti, E e va per l'altro, e ancor non te ne duole? ». Ariosto.  Vada questo per quello:  «... e non credo errare ad aggiugne di mio oi namenti e forze a'concetti di Cornelio alcune colte vada per quando io lo peggioro ». Dav. Andar del pari con...: 42.1..- - - - - ma i fatti non andaron del pari con le promesse o. Bocc. - Bart. Ncn andavano in lui del pari la gagliarda del corpo e la genero sità dello spirito. I3art. - Basti Germanico privilegiare che in consiglio dal senato, non un con le da giudice si conosca della sua morte, del resto vada del pari I)aV. Andare a chi più..... «.... perciò dove il fatto andava a chi più può in forze e in armi, i cristiani di quelle spiagge quasi sempre i rstarano al di sotto. Bart.  I t  425. Note al verbo Andare  41() Similmente di resi con le vanno l la cellule? N lì so come vada questa cosa. Come va la sanita? Gli affari non vanno bene,  4 1 1 - - Nota la frase andarsene in chechessia, e io è a dire: distrug gersi dietro a cherchessia, perdersi, ma -sare il tempo, non far altro che....  i 12) - L'andare di qui sto e del seguenti i senipi e al ufficio pressa  poco di essere, correre, trovarsi, mettere, soggiacere e Ma è chiaro che -arebbe guasta la frase, non le andarne d l grato, a voler mettere un di questi verbi al luogo di andare.i 13) – Maniera bellissima. Simile le seguenti: andare a ferro, a fuoco, a sacco, a ruba; andare a fil di spada, e vale essere in preda, abbandonato a... ecc. Frasi, del rost, che a tradurle in altre lingue converrebbe dire: uccidere, consumare incendiando, rubando ecc. o che altro di somigliante, – « L' andare a ruba, osserva il Tommaseo, affermasi di tutte o quasi tutte « le cose in un luogo co; tenute, quando l'essere rubato può riferirsi ad a una o poche (se tra moltissime ». Mi par di poter asserire con sicu rezza che ne anche il tedesco idi Ima si apprestarci un modo simile a questo andare a...., o altra frase che torni se ttosopra il medesimo. 11) – L'andare chechessia di questo e del seguenti esempi significa: trattarsi di....; essere in pericolo, esposto a perdere; avvenire, seguire che chessia ecc. Leggili, intendili, che è maniera vaghissima e nostra. (415) - Ognuno vede che l'andare di questi esempi andare a male, andare a vuoto, andare in vano, andar bene, andare a chechessia, andare per lo contrario )val quanto: riuscire, battere, cogliere, tornare e simili. 416 – Significa: non riuscire, riuscire altrimenti che il concetto avviso, riuscire nel contrario. Bocc.417 – E' il Zusagen, anstehen affarsi dei tedeschi. Simile a questo andare è l'entrare dei modi: mi entra. ci entro; questo non mi entrerà mai, ecc. e significa, l'uno e l'altro: capacitare, appagare, sodisfare.  418 – Andare, coniugato con certi partecipi pass. Ovvero con certi ag gettivi, piglia talvolta il valore del verbo essere, conservando però seni pre l'idea di una cotale progressione e continuazione nella cosa di che Si tratta, (andar disposto di...; aridar ornato di...; andarne offeso, andar ne contento; andar metto da una colpa ecc.) e tal'altra fa l'ufficio del ge rundio passivo de' latini, e vale: dover essere, voler essere, doversi ecc. (Gheraldini); - - Quel tal delitto va punito; quell'atto caritatevole va pre  miato e Cc  419 – Nota la questa frase andar ritenuto, guarda i si da.., proceder con riserbo ecc.120 – Anche l'andare di questi esempi, accompagnato da altra voce  agg. partic. o avverb.) che ne indica il modo, e ad ufficio del verbo essere, o meglio di contenersi, di portarsi, governarsi, procedere e va dicendo.421 – Pon mente costruzione o maniera di connettersi delle par le che si attengono a cotesto andare (andare una via, andare a suo cammi mo, andare oltre, andare a tante miglia ecc.) Il quale la senso di percor rere, proseguire, seguitare, il suo viaggio e simili,422 – I nbekil Inl Inert seilles VV egs gehell SI Inile a Illmina l'e al V lag gio suo: « Ma poichè i regni e gli stati camminano sempre al viaggio loro a e dove prima furono diritti indirizzati, non fla Inal li or an. Il a passo ». Giamb.423 – Andare, parlandosi di tempo, indica lo scorrere, il trapassare del tempo, e la durata del tempo impiegato in checchessia. Nota costruzione andare a..... – Ricordo qui il modo avverbiale, affine a questa forma di dire, a lungo, a poco andare ecc. v. lProntuario, Tempo - avv.) Un altro lISO molº. In alto dissimile, di llll a ndare, cioè, il sºlliso di passare ecc., è quello della nota frase: « ma lasciamo ora andare questo: « quando e dove potrem noi essere insieme?» Doce.424 – Questa maniera è simile all'altra già addotta: andar eguale, andar vilmente, copertamente ecc. ma è forma di un assetto singolare e va però notata a parte.425 – Chi non ha le belle ma Iliere italialle Ilon uscirebbe dalla forma comune: trattasi di..... a perciò dove non trattavasi che di chi prevaleva in forze....... NoDare  Il suo valore, dirò così, naturale e comune all'equivalente di altre lin gue (dare - latino, geben, to give, donner ecc.) è quello di trasferire una cosa da sè in all'ul, consegnarla, renderla e simili. Ma poni mente va ghissimi altri usi ed efficacissimi di un colal verbo, assai diversi dall'or dinario di altre lingue, inoll plici e ſanti che appena se ne potrebbe rac C () l'l'(il mul) el'.  Gli esempi che allego contengono quei costi utli e quelle maniere, ch. mi parvero meno note oggidì ti volgari, cioè, e a poco sperti), ma opportu nissimi e ancora a sapersi, chi vuole impararla daddovvero la lingua ita liana e usarne l'el talmente  Metto prima alcuni esempi di un dare quasi assoluto, cioè adoperato. per elissi od altro, senza l'oggellº e il mal i ra di assoluto cec. Poi altri i un delel'inilla lo costrullo, egliali di lornia, non di significato i dare im, mel: dare del: dare per mezzo a ecc. Seguono undi alcune maniere di un dare ti forma transitiva, e inallelle all i nodi o Irasi antiche e dell'uso.  Il sole e alto e dà per lo Inugnone entro, ed ha tutte le pietre ra st it ltte- o lºo...37.  "...... Sono posti i primi, quando lo veggano li ella vernata già secco, a levar la scure e dargli alla cieca tra capo e collo, tra tronco e rami ». Segn.  “...... e ancora raddoppia V. Il dolore e il piant e davasi nel petto e diceva: or II lisera.... ». (a V.  a l)icoti, Signore, ch'io loll lo virt tl da clò, e tll il sai. E davasi nel  petto e piangeva sì forte che pareva che il cuore se le spezzasse in corpo, (:) V.“..... e gittato il cappuccio per le ra e dandogli tuttavia forte.... ». Boce.  « Un muletto di Libia avendo scorto nel fiume l'imagine del suo corpo e meravigliato di sua grandezza e bellezza, dati i crini al vento volle cor rore come il cavallo ». Adriani.  “..... (con questa tenzone il porco, uscito lorº tra le brache, corre per ulo androne e l'altro porco dietroli, e dànno su per una scala.... Torello levatosi e 'l figliuolo dicono: o imiè! Inale in lobiamo fatto. Dànno su per la scala dietro ai porci, là dove il sangue per tutto zampillava. Giunti in sala, caccia di quà, caccia di là, e quello ferito dà in una scanceria (scº sinº tra bicchieri ed orciuoli per forma e per modo che pochi ve ne rimasero Salvi ». Sacc. (438).  a Su, andiamo, diss'ella, ma sei mi dà nelle unghie lo concerò io come ei merita ». I):) V.  « Non prima l'innocente colomba uscì fuori del mido, che diede fra le ugne di un rapace sparviero ». Segn.  e Poichè si diede nel sangue e che "a nominanza era rovina, si attese a cose più sagge ». Dav.a Lorenzo de' Medici a uno che voleva dar nel sangue, ricordò che gli agiamenti a Filenze si vuota: no di notte ». Da V.La prima e ben grailde II al I vigº.ia che dava loro negli occhi si era Che uomini di quel conto.... ». Bart.«.... raccogliere alla rintlls i ciò che dà alle mani ». Macchiav. E come e vedeva i nemici in posa, nuovamente ridava all'ar. Ino ». Bart.« Il colore del tuo abit dà che si fornaio ». Cav. 'Inostra, appalesa – verriith).Diamo che a casa vostra nulla deloba arrecare di pregiudizio l'iniIni cizia divina. Diamo che col malvagi conquistamenti voi la dobbiate eter 11are. Diamo i le le lobbiate a l escere credito, aggiuli:go le autorità, a qlli stare a dereilza: vi pal' però che vi torlli (olllo di farlo? ». Segll. Coil ed la II 10, assentianro) t439.« Per la qual cosa la confida:izi dentro le dava pe: lo fermi o li e la pure si convertirebbe. Cav. i 10« Non mi dà il cuore di venire il cilielli o con sl potlºrosi nellli i n. Segn. 441.E vi dà il cuore di lasciarveli sta, e nel Purgatoriº piu lungamente?» egn « La mia coscienza non mi dà di piacere a Dio ». I3ari.  S  IVARE IN NEI.: a Essere venuti quatti quattº pe; tl a getto di mare per noi dare in chi gli pettoreggi. cacci e prema.... I)av. gerathen).Il sali o, facendo intramesse al ra. colito, dava in affettuose preglio re ». Bart. prorompeva.a Ma su, fingiamo che abbiate tiato in amici di lor natura piu libera li.... ». Sogindovrà egli dura una gr ali fatica per mandarla a live) o a r Inter e in uno scoglio, o ad arenar lolle secche, o a dare nei corsari ». Da V. « Allora Sonzio fece dar ma corni, nelle trombe: piantare scale, salire al bastione.... ». Giali) b.“..... i quali, quanto prima videro i nostri, diedero tutto insieme in corna e tamburi e grida disso! la ntissimi e all'usanza dei barbari ». B: rt. a l'erò qualvolta voi scorgerete alcune persone che volentieri in luo gli tali convengono a trastullarsi, dite pur senza rischio di dare in temerità, dite che...... ». Segm.« Allora il Bonzo, dato in un rider sboccato, volse le spalle ai Padri C..... ». Barf. (442).  T).AIRE I)I l NA (()SA IN, PER.....: a... e, dato dei remi in acqua, si rili se', al ritornare ». BO. a... comandò che de' remi dessero in acqua ed andasser via ». lRocc. a Se...., io gli darei tale talmente) di questo ciotto nelle calcagna,  che cgli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa, e il dir le parole  e l'aprirsi e 'l dar del ciotto nel calcagno a Calandrino fu tutt'uno ». Bocc.“..... e inginocchiavansegli dinanzi e dicevanº: Ave rex Judeorum, pro fetizza chi li percuote; e davangli delle canne in sul capo, tanto clie le Spille gli si ficcari no insino al cervello ». Cav.  «... le dicevano l'altro suore: e verrà a 1 e Eufragia e daratti del ba stone. E in Illantille lite che la ll dl va ricordare Eufragia, cessava il dia Volo (li tol'Illentarla a. (.a V.  “..... poscia a se ne disino die di un coltello per niezzo il ventre e.... ». l)a V.  « Cielò ll llll Inedesimo per timore e avvampo per rabbia, e dato barba ramente di un'asta per mezzo il petto a quell'infelice lo squartò ». Bari.  «.... Si chè, (Itlillido venne l origine e diede della lancia per lo costato e si a perse il cuore del corpo di Cl isto, il s a ligu, li us i fuori tutto ». Cav. «... vi possono dar su di spugna liberamente i pittori sopra un qua  dro, ». Segn. A 13.  |) \ IR PEIR A | EZZO) (l, li... (alla e mi l un ct, ct mi scot ciertt. - - - - - ond'è conseguentemente il dare che la lino per mezzo a tutte le l"il bill leriº ». Bari.  «.... le altre filsto dessero per mezzo delle nellll ll, il V Ve!ltandº i fuoclli e ſerell (lo (l'ast:) o (li Ill (Selletta ». l 3ii l'1.“..... Inl egli la diede per mezzo alla si apestrata e senza ragione ». I):av.  • I) AIR V ()I, I'E: a Tu dai tali volte per lo letto, che.... » lº i c dimen trsi. a Messa la chiave nella toppa, dandovi da quattro a cinque volte, l'aper se e....» (i Ozzi  I ) \ E SI () I RIPI E I) \ N NI IN... e simili Dava ilì ogni cosa storpi e danni al lilli li I); v. « Solo coſa li scioperati che noi: sanno la l' altro e le illeli:ì 'e la font ini, e  e dare storpi e danni nella fama altrui. » Ces.  l.Alt E I E SPALLE collar le spalle o I)all'aiuto di l)io e dal vostro, gentilissime don me, nel cluale io sperº.  armato, e di buona pazienza, con esso pro ederò avanti, dando le spalle a  questo vento (della mormoraziolie e lasciandol soffiare » Roce.  I) \ IRE STIR A MAZZATE: e.... i quali cavalli in quel terren il sangue loro e di loto molliccio. davano stramazzate e sprangavan calci., Dav.  DARE PIRES\ a, di... (dal pretesto, motivo: dare appicco - reranlassen, « Vero e che queste osservazioni.... daranno presa al lettore svagato e  malevolo d'affibbiarmi un altro bottone che però non mi farà troppo noia avell (lo l'occhiello. » (iiub,DARE CARICA AD UNO DI Q. C.: «.....lo Volle seco...., lo colmo di onori e linalmente gli die carica di VI i eri. » Balt.  DAI BRIGA (sich michts aus Eturas muchen): « Ne anco Imi dà molta briga se, per compiacere a un amico, ho dato da dire u molti curiosi. » Caro.  I)AR NOIA A... Ed accordatisi insieme d'aver per giudice Piero Fiorentino, in casa cui  lano, ed andatiseme a lui e tutti gli altri appresso per vedere perdere lo  Scalza e dargli noia, ogni cosa detta gli raccontarono. » Boce.  DARE GRAN VISTA) (sich schòn, gul ausnehmen -- onde vistoso): « Tutto va in delizie, in piaceri di musiche e d'odori, di portar la Vita con grazia, di vestire abiti che dànno gran vista. » Part. appariscenti,  I) ARSI IN (ERIE(.(XIIESSIA, A (III (CHIESSI A (applicarsi, abbandonarsi  t...):  e Calalndrilio, Veggendo che.... si diede in sul bere. » Boce.. si diede allo studio e della filosofia e della teologia. » Bocc.  I ).AIRE NEL MIC), NEI TU () In mein Fach einschlagen –- in casa mia, nella mia bev (t:a Voi date proprio nel mio: l entrare in discussione intorno a questo [. lll tr. » (es. - I 3:ì l'1. l3.  I ) \RI (III: IRII) I 13 E (da e male riut dal ridere: e Diè tanto che ridere a tutta la compagnia, che illlllo v'era a cui non di lessero le lnascelle. » Boi ('.  I) AIVE I MOLTO BENE I) A MANGIARE ecc. a A te sta ora darmi ben da mangiare, ed io darò a te ben da bere. » Bocc. a Dar molto ben da far colazione. » Fiel'.  I ) \ IX I ) I CC) LIP(). I ) I CC)ZZ() (in... ('('('.: - - Si scagliano di anci, il verso lui e Vanillo a dar di colpo sopra i di rupi del fondo, dove s'infrangono. » Bart. “..... e V: Illasi a dar di cozzo in una ville. n Bart.  I).AIRE | ) I SIP.VI.I.A: º Adoperò la sua Madre, che già conosceva assai disposta, a dargli di spalla n. a S. Luigi per indurre il Padre a...). Ces. I) A IRE I)I SCI() (CC). I )l.I.I l IRIETICC) ecc.  l) Al l I)I IR E, l)| (()NT E e il lilolo) di “Se mi avesse l'o (ld lIo so clic m'avrebber dato di sciocco il vulu l'e che l'oratore sia di necessità legista e filosofo ». I)av.benche gli tolgon ) ogni appiglio di darmi dell'eretico e del miscre dellte. » Giul).Non vi do di signorie, per le, quando scrivo a certi uomini che sono uomini daddovero, soglio sempre parlare piu voleliti ri a essi medesimi che a certe loro terze persone in astratto. » Caro.« Augusto si trovò questo vocabolo di sovranita per non darsi di re, nè di dittatore. e pur III ostrarsi con qualche nome il maggiore. » Da V.  I ) AIRE AI)l)| | | | | () (ilira si, in limorirsi, sbigollirsi Sich u b Schrecken a Vinti dal timor della morte, davano addietro e rinnegavano ». Bart.  I) AIA NE' IRI LI, l vale sulla e', i lazzare, r. Scherza) e, saltare, Prontuario): « Ora è ben tempo, soz I, I)a stare allegramente, E dar ne' rulli e saltare e cantare l'er questo rovinevolo accidente. Buon. l'ier  DARE VDOSSO VI I NO, VI) (N V Cosv (investirlo con parole e con jalli - angrºijen, sich re g 1 e il n. 444 ):  con le fa un ser it, che, vedendo l' - le sue l e al cosi il gulal dia. Colì a ver le bagaglie abbandonate, non quello investe ma dà adosso a quelle e fallì (Sllo bolt Ill (n. l)il V.  I ) \ IR E AI ) (SSC) \ I ) (N I \ V () IR ) significa: alle mele ri con assiduità).  I ) \ I RI SI |.I.A V () (l V | ) \ I,(il N (): Diasi pur sulla voce al presuntuoso che sale - ha o ha i ed io di... » IDa V. « Io conosco un auto e a cui per questo peccato si diede più volte sulla voce e, sventurata nel. e, n loro profilo. » (iiill).IIa i sentito come mi ha dato sulla voce, con le so avessi detto qualche sproposito? Io non ne n solo la tio caso punto ». Mlanz. – E' Vgnese l r r l  le ricorda a Lucia (lulei ripiglio sgarbato della signora i 15)  I) AIRE A VISI) EIR l, l) \ I l A (IRI,I ) Il RI: «....e dato a vedere al padre una domenica dopo mangiare, che andar  voleva alla perdonanza.... » Bocc. « Fra Alberto dà a vedere ad una donna che l'agnolo Gabriello è di lei  Innamorato ». Bocc. Conf Far vista, far sembiante, far veduto - sotto fare). 1)ARLA TRA CAPO E COLLO (sentenziare di chicchessia o checchessia senza pietà, senza alcun riguardo, con poco senno ecc.) –  l)Ali DI MANO, DAR DI PIGLIO:  «... die di mano al coltello e sì l'uccise ». Pass.  “ Noi per questo, dato di mano alla rivestita ampolla, col marchio.... ce  l'andammo.... ». Alleg.  « Lo duca mio allor mi die di piglio, E con parole e con mani e con enni, Riverenti mi fà le gambe e il ciglio ». Dante.  «... i più severi centurioni dànno di piglio all'armi, montano a cavallo... »  IDaV.  « Draghignozzo anch'ei volle dar di piglio ». I)ante.  DARE I TRATTI (essere allo stremo della vita: «.... braino che ella, che nelle sue mani dava i tratti e boccheggiava,  nelle mie basisse, spirasse e intrafatto perisse ». Dav. «... e incominciò ad entrare nel passo della morte e dare i tratti ». Cav.  446). Note al verbo Dare 437 – ll dare di questi primi esempi torna sottosopra ai verbi: bat  lere, percuotere, arrivare, colpire, cogliere ecc. Prova, recalo in altre lingue, p. es. in tedesco, e non lo potrai far meglio che usando le voci proprie: schlagen, elnschlagen, klopfen, gera then ecc. ecc.  438 – Dànno su per una scala è lo stesso che: fuggono, si diſilano. Dare o darla è spesso verbo di moto, nota il Fornacciari, e ac cenna per lo più a un moto violento e quasi di urto.  439 – In questo caso anche il tedesco adopera il suo geben (zu geben); anzi è la forma di dire ordinaria questo: vir geben zu, per: concediamo, accordiamo ecc. 440) – E' appunto l'einreden ed anche l'eingeben dei tedeschi. 441) – Simile anche il modo: dar l'animo (Conf animo, Parte III). 442) – Aggiungi le maniere consimili: dare in vacillamenti, in ver  tigini, in frenesie (Segn.); lare in escandescenze; dar nelle gi relle, nei rulli; dar nel ge mio ecc.443 – Anche il modo: dar di morso a.... va annoverato qui: « E lu darai di morso al calcagno di lei io. Ces. (Et tu insidia beris...).  444 – « Dare adosso ad alcuno, figuratamente, vale anche nuocergli COi detti, co Cattivi il flizi... (il) el'ardini. – Simile al detto: l'agliar le legne addosso ad uno. – « Tal ti loda in presenza  che lontano Di darti addosso bene spesso gode o. Leopardi. – Nota altri modi con questa voce addosso: andare addosso a mimici - I bav: l are un processo addosso ad alcuno (Bart. - DaV.) ecc.  445 – I)are sulla voce è un riprendere, biasimare, censurare, chia rnando all'ordine per vie indirette, per certi segni, avvisi, ml Ila/CCe GCC.  446) – Dicesi anche: fare i tratti, e pare che significhi, anche questo, dare i tralli; cioè agonizzare:... e la Madre e tutte le altre stettero chete, in silenzio, mentre Gesù faceva i tratti e pas (sava di questa vita o º av  Fare  Lascio le dissertazioni intorno a questo verbo, e mi faccio subito agli esempi, non trascritti dalla Crusca e d'altri Vocabolari, come fanno ecelli compilatori di grammatiche e dizionari dei quali tutti, quando presi a lavorare questo libro, io non avea nozione alcuna –, ma colti, al solito, nei migliori autori, lilli da me diligentemente cerchi e stu diosamente analizzali e sviscerali.  A maggior chiarezza di idee e ad agevolarne alche meglio lo studio.  distinguerello sei ordini liere di lare: la - che sta per quali il tre altro verbo dianzi menzionato. IIº - aggiunto ad un indefinito sì come vezzo od ornamento di frase (il pianger che faceva, che vede a fare ecc.IIIa - a valore di esse e o così che potrebbe stare anche essere (esser ll lile, esser buono eI Va - ad uso di varia significazione, cioè in luogo e forza di uno dei verbi: giudicare, ripulare, ottenere, conseguire, importare, fare in modo, passare, renire (parlandosi di piante).Va - pronominale farsi) e col significato di inoltrarsi, sporgersi, af facciarsi e simili.VIº - finalmente, ad usi diversi e come parte di questa e quella frase, cioè a connubio di altre voci e di un significato inseparabile dal medesimo. (449).  --- --  I. «..... onde ella amava piu te e l'amore tuo, ch'ella non faceva sè me desitna. » CaV. (450)« l?el lo co.municare ille,iorire s'avventava ai suoi, loll all l'illelit I che fac cia il fut.co alle cose urtte. » l3o.- - - - - che io ho trovato dolllla (la III lto più che tu non se, che li leglio m'ha conosciuto che tu non facesti. » 130cc.« Il cuore non altrimenti che faccia la neve al sole, in acqua si risolves se.... ». Bocc. «.... le dice che se ne guardi; eila noi fa e avvienle. » I3 a « Quantunque quivi così muoiono i lavoratori come qui fanno i cittad.  ( Figliuolo, Messer (ieri non ti manda a me. Il che raffermando piu volte il falinigliare, nè potendo altra risposta a Vele, 1o 11, in (ieri e sl gli li dis  se: – Tornavi e digli che si fo ci re: che ti mando. – Il lamigliare, torna a to, disse: –Cisti, per certo Messer (ieri mi manda pure a te. Al quale Ci - sti rispose: – Per certo, figliuol, non fa ci e, non mi ti manda, o Bocc.  « I)i spettacoli e d'ogni maniera divagamenti non potea pur patir di sen tirsene dir parola e partivane coli quel disprezzo che altri fa delle cose  Sozze e della Dl'll tll ra. » (es. a.... e percio' che amore merita più tºsto diletto che afflizione a lungº  andare, con molto maggior piacere, della presente materia parlando, obbe dirò la Reina, che della precedente non feci il IRe. » Bocc.a non meno la grazia (i a Inor del Soldano acquistò i l suo bene adope rare, che quella del (..italano avesse fatto, i 13.'I'll ci il celll quasi coine se noi non conoscessimo I l 3 a 1 con i collle fac  ci tu. ) Bocc. a.... li quali per avventura voi non conoscete come fa egli. » Bocc. Itil V Vedeti oggi Ill:li e torna ll II 1, coiile tll escº l' - le Vi, e non fa l' far  beffe di I e ti chi conosce i filo di tllo come fo io., B º  a Tu diventerai molto migliore e piu costumirato e piti da bent la che qui  e non faresti. » Bocc.  a... e nol credevano ancor fermamente, nè forse avrebbe fatto a pezza  (indi i lì0m molto), se ll: l caso a V Velllllo 11oIl 1 sse ch'e lor cllia l' elli fosse  stato l' ll cciso ». 130cc. e prega V: i lil. Inolf (ll II, il III trite ch'ella di V -- andare il lil 1 l 'a  sua, com'ella prima faceva, e molto piu..... m (il V. a Quivi pensò di trovare altra maniera al suo malvagio, ad perare, che  a fatto non avea il: altra parte. » Bocc.  Ed ecco venire in camicia il Fontarrigo, i quale per torre i panni come  a fatto avea i dalmari, veniva..... l3o a... non v'è oggina, chi ad un amicº, terreno non creda pil di quello,  che faccia a I)io. » Segn. a I)avano vista di non tener più conto di lui, che si facessero degli al  a tri. » Balºt. Ces.  « Ma veggiamo forse che Tebaldo meritò questi cose? certo non fece: voi  medesimi già confessato l'avete. l 3o. a Niuna cosa è al mondo che a lui dispiaccia, colme fai tu. ) 13 r. 151 a.... ilſſuale non altrimenti gli lol corpi cali di li nascondeva che fareb  be una vermiglia rosa un softil vetro o Bocc. « Come suol far bene spesso molti altri, non m'ingannava., Fier.  1t)Non potendo egli per le sue malattie intendere agii studi quanto face vano gli a Irl, º d egi I l Istora Va Illesi e il 'dite coll..... » (.es.  a Dio tranquillasi assai piu ti sto che in li fan l'onde di turbata peschie a ra al posar (l, vei iti. » Salv.  a Amatemi coln, io fo Vol. (io/ zi. ) !  e Cosi l i poppavano colti i madre avrebber fatto ». lSocc.  S'io mi conoscessi così di lieti e preziose, ci rime io fo d'uomini, sarei blloli gioielliere. I,il Vlati  II. Ed era si gri il de il percuotere che facevano il Sielli e le lololar,, che slavi, la V il 110 Il loro o il il iie l relli.Nel fuggir ch'egli Assi i lill ta faceva lie, una foltissi Irla sei vil, gii in cell le ll ' la g 1, l. 1 Isg, i Zl: 1. S - li.l'el Issa i cori e se li 1, l su tv li intendere e del guardare, ch'egli i' leva ch'esso facesse le,i di 1 min. 13,.()n l'e (olls gli::. in l. ii dare che fanno per mezzº a tutte le ribal (l, l' e.....! I3: il t.Qlle rigoglio dal scperchiar che fanno le linesse de gli il ll ' (ssell (lo 'll - I ll. (..:Per esaminar che facesse egli in desino, ogni azion sua..., con quella Sotlill-siIrla a ' ll ratezza º le farebbe ! l... I l di pill roso e maie a milm:a  “ to........ !! (sali 1,3;  -  Il III ore il plli ſi te e il martellar che faceva il povero cuor di l.u cia.! Mla liz.pero che tro) po lisa: il si logorava a disciplina del santo, la l'ecò il pit l i-erlo, si illo e Irl) Il lt, il battersi che facevano con alcune a discipi ille, o il de ci si ill si Vºle, tl a V a Ill quella dei santo.... Dari. a... al Illale il saporito bere che a Cisti vedea fare, sete avea generato ». I 3 mcc.« I)a (Illel ol'l'el' che gli viddero fare il lla volta (ll... I3:l rt. colll'elera il d a loro, per venir me: io dissecar che questo faccia, non perciò se lº svil I llia.. ll::lzi... » 13 arb.I l piangere che lo l il re in teneriti fino alle la grini e vedevamo fare al mostro fratello, ci reco ad altri pensieri, e avremlino a condisceso, se non  clie...... a I3: l l'1. Ne I llli loro a spe, e ne vide i gli eletti, quando nel darsi che fecero per lo mezzo dei barbari, mist ro tale sp: vento... ». Iºart. il l. Il liv fa l la teli per atissima stagione di pri  Il l: i ver, l.. I 3: l...... ll vi fa lin'. I l la derisi e greve º I ai t. )l re a ciò al spiaggia di Malacca fanno venti freschissimi, o l'art. l'etiche, a ragione di tr Inn ti che vi fanno spessi e gagliardi, esse « (case) non abbiano il mio volte sopra al chi. » l?art.a Ben so che per te farebbe di lasciare il vincoli e li poso della carne a e alrdarne a Cristo ». C: Vali.. io -il ebbe il lile).e Niente ha i sapor di biada e perciò tu non ti fai a me, nè io mi foa te ». Fav. Esop.« Non fa per te lo star tra gente allegra, Vedova sconsolata in veste negra ». Petr.Fanno pei gran disegni e mutazi e Ilori e da la dare ove la posa piu ti rovina clie la tern rità. » I)ava zMa perchè nell'acqua chiara ! ! - i lig lio la l et le ia V gg li: la torbida fà per chi gli vilol piglia ', III: ng ſare. l)avanz.  Noli può fare li Ill re: I l e - - al 1ori la lol (III il tal11:1. Sºg Il ..-e egli dice, N 1 il por io può fare ch'ei rion si p it,  e se n'esce ri le 'le, quell'avel tº Inlito gii accresce il dl!. » Da V. in quanto piu' alie d ' Iº che agli uomini, l' I, olto parlare e ling o  quando senza esso si possa fare si disdl Bo 155  l Ia' tll a Irli in olii o li or fan sedici anni, i l... (l Slla V a 56  IV. a Suo cimitero di Illelia part la lino (1 Epi:ll'o ti 111 i su: i seglia -  e ci, (le l'anima col corpo morta fanno. » l)a 1; e I epili i go, suppongo io,  giII il 1 a 1 Ma il popolo che vuol ci ala e il faceva chiari at ali adozio e, a I) avanz « L'anſica III e Imoria fa il torri pi di icato dal..., I): v.a La tua loquela ti fa mi i lifesto manifesti rien! Di qui la riobi! pa tria nati. Alla quale lo sa lui troppo mio' si o I): inte. i s'ipno, ti appalesa – verráth dich.a I), Pietro in ritiro a Solo quel divario era oli e la S. Vg -tillo faceva da Fausto Manicheo si primo mi:i stro: S. \ mily g io. L'uno tilt 'tori e leggerezze, l'a lt) o frutti e -: il lezz' o I): V. Lc fo partito per di qltà ». Fier. a Dunque hai tu fatto lui bevit re. e V., o di siti - 'e gli dai taccia) Colli i clie ha il ll ll gli fa l'i....... 11: li l 3, i ll l 1:1, Illeſ le co; to fa lrlestitºri E questo fa cli: i lio: e Itil, i ni li stili lo i libri li. (s.  i Mla poi li è 11 11 si | lo fare i lic lºl - 1, ' - ri - i l. 1,,, l  a dio alcuno, nè posso - I gri e 'a e l' a i 'tr... ll ' Ina - - a ledir Cadmo e chiunque fosse altri di quelle teste matte che ritrovarono a questa maledizione dello scrivere. » Caro ottenere, fare a meno)  « Mentre che.... io non poteva fare ch'io non mi doleSSì almaramente. » Fieren.  rate che al nostro ritorno la cena sia in essere. » Caro fate in modo,  procurate) I)eh se vi cal di me, fate che noi se ne ineniamo una colassù di queste papere. » Borg.e perciò una canzone fa che tu ne dici qual più ti piace. » Bocc.  l'areva che non ti l'i sole, il la a Sinigaglia avesse fatto la state. » lºo:. passaio, trascorso (ono fatto fù ii (li chiaro verso la si dl lizzò., Bocc. | - Il sul far della lotte e presso della torricella nascoso. » Bocc. 157)  l'altra urla de l'en li colli l?olna li.... Susilli non se lº cura; fanno per tutto, purchè grasso vi sia. » I)avanz. Colne ogni altro frutto tra  piantasi il noce: fa per tutto viene adagio: dura assai: appirasi agevole: la ombra nociva, onde egli lla il nome, o Da V. 458)  V.. Il quale come egli vide fattoglisi incontro gli die lel viso un gran punzone. » Boc i 150.  « Onde non è mai raviglia, che la llclo, la lit I anni al presso come si e det to, vider co'a ll no della compagli 1.1, gli si facesero tutti incontro a domall darlo del loro padre, e se v'era speranza di mai piu rivederlo ». Bartoli. « Chi volesse cimi (1 lt; lr sl lol a V i rl facessesi innanzi a l):ì V. « Ma ancora aspettano di dirle altro, e fannosi innanzi, e mettonle un cotale pensiero. » Caval.a e allora si leva rollo costoro, e il maledetto Giuda si fece innanzi, e ba (“iolla) e disse. » (a val. a Ver me si fece ed io aver lui mi fei ». l)a lite, Non posso farmi nè ad uscio, nè a finestra nè uscir di casa, che egli incontamente non mi si pari innanzi ». Bocc.« in vista tutta sonnachiosa, fattasi alla fenestra, proverbiosamente disse: chi picchia laggiù? » Bocc.« Fattoni in capo della scala vidi e sentii tutto ciò che passò tra loro. » Bocc.« Spinelloccio è andato a disinare stamane con un suo amico, ed ha la a donna sua asciata sola, fatti alla fenestra, e chiamala, e dì che venga a « dosillal' coll (esso lì oi ». ROC Cº.« Fattosi alquanto per lo mare, il quale era tranquillo, e per gli capelli a presolo, con tutta la cassa il tirò in terra. » Boce,a li contemplava dalla riva in lotta con le onde, perchè da oli passion « Inosso fattosi alquanto per lo IImare, dopo Illolto affaticarsi, li l aggiullse, a li prese entrambi per le vesti e tirolli a terra. » Bart.  « Così senz'altro dire, la buona quaglia starnazzando l'ali per ia gabbia con più empito che poteva fece tanto rumore che il padrone senti, e fattosi e alla fenestra cacciò via lo sparviere. » Fi(l'enz.  « E facendomi dal primo dico.... ». Ces. 460).  a Fatevi con Dio, e di Iile non fate ragione. » Sarch. COllſ. l' 1 rte I. Ca po III.)  a Fannosi a credere, che da purita d'animo proceda il non saper tra le « dolllle, e co' valelnt'uomini favellare. » Bo -. 161« Il che se la natura avesse voluto, come elle si fanno a credere, per al tro Inodo in Vrebbe lorº limitato il cinguettare. Bocc.« facendosi a credere che quello a lºr si convenga e non di sºli a che al e le all re. » IBO(''.« I vestimenti, gli ol'namenti e le caliere piene di superflue delicatezze, le quali le donne si fanno a credere essere al ben vivere opportune o Bocc. « Ma questo io mi fo a credere che fu un giuoco, l'n tranello, un lavoro « l)i quel malvagio | risto!.... » Buonar.e Pognano il torto a tua gente, la quale molestando i paesi pacifici, si a fa ad uccidire uomini, bruciare templi, sparare donne, sforzare vergini!...» Lett. Pap. Nic. « Chiunque si farà a considerare quanto..... !!, (l'ulse: i « La vide in capo della scala farsi ad aspettarlo. ) Bocc.  VI. FARE COL SENNO, COLL' UMILTA' (e simili. 462). (rl lidogllerra ebbe morire ed in sua vita. Fece col senno assai e con la « spada. » IDante« Fd ella incontalmente lasciò quella risposta, e prese conforto e disse: e io farò come la Cananea, coll'umiltà e coll'improtitudine e colla perseve « ranza, pure per avere da lui misericordia, perocchè m'è detto ch'egli è tut « to benigno e misericordioso. » Cavalca.  F VIR SENNO (53). « Senno non fai se llor: lla i telli ſi gli Idi. » l)ittaln. « Meglio di beffare altri li Vi glla rderete, e fareste gran senno. Bocc.  Fl\l8 RAGIONE (che..., di..., con...I. Ma io fo ragione che i nessi tornassero tutti affrettati, e dissero: ve « duto abbiamo che questo maestro è testè passato per cotale contrada... » Cavalca i 464)« Allora domanda consiglio di tua salute quando vedi le cose del mondo « andarti molto prospere, e fa ragione che tu se' atto allora a sdrucciolare. » Martin Vesc.rai:  e Ora per non i petere.... io fo ragione di non tenere un disteso ragiona  lIlCl1to. » CCsari. « E peroc he.... fece seco ragione di rimandarmelo ». Ces. « Ma volentieri farei un poco ragione con esso teco, per saper di che tu e ti rammarichi. o lº intenderIileia con..,« E pero a te, siccome a Savio,... ti convien confortare, e far ragione che Inal ve lli: a 11 mln l'avessi, e lº si lalia a indare. » I30 c. 465)« E - I fate ragione, che pe: quellito egli potra, Sara Selmpre il primo a a rovesciare sopra di voi la sua colpa o Segn.lº co; i forni 1 e lo ch sll edette allo sventurato Saulle fate pur ragio « me, l tito:i, che avveni del bri a tutti i peccatori. » Segn.« E in esso luoco, fate ragione che il Signore venga a purificar quelle anime, quasi lentro un cro, illolo terribilissimo, finchè depongono tutta « l'antica storia. » Segn.E pensonni che Gesti i Marta disse: fa ragione che tu mi vedessi in a ferino, come si mo. -toro, hº giacciono qui entro, e in così gran Drsogno, « pensa quello che li fa resti a ine, e fa a loro ». Cav.« E però dico che i lutti l sua sollecitudine pose di far bene l'ufficio, che a le era dato di lui, il quai ella vedeva che tanto gli piaceva, che poneva in sè la p rsona e l'era se: vita. Ed ella cosi faceva ragione di non partirsi a da lui punto; e qua:ldo serviva il povero e l'infermo pareva a lei servire Cri e sto nella sua persona, o (v. a E fa ragione ch'i' ti sia sempre allato ». l)ante.  \ V EI ) l I () - – I VIR SEM1  I \ V IS I \ \ V IS | | | ) | --- l' A | 31.VN Tl....., ella a tal - i vitiche1ia, facendo vista di non avvedersene anda va i colti e in colite- io. Boa l l' allora fe vista di: andare a dire all'allergo che egli non fosse atteso a en I, p. I d p moltº ragionamenti, postisi a cena, e splendida In nte li riti, va i se viti, astutamente quella menò per lunga fila al l: il l - lll'a. » l oe l'appa ma i ti r; parevano molto religiosi e molto costumati, e gran vista facevano di cosi essere ». Cavalca (66).l'il, l'io li in voi i 1. ll scostarsi da Itolina, e ogni anno faceva le vi « sto li voler visit lº serviti e le provincie. Mettevasi a ordine. Ineve vasi, fermavasi, o, ivi in inet, orire la ti gallo, onde di evano gallopiè. »  l):n V:ll 17. a E fatto prima sembiante il sere la Ninetti messa in un sacco, doverla a qu. te t - il. 1. Inizzerare, se la rimeno alla sua sorel  a l:n. » i 3 t. E quando i s rso i litro fecero sembiante di meravigliarsi forte. » H3 ).. Fatto adunque sembiante d', li conoscerlo, gli si pose a sedere a pie a di.. I8o.« Quindi vicini di terzi levatosi, essendo gia l'uscio della casa aperto, a facendo sembiante gli vs si a' tr Inde se ne salì in casa e desinò. » Boceº -.... e cosl ad Andreuccio fecero veduto l'avviso lol'. » Pocº. 'diedero a vedere, a conoscere) 467,  FARE AI L'AI TALENA, ALI..\ IP.AI.I.A, A I.I.E (..AIRTE, AI.I E (I ) I, TELLATE, A SASSI, AL MAGI IO, (e simili). a e per vilificarsi faceva al giudo dell'altalena. » Fioretti. « QuiVi si fa al pallone, alla pillotta. » Lippi 468) « Noi abbialno carte a fare alla basetta. » Cant. Carli. « IDicesi che c'era un tratto un certo tempione, che si trovava un paio di si gran tempiali, che facendo alle pugna con chiunque si fosse..., non si a poteva mai tanto riparare che ogni pugno non lo investisse nelle tempia. » Caro.« Siccome, se tu fossi nato ill (il e ia, dove e corrottºv le esercitar l'a rti a In e cora giocose, e gli Iddii ti avesſero fatto nerboruto coine Nicostrato, iº non « patirei che quei braccioni nati a combattere si perdessimo in fare a sassi a o al maglio, così ora dalle accademie e dalle scene ti richiaino a giudizi, e alle cause, alle vere battaglie. Dav.« E' facevano al tocco, per li avea a Inter: 1 primo di loro. IBllonerotti. (469)  FARE A CIII PIU'....: FAIRE A FARE CII ECCIIESSIA a gara – um die W ette). « i quali con altri magistrati fanno a chi più adula. » I)av. « Ma lldendosi allora ()tone e Vitelio, con iscellerate all'Illi, fare delle cose) umane a chi più tira.... ». I)a V.a che è quanto dire che più di mille e mille lingue fanno continuamen a te a chi più squarcia il buon noi, e degli innocenti. » Giul).« Vennero subito gran guantiere colme di dolci, che filro presentati pri « ma alla sposina, e dopo al parenti. Mentre alcune monache facevano a a rubarsela, e altre complimentavan la IIIadre, altre il principino, la bindes sa fece pregare il pricipe che..... Manz.  ſ'.ARE A FII) ANZA, V SI(U IRTA' con..... a perdonatemi s'io fo così a fidanza con voi. Bocc. « Coloro che fanno a sicurtà colle riputazioni e per sin colle vite, non solo (le” cittadini, ma.... » (iilib.  FARE ALLE PEGGIORI con i contenersi, governarsi nel modo peggiore) « Augusto senza dubbio inizio l'I: neilla a fare alle peggiori con Agrip  a pina. » Dav. « Egli tanto più il 1 furiava, e facea con tutti alle peggiori, fin lì è il re il  a Inandò cacciare come il Il ril):I l I liori li pii l:ì gi. » I3:urt.FARE A MICCINO: consumare, od altro, con gran risparmio. Miccino vale pochino e a muccino a poco a poco. 170)  FARE A SAPEI? E a crerti, e, ammonire e simili. « E quando tu la intenda altrimenti, io ti fo a sapere da parte sua ch'egli « Sala tanto (Illa Into e ispetta a Sua Maesta. » Fier.  FARE DEI. SAVIO, DEL SUPERBO - I)I.IL PAZZO -- DEL BUON COMPAGNO –- DELl. UOMO e simili da sl l'aria... den gelehrten spielen ecc).Allora il corvo, che tacea del savio e dell'astuto prese carico sopra di e - d'esserne (il re... o lº le reliz.« Il che udendo la testuggine e volendo far del superbo anzi del pazzo, « senza rico: darsi dei e aminionizioni datele, plena di vanagloria disse.. » Fier. Volelrd, far dell'uomo essendo lo stie, Illalrdano llla e e rovinano « non stilainelli e.. » Fiel'.« Ho fatto tanto del buon compagno che me – il lio acquistati tutti. » Caro.  FARl, \, FARSEI, A CON contentarsi.... stai con lento a....). e Domandò come Silv: la facesse, quello che fosse della moglie e.. » Fier. « Se la faceva la miaggior parte dell'itino all'usanza dell'Indie con riso; e e quando piu sontuosamenie con in poi, d'erbe condite sol di ior mede « Sime. » I3art.  FAIRE I,i,() V.. l) il liut ) Ni lºrº in l. FARE ILE BELLE PAROLE e simili. « acconciarsi le parole in locca. » l80 parlare lorbito, in quinci e quin di ecc.)« Ed ella, facendo le belle parole, rispondeva che le era a grado assai, ma « la dimora, l'eta, l'ufficio.... e º no pur cose (la polmderarsi.. » Fier.  FAI? FORZA AI ) A I CI NO) – FAIR FC) I Z \ l)l Q. C. I 'ARE I)i FORZA ci avvisò di fargli una forza da al ll ma l agioli colorata. » Bocc. « Colnili ciò a gridar forte: Aiuto, aiuto, che conte d'Anguersa mi vuol far forza. » Bocc., il « La reina faceva ai giudici forza dell'appello. » Dav. « sa tanto ben ciurmare che incorrendo in contumacia, turbando posses a sioni, e facendo di forza, la cagion gliene comporta.... » Bocc. F AR M1 T TO AI) ALCUNO (v. Parlare Proml.). 'FAR FALLO A abjallen). a donne le quali per denari a lor mariti facessero fallo. » Bocc.F A R CONTO DI... CHE (daraui gefasst sein, sich cturas u oill be mer ken – bedenken ecc.).« Si addestrino a vincere il demonio in altrui, trionfali dolo ill lor stessi,  a e faccian conto che i pericoli passati son minori di quelli che sopravver  « ranno. » Bart. e sappiamo che...., e sian prevenuti che....., e ponderino  bene che....) a Dunque dovrò starmene tutto l'inverno tra questi geli e durare si lun  « ga fatica...? Fa tuo conto. » Gozzi a Le saranno adunque, ripigliava il ragazzo, candele? Fa tuo conto, diceva  il padre, le sono appunto candele. » Gozzi.  FAR BISOGNO A. Q. C.  a e le nozze e ciò che a festa bisogno fa e apparecchiato. » Hocc.  FARE AI) ALCUNO SEI? VIZIO IDI SUE I3ISOGNA Bocc. I)av. I3art.,  I ARE CEFF ().472. a farebbe ceffo a questa fiorentilliera che cosi le propri la nostre appe.  con barbarisino goffo e sllo e cellsll rel'ebbe così. I a V.  l'ARE ACQUA a Cercar di al III la sorgente ove farvi buon acqua. I3art. Fier. a poi ripigliò: forse il dite perche quella nave qui una volta fè acqua. »  l3al rt. 473;  I AI? CARNIE: I n di ch'ella acquiia, era ita a far carne. » Fier. º e Ini venne veduto quell'iniquit so giovane colla spada ignuda per ogni canto far carne, e gia giacerne i suoi piedi tre, tutti imbrodolati di sangue, che ancor davano i trat..... » Fierenz. |  FARF II. TOMC) Conf. Cadere Pront.. FAR CERA (da Kairen). “ lo indusse a....., a far gran cera. » I)av. FAR GREPPO quel raggrinzar la bocca che fanno i bambini quando vogliono cominciare a piangere) Crusca (474)FAR GESU' congiunger le mani in atto di preghiera – vive in Toscana FARCI II, CAP().- FAI? E TANT ()Farci il capo vale averci pensato tanto o pen-acchiato o provatosi di pensarci, che nºn se ne intenda più nulla, nè anco le cose chiare e che si vedevano alla bella prima.Fare tanto di capo vale sentirsi stordito o da pensieri noiosi o da mal CSS el'e o da rumori.M'avete fatto tanto di capo, dicesi ad un uomo parolajo ancor che ne in parli a voce alta, purchè coºfonda ed uggisca la mente. Così Tommaseo, Gherardini, ed altri. FARSI RELI.O:“...... che se ne fa bello per aver tradito le tre legioni smembrate ». Dav. l'AIRSI LARGO allargarsi, agevolarsi la strada – avere i mezzi di farci rispettare e di avanzare presto nella via che prendiamo.) « Coloro che per le corti colla virtù e colla fedeltà si fanno far largo ». Iºierenz. « se non vi fate largo coi donare.... ». Cecchi. --- Farsi largo colle chiacchere, coll'ingegno. -- C'è chi llell'ultimo altrui si fa largo donando, chi domandando, chi piangendo, chi ridendo, chi co mandando, chi in Inacciando, chi lo dando e via Via. \ V ER A FARE CO)N..... I)I a bella donna con cui lo imperatore ebbe a fare ». Dav. che ho io a fare di tuo farsetto? » l8oce,  Note al verbo  Fare  449, – Non curo di molti altri usi, vi oi con uni ad altre lingue, vuoi notissimi e frequentissimi an ha oggi, p. es. far lare nel doppio significato di ordinare di fare, e di cagionare di fare  fare apparecchiare checchessia anferlingen lassen – fare all'l'ossire ullo – l'hre Arligkeiten mitchen mich erròthen –  Lessing.  fo0 Anche il to do degli Inglesi ha tra gli altri molli, un uso pres. sochè eguale. Es. The day techn J sau him ho looked belle lham he does nou'.  fol - Quel come lai lu sta per come dispiace a te. Nola inversione illicola di costrullo e dell'ordine l'azione.  4,2, (iozzi chiude parecchie volte le sire lettere così.  3 - Nola anche il secondo: che ſarebbe il fare cioè del primo gruppo com'egli stà per un verbo del primo inciso sottinteso adoperando..., che adopererebbe..... º, o per l'anzi detto esa m in tre: colla quale esaminerebbe ecc.  4, Per dimolare lo slalo di essere del tempo, dell'aria, del mare sillili, o loperano i buoni scrillori assai sovente il verbo ſul re': come latino i francesi il loro laire. – Guarda come,  i, - Mlodo a lille l'altro antic e dell'uso far senza (una cosa) ci è pol el sºl le limitinº l'e - esser star bene senza.... ».  fºſi - I granimalici li apprestano indi la regola: « Fare stà per  lº minare, compire, rattandosi di Iempo, e ad esprimere quan lilì passa la lo mi trovo più semplice la formula che anche il Tuesto caso il verbo far fa pel verbo essere,157) – Nota di questo gruppo le maniere: lorº la state, l'autunno ecc. il farsi del dì, della notte ecc.  458) – Analoghi a questo fare sono i mºdi lar buona proºº, fa, gran prova, provare. Conſ. Pianta. Pront.  459, – Metti a serbo i modi: idr si incontro: larsi ºººoi farsi in nanzi...; larsi alla porta, alla fenestra: larsi a credere e simili.  460) – Simile: « E iatlosi dalla in attina venne lo raccontando... » Ces. - - - - - Dicesi anche: farsi dappiº, per cominciare dal primo prin cipio.  it:I – Pon mente al senso del pronominale farsi degli esempi an tecgdenti, e ti sarà agevole intendere come il modo farsi a credere non sia come melle qualche vocabolario, un credere a dirittura ma un accostarsi, recarsi, darsi, inclinare a credere. Simile anche l'altro: larsi a fare checchessia – cioè mettersi prendere a...  4(2 – E' ingegnarsi, studiarsi, faticare ecc., adoperando il senno, l'umiltà ecc. – Far colla cosa sua. Non gli dar noia.... chè egli la colla cosa sua Cavalca pare che dica sempli cernente adoperar del suo.  463) – Vale operare saviamente, metter giudizio emendarsi. E' modo elittico, simile al precedente ma di significato assai più ristretto e talora diverso. s  464) – Traſduci: mi penso, mi arriso. Si adopera questo: far ragione che..., di..., a più altri usi e significa quando supporre, repu tare, e quando stimar bene, opportuno ecc.; mentre far ra gione con alcuno vale intendersela, fare i conti e simili.  465) – Far conto che, dicono i...ombardi. Simile anche il seguente del Segneri.  466) – Far vista, far le viste di ecc. è altrettale che fingere, dare a vedere (v. Dare); sich stellem als ob....., Miene machem, sich den Anschein, das Aussehen ſi bem. Pilò però significare anche semplicemente sembrare, parere: « non facendo l'acqua alcuna a vista di dover ristare, presi dal N. N. in prestanza due mar lelli. » Bocc. Anche il nodo detr vista (conf. 1)are) è usato dal Sacch. e dal Cesari (e lorse anche da altri che non ricordo): senso di lar rista, sich slellen ecc. « 1)avano vista di volervi « andare. » Sacc. « I)avano rista di non tener più conto di lui « che si facessero degli ºltri. » Ces.  468) – Nel traslato: fare alla palla dei quattrini vale spendere senza riguardo.Si fa alla palla di checchessia quando avendone a josa, non si bada a risparmio. Anche la frase: lare alla palla d'uno ha senso non guari dissimile e vale traslullarsene, dargli la balta, prenderne giuoco, fare a sicurlà de fatti suoi ecc.  467) – Questo modo far veduto pare che abbia un doppio senso, e si usi tanto a significare far si che altri pegga o gli paja di vedere, quanto dare a vedere, lar sembiante ecc. « le iè ve duto di uccldorli » BOCC.Così pure dicesi: « far vedulo di commettere, di perpetrare ecc. In questo senso usasi anche l'altro: far vedere. » venne un medico con un beverag 21, e lattogli reale e che per lotuſosta ICIulu. I « e lo 5 allop oddo.15 Un'; Iso, o IoitIt: otp lºp o  puqquI I ouuº ollo IS.It All I lºp olioIA os IOI o II.) BAIA ost.I I » – (3 li  - ll T. -uui uu.o Idl I « mhop Imi lood ºzuos e.lolu uluti ſoli al QuUIels e][0.Alu l ol[.) e Illo,I u Ip (IIIII O]UIelo.) (UIII º II ) o, pullo Iod pm bam api Ip osn, I o IIIssItini il o, o od o lou il timbrº p Is.IopeAAO.Id Q olduioso 0.Illi, lot o I] Ioli manlaodm oil al pm b  uod mh.op, I le.I]tto toIIIUlis onl. I pi ln() eztl.).Io]Ilp eloN - - (gli  uol.opu or) p. I: ossa: I a 9.Iu 5IoA opotti lot ou. Il sopo I oddiº o IliioosLI o IIo N.  tºzuoloIA In I “uz.Io e Insn alu.I -oUoS UII eoUIuisis (olduttoso ottil III liop) pc lol lp o. Di opotti II un illup llp, mo:) Iols )llo, no!) loo oolpe, il Co, sopo II o II.) o | | Il I Isti.Il '.I]od (OloA [oſ [0, oluooo IlS sopueSu lost Oiolo le prof pl.oool I o: OICI e ouuu è Iopulso.Id el ouo ez.Io] el º.it / l'Is Out oli ut: qui o ostº.I | Ip Ici.I e “o.IoSuII.ilso,o un N (Io.I I o Io ti uli Iso, JUIO )) o.Ioi II.I]s -oo Iap ouo o Iez loſs ottºz.it I lop Il pd to Il prato i pl II IIenb eplau ooo ufos « lama luo pm ns. oi ml III o uso o il n.IIIIGI ) dd SS IA (o.llitt.top non lº pztof l l lo Io: l UIonios o Ilop mz.tol ) un loo ollopns Istº.Il flop “ps.iol pun o. pf pr.toi trof. II lod o e opuoguoo UION luppoI SS )IA (mr lo? oso).to.) o un ll fiopuo.rmi o e o Iel 5ueu e olotto; Ind lºttout IIIonb oIopuolo.A » oso).Ioo o oIlluo3 opoUII UI! QUIolº II io.A.Al ' IoitII.I so,o un o.I(Ittios o po “pzuol asoluoo pun otni ollout: Qn i S o,oo I luoloIA o Inslui “o.Iol -od p osnque po osta,p o IoA).Ionº olle (Inp QoloIII ons IoToA In olrmu5epuniº o olio;iuti.Ilso,o ol.In pur o ooºoooº I top ellione ulu.5oIUe,I opuooos ole.A oum.o)p pm vs.tol pum olmi o pcaoſ 1D.I – Ily  outloollll D o 1 pp out.), lui lo o.tpll pd oII.) Ie IsooICI – (), luooo) glo e opuºluo, “l.It ds-p o lred as ou5oAtto II opu0.oos o elp mld o oun opuello 5  l Is o “eso.) eull UI! Il looo) lu o lº odopo.A o[U.A O.).ool / D olm, I – (6),  (o topo.to llbollmſ ollo ossols ol ooogl. lg olt, uouLIOppe otto “llens o lo)s QUI o loq ooo I lo! [5 e Aup OlogIS Ital Ip o luouaol Ili  iFrenciere (Pigliare)  sia lº cºsi di lºro - il mo: into a chi non ha mai o l: lingua italiana – quello che si è mola, sin 'I I. (Il les (il n ad (SS (l' \ i re cosi di questo cori li ai ri veri tra loro - r. 1,ºrticolarità di della I i licli, e lassici, q o no in una º i il Zii, il colal girlo che non la clin a pezza, ali di si ! "i sanno che cosa voglia di e prende, ma i I l ' s ci ii, alla l' hissimi, che ne usano i d, e, l in A, is simo e i I i di classici del medesimi sono da Lilli il si e al ci a uno lors, ma li avºltº il peregrino. Chi lo intende, a cargoli d'ese p. Il valore, ma i le poli 1 ai linelli all'uso: bo i  l'rende e dilello, prende i mali con ri. p, i lorº con l i........  consolazione: prendere p, i ti; i mal. ): i i 'ti li' li ti, prendler guardia. Sospello; lo: l ' s.  losi, i di qualcuno e.: pt ºutlc i l preso ad atleti no bene, ci pass. p pºi lº i dire: il fare clic li ssi, i pi nel I e il I i gio EpptI re li. Il sol li: V g: li e lode. I re. E ci l  si si | | | e cose. e prei I l i s 1 si lilire e maniera li i pir. - di  il Italo.  “.... pil per istrazia, lo li, pr diletto pigliare i: l si  e Iſ) di Illesl e os º prendendo annni irazione...... il II l r chi alla toll:I n. I),li (1. (...  a Ella d'altra parte o il I e - e clerlo; o secondo l' ill Iorli; i vi, i i miglior tempo del  lo II e il -  mondi è mrendendo il li tl (. Il li l, l si o di non avvedersi di qll st.  a Tu puoi di quindi v lere il 1 l - i N si - li l  Inattilla va tlitto solo, prendendo di porto i. (illata Hilaldo e I liv. ri.I l ril, 1, E molta ammiarzio i seco prendea,  a Chè gli parea ognun fiero e gagli E \ - jardo » l'ulc. Luigi Morg. a Ed ella Maddale: 1: il corti. Il nte la s lo [Il ',,, - -ti e prese confor. to e disse: io farò come la Callanea ». Caval l. a Laonde (gli diceva: Se io (Il test gli dis, la di me e.... le mi metterà il odio, e cos l III li il l: l li, i « moll avrò ». Bocc.a Bergamino dopo il Illanti ril, li ! I vi - ge:Idosi il lil IIIa l'', li richie  a  - I prenderà g -dere a cosa, che a suo inestier partenesse, ed oilr a ciò consumarsi nell'al bergo co' suoi cavalli e o suoi fan incominciò a prendere malinconia:  r  ma pure aspettava, non la endogli lie: far li partirsl. Bocc. «... e nondimeno di queste parole di Gesù presero un grande conforto nel.. ll or loro». (.a Valca.e Nol) Vi si l a 1 i lil l e la coinsolazione li vo: prenderete le! Seilt il'.... che egli non vi debba essere altresì utilissimo il vedere....». Cesari. Senza questo, i lus, ira vºi li i ogni fatica, che ci si prenda intorno » Borg. « La seconda cosa che e efll ace rimedio contro alla disperazione, si è la virtu deila e ilterza, che la prendono vigo osaliment.  col) folt:ì e sostit ss i v.  « Menagli questo cammielo e digli che ne prenda servizio ». Cavalca. a E voi appresso con III e o insieme quel partito ne prenderemo che vi pal rà il migliore ». Bo c.« Ora il n dl avendo gia lº l l: presa grande amistà con esso loro, il tanto che lui si la l util Vallº li l l'o, - zia 'liente per lì è Vedea no l el' fettamente in lei Cristo abitare; per la qual cosa di lei niuna guardia o sospetto prende anc..... » (. I v.: 1.« Di che la donna avvedendosi, prese sdegno, e...» Bocc. « A \ onla I sta i presi -. 3 i ari. o Il re, o la -  sciarlo a B) c. 5? I  V edi, a noi e presa compassion di te » I 3o o??”. La buona Iellini il l Ill st V e del do, me le prese pietà ». 13o e. «....subitamente il prese una vergogna tale che ella ebbe forza di fargli v II, il l l Il l3,Gran duolo mi prese al cor, quando io intesi ». Dante. a l 'Il cavaliere la domandò, se ella ne togliesse a fare un altro: rispose « che nò; che non le era preso si ben di lei, che ella si dilettasse di farlo » IB() ('.« Con la piacevolezza sua aveva - la sua donna presa, che ella non tro « vava luogo....». Bocc. (fatto innamorare di sè).  Prenderete subito tiltti a Iuliilli il re i tº o di me... » l)a V, 'comince rete,23).Il quale facendo rumore, che molte strade d'Italia eran rotte, e non abitevoli per misleanza dei conducenti e trascuranza dei magistrati, le prese a rassettare ». I)a V.sol per onore di lui prendeva a condurre quella, per altro troppo mai -  e gevole impresa ». I3art.  e voltosi al popolo prese a dire in questa guisa ». l'8art. -.... stabilito com'egli fu nel trono, pigliò di modo a preseguitare i Catto  « liri che.... » Segm.« Ed ecco che ella medesima prese a trattar di rimuovere dall'Imperio « Neron, suo figliuolo ». Segn.  « Anzi cred'io, che il rigetterebbe la se, ed in cambio di voler più protog e gerlo contro ogni altro, lo prenderebbe egli il primo a perseguitar » Segm.  E così in piedi, prima di deporre ancor gli abiti di campagna, prende a a fare una lunghissima dice ia.... o Seg.  Ti piaccia ancora di por niente ad alcune altre frasi nolevolissime oi verbo prendere ed anche i cerli usi del derivato Pi esa.  PI (ENI) Eli TERRA – di una mare, approdare, alle ra e PI ENI) Eli MIARE – PI º ENI) I.I è IP()IAT ().In quel ritorno g.i avv (-lili, di prender terra il C: la lorº. I3art. e così le rinaio, alle ore il ſos - Illor: li sta gioli, prese mare e navigo... » I3:ì l't.Erano i quattro d'ottobre, quando i nemici, preso terra, e ordinatisi in pit squarire, baldanz si | 1 o il 11ti -- lo ii il solº a li l e, si ill  via l'olio al il 1 l l'olta rsi St...., l il l'1.  1 | | | NI) EI? (..AS.A SI' A NZ V ſe i nati e slanza, cºn l rai e ad albergo, slan zare,  I 'I? I.NI ) ERE I IP.ASSI o Nimili ). 4 a ci ritornò e presa casa nella via... non vi li gitali di litorato le... »  Bocc. a colsero in gran numero chi a prendere i passi, e li ad avvisare di  lui per tutto il paese di cola fino al mare e l'art. a Floro s'ammacchiò; vedendosi poi presi i passi dell'uscita succise  Da V. « si spartirono chi quà chi là, e in un tratto presero i passi ». Fiorenz.  1 l? l.N1) EIRE l'N SAI,T (). « e posta la mano sopra... prese un salto e lussi gittato da l'aitra parte Docc.  I RENDERE UN VOLTO, UN VSPETTO sereno, allegro, soltre, giocondo, grare, terribile ecc. UN MI \SCIIIO ARI)Itli e simili lari. ('('N. ecc...  l I (; LIAIA LA MIA LE - sbaglia r la struttlet.  « Ma io mi accapiglio teco, o Materno, che aver il ti la natura l'latitatº lº « su la rocca dell'eloquenza tu la pigli male, hai cons - uito il megliº º il « attieni al peggio ». l) V. 525. l'RENDERE Q. C. IN FESTA EI ) IN GABBC) – PIGLIARE A GABBO. « Inteso il motto, è quello in festa ed in gabbo preso, mise mano in al  a tre lnovelle ». HOC ('. « Che non è impresa da pigliare a gabbo Descriver fondo a tutto l'uni  “ Verso Nè da lingua che chiami Mamma o Babbo ». Dante.  I ]RENI)ERE SC)N NO. “ Aveano ciascuno per suo letto un ciliccio in terra ampio un gomito, e lungo ti e, e in questi cotale letto prendeano un poco di sonno ). Cavalca.  I 'RESA – Pretesto, molico, Anlass, V eranlassung) AVER PRESA, 13UON V PRES \ V DIRE A FARE – opportunità, ap picco, buon gitto o  l)Al? PRESA A...... r. l)ai e. a Sesto Pompejo con questo presa di minicare Marco Lepido lo disse da ! ! iellto, lmorto di fame, vergogna di casa sua....». I)aV.  FAR PRESA. a Sono imbarazzo da leva l V la colli e le centine e l'arma dura quando la r vòlta ha fatto presa ». l)a V.  Note al verbo  Prendere  520 – E' il to take degli inglesi nelle note forme: To take delight; to take pleasure; to take cold; to take a turn; to take airs; to take a run; to take ship; to be taken ill; to take up, ecc. ecc.  521 – Conf. voce Partito, Parte l Il.  522 – Notalo bene l'uso e costruzione singolarissima di questo prendere. Torna quanto al senso, pressapoco, all'appiglialºsi, apprendersi di una cosa ad un altra. « Amor che al cor gentile ratto s'apprende » Dante – « E veggio il meglio, ed al peggior m'appiglio ». Petr video meliora, proboque, deteriora se  quor). 523 – li alla lettera il fangen (an lungen dei tedeschi. 524 – lnvece di occupare ecc. Si dice anche « dell'occhio che prende un vasto ozzi onle ». Bart. –- l)i una sedia, di un posto ven  duto e simili, dicesi che è preso. 525 – Cioè in cambio di far l'ol'alore fai il poeta.ne rarr  Le vere  Ha molti vaghissimi usi, e voglio si principalmente notare i seguenti:  I,EV AIRSI IN CONTI? ()..... . Ma vedendolo furioso levare la r battere un altra volta la moglie, leva º tiglisi allo incontro il ritennero, dicendo di queste cose niuna colpa aver la do Illna.» BUcc.  Coll dollnes a placevolezza levatiglisi incontro, prese a garrirne lo e.... » I30 ('.  “ La quale veggelidol venire, levatiglisi incontro, con grandissima festa il l'it'eVotte. » BO C'('.  LEV. A IRE I)I V. ANZI  « E non pareva potesse avere niti il 1 Imedi, pensando che quel corpo del Maestro suo le fosse levato dinanzi, ch'ella nol potesse vedere, nè toccare; e gri(lº Va..... » ('i Valt:a.  LEV AIRIE I)'INN ANZI V..... .... Veduta la alterata, e poi dirotta nel pianto, parve da levarlesi d'in manzi e fare il rimanente per via di messaggio. » I)av.a Pensonni che Malia il 1 ori il ciava a ridere e a Caltare, e a levarsi loro dinanzi a quei clie la riprendevanº duramente, e non le stava a Illire, sicchè costoro riºna e Vallo con Vie n1:1ggior dolore.» Cavalca. 600).  I.I V VIRSI IN SU PI: I RI; I \, IN (() \ | IPI A | NZA I ) I l NA COSA (Bart. (es. ! (50 l.  I,EV VIXSI IN AI, I'() . ()h Imadre carissimi, noi ti levasti in alto, perchè tu lossi Inadre di cotale figliuolo, e per lui.... anzi quanto era inaggi ºre la prosperità, tanto piu ti profondasti in umiltà. Cavalca. 60?.  I,I V VIRSI A VI () IR E I,I \ AIR IR l VI ()| è l I (50.3. LEVAR MoltMORIO bisbiglio ecc. d. q. c. I E VAR POPOLO (604)  « E ben liè.... alti esi non line o ani: Ived va le I' 1to l'lti l'll tºru si leverebbe a rumore. » l3:i l'1.leva losi il popolo a rumore, andava ogni cosa a l ulba o Giamb. il popolo della citta di Modena si levò a rumore gridando pace, e ('a ccia l'11e fuori la Signo; in e solº l: t., V ill. (i.“ Alqualiti discepoli s'avallo e (i lilda, e l'elison che alcuno di loro lo riprende Vallo le iniglia lilelle, e ci lil e li aveva levato gran mormorio del l'unguento intra tutta Itl lla g it sºli e i tutto indegnato per la ver gogna e Ile a V ed i VllI:I (I V: l' ipells lni le si levasse un gran bisgiglio i le genti, e molti gri di V le liti Illi e sa, e il ti? han:no In orto  (ies Il Nazza l'en lo... (:) V:. Salvo S i lº 'lzi non levassero popolo, attizz: tssero contro. » I3a r. Ciò li rebl o I levando pc polo il Fuli Ine si era latto ill Arnull gucci, e il bel tendo le rile: il lizie d l'ortogliesi a ruba, l'1 nave a fuoco, e la li1, V e allo li l al t.  LEVA IRI IN V VI \ | | | | VZI () N E ſe i protra riq lui e  l'iello il palese illello, le. - -s. I lilt lil e i parvoli; e nel se greto rise! V: lui l', lo l ss, levi in ammirazione l'altissimi e menti. » VI ) l'ill. S. (il'.  I l V V | | | | (()N | | (50),  ll el l e levare i conti. lle: vev: i l)i V (llll le ll ' o  sospiro...., Dari  LEV VIRSI IN COLI le reti di lei la e meller sulle spalle .... pastore, e li e o per la l a sti, il liti e riti o vandola, la si a Ievò in collo e le elle l 'i g! ea zii e les", l'ass: v.ti ovò un pover Iº e mio obbi lido lato, ed egli si levò in collo costui e portollo in lei in luogo, dove egli il servi sei mesi e lasciò la pace e la a quiet, sia per anno del prossimi » (vale a  I,lº V V | RSI I ) \ SI | )| | RI, I ) \ I ) ) I? \l ll l... l) \ I.l.(i (il l RE, l) \ SCIRI V l.IR l.. e simili. . La quale non altrimenti lo se da dormir si levasse, soffiando inco  Inilli i.... a l?o.  LEV Alt SI \ COIAS \ rale nellersi a fuggire relocemente, ed è bel modo di nostra lingua.lº dicendo queste parole Antonio, quell'animale si levò a corsa, e fuggi.» (il Villt':l.Piacermi finalmente inclilovare alcune altre maniere più notevoli a dell'ilso:  LEVARSI IN PUNT A l)I PIEI)I.  e e la madre guata va se fosse irreali, i fattori il suo dolce figliuºlo, e per  a chè ella non era molto grande, e levossi in punta di piedi, guatò in mez  « zo degli armati, e Vlde il dolce Maestro legato colle mani di dietro sic Irle l:1 di o,.... » C: Va a.  I,EV Al? E l) \ I, SA (IA ! ) l'() N | E l e il re e la l I e Nilm o U.EV \ I? E \ I, S.V  (IR() I ()NTI: II. N () \ | | | | I.... 13 (I l (rli I.EV AI? SI I)EI, VIENT(); I3art. – LEVARE LA PIAN I \ ali un edificio, di un terreno – I.E  V AR MI I LIZIE – J.E \ AI? LA LEPIRE – I E\ \ RSI AI ) IIRA, ecc. ecc.  Note al Verbo  Levare  600 - Questo le rarsi al in nanzi al l gli In vede, ma l' tirsi, andarsene ecc. I bicesi al che le reti si dannan si clicchessia, o levarsi checchessia dagli occhi e significa liberarsene, sgra varselle. lol'selo di dosso.. (olle (l'eslerà di darle, ella [ 1'0 verà sue scuse per le retrse lo d'innanzi. » Fier.Si inile: le rarsi dagli occhi checchessiat: le rare cl i dosso. « Si risolverono gli l'iorentini per bli. Inolo le rai si dagli occhi in alto e Iale ostacolo e per millma) gilisti più confortarlo. a Stol'. Sonniſ. –- I)i le rarlo mi l'ululosso Irli studiel'ò » L'occ.  (01 - Simile: salire in baldanza. « I)a si felice principio i litori salirono in tanta baldanza, come nulla potesse durare innanzi alle loro armi » Barl.  (2 - - ()sserva la correlazione (li le rarsi in alto -– hoch lalren – e profondarsi in umiltà.  603 -- Simile la frase: la r rumore di checchessia, indurre cioè a tu nullo. dare, da discorrere, prorompere il disdegno ecc. « Il quale facendo rumore che molte strade d'Italia erano rotte.... le prese a rasseſ are. » I)av.  604 Piaceini ricordare anche il nodo: essere a popolo, a rumore ec' ('.605 – Simile: « lerare le partite, p. es. della coscienza con Dio. » I3: i rt,N/lettere (Porre)  fili a quegli degli prºl e lo sel degli inglesi isº º lº gri, º l ' s ii del mettre dei fran i ' s I.  Al ii l ' - I - volgarissimi 629, nè la  li si l sl i  l  pi. Ma sono alcuni altri non corrono spedita reni e li - maniere poi di quo  l | laii (i l I t. ! ! - l - l  - ss la gran lunatica, sa l' i crº, ci: ci - il - i e il vago della frase  il sisl ei s ci, il ss; li il sia, è ad ufficio e valol e  º il signi lº i - s porli il suo proprio let i r, i -: i i no del verbo con altre pa  i. \ I soli linelle, che anzi li li  ii considerazioni e all  is | | | i l !  l sl glº: i  \ | | | | | | | | | N A S., VI A V, l SU ). (All I I I I Rl, | N A | | | | | | | | | | | | | | | | V | V (il l V l l ' Simili.  mise cinque mila fiorini d'oro contro  a mitic ', i l. -, metter su una cena a lovella da re i.... l 3 -): l l.. i. - i i lo s; i ti sul metter de'  pegni pegnº tra loro messo loro, I, nºtito pegno i - i;. - i l: i nei i ore il collo a tagliare, e i: lessano che la Verità  l); i V. : l l., (-.  il  \ | | | | | | | | | | ll piatti lº t' ('.  I mette ld, e più forte illli, Va'. (I t si -  11: -, -1; I l - e mai il tronco avrebbe i l: mettere I l il 1 fi...... (i  In li vere - i rii e assai lo il sull mettere e gel' moglia e o, Ces. 630)METTERE SIPAV EN I () - VI I I I I I E \ N I \ I () \ | | | | | | | |, A \ | | | | |.. AIETTERE A VIVIII RAZI() N. \ | | | | | | | | | | N SI El ' () e Nilli lli.  Cadde e voltandosi i ra i ple li a 'a - e rite, messe tanto spavento e odio  le i soldati si li filº roi o li I ): t: Ig it li, eſ. Quel giovane.... fu il primo a mettere in lino agli altri. I3e: 1. (ell. I ri vo:aggia li, confortarliQuando Agricola mise animo a tre coorti Bavere e lui l ingi e di venire a alle Inalli con le spade ». Da V 63 Ali (III, i se mettevi l'amore tuo. F (a Per la qual cosa, vedendola di tanta buona f riliezza, sommo amore l'avea posto ». Bocr'. « Con quei ti:lti lo avi In Irli d mirazione ». Salv. VI a ie. it - lo il I l s. ::: I l lit: i mettono inella moltitudine am.  a me, miser pensiero,.lon gli voles - Il tel rili lpe, pari o all'alltica. l tirar « d ll rallle 11ttº ». I )d V.i diedero a pensare, fecero sospet e den Verdacht erregten 63?  \IETTIEIR AI.E MI ETTEI E r. g. Il PEI I; I \ N(\ | | TT | | | | V.. STIt II) A. muggli, i niggili. MI ETTEI MEZZI e simili.  l?el ſ to loos o il fiel (il V al mette ale, l ' ll I, II ig. Vlorg.  (figura, a III, corre col gra il V el. it:  “...... nel quale era e il ratto il diavolo, e -la s a costei legati colle catene le malli e i piedi, e giti vi.. sº i e ai lo schilli e strideva co' sl1 i denti, e crudeli mugghi e strida mettea, il 1: lit, che chiunque l'udiiva spa.  ve: lta Va ». Cavalca.  Allora qllella stridento, e mettendo grandi e crudeli ruggiti, lol telr1ente l'assilli.... » (a Val n.  º il 'tli la milizia lioli nello che l'eta avea messo il pel bianco ». Bart. .... per la qual cosa non gli valse il metter mezzi e pregare. Cesari.  \I ETTEI N E. VI V | E. \ | | | | | | | V | | (i | | () \ | | | | | | | (() NT ().  “ E (Ill si ciò fosse poco, come metteva bene al suo interesse, ci si faceva girls ligia, dando ragione a chi se la comperava. Bart. -L'esser bistrattato non e' in previlegio mio o....., ma di tutti univer. saliente se onlo che il farlo gli metteva bene ». Giub." l'elisa ggiInai e delibera a quale partito ti metta meglio appigliarti, ('esari.11on perhè alla l'epillollica mettesse conto patire mali cittadini ». l): v.  nè i figliuoli, ma i rovinati; sovvertendo i cavilli dei cercatori ogni casa ». DaV. \ | | | | | | | | | N N | () M ET l'EItE IN ASSETTI, IN Alt NESE – MIET I ERE IN ESSERE di far q. e.  MIETTERE IN CAR I \ zu Pap er bringen nel tre par ècril – lo sel clou n.  e se l e la III e li e il Ille, i nto Ittendeva a mettersi in punto ». Giamb. il pll'esso (Ill sto lilli - misero in assetto di lar bella grande e lieta est: l. 13,.l'ol le e- il ribe dato o lille con Colpo del colle e del quando,e che e si luroli messi in arnese di cio che la eva l ' bisogno ». Fierenz. (si for I S il ('si il.... e – l llla la si metteva in essere di baſ taglia. l 31 lt. l)a V.Irli la bisogno mettere qui in carta (o poi le ll leo I contorni delle co -1 l Ilia l'ille..... o l8al t.  V | | | | | | | | VV () |, V \ | | | | | | | | V I \ V (V.  lolla li l'al' e sl per ol li tºlti mettevan tavola il s si.ora che l'usato  si meteSser le tavole..  \ | | | | | | | V S |; N V (\I | | | | | | | V l, A l' (C ), Mll. l l'EIRE | N VV V | N | | | | V,  l le 'il l Illia di Illesle lol o l'agielli soglio li, i li; li il mettere a sbaraglio le la Vita il, (es. i vi G3 istelli, minacciava di met ierlc a ferro e a fuoco, - t, sto lioli i l V lo i prigl n. o l8al l. 635 l  lº sa e con lì io, e, a disposto a metter la vita in avventura, e lui e il venil -, al site Ina ri. l'8art. esporsi al  pe: i  per i volo li lo del l - l at si  \ | | | | | | | | V |, N | | N | | | \ | | | | | | | | V | | | | | | V \] | I'l'll è l: l"N I)l S(() | | | )| |, I N SI | | | (\ | | | V | | V,, Nim ili.  Se.... I certo I (lelli rebl.......... ll tiro e, e ogni forza use; per metterla al niente. I 3. l.(), si va Il lino, si saprò mettervi a terra si reo pretesto. » Segn. N i letto i ri; 1, l'a! di di l: i ve: Irle fù per mettere la repubblica, se I rsſ o ll -i (V V in discordie C armi civili. l) a V.dols e si li..... ll e il V e il messo (es al'e in su le cattiviià e risse. m l)a V.MIETTEIRIE (i UERRA, CONFLITTI. discordia. dissapore, e va dicendo, tra cristiani, amici ecc. l)av. Bari. Ces.  METTER Por giù r. g. I \ P Al IRA, L'ALTERIGIA, UN PENSIEIRO, UN AI3IT (I )NE ecc. -  e tanto che, posta giù la paura del l e- e dei i atelli e lii - il colore in tal guisa si addimesticò cl io ne ma qui e son: le qu'il 1 l III I Voll. 13,  a Pon giù l'alterigia e studi:iti di prendere un viso ilare e gli vi e.» lº art . Pon giù i ferventi amori e lascia i pensieri triatli o Bo  MI ETTEI RE IN N ()N CALE \ | | | | | | | E IN I 3 ASS() - MIE I TI lº l: l N S() )() - MIE IT EIRE IN I () IRSl - \ | | | | | | | I: IN IP AI ' ()|.I.  Per lilla di lina ho messo E. ll 1 II lite in non cale ogli i l el-i (. l ' ' 1 l'ill ('il.E chi, per esser salto virili solº rosso, Spel a 4 ellenza: e sol lº l Ill Sto brama Che 'l sia di sir grandezza il basso messo. 1)ante.«... mi par necessario definire prima e mettere in sodo il sostanziale valore di alcune espressioni.... » I3art.Chi farebbe i re votare i loro tesori, pr (Il ce ne Impi sotto la III i loro popoli, e mettere in forse la loro maestà, se questa spera la non fosse? I 30.e in altro non volle prender e I - i nº di lover'a mettere in parole se lo  delle sue galli; la', e.... » I3o  MIETTERE IN V.JA con....  \li raftivella, cattivella, elia non sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aja con gli scolari.» I;  º cimentarsi, intrigarsi, avventurarsi a voltº la fa r, voler l' il cºlle agli scolari, misura le sue forze cogli -  METTER MI VNO A o per q. c.  “.... e messo mano un di di noi per un tagliente coltello, e nella logli un gran colpo...., gli spicca inno il braccio., Fiereni. e Messo mano ad un coltello, quellº apri nelle reni, Bo 3;I All. N l VI (III (S \ () \ Q. C.  - .... pose mente alla sl i 1: 1.  I s e, ponete mente le carni mostre e lui è stallino. » I3 n. 1:.  Ponete mente atroci spasimi, lil: se l: in lenti e divili la li l: i les li Se i 1.  Ponete mente effetto i li e le e il via il cºsi della lor debolezza. E  \ | | | | | | | | | | | |,((| | | SSI \ A SI N N () | ) l...... (3,,  e gli misi a suo senno, e iroli  -  \ | | | | | | | S | A N \:3S \ | | | | | | RSl Al, l'ACElAE – \ | | | | | | | SI SI | | NZ | () \ | | | | | | RSI IN | A | è (Il I (C.llESSIA – MIET | | | RS | S (| | | V () | | | \ | | | | | | | SI l N V V | V.  dal si misero al ritornare.» Bocc. I rimisero al ritornare. l 3 al E mettiamoci ai ritorno. 4, N -- li siti, si s Illal alle; te si posero al iacere. I 3:: 1........ i si metie siienzio. l 3 l: i. () il l  i VI inelli - la si mette al niego.» I ). l.le sia l i lliesto. Meini. S'era messo in prestare Scpra castella, l in tre loro entrate. »  netiersi sulle volte e lo i leggi i ve. » l?ari. cioè, tor isl l l: i veri il  si per la via, l No!:l, si mise. » l 3o.  \I E I I I I I I I I I I V \ I | A PEIR VI CI N ) da e la sua vita per Nell'all.  \ | | | | | | | | | | V \ I I V. I V S \ NI | V. I l. SOS I \ NZE ecc. Udas le ben  (''.. ll l in 1 m., 'il bis. Nel ' ' li l: osi e se c'è bisogno, mettiamoci la vita.. (i ll.(i e il (! ! !, il III le pose la sua vita per la nostra redenzione.» (: v. l ':l.«.... e lui beato che fu il primo che ci mise la vita! » Cesari. « Però vi esorto a passarli travagli per il lodo, le no, ci mettiate della sanità. » Cal O.  MIETTERE SU UNC), c) MIETTERI AI, l' N I ().  « è istigare alcuno e stimul i r, a dov e dli o la r il il na Inglilia o V Il  a lania, dicendogli il modo, lil po-sd. (del liti o lill la, o lil a. i litº, - - si chiama generalmente commettere male i l a 'ti i liolo e ! Iltro,.... r Inti o al Ilici che sia imo. Val li  Nola gli appellativi: commellinale, un teco meco: « d'uli con melli  a male, il quale sotto spezie d'amicizia vada la riferendo i testi, e ora a quelli si dice egli è un leco nero. Varchi.  METTERSI AL TIEIRZ() I (C. I )].I, (il V | ) \ (iN (). e Andavano dotto letti sto i rieg Li, messi al terzo e alla metà ! ! gli: -  dagno, a cercar le case, e le var i ti Irer -- las, i  a o l'edità colltro alla legge, i l): I V.  Note al Verbo  Mettere -. 628 – Eccone un saggio: to set al monuſ li I linellere il niente: lo.. set ad usork (porre in opera: to sel on llame li eſtere a fuo- - co: lo sºt sail nel tere vela: lo set aside mettere da parte, - - " lo set one s self (imettersi a....: so se lo m in l. ere giù -  lo se out (metter fuori, pubblica e lo pul dorn por gilt, nettere a terra: lo put in u riling In Ilere in isc l'illput in mind mettere in alti, ricordare i to put a question; lo put to death ecc. ecc.  269 – Mettere in abbandono: nelle e tulosso una cosa ecc., nellere le mani adosso, mettere sol lo l'armi; mette i si in tla i mº; mºl tersi a correre: mettersi, porsi in animo di 'jar checchessia: mettere in campo; ecc. ecc.  i30 – lndi l'appellativo messa, pallone o germoglio della pianta. « Quel rigòglio è pur vago. I rallo e l'odio dal soperchia che fanno le mºsse degli alberi, essendo il succhio... Cesari.Analogo al mettere delle piante è l'altro modo: mettere pr - sona, cioè crescere di corporali Ira.  631 – Si dice anche, con valore di egual significato, dar animo. Il modo meltersi in animo di far 1. c. vale proporsi di farla ». (5:32  (5.3.3  (3  (53,  (5.3(5  (5:3,  io m'ho più volte messo in animo.... di volere con questo nu ſolo provare se così è p. Bocc. Conſ. avanti Voce Animo.  Neh! questo metter pensiero non.... è ben altra cosa che il mettere in pensiero. -  Avrai avvertito differenza i ra il meller tarola (a, e metter la tar'ola. Il primo è la r lanchetti, dal pranzi, il secondo ap parecchiar la tavola.  Sinile mettere a repentaglio - Giuberti adopera il verbo git lare ecc. • Pronto al meno no cenno di gillare ad ogni sba l'uti/lio o.  Noli ricol (lo si allo stesso modo e valore siasi mai usata la rnia nelle e al sacco: Giul), ed altri l'adoperano in senso dii ripio, 1 e, mette da parte, far tesoro. « Debbo saper grado al Padre Curci che non abbia sdegnato di mettere a sacco la lingua e lo stile delle mie opere. Giub.  Melte mano in checchessia o di lar checchessia significa co m in cicli di palla rue e c. Col I Muno (al). 2.  (Se il m o l?a l'1 e I.  Al clersi al ritorno re, e simili, è il laniera elitica e vale accin gol si all'azione, all'ill, presa del..... Mettersi o porsi, in ge le tale, e la r q. c. è all rolla e che il cori linciare, apparecchiar si, porsi nello stato di farla. Si dice anche mettersi coll'anima e col col lo t... (Si mºlle con l'anima e col corpo al dice al la r l ich '5 st. lºl'. (ii il d.Re care  Sil primo significato è il l di poi la e, si rire. Il talu, i (Illali cosi' io llllle di ſua coli n e o di votarne il recai ed holl 1 e... 13oº'. e con il significa i resi in li lig Il al miele a recare d'una ill alil a liligi la v. ecc.  Mia poli III lil al li isl 1 l issi di quies era, e il I rili li alle 11 la Iliere: lº e' st e il no, una cosa ci l 'c li ºss lat, a far lecci es. sia, recarsi a....... liele Illilli il V e io i reati e sigilli, i ſilando condill re, ridurre, indul re, e quando i riliire. I l...., il V (l e va dicendo). .. li Ille-t Il l: l ' 1 tl i i l: - i mini recasti. I3 o 20 I - I i ls ' il - l si l: recarsi a condizione di privato. a (a s. .... sol che esso si recasse a prender 11 glie. I3. Vedi modo e sappi -, oli di l: parole il pil i recare al piacer mio. 13o. II lis- 5000 fiori il loro i litro a 1000.. ll e io la sll, di reche a rei a miei piaceri. I3o.il Vello già liledira: o gli animi d i s.it i baroni, e recatigli alla vo glia sua.» (riallil,I ti: l l'orri i- di 1. I l s. vel. l i r, casse la madre e prin cipi e..... a dover esser cori I lit '  (1 -  i Qllesti recando a suo proprio quel con il Villlierlo di I o Izi, a poco si 1611 le clle coll..... » I Bill'1. - -  l'eputaldo, considerando sullo la r pri... e Ne recava a prestigio i miracoli, e la santità ad ipocrisia. l?art. attribuiva, o aveva il conto di..... a recava la mia rettitudine ad ipocrisia. (iiil lill).. niun altro l'olila 11, di sua grandezza il V e il V l Ito dlle lipot i il ll 1 i corpi, recandosi le cose ancor di Iori il la a gloria. Da V.«... lle v'è uomo che legni di fir se Vilio della slla persona che sel reche rebbono a viltà. » I3:1 rt.Mangiavanº i carne il venerdi e il sabato, e come cosa orali ai passata e in usanza e comune, nè a coscienza sel recavano, nè a vergogna. Bart. 52, « Non si recava a vergogna di fare, bisognandolo, l'arbitro con lo dal la belti.... » Balt.« E dicesi nella storia di Santa Marta che non sia niuno che creda ch'ella desse il corpo suo a ſanta vergogna: chè quello unoli lo sarebbesollel to, le ll I ratello cogli altri su i parenti e amici l'avrebbero e li al celata, impero, le se l'avrebbero recato a vergogna.» Cavalca (528) E vi sara cli per contrario se la rechi una carica a piacere, a premio, a riposo, e.... S -:).e generalmente o il lancio, il ril ci rechiamo ad un genere di empietà e offesa a qualsivogia a ilmale, quando egli non ci dà noia?» Segn. ll – e le: l le, Fi, al di l orlìa 1 di sl, ll la l'ott 1, e 11 in fillelllo d'in sse; li t. It con 1 l ils: l ', no; i clle Vilì c'ere i - ilì molte haitaglie, ne recò a più alto principio la cagiona e oltre  - io ho veralmente era, i sse i ll, si era il V V ei lilli, il vi: ill, 'i. I l i pic lo es reit, del re doll i – l.  e/ se \, Va. l. ; le I) i l rist l li, a. l sei za niun risparmio,  N si | | | (V.I RSI | N S.  il strelto alla 1 si sta i ltto in se mediesimo si recò, e con sembiante  1 a V e a 'e ll it l aºs i tre lisse l3, i li.  | R |,(V | è SI IN VIA N () | V | | Si VI \ N () I RI (AI SI IN (() l.I.t ) (| | | ((II ESSIA  \ oi vi recherete in mano il vostro coltello ignudo, e con un malviso e tilt to tu balo V e l'anall et g ti per le sca', el a idrete dice: do; lo ſo lot, il l)i lle o il cog el'o... l ' ve. I 33llfli liti o recatosi in mano uno de' ciottoli elle 1 a volti a Vea, disse: l)el V ed si -se egli teste nelle l e lil a Calandrino, e:... o I 31...(olli e il li elobe Il., 1, li lega i recatasi per mano la stanga dell'uscio, lioni e sto prima di latte. Il 1 le pel si la stanga le raddo di malmo.» I el l /.e recatosi suo sacco in collo riposo ni li che egli ehloe  vinto il ſolito.... 13: l'I.  l: I VIRSI CO) I I ESE teme le mani al petto, per riverenza, di rosione, piu'll.  i let: Illesi, e latto, recandosi cortese disse.... » Sacch.  | V | | | IN |,l (I  Iſetti, il gran tempo, sia i mas osi, ci appare chiamo a recare in a luce o all's Licht lo ingen). Giamb.r- a -  li ECARSI UBBIA DI.......  « Per dilungarsi dal morto, e Iliggi l'ubbia e le seri prº si recava le « Inolti.» Sacch.  IRECARSI A MIENTE (Itidui si a memoria, sorreni e.  a Và, e non volere oggi mai piu pecca e. Recati a mente, e vedrai che.... a I Passa V.Onde meglio è, sostenere la vergogna degli Iloii, Ini che quella di Dio, a recandoci a mente (Illello che dice la Sci Itt il ra 11 l lilol della « parlando in persona di coloro che il rollo di risori, cioe  Sapienza, is ll terril itoli le giusti; i (It.all.... » l?assa V.  IRECARE IN I N ) nellere insieme, a comunanza, in cui molo, la re un fascio ecc. ).  « Voi siete ricchissili, i giovani, li lello e le llo, i soli io: il ve voi vogliate a recare le vostre ricchezze in uno e in lar terzo possell: ore oli V oi insieme e di quelle...., senz'alcun fallo mi da il cuor di la, e, le.... Bocc.  l? EC.Alº:SELA (o anche recarsi assoluta non le maniera elettica e ralle offendersi, pigliare il traie, pigliare in offesa come falli a sè, o coll'a blatiro della persona, o coll'espression della cagione ecc.. e recaronsi che gli aretini avesso i loro rotta la pace, a V Ill. « Checchè egli l'abbia di III detto, io no, voglio, che il vi rechiate, e se 11oli corile da uno ubbriaco. o 13, la consideria oli le c, fatta vi da un ubbriaco).  -in da 11 a V I  Nota al Verbo  Recare 526 – Simili i modi: recare a fine, a perfezione checchessia cioè ſi nirlo, perfezionarlo, recarsi a menſe, recare in uso ecc. V. il presso.527 – Nota qui la frase: recarsi checchessia a coscienza, ciºè lº ninrderne la conoscenza, e simili.52S – Così dicesi recarsi checchessia a noia, a onore, a Ilºil, º lº  rore ecc. cioè stimar nojos, ecc., reputa il “ Mi liº una grande ingiuria a stili, mi di si p o giudizio che ll il  mi debba ripulare a farore, che li esser N. N. si degli di stºri verini ». Cal'.F corta re  Al l lano i rili Is, elellico di portarsi per portar rici. Qui vogliº lisl rilenzi, il re alculli usi notevolissimi e ina niere assai fre le li sºllia per il la ai classici quello che li li fa il moder li e poco spello del pari tre latliano, cioè l'uso del verbo portare a va lore di esigere, richiedere, in prorla e, comportare, sopportare e simili; e le maniere: portati dolo e, poi, la r no a uli che chessia: portar osservan sot, onore, ricerca sa, l ispello a lui li sssia, portar amore; portar pena: portar per i lenza; portati pericolo di al'.... poi la r il pregio valer la pena: portar opinione. I rl (es. porla in pace checchessia: portarsi d'ai il no e Val di elido  () i noli e gli ºri Ilde - i tizi ile, lollo prº sstuma oltre alla sua forza, e fa cia le imprese piu che non porta il sito potere? » l'assav. e lº sta che i polelli ssilli dispor di lei, e se non quanto porta e il dovere. » (all'o.Nelle passioni l'a lliIl r. Il liti S.s: lite portar dov: ebhe la sua lla il ril, lIl l.. ll la V, º l?a l'lo.Il segreto della profondi - si lli: za di l) lo portava, che solamente dopo 10 secoli.... » Cers.a Vennero le due g lov il lette il dile giallo) e di zºld º do bellissime con due grandissimi piatelli d'argento in mano pieni di varii 1 litti secondo. lle il 1 l... loli portava. o lºMla io credo IV e ne dett pil re assai. A |fe si a quello che porta il tempo, 11 le lilt:: via l il 1 l Ces.  I:i natura del l s i porta così e io, il - e lº può altro. » (-. Non portavano quelle idee che egli dovesse avere presto un numero « o  d'i!) finite V i..... » (' -. Conservate il vostro, lion spendete piu che portino le vostre facoltà,  fuggite i vizi, seguitate la virtù. » Pandolfini..... questa volta parmi aver la cosa certa che il sogno portasse che... Ces.  a Portando egli di questi cosa grandissima noia, non sapendo che falsi,  propose di averne parere con mosse lo prele. » Bocc. So, i testimonio dell'amore ch'egli vi portava e dell'animo che le neva  di farvi grande. Caro.  l'ex donerà questa inia presunzione all'amore che le porto da fedel solº Vito l'e. » (art). ... i quali del giovane portavano si gran dolore che... » loce. « E bene bisognava ch'egli li fortificasse, chè da ivi a pochi di avevano a a portare smisurato dolore. » Cavalca,« Di che il padre, e la madre del giovane portavano si gran dolore e malinconia, che in aggiore non si siria potuta portare.» 13o.« Ma Iddio, giusto riguardatore degli alti il merili, 'e mobile Iemmina  -  conoscendo, e senza colpa penitenza portar de l'al: ru pe cato, altra mente dispose. » Bocc.  -  « Percio' lì è quando io gli dissi l'amore il quale io a costui portava, e la dimestichezza che io aveva si o, Irli capo II li spaventa, (livelli loin l..... I 3,.  le all o!'  « E da quell'ora il li illzi gli pcrtò sempre onore e riverenza. » Fioret I.  E 11 lì è da falsene il raviglia. I lil pensisse lo sterminato bene ch'el leno portavano alla persona sia o C i va. a.  « E se il confessore lo riprendesse dei suoi vizi, porti lo pazientemente: chè sono inolti che, per essere tanto umili e gli isti, spesse volte si biasi  mano eglino stessi: ma se interviene, che altri gli riprenda, non lo portano pazientemente, ma iº degli I no.... » Passav.«....porterà espresso pericolo di riceve e vergog:i e dal lillo., (iia lill).  a Sfirmiamo che pcrti il pregio rilett: s tl dl Ill st luoghi. » Segn.  a... lion portava il pregio ch V | V I rom pesi e il sonno per risponderº a III e, di cosa massimamente chi lilla II, II i V a l o  Ma sai che e' portatelo in pace. » I 3. « So tu ti porterai bene d'altrui, convien cli altri si porti di te, e Fioretti.Ajutare  L'aiutare dei pochi esempi che qui arreco non è l'ordinario e comune di presta aiuto, socco so (ail lelen, ma si rassomiglia al to help degli inglesi, nei costruiti fig.li lo help forucard, lo help of the time, to help lo ecc. ecc., e dice cosa, in generale, che cresce altrui virtù, o dà I nodo d'operare. Noterai ancora i nodi aiuta, e alcuno, aiutarsi da chec chessia; aiutare uno di una cosa: aiuta, si al lar checchessia ecc.  “.... e che l'Inilia cantasse il na. il Zone dal Lillto di l)ione aiutata. » Bocr'. (guidata, accompagnata.e Ritornò si notand piu da patira, le da forza aiutato. » Docc. sorret to, sospinto j.Fa Itisi tirare a paiiscalini ed aiutati dal mare, si accostarono al pic ciol legno. » Bocc. sorretti e sospinti.Ma quel povero Iritto, per aver a con le tar troppi vervelli, e di varie e mature, spacciata Iriente si inti e di l::i i: si iroli e forte aiutato di lavo a recci e di concime. l):tv.« Al lllla lolloni - e al 12a lo! ese, e il lile!:l ajutaio, lº rese nulov, con siglio. I 3 r..... llQlle - le parti si posso lo aiutare e collo balillage e co.i soppalli.» Fierenz 571).E se Illesio può fare il senno per se Inedesimo, quanto maggiormente Il dee 1are chi dalla opportunita, intendi necessita e aiutato o sospinto.» l30 c.Ajutava le parole col piangere, col darsi delle mani nel viso e nel letto. Se n. aggiungeva Virtti alle parole.Ma se il lla pl o la par li a lia del celerino per via di medicina se ne a prenda, con lierà lo stomaco, e aiuterà la Virtu digestiva, e farà buono il lito. » Cl es.. ll orrera a rinforzare, a ravvivare, a promuovere). « Per fare ancora i vini piccanti, saporiti e dolci, aiuta assai, dopo la prima sera, che siell 1messi... i grappoli inel tino. Soder Vit. (gi va, adopera.  Tuttavia, se la pers, ma fece quel cle eila potè, e non ci commise ne e gligenza, e ledettesi a vel i- il mio confessore, la buona fede in questo caso l'aiuta, e 'l sommo sacerdote lidio compie quello che mancò nel de  fettuoso prele, o Passav.  A.IUTARE I) A CIll.CCIIESSIA, E ANCHE DI CIIECCHESSIA. « Vedi la bestia, per cui io mi volsi, Ajutami da lei, famoso saggio e Cln'ella mi fa tremar le vene e i polsi. » IDante,(difendimi da.... ()ppure maniera clittica: aiutami a fuggire a difendermi da loi).« Or ov'è 'l naso ch'avevi per odorare? Non ti potesſi dai vermi aiu « tare? » Jac. Tod.« Anche::lolto è da col Sidlerare e da Il 1t la Vigliare che, essendo solo, tutti i 11 st.li idoli gittò il: tel l'a, e iº li ill la cosa gli poterono luocere, nè da lui aiutarsi. » Caval. (life! 1tlersi.  a Pero ('ll è: i Frances lli non atavano li Romani dalle ingiurie de I,OIII  e liardi e dei Toscani; ne il Pap 1, ne la Chiesa l ' tiranni che lo perse a guic 11t). » Vill. (i. 572.  e lo fo voto a Dio, l'ajutarmene al Sindacato. ioe d'aiutarmi da que sta cosa al...., o di li, 1 l'ere, il ll'ajuto le l...., Boc.Io vò infino a città per a illla m a Vi enda, e porto queste cose a Ser a l 3olla corri d' (i inestre, o, c le m'ajuti di non so che nn ha fatto richiedere per una comparigione.... il giull e del dificio. Bocc.a Sempre o poveri di Dio [ile!!o che lo giadagnato ho partito per  n  mezzo, la lilia Ineta col Veri e il l is tra Iletà dall do loro; e di ciò m'ha si il mio Creatore aiutato, che io ho sempre di loelle ill me - glio fatti i fil 11 l inici. n 130.  e Alberſ o d'Arezzo era te ! 111 egio, le per delolto il quale gli era addolmandato e mitra ragione: onde e si ra Intl lido a S. Franco che di ciò il dovesse aiutare. » V;1. SS. Tad.  A.I l I'.Al ' SI A......  a.... Ti o, ipo -olio rimasto dei lise le mie speranze: III lºt'e Voi, lìoll O sta inte si g l al lilot I V, di rai VV i dervi, il V e il test i pillttosto a prevaricare, e non vegognandovi, quasi clissi di al collo la lite ingorde, indisciplina e, le quali allora si aiutano a darsi bei tempo, era pola 11do per ogni piaggia, carola ndo per ogni prato, quando antivegg, no che gia sovrasta procella, Segn. s'ingegnano, pro iº lo trachten, tàchent).  Nota al Verbo  Aiutare 571 – Parla del seno delle donne che per parer più pieno si può..... 572 – Così l'ediz. fior.; – La Cro Sca e La stampa delle Soc. tip.  Class. ital. leggono un po' diversalmente: lion atavano (aiutat vano, nè liberatrano i lio mani. S e ritire  \' illo solillo al Isi pi ii e in no comuni oggidì. Si ado lº' i ''l ct ''l Nºttso, il gºl l pprensione, coscienza, notizia di chec lºssli, li guardi come il latº glise. Nota i nodi: sentirsi, sentirsi (il capo......; Nºn li re dl il 1 l gelsi, avvertirlo, la r sentire ad alcuno; N. il lir (le'l gli e' cio, li ul, l'', l'a mia l o ecc scºni lir bene, mi alle di checchessia, e simili.  lo soli i ll ella sento di me., Rocc. \ V e i tit Illa ira solº ai la lollia le quasi non si sentia. » Bocc. ll (Illi, le si alte: il letta ogni parte del corpo loro avea considerata, lls, el l -se deli a Illa, le chi ai? I n l'avesse pulito, non si sarebbe sen tºto. » Bo se al 1 o l'avesse punto mi li ne avrebbe avuto il senso). l) l'1 e le lla I d glli il test i e le ii senti al capo. » l3oce. I me ne sento alla borsa. (... ll I.  S. Bernardo di e li mi ni loro stupido e che non si sente, è più di  º  ll I ligi la lla Salt l' 1 ss. l 1 no li il senso li sè stessº, i. (olli lel quale - la i vizio della super leia, e non si sente, cade nel  V Iz lo lella lissili la del' 1 a 1 ne, e I diio palese il suo peccato, acciocchè  la co. fusione e la nla li la lel peccato brutto lo fa la risentire, che prima  er: il sensibile, l ' s sv.  \ V e I talit ezza per l ' s lllite dell'allina, che della morte del si sentia niente. ti i.a Il rumore dell' 1 al 1::: van ls li a grande, e quello che più lor gr. l V il V a el.. ll e-- oteva no sapere, il l ossero stati coloro che i pita la V e vallo. VI: (li, il l Illa 'e liti e le atl a il no altro ne calea li in aspettº i di li lov erlo in Ischia sentire, fatta armare una fregata, S I \ i ll lito. (... l 3o.  le: le [lli li elite, e con le addormentato il sente, cosi apre l'uscio e vi sene dentro. o lºo ('. \la poi che ella il senti tacer disse: o l?o « Non potrei sentir cosa alcu ma che mi osse più grata, che ierl'esser le!la slla lollolla gl azil. » (asil.si mise in cuore, se alla giovane piacesse, di far che questa cosa avreb be per effetto; e per interpositi persona sentito che a grado l'era, con lei si col venire di doversi e in lui di IRoll la fuggire. » l'8o c. 529). IPer io hº se rigli' rdat, v'av: ssi, non ti sento di sì grosso imgegno clle tll essi Illella, oliosi ill to rose, che.... » l'80cc,I a giovane d'esser pil in terra che lº mare, niente sentiva. » IBoce. (530). (ollo il tavola il solitº l'olio, così se le scesero alla strada, o Doc C,e Senza farne alcuna cosa sentire al giov., III - III Ise o il via a Bocc. “ E col mandato alla lor fa nie, le opi: ' viº, per la quale quivi son trava, dimorasse, e gli 11 -e se a 1.1o v In Is-e, e loro il facesse sentire, tiltlc e sette sl si vogliarono i l ent: i l el laglietto. » I3o.\ Vvellº le 1:ll' 11 Ille cl, (.ri, e' o, (Irlino al palo con un stio a Inico a ce la I e e fatto lo sentire i (i la l.lole, compose con lui, che quando un certo enno a esse, egli vi -- e troverebbe l'uscio aperto,  La fante d'altra parte lui nte di Ille- o si prend, fece sentire a Minghino clo (iia corilino l:ori vi. ilava e gli dissi » Bocc.  Venuſ o il dl si alleint e l -sendosi a Vl: ddi le ha 11 ovata morta, III rono alcuni clie per invidia e l dio h a l gli tto portavano, sul lita III ()11 (:il l)ll a l'ebbero fatto sentire. » le non si ppiendo per il I | tergli presta mia disposizion fargli sen tire più accornei:unc)lle cle per te. i ti collinettere la voglio 13o.  « Come il sapore del V Ilio vo clio, che per vecchiezza sente d'amaro....» Sollec. I Pist. 03.Non era nel bilono investigator. l i pieni a ve: la borsa, che di chi e di scemo nella fede sentisse., I3o.a Io il quale sento dello scemo a 17 i che lui, lei vi debbo esser caro.» Bocc. « Ed oltr'a e io disse ti co- li questi - la bellezza, che lui un fa. s|ilio) ad Il dire. Fl'ite \ Il melt, li costei sentiva dello scemo. » Bocc. 531,.  Ttl st -:) Vissililo, e riel; e se li I)io senti molto avanti. » I3t) 5.3?). Vll'ill ontro chi, colli e tº. Sente si poco avanti lelle slle file desillo e se, che di se goli si ricorda, nè sa qual si vivesse sotto gl'innullerabili stati e che nel decorso dell'eternità ha mutati, segno è che.... » l' irrcllo morl) sente molto avanti nelle regi lli delle bilolle e l'eanze.» (i illlo.  a S. Greg. S. Agost., S. Ambr., S Girol., che sono i quattro i principali dottori (li Sa.'lta Chiesa, sentono tutti concordemente l'opposto. » Segn. e Cerf:n ci sa è, che nè lileno i suoi ni: i levoli stessi ne sentono si empia mente; anzi molti ancor de genili lo reputaron profeta di gran virtù.» Segui. a I Jacobiti sollo (l'isti a 'li...., londillelli) male della fede cristiana Sen « tono. » IPºtl'. lloril. ill.e Della provvidenza degli Iddii niente mi pare che voi sentiate. » Bocc. « Allora udi: direttamente senti, Se bene intendi perchè la ripose Tra le sustanze. » Danſe (Par. 24.).e Ciascuno studias-e sopra la questioni della vision º de Santi, e faces a sene a lui relazione, secondo che ciascuno sentisse, o del pri) o del con a tro. » (i. Vill.a Del suo pelo del cavallo) diversi uomini diverse cose sentirono: Ima s pare a più. che baio scuro è da lodar sopra tutti. » Cresca Questo Inedesillo pare che senta Santo Agostino, quando parla della « l'esul'l'eziolle di Cristo. » Vled. Vit. (r.  e Virtù, dice, è diritta niente di Dio sentire e dirittamente tra gli uomini a vivere, e operare. » Caval.  Conferisca gli tutto quelio le ella sente, come farebbe a me proprio. » Casa.  Nota al Verbo  Sentire 2!) Il V el'inchineri dei tedeschi: Analoga l'altra frase (v. appresso): la c all rul sentire chi ce li ossia cioè operare fare in modo  che la non i via Venga il suo l'ecclli ecc.  lo 0 lo che li on s. Il ll grazie del 13 o accio ed altri), osservava qui il Valiolli, e ne sono del III to pl Ivo, avrei detto: « La gio valle non si accorgeva se fosse il lerra o in mal'e o, il che sarebbe dello gl. ss lallali e rile. Il lºoccaccio, invece di dire: non si accorgeva, dice: nien l Neri li ai clie è molo di dire più scello; e disponi le parole il selli e lo ſullo con molta mag gior vaghezza. Zali ell ' e io li a Lib. I.  53 | Noli e ulivo re: Senli, di scºm, o v. g. nella fede) vale nati l' aver diſello di.....; e sentir dello scemo è aver poco senno,  aver la qualità di clil è scenio. Sentir dello scemo stà da sè. e senti di scemio è predica o di checchessia.  Analogo a questo sentire è il sostantivo sentiva della nota fra se sentita di guerra.  32 .... mia egli con miglior sen lite di guerra, si era posto in ag gilato dietro alle spalle di una montagna, per rammezzal loro la via, e cogliergli improvvisi. I 3art.Stare  Lascio le definizioni, le discussioni, lascio i numerazione di qlI clie cose che o tutti sanno o nulla montano – che uscirei del mio assunto, e troppo vi sarebbe che dire a voler anche sol accennare a lui ii i modi e forme particolari dell'uso di questo verbo -, e mi starò contento ad ilculli esempi lei quali il verbo slare è ad Iso, e ad Ilicio di un valore che lnai o quasi Inai nei costrulli di una locazione moderna, cioè di chi solo sente e pensa moderna li crite.  Noterai le forme: slare checchessia ad alcuno, per convenirgli, osser gli dicevole anstehen, zustehen, ed anche per costare: stare bene per com venire, meritarc. esser ben disposto: stai si, stare per astenersi, rimanersi: slare (di checchessia per alcuno, per non essere, non aver luogo per call sa di alcullo: slare uno, due giorni ecc., per indugiare: stati si bene, ma le ecc. per contenersi: slare, assolillimetile, per non mi i versi stati e di clie chessia, per essere il ſiles', ei lo slalo, condizioni e cec.: slal e a lot I e cli ºcchessia, cioè il dicali e il l IIailili di azioli e le siglli ſi alo del Vello che seglie ecc. ecc.  I qui li II lotti per i clie oriev - olio i 't alle donne stanno che i gli uomini, il quarto pit. Il ti line e le agli il fil III l Iliolto par e la re e lui lg, si disdire. I3o.e E sev o volete essere di quella legge - se il loro, a voi sta: Ina a valli lle...., I 3 s -1 el l 1 l el Ill 'le) l.Sillito la vo' veller', s', la dovessi la r per III: li o lil II rini, che la a non mi stà. » I, rºll Zo di Mleclici. V el l l ll: l: l s;ì l II e Il non mi Sta. » I 3,.  Bene non istà a lei il clillo. A | V era la III gel'' (la ril - il sil 1 e il il ti (Il'io Sollo, '1: iStà bene l'attelldere il d all1, l'. » l 3 m. Frate, bene sta, io li e me li di roteste cos Ill:..., l o '. Frate, bene sta; baste: ebbe se egli li avesse ricolta dal fallgo. » Do. S78. e Io non son ancilllla alla quale questi ill: la III o almeniti stiamo oggi mai bene., Bocc. -i al ddi allo).2ssendo egli bianco º bi º 1 lo; e legg l'1 li o molto e standogli ben la V li il l30 ('.e io potrei cercare luita Sie:a, e non ve ne troverei uno che così ini a stesse bene e me quiesto. » Docc.« Avendo studiato a Parigi per saper la ragioli delle rose e la cagio: a di esse, il che sta bene il gentile lloli 1.. l 3o.« At colleerò i fatti Vostri (i miei il III: lliera e le Starà bene. » l'80.  a La qualcosa veggendo Stecchi e Marchese cominciavano a dire che a la cosa stava male. » l'8o c.  a.... di che noi in ogni guisa stiam male se cosl li lilllore.... » Bor ri troviamo a mal pallito).dis- l' ill V: e se avviso lui Ilai non doversi la a veduto, avesse: ina pur niente perden a lov i Si Stette. si aste i: il liss 1, il rio - a listelmell I30 ('C'. N isl, li lev si stava.. l)av. N si s si s i s; i liss.. - Si stesse, e l'80. lº l' 1: v. I l il sitº Il le stessero. V...:lle cessassero, si fer  Il luss (l ', -- ero  (i a noi o non istette per questo che egli passati alquanti di, non gli r! Inovesse sin – li pirole l 3.  Per me non iStara -: i sia. » I 3, cº.  l' egali dolo, l e se per lei stesse di non venire al suo contado, gliele  si li, ſi iss, l 3,. S!),.  Senza troppo stare t a il lino e il territo visto gli rispose. » Bocc. - il 1, sich lange besinnen).l ve: i IIIa pe: il nº te i ni ivi e no 1 po' Stare un giorno che li ssi. 3,Siette al quanti l i renz. l i no in Stara molto i l:ì l's il 1., l lel. Stando pochi giorni.... l l as it giorni. Ne stette poi guari tempo e le si. la Iltale della Illin molte ful lieta is: l BtNè sta poi grande spazio le elli, si ni la Giustizia e la potenzia il I I ) I V - -, l sºl l e.. l 3 SS0'.  l I e Ilio - li - Il d. si iellza stavasi innocentemente. » Ca \ si... li o 1 i vasi. lº, e lo statti pianamente fino all'i nia tol nata.. liocc.  (.l, polendo stare, via, - ius o è he mal suo grado a terra: i l ier'.Compa il lato l'opera sta altrimenti che voi non pensate.» Bocc. L'opera sta pur cosi, ti i sa. I l Vtloi, stare il II; eglio del miº lido. » lºt,E relet, porrete irrente le carni nostre come stanno.» Bocc.  Staremo a vedere, olle V i governel e le, Calo. Se volete chiarirvelle state ad udire. » Se n.«Che dunque mi state a dire non aver voi punto i rotta di convertirvi.» Segn.. « Non mi state a descriver di I lique il ll'Iliferi, caverne oscuro, schifezze -  º stomacose. » Segn. 881;. -  lºra i liolli all'i lli li col V e lo slal e' gran parte moli e dell' Is Ilo ſereno:  STARE CONTENTO A QUALCI E COSA con lei la serie -  ed egli rice! cò almorevolmente. La basso che stesse contento a dazi ordi  a mari. » (iiali. - e Ma siccome noi Veggiano l'appetito degli uomini a niun termine star  e contento. » Bo(C. « A me li li pare buono collli, il quale lo ista contento al suo pro  prio. » Palld.  STAIRE SOPRA SE In ne halten SS2,  a Alquanto sopra sè stette e cominciò a pensare quello che la dovesse o Bo),  Li Volse dire, senza pit | ns. vi clie e - e u ss (Il 1 l: proli: tt i Vl a guardandolo fis, nel volto, per V del e se egli diceva la V cro, le venner a Vedliti quegli occhi spal V n1 i ti...: stette sopra di se e li e però disse: l'otrebbe esser clic... Fierenz.  ST'.\ I º I, SU I,.... - - ST AIR E SI |, (il V V | | | | | | | | | ((I (). (sillli | | | 3 (- ST AIRIE SU LA RIPI I \ZI() N E. SI I, IPI N I () | | | | | A (VV VI.I.E I? I A, I) EL (()N V EN I V () I.I. - SI' A | ' I SU I. (VNI) E c'e'.  a Stavano sempre sul contradirsi e difendere la propria lt - i « Inigliore. » Bart. e Stalino Irti su la riputazione e gli ideg: « Messer lo corvo io lo paura che il vostro star sull'onorevole non vi a faccia lIlarcire in questa prigione. » Fierenz.a E stanno in ciò tanto sul punto della cavalleria che persona di Volgo « è Inai alm Inc.-- a loro col Vogli. » Bart. : gli 1 il ri., l3 l: i.  STAIRE A PETTO | ener fronte, reggere al paragone,  « si scusò col dire che non ave: gente di stargli a petto. » (iia Ilil).  STAI? I, IN FIEI)E  a Pochi ne corruppe, gli altri stettero in fede. » l)av. SI \ RE IN SOLI ECI l'UI) INE V. g. de lalli altrui prendersi briga, es serne lui lo premi tra  SI \ It I A Ll.((il crisi liti, elorca, la II nella liti... reggersi secondo... ) l  Il e no, le tuito, stava a legge ma umettana, gli si ribellò... » Bart.  S I \ I Rl l?I l l N () / e mi e' e la llo su di lui l Nilo partito – STAR BENE IN  (i \\llº E forſe da la persona SI \ RE IN CEIRV El.I () (saldo alla pr 111 ss S I \ RE \ | I \ PIR ) \ A di Probe bestelen – STAR SEN E NEI.I. \ SENI ENZ V NO a lire al visi – STARE I).AI -  I 'OCCIII () (A | | | V ().  \la V to io, che gli stava dall'occhio cattivo, non lo volle udil e....» l'occ. S | V | | | | N N | | | | | SI' A | R| | N | | N | | N N l.  (o la base del 1 al pil e quasi ai li o sta in puntelli il mondo.» Fier. si eI tto, le li se in esilio, p - e lo Io e il ti: i piè Inail o, stava in tentenne. o l: le (liz  Si ponga nelle da li Ilio all'uso del sosta livo slanza per slare, tral le mº) sl. in lui ſia i c', lino e lo micilio e c.  (il voll:i li in lato veri pla, endogli la stanza, là g: i (oln e 1 I pia e in stanza in Ille ta i ltta? Fiel enz. E come le g. a V e li palesse il partire, pur tenendo moli la troppa stanza gli osse agio e di voli e l'avil o dilettº in tristizia, se n'andò. » l 31.I ra gli alti Vlo i l o, cavaliere celebratissimo, e primo perso maggio nella dell'imperato e in petrò al padr e la stanza stabile nel. Mlea o, e per i o is reti ministri se ne spedire al regie patenti. » Bart. IPensando voler fare stanza il ga e continua fuor di Roma, e per la sei i re a l), il so solo ova rinai il consolato,... » l)a V.Note al Verbo.  Stare S7S – Questo bene sla è maniera in personale e orna all'altra: () - ſimamente, sono con voi, siamo intesi, basta così ecc.; oppure all'interiezione: capita, buono allè ecc. – Simile il modo del  l'uso: ben gli sta, cioè l'ha il ritata, e simili.  S79 – Conf. Rimanere – maniera eguale: rimane e per alcuno od - una cosa dipendere da....  SSO – Alialogo a codesto slare è il sigili il lo del trio(lo avverliale - poco slan le, non mollo slot n lº..... disse e poco slante se ne - vide il buon esito. I3a rI., se li il climpo del pari orire ess torì un bel figliuolo maschi. I3 cc.  SSI – Simile lo slare dei modi: stare al campo è iè eſsser accani palo, – stare a buona spel al nsot. Pioli di compassione il  conforlò e gli disse che a buona speranza stesse, perciocchè se.... Iddio il riporrebbe li onde lorº lina l'avea gillalo o. 13ore.  ser venuto; perchè dalla ma di e ijilala non molto stante, par- - CC (”.  SS2 - - Esprime l'alto di chi si pone al pensiero, in dubbio, in so spetto. -- I tiri la nel libblos, sostene e, sopraslaT corri a re  Si lsi ci sia le molle per lo nare a essere, divenire, diventare, lor 1 (tre il 90S, pºi renire. ridurre, ripori e, iar ritornare, iar diventare lsali\ al lile. l iuscii, l i londa e ed anche per essere di nuovo ciò che alli i ſo alla cosa ci si innanzi ecc., finalmeno per andare a stare, prendere Nl ct mi s (t.;)(! ).  l oggi, poli legali le lito, lo costruzione e l'ordine del l'azione, e lo si liri, clie lori ci ſi poi accadendo cosa tua.  lº a V v l It il il I e torna uomo Ine tll esser solevi, e lì Olì fal far l ' I l3...l'alto i a | 11 he tutt, torno li sudole, e tutto trangosciava. » Ca valca 910,\ l spill 1, si rende l'ono alla Verità, e battez z.it tornarono non solamente cristiani, ma predicatori di Cristo. » IBart.. La nl IV Coletta - I lista e torna in aria. o Fr. Glord.l)el lle tornò in istatua di sale. » CeSari. I loro pompose botteghe tornano a orciuoli e zolfanelli. » Sacc. di v si liti il collo il l essere.....() il 1 ltra il ro lo ai la tornavano al buon ll mio forse tre e mezzo. » Sacc.? E il V V elli, colle del buon cotto che a mezzo torna. » CreSc. a S1, ll ' I g Ill la l effa iornò a vero. o l?art.a (i la, la Valle, le carni i listinte... Egli era tornato ossa e pelle nuda. » (es: l l'.La caduta di lºietro torno in fondamento piu solido del suo innalzarsi le lege poi. Ces.Ogni vizio puo in grandissima noia tornare di colui che l'usa. » (ri doll dare il.... l o C.A dunque le parole di Crist, tornavano a questa sentenza... » Cesari,  a tanto lo stropiccio on a qua calda che in lui ritornò lo smarrito colore ed alqua lte delle perdute forze, e le e rivivere) Boce.a inſer ma di gravissime ed i maldite infermità intanto che la purgatura del naso e le lagrime degli occhi e il fra ido Ilmore che le usciva dagli lui, cºn le lido: il terra in ontanelli e ritornava in vermini. » Cavalca. La qual cosa ti memdo l'aolo, fuggi al deserto e quivi aspettando la fine della persecuzione, con le piacque a l)io, che sa trarre d'ogni male belle, la necessità tornò in volontà, e incominciossi a dilettare dello stato dell'eremo per amor di Dio, dove prima era fuggito per paura mondana....»  ( l'avalca. I, lu go studio della volontaria servitude, la consuetudine avea tornata in natura. » Cavalca. º sel l'eca un inferno) a casa, e con gran sollecitudine, e con ispesa il torna nella prima Sanità. Io e.  e la quale ſia inina, rapida Ilente consiln io e tornò in cenere quel poco a che l'era rimasto, o (es. le e divenir,.Ma il Si Verio tormolle all'abito e al ritirarmento..... I 3:1 I t. io e le ſei e ritornare.“ Qil lio stesso ill, la I a bbona e Io e torno il vento in poppa. onde sall'ite l'ancore, ripiglia o! I l vi i gio. 13ari. Ie e tornare,.... e Sp 111a gli 1 11:1, V., inza, i - II i cd 1, tcrnò in amicizia i parenti i degli ammazzati. » l?il l di t-se il l....... e dei suoi zii - lli di II lo ristor. tornandogli in buono stato. Bocc. 911).a Tornato il re in istato e la città come era in tranquillo.... » Bocc. i -e fosse stato il piacere a Dio di tornarlo in istato, tutto.. s - si gulalaglia Va all i lede. » I 3art. No Il Solalilei 11, avea tornato l'uomo nel primo stato. Il la a V vantaggian (loit di 1 1 cippi pill dolli l'a Vea - Il bil II la.... (.esil loIII e di.... lIl lla nella memoria tornato una novella.... » I3o c. Tacitarmente il tornarono nell'ivello., 13, riposero a l'ill ('a la clle IIIali in casa tornatalaSi..... I 30.  lIn giorno di salvato se lei lo costo: il la 'nzi alia chiesa di S. (i lill allo, a nella quale tornavano. I regim V allo I; ost l' V (st Vo Nll II lo, Ca Valca. a lº fa venire Simone, il quale torna in casa di Simone coiaio. » Cavalca fatti Aspo-toli).a colmando il dile sll Zelli che il - Itassero, e consider: ss l' in quale albergo tornava il vescovo che i veri predirato a Cavalca.  Simile al ragioni lo è il tornare delle frasi: II, (.()NT () T()IANA cioè non c'è errore i cl calici lo. I | Ierale: il collo si riproduce bene, risulta esalto, riviene 912.  TORNAIR 13ENE esser utile, di piacere......  « Coloro i quali sono grati perchè torna loro bene cosi, non sono grati se a non quando e quanto torna ben loro. » Varchi.a Scrisse quello che a suoi i teressi tornava bene di far l'edere. Bill I. e fatela quando e come ben vi torna., Bocc. l'()lº N VIRE IN A (() N (I () \...... stal utile  lºlºsa che se a Dio fosse piaciuto di prosperarla, tornava mirabil mente in acconcio al desiderio del Palavi, e a grande utile alla Corona a dl l'ortogallo., Bart.  l'() I N VI RE IN NI EN I E  lil liti º se assai, le ſtia li tutte in vento convertite tornarono in niente.. I; ) -.  l' )| | N VIRl V (il l ()| | | ((I | | | )|  la Illal e sa tornandogli alle orecchie., Fier. Il testo la r o' e tornate agli orecchi di.... » l?art.  l' N VI E \ I ) | | | | V | VIRI e c.  si pa rtl e tornosSi stare in Verona, e (ii:alm!  Note al Verbo  Tornare !)()S Sinile al tour ner dei francesi e più ancora al to turn degli in glesi: The milk, the beer, the urine, le cream, ere g thing li (ul lunn ed sour. l he jeu is going to turn christian. –  l'his young mall first intended to study Ihe lav, but after W:ards lle l urned Soldiel ecc. ecc.  909 l'illlo simile anche in ciò all'inglese: lo turn in an inn, e va dicendo.  9 () Nolalo questo modo: tornare in sudore, lornare in aria, tor mare in sangue e simili cioè diventare, convertirsi in....  !) | | Nola, la maniera: tornare alcuno in islalo, in vita etc. Co testo tornare tiene alcuanto della natura ed essere di quei ver lui che mi piadue di contrassegnare col nome di causativi (Par le 2. Cap. 2. Serie 4. Ma è l'uso e la forma al tutto singolare che vuolsi qui ancora notare.  912 – Tornar con lo simile a metter conto, metter bene, metter: me glio - è altra cosa: « Non li torna con lo recare all'anima tua  un minimo pregiudizio º Segn.Vernire  Olire alle cose delle alla parte I. Cap. IV Classe II, noterai di que sto verbo i seguelli usi:\ EN Il 3 E A.... V EN Il ' E IN....: e il ct rich o V | N | | | | CI I IE(CIIESSI \ ecc., per dire nire, la rsi, rialli rsi di..... lo ruoli e c' Nini ill, sul Pil l'as tre rulen, su I l l'ots ka) mi mi ºn e le.  gli il II pe: a lo; i erano venuti a quattro, il le All - lls-ii e dtle (e-il rl., (iia lill)..... ades, a ndo i piti leggeri di cervello, il bril iati il danari, preci pitosi i ga bligli, venne a tale che.... l)a Valz.  e assile la Itosi.... a patire la la lire, il s II', sei, con tutti gli altri st Illi e disagil.clic..., era gia venuto a un termine. lle il disagio non lo olfendeva e dell'agio noi si ci a V a (riali W e il briligen dass...., 11 -: dosi illeri, il venire a volte si furioso.... (i, allil, il (ſlale il tori, ea lilelli e il nºt e V a 1 il 1 l l li do a V e 1 - o ti il to Il sito altri 11 venuto in povertà, il ire gli il li ri.:) V:llieri, c. I I I I I I I 1, divenne a tania triSiizia e mia iin coinia il si volev l l I-; e il l. » l' 1-- I v. desiderosi vennero il 1 I l l: V.. le; e...., I 3, «... sino a tanto, he venuta discordia civile tra l ti: io e l'altro paese...., (i 1,1 mil).« Tanto pili viene lor piacevole. Ili: i to li aggi e stata del salire e dello slli (olti ro la gri V. Zza. » Bo ('.  VIEN II? | IN ()| I. IN |) ISIPI,I VZ |() N l e Nili i li V | N | | | | IN S(I R].ZI () (.() N.. V | N | | | | | N | V \ | | (i i | V V | N | | | | V..... per renire, di l riraro.  venutasene in somno furore...., l 3, ('. calo il 1 alta trisi izia e il la; iia a irli: i - I ne vengo in dispe razione. » Fit, l'.Veilezia turbata li. Il testa per lita sarebbe venuta in qualche disor dine. » (ii: Il j).a M: la Belcolo: e venne in screzio col Sero, i telli e li fa Vella....» Boc. « Non ostante che tutti venuti fossero in famiglia, uniti che mai strabo -  -, le oltre le spel ea. » I3 ge.Chi mi sta pagatore l'Io venga a dimani. » Bart. Ces. Questa parola parve lol te olltraria alla donna, a quello a che di ve nire intendeva. I 3,.  VENIRE AI) Al Ct N ) che che sia, conseguire, meritare. – VENIR | N (()N (I ) \ ENIRE I 3 EN E ad ai tirio per riuscire. arrenir bene, al maltro all'attimo. VEN | | | V ((N SEI RT () V l'Nllº I; l'()N PUNTO).  Nori gli potea venir molto polti tre li dottrina, ne di speranza, nè di autorita nè li gio! a s'avesse acquistal n. » C aro.(Il le veniva loro in concio di Il gere, ed essi ll facevano con lor sen e 11. » I3: i rt.Col forte le 'la falli e la ali lo si levar l'assedio e tutto venne bene.» Dav. MI l'asciassero a pi: el e e bilo: empo per le foreste e discorrere a Irle ben mi venisse. l' el'el./partiamo d. ordo li la sto la soro, il to he ognuno possa fare della parte sua quello che ben gli viene. Fiorenz.ma per le ogni cosa gli venisse a conserto, appena fu in porto che s'incontrò il l.... o IX I l i.\ Iſili hè dove gl ii e venisse buon punto, al re lo mostrasse. » lºart  V ENIRE, VENIR A \ VN 'I per occo, e, v. occorrere, apparire, mo strarsi, affacciarsi. -  Aguzzato lo ingegno gli venne prestamente avanti quello che dir do a vessº. » I Bot (.  « A rispondere assa glon vengono prontissime. » Bocc.  VIENIRE A l) ALCUN () ll. F AIR CIIECCHIESSIA (loccare, Jemand die lei le kommel, . A te viene ora il dover dire. o Boct'.  VENIRE AI) ALCUNO DEI CENCIO VENIRE Pl ZZ0) – VENIRE DEl. CAPRINO e simili - ed anche solo venire per venir fuori uscirne  odore, esala l'e ecc.  E quando ella andava per via, sì forte le veniva del concio che altro che torcere il muso non faceva, quasi puzzo le venisse, di chiunque ve « desse o scontrasse. » Bot ('. 920).  E se non che di tutti un poco vien del caprino, troppo sarebbe più a piacevole il pianto loro. » Bove,  Dianzi io imbiancai miei veli col sulfo...., sì che ancora ne viene. » Lipp, \ ENIRE DELLE PIANTE per reni, su, mettere, crescere, « Quella che mezzaliani ente - lo iglia, a liglia e viene. Cresc.  VENIRE ALLA MIA, ALLA | UA..... a Venuto s'è alla tua di condurmi oltre Imonti. » Vill e da hin bringen  \ EN II? MI EN ) a chicchessia - gli ºli p. I l:i, i lobi o delle  promessº e simili)  \ niti il partito il 1 e il l via lo venir meno al debito delle loro promesse.  I)a V. Risl -, si il ve: a 'I 111 ssa: l' 1 si lill la le giova il 18 di:lli,  al quale non intendeva venir meno. B si ti: 11 e 1 li della s la propria ssi,  V EN II I \ (ENI ) (). I ) I (I,N | ) (),.......  e tll (l: ll II il l:lti S1 ll verrete sostenendo. I 3 i '. e venutogli glia ridato la d... [ 1 - Vi - e se l a...... il venne con siderando., I3. Fi: no alla porta a S. Galio, il vennero lapidando., (ovale, e fattosi dall, Illia! til:: venna lor raccontando.... (- I ri. L'utilita dell'udi e le ville º si liti di ora in colloscere, e le nel venirli stirpando.» Cers.  la lo) l'o a salitificazioli (poll istal Ile! llo!) il Vel difetti, l'Il  Note al Verbo  Venire  ecc. è, in Irli Is. Il li sll l'e 'oli  920 - - V oniro (lel cºncio ll - [llella spiace  storcimenti e con l'azioni di viso e di p l'Stllil, - - - volezza o nausca che al rila di ce:icio o cosa illilipsilica che gli verrisse vedi la. scillili, il lills il 1.: -) () s 2".  Altri verbi di particoiare osservazione, del cui retto uso si adorna il discorso, ed anche l'idea prende talora maggior grazia e vigoria; e sono: accadere, acconciare, adoperare, apporre, appostare, appuntare, avvisare, bastare, confortare, cercare, conoscere, correre, divisare, entrare, fitggire, guardare, investire, lasciare, mancare, mantenere, menare, mattare, occorrere, occºrpare, ordinare, passare, pensare, perdonare, procacciare, ragionare, rimanere, rispondere, riuscire, rompere, sapere scusare, spedire, studiare, tenere, toccare, togliere, usare, itscire, vedere, volere.  Accaci e re  Il suo significato con Ilie, e proprio, e lello di arrenire per caso, inopina la mente, in lei venire, seguire ecc. Il lorno a questo non accade esemplificare che e molissilio e dell'uso anche più che non bisogni. Mla gli all i classici: l i al dissi i vagano il l sless, verbo accadere, in un senso assai pil ial, o elill Icannelli e vario. Gli esempi li diranno come alcune vo' e si rii ti: con il lotto, con il corso, ed altre con cºn il '. venir in acconcio, caler a proposito, reni e ad uopo, loccare, di parlenere, e si ilsi anche a sigilli al e, ora la r di mestieri, bisognare ecc., ed ora preceduto dalla particella non non essere bisogno, nichl brauchem ecc. (cc. Conſ. Pall. I. Cap. III. E in ende ai ancora come un sifalto acca dere si avvenga alla frase e acizi ci si direbbe sostituendo altra voce  o quello che egli pressapoco º similica.  IPerche io ho compero un podero e voglio o pagare, e fa ne ini, le altri a Iati i miei come accade, a Fiera Inz. come si l: Il tali e il costanze, o collis bell Illi Vielle, (c'e'..  lolina illo...., e iº gli risposi a ogni osa come gli accadeva. » Fier. i cioè colive.lientemente, adeguatamente, o come lui la V e ol)poi tullo',  e.... e accadendo ti serva di me, o l'iorenz. all'uopo, al bisogno).  Io potrei, per confortarla, venire per infinite alti e vie: ma non accade con una donna di tanto intelletto entrare a discorrere sopra luoghi volgoli e comuni della risoluzio. e. (i ro, non ſa di mestieri, o Illegio, lo i è oli velici e, dicevole, opportuali, i c..  Etl alla donna, a cui il  ll, lº i io li pi i lito, li: ()r elle s'aspetta? So correi qui non la grini accade. A io sto conviene, fa d'uopo. Ma dell'Ilso di Inett l'It gelift zio insieme, come nelle Real di Sl'ilari: I e di Ilioli i sigli i al rilan: e in alci e l'Italia si vede, essendo ti-, olt: a 111 inta no e 1 li l 11o-tri, a noi non accade tratta e o l?orgh. lon 1. (t, il gli si app:i: tiene a.... e a III e il rio cadesse il ri; e il vi  11e di ei, avendo rigi a: il che '...., Bo.. t.. ss, - appar lesse, , i so, li i i ll io V  Non dis-e: i a lizi (ſt 1: Io la r cadde lº do il le?, (es. o o se, a V. Vell veli:.-. ll ii l'.... accada: il la di II lº - stieri..Fece cos e colla pr -: i o!!a spada che non accade adorna le di l: I: (e, p Cirle...., (: l 'o. i liti e, iroli e le ossa ri..Qll:) !ldo il rili di leit I e II li ſi l acca dcno altre ti -si l: azioni.. (ri, Zzi. lion, li li la d'ltopt di..... E lic, chi i: istiani - li Iile ! I po a si'l citudine di sal º:: -i. ] il ce: i letti I l accade, Sia il I l II toi, le cºl ltsinglliaIlio. è lI::l 'life-ti- iII:, S.....Ali, il non accade, i 1- I lii: i g male! » Sºgli. Iila: lor: i ti lit li lit.....N li accadrà, -. -i, li d'oro il 1 l izi l: i i sta il listino giornal li le t in. i ! e col Salinis a.... l) ils IIiti in In.. Segm. non sara bi - Ogil (....Non accade per ta: to i lie i t II li' li -so di lui l'in - l'Ize. lol dl }ivi, i, l1 Il cli..... ll 1: i ', -, Il li Sºg lì.Vi bast ri e ai la s; e iº li mi l britto a o che fu commesso, mln... il mio lo; e qlla ido, altri, il e o lo o ign ra lite. A olesse e spritri, o, avvis it, lo amorevolmente che non accade. Segn, non con vie: -i - Vie. l.Il qui e disse al detto Fed rigo: \ndate a trovare un certo giovane ore e fice che ha il III e le velluto: quello vi servira li ti belli e gel o non e gli accade II io disegno: ma poi li è voi non pen-iale che di tal piccola cosa io v e in fila giro l ' ſ tiche. Inolto v lentieri vi l'iro Il m po o di di a segno. » Bell Cell (non è bisogno che egli abbia, o io gli fa ria Il litio (lisegllo.A cc orm ciare  la ssi sºlº il ro - se e se li rai ii garbo e non so che di eletto, ll Viºli alla II se la Iso i si litio di questo verbo. Guarda come, e il lilli | is ssi I, elio che non là ordinariamente il Il 1 del'11. Sgrill I l pl plio, acconi da e, assellare, disporre accon cui mi cºn le mºlle e in buon ordine al l inger, si richten, lo dress, allogare ssi i i ssa a conciati e le gambe, le braccia, la testa, ll il ct col Not, il luci col tr. (. ll 1 l. ll..... di colecisti e cut ralli, uccelli, diamanti, l'ilari e ce: lesto verbo, costrutti e maniere leggi: i dri, e li ill sigli il l più aplo e figurato.  Acconcio le braccia i li, l l io l'. (.lle si s.... e, a da l idel e.. averla veduta quali lo s'acconciava la testa. (Illanta diligenza, con qualita il ll Iel: l i - -, l SI | o! | i ti va, la V Via Va, intreccia Va, ol' il via i l lil'Il sil i l i 11 il lo e le li li sappiamo acconciare le camere, ne lar, in olte, sa le a.. si lati: lo sta si richieggono.» Bocc. E e il tro i la si pe ll it lta, la quale molti pruni e al loscelli avevano acconcio il modo di iolo o d'una capillnet a. » l'ioret, Racconciava, i le, (.es.E' e all'il: ci lire i diamanti non si possa lo acconciar soli, i l':  i, il l: -- l tra l ' o. » l8ell. Cell. i vz: ezioli e le lezza elle e si veggo:lt il lili iE si acconci i lil,......... i lor ronzini, e il lesse l ' va ige, e lº \ sl e I I I I se li ve: ero a F l'elize. I 3 r. ri è st l'illi, il ll(ili ni: elido. lle a vela l': i slis- gl tl, e g O\ el'll Ssel:ì bene. Chi libio, acconcia la grù, la II - a filoco, e col sollecitudine a cuo.VI esse l'...... preso, e per acconciar uccelli viene in notizia al -.Acconcia il tuo i i possº esser tolto....; se l:ai d. ll: acconciali per modo li si sappia sieno tuoi.... » Morell. (1. (1, il\ vello a tu qll il Coni e il figliuolo e la figliuola acconci, pensò di più a li le cliniora e il l Inglilterra e lº allogati, i messi a posto”.  Seglioli al time parlicola i manici e usi diversi del verbo Vccon cia e conciare.ACCONCIARSI p. es. alla mensa. Fior.: ed anche in significato di porsi a sedere, mettersi a giacere acconcia mente, assellarsi ecc..  Si acconciò gentil IIlell, e i ti voi:.  Egli verrà la 1 Voi il 11a bestia nera e o li liti,... (Illa ndo a costata vi  salà e Voi allora Vi Salil Salso. e colli e slls, vi siete acconcio, così a Irl) do e che se steste e ries. Vi rc II e IIiani a tito, se:iza piu o ai la bestia. »  I 30 ('.  \ ((()N (I \ ItSi esser utcconcio ut, o li lati che ce li c'Nslal ciclot I lati si, russº  gnarsi, esser disposto. Il to, tppa i cech lato.....  Io lo:l po-so acconciarmi a l el I e re.... » l 3,.  \ (livelli le li I): 111... a pl i ro a... - l'e. sospil i....  non pote; gli rendere la lei dili i donila: per i quali cosa oli | il pazienza s'acconciò a scstenere l'aver perduto la -la pl es Inza I 3,.e Io non posso acconciarmi a perdere il fi l'io a file si cal. Cesari. « Io mi sono acconcio a biasimar to I 11 che Asp), gli lotli. » I): I V.  Io sono acconcio a voler vincere Il -: i cºnti. » I 3. E come io sarò acconcio, V -st ) e alla va º lº i.  Non è ia carli e acconcia di sostenere. r i ve l Fr. (ii in l.  Quanto più se puro, piti se acccncio di ricevere Iddio e Fr. Ci lo d. Quivi volti i navi in tiri ſia rico, in acconcio di lavorarvi. » Bali.  i la V l',1: vi  m  a E ve le; do l' Argilla i in concio di cavalcare. 13o (disposto, appa  l' chi lt).... i  A((()N (I \ RSI ctconciati e atlcino (() N (I | I ((I l ESSI A conciliarsi, (te  cordarsi pacificatrsi.  \lla fine... s'acconciò col Fiore: il il li:lti i (illelli (li l si allit,  to: Il ssi iI Vleli agli 1. o V ill. (i.  Lo e pri: la II:ito il ole, per racconciarlo con Messer:) lo li Valois. o Vill. (i. ... col quale entrata in parole, con lui s'acconciò per servitore facen  a dosi elli: II; il r l: Fiºmille. » I 3 (.  Nola questa forma singolare: acconciarsi con alcuno pºi se ritore.  \CCONCI \ ItSI NEI I VNIMI ) capacitarsi. I 'carsi a crede e persua tlersi. (ili ei trul. \lti Silli SI, V ii e !:i 'li, l'Isalli, e ci sia  - acconciar nell'animo. ) aCCc: i ciar ine! l'aninno, l l3 - li V. I  distinzione e  \ ietti li ! I Ve!'l, l: (i iallllo. (ieil.  la melitoria e le |! l -, vi  E acconciare nel mio animo, e non ini parea lecita  - l - e--  l - lº s;  - li S liatori. » I 3: u. Lat.  \ (C )N (I \ A Nl VI \ / i pati si alla no le col ricevere  l Set 1 e mi cºn li li il ciliotti lº si con ll li ecc.  Vi es. (acconciasse i fatti dell'anima  t: glla le, e l a li: il 1 e il .. l l: l. sl a i (lisse 'lie egli susa, i l si che egli la voleva Z: eri Vil. SS.  I Pil (ll'.  v((() N (I \ | RS | | | | | | A N | VI \  il n. i da i falli dell'anima.  ct no io rsi in ciò che riguar N e ciate dell'anima  Il n al! Si  li: i  pilli ! sto cle vi accon - i lì piu al tempo,  V ((() N (I \ N () \ V | N V | | | | | | (il ('c'e'.  F.1:  e volesse stare a ctl i l'u.  - I l a bottega. E Vi, l Acconcio con Maestro,  la rasse  i.... l acconciateli  I tl. lillo, a io lì è inil \ l.  (N (I \ I tl. VI (Il N ) pr millo. Il tra Ilia I l. l i nºn lati lo ecc. su l ich len.  \  ii  farò acconciare i l Illia lii º l i  si tr..... lle tll ci vive: ai. » l 3o. ... Aloi li. m'acconciò questi  ll e g le I); o V el li o, o (a ri. Sll: il l lilli 1, l is s'. ll I  Il 1 littl. I);l V.  lliti sei lili la ll !! ll glie lo concierò l'eli io  lº \ IR E. I ESSI A IN A (C ) N (I ) li.... in vantaggio..., facen do cioè se r, e checchè sia a suoi lini ecc.  l?erg: lilino i lor:i, senza pil nl o pensi e, quasi molto tempo pelsato a il V e -- e, subitamente in acconcio de' fatti suoi disse questa novella. » lºoct'. ( \l) Eli li reni e, lo ma, I N A l in 1 l propºsito, reni in luglio, rec.. Qui cade in acconcio, I, i: i S. l l si i lºrº di ioso voli in..., se iTorna in acconcio l i -. I l S.,,, i Nºi voi i 11 - i  º se stiti - il re: il 1. º, a tra i -, z º di e, dal e più acconcio ci veniva,  i l ingrºssare il vo. Il V  Ad operare  Per poco che al li sappia di Lingua, si accorge ben osſo che il voi, di loperare dei seglie il I sei il pi è ai l i costi dei lorº il rio e con illo ad ºgni pelli volgare. - No ai soli a l I I I I: alopei a e bene, ma le o anche solo taloperai e, per lipo i lati si, gore, narsi, con le nei si; alope) tre, operare, la r opei a con alcuno li e..... l 'pri ti e', operati e che.... pºr lati sì, procacciatºre ci: e inali, il ciclopici ai ci... per conferi e, esser utile, gioca c', o con lo si i e oggi lo on influire.  l eggi a Iuo prò e al dile o al resi.  V i lido col e si e-s, li iii, ol, i quaie avea l adoperato per le a slie III: li I., I o el1 I (verrichtei). a ll re quariiunque adoperasse i º pr. a, an's Werk seizen). a Mi la V z1: ve il nr ad operaio i  i il 1 il lil... 13:1 rl.  Ne ſilesi, gia ch'egli vi adici rosse. l - - -o sl 11:1, l'III e l11 Il 1:1 s..., vis il l i |,, v – i V, 'l 1  l il 1 Isse, Irlett -- ed egli il pil ct, i vi l -i, iniorino ai i quali s'adoperava con l' it (... ss. (); il roli e il lil cli: a C0pera l.ene o y I l a co; i do ci i ri! tura il - ii Is Izia, - li l ad opera male e vizir - Viv | - li si diporta, Si ccntiene lº: 1 –- verfahri, vvandoli, iti).e.... li oli mi ero la gr. z,: i Si - berte a deperare, che [ileia (i (ri: la no tv e ! 1, governo di vita, ecc.)e il V, e le si illi, o il la il lili, la liene, virtuosi, troppo modesti, le belle adoperando i lileil lido - lo appregiati....» Dav. Col, iv. I l l ita 1! Il sºlfi.. niente ad opera malamente, tutto fa bene, ogni - le glova, e il s Salvani non agit perperamº. lo II el'o, il rio, dove il confortar ti vogli, si adoperare, e il e...... l: -, redo re al novelle, le soli i lilli 1 º te ti -Cosi certante iº e Ari it – V ssc, adoperò colla famiglia. » (i s. si \'.v)lli: li: Il la l o i ri: le tv l In- ll It ! ! a, e tali o col Re adope rarono. l'egi e 1, il l / s la i3 (fecero sl, operarono in modo, procacciarono).i lil:n le li so il il vi: ti ſia di m 1, operò con l'apa Gregorio -, hº.... » (1 ialml). id.)ed egli, di e, operò talmente con Cesare, s. ll e li perdonato il 1 l id.E tº it, adoperarc no gial l V el:a che... o Bal t. ferirla ndo ll ma l operarono li, il 1 e Carlo, ripassata la Mosa si torllasse llel rºg il s; I (- i........ e farebbe opera li. it la liri º la sc a lìoln n. » I) tv. id. Io vorrei che i 1, ne faceste opera di villa N.N. » Caro (vi adopera sl pressoºl li º il colle per a sua gracilità  Es ) vi il dl -: ma, in egli era il s ii ei cui i valta - at, di si' nza, di compagno, di  luogo, gli sempre adoperar tanto e S: il riori, ch... » Cesari.  che dunque a soste itali: rito dell'onore adoperano le ricchezze, che la poverta non la ia molto piu i.lilalizi? Io:. il fluisce, conferisce, giova,  « Ma loll di Ilent la ceV a, che poteva, per rientrarle lnell'allini: li la trielit parenti e li adoperare, si disperse, - Il 1 ne dove - sº, di par la rl esso stesso, lº giovane, effettuare, procacciare).  State alle li e di buona v glia; che molto più adopera il valore e l'ardire dei pochi che la inutilissimi i tumba ro, a, quando la fusse ben  t infinita. » (iiamb pro accia.. ol' 'Isre).  Si moli da ultimo la maniera: in opei a li.... i pel in fallo di.....)  lonio (i lissimo e di gran traffi o in cpera di drapperie. » lºocº. e trovato le in opera di buon garbo, di de enza e di dottrina Vill  e va l'aspettativa, mi sentii i liar, al c il rilore. (i illh.App orre  Olll' ai valori e ieller. Il proprio i tggiungere, arroga e poi so pi di Sel, il re la confusione del polso e PI 11 cipio tu del mal della il tale, con le li N appi ne........ l () ll il l i lieti di appori e il 1 - i gi li - - iulo., p e iº le: li ra i sl: i lig il '... di ripula 1 e' accusa e, in colpare all riti di qualcosa, aldossati gliela, nel lase apporre ad uno una cosa: l li il 1 i v. l i - gi; ella follia | I l il 1ale: cippo i si  Imparano Is, c live, l ' gi! I lag esempi.  I rito 1 a l er... agi 1 -- lei, e ora apporle questo per i- usi li - e.. Bo,.E- ii e il V o cl II, l ' Irli i g IIIai sonº la mente io sven t 1 at )::: V, le la cui marie e apposta al mio marito, la quale luorte io l it ti: B..E le appeni tu ad alcuni quello il 1 i il III col silio t'hai fatto e  iiii?, 13,  (r, i 'lo: i --: ci t st: l) il che mi apponete di coolnestare | e e lil iio la c. 1, l Illa.. (i illl).E Ve; 111 e il rili lag ill: r. 1 lo si, e s'appose, (l'eli t loss (sua 'Iloglie, ei sºlo a l'i! ). » Mallia ! 11.  l'att i l 'sti 1, lis - e li, il dr. Ino. l la illg. elier asse non ti apporre sti a cento.. l):ì s'. Il 21 i liti, vi resti li li lilla i lorº le co; 1 o  Corsi di relli i quei gr. ll li il mini, i l io l.go per certo che si appor rebbcno. » - n. Inoli s': i galil; e) ebbe o  Nota al Verbo Apporre  5,3 I) a º nel segno. ragionando, è il pporsi, le collge lire, o forcare il lasſo e piglia e il nel bo della cosa. Var cºlli.App ostare  (Dar posta, star a posta)  ''sl - di chicchessia o  si illeso, cioè (lulalido si: s -, l.\ - è issa e il luogo e le tipo  s'. Il V: - s ci si s s' il ct ch ein dei tedeschi,  l suo pit ) e', e in quel luºgo | | | i rt (I sua posta, con I. Parte II (I l. ll  i, i', º i apposio c;uando i lollio. si - i disse l'ogii quella :I - le glali lint re è e....  l'. I l l - l'avea apposiaia | 1 g l'allo., (i azi. Appostato il piu ienebroso tempo i l tacite,, lei, ioè nel quale il so: i s - l.: -, i lil a:. ll sell on clie:almente. ll.:is: i............... (si ll e lo appostasse sull'ingresso del Campidoglio. ll mi - la al liri o di s in ital re, di frecce e l Segì).I:: dove aveva appostato, l et al pullm: o ill sul villf 3e; n. l va o, lis- llo, i retto il colpo).VI it l'ill si Is sennaio. Si sta, la Iat il asta illega vi lo, i. Apposta ove colpisca, on a o va l), l ' orlo tutto gli l'avvenuta I l o (il l.\ v... l l ego lº appostar gli Austriaci, a..... ti tasse il la a sul pi e-iudizio. » Botta te:I n lo lo i in loli - li alidati i ti.  le r data posta il l lie tiva e noi i vlt il cli'io il vi trovi a  Quel mal. Ieri in una siette due anni a posta d'un sold it. » lo c.App urntare  'A | | | | | | | | | Il lo si ' i loli - li ai i. riprei il l 'o r.  tippli il latre il ct cosa al di la uno. l'l'ov l'. (ppm ti litri e li e.... ii.... l'i: il 1 III e appuntiti e un colp, e | illlo presi di illil: l. I gi  i - t ' ' ) - !.....  l; i si. -: i l fu appuntai o  V tº!:lli lo sono, i Padri - -, i::: ' I in pirole., I):ì v.  I  l.... I t'i.- I: - - I., fi, i I l - I li.. I ): I V , le liti, il li  il.... -; l -... l is -si l i - i l. S: 1' iot:  vi si appunterà l l i' 13 º 1. E di li a coloro la  II, il 1, Ser Appuntini., (S.  S l it  1:  AppuntoSSi che s- i  t..., I ) l V.  Appuntò coi detti l' 1 l i tutto ciò  l: 1:1 Vl:.  S. 11, l appuntò un ci: Ip o l:  film inò il capit: o o | Ianti lo ci illavº i.  Avvisare  (Avvisarsi - a v vi sco)  Allego si ripi non del verbo il livo a rristi e  I tir e risapev. le. I vv. 1 i re,  I menſe, il quale in viso a chi og:  g:iela  i Il  lº 1.. i.  s', i lice: i:l  I l il  altro, si al l o rimase agli sciope::lti l 3 l:  ali in lil (:  I )i, ci si lti liasin i d il  il; ºlio rilli - ,, l ' il 's si t. e tt l'olarsi, ordilla) e tº.  i di l: colpire il  l' -. ! ! !:ì 1 -,  i ri'app lº ri: sv )  I s II, V a 1, gl, \ si appuntar noi l - I  l ' ' il il i il  appuntare: eppur un apice, 'i  - e tutto appuntano, a  l -  i; - !:) li... la  isso il pari pt Ito, e noi  la r il riso, il vell,  I tivvisi, e. l' Ili..  issili i i -s (l' i l'i: l' " Il liti i ligi ri.. loli l'illoleri. Ira del leill ro assoluto, o prono I l hº gli sli, le il valore simile al s'avis 1 e avis dei francesi li irri in tutina i si. I ti sei sl, la si a: ci lei e co., il cili i so, se ben in avviso,  I l si ggi ci si po spelli in opera di lingua ed è a  ' s i cli l'oli gli esser:ili le liti e il prelibar l  I  l: !. I si li: al avigliosa gran  !...... v avviº arcno: lei, i - in esser velenosa dive  I il avvisava li ss e passa r. » Bocc. sup  I l.. li-:i avvisando - - iº l e dissoluti. » I30 ('. - i l avviso il s.se; desso. » Bocc. lo avvisò i li i' alcuni luogo ebbro lo II: -i, si l e o lº.i l s ! I 1... ss, il ssetto, 1 ist e dolente se ne tornò; s.l, avvisando - ti - r. -I:It i..., Bo,li-s, E e Seco avviso illi Illa, i no ll doversi I ve -- l 3o.avvisando i l e ella gii piacesse poco) trove s ii e lº.l I | tesi. ll e l: e avvisò il vocabo  l'. I ells  l'e li it, S'avvisò a coluso  ss e trova: e di... l... l ' ', | 2,. I atto e deliberò  I l e' s si s i vi e - ssi di vole sapere -: ! ed avvisossi del modo nel quale ciò gli i i l3,... l, S  (avvisati - - In che Illes o così ti faccia? Saccº. I.V -: i -. S'avviso il l li llll:n ſ l /a d'alt lº lì:a: i |....E per ivi set s'avvisò troppo bene, come egli - V. - ll ': i.Il pil), io si à il lia, s'io ben m'avviso, rispetto ad un altra assai  Il l: si Se; ll.  Se gli al riso al ris di un sinificato  ill: i go sl, lº sllo di crisi i '.: i l'avviso, le ''I I I Ilia della sua bellezza il  V i 1 l in tºs, l  \l::lli il II lili il. V e e l o il sallo avviso. l): \ « Nè fù lungi l'effel si o avviso. » B cc. « A cui 11 in era avviso, li fosse tempo da clan, l ier. e li è già per -: per l'ill Ie 'il' gli vi ad pe risse, ci il qll 'lo smarrimento non vi rimase avviso da tanto. » Bocc. 579, acc ol - rilentoe fatti suoi avvisi accettò la proposta. I3 po; id I a ta li li le e l'i cosa.siccoli le usanzi su l ess, le li fatti suoi avvisi, spedI.. 13 i fattl i s Il ri. al li,.I)omi: i lidò il pilot se vi era avviso del I a lisca il lº i rt s si s orgea  a Apple la avvisato da lui questo peso il il p. In 11 e-cºit se ne  riscosso a Ces: l'i.  Note al Verbo  Avvisare 5, S - Nola il linº al 1 al riso rsi li ti ma i sat. d i siti si il mal cosa, e vale la d ' a lei la pens. Il ct, i | I l s rie, ci - ci) ruſ e rsone'. I )i si ti li hº i risa e il noi cosa, per il rei tir lei, notarla. Appena arrisalo da lui questo peso di ieri di I e di presente se ne riscosso (esari,579 – Quanto è vago o lorev | Iesſo il is gg si direbbe: Il -  | perocchè a tali strette, non vi fu empo li peli sare, escogitare, o che altro cli si limigliari i c.  E a stare  Polli menſo doppio sensº di basſati e le seg: lili o il violi: ()nte sl'arle basta a me, cioè in è sul lirielli e li li li i lis alli: iº basto a quest'arte ho mezzi e forza per..... le lili l: i lil, le liri, l' 17 e il livalho ad imprendere... La prima è comunissima e volgare, le tre le chiali con esempi. La seconda all'incontro è maniera eletti, e di quei pochi che sentono un po' avanti nelle rose della lingulil.  Anche il bastare della frase buts/a r l'animo o Se vi basta l'ulmino di far che in accelli offritenegli Caro Conf.. il Valli l nino - è al  purito il bastare di questa seconda lo ilzi lie, e indica pressa poi esser (l'animo da tanto, giungere, per renire (l'unino a tanto, e vi dicendo.i la ro: ra. al its bastiamo, a 13occ. 5S0). - i r re i al l i rbicati e cresciuti, i il bastiamo a stir : l. bastere;li e.. 13 or sar hl) e ta......  n...... risentirle una copia i ra i on v'avv a quivi dipintore, che a  ta, nto bastasse, I le dele (li. I 3; i 1.  Note al Verbo  Bastare  ) Sſ) l'id è lo stesso lº il ci l dll e il vece, con le diremmo noi, il si delle donne lo slot l'atl e l l'uso e l'arcolaio, non disse lui slot, Ilia è assai. il so, orsi e rifigio di quelle che ama  mio per i celi è all'all ssati l'atto e 'l luso e l'arcolaio il di l': i  Cercare  E il cristalli lil e I l nl 'l Nucl e il Salili i re, slidiare con il tenzione, I l is e, il laga l', col sill' 11 lt ll ſi asi: ci ce l un libro, cercar le di se ci I citi una perso il ct -. l)i si il cc i col 1 e una città, una terra sigilli passa ossei validi.. ei clo, la co.  li oli al lilli e soli i pi:  ()li le!'a il e lilli e, V agli illi: il litigo studio, e 'l grande cercar lo il volume. o l)il lte.i Lercol 3 al 1, e, i li, li i e i buloi. » Caro (ricercare una persona sig: i ii a il l e 1 i lie i ': li.\ clotto) etti si -si il te: zo e alla metà del gua dagno, a cercar le case, e ieva l s: il 1:1, e, per trovar e li godesse lasci lita C, alla l):l V.I 'e'.rso li corcarne la divina voi omià i ll Zio, le altrui, o l'ior,  n iºgge.a Cli ben cerca tutto il vangelo forse non trovera che un siffatto acqui e sto di tanto pop lo il solo un tratto in esse mila i lle sue prediche (i ( (Ill:llito il Sola ([llesi a breve (r; i t. e S. Iºietro, a (..  º rivolse ogli diligenza - l' e di Illili i lile. ll i s loi a cercar della sa e nità. » Gianllo. Elissi: cercar: utti i mezzi. Inet r. - mi premi per ria - V el'.a Sillitti,.a Augusto cercò di successore il rasa slla. l)a A allA. - 1; 1: o lio. Indigo per il Vere....  e si liliso coli - I li stili (l: iige: z a ricercare falda a falda della Velità. » Fiel'eliz  “ El a Ve lº io cerche molte provincie cristiane, - per Lolibardia, a º al rallelo, lei passare º I II: iti, i vs en le le ali da 1 lo di Melano a l'avia,  ed essendo gia Vespl o, si s litri l'olio in 1:1 e il il l Ilio. » Boc.  Mla poi li è tutto il ponente, i senza gia i ſalti:i, ebbe cercato, i 11  t l'ito il IIIa l'e s ile 1:: 1(), i V ess: il n 13,..  «.... e pot; ei cercare tutta Siena, e io ve li troverei uno che..., Boc. a A Vell dol' cercata iutta 'a. li col e ssell gia stali o Ill l II li-i ill l'itori la re. o Fle::lz.Tutta la vita si fa a sposa l'i loliti li-simi pellegrinaggi, cercando i luoghi santi del Giappone. I 3 art.« E con i grandi ravvolgime liti Filire i quali ora alla ti inontrº la, ed ora all'opposta parte si aggira ricercandola la terra, quasi per tutto..... » (iiil Illb.  C confortare  (sc e riferta re - Conf. D is sua ciere. Pront.)  (on)orla e alcuno a qualche cosa, che si faccia q. c. ecc. e pel sili derlo, so Iarlo, in arlo, spirig, l' i lil e. S ºf I larinel è l' p oslo. N i li  per i recari e alcuni esempi.  Ed issa i beni a impa -, I li la trie e il torri li da tutti confortata al li gire, la valuti il podesta V litta, il III lo col l Ilio Viso, e ce li saldi v e quello, che egli a iei dotina li lasse B  I 'oi del suo alti i lite ri o li li lo- i' (Ill: el: otto lil (st 1, assa  preso di quivi, aveva in un io a ccnfortar Pietro che s'andasse a letto per io che tempo ne a o l'o.e primi i che di quivi si pr isson, a cio confortandogli il Podestà,  i mi odificarono il grillel statuto.... º lºFresco conforta la nipote che non si specchi, se gli spiacevoli, come ll e A 1, e ti º 1 ): Ve lei lo i si. l o.I testo ma i ti o confortati da lor parenti e amici, che riconosces se oli e voli ſessare. » G. Vill.V e il nero, il V a 11, l Il 1 confortarmelo che ubbidisse al ri. o I): I V.Gcnforto tutti a lasciar. si sa – glie, l'orazioni e comunioni Zulin::lli li, Il l i. l)a V.s confortandomi al tornarmene a casa. » Fiel' )nz. - I serio i silo il confortavano di temperarsi e di allentare l'in i siti il sil i alti ('esa ri.Se io vi -si p a le!! come tu mi conforti, l'anima mia a noi e le ai le li/ si e io ho dato la carne lli: i.... (il V.\la verido, sto o portata l'. I bias ial a ad Ell fragia, e a ciò per molte l a io li confortata - l is - e s' i lisse i olte l'ag: ille, e coll a Inaro  pi: il Quai a voi li s oi.. he a cosi i lte cose m'inducete.... »  C o noscere  (FR i cc n cos cere)  (o mosco i NI ci li tra i set. -il ii so se con noi il re de I cl.,  significa in l'ulci se il '. 'onosce il no,,, l 'ce lessic clu allro, è di s'ill il 1 I l, is. ('onosce e o riconosce e una grazia, un ja col e la.... è lov e la, il I l il lirla a... i liti rare di averla da..... -  omose, e della morte e simili li il no, vale riconoscerlo, dichiararlo eo li..... l?iu', il N.......... l ', l ' l?iconoscersi di una colpa, di un  è liſossal l.  s io mi conoscessi cosi di pietre preziose, II e io ſo d'uomini, sarei il i vi ! lle e º I, Il Matt.per quello ne mi dice lº ſietto che sa che si conosce cosi bene di q: lesti pallºni sbia vati, e lº r.o i ll (º non si conoscono  il l fſe 1 l  punto d'architettura.... » (es.  \, il donº la rispose: I o la o si: Iddio, se io non conosco ancora  lui da un altro. n l3, l. V qui - unità si conosce dal mondano lo spirito di Gesù Cristo. » (si ri. a Opera da dover far da Irlatti, il che si conoscon meglio le nere dalle bianche. » Boc.a.... perchè levati quelli, la plebe irrilla oserebbe: e riconosceriensi po scia i complici dagli amici, o l)av.  « Dal tuo I (rdere e dalla i i la lo! lla le Riconosce il grazi e l: i vi itti It. l):al 11 e.  “ Basti G e Inalli o privilegiare che in consiglio dal senato, non in corte º da giudice, si conosca della sua morte, el r. -t val del pari. l)av.  º.... e riconoscendosi dell'ingiuria atta a questi frati. » l'ioretti, e Allora egli riconoscendo la sua colpa, fece penitenza, e donandogli perdonº. » Vis. S. S. IPad.  Correre  (Disc correre)  I la molli e vari Isi e formarsi di belle maniere. Nota le principali linello e Iri III li le seguelli esel pi.  e I | rall cesi a ºltrati delit corserc la terra senza il loll col trasto. » Vill. 585)..... coli in id):i correre il regno -a loggia il clo. » IBartoli. Illustre predicatore che corre i puipiti d'Italia fra gli applausi le do a voti » (iiillo.e I (Ini di Ibi: o il r.) vi Il viate corsa questa preminenza. » (a l o. «... assai mi aggrada d', ssere co ei clic corra il primo arringo. » Bocc. 5S6. Me felice s potessi correre questo arringo i velido aiutato l'opo la del « Vangelo. » Cesari.....egli II le lesiIII, del I II lillò (li l'iri la liersi e correre la medesima for tuna che lui, nulla curando, nè la perdita della slla nave, nè il pericolo della slla Vita. » IBart.« Di sette lance che corse li rilppe cinqlle con allegrezza e meraviglia  (l'ogli tl 110. » (1 l'o. a.... queste ragioni mi conforta ono a correre anch'io la mia lancia in  questo al gºl nonto. » Cesari. a Lasserò correr questo campo della poesia a voi altri Academici che  siete giovani. » Caro affendere a quella, dal e opera alla medesima).· I l II o tempo correndo le luci la citt non perciò meno l sta inte. ontado., Bo.si li live sale e contagiosa fù l'infezione che fra loro corse quel l'a ll 3a l'1.tra gli 11 corre un intezione di febbri di... - I pessima ragione, ll... (i vzi. Nello st: 11 - che allora correva. (rilllo. I ), l'eta di Demoste le: il testa ci corre 400 anni o poco più...» Dav. 587). \: corresse spazio di un ora. l3.Corre quest'isola in lungo sette miglia, e tre sole in largo. » Bart.  Pe o mezzo a l.it, l e sa l:ndia corre di itamente da Setten I una catena di monti, e le sl - a da Call caso e scende a... » l 3: il  I agii occhi gli corse a --. I3o elle gli SS  E al cor mi corse (ia i colli e persona ſr. I l... l): i.  ln - correva per l'animo e.... » IBart.  (( I il pericolo slle liner all tizie di gran avrebbo in corso in mare. 13:1 I 1 S)  (N () l) l. | 3 | | | ill). (() | | | | | | | | | N V | | (). I | Sl.lº \ l/l () l) l....  In questo a so dove corre il servizio e l'invito d'un mio padrone. » Caro  i.  se son pi ve lo disco, cre, usato a significatº: cºn lº  ami e la scom e e, derira e ecc. si lelle che nelal.  Mii la- i ere e buon tempo per le foreste, e discorrere cc me mi venisse, l'it''.e da questo discorse un uso quasi davanti mai non usatº, che...» l'80C'e'. a io lo - i tiri la discorrimento per l'ulta la casa º Bart. - mi - nza discorrere il fine, si lan io subito alla scurre e misesi a pende, in li di quei ciuoli, o l e ºlz. Senza lºnsºlº al come sia l'elobe : il data a lillire la cos:lº.Note al Verbo  Correre 585 - l' idoperato quasi al livamente, ma con significato più esteso, figurato, che non farebbe a pezza un equivalente al letterale ('O l 'Cºm'e'.5Si - Notilla Illesla frase: col rer l'arringo, e similmente le altre che  seguono: correr una lancia, con i ri il campo ecc. Si - Noli ſtesſo impersonali ci col re. I corre di questi sei ripi, è del tempo e del luogo che, fila si scorrendo, prende e traccia di ill pillo all'alli o dei lo spazio I: la determina la linea.5SS –- Qui con lei e e ad uſiiclo di occurre e venire andare. Nola e frasi correre al cuore, correr per l'animo, e simili.Sº Q1 slo Iriodo: cori ei pericolo è con uno a molte al re lingue alie (i clah r lui ieri, ecc.  Divisare  Senlio questo di risare nei pochi i serpi che ſi appresso: a signi irare ci è mai rai o dimalamente a uscinander scizen dispore con ordine, scomparti, e parli e ed i licli, pensati si arrivare (cc.  li loro l'illi i i parlare i 'loli i c. v. gr., ho di risalo, mi son di risotto, per dillol: l' 'i la propos, o, deliberato, deciso, non ad esprimere, come ſarebbe chi selle e parla i alianamenſe, che si è pen safo, ha disegnato, arriserebbe che.....  a tenelidº, per la rino che la cosa -- e passa 1:1 con i giiela avea egli di visata. » Fiel eliz.a.... ed appresso ciò, che i la' e il V sse, il ritº e il silo reggimento due  rasse gli divisò » a useiirald, setzte. 13o e dagli scritti del salto trasse materia di comporre il sil: ingata Irla tel', la II Il libro, Ill e li cºl bel ': dillº diviso | Iti: la tra i cia (leil;a l'olen  zione del II loli (lo. » I3:ll'1.  «.... ed e-sendo: -s: i feriali lente dalla donna ri vili, le disse che cosi la resse l'il la r la corre Melissa, divisasse., l?o r.  a.... la donna.... 1 i clonna Ilula 1 e (iiosef Illello che vola via si la cessi da desinare. Egli il divisò, e poi Illand fil ora lo ri:lli, toltinianielli e gli a cosa, e secondo l'ordine dato, ti ovaron fatlo., lo.Voi avete divisata la cosa assai bene, sicchè mi vi pare compresa tutta e a Ilatelia dell'eleganza, o disposta, ordinati. Ces.di ſilelle sole vivande divisò a sti i cuochi per lo convitto reale.» Bocc. a Verall I e II la i lill. ll ora per te, da avarizia assalito fui: ma io la via e o con gli el l istone, le tu li redesimo hai divisato.» m'hai fatto il pil e B...  Sl, ma i Ilie la sinagolarissili la differenza, ch'io sopra vi divisava.»  lei o lì a te il sito per le usa da vel un buon scrittore, e si Il bo a al volgo. (sl se la divisavan Ilie doti, i quali.... » Ball. si elisavallo, avvisa vi 1..\l l'i mi diviso, le rimastis: Iuori quav dalla soglia, vi mirino filgl ill::ld. Segli Ini figli l'o).si che io mi diviso che non a rilisse; o i miseri di alzar occhio, non li orli: l pil le.. Se gli.11 ilare un vocabolario d'un per il: Itti i vei bl, divisatevi le nature e le proprietà di ciascuno. » Bart. do- ni di tal ne trarrazione, se non che troppo a me lungo, e forse a li legge in si evole: ills in elole, divisar qui le tante dispute chi egli ebbe.» 3:ì nºi.vestiti superbamente all'usanza, d'abiti divisati a più maniere di colori, con i filisslilli - il milli ntl... Bart.  Ermtrare  Notevoli di questo verbo le manie e bellissime  a ENTRARE. MI ENTI VIRE IN CIIECCIIESSIA, ENTRARE A...., per cominciare, prendere a latº e ecc.  lºrin la che tu m'entri in altro, dimmi, -oli io vivo o morto. » Sacch. Non m'entrate in preccnii, nè in prologhi. Quando volete (lualche cosa che io possa, basta un centro. (art.lira non a 1 le con una donna di tanto intelletto entrare e discorrere e sopra luoghi volgari e comuni della consolazione. » Caro.I) una in altra parola entrammo ne fatti della fanciulla.» Bocc.  poichè io entrando in ragionamento con un delle cºse di quei paesi,  per avv. tu a mi venne ricordato Lelio. » Filoc.  | EN l'It Ali E \ All.SS \, ENTI VIRE \ I \ Vol. V, ENTRARE A MENSA  c'Ca'.  La confessione generale che fa il prele quando entra a messa. » Pass.c ENTIRAI? E IN TIM ()I? E, IN ESI | ) EIRI (), IN PI.NSI EIRC), IN SC)SIPI, l' I (), e c (t (lice nulo.  entrata in timore - sei o III. Il cap tº re Ba 1 t. IP re i 'clie a g, ilt i, \ l). go l'e l... I mili: i le - -:llito Vivo: e º dell'ill ia 1 1: era r. ll - I ldei prossimi, entrarono in desiderio ci si pre e, in ancora spo: desse li ll, l ' t”. tº ll tº si ri' o 1.... 3 I l Iin una settii malizia entrato, i vo i es -  a l It I lilt il 1 e il -  d ENTIR ARl, ad alcuno Al Al I EV VI (E per..... ed io v'entro mallevadore per lui li l e se è le. llla III It. Fi..Chi entra mallevadore, entra pagatore. - -.: Ilss II: Il V  tº I,N | | è A | I, I | |}I; | Rl, I V | | è \ \ | ) \ |, l N (); | N I | | VI è E SA | VN I \. I; IRA \ I \ I ) I.....: - N | | | V | | | | N (i | | () SI \ e c. I ) | VI (l N (): EN V IRE NEI. (VIP ) \ I ) \ I (il Nº in cig in cui si, clarsi ad intendere, osti il dirsi (t (red º l ',  Ils. ll lo) I | riti si illi -:1; Iz.l i i dis, 7 entrò una febbri cella, e l'inna se lei III omistero.. (la Valcº.  I, qui ii a o o in a. I riti animi entrò smania nel Ilici; ve a lolli eti, dl e Vil:1. (li paz/ 1. l): i V.  per la qual cosa disse che gli entrò si gran paura º le calde il tºrº, e quasi tutto stupefatto, ſi angosciando e sud (lii n non Kyrie eleison. » Cavalra.  a Di che la Minetta accorgendosi, entro di lui in tanta gelosia che ce li  non poteva andare in pisso, l e ella non ri - --, l al! --  º  )  l'ole e col cºl ll i lili (:: 1, il... tl bol: Issº. I 3 a gli entrò nel capo li li dove li te: --... lle e-s; il vos - 1 - liotalmente vivere nella lor povertà. e 13,.  I, MI ENTRA CI ENTIRO. (ne son persuaso, mi capacita. m i quali (t. mi ra.Fuggire  l Is: s e il re il sito proprio di partirsi I l il si alla I - - llando di evitare una cosa, Nºn solº, º ssd i si la clie' ci essia, e sinii, e quando con forma tran si vi o il sito va si' al re di li alligare, la luggire, la r portar via ! I l sillili.  N Ss, le Ieggi il 1 l I fuggire.» I 3. « Fuggendo la - i liz si i vas i: in entenne ºri e o Cavalca. N fuggire il i f. sse a l?o. (l III a - l: le fuggia in chiesa e in luoghi di re I: gl -, il l V, il - ro c n una lettera che seco avea fuggita a quel  li s Il  \lo, lisl (r,, lº; i l 1.  Si il paiolo, e vale l'ergiversare, cer  ir si l gi, scappa! Io, gelli e.  v le lis lo stilli - e o il modo di prendere il battesimo, egli con si t! lle astuzia se ne fuggiva in parole, il ia i ghe giallo con promesse, l'... a lºrº rt.  Guarciare  Pongo esempi di I guai dare ad al ro uso che il suo proprio di dirizzar la vista verso il ciggello. Significa quando preservare, difen le re li ulem, bel dilem, 'lalido cusl uli e, con sei retro', e lalora anche con siderati e poi non le, gli ai lati bene, sta r bene in guai clic prendre garde), pone le dire, in gri ma 1 si ecc.  Dal qual errore desidera il no di guardare quei che non hanno l'ngua la lilla.... n 13...I lolio, il --, ti guardi la bocca, e ebl e II lili, li dirgliel, che gli si con lic Io ad imputridire., Bart. Dalla stanza poi l ddio le guardi a ni. » (..) l'. Dagli amici mi guardi Iddi, he da nemici mi guard'io.», noto proverbio). Ill IIIesso l' 1 lgiolie e il III lilliga III si ria guardato.. º Te, rarissili lo I rate, Ille, l la guarda « diligelli e Illelite. » Fiol etiia li crisi fi, al IIIe: i la guardavano il ritta Vi elit . Al fine di guardar la sua pºlvezza a l 'i:  e che guardasse molto bene l Llls 1, ii le leſi i [ll:  e bedie:lte. e fedele: e p. io guarda li: i I lilllla pel solla senta giallllli:. - sia II, il  si n. 13, S: l | | | |  º io i ſoli posso credere, le lil - te lo i « per io guarda quello che ti la li: e se l'11 e l: 3 onsidera, poi i lr 1 lite. io lion ſarei a lili si alti guarda i  ti piti di sl latte cose in ragi, li I. I3 - li ii glia i  Non accade esemplificare il rito al moli li ll Is: (il Altl) Alt I.E FEST E cioe ossei reti e lui e quello oli e presº i il lo  (il V ) \ I RI, V IN IP() (| | | () (V | | | | | N | I l its e il I ti q. c. con sler lo tsl -  -  nºn lo si ecc'. (il VI I ) \ I V S() I I I I VI IN | E c'Na mi in tl e con il l. (i l ' A IRI) \ I? I. \ (. \ VII.I? \, e Nilm ili.  Nolerai da illlllllo il ſigilli il del s II lil e o si ri.................. che guarda un all ra:  que!! piagge, le quali gt ai lava, l, l i b - lei li di qll illo, o, l rivestire  Il suo primo significa lo è quello di ill e il I ss di II la cal. d'uno slalo, d'un beneficio ecc. il cili, VIII l iris I/ l il so stalli ivo. In restitui a concessioni di dollli li \la di essi il li:  li ti in resli e il luindi 1 o, (i l  i rili –: l in resti e il mio i gl ii li –: c in cºsti di liti i v.  a enti e, d. l, poi, i - l  – cioè adoperarlo in compere o si assalirlo, all'olitarlo (ali fallen, ali in uno scoglio, in una sceca – ci è 'i - gli sll'alidell, allf cilie Sand  i.: \ (il suo in un anello investito, il c Valli era: 11.... e i I os - ini; d) l'investira altrimenti i lo; dal I ri, Iii: gli tv va, dato  e  s, li ve:lli i l. it: l investire e il.  I li, e la i si l aº, li è per molto  l,  li e li si - ll s: i gli i il tisse, si lº ric:a  li ai tanto i parti e le ore li li: l. Io investisse nelle tempia. » Caro,  «.... liles is a so di il l I e spiaggi (ii Zeila: d,  a dove investi e l II, e l3:ll  Lasciare  Lascio gli isi più contini 60i e poligo al solito alcune maniere fro quel ſenelle adopei al dai Classici, ma niente volgari e poco note oggidì.  | \ S(I \ V | R V | { l N (l \S(I \ | | | | | | | VI (U N ()  tra lo i veri a lasciate far me con lui, che voglio conciarlo si Il riti e lº.l) Iss le, l io vi sºs l, lasciate far pur me, lì e con l'io la troverò,  os a bai ei, tanto bella e Vo: li  I \ S(I \ VN | ) \ | Rl, l. \SCI Vlt ST VIRE I a lasciati di dire, l'assare in silenzio. A on ne parla ro”. \ on lire ecc.() a di: se... [llo da pozzi sono d [li, pull e, s lº elle lunga mate  ria. Lasciamo andare, l'air (Illesto e le ini, che,.. » Fr. (iiord. lºred. I rosl 1 Ile poi li e - le quai, lascio andare.. Fr. (, i..Ma lasciamo andare questa corn parazic ne,; -  al: i re si s. ll - il 1 i l Io lascio andare e li I, to! i i se' st - e il top (', - l l'oi. ll (lasciato andare - -- - lei la lr1 si rii i i li: i li: i I l g il 1 li:i re S e il se i - \li - - -- li tit. º Slº. - l.: don 1, lasciamo stare.... / es. a rl I 1. - se, o il piu' il 1, i -: i in ' t:lti li' les. I titºs « Lasciamo stare, l..... ll II, i::. - l l: Iss, l', ' di lt 11t. Il... » V ill.lo lascerò stare la rabbia: l. l s s i M. ss: -, lazio: i re: re. I 3. Mla oli e - - Il ti il V 11 i Lasciaria sia re ciº'egi i t -to - a io | Il ! io. e.. l........... () 1: - -. Lasciamo stare continuo (li I) io li li' l zi, 11 - di e 1, il il: il: il, par i (s; I l i (50!). - 1, V S(I \ I I \ N | ) \ | | | | N (:() N S \ SS (). (VI (li si di lui i lo - e (),. ll lo un man rc vescio antia r gli gi i.ascia l s -.. I) li ve li. I !, i i t -.  e lasciato andare, – i l ss (i li lasciai andare in paio di calci pi: l'i: l'. Vli lascio andare un si fatto tempi orie, (li Il I p. e I3: il FI, r,10.  I, VS (I \ | RSI \ N | ) \ | | | | | | | V Sºs - - I V  con lisce nel 'I e a.... Ne' in luti e lei i son ; - la si lasciava andare al motteggiare. l...  V ºsci..  ire in dotaria il 1: l ' il solº Irla li hit: l.. Il V l  (il l. Il tir,..... -: i  li' si lascian andare alle vogl e le liti i:  Segni, Arist IR Nota al Verbo  Lasciare  (it), Q Ielo per es., a ce lo valore elillico, di lasciar fare « Que s il 1 lili i dirlo io: liti Iddio non lo lascia. » Fr. (i:ord io di pl el', mollere, lasciar di lire ecc. t di di iroli scrivo se non la soli, rila: l'alli e parole la scio. l ' (il d. ed alle la li lasciar scritto nel testamento..... clie..... e la I Cina lasciò che vi e' in non po\ esse lorro, moglie se del silo ligliaggio. VI il Pol. ecc. ecc.\ di lascia i colli o alcuno | rascurarlo, non promilo verlo lasciati si indiel I o al no si perarlo: lasciar di fare, ecc. (il l. (''NN (I l ' () mi e't le I e Iºl ll. soli, col nullissimi e del i ls e bassi era avelli a crel II l.  (I ) S I l esso la I l: non che potesse.... oppure non clima molti i se s'ella poli's e..... ll l il..... In generale questo  lasciatmo sloti e che, lasciar stati e checchessia ecc. è quando ſolº il di livelli il che colliva i non clico, e quando significa mºlle', ', li atletsciuti e ecc., si li alll a lasciar andare.  (I )!) \ ggiIl ligi alici e li slo: "li si ispiri lascia lo stare il cli de' pitler nos li l.... l o c.(, N, ivi, di ques'a ll'ast: la scia i trialo colpi, calci ecc. l.i  v s ital, e fa gr. Il colp.  N/1 arm care  I )ell'uso di mancati e', e similmente di allire a forma transaliva (man tr. I i l etillo, il soccorsº, Valli e all' ui la promessa ecc.) se n'è par la o alla I al I 2 Cap. 2 Seric.  Il mancare dei seguenti esempi equivale ai nodi venir meno, ſar di ſello di... l e star di lare, restar di essere e simili. Ma nota singolar for lira e costi illo di un sì al incotro che non so se alcun moderno, il p co sperto cioè ed ignaro delle occaille bellezze e proprietà di nostra li igili, l'Isasse lnai.  e anc, di questo lo endeva la Maddai e ma un grande conſolio, che la mi irta di Gesù s'indugia, a pill tempo: nelle era certa non poteva mancare che non morisse, ma quel chiavello, che l'era litto ºlel cºllo e suo, lui penso la faceva spesse vol e riscuotere, e gittar degli amari sospiri. » Cavalca (620) (Juan o a... vedete che il tempo mi e tolto, domani forse non mangherò ch'io vi soddisfaccia. » l 3o.. 621).a Io non potei mancare ai molti obblighi che li ti pareva avere con ºutta « la casa vostra. » Fiel (liz venir Illello.a L'aquilla... se n'andò da Giove e lo pregò.... Giove che si teneva dae lei bell Sel Vit, nella [llisto il I (i:I lillili le, non le potè mancare.. I Z. Onile ancor sindusse a e rito, che per lui si po teva II!aggiore, pagandoli, i lile il - III - l I riti o 1 -: ni si evil, goli il e borsa di Dio che rilai non gli mancava di quanto v' - - riti a me a lºro sllo e l'alt l'lli. m I3a l't. non gli fa reva d fel!, li  Note al Verbo  Mancare ſi20 – Proprio l'aus bleiben dei cdeschi. Ma i la bell il 1 o governo e ci si l IIZl llº.621 – ()sservo i li. di Illes, c del ese, il pi. l' Iso di ill  siſal o mancati e ai sbloiben). I l personale.  N/i a nte nere  Si Ils. I 1 A il l si i li isºl V: l che è il ', e ci li ulissillo, I la ill: le li soste il l ', i rºſſº', si l' eſiſ, i c'; cli) e il clero e slm Ili. (i: la rla  i 'i ll ll 1'.  - manu e nitori di un altra g Cstra l': I l (.:I:. Mante:rere a pianta d'armi, i lil. a.... \, - ri ), l e l'i; e cli), a mantenersi, I te, I? I l. ragioni colle quali essi mantengono la ior causa. I3: r" non - ea mantenere sue ragicmi - ti li lo..... i, li: l 't a r. e semplice (r se I e ! -.... a.... e per chi l'inge o iv h e le la V [a fisica lo Tta mantener le proposizioni, i clie e gli 1, i i.  N/1 e ri a re  Ne ad Ilico gli usi e le maniere più cara. Ieristiche, frequietilissime  622,  tippo i classici. I lilello, il sile, V (ilga l'illelle. (ggiuli. \I EN VI I I VIA NI - All.N VIR I 3 VST (N VTE – MI ENAIA COLPI e simili. ll 1: V e menava l is lo le mani.» Da V. i Imei far le mani le.... » (ii:lln), (. I meitai:: in Ceip 3, l ità ell.... Fi, Uilz.  (l' - er tulla la casa, gii -- menanrio d'attorno bastonate alla l sperata, e ciò per rac i '::: l 'mena ti ma ceffata Il latita i lilla di mano I alla spada e menò un  fendente e lo tig iato un recellio.. l  i menandogli un gran colpo...  \ | | N, \! I N VI: 'I SCI di un lago, fiume...... – MENAIR \ N VI A [...... \ l.N VI R | | | | | | | – Al I.N A | è \ I \ V N '' i; i nne. I vant 2 figli di eli. - !. !. I I li i. pia di ellite si - nema i piu dolci pesciatelli di questi paesi ed l.. ssa Iar danno. 2, Fierenz. I: i i li l è l'ozze, alla I ºne man o cro. S i vii !..l. I l v..... I menava tant'acqua:I pm i I l ergli o vetture e le quali neri ino V I - I menava vermini.. (a val n. ll e illlia dell ', o di fuori gliela  "; l., i menando marcia e vermini, e un puzzo intol  l  si, il til - i lº': i  \ | | N V | | Vlt ) (i | | | | (52 Iliesti nel sima festa, per.............. l e, g i | tesse la l cha () rimis la i mera:ºsse incºglie, l'. ll di 1 l le (lulello lì ledesimo Parsin:unda menasse Efigenia, Ill o Ormisda menasse Cassandra ».  º... » lº,  \ | | N V 2, i v 11, 1, 1: i menarlo il Saverio) con c ss; 13 i: del pari. I 3': Mlſ, N.VI è SMI-AN | E  lie il Viglil I |.... l - ne menava smanie, In il a il l: il  b :ljat per poterla va le 13 c.  t 11: me itava smanie.  All.N.Al ' () IR(i () (i LI () (li..  I) esi, it , l.: 1:: il l nenare  orgoglio., I'l' se Fi  \ I f.N AIR E S | | | V (i V | N A  -, l  lorº ! ! ! !, i. nmenava ovu: ii qua si ragiº  e rovina,, (1:: Illi.  \ | | N A |  (i il li. (º 'N.  | 3 | () N l i ce li ' NN / 1 - il lui lotto 1, per il miti i lui 'cr. l al 1 l.  A | | N VI, IN | V | | | | | | “ Il N V qui \] [ N \ (il .. !. i: l '::l  IN | IM V Nl lemer a pari ole. I ciance ecc.  I nne maio il re i re giorni in parole i  I 3 l.  El! l  i  11 il pi meno per lunga ſino  I l.  i rmerava  d'oggi in dimani. B: i  (i:º:  (52  \1 l a li e on e o menava d'oggi in dimani. (- i.  i lo si si, l'. I I Ili  Note al Verbo  Menare  S i li cias si i. i issili li e v. " I ri. E volgare, ed è a 11 le lis si, i lr 1 tl, mi e' mai rsu Il le, lilli il la la niglia e fa gli menar su. Si h.  Il menati e di questi li li. pare il re tale che produrre, tre I ecati e º sil I lili.  L'u rore mi dicere le; la lini. Si rile: I rail al giudicati e al l una sl 1 e qui. N. Il cice gi li all'  al i sii isl l'allerile cli li il. I l sse e qiuali, atto alla medesi ma stre'ſ ut, (iiill). N/lutare  Tra r utare, perrr utare)  S li li ma alle li e oggidì, sulla: i la il alla liturnelite, le maniere: p, i lati si o nº i lati e li ce li ssia lui il mi luogo, da una cosa cioè toglier via, 'I si po' mi i lati e ulio ed una cosa  al li li lu. I - ll 1, i  \ I) Iss l Suff: Inarco: ()  1); 13 i bel veduto, se egii liol muta di là, i iS - opravvenga, replli o  i mutarci di qui e andarne e. 13o. il l e l'en veder lui  mºnti iava mai gli occhi da lui. m (S. I s VI tramutò a Castiglione, a sp e.i, 1 'la, le col piedli nè con  i llla, ol' (luà, ol là si tra mutava piangendo, lº(- e il telº dove ci permutiamo? »  S - e si l ss e luoghi dove l'uomo si per  N tre chicchessia del suo proponimento, si l si º li ille, la Mlad l'o e la lºadessa si sse per lui un modo la pole lel suo pl o poi, in cºn l. ll li l la ll al re dal monastero.  t i vi l I  C c correre  e di bisognare, far i sli, i i i s I, -, il ll pal i lide si con i poli e ob, a Valli, incontro, e il 1 l ' ', ci º l: in lei venire, il reen il ', reni e incontro a... –- vorkom men,  'n l I 'I ml, li mi cºn silli Ill.« Egli occorse al III si lillo il caso. I gol so se ne voglia piuttosto dire « cl'udele che strallo. » Fiel elz.« Nella prima apri lira di uº, il cccorse quei la parola... » Flor. « Dopo molte parole occorse di villa e l' a Bart.« Occorrendo le AIII e igo viene il servil e V. E. In'è pirso, poi li è per so: la fida |a, scrivere.... » al V Vell:ldo. VI: I ti: I.teneva la V [lli b. I servito ne l'a lllisto di (ialli e no: gli occorrendo per allora luogo pit si  le lis- c. ll -- sl ful  (iioVe, e le si Ilierle. Inoli le liote Iria Il 1: e, a cltro da porvi le ll v a -1 e ſa | | 0. » Fiel'eliz.  lli ll V e' ('il logli il lil, il to,.  C c cup a re  E | 11 n.... i violsi: esse e occupato da un aſ  ſello, dalla rirti di cliccchessia.  «... I l l da grandissimo sito pi qll st:  giovalle, occupato. I 3o. «.... (Illasi da alcuna i timosità (l, - occupato a V e so.  «... e l: la Virtti di II la bev: 1 la occupato... in lo ev ra Iliori, (iia Irl). Io lili Ss, il l)i, e l Il gla i ll I ssa Il II li  altra volta vi dissi, o il gi:: le pi e in molti i vi: occupato; ch'io  I lli sul pe: lo....» l': -- I v.  C rci in are  con leggi: iri. I l gli allori clas  prescrivere, nel loro in ordine III: il liclle li  (il lill li I o II l sici ti significa l'e ll ll st il colpº: il lill. cliecchessia ecc. colli e ſil, e li li si lal iil I Il lil del ll. sporre, s'abilire, di risati e, con l'ori e con clic li e ssia ali di mºlti l ', li ſu l e' N, la la ſi l'Irla: orolin (tre con atleti no, oralini rc in Nic mi e che, con l'  ('i.  (º 'C.l ordinarono V eg::leil I e tiltti e tre fos sero insieme, a e l: il l: st i ta.... lo..... se crdinatc Cine dovessero fare e dire..... I 3,. E st e, con lui ordinò d'avere ad illl'ora rid) le si gli ºli, sOrdinò con lui, il V: i villi llles (la li le lºssle le) e, Il ll lºE l evano stimola [o, e siccome  egl o avevano ordinato, i. Il 1 a 1 i lil a ze: \ are i suoi peccati....»  (v. l. E crdinarcino insieme come elle love-sero uscire Il lo; i il 1/ Ca Val:i. E li si s. p le i s / iol la; e? I doperarli in corsº lle - e il l. crdinare che niuno di lo; o per la I lOrdinata il v lo s. I l Ilioto grigia: - tlil. » I) i v.  Fassare  Nella Sez Io l' 1 l ' 2 (p. 2 Sel e 1, solo allegali esempi il Il passati e ai lo li li a usi il ct.  I soglielli in sl ratio al 1 li: l ' si e li alie e di questo verbo, note volissimo, e il I e Ilissili le s Illa pellia si classici.  lli: passa i tlc il no (t. «la banda di banda, puts sare olli e, passati e i lorni in i lisci la l le puts Noire d'uno in ali o luogo, passati al vino di bellezza, di sotp e, passa la bene, passar notissimi,  sola e simili. I l soli i pll'ic le solo alcli e oggi  (lell' Is.  I: l: vi l le passò tra loro.» I ti it)  Ml lit e passavanº il cºi si l: - lì la le!!:i  li... o lº i.  E o tiſi into le It V, e passan le cose, o l'it  l (',! l /. te lo do per te li o l la cosa fosse passata colli e gliela aveva egli  divis: ta.. o l'iter l/.  Conto lo quanto avea passato col l e Fierenz.« Le quali tutte Ccse passano su Inza a V - Vellg 11o.. » l'ier Iz. Deside. I va in il caso passa. 13,.  e - l III:: l - l si l sia  sempre mal i Irlato, il che passi,, ni III o li si s -., Sog Il. ()g! li cos: passo al contrario. l. I V. 6, lº,':ls, ci; e le CCSe il - passar bene. 13: 1.  si III dialie i cvelle ci passiamo., s - I 3 i “.. i: -1: l I l. I jel, lo ero il tie-t: -: i Ill 1: II i l:: se - ll Iss di passarserie adita niente | 3 ll, st 1, s. ll 1 (- Iº, io -, si S sa: i lei | 1. l se ne passo. I 3, ti i? I l bene passare. » (: l V l. 1:i.: l 'N. ll si It... sll (! - I i s l e Ileli |, se ne passava.:I passo mene qui ora brievemente. Vi SS. l'.lo a V ! ! ! ! ! It, passarmi al tutto di muover parola.... (iiill. - Ma per che io ci, l... - Za li Ire, mi pare di pc cr passare - al pr - li e, vi li: l la lierli lie) - Ss ('ll lo 'll C (i 1: Il 1 so di volersi del fallo commesso » da lui mansue lamente passare. I 3.ei e li i 1: o li passandosi paziente. Fior. E - l: l'agglia - se, io, Ill. Il lo ! ! ! ! I V (le, l si passava assai leggermente. -. l3 i.  Il II III: 1. ll bh, l' - rili i li li I e il... Ma me ne voglio passare di leggieri. pe. ll 11: - illili allilnali.... po;: quelli li ti  Nolti i ricorsi i lorº li: I ASS \ | | | | | | N () IN VI, I E l va il l per passare ol: ti III lili.... B i I) v e il 1 l si passare in Toscana. Ci si ri. - - - - - p, e vedendo...... - ll I |, il de / Il l l io, s'ils - lli, del a - o e passò in una gora i lì e il 1 l Z. I lanieliti passarono in icmulto. » l) i v. Iº V SS \ I? I, I ) I V l 'I V  S it | 11:1 - ss: li gli 1:1 c'evade s'inti, e le passavano in questa via; ma egli non gli all'anima di G. C.) si re -si l e. (a V al:i.Comiso, 1 la tila doll i i [llai - mi 1, lo le tu di questa vita passasti, stil a iº l ', ill: l 3 a  Dopo non guai i spaz, passo delia presente vita. » I3.  Note al verbo  Passare  () () Il passo re di Illesi i sei tipi e il rella le cle accadere, avvenire. in terreni e seguire ecc. Al: sserva particola le cosl l’ullo e for ll lt l.  (i Nola la testa litanie a passare al contrario, cioè non riuscire, avvenire col il rari Iliello - e il che la segue le passare bene', ci è l'illscire ('.  (i 12 () uesto passo rsi di una cosa si: il tal se passer de q. c. dei l'alicesi è di varia significa i me. Vaio nºn arne parola, Illasi lºol forli al sl a pal la no, lasciarlo correre, quasi lo fermarsi a pulirla: ora con le n la sene, li lasi non fermar si a ll lov e o lillicoili, e si lili un gelien, il bergehen ecc.)  (i 1:3 Scilli ilel passa, si mansu e la mente, paziente mente, le fermi cºn le e simili per non farne caso, proceder sen sul lig, l ' loli e il rall e il till ', loll dal Selle fastidio bliga (('c).  (i i l'. Il ſilenlissimo l'uso di passati e per parlirsi, andarsene da  lIl 1 ll I go.. ll ti i lo ) q c'h ('ll.  Ferm sare  Cerlamelle che a definirlo sia, come la il Tommaseo, esercitare il pen sie o | Iasi clic il pensiero si alll: cosa del pensare - sia come ſe c'ero già il lolli al rililologi, esser conscio a sè delle proprie impressioni – quello che io mi dil ei più vera nelle coscienza, non pensare, – non è Ian, facile e il rarvici e intendere il colme dei diversi usi di questo ver bo. Deliniamolo all'incolillo con più semplicità, e quello che veramente è, ſa e cioè giudizi con la mente, ed è subito manifesto e piano (così pare a me il valore logico, la ragione il lº inseca dei modi:  a pensarla –- sinonimo di lenlellarla -, sovraslare inne hallen, ille si elen, rallenere cioè la mente il riflessioni e considerazioni, sen za conchillolere, risolvere o Vellire ad allo;  lo pensare una cosa, cioè indagarla, e Ncogitarla, cercarla e trovarla  pensando:c) pensarsi, immaginare pensando - fare sè o a sè pensare, ecc. – ed anche:  d) pensare, senza l'allisso e in modo assoluto, simile ai verbi della 2 Serie, Parte 2 Cap. 2.  Non parlo dei 111 di pari sa i cui l i na cosa, pensare sopra i na cosa,  di una cosa, che è l'uso ordinario del V b pelsare. ... era li a lui la pensava, l... l), V. lº da il di illi i 21 pcnso sempre modo e via gli li p s- ll ril l'e. » Fiero lº y. e Con I liti o id) abbiamo pensato un rimedio.... l Z E siccome a Veduto loli,. p; estini i ebbe pensato quello che eri da  la ! e, e il Salil il llo il disse. l 8,  a pensò un suo nuovo tratto il: 1 st z:1. o C sa li. a Oil:ia e la Viſ n loro il c i i liv - I loss,. i: 1- li il Sel può pensare.» 13,. E si pensò il bilo n uomo che era l'elipo, d i rid: si me alla B colore. » I3. Mi disse parole, le qll al 1' mi pensai (li II: il V oi i tal gelite e Vellisse. o l): l ' i te. « Pensossi di ener modo, il quale il ddl esse.... o loce. « Sla tanto li me che pensiamo sarà presto gilari o del Il lo. » Caro 533. a Illa 11 in si a Va - lo s... Il la la III e, pen a Sando forse, che si ill a rl),, lov e l'll el', e: Il lido, V ne sarebbe e quali l'un altro si vi -:ils pe:Isa: dosi, irrina - ni ndosi. Fiereliz.  Nota del verbo  Pensare  533 -- trir den kºn er l'ird balal tricole, gi / se in \1 dl, (li lico come si è del [. e sta per ci pensiamo.  Perci con a re  (C coro ci cori a re)  Solio liolevoli sopra illlo i modi: per donare la rila ad alcuno, cioè lasciargliela, non ſorgliella: perdonare, condonare ad alcuno di fare, cioè accordargli, per le lere ecc., perlonare al jeri o al luoco e simili, slarsi. rimanervi dal applicare il ferro, il fuoco ecc., e finalmente non perdonare a denaro, a lot lica od all ro, cioè il sarne più che si può, senza riguardo ecc. l o elli v - se perdonare la vita. o l'iere 12.  ll I po V e le dosi di III, lta p. egava il leone che lo la s Isse e perdonasse gli ia vita. V, l ' i' / II; di Es po.  N perciorasse pietosamente la vita a Roma già - Il l il I I I I I I e l Si l  Perde maie, i, pcrdonate il lil, alle ricchezze, le i:ì li all'ute,  e il l i -, i isl al lilia? e. Ed a 'e la in condonisi di recar lo ve / le pendenti agli a ol'eccl I. » Se ll.Che:lol V - si ill o il litri interessi unani, io li Vi perdono ciºe arrischiate la I loa, che avventulliate | lº ri lli: zio, il che li ss i sa, i ta, li l... » Segìn. -col e gli... oi, illi, e le e' ſù perdonato al ferro e al fuoco. (ii:Tilti i 1, non perdonando a memorie, magnificenze, librerie, spi: i lito, l I e I do la V el - 1, V., – lla slal'e il nido. » I );l v.  se polesle.., 1 l l i gia che perdonereste a denaro.. Segn. \ V e perdonato a fatiche a spese a industrie, ed avrebbe tollerato di veder l illa del tri: 1 il pe: i - se poi li fa render beata?»  Fºro cacciare  llo is o V al I e il I e il I l re di pi curarsi, o procu  1 a 1 e ad al Illo che chi essi, i licl il sels, VII l essere illeso anche il  I 1 (lo: di malati e il p o ti º lo gi la di più l'allino di andare il procaccio, si e' li Is simile a quello del  p, r'alizi l'agi li lo stilope ti e' piu' al '. Si gli assi lilla nelle fare in molo, ingegnarsi, inclusi i inti si o si riiii.  (il è per or |, se | -s,l, le to e ad i vi i procaccerebbe come i 'avesse.» l '.frastaglia trieli: e vi dico, i lle i procaccerò s. viza la, che voi di nostra e brigata si ete. » I3.Volla procacciar col papa che i voli llli d 1- elisasse. » l?o. « Il llla e Veggendo la nave, sul tallenta in Irlaginò ciò che era, e coa Ina ndò ad un de lalnigli, che si li/a. Il dilg 1, procacciasse di su montarvi,  e e L, i lati. Itasse ciò che Vi 1 - - o lº.  r a )ra si procaccia Viati.i:i di avell are agli al s oli, (! elisol II: la Vellasse e loro IIIo o il milmente, e co., lilolte lag rili. (ilValca.« Procacciante in atto di mercatanzia., lº.. ) - I tos, l l Ilsl rios,. a Procacciam di salir loria che si abiti: (.li gia lo si pollici se il dl Il: l iode. » Dalì e.gli venne illio va cile i litoria, i i' si della reli gione, si, ra ils it la', pro cacciava tornare al regno. (i: i i. E pensolini che la lon:.: 11 1 1 l vi aveva del o i S. (iii) valli che - procacciasse d'andare i l leili, e Il 1:1 11  e disse loro, a dire i lic va ri-s..... - il  i: i lila i lilla. E pensº irri ste e - 1 elle e - I sl11: rr, te.... procacciava di favellare loro. (il via l. e º pe; soli i clie il vºltº il rii (- si VI: i dolina, e li ci sse: Carissili. Ma il c. v ! le li li, V e lere chi e gli scril I e F: i sei procacceranno che questo corpo sia ben guardato, e  Irla. 1 ler: li li i di l: -- li si li li li sa l bl e 11est: i stanza li li l: - tra, (. I v Sſare.Procacciando d'aver libri i -1: l silt: l o (.es: l'i..... e senili e procacciava in vero studio di accompagnarsi coi laici,  e c. l e perso le di l -si l III: ( Ragionare  Notevole l'uso di Illesi i verbo I I I I I I I I I rilisi iv livo, col caso l'ello ecc. 2, a val I e di disco, ci e, se il pli e il di pi la re, emersi parla di di checchessia ecc.  e t -, la e 1 l, i -; tiri. I ll zza. ll (iesti ila -s, e per ragionare con lui quello, lo delibe: il to Insiellº., Cavalca, a IP Srla e le m'ebbe ragionato questo l i l: i grilla li do vr ilse; a Per liò mi i ferº, del veli il pil pro-lo. a l)a te.e forse mi sarebbe igev che ragionato m'avete, a che Iriella: il rili al V Ita el l Ila. » I 3.« Come il di Ill venili o ella Inandò per Illi si sale e ragionato con lui a questo fatto. » Borc.« All (li:llmo 11oi coll e-st, il il lºonia ad Impellare che..., ma ciò non si a vuole con altrui ragionare. » lº cc.Collllll iarollo il ragionare di diverse novelle, o Bocc. -.... insieme con il rarono a ragionare delle virtù di diverse pietre.» Bocc.  E' stato ragionato quello che il maginato, avea di ragionare.» Bocc. Io gli ho gia ragionato di voi, e vlt lvi il meglio del mondo. » Bocc. “ Se io sentirò ragionar di venderla, io vi dirò si e torrolla per te.» Sacch.  Nola da ultimo i nodi: entra e in ragionamento v. Entrare: stare d'uno in all o ragiona nºn lo tre i tgionamento: cader nel ragionare, i sul l tgionali e ecc.  e.... e di questi ragionamenti in aitri stili sul ſua, lo caddero in sul ra e gionare delle orazioni li gl: i lori i l a l)io. » B cc.  Rinn a ro e re  Restare)  (ill: il da colli i lill li si l Ill li Ilsill', li, elillica nelle, il Voll)o rima nei '. I in nºi sl, per cessare, lasciati li la re ecc., ed anche dicevano ri li di me si, i 'sl di I Ni (li che lessi:i, il logo della folla ordinaria, asle lie selle, non la re ecc.e Valli il picchiar si rimane. » l'80cc. l'er g. I li, che nel e li li e di Ille, le i l onllo e le el o nido, si stoppal on i detti art firi per il lo, che si rimase il detto sucno. V Ill.Per voi non rimase, il st il dele, che egli non si il 1 les-e colle - lle 11 la Ili. l 36a Tull ti via In li vo che per questo rimanga che voi non li ne facciate il pia e vostro. 13 i n i VV e il 1. pl te! is a, si tl al msci).Per questo non rimanga che li per venil e il II lo al corpo sanlo tro Verò io le; l lodo. 13, i.a Madonna, per questo non rimanga la r il na notte o per dile, intallo che i pensi.... » Doc.a IPercio hº, quando io gli dissi al collessore l'amore il quale io a a costi li portava.... mi ero un rullo e in apo che ancor mi spaventa, di condomi, se io non me ne rimanessi, io li'a il re in bocca del diavolo nel profondo de l'i nferno. o lº e'.quanto pochI - n 1 lei che rimangonsi dalle colpe! » Segn.. () il -. o è mal I atto, e dei tll egli ve ne convien rimanere. » loce. - - - - - ess idono da alcullio loda l rossiva e inos l'avallº tra i dolori, che, pure per non dargli quella lanta noia, si rimanevano dalle sue lodi.» (es. r .... e oggi se ſiore ho di sapere, e nome, vien più da Volsi che dalli al a ringhi e voglio oggiinai rimanermene; perchè que: codazzi, riverenze ea corteggi a me sono con i bronzi e io iIII il gilli, e li riti li Il cast: li o!' « contro a Illia voglia. o I)av.º per cinque anni era con Intlalileite nel pt at, e li pil re: che se a ne potesse rimanere. » (es: ri.a sfolzil Vasi di oli dll l'1 e l: I); Vill: l 3 lit: i d i lilli olii i cºlori di - i lo a padre che restasse di più opporre imp, dillio Io...., (es. “.... ei percossº. Il lin fascio di legno, e tratti ne II: il « e nocchieru o che vi fosse, non restò mai di battermi. » Fie A. 537  Note al Verbo  l?ipararsi o al clie ripara i º il so, il II lil in qualche luogo, è rill  Rimanere 536 – Maliera elillica e vuoi dire che i lu solo di peso da lui se la costi non ebbe effello, ma che per la ri', la da lui sarebbe anzi il V Venll: 1.537 – - Aggi Iligi la frase: l in an rsi con alcuno, cioè resi il l'accor d. « e cosi gli raccollò IIa lo si era rimasto col giudice.. lierellz. | | - Riparare  giarvisi, ricoverarvisi, prendervi stallizzi, il bergo o si riili. l ipoti e rsi la checchessia, prenderne riparo, e di lenale sene, schermi il seno ecc.  e lº co-l facendo, riparandosi in casa di lil I rate! l la li  (Illivi ad Isllr: prestavano e ili pe: I lil. I d' I, ss MIli ci: Vd io e Il rito, al V Vellino che (ºgli il [..'Irld). o I3,,« Nella quale, Fiesole, gran parte riparavano le sito soldati. Aln. « Nella corte del quale il conto alcuna vol 1, l gii ed il figliuolo, per a Ver (la Illa ligiare, molto si riparavano. » I3o. «.... e avendo ll dito il nuovo riparo preso da lui.... » I 3 c. « tempeste terribili con poco schermo dell'a! | a ripararsene, per cal gione dei grandi spezza Irnelli i che vi la line, le cellule.... I a r. FRispondere  Si lis: per l en le e, l ali che si appr. pria ad usci, finestre li ries si | I go ecc.Vi si st l'1, ed ali e loro entrate,, le quali di gran vantaggio bene gli rispondevano. l'8 c.E,si i si l:n linzi li o gli rispon deva.... » I I.il rolliri to, di che gli rispondeva a stia p.'ol s olle, o Ces.  \ la ti tale sopra il maggior canal rispondea, e (Illindi s  (si d. io, e - ta la io el l altra parle dell'andit, I Gime r spondeva nei cortile..... Vl in 1/.  (::llo iella (.li es, e a tinto dal lato che rispendeva verso la casa parrocchiale, a in la I bitulo, il 1 bugi  a: il ii Il \ l: il la. Riuscire la I e di jiu il '..... in li le rispoliciere V. g., di una fi  I solº i di qualche logo.  il ri si il V lente a che il fatto riuscisse, l V e Illel inisero me li: i sliI l l: vi ll. e qui riusci la fede di Il sºlte. lti... » l al [.. 5.3S l..... il che riusciva º;; l'orto della sua casa. I leveliz. !... ll le gabbia e gli altri o il certo I, li sl re d'un palazzo che riescono sopra una bella pescaia di dettº Villa. » l'itº l'eliz.E le 'tero a dove riuscire ad cdio e inimicizia Illani le 1:1, ed il (s.  Note al Verbo  Riuscire  5:'S -- Nota anche il modo: riuscire nel contº aio (l?art. Fier. Ces: C' ('C'. IRorn pere  assolti alle il c. e di 1, il I e pºi e' ipi di isl, scoppiati e, a Isbrerli li, re nir fuori, mosl riti Ni, renire al 1 ll il 1 ot, la nulli), il ſuo Srl, il l i tic li e si il ()sserva Colle.  spia º la r la e i d g romper nelle I):ì v. che il mare ſta il lo rompe la fortuna, si i º la ve.... » Bart. Ma:ì colm pass ºli d'ºl - lo d lo c. lI l a zato a rompere in questo lamento. » (il.... Si V ) ll 11 e - I | Il ri - Ci10 ruppe la più Sfornata tempesta... » I3: it..... ll si l il Iss....... si ricco d'a ll sor, enti e pio a 'le. verno rompe, i cli è noli ha pºi il l si 3 l rt. Al romper de' primi alberi 13: e () li liseri e vili e le colle vele, il re i riposare, per lo irill (o di veli! rompete l il sit I'' | il ti» li: il tragi, l)a 1! (Convit.« IP:lrla il santo I)otlo e della penitenza, l silligli: il 7: che rcrmpono in mare. 5 (), IPass.  A 11aloghi al I o mi per e silciello, solo i lil (ii: l'olio di chi ce li ºssidi I l -, di risi) di cui i ne sfr millili e le alli: il ri: (ii Ili. l'uol li | redica o di persona e val lira hi:il di ogni vizi e delillo, si bilo il l'il': rollo palla e se l'I l ºrº al l (t poi i lil si al I olla e. A vizio di lussuria fui si rotta, (ll iil I  I: i (il bi' -ilm o ill che e' il ci li lo | 1:1,.. ); I l ' e li o di po; con roito parlare disse a I io  -, i di loro chi sono pi posti a go. erno dei legni. li enz.  !, si parti:: rotta ».  a MIozy Iºirellz. In t....ti, i a crive a rotta. si 1, ero i rossi V lillili ». CCS.  Note al verbo  Rompere , 4ſ) Quando il discorso non è di na Il giro e si vuol sare la so irriglianza del mal frigio si dice l o nº perc in m al '.Sapere  Nola il sale dei seguenli esempi, e osserva come sia usato a inves ce di conosce e, cioè il lal luogo e follia che penna volgare inon sapere di lole la conosce e lo elli in etile per saper lare, saper trovare,...... lill il sels l o spiacevoli e cagionato da checches si se pºi li rion Nat per lu nº, se per male, saper meglio,  peggio e o il  il I - sapeva ed il luogo della donna, e la  t o!: liss. 13,.  V sapete bene il legnaiuolo, Il tale era l'area, dove noi I Ille- i le lel lmondo ». ... si il gialli avi, le tl - e i llino da ni:aggiori miracoli, che lima losse, per ine sapevano bene la sua infermità di prima, e tutta la gas. s tripli di gelle (i val.i (o si º li elit: rl, impero che sapeva l'animo Stio (a V alcºl.I ll (lº vi o li sapendo la mala volontà di Alberto, (ii:alml). l'er certi ti metti da campi che a gli sapea molto bene ». Balt. Non sapea aiIro bene o vantaggio che lolli li Ino; i do ». Cosa ri.  b) l urono oli ri quanti seppe ingegno e amore ». I o.Sappi s'ella:): voi a 1 e e ingegliati di rilene) e la n. 13oce. Se e- l si, val lsi ve lel via, se noi sappiamo, di riaverlo ». l 3oce. \ li i: it: l. Il tº sappiate come stà ». I3.V e li li io e sappi se con dolci parole il piloi recare al piacer mio a. l 31  \ lorni il meglio che sapevamo l?o l?art.  a 'l'empi rirs delle cose che sanno buono alla bocca » (che piacciono, il 1 ml, rano i gusto, vanno i versi, i l:llelli, l'iol'.  a Nell'all pero di chitidere o si arta la io, per riporlo, mi sapeva male e che una storia cosi bella dove - se l'Iliialle'e lllt la via sconoscilla ». Manzoni.Note al verbo  Sapere 5 (1 – Lascio i 111 di: super gi atolo.... e noi ve lº sappiamo grado quanto Dio vel dica... Fierenz. --,saper di q. c. –..... In li li perciò che li lo sappiamo « d'armi, sono punto rimane selli. Il prolili id arri, eggiar per poco. I3art. –, ed al ricli si generalmente noti ed all che usati. Sc usare Scusare ad alcuno checchessia significa lui e per..... rale rgli checcles  sia. Scusa i si da un incarico. di un onore è l'alleli nen dei ledeschi, dispen strNene, declinarlo.  gli Scusava altresi tavolino da scrivere, (es. I) Io g! scusò .... ll Il gi! io lli: It i li (. Il lun atto di III: rivºglio - a 11 in Ita. ll Ior- e la vi a  a la fortezza degli altri due, gli val-e, gli compe: so. I3: rt.:I III l st 1:1 - lli -, e o l il l:  N velli re º il l il  lii lutti, vo: ebbro piuttosto scusarsi. I), l:iz..... e vi va parla gli uli (a: di: 1 e se ne scuso I,  pe... li: l '  li enza. Iº e prima lo volle as lta: e cli... (-.  Sp e dire  (Spacciare)  Dicesi | III o spedire che spacciati e negozi, alla ri e val - igarli, dar fine e in prestezza, dar loro crimine od eseguirne lo ecc.  I 'tillo e l'altro sti, per sbrigare. libera e mandati in orina, distrug gere: li la lida che spacciare in tal senso è piu forte ed incli e violente ed espresssivo talora più di spedil e.spot ist e il ses, i ve: id I e, esilare presto, agevolmente non  E spedirsi, all'incolillo, il senso di Irellarsi, sbrogliarsi, sarà tal \ l igliore di spacciati si.Sp li e lº si usi il ho io l in rial c. 1 | li la relole spacciare; sicci lire  - Il s s', si e' li i  I ispedire erti legozi. lle gli erano assai l | 3: i t  () s Vli - s III Ill: ll spacciare l'Imundò Lui l (- l  a \ si essendo espediti, e partir dovendosi, Messer  (I espedita; e le so, i1 il - ! i, i l 3,  lº 1, si l SI II il 1 e ia li e si inseparabili, li ! Si va per ispedirsene lo sv. Il relit tº ai assa la primo all'ultimo, N es 1 - oi i: Il mat. Seg Il. \ llllllll cosa, cioè alla dol. il pot, i ni spedire e mi spedirò brevissima e la pill dolce dell'I latina, tanto i vol a 1 e e V al cliI..... In li spedito e "ri i colli li sa e la col vento in poppa, o  ll Illl), \ si vºli l e spedito in nel rito l'llo delle fatiche, V sgombro, libero, franco di  \ si lss 1 e 2 ti el: - S, (Spacciato se ge il tº l l ) rls, l il s ol'l'eva.. » I): I V. spacciarsi la qua le briga. o liocc. E dello spacciatamente se a divise o tra loro. » l'ierenz. l est.l. I li: il li li di analoghi, con lo spaccia i nuove, ſandonie, chiac li c', ': spot cicli ll mi lit l. la sci: lil el l Spetcciarsi lºt'.......  si li util Napoli, il rils.........  Stu ci ia re  Stu ci I co  N sl 1 la sl, slultati e di che ce li essa, il checchessia, le studia e clicci li essa, i cºsse V so, il lendervi con solle  Ilic, pigli, il si al cloro c.a e convolſolo per lo fa rig. I titti i panni i ' iosso gli stracciò: e sì a que sto fatto si studiava che pull e una volta, dalla prima innanzi, non gli pote, Bionde'lo, dire una pa! o 1, mi doll::l lavo ler, li è qll sto fa -se o. I3ore.  No:i lasciò il II la 11: i si studiava, - - ll il ei lidi i maggiori bo-coni ». Pass. Forto studiare il l re. ll - ll -si l... I3 e “ Va (lo zel: i vezzosa li studi in ben parere, 1 A v. lI I ſi per il Ver nonni e pregio di ie lezzi, -se la gli ali a nſi an:ata: sper a chiati le molti mieli i pieni d'alloni: vi ss v.e Il campo - I: il c hene studiaio I l i il to - - (il v; l'. No ! I V il r! - a te, ma studiate il passo, I): Il fe  Analogo a questo studiati e e il - si liv sl ulio le s - le I sei pi  Sta per cultura, affezione, indistria, premi di li solleci il ne.  I bassi, si per 'o litig, e, oli! studio, si ri-sezza dello el'r: i clivelli e le lissil II, e odori | ero III !E fi1g e 11 lo og Ili studio di V: la s i Z: st: si e n. (il V: Il l.lº ! ) ll è lo studio il "l: V (", 11 l 'I:I - tll (le, 'il rolls il tt (line avea t riati il vo! I Si r I e II, l'i: 1. ll I-tri: l'si, lo si ll -  l3llo lo studio Vill. I l l'illll! ». lPl', el'. lºrosſo si fa tl o studio di vita perfetta e I l lito, veline ogni l in questa «:i va ilzi 11(lo..... r. C -a l'I.Questi pie: i l dicazione.... crebbe r 'lii lo studio della vir' il n. Bart. Ma per le egli i il la ſi va in ai li sºlo - e io, conferi la corsa e l e s ii: i re, i quali i:ilm ira o di ſalito studio di perlezione, ne lo scoll fortd) ». (es: l'i.(ollsidera, a studiosamente III: le V irti - -in a livelli e in larni il  | il il 'Si a.....  i. i: l st il n; i ri'. Il te:i, ed il 1 st ): -, il 1 l l il 1 a e santi invidia, dall'uno il riprende i: - il: zi, d ' 'ta, l o: la mi i suoi lidine di tie-fo, ed la carta li seguita l'o si sfu  diava ». (a val.  1 bello slurli. in re o si riali, per ni. Slare di sl italio è ſl se elilli, il V,le. - I li - ci del liti.......Term e re  (Attero ere)  Se lº ritieni disco rere il conto e l'onde, che allo stringere va poi I che non per altro è così se non per l is si, il re sul lo alcuni esempi i più notevoli fra i molti i 'i ll il 1 di II lo nºi e vi gali ci o di operato e di varie significazioni - Il l l: i clivel st Iori e cosi lilzi ille.  N gli ese, il clie sogliolo:  lº I. I so di lenere per legge e, ritenere, in porta e portare, occupare,: lire, ci si r, si ri:ll.I terrebbe - - l:lza non l'attelluasse U al tutto ! -s....., l 3 l:\ e V: l l'ill: il la terrebbe llll esel - i l): I V.I le llll:lollo solo ne teneva mille di l.... Il il l lei sul i... (ii: Inl). stava di.....)I i s tengcno, le: l li vuol divenir beato  mo  Bo, ritengono, insegnano).  -, s............. -: teneva i li, i liatura di quelli non si tor Ita 1 - lasse la lollo le arli ». l)av. (portava, il l, l. S S.,' ' A ripagne che tengono gran i - i loTe', se -: i e letto a filo il lo ». l ', SS. ) l\l I l emete li - i l: l 3oce. Te', si. 'ls ll' Illol te lº guarda Ito rov 1, appena gli amici ten riero I l l'... I tl V.  º li I nel si e' isl e le st. a rl - la si river pillole di se ecc. E nctendosene tenere, subita il file con le braccia aperte gli corse.  N potendosene tenere, il dolla Il lo se li gliese losse o forestiera. »  Il lo il vide: o, ſemnersi, o Nºvell anl. I si tennero, si llll'olio in Inghilterra.» Bocc. (non sl arrestarono li: l.S - e li l silio, e si tiene e per il cosi è adulatore di sè ss., V º l'eli,3º di Tenersi, allen ci si il... attaccato, legato, olbligato il  per l'e,.. al c. aver fode, esser a L'eredità s'aiteneva i mie, i lire pi stretto parente, Ambra. « I'('la, cals! e 1, V s'a tiene il..., l 3a lr. Ere le d'Il 1o, la lo; i t'atticºne quasi nulla Attenendosene S il li,  gellolt Ztl....).  Si vl it -:: l si. « E pure con esse si forte o d si gran colpo quell'albero e con tenersi a tante sarte, ll l'Int irli  E' pi 1, la volta gl si caricano sopra bufere di vi 1!...., l?art SS6, ſ" I e Irla Iliere:  i l: NEIt (SCI(), IP ()I? I \ I.N | | | V I \, e si lill. l'ingresso, non sto con l'altro 'co'.  i ſicali e le per rielar  l' (Illa lo uscio ſi fù III' i l nut o? l. (.. Il lilli lo il 1 ll 1 i gli:iltri i l  ll il l Se Ml 17 Zeo vo) esse venire, a lui g a Iri Iri: i porta gli -se tenuta. S'i ll.  Lo Ialo a Illore delle cose. Il 1 la tiene la intrata della pelli tºllzil. » l3elti.  Simile: TENEI? FA \ El.I. \ per i sloti e di pali la I e cco  MI, l' 13e! oli e veri e I l Is rezIo coi Sere.. (ennegli ſavella illlino a V (“Il l'Ill III 1:1. » I3 r.  l'ISN EIRE. VI I I NIEI E I. \ IPI: All.SS \ e simili per  N S. I l ct i lui, mi e' lere in esecuzione, al lendere la cosa pi o mi essa.  E co-i v. illy i lo; p - attenuiC S:  MI i beni vi prego le vi ricordi il l: III e  l attenermi la promessa. I.  l'ENEI E I) \ N VI CI N ) per stare per alcuno, a lei il c ecc.. e anche l'ENI.IRE A I) \ I CI N. per esse gli diroto, allo zio ma lo e' ra dicendo. Chi stupis e, li gºlia. In sella ma li la e per tenere da chi vin cesse. n I):l V. a 'I'll.t: 'ls V -, cini | Cnea C 9 l l'uno,  V ed I ad un'altra donna tenere i s il 1 l (''le. » I 3:.  ch, coll'altro, l 3.  III, i ql el l.... I | Il t. Il  I | NIEIR (IREI)| NZ V, Sl (il t El () il mat  cosa, poi oss. (la e il secreto di  ser lui i c. 1 li tr\la V e V,i In 1 in la di tenerlomi credenza. » Bocc. Se lo ci º lº si le ti li tenessi credenza, io ti direi un pensiero che  l lo II v.... 3. Il 1 s ii il va onle lo so tener segreto? » Boce.  l'ENEIR E I) I. I) El. per are le qualità di..... \li e l - - Fiesole ab in ritiro, E tiene ancor del mcnte del macigno, I si fi; a per tuo ben far nemico, o  I ): l ll ta”. Tenendo egli del semplice e molto spesso atto e piano de Laudesi.»  3 m.  I Per si s ZZ I l: l'ill orrore che tiene insieme del ri  tirato e del venerando, (il ri.  | | N EI ) \ VI, l N () | N \ (() SA, lu' i lat, i guardarla ('() )llº  dolla, procu i ctta la ecc.  Tengo da te lite o lei lo  'I EN EIR (i It VN I \ \l I (il I \ I loss leben. I anche di grand -- TENEIR SI (i N ()| I \ S() | | | V. e sillili.  il il l'ono a spendere, tenendo gran  il l'I) leggiando.... »  - z: il l ll dissima famiglia...... ontinua in lite corle, di mando ed I 3 ). Illelle e il laie, e tutti insieme li Ilenò se il gºl, l 'e ivi teneva signoria sopra di loro....» | | (ºl (': l/.  I EN EIt All NI E q c. S.Si Til lo) ll till al pl. I Tienlo ben mente. Clie di tu di lui? » IPass,  l'ENEIRE \ Vl Vlt | El I () per i cºſtiere alla pi ora. Se o elillirill I - o d'a i to, lo Il varellol danaio, perciocchè  I lill I l: e le terrebbe a nnartello, o lº s.  Silll I | \ / solisti, cli, li i rilio a ppa: eliza di vero, e poi lo  reggono al martello. I renzo Vledici,  I | N | | | | V Iº Alì ()],l. il grand slmo lolor punto, ve gelid si l ubare a costui, ed ora te  nersi a parole. » I3ore. SS8).TENEIRSI A POC ) CIIE o li.... per mancati e poco, a un polo che.....  l il pcco mi tengo e il 11 si l V: l... l 3a rt. a poco si terrebbe di fargli sp a r i: esla dal busto. » I)av. e Tull lossi il giil l a poco si tenne che lol li la ndasse ill I)io. » I3ti l.Qll ('sli l' 1 l V il ll per lei l'8olizi a poco si tenne che non rompesse i trezzo le parole in bocca al re. » 13ari. e a po22 si tenne ll Il 'l g.. lIl l: ss e ll l: 1. ll lentº. » I3a l.\ III:il t 'ito si tenne, li ll i no! I lºo. po o II lancò che). e non so a quello che io mi tengo che io li sego le reni. o loce. S89)  Liis lo i titoli lelier: teme i campo disp. Il re, e nel parlamento; lemer cuslità: l 'ner con lo. le ne I e di metri les li tr. di matri simil N.. ed all 'i lllolli  le sollo I: fissilli ed il 1 l 'g: i 'li e le Isilli,  Note al verbo  Tenere  S85 - Si inile ſi ſti, slo, le nei c. ss it ella di Illi, Irla il clii: lento a dirvi. Ieri lo li | | | | | | |.. l..., ecc. I r; I li prelie. l 'il pollai, li li sl i ti ci l e. Non voglio sollelizia I cle sia l al dlel', Il si ſti e mi ero lei libri di il.  SS5º - Tè per lieni vasi spesso it is lil III e il liclio e classiche. Si ginifica: prendi prende le simile il lencz dei francesi.  SS6 Vlialogo è il modo: esser tenuto ad alcuno, per essergli obbli galo ecc. e di clic i sell e vi sat) ) le nu lo. I3 cc.  SS - E' lei il ra cosa che poi mi cºn le len ci ai miei le. Tener men le è la cli il lool e, ii l'l'ic loli -i. I li N le lui li I Na'im. (sil I lili.  SSS -- Simile l'alli, lene e a piuolo e la spella lunganielle, ed a li che tener a bala, cioè il... I per il lig, dal pascoli loil, lo parole (t' '. ('.  S80 – I radici: lo si si il... o da qual cosa  i, sia | ralleli. Il. obblig: il, che il... E' il tenersi cl Ilia cos: ad un allla come sopra. Si si | or al l 'e ll il ', il l 'I l l e', tipº partºnº re, spettare, riguardare, con c'e' li l ', mi lui, l ' i', con il l ecc. (i II l la collo e il lido:  Nella lira e bri It i 'i: occo rit... » Fie: enze. 892) e la \ e l'e lloln Inai in quelle cose che a lui non l occano., all el l Z S9.3le leggi il mio esse: oliill ill, e l: tl e oli collºelntill lento di coloro, a cui toccano.... l. I 3 ),Qi lel il li illli le l mondo si spenga di fall le, si lle l. ll i non ne tocchi una.. l o. - TI (ccchera il va! ii, li ho perduto non hai. » Bocc. Eliorniti che li toccano il III | orsoli 1. Giul, che non riguarda lo) ()iles o ti togli il tº it e toccò l'animo dello alate.» Bocc. Nill riso si v l.., liti ma les!: il tocca, niun giuoco. » Bembo. rili on le li rilate e tocche s on III te. l) avE pur i s l it toccavano i soliti dieci assi per un danario il giorno. » ve....... l):ì V.  \ i le li si – li -se esser tocca. » rubata) BUcc.  Nola al re niti ie e ci si parlicola i del verbo loccare e suoi deri \ ai li: l occo, locco line  (C VIRE I;l SSE, 13 VS N \ I l e simili, cioè ricererle, guadagnarsele. S!)  Si occo l: ve li e la sto male. » l'a!. l.llig. º l:Il quale, il V e ilo dal canto leg 'i Vitellesi una buona piccata toccato, l'Is - il l: i ti,, V al cell.I l toccarne il 1, lº strappatella di fullle, e fa - e peggio il loro a. m I.: si  Stavano olle ſelleri li non toccar qualche tentennatº. » Lase. | ()((V | | | | |, I ()| S().  i tcccatogli il polso, i' 1, V o li s. Il: le... » l'8art g l Il losſ o, egli non si risemi occandogli il polso e il settimº il lo trovandogli, tutti per costante ell ss (lilor | o » l 30''.  I N A 13ESTI \ perchè cammini,  \ lid: V a ill: zi toccando l'asinello., V S. (, l.l'ARE AL TOCCO cioè cedere a chi tocchi Sºſ,  « E' facevano al tocco Per chi avea a morir prima di loro. » Buonerotti.  DARE UN TOCCO SOPRA UN ARGOMENTO dare un cenno e passa oltre).  I N A TOCCATINA I)I..Rizzasi in più con gran prosopopea, Ed una toccatina di cappello.» Lippi.  l'() ((C) I )I.I.I.A (..AN II º VN V.  Che li cºlli pa 11: l'o, un toc co. » Vill  l: I I'()((AIRE I N I VV ()|? ().  « Ne i pittori le sºno ritoccare il lavoro a fresco, quando è sec o. » Bor. glini.  Note al verbo  Toccare  892 – Si dico anche oggi, e col e gil: il forli la e sigilili: mi locci, gli toccò di redere ecc. ecc.  893 – Simile il modo volgare: tocca a me, locca e le ecc. No a dop  pio significato della maniera: tocca e al alcuno a la r che che sia. Vale cioè allo apparle nel si a lui il lati lo Quel che loc a cara allora a lare a ('alone nel Senato, e di che veniva pro « cisamente incaricato, si era la reiazione dell'operato da lui in Africa..... » Salvini, che essergli forza il farlo. Se così ſia toccheran ni a star e le Mlach..306. « Trovall a domi in prigione de l'Il cili, mi toccò a navigare sul quo e sſo Irla l'e. Magal. Va l'. () per il.  894 – Si costruisce non solo col caso olli | Io o l: l'ivo di chi le riceve - – toccare tal alcu no basl 1 i le ec. li l: i col l'ello e loInilia livo, cioè ad Iso e va' l' oli verbo neutro assolulo (Conf. Parte 2, Cap. 2 Serie 2 loccati e alcuno delle busse, simile all'esempio di sopra: l occati sconſille crc. - -: e dicesi anche elillicarnelle toccarne, se 17 il ro. (ili esempi che allego sono citati anche dal (il era l'elilli.  895 -- Si ſa gillando uno o più dita, e secondo, il convegno Se pari o dispari, contando a chi lo cehi.Togliere  (Torre)  Il sil prillo e volgare si gli ſcalo è ſuello di pigliare, le rar via. Ma guardi colli e le e vago I al I silli: i polli ai classici, e notevole l'uso il liche il lal senso.  Trovasi poi anche il lill glisi sa che pare significhi l'opposto li loglie i ri la I e lo gli hecclessia, e li on è altro, a mio  il vviso, ci Il loglie i re Isiliv, cioè la re che al rilolga ecc.  Ollil tit, il... V e le cºlle il lempo m'è tolto; lo illa!)i 1orse non li lall, ll: il ch'io vi soddisfa la l 3 Sº)Ilena i logli i dosso Iliel poi, l'esercito, il l aggiunse a Marsiglia, togliendogli il tempo da...., (amb.No orre alcuno. » l)ante. (le il ſierº del li i tolse. » l): ll e. «... che pole! (ll gli abbia N ' i torrà si endere questa roccia.» lº: i ll tºEl e o pit and: I mi tolse il rio, e lì in mi impedi, mi vietò Ma lui li do, io mi tolsi di soi o al letto... I levenz. 900 Togliersi dal sonno e dal letto, e lº renz.per lo miglior loro e Illrolio, lo zali a tormisi d'in su le spalle. » Fier. E per io hº il solo la so sl: i o non li aveva tolto, che egli non con - scesse, llle slo sllo e Irl, l e ss. r. ll rd venienza, si comio savio, a millno il palesava, 13o 90 |.... Irla I e il iv si dissº: l) il nullle toi tu ricordanza per no al Sere? Io boto a l)i che mi vien voglia di dirti un gran se - gozzole ». IB ).e tolta buona licenza, se n. a do. Fier senza la li complimenti, si prese a liberta...Se vogliamo tor via che gente tillova i sopravvºlga reputo op portino di mill' arci li lill, (and l: le altrove. B 90?) Itender enn, Ianto che app, ma il potea o, chio, torre. » l)ari e 903 e dal a rito il questa l'alti e toglien l'anda e la de e ratle. » I)ante.  si toglievano gli uni agli altri quel piccolo soccorso che loro polevano di re i silli, o l?: il 1. 00.... o ad Illbra li do il vose o ai proprio, o:i sperandovi con rili pro averi, o togliendovi il modo di fare un'alimenda onorevole. » (iilllmer. mise o el ºnn i molato Cirio: le pe: dè la sua liſl la lag iata, senza altro averle tolto, che alcun  “ In ci si fa la guisa i. e genia, poi, o dav:ì il i la llli gl bacio. » l?occ. (cioè dato)« perchè or che difender non ti potrai conven per certo clie così morta a e Irle tu se', io alcun bacio ti tolga. I 3... io ti dia, Ili venga a Ito di darſi). 905)  Nola alla ora le bolle illalli, l ':  TOGLIERE () TOlt It E | I. \ la checchessia, cioè preferire, con len larsi di.....,  e Tiberio tolse a comparire in le; so I, a ! !', e o, e di ndere.... » I) i V.  « Vinco io le battaglie pil pericolo e pil dire e per la giustizi:i tol « gono di morire. » I3: rt.  a MI:ì io sono illttavia il di Ir i l:I l orrei di bel patto a portare a i loro libri. » (es. ll i.  si ripuli e ebbe o beati sº I ssa r, slie, l 1 l'ido io torrei di bel paſſo, d'esser qual s'e di loro il pil abietto e pov... » (a r.  a Togliendo anzi per la sempre tra i - llai, e li rili: r per quali mille. » I30, c.  TOGLIERE A far che che sia, cioè cominciare, intraprendere.  « l Il cavalie e la donna idò e ella ne togliesse a fare un'altro: rispo e º che nºi le era preso si inen, l ui, ch', l: sl d let se li Ial lo...., Sacch. a E debbono esser da ci o e i lini, l III lo igani e di quei film ha tolto a liiigar II le. (recl, liz I e V, l: il lil V III in: l di alle 11 e o (a ro. a ciascuno tolse a studiare l sprint re il e la parte del suo in e gigio. » (iiub.N il so, III: Cºstro l?ier, Ill r l)i I l st: In: lov i lilla Inalarl a collin, Ch'io ho tolto V ri-lotele a lodare, e l'8 l Il. r. 1 Il.Questo sci, o dello Sf i villa ha telto a voler vincere d'astuzia le volpi. » Cecch.  'I'()| RSI | )'I N A (()S \ T IRSI N V C s V, I) \ I PENSIEIRO.... rim (I morsi. Nn c / le re 90(5,  Si tolse del tilt to di comparire i.  a Cosi i miei avversari si terranno giù dal pensiero di più rispondermi e e dalla speranza di vincere. » (le-ari.T()| | |? I | )I VITA -- 'I'() IR I)| | | | | | | V | | | | | | | | | | | | VI () NI)() ll ('ciulo l'o,  a ()li re a cento inili, creatur il mare si redo per cerlo. sser stati di a vita tolti, o lo.  a Acciocchè una medesimi la ola togliesse di terra i dile amalli I ed il lor e figliuolo. » I30.  Vle o immaginati di voi s' ingerla a formi del mondo.» Label. « vera niente io Illi fa i in V a Il, se i di terra mol tolgo. I 3.  T()RSI I) AVANTI.  a l?oichè gli si fu tolto davanti, pieno di trial tal to n ebbe con gli altri a parole III olto disco lice.... » l?art. l' IRIRE I V F VME – I V SET E ToItNE UNA SATOLIA (907.  lei li l o, le i vi ve l e li la volta con esso te o, pur per veder fare il forli Ille: Irla il l' e tormene una satolla. » I3occ.  Note al verbo  (T cogliere,  S!)!) - Nola la lesia inti i ra: ii lempo m'è lollo: togliere il tempo (tel alle 11 il lui....  4)()() Tor I e, Torst, li dot... sigli ſi scostarsi dilungarsi levarsi.  901 - VI li ra e il lic.. bella tanto, la quale torna al dire: non gli  a reci ſolo l'uso dell'intelle lo si che egli non conoscesse...., od all' di s ti riglialle.  !) º I 'io lo l via, ma il varo, vedere pren loro modo e rut, ci si lal si ch.  903 - ci è ricco gel sole, i VV e li '.  90, cioè si prestavano.  !)(lo - l li libilarle? Parla di lilla slla alla la, ma non amalo, la Il le liti l'a si l): il re.  !)()(i lº pro isalire le ictu) gelo in lei l'edeschi. Simile il modo: p. I giù smettere Pon gli i ſervenli amori, lascia i pensieri in atti I3 cc.  007 - Si riii: una corpaccia la la ne, prenderne una buona  si ll: l. l 'iel el Z.  U sare  l sai e ad un luogo, ed anche usati e con alcuno, usare insieme'. Rollo nraniero buonissime, di frequentissimo uso nei migliori libri di nostra lingua. e sarebbe gran pc calo non farne conto e non volerne più usare, checchè ne dica il l'on il laser, il quale assel is e che non sono della lin gua parlata ecc. ecc. Significano i requentarlo, praticarvi, bazzicare, es ser solito a l ora i si, al csson e', o l e molare e Pilegen; l mgang mil Jº il, and pilºgan e.  Notevole anche il modo: esse usato, esse uso di fare, cioè aver l'a bil udine, esser solilo, non essere usatlo di checchessia, e simili.  (), a avvenne, che usando questa donna alla chiesa maggiore.... » l'80ct'. a S'uscì di casa costei, e venne dove la usavano gli altri mercadanti. » Bocc.« Le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. » Bocc.« ma pure accontatosi con una povera fon; Ili i clie molto nella casa usava, non potendola ad altro in li!: la 1; i ''i corruppe.... » Bocc. «.... io cercherei qui sta po- - ssi i li !... ciov e ne filmi, nè ruine di piove me li potassolio tv utº assortº iacircncelli, e l'el che rei che vi ſul - -. l'::::) ): l ': - -  « In quel tempo usavano relia coi ti atia li., Fioretti. « non colli e g ill', esse I, vi vi foc3e usato da molti anni., l 3' r.  (ſ « Si (lio (le a Cl essi i gi ad usare « con coloro che ri !!i e !,; - i dile tt - « Vallo. » PO (('.«.... il quale il più del ' t com........ i usava. » Bocc. « Quanto più uso con voi. lii i l'.« Questi due giovani s II: usava: 2 insieme e pe tiello che ino « strassono, così - al vario, o pi iri li.... Ave id si « adunque quesi a pl (III essi il litº, e l'insieme conti: uamente usando. » Bart.  « senza che, con le era usata di fare, li l --: lì la lite. » Bo.  a º miglii, l'i oli 1 e (l'1 I l tº Sa: i erati 0..  « In quella cav, i 1, dove di piangersi e dolersi era usa, si ra ornò » Bocr'. «Noi siano molto usati di far ria cr:::º, i s; » I30.  « Della quº: l' orizi in e non era usato i (-  a e que.li o n t e li ti o 1: i e i piu « di tali servigi non usati. » l': i  Uscire (915)  (illal'da b l'1!si, e i ti: i usci) e di che che sia: ed aliche uscii e s e 7 il l '.  Uscir di mendicume – - Usai: cºi gaſ to selvatico –- Uscir de' Cenci – Uscir del manico (916) S  « Con la doſe - ll: il il l:. i usci de panni ve « dovili -si. I 2 c.  « Se io uscirò di mia natura. l re li li alcuno, sianni qui e perdonato ». Da V.e dilungandosi di veder costei olla gli usci dell'animo ». Bocc.  - E benchè quelle bastona: in avessero fatto uscir di passo, come a quegli che i trial, la rile: e li lti la illo, vi invea fatto il callo ». Fier. e Mla usciamo di Papa Urisi, io e All III: a un parti a clie mi diceste.» Tel'.l lo i tir i pi s v - e, si usci di lui.» (par issi, an dl -- elle.. cs:i l'1.. Questa lilla s'incon, in Il 1 lo ci Vi l ao e quando l'Aprile, ma in « Aprile finl- ed esce. » (i o d.Via ve: o l' rola v... esº, ere li | ra! ti ». Cosari. e uscito poi della furia...., t, i fillo.  Nola alle ol a l: Il cosi la gºl l ':  l S(| | | | | N (VN V (i N V (ii: l: l. l S(I | Rl, V | 3 V | | V (V e si irrill  a Il [il 1 nº.. ! !::: sa: uscire non a bat e taglia, lo; i titi i ti i ):,  e filiali nell' l'all ss::  I SCII? E al alcuno (N I \ N VII I. \ NIE, CON IVAI313UFFI, (()N I \I IPI si, il i.  a Ella m'usci con tºn;, rºm r Gb: i to adesso ). BOCC.  Note al verbo  Uscire 915 – Collſ. I liuscire. 916 – disine Iere i cos vi: Irasandare i termini del proprio cº Silllll ((. t ('. N/ e clere  E' elegante l'uso del vello redere per gliardale, in luire, esaminare, scaldaglia e, investigal e, (s.srl.... llle: « Pre il lo non dove ero li ' t..  corsi stili alimente credere, senza « vederne altro. 13, l l lle, l'indagi, li º ) «.... di che l'altra parte, che per avventura aveva più ragion che danaro, « fieramente sdegnata, volle vedarla a punta d'armi, e farsi da se giustizia « con le sue mani ». I3art.  « Vedere il vero e il falso l ' pt: 11 i ti: i3a t.  « Avvisato di vedere de' fatti dell'i: II.. itti « e.... ». Bari.«.... Vola e Inill il 1 e a veder de' fatti dell'a inima sua e le  - - -  « in altra religione pil di gºla o li. I |.  « e vedi con lui insieme i fatti nostri ). I. « Vedi modo, e si ppi se con lo! I le, pli i a º il pi Inio».  BOCC. « Tosto pone la querela; propone di rili o le " I to I. vegga, l a. « mansi a furia i padr: per gl a Il cas.:: i I), i.  « S'egli è pur cosi, vuolsi veder via - 1 i sai io li lo.» I3 917.  Fra i molti altri usi di questo verlo. I l I e voi li ricorderò:  AVER VIST.A con ulla rislut (t l'ºut, li lli il 1 l 3 ). FAR VISTA I AI R LI V ISTI, I A [. \ EI ) (I ) - I ) \ | R| V I STA – I)ARE A VEDERE I Vedi sopra l)arr, Fare  Note al verbo  Vedere  917 – Notale queste maniere, realer modo a ria se....: re ler l fatti dell'anima: senza reale, ne all ro; reale, il re o, il falso, vederla a punta d'armi di r i co.  Volere  Si usa a) per convenire, dore, si in vari modi, il più cºll'allisso ed impersonalmente, sì al singolare che il plurale -: b per essere per segui re una cosa, mancar poco che....: (per opinati '. a rl'isti e'  Noterai da ultimo il modo voler bene. Il quale si adopera a siglliſi care tanto amare germ ha ben che sta lenº, o cosa simile. 922.  « S'egli è pur così, vuolsi veder via se noi ºppºlinº (i li: i Veio. I 3 (.  l  « E' opera si grande e malagevole che di io si vuole chiedere consiglio, º  Fior,« Andiam noi con esso lui a Roma ad impetrare dal santo Padre che..., « ma ciò non si vuole con altri ragionare ». Bocc.«Se I)i() mi salvi, di così fatte femmine non si vorrebbe aver misericordia». Rocc. (923). « Elle si vorrebbon vive vive mettel llel fuoco ». BOCC. « Al combattere si vucI l en uscir spedito, ma nel ritorno delle fatiche, a qual conforto più onesto che la moglie? » Dav.« Comlare, egli non si vuol dire». Bccc. nº n convien che si dica). « Questi lombardi cani non ci si vogliono più sostenere » Bocc. (non con « vien, noi dobbiamo sostenerli.« Il beneficio si vuol fare con faccia l'ela, non vi lana, nè dispettosa... ». IDa V.a.... e che insegnando egli la verita, e la da chiunque si porga, vuol a prendersi e profittarne e si vuol prendere Bart.a colme.... così l'animo quando è in lotta o o infetta, e di focose libidini arde e languisce, con altre tali rimedi ferro e fuoco si vuole attutare ». Segn.  « Per 'rattat de Tai rl'iti usciti d'Arezzo volle ossel tradito e tolto ai « Fiorentini il castello di Larel no. Vill, cioè fu per essere, a un pelo cho....).« Pietro, veggendosi quo la via impedita, per la quale sola si credeva « potere al suo desio pervenire, volte morir di dolore ». Doce. (In fondi: le fu sì dolente che per poco ci me lova la vita). « Gli volle dire che..... –- In:a.... ». Fiel'.  « Pitagora ed altri vollero che esse tutte procedessero dalle stelle ». Sacc. (a V Vista l'olio, ills e gla l'o; 1 ).  « Pa: ente nè attrico lascia o s'avea che ben gli volesse ». Doce.  « Vi vo' bene, perchè vo cli e il lla ln rinto Siele ». Bocc.  « V cali io voglio tutto il mio bene ». I3o.  « Tra lol' 11oli Ill lin: i lite o di ſe' liza. VI:ì d'accordo volevansi un ben « matto ». Malma lì i.  « Con le pugna ſul to il viso le ruppe, nè gli lasciò in capº un ca a pollo e le ben gli volesse » l  Note al verbo  Volere  922 –-. \nche il lo rill degli inglesi la usi pressoche eguali, oltre a molti altri che il nostro colei e non ha, fra i quali singola rissimo è quello di far l'ufficio di ausilia e alla formazione del tempo futuro di ogni altro i b – I rill come, oppure I shall come – secondo cli  l' –.923 – Come il verbo volere sia per lorere, così pare che anche il verbo dovere abbia alcune volle senso di colºre.« Richiese i chierici di là en! l'o che ad Abraaln (loressero dale « il ballesimo ». I30cc,« e con molta riverenza mandò lºro galido la Madre sita che le « dovesse piacere di veri e il tie l logo di ve egli era o. Ca valca.Trovo inolta analogia dell'uli ell'altro, di testi verbi, ado perali in questa follia, e il nigen dei tedeschi ed anche col to may degli inglesi, i quali veri si costruiscono in guisa che non sapresti se meglio radurli rolere o dove e.CAPITOLO II.  Uso va a rio di alcune altre voci  Olli i Verli di illzi l'ecilali, si o alcune altre voci (animo, argomen lo, talalosso, lui nolo, colpo, con lo iori und, l'onlc, latica, latto, mano, netto, pello, pºi i lio, pati lo stomaco, cerso.... il cui uso frequente e vario è par li i lili di elogi rii si rili il. Si lornali o con esse di molte e belle ma nici e e le viene al discorso quel gri lo sapore, quel colorito, quella pu I A /a (li - il cºllo e il la al telistica del linguaggio antico e classico.  \len Ire le palli elle e le voci in generale della Parte I. di questo Di i 'llo io, li li sono che si ni vaghi, e adoperano più che altro all'assetto tegli in mi collosi e non li alla si irl Il ct del lisco so, i vocaboli di que sla l'arte, ed il l cie: la p. l rile, sºlo per sè, e precipuamente, for me cloculi e, con l'icienti di lingua. Da quelle le compagini e la curva, da [lles e il salgle e la polpa.  Arm irro co  (illarla come e in tranſ e guisa ne usano i buoni scrittori. Suona press'a poco quando disposizione d'animo, condizione, slalo di essere mo rale, e quando intenzione 926, voglia, mi a. lalento, inclinazione e simili. Son, poi nolev li i modi: a re e, anda) l'animo a...; patir l'animo; essere, anal 1 e all'animo, la stati l'inimo: nelle e animo, acconciarsi nel l'animo r. acconcia e Cap. pl cc: dole ne all'animo; dire l'animo ad uno di....: rivolger per l'utnino; ecc.  già d'e è di 16 a li, i veri l piu animo che a servo non s'apparteneva, l lo la villa della se: vi in lizio il... » l 3o.... e se tu non li li cuell'animo che e tue parole dimostrano non mi  pas er di vana speranza ». l o.  se dicessimo per correzione e non per animo di disonorarlo ». Mae Struzzo.  « Son testimonio dell'amore ch'egli vi portava e dell'animo che teneva « di farvi grande.» Caro.« Con animo di ienersi le liti e li ſale: l it il venisse miglior « fortuna ». Gialnl).  « Il valente uomo ſe e 1 og: i...., che giurerebbe Con animo di ' on oss. l: r. cosa:.  « secondº, che lle.i'animo gli caºgai.  º...... parlit - i li fellone aniins r i pieno di mal i alCºllt ();.  « Così slibiti i la forza di « fargli Inllta: animo ». I.  « IParii-si a dillolti e i S::i,... gra:idissimo animo, se « via gli durasse, e I - 1,; s, di fare a Il « (ora non Ini: - se. I3 ).  « Ed avendo l'animo al di v gli 1 il gione, ed « Ogni giustizia dal lilla delle i i ti. li li lo il suo lellsiel di « Spose.» IBO.« Non gli va l'animo ad 1 [. a dre. » l' Issa V. « Consigliata a mari a 1 si ebbe l'animo a at o...ite di De « Voin, ma tols e Filippi, figlillo., l: (: V., lº: V.« Tu badi ad l? A lizi ho sempre l'animo a casi vostri, e sempre « mai ruguino cose... » Anibl. « Luigi non avea l'animo ch: a li, l i il i -. » (es.  « Se pure questo vi è all'animo, i d a li.. r?S. Cesari.  « Ed a Ile liento. Il lei lo va all'animo (Ill si g ) della prima novella.» Cesari.  « Egli che sapeva, che io ero felimini, perchè per moglie mi prendeva, « se le femmine contro all'animo gli erano.?, lº.  « Se vi basta l'animo di ſei rail. l 'in...... Il 1 li li. ) !!) (.:ll' ). « Non gli bastando pºi l'animo di 1 i si Il dll -- e ad « atto talora....» l'itel ei 17.« E Irli basta l'animo di A ti..... l ie. liz. « Vi basta l'animo di I l Il « atterrirvi?» Sog n.« E mi basta l'animo di 1 V il 1 ll - 1/.l il i 1. » Fiel'('ll Z. « A noi non dice l'animo di pa..... i da!. di ti liti libri e si lolloni.» Cesari.a se avrete farne del'a paroli di Vill: il lidi: ) di potere, in que a sta Quaresima, ancor piac º v', in se i mi dà l'animo ». Segn.« Ma vi dà l'animo in Illi t Impo si lill, i. e 'I ! clie, è peggio si illl' « bolento e sì tetro, quale si è l'ultimo della Vila, apparecchia i vi con Csame a distinto a tal confessione....?» Se n.« nè di fare morire alcuno dei suoi lion gli pati mai l'animo ». DaV.Il Ina le è ce ne ſiu cic ai l'anim 2. o C s. Part.  Qì la - i i, ' ' nette 1 - 3::inno:: i ri. » I3(11v. Cell Qll'il. ll - oscia chè così  e Irli se rintuzzato l'attinº 5 si'C is r r;o..... 9.30 « Qlla lido, lili si rivolge per 3 a: rap ità... » Fierenz. a rivoltandomi per l'animo i: i uli. o l'ierenz  Note alla voce  Animo 92C, Simile al n. inl degl ii i: la mind lo buy one. – IIa e yon di minal lo ti il 2 v 92i – cioè secondo le g, i l va. W i, es il m su Mulh ucur. 92S -- FsNel ct ll a 1, il ss. cc: i andar all'animo è sil lillio i: sè i ct g ci li chè a grado l'era, di lui facesse ndr ) e a sangue quand'el li a noi ci ss a sangue, io la voglio per disp. ll si o apacissimi di calun  liare i lolloni º il lor casi di reisi, Giub., andare («Se l  [llesl e l'agl il sol li a Il slo, si troll ii ranno ». I3uonerotti (('('.  929 - - Sinili: Sich gel i due n; sici: u n t then: cs dal in brigen: se latire l'orl.... Vlt i ti li I l eguali sono le maniere: (la re', di e l'utilimio, il cui oi, i n i cldi il cuore di Venire a il meno con si p del si li ti I. S gli. « E vi dà il cuore di las, la veli slal e il l IP. Il gol l il lill gamelle? » Segn.); pali e l' animo, sentirsela. Il teleti si co. e la (ſuale – inten zi Il senza l'agi o vosli o n li li allilo di poter condurre » (tiro a Se io non la riveggo i n n't li do di descrivere.» Caro, S affidano di poter brava e lilli e di vincerla colla provvi dellza. (iilll)..N 'isi singolare trasformia, i tre graduazione delicatissima" di significati: Chi dice mai basta l'otti in indica con ciò e di polere e di volere: chi dice non mi basta l'animo indica non già di non volere ma di lì in pole Vli dà l'animo, il cuore', suona a un di presso: il cºllº il ri: della, mi sento inclinato, avrei voglia, sarei vago ecc. l indoº l. Iuantunque suppo sla, dall'idea di potere; non mi dà l'animo, torna a: non mi sento punto inclinato, sento, provo i tignanza, avversione a fa re, a dire ecc. Che se questi ri: 'lalanza venisse da senti mento di delicata e ſuità o di colli issione, o di simile affet to e non per pura avversioni alla cosa stessa da fare, da di ro ecc., allora esprimerolla assai meglio, che non farei con l'una o l'altra di delle frasi, dicendo: non mi soffre l'animo, il cuòre (« Ad Adamo non patì il cuore di contristar la suadonna » Ces. – «nè di far in rii e alcuno dei suoi non gli pali mai l'animo ). Dav. – A on mi basta l'animo esprime adun que impotenza: non mi dà l' animo ripiglianza in generale; non mi solire il cuoi e lip glianza ri e del iva da un particolar Sentimento.930 – Itintuzzare è lett. rivolgere a pil: Isi, ripiegare il filo – stumpi m(tellºn, e il di la l lla in ſol:i, l in lui zzati l'anima, ci è di venire avverso. Ilijuſſi e l'animo è il 'ril e addirittura,  Argorn e nto  « Argomento è voce che ha molte significazioni, e tra esse quella « di istrumento d'invenzione, di modo, d'auto, di provvedimento e si « mili ». Pedi 931,  « Qllivi: i foli era chi con i (Ilia 1 l di l:1, argomento, le sn la r. a l'ile f. Ze l iv (): --. » I3....« I medici con grandiss mi argomenti e con presti aiutandolo, appena a dopo alquan ) di tempo il poter no di nervi gºla: ire ». B e fa la l la fra il l. 1, e gi. I l 'gli il i vi i suoi altri argomenti fºnt li fa re, Illas gli y olesse... - III: I rila vita e il sentirne il o l'eV 0 0 l'e.... » I3 ('.«.... a zi, o che il natur:) del III:I e no! p. Iss e, o le la ig it anza de'  Inedicanº i non conosco -se di clie si in vesse, e poi consigli il debito  « argomento non vi prende- se non - li te pi h I gilarivano, i pizi.... a Bocc. o presi e li argomenti per 13 « con quali argomenti di fila li II lit: i sl il...? l): V.  « Gridò: fa ſi che le giºrno, chi ci li' Ecco l'angel di Dio! piega le na ri! ()Inai vedrai di si fatti uſi illi, V (li che sºlº gna gli argemcnti umi ini, Sì che remo non vi lol li è nll: o Velo, chi le ali slle tra liti sl lo: alli. » I)alit.  « E d'onde debbono prendere cagi no e argomento di non pill l urt, ed eglino più per callo.» l'assav.  «.... il quale fermamen e ''avrebl ero il riso, se un argomento non fosso  « stato, il quale il March se subit Ilmente prese..... » l. ll Il Illotivo, llli appicco.)Note alla voce  Argomento 931 – « Le malattie delle femmine, prosegue il Redi, di molti argo menti della fisica son bisognevoli. – Per lo che i medici han potuto dar generalmente nome d'argomento a tutte quante le loro medicine. – Può dul que esse avvenuto che essendo il  serviziale il più frequente di tutti i medicamenti, sia rimasto a esso serviziale il noir e di argomento. Può anche essere che sia slalo chiamato ci go onlo perchè il serviziale è un aiuto che per poterlo usa e vi è bisogno d'un argomento, cioè d'un istrumento, quale appai,lo il cannone dei serviziati».  Aci osso  (A ci cossa re)  Guarda come si unisca a molte idee e ne renda più evidente l'ordine dell'azione verso chicchessia o che cle sia s inili all'hin, her, hiniiber, hine in ecc. dei tedeschi.  « Escono i cani adosso al poverello ». I)ante,  « Ella m'uscì con un gran rabulff o adosso. » Boce.  « Entra il l)iavolo adosso ad alcuni, e per la lingua loro predice le cose « ch'egli sa.» Passa V. 933)  « fa che tll gli metti gli ul gli ioni adossº, sì che tu lo scuoi ». I)ante.  « Oll - io veggo porre mano adosso a tua persona senza riverenza, cer ta Inente il III io dole, le cºlore - col piera.... » (a Valca.  « Non pensando che, se fosse chi adosso o indosso gliene ponesse, un « asino ne porterebbe 'roppo piu che alcuna di loro.» Doce. 1934)  « por gli occhi a dosso ». 13 i c.  « Stammi adosso (amore e lpoler ch'ha 'n voi raccolto.» Petrarca. (935)  « Recarsi sopra di sè, e no.n appoggiarsi adosso altrui.» Casa.  a 'I'll rarogli gli occhi, e a impeto gli corsono adosso colle pietre.» Cavalca.  « No.l, altrimenti che ad un c. n 1 l estiere tutti qui,i della contrada « abbajano adosso.» B, c.  « Avrebbe avuto mal giuoco a darmi adosso mentre i padri mi levano « a cielo.» Giub.Gridare adosso ad uno Vil. di Cristo) – darla adosso – Gridar la croce adosso a uno – Dandir la croce adosso a uno (nodo vivo, cioè dirne il miglior male possibile, perseguitare. Formare, lare altrui un processo adosso. (Bocc.)  « Addossandosi a lei s'ella s'arresta. I)an e. « A Celso adossava gli el'l'oli alf rili. » I)a Val)Z.  Note alla voce  Adosso  933 – Così dicesi: avere il diavolo adosso Passav), andare, correre adosso ad alcuno. – «Gli corsono adosso con le pietre. » Ca Valca.  934 – Parla di soverchi ornamenti delle femmine.  935 – Stare adosso, in generale significa insistere, importunare.  E a ri ci co  (E a n ci i re)  Un pajo di esempi, che ti anni niscano del valore ed uso legittimo di questa voce.  « Mi rallegro che abbiate ricuperato il bando di casa vostra.» (decreto, pubblicità, ecc.). Caro« E per bando il popolo ammoni, non queste esequie come l'altre del « divino Giulio scompigliassero ». l)av.« fece ordinare bando la testa sopra chi fosse trovato reo di tanta bar « bara (l'Uldeltà.» I3art.« v'avea colà strettissimo divieto e bando la testa o la prigione in vita, a a....» Bart.« Diede bando di male amministrata repubblica a....» DaV. (940 i liò i S 1: a li i vºli lº s...... II. l. 1 la lo bandire per coià ir,  lo, e al passato i tiri l o il si.... » B irl i: e- si io ev, e l.llis i in itine del fra  tello la bardi, e l l i. E 'lo, li - a, noi lo handiamo  a ti: l ':17  Bandire la croca adesso ad uno v addS80.  Note alla voce  Bando  () () I )al band, gli che che sia al cicli uo, è condannarlo per giu dizio, caccia l da un lu go e porlo a morte se vi ritorna.  Testa (capo)  I sei i modi anche oggi con il missili:i e \ lgari ed accenno ai me ll, lsali (lal V. lgo  Far capo ad uno:) I lil I e i i ti to o: io » – Far capo in un luogo ai da quivi, º l'in visi, fa: mia ss 1 – Mctter capo di un ſi li le: 1) Inn l a t: o ti li(illi lava i tl, la la il li, e I ll (ill:belli la faceva capo a lui. » Giov. V lll.I fr: ti.... v. lllero a l'i: l e, suggellº). dºtti, e fecer capo agli anziani del popolo., (i. Vi!!.Così fa cia il l dl e della famiglia, distingua le sue cose, e tengale a i l II odo che a lui sclo faccia n capo, ed a lui i sien, ovdi l'ate....» l?andolfini, E l d -omi che quando il Sig 1 e era l, ella città, continuamente si a torºla in allergo il più delle volte a lima ig e qu' a era grande all'e « grezza e consolazione a tutti i suoi divoti, ch. vi facevano capo.» Cavalca. « E i... Firenze facevano e ai le dette fontane ad uno grande palagio, a che si cimiamava Termine, Caput aquae. » G. V.« Quelli, che per con rada non usata camminano, qualora essi a parte « venuti dove parimenti molte vie faccian capo, in qual più tosto sia da « mettersi, stanno sul piè dui bit si, e sospesi.» B(Imbo.  « Per lo fiulrle del Nilo, e li fa i c' a l) I lili i: l in Egil [o, e mette capo « nel nostro mare. » (i. Vill.  Fare di suo capo º 1 a slo, - sulo mi do. - - Dir.... far.... di miº, tuo, suo capo il 1 l il V, Iz« NCE, sapendo far d suo capo. In Illini i sa del mio, il lo., A.le. « Ma questa cosa I)inni li li on li fece di suo capo, IIIa i- I is - e, i.i: la zi « al suo padre, e il suo p li dlel l i l: nza. » V it. Plth.« Affel'Int) non di mio capo, III.) di s.it: te de lla ll rati « ma d'alculli (le Teologi, li la vostra le lezza è lº l'aria delle cose celesti. » Riel'el)Z.  Farsi da capo. « Qui si dimostra che il ift: - si e' qua  « di riconfessarsi da capo. « Me-sala, qui si da capo rifai! csi, disse: " I)av.  l  la ci sonº e lenti a  Tirare a capo – Venire a capo ondulr a fi; e, v ir, illa e il si le.. « Tiriamo crmai a capo Gueata tela, o lº« Se io ve le vo! re, io non ne verrei a capo in parecchi  « Iniglia.» I3o e'. « Volendo e pil fla III It, i no - e e, o ve le, sa o di troppº fatica,  « e nº !) st 11 venire a capo. F: (iio: l: li. « Iº gli 11 Il si verrebbe a capo il 1 le tl1te le co. (..» La l).  Ccrrer per lo capo a llar pe: la fa ta sia Entrar nel capo il lilaginarsi, darsi ad intendere, sli, la rsi a credere,.  E qll si o libi o Ini corsero mille altre o per lo capo. Amle[.. a (i li entrò nel capo, !, V: seve, lie - -; il V t's - o - I lie a famente vivere nella lod povertà o I3o.  Farci il capo - fare tanto di capo V. Verli, Fare (ip. I pala l'. I – Venire in Capo arra (!. re, sll len e, illt (ve: i re.“ Sicchè lene Inostrò e trovò vi o illel elle V | olio li aveva s pitt,  a cioè che in b ºve l'ira di Dio gli verrebbe in capo., Cav: a. « Mi lide ) d. l''i vos: a In te, e farò li ffe e sche, n. di voi, qui nn lo  a quello che ell: V. I vi verrà in capo. » l' issava il 1.A capo erto, a capo chino – Andar a capo chino, ecc. ecc.  Si usa tanto letteralmente che metaforicamente, cioè a indicare dipinta mente la franchezza, la baldanza o la umiliazione di alcuno. Ricordo da ultimo alcuni del ti proverbiali: Cosa fatta capo ha (Dante l loc. G. Vill.), Scambiare il capo pel rivagno, pigliare una cosa per un altra, Mangiare col capo nel sacco vivere senza darsi pensiero, o briga di cosa, alcuna).  Note alla voce Testa  941 – Di sua testa non pare il medesimo. Significa: giusta il suo proprio intendimento, senza altrui aiuto o consiglio.« Diedegli certe scritture di sua testa compilate ». M. Vill. « Io non ardirei rispondere di mia testa a sì grave quistio (ne ». Dav.Non è da credere che scrivesse questo particolare di sua a testa o Fierenz.  A proposito di Ics'a lon sala inutile far osservare alcuni usi di que sta voce al cui luogo non ſarebbe capo. Sta a per persona: « Si levò una tramontana pericolosa che nelle secche di Barberia la galea) percosse, nè ne scampò lesta ». Iº c.; b per l'estremità della lunghezza di qua lunque si voglia cosa, con le: l'esta del ponte, della camera, della tavola, della tela e simili: (Egli ha allo in lesla d'una sua gran pergola....» Caro; e per intelletto ingegno: o l'ira u no al suo tempo ripulato astuto e di buona testa. M. Vill. di buon capo farebbe ridere).  Dicesi finalmente: senza testa non senza capo: Gridare a testa (ad alta voce); Gridare in testa altrui garrirlo: fan e all' ui un gran rumore in testa (Doce); far lesla (fermarsi, resistere, difendersi); tener testa, rifar testa ». G. Vill. (v. I3attaglia, Prontuario).  Cornto  Sono noti e dell'uso i modi: Conto aperto (od acceso), conto spento, conto corrente, conto a parte, a buon conto, aver a conto una cosa, ricevere a conto, lar i conti con alcuno, la r conto di che che sia (farne stima, averlo in pregio, farne assegnamento, far capitale), domandarconto di una cosa, render conto, dar conto d'alcuna cosa (darne avviso, notizia, e anche render ragione dell'operato, arere in buon conto (in buon concetto), avere chi che sia o che che sia in conto di....., tener conto di checchessia, per averne cui i: « Non gli restarono altri ninnici che i suoi figliuoli ecc. da tenerne conto Sogli. Si r., ed anche per orenderne memoria, in Letraclit zieh en, il V e il considerazione: « senza tenere altrimenti conto della sua obbliga la fede. (iiallo. ecc. ecc.  Di molti altri usi di questa voce niente volgari o meno comuni oggidì piaceni menzionare i seguenti: Persona, uomo di conto ioè di stima, di 1 pillazione. « davagli in commende i conveni a uomini di conto. » Dav. « In verità che io non sapeva di essere un personaggio di tal contu, « che potessi turbare i sonni e stancar l'1 pelllia di un ministro.» Giul).  Far conto che.... ), pensatsi, in Imagina si, sal ersi, supporsi, darauf gefasst sein).« Si addestrino a vincere il demonio in altrui trionfandolo in loro stessi, « e faccian conto che i pericoli passati son minori di quelli che sopravver « rannO.» Bari.« Facciam conto, che in campo alla pastura Un oro, sia costui, o un a cavallo.» Malrn.« I)unque dovrò si armene tutto l'inverno tra questi geli, e durare sì « lunga fatica?.... Fa tuo conto. » (iozzi.« Le sar i rillo a dll nelll.', ripiglia via i ragazzi, i lidele? Fa tuo conto di a ceva il padre, le sono appunto candele., (iozzi.  Metter conto, tornar conto es - or utio, tornar bene, zutreffen). « A Gel'Irla Ilico mise conto voltare.» I): I V. « Non perchè alla repubblica mettesse conto patire mali cittadini.» Dav. « In ragioli di Stato, il conto lo l iornar IIIa i -, li ti si fa con un solo »I)a V.  Levare i conti.  º nel cominciare a levare i conti che avea con Dio, cavò un lento sc « spiro.» Bart.Fortuna  liscio gli esempi nei quali questa voce è adoperata a significare ora condizione, stato, essere a Ahi quanto è misera la fortuna delle dollll.... lº.. col l'a tt con intento indeterminato, caso, avventura e lasciaio ai re a beneficio i fortuna ». Fierenz.), e quando ven tu rot, ct r r nini e il I, buono ed è talora anche l'opposto cioè disgrazia, av rom in n le calli ro ecc. e le n lo [ili alcuni di un uso men comune, ci è il sig li tre pi elle, lui asco di noti e, mare l'ortunoso e simili.  Si crt ti ma i ve: lt, A sì forte, e in petuoso, che - 1: Vili.l'ill st, s, il 1 l e gran fortuna di pioggia gli sorprese.» (i. Viil.a \ Ife, in lio, io l a cos. Il l tempestosa fortuna esser na º |:) » l. e Ond ei pi, e ne rive in fortuna, l): nte. I.: fcrtuna - i lob pople:ì. » B art. li ria: e ci I l lo rempe fortuna, si or endi colpi la batte (na V ('..... I 3: l ' 1.e li i- e l' In ill, sl -, mi ata la nipes: elle qualtro di e quattro molli corsero perdutº a fortuna, senz' ' 'o miglior governo che....» Bart. N: \ e li coi reva a fortuna il t:: il e o IBari, 950) \ ndo si seni fortuneggiando con avvenimenti or prosperi or a V V e 'si. I 3a 1 t.I questo li lo si elli, la va a il 1 l iltà fortuneggiando.» G. Vil. I bella, li in azione lei - i to Iri Il re, quando più fortuneggia, per « alleggi: l' a la rca. » (oll. l'al'.  Note alla voce  Fortuna  !),() N Iala questa frase: correre a Fortuna correre perduto a for i una, l he la sc itelle lo i rineggiare che ha un uso e si niſi il lassi e giale, ci è ali birrasca, avventurarsi agli accidenti forlilli si del mare e li i lamente, essere tra civili empeste.Faccia (Fronte)  Adduco esempi di faccia o fronte in senso analogo ai derivati slac Ciato e sfrontato. I.i soli chiarissimili ed il e lell'uso.  « Pure di dal e il ci II la l1 lilli e li S.,... ll, l el taccia.  « Con qual faccia, s a ci: il I II, - l. Il lidi e « la fede?» (il lido (iiudl ('.  « Adunque con (.. I faccia « add Llcile? ». (iil I l.  a Ol' e il 1 - le fronte il il 1: ' ', i -........  « Poi che l'uoli o si º le vi! ll 1 o, fa callo º iro iile, i - - - a ratamente a ogni In. » (IV al a 95  « Hai | ll ll lla fronte cosi incallita, i lle ', il l i « di doverti call Il bial'e il el Vis? S, - il. .... l  « Con faccia tosta - e 17 i pi Va: ll 11, Il). 9, è « In prima si coniII e II in o Ill o. I l tanto che i  « manifeslainen e li faccia, e li ri.. « Quel che tu in, l): a l ha fa coia, (i, li i ll v o Lasca. Rilne. 9) i. « UOII10 Senza faccia - Il v.i.Vede e 'a lliere: i iacul, e « rere Iſlale., Fl'. (1 o l'il. « Don Roi Igo 11, l avrà faccia l:  Note alla voce  Faccia Fronte  951 – Cioè diventa sfortunato, si ucciulo.... l on li ha poi mol [i al li Ilsi e lo; i s'eri le sco perla, cioè aver bilona fali i tºni i l I (n le; Mostrare la fronte (slare al posto la r II on le pp rsi: a prima onl, ecc.  952 – Un ragazzo ha faccia tosta, lº li ha ſron le incalli lat.  953 – Far faccia vale prender il II e, a lei il pil i Far crlr facce di olio in Toscana per la ri. ligure, e poi, i a dover dire o far cose. Il li li llo ci livelli rili il l ' il.  954 – ci è chi noli la senso di ver: liti e di 1 ss ('.  955 – non si ardirà a far.......  16Fatica (Faticare)  Ricordo i modi poc'anzi addoti: senza una fatica al mondo, alle mag gio) i folliche del mondo, di tr fatica, prender latica intorno ad una cosa, a la lira il V V el l con ſali, i pºli, a gre, ai) alicarsi una cosa (cioè alla lira si per i lilisla la ed i gi o alcuni esempi di un altro uso men nol e mieille comune agli sci Il ri di oggi di cioè della voce fatica il sigilili lo li li a raglio, per il latino sostenuto o lato, e dell'analogo la licati e il no, una cosa, ciò è l raglia, lo, allige) lo tempestarlo alal, V e voll e, i l ligar.  E I: la turiſti e !). ll la ed ass: i n, e in riini della persona, per la fatica il Irla  l pa evano le sue fattezze bel e is si lite, l ',,,,, - (il'er le. In le, i ai altro pensare che di lui, e ogni altra cosi le v 1 - a eva grandissima fatica e per dil 1 lite si l V a oli, il 1 l quali, essendo cia si -, i faticarono la nave, dove la donna era, e' marinariLa loro si el e, e faticatº o ezia radio gli ali inni de savi. » Amm. Ant. l ' Illal (iiii, e ora il mare, ora la terra, cra il cielo di paura fatica Ill lo II e il I l fatigat.» S. Agost. C. l).  PRT atto  Mi acio, i nodi dell'iso, che li li è fallo mio: si fallo (di tal fatta di tal maniera: li fallo e Te! ivan n[ 9:50): in fallo, in fatti: fatto sta che.....: in sul fallo in orielli-: iallo l'arme: uomo Vallo, cavallo jallo, il lilla, biale. o si lili, latte e 9 l. e piacenti porre alcuni esempi di un riso assai ſi ſui lil e il loro i cl siri e non comunemenie osservato oggidi. (ilar la II Il nle iel, l a che va a mente, si adoperi que sta voce alto il significa e il negozio, faccenda, affare, interesse, e ora torerno della p rs not n 1 micr, ii, ' i cliessia e Nolerai le frasi: dire ſare, esse e checchessia di lall prici, le falli suoi (cioè di me, di lui ecc): andatr pei falli sui ri; a 1 e i lalli su i non potrer suo fallo (non mo strar che si faccia a posſa essere fatto mio, fallo suo (cosa che appartie ne a me....: disporre ordinati e i lorº li suoi: entra e nei fatti altrui ecc. Masopratutto porrai mente al vario uso del nodo gran fatto: non essere gran fatto che....; parere gran fallo che...... essere clicchessia o chec chessia un gran fatto ecc.  « Noi abbiamo de' fatti suoi pessimo parli o alle milani. » Borr.  « Ed in questa guisa Bruno e Dil falli la II o, « traevano de' fatti di Calandrino il III -  « E se non era il g... l in 1:1 lit, il 1 l i de' fatti - Il l III !! a dire.» Berni.  « Mossi a col il pass oli del fatto suo.... l  « Come se egli - lo so, o de' fatti ric stri - I ' ': l. i  l -  li i ll it, l.E mangiato, e bevuto, s'and: i pe' fatti loro, B « Egli sarebbe necessario che ti l. Ia la ss da il: cosa, e l: sto s « è, che se nessuno ſi domanda ss e di cosa, l..., o la r. - del fatto iuo...,  a che tu per niente non rispoli il -si -  l: i si v; st: (ii  « non li vede l'e (11, Il li Ildil e. ll tº 1 - in 1 l 'i a ir pel « fatto ſuo. » Fiert':1z. « Non lili da r no], e, a pe fati i tuoi. VI 'In. « Chi fa i fatti suoi non si ill, i ti:I l 11, l s. « Perseguitava una val Int. a quia li i -  « giungerli, on.le la line - li illa non ve li: l rime tii a fatti suoi, l a - a comandò ad illlo scarafaggi l.. Flei ei 12.  « Senza che paresse lor fatto, li colli, i cono a lorº, i lit: qi, lu - « qll Csto Sllo Illari) o. » Fiere:la.  « Se ne sta ritorna, che non par suo fatto. Vi rili.  « Dice le cose, che non par suo fatto. I3 i  « Renzo al suo posto, senza che paresse suso fatto la il clo « Inessun altro.» Manzolli.  « Il padre si lamenta del ſigilli lo, e si rie e di pin egli il a fatto suo., Cavalca.« Un solo anno stette e visse in questa º o, linellza ed avendo tutti i « suoi fatti di votamente disposti, con grande part se ne andò i (iesi (ri « sto.» Cavalca.« Ed (rrdilla () in Egitto (ng li suo fatto, - i: il l... » I3.. « ID'ulna in altra parol. I entrammo ne' fatti dell':«.... e sta bene accorto che egli non ti ponesse le mani adosso, per i « ch'egli ti darebbe il mal di ed avresti guasti i fatti miei. Bo, c.« Troppo ci è da lungi a fatti miei, ma se più presso ci fosse, bon tia dico che io vi verrei una volta con esso teco pur per vedere a fare il tomo a quei linac lei ogni e lo limºne una satolla o, Bocc.  « Non sarà gran fatto ch'egli getti qualche bottone, col qual io discopra il suo pens. ro.» Flei e la.- - - - - e 11: -: la gran fatto. ll al ti: o ce le cincischi.» Da Van. e le per esse -il), A di I'll imo, non sarà forse gran fatto li a l loba l l ulmanità.» Segn..... pe. indos I di -s non è gran fatto, che per livore o innato vi doig: vedere in alti io, li noli e conceduto acquistare a voi. Segn.« Pare a voi di tre gran fatie, l: i Cielo a voi debba costare qualche  leggie di s. l ' It, i lil II l S. In  cli I), o vi debba º si º gran fatto oll i- ato, per un ossequio che piu proi, il merile poi il re - l ni:il lil:i. Se n.e 11 il bis – il l gran ta! to: Vi l e a, per lº....» Bart. « Nè avi il gran fatto: ' ', p s a h si rai slm litato dal pic a col le li,, l ': l /Ed il la 1/ gran fatto in là, ella arrivò ad una  a certa ri; l:1. o lº.  I fior enti i: il: i a fiorini d'oro, senza a quelli li vi ii fit is ºn grati fa 11 o.» (i. V ill.(gras, a to - I l ini l e.» I3o. E I. e illliamolata di me cli, ti pal ei gran tetto, lº il l: i 1.1. I vig, l.()il -, vi i: 1 -... sse, e cado: le gran  tolli, i loro i no, mºltº gra.: 1a!! 3. (A, i tl ad. grandi e sanliº.  Note alla voce Fatto  !)(,() si,s, li oi i pi si nºi il cli: li presente, sui biſamente, in mantinente si rii di 1, il calde nori o nella piana el' i l.  l'Iron, pi si..... e di fatto, e senza alcun soggiorno tutti fu  I no il pic i fi. Mi Vili. -  (i \nche allo per cosa falla. I rili, in pposizione a dello, è s illli bocc. di I lilli. - Che mille volte al ſal'o il lir vien meno. Dalle. « I fatti son maschi e le li role so' felimininº o ProV. ital.N/l a n co  E' Voce Ilsalissimi, si, i 11. I pelle molle Il lamiere, gran parte volgi il s - che ad al lI'e lillgue 961, si go, il 1 - I l guidi, quelle tavia sulla lingua del p '. (il 1. leggiadria od eccellenza di senſi nellº si i... a no, la tale solo per certa analogia ila mano, avuto cioè riguardo ai vari lilli i ti che iene la mano, a quello che li, al per: per a signi  cioè che Ilon V elig l srli. I -, - i.. l'l'ono ll ( ficare potere, forza azione au il pri, tra i là di o l'uori lilli, soc corso, aiulo, banda, lutto ecc.  « Acciocche a mano di si', il ri non vertisse. I3o ('.  « Venendo a mano il it - - il II, le V elite e l'i « Stiano.» Vit. SS. I': l.  « Molti dei quali lug - I l a mano de' nemici « uſ. Inini II lontani pervennero.  «I terno forte di II lilli i r... i t. 1, i ir: imam l lilllico. » l?et l'.  « La republic tilt i, in mano. Dav.  « La saliti del V sl l fi I l l i nº lla ntitº i l l3 ('.  « E quale le an a -, i la mano a prestalica, io l'auto « rità dei prelati della sim mila (li a. il 1 l: Ali - oli?» PasSV.  « Fare i voti in mano di...., l 3:1 i t. Cºs  « Manda il la lizi una marmo l..  « I entulli, Vlt telli, l.li ra: no ci º randi. I: l..  « far guardare a mano di soldati. I  « rifiorir la calunnia coi li la mano ri: di doppiezza. » Giub.  « Carlo con potente mano v V on gi al quantità di gente a rinata.  « nè Inolo poi con piccola mano di armati V, il 1, a S. Iplone.... a lºoce. (Lett.)  « Sopra i detti fili si da lol: ill. it e s'ilm  « ponga grossa i lile l'a lt 1:: e io i Irella mano  « di terra, che s'è la [a di sotto. 13 Inv. (e'!. () i « Andando egli per di la, molta mano l'Il III liri de la ri; in Iglia l'incon  « trarono.» Benibo. « ma.... fu loro adosso subitnmento una mano di ribaldi....» l?art.di lini.... l) o lo veggia, e porgami la sua rºmano, - 1, li, i - ca. » V il SS. IPad.  I is: i o, che tenevano mano al fatto, t e del mondo.» Bocc. 965) \ qi te li-, e tenienc mano molti baroni del Regno.» G. Vill.  !. (ii i e Isolmi e le Gesù mise mano & i serrano ine li piu se e, più per ſette che mai avesse  I t. l. ti l a, fere cenno ch'esse (le pie i ! !, l i º S rimise mano e disse que le parole che - il pi su ro, e colli e gli entrò l. Ili, soggiunse e di Sese).  VI: messo matto in Alberto da Siena seguirò di dire di lui ll o lº  I l ott... m Se ntano in altre novelle., Bocc. 966). i:ili º di.oli perdere lo stato suo, mise  mano, l s... Il miº l 'ils li a l e E da', e, Vit. S. Giov. Batta. I ss; Il li i lill I, il I.. ll mi venne a mano, l'infrascritta cosa.» Vit. SS I.(olis derare oltre. ll he primi i gli venisse a mano.» Bocc. (967) li li avendo il pri' il o la ello a mano lavorava con guinzagli di I l (-: i ri.() la d [.li mi viene ai le mani al lli i giovanetta, che mi piaccia...» Bocc. I li pervenuta gli fosse. I 3, > cade per mano, la gio ma no di cambi.» I3occ. lt 'e llla l' e il I dil e che li cation [ra mano.» Ces.  rss e il dover lol dire, con lo costoſi alle mani  Era il pi vo! Il no del mondo, e le più nuove novelle avea per le mani, o lº e'.l'o-se va le e lo ill, e pretºre dei sogni i qua l abbiamo fra le mani.» l', - li ttiallo). Se \ (i, e li gli ha fra mano ». l) il tam. \ Inzi mi prego il cast lo l l se io m'avessi a cuno alle mani, e i la S. » l'8 eNoi abbiamo die ia | i sit i | -sino l'irtito alle mani.» Bocc. (: e quelli, che lo li pi Ili, d minare hanno alle mani.» Galat.  S. ll p il sier in o o d'i: lur e o amichevolmente o levargli la mano, a e li, lo ſi l e, i sºli, Ina grado. » Nell. I. A. Com. (968)C 'i ll nini innamorati bisogna lar come coi polledri: con essi ci v(( la briglia, frusta e fil d'erba; o: i rile, i li, o a casfig  rli, a lusingarli;  « altrimenti, se ci piglian la rinano la si o ti noi quel che ben ioro torna.» Nelli. I. A. COnl.  (( (( (( (t  « Non so...., nè a quale di i i il 1 l si ri le! V il gelo I.lligi dovesse  ceder la mano. » (es.  « Boezio pruova, che l'll in pole, il II ci ha peggio, che l'uomo di bassa mano. » (il V: il l.« Se tll II letti ll ! !: i lil:) il il l il bassa mano l. I (', o lì (vl) è mai per roba, che ella vi p. i, t: a Ilio., (io l. Spor. « Anzi prova il va il V 'o sſ 1: laici e colle persone di bassa mano. Ci s.« Non sieno di vite i ro? (d  alta, Ina - Ierio di vi... i mezza rilano. l'  « Ull chiassº lillo assai fuor di mano. l t. « Torrestela voi fuor di mano i ve lo i si V elido; lo più vili. » Pandorlf. « Luogo molto solingo e fuor di mano. I3) c.  « E quello con lui fa la ciurma ebbero a man salva. 13o c. sicuramente,  impuneInel1te).  (( (t  (I  « Senza che al lillo, Iri: i i, ga e 1 di Col - sari sopravvenne, la Ilta e tu ti a man salva - I pl - e el andò via.» l?oce.  « E perchè tante diligenze? 11 i poteri e gli averlo a man salva ovunque volesse?.» Segn. parla del fratricidio di Cal no.  « Vedendo il caso Ill ! I limiti e li -. V - il era vinta della mano Nerone era spacciat. » I)av.« Tutti studiava lisi di Ig Il: i rl I se non vincerli della mano. » Cesari.  « e il buon Gesù Maestro utili per il pa le, e ilppelo, e così bene disse tulle le tavole, e lo ile dall'una mano e dall'altra a coloro che gli erano più presso. » (.. V: il 1. 9ti!)  « Va', gli disse dalla mano dritta d ' s dica, ed egii andò dalla mano sinistra. Iº, re  « Così tornava per 'o cerchio t. 4 r. Da ogni mano, all'apposito punto.»  Dante Inf. 7, 32 970)  « Così duo spirti, l'uno all'allro chili,  « Ragionava ll di Intº ivi a man dritta  « Poi fer li visi, per dirmi, supini.» Dante. l'urg. 14.'(o)upds popuSIs Inb) ooogI v'o.IlIO Qpunu II “lumi ollop paol pp “u Au ICICIe II º oul o uutlop tº | I nuovi ed estro el l - Il  -IV » - 'lue AoN « ossip o:ppp) Non ſi pl), li our il pl), l' op.elp outdooo!!) Iosso l\ » sslo I sl. Il l is o ollo llo, li eICI o zUIo, Iolel « OI.).otº. I | ottili Il 1 ls 5  -opupuotu o “ollo)lo. o) n. il film l u n t al I ti Ip (in on ott oss, il o »: IIus o otodlam oliil Ip le oumi in l 'oupu Inl. -0p3 uol.IIUISIS plssol.o.ool. III our li lp i pp o II. In po 'pso.o) on li  tod o p oumul lo), ti: opoit | o olistino ti il litis oi ri: - red o o Tupou Ituo) e olltils o u? o una o lo)). Il 2n ils.... N  (pupoIV) optio. Il sip I n. p oso.Iotti: o s -oI) Ip Isopu ellu.Il 'tele i cd in 51 | tell, il lil III o II l ' op opulooos II oz.Io un Ip Ipniri, il ti mid o Iod: II o II: il onpoque ouuoi luis oumu lp tou, l oum il trito.I  lollflot ſpum il: uoſol) l) lt 1) II l lº fu i pup II t, l. 1, l ' ul, N li pill) I -.0 l 'll 30 l) il pul) lt.)() () 'l l: il 2 l. N S I. W N il p pli) II cºl l ’s ..o): I.).o: ls o “al IpUIoA Ip o Ille.it | | | | | | te, Ip o netto e l our, il tool, pi). IOI QuoopUIo,oos Isso od li elil I un ul. l I, pp.I: ) « oupul pl oood un lap. tifi oil o sotto ll op.  pddos uoi o! Io e,op is, l lo -ſim:(usu ) « oum il plm lui o il  ulson lì Ip o] Iod o [op e ti º lo utI UIou ott.Ia:S Ip oso - It?, Ilo) dolo) olim il mo) molti i pl. ): l o il lo ſi un lp: i -lad pl app:(Utlopl) oum lti li lui il 'lo. I pps: s i lo) -ulo plm luput ollo. Il N:ol n. ll o in lui lo pu Inl si.lol::: - -souloootlo otIIIss.Io.A.Iod o letti i l o, on i lou, il miti il: msoo mun oumu to. I p.), o), mi: ps spel up it I pi: oss. I lupu ol o toam:o)pſi.o) ll put, l.. ):p) spel il lunni, l -IIu.IoqII o Insn pſ up) o umi p), p: s e -ed IuI I] Iolod lp output pluti il 1 ol ss (I -od) oumtl ul.lo, m: In Ir) our li mi i nomi o l oil..I l 5, so uotp o[.Inq UIoN ) Tn1) o un mit ti, i no 1 o s - Ied II5o au » – ollu. I Il o v. Id e il pil un omone: i -oq IIosnI.I n el IIIquº plssolo.,ol.) un omi piu pitono i p i ns o ai -nole uzUIos) olon lupul p: olio: rºns e o os “Il p. I ºIIe aolo) oum.olm,p ou put il o al piu. l) o is i  a i  ) I ll,, 1 ) N N, i: ls,  - TeInzza) ' uo) lupu opm o.lu,,, losso: ss s IlTOUI e ouput ul oumu lp o Ioi o is I, opIV -- o, epi in pu Intro3 o otto Inpulition i volti, oros Ip II o un p on pu p. “mIIadno nun III olio novo Iorio ſi o IIIod s our in un ou put np “oumtl p on pnti p: Io I Il tº - il vi:.) e p), il -issmu.out o Issoptions o I, Ill.) o 5 - -1)ll,9lll:(o)uo III el.oIII).In n our li in e ss « ouml5 ml o unl ſi u mu.l IV fi, l ' li' in :(IoI, I « IoIIIn IIfop oi 15 º oliº olpoul “olzIpn15 solo emb lp e los I, -on T ): opcIt II e a 1. o un triplº: It: [.Ied ſoup oi lotte o lesn po o li li so I I I s | | | |  Oue IAI  eooA e le emoN  !): ſi  - (i  I:)(i967 – Questo venire a mano o alle mani significa capitare, occor rerº, scontrarsi, non renire in potere come negli esempi del primo gruppo.  968 – Lerare la mano ad alcuno significa sottrarsi all'obbedienza, usurparne l'autorità, comandare in sua vece. (Gherardini). In senso analogo dicesi pigliar la mano, cioè non curar più il fl'eno, ed anche guadagna la mano.  969 – Nola singolare costruzione, l 970 - Ci è tanto da destra che da sinistra. Dicesi anche (v. ap  l'ºssº e con egual sigili caſo, ad ogni mano, a mano de Sl r(t, a mano sinistra.  N etto  E' un agge livº e significa pulito, se ilza macchia o lordura ed anche buono, senza risio o magagna, leale, schietto. E però dicesi: coscenza nella. « () dignitosa coscienza, e nella Colle l'è picciol fallo amaro Inol'so! » I alle º I l'allava con nella coscienza ogni negoziuccio ». Fr. Giord.; di mºlta rila a liv. M.: animo nello, ed intero ». M. V. ecc. Ma si usa altresì a modo di avverbio, e talora anche sostantivamente. Si notino tra l'altro, le forme seguenti:  Averla netta, andarne netto, passarla metta. « Non ebbono netta del tutto l'avventurosa vi torla.» M. Vil. « Niuno ne andò così netto che non piangesse qualcuno.» Dav.  Uscirne netto opp. uscirne al pullo, in do toscano – Farla netta 980) « Io mi credeva d'averla fatta netta di que la vesſa, e aveva la se... » Fiel'enz.  Coglierla netta. « Io non vo' che la colghino così netta », Ambr. Giuocar netto (cioè con lealta, senza frode, ed anche andar call'o, e simili) – Mettere in netto 981, --- Tagliar di netto, portar, gittar, saltar, far chec chessia di netto i cioè con precisi rie, interamente affatto, in un tratto), « E con -sa sospintolsi d'addosso, di netto col capo innanzi il gettò ». Bocc.« E rimessa la briglia al suo giannetto, Come un pardo, saltovvi su di « netto ». Malm.« Senza certa violenza pare non si possano recidere di netto certe grandi | « quistioni ». Tomm.  Il netto di una cosa il chiaro, il fatto preciso).  Note alla voce Netto  980 – Significa in generale fare un male con garbo senza farsi scor gere. l)icesi anche larla pulita, farle pulite.  981 – Meglio il modo lo scano: mettere al pulito.  Fetto  L'uso della voce petto nel traslato non è oggidì sì noto e comune che non sia profittevole proporne lo studio con alcuni esempi. E' dizione eletta e si adopera a denotare l'interno dell'animo, la regione del cuore, la stanza degli affetti e dei l ensieri, ed anche l'intero uomo, la sua persona, la sua corporatura quasi fortezza e baluardo del suo essere.  « Camminando adunque l'abate al quale nulove cose si volgean per lo « petto del veduto Alessandro ». I3o.« Non altrimenti che un giovanetto, quelle nel maturo petto ricevo te ». 20 cc.« ()nde dì e notte si rinversa Il gran desio, per isfogare l petto, Che for a Ina tien del variato aspetto ». lPetr.« Era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne' petti degli « uomini, e delle donne, che l'un fratello l'altro abbandonava ». Bocc. «....benchè tu non se' savio nè fosti da quell'ora in quà, che tu ti la « Sciasti nel petto entrare il maligno spirito della gelosia ». Bocc. « Ogni indugio, ogni vità disgombri il vostro petto ». Fier. « E troppo mi dispiacciono alcuni mari'i, che si consigliano colle mo « gli, nè sanno serbarsi nel petto alcun secreto ». Pandolf.« Ma pria vorrei, che mettessi ad effetto Quella impresa per me, che, « come sai, Per comandarti In'ho serbata in petto ». Bern. Orl. (985)  « Se le prime novelle li petti delle vaghe donne avean contristati, questa « ultima di Dioneo le fece le tarili o ridere.... che » Boce,  « Le miserie degli infelici anni) l'i raccontate non che a Voi, donne, Ina « a me hanno già contristati gli occhi e 'i petto ». Bocc.  « Agli occhi miei ricominciò diletlo Tosto ch'i uscii fuor dell'aura morta  Che In'avea contristati gli occhi e 'l petto ». I)ante (986).  ma i loro petti empire di far là da poter disputare del bene... ». Da V. « Come innesterebbe principi di legge in petti che.....? » Bart.  «... e luogo prestarvi da potere la sapienza dei vostri petti, e la dottrina « e l'eloquenza diffondere ». D: V. « Arnol di I) io, che avvampagli dentro al petto ». Seg Il. Avvampare il petto d'indignazi (rnº ». Seg Il. « Ammollire gl'iniqui petti ». Barl. « E voi Cristian I ll, Il avete petto (la la re un'egual protesta in 'Ocſe all « cora più scellerate, piu sozze, piu abbori inevoli? » Segn.  º...... allora sì che Dio non potè contenere l'ira nel petto.... ». Ces.  « Ma son del cerchio, ove son gli occhi casti Di Marzia tua, che n Vista ancor ti prega, O santo petto, che per tua la tegni ». I)ante.  Si notino da ultimo lo seguenti li laniere, Stare a petto. « Stettono arringati l'una schiera a petto all'altra buona pezza ». G. Vill. « facilissimo a risentirsi di ogni emulo, che pretenda di stargli a petto ». Segn.« scusandosi col dire che non aveva gente di stargli a petto ». GiaInb.  Pigliare a petto checchessia (cioè impegnarsi in checchessia con prelnura) – Mettere a petto confron a re A petto dirimpetto, a paragone, a com parazione di). « ed avevanvi fatto a petto il Castello del Montale ». G. Vill. « Egli non ha in questa terra medico che s'intenda d'orina d'asino, a « petto a costui o. Boec. « Nè..... ma Volse a petto a lui se Inlorare un oro ». l)a V. « Ma tutte l'allegrezze furono nulla a petto a quando vide la fanciulla » Bocc.« Tutte le pene di questo mondo sono niente a petto che loro (i demoni) a vedere ». Vit. S. Girol. trad. a petto a questa cosa: vedere i demoni).Note alla voce Petto  985 – Il tedesco nel parlar famigliare adopera anch'esso la nostra voce petto e dice: Ich habe in petto ect. per esprimere anch'e gli che si serve in pello o in animo di far checchessia. 986 – Nola eglalissima dizione di I)anle e I3occaccio: Contristare gli occhi e 'l petto.  Fartito (sost)  Il significato dell'uso, secondo il quale cioè ques'a voce è sulla boc ca di tutti, è quello di palle, frazione ed anche di occasione parlandosi di matrimonio o cosa simile. Ma è il sala da buoni scrittori anche diver samente, a conserlo ci è di altre voci e ad esprimere molte altre idee, e piacemi di allegarne alcuni esempi non avendole queste forme, secondo pare a ine, il volgare linguaggio, e al che chi sa di lettere, non essendone per avventura ben sicuro, leggi e vedrai come alcune volte questa voce partito ha senso di modo, guisa, el al re di patto condizione, conven sione, accordo, stato, disposizione d'animo, e lalora denota risoluzione, determinazione, tal altra termine, pericolo, cimento ecc. ecc.  e biasimarongii forte ciò, che egli voleva fare; e d'altra parte fecero a dire a Giglinozzo Saullo, che a niun partito attendesse alle parole di Pie o tro, perciocchè sel facesse, ma per amico, nè per paren e l'avrebbe ». Boce.  a Parendogli in ogni altra cosa si del tutto esser divisato, che esser da « lei riconosciuta a niun partito credeva. Doce.  « Ma il mulo ora da questa parte della via, ed 'a da quella attraver « sandosi, e lalvolta indietro tornando, per niun partito passar volea.» Bocc.  “.. ma egli a niun partito s'indusse a compiacerne io ». Bart. (990)  « In verita, madol, na, di vol in'incresce, che io vi veggio a questo partito a perder l'anima ». Boce. 991;  a Noi abbiamo da fatti suoi pessimo partito alle mani ». Bocc.  a....chè in verità vi dico che se ll dio mi mettesse al partito, piuttosto « elegger l la povera Ionica di Paolo e ' Ineriti suoi, che le porpore del re co' « redini suoi ». Cavalca (cioè mi desse la facolta di eleggere tra due cose l'uma). « Di S.Gregorio si legge, che posto al partito per un piccolo suo pec « cato, quale voleva innanzi, o essere sempre infermo o in avversità, o « stare tre dì in purgatorio, elesse piuttosto d'ossere sempre infermo ». Ca Valca.  « E così tra l sì, e 'l no vinse il partito, che non gliel darebbe ». Nov. anl. « Ma a cagi n che di questo li stro partito n li l'Inter venisse scandalo e alcuno, egli sarebbe liere - il 1 he tu ti guardassi da una cosa, che...» Fie renZ.« Laonde egli si delllier, il tutto e pi UI | o di pigliarvi su qualche « partito; ed ebbe: p ir, e con lIn – Imbe, o h el a dottore in legge.» Fierenz. « Ma dei piu cattivi parti bisogna pigliare il migliore ». Fierenz. « S'avvisò di voler prima vedere e li tosse, e p i prender partito ». Borr. « E pc:nsando seco lei in lo, prese per partito di volere quesì a morte ». Bocc.« Prese per partito di voler e in tempo e -se e appresso ad Alfonso Re « d'Ispagna ». Bocc. 99?« E sentivasi si forte il lo!..e, l'e..a sl Imav i pure lnorile, e non sa peva la Maddalena che partito pigliarsi ». (..aval a.  a Adunque a cosi fatto partito il folle amore di Rest Ignolie e l'ira della Nilletta, se collº llls - el'o e il 1 ll 1 ll l n. 13 -.  (( « Ora approssima in dosi Impo cle (i e su lov, a noi in e per la salute Il Ost l'ºl, e....... gli Srl ii) e F vedeva l'1-1: mal partito, per blè 'll tta la « gente credeva a llli..... (il 1 l.  ſt  a.... dell'anno li. ll irl I e I e - il li fili l'a ll III lo.. lle al partito a m'ha recata che | Il lill V li ». l 3 993  º..... ed essi tutti e tre a Firenze, il veli lo dirilenti, il to a qual partito gli a avesse lo sconcio spendere altra vi lta recati, non ostante che in famiglia a tutti venuti fossero piu le mai tralocchevolmente spendevano. » Bocc.  « Per io chè se io veli di al II li volessi, riglli ridando a che partito tll po a nesti l'anima Inia, la tua loli lili basterebbe ». Bo.  Si irolillo da Illino lº ſi rime: Mettere il partito (904) « Pilato termè, ma pur, vola i dol liberare, lo ritenne, e fece mettere il par e tito cui eglino volessero liberare in quella l'asqua, o (i sti o 13:ll'abba ch'era « ladro ». Cavalca.  Andare a partito Mandare a partito Mettere il cervello a partito. « E poi quel, che per i consiglio si vince - e, andava a partito ai consiglio « delle capitudini dell'alli maggiori ». G. Vill.« Con codesto tuo discorso tu II li hai messo il cervello a partito ». Fièrenz. « Coss oro han messomi il cervello a partito ». Amh. - - -Note alla voce Partito  990 – A miun partito, per nium pa tito è modo avverbiale di frequen tissimo uso, e vale in niun modo, per niun verso, a niun pat lo, keinesu egs, un keinem Preis.  991 – cioè: con questa maniera di agire, su questa ria, a tal termine, Slºtto, disposizione d'animo, e simili. Parla di una che si con fessa e non è punto disposta a cessare i peccati.  º2 - Nolale queste maniere: prendere partito, pigliarvi su qualche partito, prendere per partito. Coif. Verbo Prendere par. 1. Capitolo precedente. Simile quello del proverbio: «Preso il par tito cessato l'aſalino, Palafſ – a partito preso è forma av Verbiale e vale analogamello, le maniere sudelte, pensata mente, dele, minalamente. « Per cogliere i nostri a partito pre No, e a V alllaggio loro o, M. V ill.  993 - Era inferna.  994 – Non mi pare al lutto sino in dell'altro: mettere, mandare a partito, cioè porre in deliberazione,  Fºarte  Voglionsi notare di questa voce i nodi seguenti:  Salutare, dire, fare da parte di..., per parte di.... (995)  « Con lieto Vir-o salutatigli, lo ro a loro disposizione fe” malli Testa, e pre « gogli per parte di tutti che.... » Bocc.  « Signore, io mando a V. M. il signor Amalrile Rucella, perchè le faccia a reverenza da parte mia ». C sn.  « V. S. gli dica da parte mia, che se non si fa forza, diventerà ipondria e co ». Red. lett.  Dalla parte di.... - - Dalla parte mia, sua... v:ale dal conto mio, dal inio lato. Sono frasi quasi di modestia, o almeno di riserva. Tom.).  a Egli era dalla sua parte presſo i d V i), ch'ella irli comandasse ». I3', cº.« Perchè noi dalla parte nostra saremo sempre e pronti e presti». Cas. lett.  Lasciar da parte – Porre da parte « Si pone o si mette da parte per ripor itare, per serbare, per discernere, Tomm., ed anche per non farne conto, non farne cap ale. « Ma lasciando questo da parte se io ci elº -si...... » H (-Illb. 996 « Lasciando l' altre ragioni da parte una - la basti per tutte. Borgh. Tosr. A questo do.. I nn l r noi, posti da parte tu! l i t. In di 1, st i. Va: lli.  Trar da parte a pmi te – Ghia mar da parte – Star da parte in disp:te  – Tener, fare a parte,  Star da parte vale non confondersi con altri.  Tirar a parte è alline a lirar in disparte.  Si dirà: tener conto a parte, far cucina a parte ecc. e non altrimenti.  a Tratto Pirro da parte, quinto seppe il mie li, l'. IIIb:is glata gli fece di l a Slla donna ». Bo,  « Chiamate i altre (lo! llle da una par c... »l 3o.  « Quello che già è passato si sta da parte tra le cose sicure ». Varchi.  a Tris - stando i in dispart..... o I Piety'.  a Cl teneva il flz, li i parte, I3 r. ll ! Il.  Prendere pigliare, terra re in buona, in mala parte ecc. I) e lui lo:li e 1: lt i tºv - '' i, ve: t 'i nt i presi in mala parte, e non in buon grado, dl-so un inti, li' gli gli porgeva colla le stri, l'a.tro colla  a sinistra prendeva gli o. Salv.  Note alla voce  Parte 995 – «Diremo: fategli una visita da parte mia, meglio che a nome mio.» Tommaseo.906 – E' inaliera simile all'altra: lasciar sta i c. V. Verloo Lasciare  « Lasciar da parte è più scelto di lasciar da banda. Tolim.Storna c co  E' voce usatissima anche nel famigliare linguaggio, e tanto nel pro prio che nel traslato, cioè per indignazione, commozione e simili.  Ricordo alcuni modi e l'asterà:  Dare di stomaco il cibo recello, i militarlo Fare, dire.... con istomaco. « Onde i veri padri con grande stormaco ricorrono al senato ». I)av. « (..he da Ine si noill Illi, noi con istomaco o. Call.  Fare stomaco, venire a stomaco, avere a stomaco. « I no stile da fare si omaco a tutti gli animi i livn contornati ». Giuber, 1. « Non si lesse il testamento, per le al popolo non facesse stonaco l'in a giuria e l'odio dell'aver i là (p - o al ligliuolo il figliastro ». I) a V. « La sofisteria, e l'incivili a li quest'uomo è venuta a stomaco alla gente ». Caro.Fare sopra stomaco a male in cor) – Esser contra stomaco (contra voglia).« Io vi dò questa commissione in al volentieri perchè so che v'è contra « stomaco, come a me » (in o. n il vi v 1 a Versl.a Tengan per me e do i miuse, conte di Virgilio, tra quelle sagre om « bre e fontane, fuori di solle il l cul e e mi sta di far cose tutto di contra sto « maco, libero da ci rte lla e va ill: e Irla ». I), i Vanz.« Mi lascio trasporta a questa a Iv: us inza, ancora che gli voglia « Inale e lo faccia sopra stomaco ». (il  NA erso  Tutti sanno che ci sa è il re so in poesia, il verso sciolto ecc., il verso degli uccelli Gli uccelli, su per gli verdi rami cantandº piacevoli versi, ne davano agli orecchi testimonianza, l'occ. « E gli augelli incominciar lor rersi.» Pelr.: ed è altresi comune ad ogni penna l'uso vario sia del la preposizione verso, verso di..... l' 'No ! )..... che del sostant. verso per banda o palle.  « Questa è la cagione che ſa che gli scrittori d'agricoltura concedono che per un verso le piante si pongono più presso che per altro.» Vatt, Colt). E così va intesa la forma pure dell'uso: pigliare una cosa per suo trerso.Verso per riga, linea, l'ha tra l'altri il Caro. « Scrivetemi solo un rerso clie le V, slle cose valli lelle.  Ma ciò non è tullo. La v e rcrso, ed è quella delle forme qui appres so, si adopera alcol a a sigllil: l'e: manici di modo, ria modus, ratio).  Per Cgni verso –- Per mium verso - andare per un medesimo, per un altro verso. \ niIn: ' di e tre i ri. 11,1 per cgn, mai verso. Iº lº I. (.: s. Ne pilò per verso alcun l era -i a el re li oi i to; a sfa l I mali. Varell. El'col.Andando la cosa Itta via per un medesimo verso gli Is g: va pe: lo; za li: rtir di lllel il 1 g... FI el'eliz. - e (II), si vi: il 1 l'  II it: i 1, se vanno verso. (ia!. Si-t. l'er 1:1 r.- 'i.. v verso i cui il non vi fu mai ». I 3 l': 1. () rl.  Trovar verso, () ribe, II; s -. 1 (orv... - se i trovai 9 verSc 1Z. I 11:). mi ri. ll It - ir: - si rl:. Mutar verso. « I l in un li versa i Z.  Andare a verei andargli al versc.  Q). l io.... ci segui i aridare ai versi, - l'ill Il '11 l..... ll:: V.i i-silli i tii: il il 1 che lor non vannº a ver, i il lo  « S: si orz: v. li:: Isili andarle ai versa, e !: I)1s, il l. - ir.Di alcune parole ad uso e valore di voci e parti del periodo collegative e talora anche integrative.  E e n e – NA1 a 1 e  al 13 EN E. lasci º si va il riavvi i bio: giustamente, acconcia nºn le, con la mente, l'ulo non le, sicuramente e ecc., ed anche le no le Irasi: ben bene, il no per bene di garbo, la coro fallo per bene, or bene, bene sta, condurre a bene a lilot line ecc..., e mi piace di offrir li al II li esempi in cui bene e la cosa piu o meno riempiliva che l'ene il s. la sicci esce lo si e o, e tiene alcuni poco del tedesco  li li l. (5(i  Ma egli Iul bene, qui intlin [ue s elevatissili, proporzionato alla lama e Vita di Ill il s'e ll 11 l' e st. l l ): l 11/.Nel l bene i l.. a l In, io che | o-s, ! ». ! 3:1 t.MI,a con i ti I t'l spes-, a lirato? o, disse S 1 (i appelletto, contesto e vi dico io bene, che io lo tiroll o spesso la II l3, r.a Egli e qua un trialv lo uomo, le trili i l: - l alo a l sa º il ben cento lior ºli d'olo a. lº. Ma se vi pi e, io o le insegnero bene tutta n. Boc. Voi - i pete bene il legnaiuolo, dirimpelto, al quale era l'area.» Bocr'. \ te sta ora dal ni ben da 11 g 1:1 re, ed io a te ben da bere». I 3 r. º lll gli da ra. Il mito lei e la la l la.Si le, e visti di tratta e lui - tra i 1. I l incn ill - I l n; l)av: 'lz. Bene i ll vel, che.... l o.Bene e vero, di vo tra Irle, se lº tibel i lido li nº i lorº liti o, ben è vero a che quella grandine di coli e lini e di li tir e il 1 o nlinua cosi alla distesa I r lil, a l'opie 1. ManzBene e il vel... he il l e le::i riti - nte d'Illi: lo za sull e iol e, e la a !:ilta, il ri il 1 e 1 il 1 l. I lirt 'nzi e, il vetl, i ver li ille, di lora a ple a rlo., (art.e e appresso gli dimorava una serpa, la quale bene spesso gli divorava i figliuoli poichè erano grandicelli ». Fi. I ciz.a vomita lo slla - Il perba lº stermini: i i ben il V e V el - i:n corso  a lanciato senza un l I l tar di II lezzo ». (es.b. M.Al.E. – Tulli sanno che male è predi alo di tutto ciò che è coll trari, il bilono e al bene: in ſei mili, pena, Iorli, il, inisſallo, danno di sgrazia, lenſazi ne dolorosa e c... Si li e al ra e volgarissime le frasi: a rer a male, a malati e di male, a re e il malanno e l'uscio adosso (lina di sgrazia dopo l'all ecc. ecc. Via li li so. I rile dei moderni o volgari scril lo i c li si a la vo male, Isi Ina in ſilella forma, vuoi di aggettivo, vuoi di avverbio, che nei seguirli i esempi. Leggili, rileggili e fa di sentir - lie la forza e il l non so clie di vago e per gl II, che è il lilà di così d'arti l'isl ic. (li el II zi, le elegi Ssic li.  a... st V: l III mal conceito fuoco. I 3. «....:). Il coll mal viso - Il l I am li ri- -e. l. «.... il rinai.. Se; (iappa letto i lic - i pm rai 1, si, l ma le agiato el' 1 (-a del II lo; lidº, o. I 3 ).maie agiato l' –, li la a gil: i il.. 11, l Inl, o male agiato esse, e male,  pe. lli, a - io, e -::: a male i:n bocca si,  vitili era, o e, l 3:1. I 1 A.  « c' 11 se l' ', male: l e \ Il..li, lili i lo nia?.... (, l. Il n. volt': li la III, i mal piglio, l.ll è lie: \ e le colli e iº sº io -, il V rºtale lili, i.. » I el'eºlz.Il ragi la I (l ai: le maie a lo)ia si convenesse. l...chi v e iilipov rito: chi vi: ini: i il a, l.. i: ti: ti l i male arrivati )). I.a do III', nd Indo pier lorº i val, l l', l ' I mal degno n. 1 ss, loſ nig ill: I li.Voi sie (o grilli vecchio (pole le male durar fatica, l ', di liri a III nte, l'8 ('.  e I, il III lo zi le: i riz liz li mai -; l I e  a:I III lil (i: /:1 e n. la t al I ): v. lll. “..... rip, ta io a lor lui gli le male accozzate i - V a essere male in essere di d. Il l ri, li -: li i l ':.. l 3. l l'I..... poi ho li ſu Io!Io avanti pre o di mal talento i lo! « parole molto lis o eo. 13ar [.. e.... tutto pe o, se male a me non ne pare.. l 3 l. e Onde pa, che male si a latino al vstro lº so, si fa i lma iº e d'ill « si fa ». Si li.a e finalmente la gatta gli pose la io a lica a iº --, e non lo 's io i ri vare alla male abbandonata e sta ». (i 22. Vi esort era il 10 al 1- e' di vi con più 1 ri') o quando ancor vi conosca a l male in gambe ». Si. n. 8s.  (S: - I:ile i siti: il ma! - be il s.. i: e i nº, lo re  I ma le:nctiuisi o V i S:s lº i l: i  Note alle voci  Bene - Male  (iſ, 1, di bello - con i | II e, e lipiello di forza, è noto e volgi si li esel i pi e me ne passo: l' ' belle sei il le li i l l'illmo all'allro ». 13 cc (li l: ss e le liti in tv l' e la lle legare in anella e... I V l'elol) cli, l V ! ss. 13 o.Noi la frase: esse i lr me (ni le li alcuno: le pallel'elmo al i pi lo lingua  (i, II, i posſo in li si ma le ali a 1, del 13a l' oli, del Gozzi, e di tali li: ll is, del 13occaccio, e come i g, e l' ai c. Il riso le li ell'avili, la V eliti el'Iluissero sponta e dalla lingia e dalla per le lo; e inalier e del glorioso tre  i º  (S Sla i bene, male in gambe è I l is li fissili ira, ma l'ho volli a poi le pol chè si vegga quali male si ali ngano certi autori di gi il nome, i rial: ci si ali i lalora certe frasi, l li trial lo scadille, snoss, alli e, siccome appunto il male il disco so, e il li s'avv goli che pur vivono nella lin gli col nulle.  N/I a i  l 'avverini, ma, el: vale più che il latino unque n. e li il cli, sia con il il S. liv e il l li, lui li i maestri di lin gli IPI Il v'ha del con la I - i: il 13 irl li, esempi, e non |. lli al clic so, ci li e la leg ai la lil loro e la non si sia rolla o.  lº si rip; il lilli. I il silio il I ti: le e, già gran lenipo, stral ci gidi (lelilli- e mai a V cl sels, l'in alcun len o, e d'in nessun empo; e lei l'uno o dell'all ', cliave e indizio non solo I! I lil si le lilla legil'i; il cos! i le  Alti i basta ad ill riderlo il si mai e cºsì dicasi delle molle \ lo io e con i renda e allo studioso  l.  il li igil: clic ci velisso Inai si lill egli allori fonti e mae l | |  –– 281 –  stri di lingili ilaiii. Il II ci del e di averne senza più conseguito il 1 ello scultri, i si p.. si, Direttorio, al quale più  che le definizio i l sl 1: i il [.. assioli, lei relalvi e semi pi Ne li Ilo (ſi alcºli - anche di qlles la mi ai -, i lili li diranno in Irla: 'e vi gie li ti li l.. i li' ci li - Illia di II li ignaro delle classiche venisſà, lo si pel lo i c' rss, i indi, sia cli e Villga in al  cºn l 'mi pi.... ll il 'Nsui le nip. S roll e li ll (). o per arren lui ci. i ! iº i l i cli, si mi, ti se il l i.  intellsivo della s. ssi ma mi tiro i si,  a Pe! l III list, 1 l g io, i tic, l l.  si mai nascesse.. I 3, i. C. ll pill IIIa li e p. mai drappi ! -- dialli, IB,.  m  Coln in 1 il i i il mai !: esse  MI, sl l'a ll  il Ver mai. I 3,..  “..... i isl - se mai i piaccia, ti con i le itto i pal.11 st: Il lit -.... più che mai i - a che VoIIIeri le spalle, a II. 13o..E se egli avvi e che ti mai vi Il « che..... » I30. e I)isse Fer Ildo: () li mai. ll Ill 2 a I)i - se il III lil SI, li Idilio V il. () Il l - - I l S I a mai, io sarò il III: gli 'Iri It, il l in I l.. 13,.... l'av: elie | r in 1 e 3 - 1 r. ll più - che mai lº. E venivasi li rila lirlo ! ! oppo, i ve lº ſi tº e ! - ll gian: mai:, a connesse, e piang nel loi i riti, sop.......... e sop a che n 1 - i poli ebbe dire. Cavill.  a... ma per certo i test i lia la sez/ i l che tu ci farai mai».. a Questo e i pili allo Stato li Itc 'igi ssi mai e lº I l. le quali fili o no e primi clie -, e le sei mai: l ill). Fl: assalti i al IIIa la..., l mai, i [.ra ti:lel cliore ». (iiil III l. e.... ed oli voi fel ci, il litori - e il -1 V, il lill a fa rii mai santi!. Sºgli. a Ed è possibil. che mai gli 11-:.  «.. quali lo In'a ci r., ma andr: il 1:: i pi che mai. - 1. « Mla l: Ve: i ti ti, i lil il gºl ! I mai e Cmpre.  « Se i II a i º  I)isse Nicostra [o: Maisi, i pizi - li lo i vi " lº i l II 30 U. a credeva, º ile - egli dieci anni Sempre mai ! ll -, a che ella mai:i cosi fatti novello: l il.  a Corne, disse Terondo, dunque so io, io in l? Diss il 1 Mai31.  I 3 pt i'.  derili ti far sempre mai il i. I lil -Note alla voce IM ai  70 - Vive nei diale l'i: Come mai?; è afflillo come mai, ecc.  (li si voglia di si ill di gr. ss, ognun sel sa, ma gli esempi più che  le parole i cli, tris li rello so e vero significato della voce lia, a |iliale og  i è sl Irola o la le adolierala, che pur talvolta non sè ne abºsi o ti liori si lasci li il 1 orla non disdirebbe.  \li i e,: i fia l' -. / lia la tll ci ! ll li Ill'ai». l 3oni e.. I voi, il te: i ia questo ). l 'lei'.- - - - - | li i - li i si ve l fia il presente  º il tilli: i I  !: )st l': l 'li l'tl  S... - 1:11 - I ll v;t, fin l v.. l 3o..  le fia, 13. Qui i fia ir: le l Sel lembre. Caro. l fia..... I v.I! ! -, l ia suggel che ogni uomo sganni ». Ces. Dante) \ i li - lo ill go fia llº:i li fesl:i., (iianl). ll (: | | | l fia l e l'1 a 1 a:  perchè - º la piovana -.. n Il re deila t rra ». l)av. !, lil: il -...... p le i, illi, e alle fia di loro, se  l' - I no ll v i l il 1 li i:''i. I l ' l : i .... le  St i t, i s.  i mi vo'il a sito dispe to lanni di chi fia la colpa? »  Se ll. V et cine e gli oli Illi i: l i tº  vi N ſia mai vero, il l.  Si i pil I: I: 1' i rp -  a io i vi prosperare? a non ºn l fia mai vero. » Segl). sul gio: li  l' osti i Ira d rupi scoscesi, che fia  iera ſºnº la nºn la l e in cima a titlei precipizii, a tracciare  sì belle prede. Segni.  non oltri, he pli il... ma hi l - ve..a sino alla fine, quegli fia salvo ». Salviºli.N/1 e rc e  Non in senso di mercede, che se l'ha pur questo, ma in quello più co Illume e assai in list, il pp i classi, d'aiuto, di soccorsº, di grazia, di cor lesia, di merito, di pietà, misericordia, compassione ecc. vuolsi qui si diata la voce nei cº. I il quale non solo forma alla francese merci, o all'in glese mºrcy, 111 i clide e ci III, Illasi ad III in do si governa che nell'una e nell'all la lingua I e Iris a ragion d'esempio; merci, a la merci de.... se ne tre il la III er i cie..: grand mri ci 1)ieu merci; o quest'altro: for mercy salvº': al lli e nºi ci o, e si o le medesime, cl e le Isale comune menſe dei nostri classici. Eccone alcuni esempi. 4.  a Marfe, lºro gridava mercè per Dio; e quanto poteva sa - il1stava: ma... ». HOC ('.“..... II e io ll li ll 'oi, i vostra mercè. lI loro de ll ' 'e volevate ». I30 ('..... di e il Si r. le gran mercè, e che... ». Bocr'. ()r ecco clle veli le (esil, e Lazzaro, gli andò incontro, e lil - sl tutto in to i ra, e ba io i sºli i pit li, dicendo e grida i lo: gli Into e, mercede a te ril: e º si ro, cli(ti - e' leg lì: i di V (I lil alla casa dei servi Illo I., (a Valca 6; a Voi la vostra mercè a vel e il ' Il lili Vito ed io voglio oliora i vori. o I3 r. I Io pe ril o, il torn all i vostra mercè., Borr. I 1 Dic mercè, e la vostra, io li io, che io il - i lel', i vi....: la II o II a dosi a el l te, noi li per iniet e si i l i mercè di Dio, Irla consapevole della slia i degnita. » lº i rt.a.... io lli soli, condotto per tl, to il viaggio senza slo e felice le te. mercè del passo, dei sussidii, ecc. e, Caro.a E be: hi, quelle bastonato i fili o non Ini avessero fallo liscir di a passo, con quegli che oramai, la mercè di quel fanciullo, vi aveva fatto il callo. o Fierenz.« Non vi par che sarebbero stati auda i, presi Intuosi, protervi, e in dºg li a di quel perdono, che ri verono mercè la loro prontezza? Segiº.Questo e imbiò la in Egit o II il Vlosè di I l e --as-In, il divoto Illo « ma o, mercè di una sola predica dell'Ill lerno da lui -:llitti, Il lillitllll Ille « per accidente.» Sogli. a e gran mercè vostra che peggio non abbia fa ſto. » Bo. Chiede il 1o mercè a l)io per lo merito del pr omesso liberatore. Ces.Note alla voce  Mercè sserverai bella elissi, quand della preposizione per e quando del verbo essere – virtù del resto e proprietà non esclusiva  della V e nel cº, li la collllllle all ora ad altre, v. gl'. grazia, ne il o, col 1, sia e c. buona grazia costra: e tru vo, grazia d'Id duo, che io mi sono conserva lo ſtian lo più posso... » Pandolf.: merito l'assicIllita dei vostri stildi, ecc. ecc. – Conf. Elissi – IP: I l e l.N erai lili ancora come la c ligi inzione, notissima, merce chè, non è che un composto di mercè e di che. « Non pote lono essere preferiti, me cechº I ddio non si lascia adescar da doni. Seg.iti – Mercè a, ed anche nei cede a, è modo di ringraziare proprio del la litiglia italia, la.) - I fissi del segna as del non le I)i, dipendente da mercè (tut I simile al francese I)i i merci. La qual omissione però i li ha pºi il luogo quando il no di l)io si posponga a mercè: Itri lire le velini dore ne è l'Iddio e di questa gentil don li scali Io sono. I3, c. I li li ho bisogno di sue cose, rei li la mercè di Ilio, e il l marito mio, io ho tante borse, e alle cillole, ch'io V e l'alloghel ei elillo ». l?occ.  Fºurnto  E sl il. e lui le avverlio viene la voce punto assai volte º: ri: i vi il ci ills e.  I e - n 11 lissili, lira gli eserº i pi li animi niscano quando e come me gli Ils: il tre, si ch il per i clo, lerivi grazia e buon sapore di eleganza. I pil con i col sos intivo soli: essere in punto in assello, in accon io il precipilo, in istalo. grado e nelle re in punto (cioè all'ordine: nellere al punto aizzare, cimentare con il lesia, l'uomro perchè fac cia.... in buon punto opportunali e le at buon punto: al mal punto; dare nel punto: di punto in bianco all'improvviso: di lui lo punto ecc. ecc.  I vverbio ci fornisce: a ln di che legano con maggior intelnsilà, li r es.: punto, punto; nè punlo nè poco; punto nulla e qui tiene alquan Io del point dei francesi); b) un certo grazioso riempitivo che torna ad a lui un lo; un nonnulla ecc. ecc....  Le previsioni siano in punto a lor tempo.» Ci sa, Piuttosto tre cavalli buoni, grassi e in punto, che qui il tro affannati e a Inale forniti.» IPandolf.« Navi lornite di tutto punto, o Si Lerdonali.  « In mal punto si ori emino il mare ondoso.» Menzini.  “ Dunque, ripiglio I rail all' inte (i riso, messo cosi al punto.» Mla zoni,  « Cosi già in punto d'ogni cosa bisognevol a qil passaggio, prima di « Inettersi in mare, il dl IIIessa.» Bal'..  « Alcuni di essi, parte torchi di mia e, pari opp. e-si da, e ritiche, ſu « l'oil in punto di lasciarvi la vita. 13a I. .... coli 11el (i imporre si sl:  e- si va in te sul punto da i convenevole. ... e stalli, il ciò tintº sul punto della Cavaileria che...., 9, i 3 art..... affinche', dove gli ne venisse Euan putil o al n o in strasse. o Bºri. º volea dire, secondo - i no 11 i 1,,, li: soli iti e litta a ce ngiura « era in punto. l)av.« Cento e piu loliiiiii li quel lite, li i luro, i ti o al lav.o, e, Inque  « di le filsle e il Cat Ir furc no in punio di navigare i IlilitIero, o l a v. e Miille navi, lurono las, i voli lº stalli 1 e ! il.... in punto.» I)ava inz.  le Illali e se li ril s gloiro, altri li a gr. - era punto di rievolezza. Boce. « Punto Inoll I Il l: II le gital (ial s. i  «Qllegii che hº illio con il prat: 11 le li: Il to punto nè fiore. SI). Se n. l'ist. « Punto del mcndo il 11 poi ea posare il ll. Il li otto. o I i  I ti. « All re ragioni di non punto men grave il il 1, lizi.» l?art.  a e lei si riglia e li rvirill d. I 1111, si lire, i 1. I tigli: il re - se le punto  « nulla sentisse del bar -o il 1 e il 1 olii Illesi, l 'empio., 13 art.  a che punto ch'un tral, li. I o v sta a igi si trova in l.1 o ſu il lie la lite « in boc.  a. » Cal')  « Moltº è la plance..... ll 1 11:1 punto di ieri interni o... l ' i -. « S Voi mi volete punto di bene, il 1 e il v; 1..... B... Sc Il legna illolo e punto abile. I... Il D... - il l.« Con l'e rabbuia punto, lo sl 1 l o il il i li. « Ma no: percio che ino:o -aio i lil i: li, sa p.ti, i 3 malteschi, le  « pronti il d urlneggia 1 e l - la li: i « a finire lº ll'Illia delle illa', o li co.. e., li;..... si l.l.i.« loli sara forse gl.lli la o, ll il Il l il 'cloro. Cili punta 1 I li le « d'umanità.» Seg ll.a El io 1 orno a dirvi co; i pl º tes, e del Si io che li punto confida « ll (ille Sile forza dov l'à (il dere. » Stg, ()gni donna che punto bella 1 -se vol 1. l) I V. E nn la di ea. ch'e g: ai le pericolo a.i II, II, scprasſare punto nella « immaginazione, qua l.do gli vi.. li. a Ine: te l zza d'ill felillila, a pe: occhiº soprastandovi punte ri le volle a l livi rie, ch'ezi, i lio un'anima « molto in onda in castità, le ril ma ne per os - l II l i lilla.» (1 Valia. a (iò sarebbe, da re a discutere la Legge di crisi la ni a Sriali lasci dolo a e a Cicondono a quaii, ve ella pa in punti necevole al lo le pillol!: o a degi strati, agevolmen e riuscirà d'indurre il (.ali - a Irla a disdire al Vil a lela la grazia e col finarlo fuor del Giappone, a Bart.Note alla voce  Punto  i – Punlo, nullat, un non nulla, niente, sono talvolta perfetti si li lilli, e di till inedesillo, IIS, e ci si rilai ille. Conſ. Parle I. Cap. 3.7S Sinile: vesti di punto. I rili o di lui lo punto; armato (º ('tº.79 -– Nola il modo: stare sul pil n lo le l con rene role, dell'onorevole, della cui l'alleria ecc.St – ci è punto punto, li ill.; II l Il significato di punto, niente, un non nulla ecc. Il 1 si il 1, il ppo gli antichi, e ha sli la nota frase di Danie: Peli a orinai per le s'hai jior d'in gegno, Qual lo divenni! SIII le litel del Manzoni: Ma di che i julo gli p lesse esser il Ila o al l: che già brillo ricorre Va al fiasco per l'Irnell e i il cerv ello, il tale circostanza, chi la lio di se uno lo dica. E i lichi il sito quale intensivo di non: « I giovani e maggiori e le I compagni di Celso, non si s not guti o no ! io e, anzi li i più i dirali contro la plebe....» l.iv. M. \nche il mica dei Lombardi vuol essere qui menzio Ita' che li li è poi la lil I lilli: rido che li in fosse già sulle I rili e al recello.. V | lale l'ill, rispose: Signor mio non so gli nè mica, li è voi a che li li: ogni le, alzi vi dimenale ben si, che...... l occ. e Vale le ali le illla nica, un miccino, Il lanlio, l'idea, nè pun lo nè poco - a I greci panegirici ti l'ora li li el'alio mica una pill', i vi -a lode ed inutile!....... Sal Villi.SI – Tra di lei quel rialleschi: pl o lili il menar le mani. (schlagfertig,  Tutto  l'referisco qui le lole Iorme avverbiali: lull'uno, lullo da vero, al lullo, innanzi tullo, lui lo di, dai, per lullo, tu ll'ora ecc. ecc. il tui tut lo, aggettivo o sostantivo che si voglia, è il variabile e sempre di un ge nere e numero, e piaceni allegare esempi di un lullo avvel bio e pur de cliliabile o si scel libile di genere e lllllllel'.  Aggiunge energia, e vale interamente, oli minaliente ecc. ma non sì identici, che sostille dosi questo a quelli non ne soffra lalora il tornio e sconcio ne venga non meno alla Irase che al periodo. Tiene alquanto del toul dei Francesi, come che troppo diverso, che non è il francese, sia il governo ed uso del nostro lullo, e ben più vago. Polmi mente sopra lill t virlù sintetica dei modi: tull'orecchi: l’ullo gambe; tutto leggi: lullostoria; tutto musica ecc. e par che si dica: a tutta forza e vigore, non alllo illeso che... immerso in..., non d'altro occupato che..., anima e colpo abbandonato a... ecc. ecc. (85)  « Io conosco assai apertamente niun altra cosa che tutta buona dir po e t. 1 -i (li Illirlti li(Il 1 s'è l'Illi di costoro.» I3oce.a Qllel. e gge le fila li il carro di tl’amon[ana gla l'olava, e l'allo tutto e loost let Ii di Illo: Illoli, di frascilli....» I 30 cc.a delibera o li tollla! si ill It llia, tutto solotto si mise ll call Illillo. » l 3o '. « Il fallig', io trovò la gent. l giovane tutta [imida star las Stil. » I3(º. « Senza - I tal l' -, e sollecitata da suo, cosi tutta vaga cominciò a a parla ! e.. I3).I)imo a lido il giov: in tutto solº nella. orle del suo palagio, una ſe II lillell'i.. i l lo lill sill: l., IB ). Tuito a piè fa - i loro il colli l o ! il 1 do disse.... » l 3. o i lut. In te la II: sua la Ilte ne ſei a spiare. (trovo che Verºl Incli e I giova e il 11 l'a trii n, dormiva tutto solo., 86 Bocc. il qua e es-endo tutto leggi e tutto antichita... » Bari.....i-1 l'1 lis, (llella e la i i, il ll 1tl i) la l la ll illli, s v l'Ve i gli ill  le liri, tutto e il o li in soli ordia. Dal t. Chiamò Mosè, e qui si tutto dolente del suo fallire: Su diss'egli ch'io Il il 'l' Illi)., Se. ll.Io dovrei di file stamane esor farvi con grand'ardore ad essere tutti zelo; l sl? SC:: 1.\l di Iliori tuttº animo, tutti ardire, tutti baldanza, ma nel di dentro roll ovall-i o l'abb 1::. » Sºgli.a MI, oli qua e. l e Iron al ro sonº parimer: e. ch'a ffelli di un animo a tutt'orrore il quale per la 'pa già stimasi dato in preda a tutte le più  ſiel e ! Il re.» Sºgli.  Note alla voce Tutto  S, I ), ſu Io ci ligi Illzioli e il vv e glachi, ben cºlli, solo o elemento di all i spressione col lutto che, con tutto, tutto che, indeclinabi io o il rialliera di agge livo con lullo che mi sia le amico; con I tilt a lui costi (t a mi ci si darà ragione di parlarne più a V: Illi.Anche del modo elettico: tutto quanto, tutti quanti, e dell'altro con il missili o: lutti e due, lu lli e l re avremo occasione di ragio irare ad altro proposito.  86 -- Agiungi a questi esempi del Boccaccio, le frasi anche oggi in Irs lop late al rilie volte dai 'le si esso I;occaccio: esser tullo i, in Il lavoro: vino da bersi a lui lo pasto: essere i ullo della pr i soli i perdillo e rall rallo, e simili.U n tratto – Urna volta  Non credo alla liri erra' o asserendo esser oggi smessi, scordati e per | oro discº li si illi i lodi: un trillo, una volta in quella forma e valore cli negli esempi il si a i cii noi 'Iali a volersi prendere un tratto nel sigliific l una sola, e una colla spacciarlo per quel che su na sareb be sl la hit si e da il crescerne buona mente di chi sell liss si p vi 1, il i l di liligº la, e non ne vedesse più là. I modi  una colla, un l al lo le, i cser I i l n al di l l sch si: si h mail al n. Non mi 'mal her, guck 'mal hin, n un link in all '. (r.I e II si li primi o li allo; anzi !: allo, d'un tratto, dare il tratto; dare i tratti di olz en Zi pensare un irrillo ecc. ecc. Si, non spettan quì,  -, li o lo così in di grosso l'ein  Ilù ſiti il presº il nosli a cui la li li igl lill ('.  N la non l gni un tratto.» Sacch. i u;3a volta li. ri che tu n'a Vesti. » l80cc.: i i Vo: 'rei una volta con esso i lì: lº; o li. » E ('. N un tratto a voi..... I 3, c.I un iratº o. Vol. sse il Vesl il il re. » Fiere Z. il lb t i d si facesse un tratto l'l V v tl le l V, e, le in: Va l'allino un tratto « non ci si va a il t.a E 11 i mill ! - ! i l l anno grazia e mer º o un tratto dal funesto letargo, il chav si g la lolla, i vv i, illuminato gli o chi? lla loro mente....» Barbieri.  a cede per or. Fa1, del late che si sveg  Note alla voce  Un tratto - Una volta  S; - - e pensò un suo nuovo l rallo da lei il re la sua costanza» (I30cc. 3art. (es. cioè cercò un altro tell alivo, astuzia ecc. (Conſ. (.., p. 1. verbo Dare.Forte  Forte è sos la livo, agg IIIA ed avverbio. Oltre all'appellarsi forte un luogo qualunque for Il calo, di esi, e bene: il forte di una persona la capaci i maggiore della si essi, il Joi Ie di In'opera, di un componi niente, di un impresa, di II live in Illo, di checchessia, cioè il fiore, il lierlo, il III rl, ecc.. Il l io le lel (li 'al si e del lill loversi dei soldati ». (esilli, ecc. Foi (e, e chi liol -, è predica al l esi di persona o cosa che ha lº rlezzal, gaglia. I clia, si l //, illle Isili, ecc.E fin III al I cºlli e Iri del I i l ero e se il III lilo. Ma non si gra dilo e si cornuti oggi li è il forte avverbio, assai li ute le sulla penna dei classici, in sºlis cioè di assai, lici a menſe, gaglia, la mente, profonda nel te'. role'n la mente, ln tºni sui mi cºn te, tal alla rocr', e clillo alle alicola ve. inenza d'animo, che lalillo anzi non lo disgrazi, 1: Il che sa per gli buono, e gridi all'anticaglia, se ad altri anche oggi piacesse mai di usarle. Per chè non ſi sia grave assaporarlo lic pochi esempi, fra i moltissimi, che IIIi a º plesso, r le id, lilei e il III al II a Telli, ci se, ed azioni il lamelle si convenga.a essendo assa i giova rie, e lelli, e lo I. I lei s'innamorò si forte e il Podesta del paese, che pill ſita le piu la non vedev., 88 Bocr'. e Avell (lo V (lll v. " (il V (, l: i re, is l'all: lui (º littº  « piacendogli, forte desiderava di aver, ma pur non s'att | I vi li do e Irl:ì ll l: l ' (). » I3 ). a e saputosi il fat o forte fu biasimato.» Bocc. E biasimarongli ferte o li' gli voleva fare. » I3 Cornº che ci si liri o altro dormisse forte, ci illli cli. l 'i lei la stato era, a 11 mln (lo l'1Iliv:ì a 11 ol': 1. o lºa I ca li presa forte la giov i tre li ſi ill: lli. Bo. e....o vede; dol dormir ſorte, di li rsa gli rasse (Illa: li egli avea. » I3o r. a \ ndl e il rio, go!) risponde dogli il la illl'o, cominciò più forte a chia a mare. » I3C).commendolia forte, tanto nel suo desio a cellulºil (lo-i, (Illanto da più a i rovava essere la reilla che la sti i passatº - il la.... o I30.  a I)i Alessand o si meravigliò forte, e illibitò noi foss....» Bocc. E avendo la barba grande, o, ieri, e il vita, gli par si forte esser bello e piacevole ch'egli s': 1. Vis:I.... » I30.e.... e quando ella a ridiva per via si forte le veniva del cencio che allro llo t r ore il III Ilso l1 Il ſºl, Va.... » I3..a.... i quali dubitavan forte non S (ii i ppel º lo gº ingannasse.» I3 c. « Questa parola parve forte contraria alla donna, a quello a clie di ve  a lil e intende va. » Pocº. a.... e perchè mio marito non ci sia di che forſe mi grava, io ti saprò a b(an.... » I20 ('.  a.... per le quali - oso, messer o prete ne 'nvaghi si forte... l'occ a Forte nel cuor noi la pietà compunsi.» Dittani.a.... ma poichè si vide ferito invili si forte.» Bart. «... Allora come a cose di sapore che pare a loro aver forte dell'agro....» Bart,  Note alla voce Forte  NN Il Cavalca idoi era anche l'avverbio fortemente e significa il gra su per la livº di illi: azione. « E in questo tempo slalido ci si, e I Zzaro, in je' m ) ſorte nºn le; [ueste due suore MI; il l: e Mlal a jo) le men le l'ut, al ramo, perch'egli era così buono e perchè sapevano che Gesù mollo l'amava».  Troppo  () lesta voce li rila alla memoria la pacifica contesa ch'io ebbi, or è già l'anno, e l'ol Si fra ello intollio al cone letteral li e si, e l el'e pi le del sacro leso: Mei ces tua magna gli is. Noli è il l al nimis che del basi qui li adurre, sentenziava egli. (º lesto mi mis è Il lal V e// li Ill 'e lle lol la ad un massimo grado slip I lal V, che la llli gli i alla lia li li ha. A li io, che quali (lo si ll alla di vedere il V el a pillºla di Iagione, la voglio sempre spuntare nè nulla a Ilorilà si li li porti li al ere. Ials, falsissimo replicai. La lingua ila lialia l'ha sì bello e ſol le clic li il so se all ra lingua possa mai fornircene il III colale. Ed è appli l'e lliv le le italiano dello stesso minis, trop po onde forma si Vil: il cli Illi: i l: il V (e un così fatto superlativo.  ln pero lì è la voce li oppo sulla pena al classici non significa soltanto  il lellera' e minimis Ilia il minis all resì lollo, assai – del citato luogo S9, a ch'io perciò li l'avviso non potersi meglio tradurre che colla Iorma troppo più grande, che ecc. Al Boccaccio e ai suoi valenti inni la Iori, andava all'animo assai la fºrma comparativa, la quale poi tor la mercè della V e troppo ad un massimo grado di comparazione, dirò così. superlativa.  Leggi e dilnini s'io mal in'a ppoliga  a \-l-ai volte già ne potete aver veduli i dico de li re di scacchi troppo « più cari che io non sono » Boce.« più assi li ve n'erano e troppo più belle che queste non sono.» Boce,"IIa colui è troppo più malvaggio che non t'avvisi.» Bocc.  « Non pensaldo che, los- e chi addosso o indo-c o glieli e polie-se, ull a: illo  ne porterebbe troppo più che alculla di lei., 90, Bo e.  « IlliSe lIlano ad una Vlt. troppo più dura e rigida della menata pre  Sente.» E0cc.  « E se Inoll ('lle di tult i ll li lo o viene citi l aprillo, iroppo sarebbe più  piacevole il pianto loro. Bocc.  e Vi tl o V () la II, e tali ltto, le V a - troppo più cle tll la  la spesa. » Borg. Egli e' troppo più malvaggio e h - li ll s'a vvisa. » I 30 cc. E Annibale l il troppo più accei io a l.Allti e, lle a suoi Cartaginesi Stato il n era. E assai lostri con il i adill I si lio gla di troppo più splendida fama stati al presso le nazio; li esl 1 in nee e le app lºsso ioi. » I3, c. «.... a Badagi, che da troppo più erano in forze, numero e ardimento; Ina il Saverio la cesso ogni per i lio. » I 3. l'i.  «.... ed era la piu bella lei mi a, le si rov a -- I l II onl, silvo la  Vergine Maria, la quale era troppo più bella di lei senza niuna compara  zione, pill e cori raimlt ita'. » Cav al 1. e.... il giova il tilt o il 'li i lil III e col il III (-s Si l' 11 le alle sºle Iila li; e lo II, li e il V e --, pill lo i soglio d'es s-it rs', mila anzi eg i pl egava lui a lioli a biorrirlo nè rifiut l 'lo, per occhè era troppo maggior pecca (cre che forse egli mcn credeva. I3: i rt. 91, e Ma to li 1:1 tii, Signori, I il III, che troppo ancor più alto con via li le Val SI. o Segli.  III' troppo altro gi ill ols e le:lo I, a.... livi- i lo., (- a li.  a dimosti o che troppo più che alle pratiche e negoziati.... era da repliare  alle orazioni lºr Ille-to elietto da il latte a l)io. » (s. a N in sol: III e il I e tornò i llo II lo nel primo lato, lil:i, a V Valit: - º in Indolo di troppo più doni, lo sll blin lo... (e il li.  Note alla voce  Troppo 8) –. Troppo, il re al significato di soverchiamente, vale anche mol lo, e questo significato s'incontra spessissimo ne buoni autori. (orlicelli.90 – Parla dei soverchi ol'nalienti delle felillirile del suo tempo, 91 – L'ho preso questo esempio un po' più da lontano che non biso  gliasso al fallo nostro, come ho alſo gia più oltre volle assai, e ſarò sempre che ti potrà tornare non solo in utile ma ed in piace re. Qui, a cagion d'esempio, oltre a quello onde questo luogo vuol essere esempio, hassi al resì a gustare e quel non che...., ma anzi, e quel non –- non credera (di cui al Cap. 2 Part. I.).Là  ºggi si griderebbe l'affellazione, oh! oh! egli è il purista dàgli la bili e colali all'e ciance, chi alla Boccaccio e alla l)ante insegnasse mai rile all'oro, il cloro e all'onde sia lic volmente da premettere il correla livº li Illillo si voglia far emergere l'idea di colà, appunto colà, pro prio lino a quel luogo ecc.  l'icinsi clicccè si vogliano a me non dà l'animo di partirmi da una sºlola iroppo più aulorevole e veneranda che la moderna a pezza non è li potrai li li essere.  l Irisi: più là che bello: più la v. g. che l bruzzi ecc. ti mostrano corti e si governi, secondo sellire e sapore classico, il comparativo del l'avverbi di luogo, di slalo e di invio: là e quà. Non gia: più in là, più in quà. I ro: piu in là di ecc. Irra: pii là che ecc.  e in brieve grida lidosi a luogo, la logo, là pervennero ove il corp, di S. Ai 1 Igo el:a i -1o. 13,.  (º A t'll il li ai lo cli, avanti ora di Inangiare pervenne là dove  l il bio: e el in. a i là onde r, il o se al povero non ritornasse.» l'80cc. E Il lesto letto, in Il l to a l...... - 11/a lista le colà pervenne ove Sep a leilltil a la la loli tra lº '.e coli lei il sieri e niti 11 o il 1: vi o, e presero il rallini in verso Alagna, là e dove l'ietl o aveva certi anni, dei quali es - o mi l o si confidava.» Bocc. Vli rispingeva là dove il sol ti º lì l'ite.Chi (Illin l e gli scelse la ll mi e pianti, cotal si rilla ue subitamenſ e là onde l:i svolso. » I ): ll I e.lº fa l l'ill lento ordina ono ins II, con le elle dovessero uscire fuori anzi di, e a: la l e a Irio: il Calvario, là dov'era il mio lillimento. » Cavalca. vuolsi cosi colà dove si pllo: e (io e le si vllo, e... » l)ante.a li de ella de sl 1 i lo, l III ell lo l'esser fedita; ma e ricordandº - i là dove era, tutti i lis. ss 1-1, tel o del luogo, di quel tal Illuogo). 13,  Di lei sil, la norò sì Iorſe che più quà nè più là non ve! va.» Boce, e l' (Ill: ll e II lig.i: ci li h? Maso is º I la elle pill dl millanta, che tutta e lotte tali a. l) is - e Cai: noi il 1: I)lln Ills dee e ssel e più là che Abruzzi. Si  - lo, ine, rispose M -, si e avei ('. » lº. « avea preso -i alto grado di perfezion, he non si potea più là. o Cesari. e V vº: lo pl o ede: p in là, ci sia i cose, i veri:a il vedute che...» (.esi...... ll 1 più là li oli lo i possibile a ridare. » (...Quello  Il Boccaccio, il Passavi, il. il Pil dl Iſi, il (il Vilca, ed il valentissimo Dal loli, il mila i d. l II mila serie di ira ori e discepoli della scuola  tallica, Ilsa l'olio assai, e i le stra, il guidi e poco grato al viziato nostro ore o il prosione dimostrativo quello posto a  glisi di 11 Il ro, ci si d. it -igi, i lic la lino Illul lI d  l Di esempi ve li ha a bizelle. Ne a I ero al ini e piaceri di aggiunge e  d in quello, in quella, pari alle lorni e avverl: i: in quel menti o, nel menti e, in quel momento ecc.  e si dis: quello li n. - - id. v..... vi i e quello li vi - e' ii 1 e l'Il l il e io vi - ll 1, v.... I3.-: Itt - il 1 se. l ' a 1 il 1. l it; l quello tl a Valli I e (lo V ess, lil ('.: l o.lutti; - i fri lis. quello li da N i e:: si iro l'1 -, -1.. » 3 ).l'In/ li lis- I - - I, quel ch'io? » I3. I -, quello le 1, III -- il l sa io vi li essi. o lº '. i 1:1 ! I, ve l i. -i potrei lo Viºla e quello che noi a id:assino ſ: o ll il. » I 30 t. ... e io! I si, a quell cche io mi tengo l i le sc (l ' e 'li.» I3. 92. o Seguiti rolio, il sil, no, i ti l'e. sse) l da l. (III l 'o più a ll'Iva n,  piu lui iro il lit. 2' l'1 e va e le, i di 1 e ven re a quello, al  quale dopo lo I - ra l III antila li -si, er., FIl colo. Itispos, il III ), gua a lile. ll III i lII il 1 o quello clic pil III e il bis: - rizi - - I..A questo II e les, il II, II - Il to si It, l e il q"1ello che è det o a lI - l... l'a - sav 1:1ti.I, -era ril II- I 1 -i di quello che: ' ' Vt a la l.... » Fioretti.  E p. lito, ve li quello che i li' Inita col suo compagno »  'i e il v.  I:: v. i: quello che i lr che, è.... » (,s  In quella cli..., l. E le IRillall stro, col il l e, c in quella. I 3..  QII, il q: le! Io o clic si s la fa in quella a Che il 1 l vi le  Cllº gir 1 m -:1, III: qlla - là saltelli, a Vil'i, lo Mill it: il ri. f: l'.. it: l'.. l): "ll. « In quel che si appiattò IIIi-ºr li denti« E quel di ace, il 1 o a b) allo a ll'ano  e Pol sen portar quelle membra dolenti. I pante. 93)  e con [aii ingegni...., che il ponte sarebbe mancato a lui sotto i piedi « In quello clie e gli pas.. a.. Ces.  Note alla voce Quello  !)2 () i la fa da relativo e ville: qual cosa: non so a quale cosa io mi le fa, o che è lo stesso, non sò qual cosa mai ini | l'attenga | lo li li lo se gli I e rolli (' Ill. V el'b, le nuºre.  93 – lº è) ssere che colesto in quel vaglia non in quel momento, ma nell'uno di quei due che col revano, il quale per istracco s'ap  cli i non le segli le relil (Inl verbo le nei cº.  U Corn Co  (li li li si l - valol e del sostali livo il rio? Che ha a far lui l eleganza? I tagione e Il li se no e loli più là.  Eppure alche uomo è al V re sulla penna a classici che alcune volte, più che il l a essa pul e al grato velluto, al tornio e saper della II se. (lsserva quanto è vago quell'uomo in senso di un e ualunque uomo, di chicchessia, e in luogo della particella a verbo su. VIa avverli a ricola sul gills o governo, costruzione.  lº..... ll III li ucnnc lo i ri: i V li  l: e cl’egli non voglia  “..... pl il l n t il to in ebbe con gli all i pm role irollo (lis once, e il l d'uomo. l 3 l i.e si e il II ll e uomo in:li in quel e cose che a lui l 7(t, lo uamo il l im. it - l'alcuna persona clie ne fa  cesse e sei a -- quello le Luigi per il mio e di I)io. Cesa l'i.  « E nel vero l' 1, a: per lo I e uom dice he io lº blo essere a Imo:tº  giudiruto. io no! oli in Is I niti i r. 13.“ Fra sè Inedesimo disse: ve mente è (Iliºli così magnifico comio uom  « dice ». Bocc. “ Non è rosa piu naturali ai li! I v.le e giusti e li Illel piacere e le  « uomo sente dall'esse; ama o la si oi ratelli. 94; Cesari.  Note alla voce  Uomo  94 – Che cosa è l'ou dei fr: il cesi - e li li Il collll al ci di home? (il man dei [ d sch è altra cosa li ler Alain n il trio? (ili inglesi poi dicon, they, I he people say ([. he loria al nostro: la gelle dice ecc.  Fers o n a  L' Iso odier 1 esſi voce è il rilalissili, e non si ado pera in milli a 'I ro -iglili clie di II lil il genere, o, a dirla coi fi losofi, d'essere si issisi e e rigi nev, le, ma si l rispello alla sua sussi s ente individi la fila, e lo scili del l s e ido, di s la essenza o la lira. Il male di elog: I: / Is e virili si che a ra vale colpo, e poi il ras e li li | Il l: il no irla eziandi tii animale, l o al significa I " Il li h Ss 1, c. ed il li inalmente ha senso di ver: i, n. ss II, il li do le app i ll'all cesi l'aurun, per Non ti c'.  )sservill e gli sla i li a presto.  I )elle frasi cl in 1: la III | I molte re persona crescere di corpora Ira: fare di e in persona di... () le lil del a | Iel primo superbo in persona di lulli gli allri, Isti: prolcl:: 1)i, isli in corde lilo e Passav.: far la persona di.... li l: lle spielen, sostenere la parte. «I di quie Por ogi si che ſce, a chi l il suo personaggio nella gloriosa e parsa la valli al I e I r!. 9, la la persona adosso ad alcuno, soperchiarlo 96: mettere in persona di alcuno qualche cosa v. g. una r lidi:i, costi i lirl li di essi, 97 e.. ci sarà poi la cril  sio: e li i la rli id al l silo.  Iº, i cºl logli -s e II l bel fante della persona. l a IP o cle ella era lei a del c 'po, i giovane: 11 ol, issai, e destra a e atante della persona ». 13,.... te, i bil 1 E le iclè ella fosse contraffatta della persona.» B ita', e.... essere tutto della persona perduto e rattratto.» loce, l'1 va: la lo- i mal disposto della persona, e le, la inelite lion molto sallo.» (11:llillo,\bbiati i cavalli i ve li lilli- al grande colpo, cioè persona.» V ol-: i rizzº / l':lli li.il se - ll o chi a losso, e con grandissima af lº ziº e la persona di lui, e i silo i siti mi onsiderand d'o culto alliore t. vt', ll tell it | º li li: ss e.. l 31,,la li e ti e i, till ia persona piglia e va i, senza lasciarle in capo -, i periti, o oss - so, li i n e -se. I 3,..ed i a º s', 1 e la piu role belle e ri che al dosso a l'una e ine, i viri della persona - i pareva che la giovanetta, la qll ', a pl p - o li -: i B,  l  stat 'i: si val.etta....)  S -- ti:. ss e i stesse persona, il 1 - si  l qll il il 1 1 1 o cava tv:ai. i cºllo persona se n'av v (lº - e lº t.  Io li n..... I, l l la ventura lestè, che non è pcrscina. 13  \ i i vi li Ilia i persona.» l'8oce.  Io e li (s'o, che tu non facci liliale  le a lui ne a persona.» e al ll un altro Fio: etli. I la ll l'a cos l: e questo si è,  - - al lil. I - - - che se nessuno ti doni i -- 'I gira li cost, che lui per niente non ri  spondes; a pcrscita, tra seri li essi vista di n. 1 l ele: è e noi li udire.»  l3.  I | p. g v, se i persona come fosse ivi, edl li non v il giov, il sillo º l'io etli. Ed ho da mio at oli ed za, lº io lºn la possa dare a perscrma.» l'1 r, Ili.li i per ſuo - o il 1: ini: 1. ll il a persona del In illo., Bocc. « E ' il l - tira perso ia mi li, e ! i Zzo perdonato. » l 3o. I; rulli, a non salirà persona se: it 11  Note alla voce  Persona  ), simili ma in tal caso spogliandosi il principiº la lºrsonº di principe, e mescolandosi egualmente coi titºli di sè, gºl l-l il tilar la gi al lezza, piglia un'altra grandezza, Castigl. Corle- giallo. «Mi pareva appunto di scherzare ſuttavia fra le conver sazioni soli e di Brusseles, e l'avia di far la persona di cor legiano il luogo di quella che mi conviene fare ora di viaggia lo l'eo. I3C Ill.  96 - Lo stesso che la re l'uomo adulosso al altrui, cioè cercar d'aſfe l'irl, col le minacce. E volendosene al non so che esecuzione il lido ſilio a S. Giovanni a Irovar mio fratello, e gli bastò l'animo di ſoli gli persona addosso, Illando egli meritava d'esserne casi i g: l '. (a l..il Diil (iherardini. Voci e maniere. -  9' - l'orili, il francese sui la le te e il gosl o volgare in testa d'al  clino. (ili rilizio l'Abbadie per me lei le in persona d'un al ll o, Calo.  S e  lºro orie di terza persona d'arri lo i lilli neri e genitºri, che si riferisce  |  |  sempre al soggello del verbo, adoperandi si lui e lei negli altri casi. II o Irascritto di peso la definizione che ne da la Crusca, e basterà.  Come piacesse p i al Boccacci re di all i trolli. In colal sè in  In lo assolti, o e coll'i: definii, l gicli e Illasi si ºss, V edilo, di  con Io e mille che ve li ha, in ſilesti p. chi esempi.  a Per un cali o ambasciatori gli signifi ) sè i ssº; il l ogni sll ' Illall « dal Il (). » I30.“ 'ostili... dir. se, sè con gli li ri ins me essere in questa opinione.» Iyoce. s “ Gli altri llitti, che alle tavole e rallo, illli I sienne dissero, sè elier a quello che da Nico, uccio era sta lo risp sto). Bo.Aiess. Il dr ) gli 'e il dè grazie del cori l to, i sè a l og: li sll, collandin - In li o di -se esser presto. Boce.e loro, che di queste co-a lui il rili, or -: van,, strillse a confes º - ll sè i sien: con Folco esser il la mo: del a Maddale, la colpevoli. » I3o. “.... - e pel I i ll e le slla pit l il lill e liceva Ilo, sè aver a Vli, o e da lei, non essere incor, di tanto tempi gri, il 1, che | i leta potesse es  e Stºre la crea llra. o loce.  Questi e Quegli  Si che lo scrittore il derll, lo usa, e l'uno e l'all ', posto assoluta nell le in senso di costui e colui. Ma non la iſo a colifortarli all'uso quanto a mostrarlene sil vero uso e legittimo piacermi riferirne qui alcuni esempi.oru I ond II o luotiIoluogtro vito ottimisti es lllo ollo ofunifiiu o pil minl -la.os mlnuto un olo luou l. In ott Insi non lº oALI sold o! Il lo Ieoo.A II I tuºi-Io v o ottussIssotti Ip ons e 1.Il 'lo s: l'impolli o lo I II Is v.ll st..ol. Il “odſuo ul lui opeo li o outpur, ep li out optio o lo vº oppull o! Iº lº up.uºni; ios uº.In ln. ezzotti Ip e I potti o.I | Il los. I volo “ol I pm Ilio. I l'i: i) a luito o illu po olso outlolzilotti o esonl lo v Iloil Ip los il  I _ e ne»  \:sºlº. I « opinpu u Aupututuop ou. 115amb Ip ): IR il p to eve) op e idos il ci lop o oulo “ollomb o.: ), ond is oli otti. I l III II e III Is l'otti o solll V Aussu. I « usolt [..) Eleti o o si ) Il “1159mio l 'esoi II) l'Ilop º oluto tuupu euro. oI tod el IIes tddl - riti ei lod otto Iss o IIIo lº I so.I ) e il V Il 5 UI,i. S ): IIoII. 113enb Ip o Io, lui il di lui se li ti os o II. o Il s o II is º III o II, 1132mb VIII A 1) « ott zu.Il 113 onb I 'll A ). l is tº lo 118omb e p. Io ſº i Is I V | o v N.« o in IRII ol o) toni tu III o l on tº il 118anº il - IV  l. 1: I 'l: i  sanò “I I V r) « e ſu di ni: I.I I I I Il 11;anb N N I I V l t, vi | l  'ItI A o « Us II. t: l ' I l. ) A l: II. 18anb º il l il l: li I “I: I l l i n. I I I..I ) \ I? i.) I  vi: - st, l III! - - I II -Issluti Inl o II oul o 1139mb p I ogI sl II-nd in euro a Ion A ott fops i samb 13 anò lIl ll o III ), i. I | III F III l st ) ) somb o-s II s l. I olti (I e ssa: Il sanò olII trOI s sono o sanò uºi In I tºl In A III o Noll - sanò  o il III: -nIossº o ollo.I costi. Il cºlson l olloni (i i l Is soulotte etti ln)soo “lm)o. Ind Itoli o in º.oo.A o allo l o oum. Il I I I I I I I I | 11: Il  i li osso il s II II l s  ri: o II. ii l' oil. ss I.) o VI i.I o III II. I |  anbuntuoo ºpttodsI.I 15 o infossils o Iod opilenlo “Il q o se ti o in  ouaq els ſolluſosutti - o Ielofuſs illionh outoo soo o illel e il pr i ] N sempre e come gli talenta, mercè che il saperne usare a dovere è già in dizio di buon gusto, e mostra altitudine al concepire classico, e indi lo scrivere che altri fa vago ed ornato.Ma usarne debitamente, e voglio di e il m a casaccio, storpiandone il senso, o il maniere e concelli orestieri che ne l comportano. Perchè  dirò della voce guari – che vale molto, assai ! III o l'opposto del francese ſuºre o fuºri's e il di il colllllllissimi i: non ha guarì, a significare non º gran tempo, ed è sempre precedIIIa da particella negativa - quello  che di ogni altra onde presi a rallare, che cioè il verº mezzo, il più efficace, il piu' sicuro, di rendersene veramente padroni, è quello di leggerne e rilegge le slli di saniell e i molli e sei ripi, e le belle maniere di uri si fa l guai. e cosi conseguirne un rello sentire, e riconoscervelo sì come palle del disco so non decol a lira soltanto ma ed in regrativa altresì.  a.... nè stette guari che addormi itato ill. » Bocc. 6 nè stette guari che si vider i frutti il rie- dei loro allorazzo. » Bari. inè vi stette guari ch'egli vi le as-: i la dis, sl, ' t ) l'11 l: Il Cil l' « piglia con assai a.legra fa e a.» I ierenz..... non istette guari a tornare. » Fie: e ilz. e...., il quale non istette guari che i rap issò mori; o lo e.... ed essendosene entrati in cani ra, non istette guari che il Zeppa ornò, il (Illale con le a loli n. 1 - ell: l.... » I30.ti e credendola acqua da bere, a li ce:i postal:usi, tutta la bevve: nè  a stette guari, che il lì gl al S. ll:lo il prese e Ills- I l ltdori nell' ato.» I30' ('. a... ll è il ro i ti elideva, che da llli (ssere richiesta: il che non guari « stette che avvenire; ed irisieli le fil rollo ed il ti: i Volta e l all 'a.» I30 ('.  «.... di paese non guari al suo lo litri:). » I3:1 l'I.  a Ella non fu guari con Gualtieri di mcrata, che la ingr i vidò, ed al tempo « I rarº ori. » Bocc.  « Il quale non durò guari che, lavorando la povere, a costili venne un « sollllo sllbito e fiero llella testa. » I 3, c.  e Si mi isero in via nè guari più d'un miglio ſull'olio al 1 la i clie....» Bart.  e.... novella non guari meno di pericoli in se.. ll I e nel II e che la narrata e di I.allretti. » I30.  « Dopo non guari di spazio,.... » Fier.  «.... nè guari tempo passò.... » I3. a Fermila lire e, se tul il terrai guari in bocca, e gli ti gli asterà quelli che : oli dallalo. o 6, Bocc. « Essendo essi non guari sopra Majolica, seni l'ono, la nave sdrucire. » lo c.Note alla voce  Guari  (- Nola II sto In lo leggiadro del I occaccio e suoi valenti imi il li: non isl le quali i clie.... per dire: non andò a lungo; non l' Iss po; e indi a I l in iſo, ecc.  iti - l' illo dei litri casi nei quali la voce guari non è a governo di ll () ll t ) Il t '.  N/1 c r ) ci ci  li del non lo al mondo aggiunto ad altra voce qualsiasi, non le " "lilli ºli il III si p. I livi, è a nella livo e intensivo della stessa, " Sºlº sºlº sºpra all'allo, incomparabile, qual che si voglia minimo,; il t N.Nll) l ('C'.  \li gli esempi soli si chiari ed i maestri di ogni età si autorevoli che rebbe superi il rallenervici a lungo, e discorrerne più che tanto. ºsserva l'ºl di II lire qualche cosa, a come l'occaccio, per esprimere il mirino, ed anche a singolarità e superiorità assoluta di oggetto o sa (ITalsiasi id per asse con più forza e più garbo che non farebbe un illi a V cc, la II lillici a: con persona.... del mondo, e come quel gran il lacsl lo i pera di lingua, che è l'eloquenlissimo 13artoli quasi lette l'alleli e lo imitasse: lo come a 13 ccaccio, a Fiorenzuola, per tacere di il ri molli, si possero i loro i nodi superalivi: punto del mondo, senza una la licet (tl mondo, alla maggior ottico del mondo, e va dicendo – il lilali alla lelleria dal Villellissillo (esal I.  Senl e al lillo del l rall cese non le, in: le moins du monde, e simili. Ala non sarelli, sì vigliacchi di gridare per i lesi o al gallicismo: o lon dovremmo dire più lº slo cle toscanismi si illi, i nodi di I.inguadoca che i li oscilli si rass lirigliani?  a.... e 1 litto in se ined sillo si rodea, lo l tell lo del barattiero cosa del mondo l'all ('., l 3o t.a.... perchè Ferondo se stesso e la su i donna cominciò a piagnere, le più nuove cose del mondo dicendo.... l 3, c.E quantunque in contrario avesse della vita di lei il dito buccinare, per cosa del mondo lol Vole: i creilere. » l3.benchè i cittadini non abbiano a fare cosa del mondo a palagio.» I3'll [.« Cominciò ad avere di lui il più bel tempo del mondo con sue novelle.»  3 ('.« Costei è una bella giovane, ed è qui, che niuna persona del mondo il « Sa.» I30 (('.a Io gli ho ragionato di voi e vuolvi il meglio del mondo.» Dart.  a Alla maggior fatica del mondo, l'otta la calca là pervennero dove...» Dori'. a Punto del mondo non potea posare nè di, li è noli e.» Fior«.... perciocchè io ebbi già un Ilio virillo, che al maggior torto del mondo, non facea al ro che batter la moglie, sì che.....a presero il volo e le l: Inen:I rollo senza una fatica al mondo.» Fier. a se li Inangio senza una discrezione al limondo, o Fier,  » I30 ('.  a gente che vuol conseguir la salute senza pigliarsi però un incomodo ill Inoli dC). » Seg Il.  « Alla maggior fatica del mondo gliel trassero di mano, si rabbuffato e lnal con o com'era. » Fier.  « Lo spirito di l)io il Irava si fortemente in quei pii affetti, e con ſale unzione il saziava di sè, che alla maggior fatica del mondo egli potea scol pir le parole e venirne al filo., Cesari.  ſr  L'Opinione giornale, con la stessa serenita olimpica con cui sentenzia che il quart'alto della Cecilia è il pitt bel quar alto del teatro moderno, senza un riguardo al mondo a Cluel poveri drali li i clia il: i no I re a 1 | i soli, SIIIeltisce a Ilo izia. » Il Fanfulla del 1875. !)!)  Note alla voce Mondo  99 – Leggeva allora il Fanfulla, solo per amor della lingua di quel giornale, che è buona, non bastarda come quella di molli al ri. | Bene è vero che così lo studio di cer ti detti e sentenze come anche la Retorica sono ben altra cosa delle intrinseche dovizie, degli scandagli linguistici di questa nuova palestra, ma avuto riguardo all'assetto singolarissimo di alcuni effati che, stu diando negli autori classici, più mi ferirono, e che non sono così ge nerici e acconci ad ogni linguaggio, come sono ad esempio le così dette figure retoriche, che non siano anche particolarità italiana e inerenti al carattere e alla natura della lingua italiana, non mi pare iuor di luogo di compiere l'opera e mettere qui alcuni di questi modi che, se con metafora, hanno anche nome di gerghi e proverbi.  l t. N. 1 l il miº cl. ii e il ct mi al buio.  l ' e' l lo sa il n 1 uct I tuolo li l'.  I l ' il mio cºnci li elolco'. Iº - appropria lo a uno che iene del semi I lice.  l'ut I lo i colle si sle la Nesla, allico sll lllllelo la misura.  Slc re e il m li se li diglllllare,  Vlcºl l'1 si in capo l'alcolaio gli ribizzare, fantasticare.  l'atl e il III milita in all 'cati si im sul qual mquam – darsi aria d'im li.  l. I cºllo l'e' in sul quat mi qua mi - col ridicola gl avità.  Spacciati e il quinque mi voler farsi lenere il gran fallo,  \ 'il tr le cellula ne alla les la Scilli si allera o da qualche impressio il 1, di dispei lo d'ali re ecc.  li mpri e la scopa l si a Vila disonesla.  lo son litigliato a questa misura Ambra - esser fatto così, di que s Iella la luna.  lisse'r la Ilio lo bene o male,  l'irla pºi punta di lo) chella con grande affelazione,  l'aitre e gracchiare come i cani e ranocchi alla luna. Giub. – gri  di I e il Vallo.  Trorarsi nelle secche a gola. Caro - esser povero. Mºller l'ali - a Tre Iarsi.Alzar le corna – il super bile. Restare sull'a mm allona lo – l'Illia nel poveri. - Stare in Apolline – Irlangiare lautamente inodo di lire del valo  da una stanza dedicata ad Apolline in cirl Lllo lillº laceva la illissili le celle.  Mangiare a ballisca i put - maligiare i piedi, il II elli. Esser al coniile mini – il punto d. Il 1 l le. l scire il jislolo da dosso tl i no 13 i. logiici si da il lalso sci  spetto, cessare di ang. Isi il gli ill li li il l i gilli il I, si spelli gri si ecc. E nodo basso.  (i li fanno afa i beccalichi e gli pizzo no i li, i i lati in to fai il l ll - calo, il fastidioso delle cose pit s ti Isile.  \ on Nat per cli Nº – Il ciglio del volgari esser li li (li si.  Esser nell'ol o di gola –- riccone, ricco di rili.  Esser innanzi con uno -- essergli il gri 7, i vi Vlesser Al dighieri fu gi al ci ladino e molto innanzi con il tessel (i: Viscolli Saccl. e Fui figlill il di illi: i giallole e gelilli. I l lale e' il molto in mani si coll’ili per il I e. (a V.  Torsi giù dal pensiero di fare...  (o mi mettersi a... lasciò il cilli ri ma mi 'lendosi di I Dio e alla sua provvi le 12:1..... Civ.  ('ori e re boll len clo e II lilo cli, le legi, i l. ri ci, i Nº but I lemulo. I)av. Sillili: ballo e il gri sil. lo, il lersela.  Esser in pie' e plando (alba era in piè lenne la col ſole. l)av.  1 rer l'alli più grandi clel nido illa / I s; l' Iss: li si illa col Cli/i 'le il cili si riac | Ie.  l'ut I e il loro o di ll (mc (l ci lidi ri. il II e il I l: cos: 1.  (iel I al I e il m (t mica, clic'I l o lut No il re i v. l il li Is I l iss. aggi. Il gel (lalli al clarin.  Mellere il pel bianco –- e il III la mia vi: il l' ii a V messo il pel bianco. 13arl.  Pagare di moneta senza comio spacciar Iole.  I, Ils, I)alle e il 1 l e I3 ccaccio rili lo II e la loro e i lli li li Il selli Vallo  si illl'allino che spesso ne fa les r, il III: Iggio elica li col l mali e il del sl1, clile.  Tener a piuolo (inf. tenere.  l otre all rili il lettino ſalgli il lates l' 1 all ss.  Promelter Itoma e Toma – più di ciò che si può ottenei e la mit le tel'. è luogo almeno.  1 mln usdtrº uno indovinarlo, conoscerlo per quel che è.  Fotr uno scilo m (l parlare a lungo per indurre alcun a la c o non ſi l'e.  Scoprir paese. Ma il 1/. veli al chiaro di talche cosa.  ('a calcare la capra in rerso il climo. I3 cc. Irovarsi in pericolo di  i l'l': l ', l ' ('.  I malati sºnº col cºlei ci ſoio. I3 cc, palli fischiandosele.– fog --  'l): - ol,l DS. l.los 1)llop ).Im. I  “ollllooo oscio o il telos Oosol limp o idol pl Ivan, 'oooº I 'º elodlid oolIdillos Ip: l'ol e ope, too util plo) lo m olmpoli low up Au - In) on upl ls not o lo l cofi, li o plo) ul. D o plot lo. ol soli. ll u n t pel  lº lodo ! Il.I |llº, letto.Ils lod o luo5t. Il to All I lod ollo Ato. ll still s'o.Il... [Illel ore  -II All.) Iloio; il 2.It I.) II.Il lod o letto iu'. Ooli llli lo l opoli ll o, p. 1,:los.lop 5 º ) - ol. I ti ll) 1)(l. p) ll. 1) / S (p lo ) Spp uo.Iopul) olp lo) lo! I top oſ) p I loI – l.ool o l. Il ll o l.oo, o o l o I: 0.I |llº, olt IIS - olto, o l. Ill) ll ſi o p. ll l l ll olios o I Il d lºs o I o II ): ossopu o il n. 1: s ).Ill).Iod o O)tºllo..)Il 0 [.lli | Il so,oll) ol, o ol. l p ou puo ul l tool pd l olltilt il.lol - D) ll plcl. ) ol I.... ll N o Illy) li ll lo) lo IV  lUI.).llº A (OIis Ol.top Is p Il l: sl) Ios il l o Il 7,top II (ls -l.I O ).IopUIodsl. I lli Iloit...... Ip (o.lios III. Il l.Il vi:.). I.).I.).) olt: Il II “olon.A ottenb Oulla pu o.llp o Il sºl l: Il 15 IS ) pl I.), m il plli) opos I DIS  o]llottle Illllio II o III o III: VI.Il Dl I.), p il 1. ll I – Dll.).))) ll plli) ledttii: s.l Il pl.. p il plp pso.o ol.) i pm b l l), I  l'Iss) I |.).)ol|.) In I e o luouletin).Iodi III oli ell. Ilos ll mi pm ossopp o Ispº) ll o p.l.loS pNN Il l)llo li lop il pil ll I Dsl (). I plo l pm N ))) I m, 0. I opomp l.) o, op o un ddl n. 1 p.).)o l “od.Ion Il solº tu e otto Issolo. Il le i ti ).Il 1. l is lº) io. I p. 1) I p.ll.I. elu.II).I e o Ioli: mlpo il pil 1) l.I lo.tpllo3m ) ) ). ell.In letti e sulle op ten. lº ziios l: 1: lsi I l:, I 5 o II. I | | | | | | Isenb oso.) ol lº)lo.I e rozzo.Id | V: o il II o I pil V ol I., p. 1) 1) ll il d.ll' I pl uopo, il plss..... ) I pu to.I o | Ioli -o AIIo,oul IIIfo e opotuli o luo.Id lo ve lo io l I l spl I lil Los ei leitilissi: prºo Impoutuo o senb epito o on I e II li.tel li olo il 1 l.... ll o.lo) lo IV popd ns addez ellop step (lo). )))) il dl Nill o 1 pllo.). l e \ vi s o I e II º I - ºlns Il pl ſild ou. m. p I Isti, d (Ioli.I l o Io te stili npd a IA QIo III “o.I lº IIaq lp Isl: le... ! I pun'I plio il pls ns il loI 'Ioi l occod ll o no) in olon. I loro l out o n pm olto toll I pm.op..) un supp loſioli os– uodlo)s upſilo N uomo io) ) – pnbon, p. ll lº un il dl pliol - - u, li updsfiniid uop lo) un molosſ) olci - lon) li supi il oi p. ll ' ºllº IV op) o il lou pm b.o) l i plso. I p.olpo i pl o od uto) ll oi pl). ſuo tolto a sp IV pun uoldo II - orodns ll Po o in l ' loI lod oliſmo lo pnh.o o lo) lo IVmlnpoolpo Intti epp An – mumpm10 in p.l lod ()) lo Il ll ).I.) p.l.' I oITuttI III ottonlaAu ozuos o InluoAAu In II.Iossº a Ip – mlmſ illolo, il sºlº ! "l.l (uoſ Dil pup)s.to.A up loſium IV) - m) lolloq Dl pudos ollo,lto. ll to, l' (uobollſ lnplV sul u Il uoqnm.L  uo uo) p.t lo 0 olp csmp 10 nml 0 1GI) – Dl-lod D p.). oil o oufi pspl ol implodsy tuorlos dou).top!) tunc MoogI uo(I) – 0dnl ll plp.tmnſ ul paoood pl oam (I o.It: Iso – onbop onp m. i tm)S  vo) lo I l Iolu.lnu 'ltoſi lotti lob.to IV) – o.pso.to pºllo,l o I.) olli), D.) Dlfium IV oiltiºp o eso(Is Uztlos o.IO.I.Io o oli; io  -tu! oil.olenb tºp Islu.loqll – mſn.o pllop ollo. ll tod ouapssmd o outlos. l mld (lm):) A o Iedd e osi lo I o lui ottio 5.It: III los IIIl regolº (Ideos e un  “o5 old I un o.In.Ao.I | – plo) o ſi o l.olmnb tod ll sn plo/v. ſi pl tm no. L i lums millim. ſi otto op Is tr.lo.) Iº puoti in ſqu;Il pells optIo:o.Io s.It:puntuonº.oe.I o II.) o sol) I d o III. I tessed Iod o. Il -opze.Ilslp lod Isoo Ilopulº)) eai luus lop o Id e out s Iseill): 1.I.ood I.If I  “esInI?lo Id utin lp e.I srl III o II: I –.ooo I o in l uld lp olio lpold l I m/) p.1:).ooo! I ouolfim. plums lp o un atollm:I'ouoizu: un lp Is.Il luod – ottenso) osta Iop – oli luod und ll amfium IV  ro5.Ioi ole; o Inº Ilop osuos ll lpitI i lo! lo Io lop olzl.it: A1: os Izi Il sod o Iop e Iru.lo Iui ol. -It! - l oro,oo! I II e il III | Io e Aol 5 o [ tt. Ieri lo tel o - o.topro. of I lu um, -ol!) S ll plc) ſi mºllop plumnl muon pun uo. luput al lm Il m lou ſi )lo I l soIAtop lollipº I o il lossl.AA) - Iſſ.Il lº oil.oul e In.).ooo,oº o].Io.. n...Iosso titill l'Ilodes - ppo. pl uali olo,amp ll o, op todps – outp) todms 'oliloti in lito – o.Il D opup.oul.Ilm mosul pl oulo. o impul loInbul “os III e IIIs a 5II o Im)um. pl/m opII, sotto lo v o 5 e I º plo) tnam.L - I topi.oon o o oddº. Io ottes.I:II.Ipaduti.Iopulo. In “of.In loIII: Ip o Ill.ols Ozzotti II (IIII!) “o.It:) (p lo) um. m / mons ml opuo.oos ouons ll lao.Il II5 (lo olim on.ipenlis e III.Id nei rioti o Iſo.).on Ip e li s III3o Iod. I -Io(ſti IIA o noso etI - plo) una pl ons pl opuo.o, is ouons ll o un pm im o il (InIr) e ions IoIIII.oti Iq.lodins l oil.i ſi lod pu nu aºasi il Iollos ICI Iso:) o o Io od oris III olio.Ar - o unopm ofli ſi lod i puo IV i trie.Io Ifr I 5o. elos-.InI e o.non ſi ton eso.Il l'Iionſ la vi: - l I.),ol.) o, 1 m.)lum il tonº to, l' I.).Il V e lipo.oo ll ſi opt odm ou up il lun.olui !:..Ip Ions Is II-latile.Il l I op e III ed otti).I ve IIoII o II o o olni sotto, oi i s.I. I o I.Ialoni ti:III a oIodde.Il l oilo o Ie.Il sotit.Iod » – i loro lºſ oliodm ouum lui.nu. I ouolfin.I n.Il.Iod o orifi-osICI o II love II li Io I o o lo IosnoLI a Io ns i 5o II.) eso.o Ip ol.I.) Io RI... ] I  III o Ip Iso. Il n o In.oso) opo III I – oliſm) l p los lop. () il 0.1 O) ſpi o N. I.IRSI Ind e J a o o-neidsip o II lºso. lei in oso III IoAn – onl.).oo tollou o ond pum o. p. lug  oosn IIIIIIo I. - a.Teit v -o oltratuo.IoluI e III o IIIIp mld a IIIqm IositiI nid IzIA Iop o In mezIo opleIII  “Iuotze.IouI.Iotti IlunoIptII Ipo IV » – ddl I on.o o mlfm) o lo pnfull pun a.taa V – III.Io:I – RIssoII o oli I.) e ossopp ouogo mi fi li “ou upd ll tml ſip.I  Izzotti In olnsuod Io Am mzttas nsa.IdIIII In e Is.Inpſ IIn – noo! I rollo osul ruos polmſ ul tolla IV  IIIo o Iop o Iaisund IsInp nziros editrua o estInIII Iulo Ip -– o opms lou odm o lo o imbum IVIpa e ansa – poi gere occasione – ansa lett. è maniglia, nel figurato  appicco, pretesto.  Arei mantello a ogni acqua – esser pronto al bene e al male, accu In dal si a togli 'osta. Arriluppar l rasche e riole – inventa e se lalse. Mentre il rasli ello - predare, saccheggiare. Gianl). Super di barcamenare – essere ac orto e destro nel condurre i negozi. Mangiare a bertolotto - senza darsi briga o pensiero di dover poi pagare. Il langiare a lla ecc.I?accoglie e i biocc. - ascoltare gli all rili discorsi per poi rappol largli - da bloccolo, particella di lana spiccata dal vello. iellar la broda adosso ad uno – Il colpa l'e. lºom per la cuccu ma li portuliare, alloial e. l?idere agli angeli - l idel e per chè i dolo gii all'1. l?idere sol lo rºm li o le ba)) sori dere di nascosº o con gioia li ali  ziosa di cosa che ad all ', oli sia pia ere nè oliole e che palesa la tollell (le l'el)))e.  l'issi pissi ciò al lavato i pissi pissi d' A Iglisla. l)av. v Vo I rinata dallo sl repllo che l'anno e labbra di chi lavella piano perchè: il l 'i ll ll sell la. l)a V.  ('olo il c un disegno ed egli lon dal lido si sta al lina o indugio ai colorire il disegno suo. (ilan, b.: effel! lla e ſulello che si era progettato.  (''rcati e ai ſalula di ſalula V g. della verilà lorse da Fallen, piega – scandagliare, investigail e, indagare.  (''rc at ) e della Notn il dl rivolse ogni diligenza sua e dei medici suoi di cercati e della sanità ». l al.  l'utre un laccio ſolise di 'as dei l si compulo all'ingrosso,  slagliare il ci lil, al tribuire al lavoreccio, un valore così in massa senza calcolare per la inintità a ragion di elipo e ti tanti è, fai tutto un moni.lasciar alcuno sul latº metico v. g. di andar cercando... I3oce. I)ire a sor do.... ma se li la cavi di dosso io non li con i radico. Non disse a sordo, che di subito codesto povero gli cavò la tunica di «dosso ». Fiorelll.  Prendere, pigliare, cercar lingua di...... Qllesli andò e cercando lins gua di lui nella cillà....... » Bari. « Poscia mandalo da ogni parte a prender lingua del vero ». I3arl.Fare del buon compagno - fare bus na compagnia. IIo l'alto tanto del buon compagno, che ini gli ho guadagna i fulli o. CaroFa alti ui tornar sulla testa la loro la mei e le Isar I. - farla paga ('il l'il.Guardare, ridere sollecchi – di soppiatſo, alla sfuggita ecc. (V on der Stºile (tm) schielem Valo sbirciaro ).Scaponire - vincere l'altrui ostinazione. Dal pronominale incaponir si, osſimarsi in mºdo duro e goffo.Sgarare – le I. vincer la gara è affine a scaponire, nella frase  sgarare un ragazzo, vincere cioè a forza un suo capriccio. Non lo scam biare con sgarrare. (V. Errare - Pronſ). Sentire del guercio, sentir di scomo –- V. Sentire.'A1'CI 't Old nu duu! OIoolpI.1 'BI (los!p [u optioutod) w' los to Ossip o  'ozzl?IOdoºl H » - UZZou Ip u!A Q. o 110u 'ou JIt', o outu, o – los o ossm () ' 'I.).»r's P.) 12“IU10! (l)ou?uu0s O! (Iool2CI It: 'U.111]utoA tº II u – 1)oot.) m.)so nu m d.tv.).0n1; ) 'o IOIl.A IS JAOI) vr] [toUUlt'.lo(III uu?put! - 1) tilll!), m.) 1)/.).t.) 1.to.)S 'ou01Zu? Iop1st 10.) t'ZUIJS - 0.o0.1.).) op iſ.).Jo V '. D.)« » v, IBloJJIds 'd III) tºp tºt! Is to t's Is oilo o] |n) up - opont) tot 1 m/oy.).yoſis '001 un) nu 1 op 11.)sm -- Izzo.I III III Isr).»! 0.10||otils!D - - loud, op - Ool/l), los o//mſ lp orum.omputorit ºp ty.)s )  'old UU10 |su (I - Oulu pm ! tto.1 dl 11) 1.).), do. t/S : 9IUA 'old U]SI115513.1 al.IU! 15u11:55 U.u oIJ U uit: Ids -- O.tn)so.)./l 1 v.10.1/12/ 'o1.IU UIoo tº los.IUUI5 Upt?Inn - DSO.) Dun gs.tv.)./of/ '.I)! I 'Or]UJUI - putd] !! ) () [qtis 'out I tºp ! 11.1 | 11: o.11: oo. I - Out of tºub 12 1//s,ºf mun t mel 'OssOpt: " ) 1 ]sorbt u| | | |5.11:J 'ou!]1: | | | |11. | |lt: o.11:D - OUIL1. »It! |'t! ONN op D ! uit 1)(l ! ) to/ju1.1/S  0.1 n itt l!, 01.)sn,l D.1/ ).to/jult/N 'ZL11? IV 't PZ -11,0.1.11.). O ! | 150 l 1! ) | | | | | | | | | | | | |ollo Z) |O 14 l 12t II 1.1) | 115. | | | | | | | | | |s. Lopo V | 911 01.10.11: | |Ilso 'Oum lll lll Cºlo/s.) 'tt |! o III) lous Is, 111.) 'out? Ao A1 o II.) o.lolpIto.)  - 1:] oII. 12u011 | 0.11.11: o III 1.) [1: " 1:ssop:(te ) 0111) til lll (7/0)N.) til ll 1.)," ) Boſn.I 1: ).to | | III II) (silos II! 0.)  -)))N ll o.1 l/1) 1:|ON |l 12% | | |1.1 ||1: o.IJ.Al? | | |) - O.).0ns ll l 1)/ '0.).) DN /l d 11)(I 'lol, | | | o IO It?.)sod III tº trul) lll lp u 1) 1.).nl).) t ss.In Ill lod I]11 |0 |  ol | | | | |rt | 1! » " - IIIIIIls,, ! 11.01un.ºop 'L11:11 tºp 5: \ ou nu ºp 1 m.).jp. »  'ſ al l ' ().II.'s 11.11 » II tºt 11op (9.11p 1112111 ºp tot 12 (11: 111 ºp: 1: Ao. Ip 1 o/m.to it, fi /.nl ). 1) 1.).)nds II,7 o | » -10 A ollllll tern Ill Vios tº \"An IIFo, t] too.” Ip 0115os! | 1 o Amº o.112.1 solid 1: Aolo.A » UIou oq.todns o]tiotulp.In 112u trio otl) 115 pal n i1.10 | '',,IL1 | 1: is 110II 1: Is -sor op Kotlon III o In Lied rºtti III?looſ) 11:d 11: Oslo.'s!) |. o IoTIII | |sol Istolov  rºzilos Is Irºn LICIs op: \ » - t/m 1.) nofi ol)ns in/s o In tomtof jod o I nl.) mods ', ' II, rs.It?,II). » 12ZI I. »s 't II II !! A  visso, 1110.) ost).), 'I l ºp 11 f: [1: I. st: 1) u! iſ.) p/lp non I.nl ), 11 pun inlosm'I  fjm/nl)S nu out. Inm noſ.nl / lo,n Z – 0,7 ml min 1) 10 l/10/0) dºn)' dat dpild tal  'nfin. 1.)s omp o omſifi.nl, un 1m / 'l.In: 4 | 't OLIII » -oji I n Ilsnq oilo oIodus onnºl oil tot 1 ol ozilot lop oIsº IIImºl orn: \ oIlonb Ip » nºu, IJ.).on III u?I nl)n1 m.tto) m osso1)oni o IptºcI ('lul'S II rtloulon.In IIIIIssIntlood » Ip 1: 1.) tºol IJ0 te]II nrub II (),). ) IIIoI5n.I opIes lp '127 IOJ lenb IIO.) I() » 'I InfoS 't Olso] -ord ooit Is pito) m 1a io)jou oIdus oI - o - o Ioll nſ|(In: - 10.1 lol in dit ollo IV ooo optim: IIIA  olte illustr! 15u eIssoipolulo allodsa oInnoptieſ ºm - Onl In dtplosDT 'opond m tav ) I I I I Il.I. t: o Illaptto.) olttotill litio. I tºp - lo sl m puo.).opſ o un m oldm.o.).l ma l (IIII!)o.Ioppi lp elli. A olo.A: o od il plli ll o).olo, lo o ollo. Il rolli Ip oieA Iosso - tel.In I: o lui o li tºp - O.It:) o un.olm p o lui olfi ll o.tolo V so ) (put.to, ll p.ll.osn ottetto) otI. Il tal. Il tº I otto. Isl: Ill o. I Is - bol oIloo tepul: Il 0.1 [ulos lui, o tu As o le volp lº lll.lo.llol).ll.)N ) quel!)..I RUIos Ilºp ou lost. prº.soood o oloA | otteAopuol o le los ti otitº.All. Iuºl, vi: II.os I e zz -UIG.Ii eulº tuo.I tº I o II.it I col eztloloIA:l 55o o II. I ll pp l Il pm.os. I tolti “ouolzuºu e un ostello e Aoi.Iod otto sou.lº 1: tos Il 15o lo os oil. I l -Uuoso Iliou ol! UIoS oleo, ill. Il II si ulltiltos o il tri.I potti il 15 III e III. ll: as op.Iool.I tioN o Ido. Ito. Ip oi lotti:p o.I I I I II, I l o I, lun. 'N Al (I It:p los Iop 751.I. ile lugds up o A.Ied il 5 pp.to, plus p.).oo. pl o ibIII p opup Is e III Is o o..ot: -) e,l o.IeIddo,os Iod II ll losso - foltº.I s o II il 1 olt: \ l: p.lo. Iº | 12.I | | | | Il trooo.I] e [op o A n.) Il teo.oul º u.).ooo, pp.to, ºlns ul p.). o, pl o il S “.),oo! | Iliº AI.Iolo. I Is tº I., l:.........“olons n olons o I veti olioti opzitelli. Io li oi oil I II Is oillo. Io vi: pt. Il'eAlls (ossoI) ollo il Il po o l?.I s S olo ns m, lo s. l'Aopo.I.) Is o [.) o[[onl) Ip (I. 1.I luo. Iº o II la V A: l I. A 1:(l.) lp Qss pd o ICI: onb.me l o lo us. Il No SN1). I -.). Il re I Il lp 1, 1, do il I so ). l. (l -oud ul o e lied n.Io Illn e o intito. Il viso | | | | ol i do tal ul A l:(:s-oo e o.Iluo.o tutti i lopuloid lp muli, uo. Il pi is ulloII I llllº solo.Id I o Is.Imp.Io.. e o III o VII. il 1) il fi. ll o il l eso.o e o Ao.ol. oil. I l o A Il 5 o il - vi III i  -tito) Ip o Iniel Ip miss, loolII. Il. Is.I tºp IO.), lº ol n.), uo, pl) lim) I l /  es.) Il fo: III | o elle ol; poi li osto. Noi i pl in I  o.lui iuta il tºp.Io vu: toll o l..).l. o loo.l.) I l I  o II lotti o I e II li. mld II l.lo I i v. ri II: I pn: I I I I I Il il tul.). Il vl'Ifo II:  ool.IntIo5 outot a o,opo – olº.Iotti: lui o Iosso pri uop uo, o, pil ll.. l oliºfolli: lo ol o elusi o II (1 ptt pil  “eIollo.II on.A mlnq – oſinod III e II o riſpºl u ntlmi il miº ll, i NN, i ll l  all I toulos popu o top li V – pu u m. pl tolo. Il ml), l ' Ill) Il ll I m sl IV  (uopolosa oa si ſomus.o!) I. (I pillso i tm l lo o psso l'on. 'I l I.) ſuoqmaſoo run II tap ) foll pdl – ma lo u VI top / SI. IN DCI -  -und ll mys unb: osodsII el'uoloA elis e o Infioso e vo vop Is otto. Il 5 l.lo il  po “Ipnos Ip op IISIui Iod olose oilo elodi:).II In lui: oddo l II ale.II Ionb e olinqII 'u ottIssluſo un ollo II ), - o lund ll o Ippo) ln () arou alloo olmuuaſi l' opumnh (n.IlIn Iin Io o olibri.nlm.nl) nso.) oa pl pp m II ro.Ino o non limp out il l pts No I.).ool. o.tplli o .IoI I II.).I l? \.I - «I – pose II III opud Ip – otInoso) opoIV – ouol)fillo.mſ ul ott 1 V p impos 'vllob.ll, il ll Dul Ssn il lolill L uo(I) o lo pſipd D.lluo o.topm,tollmut pulu. ll.) looo.) o lito.t.too losso noti i plimd lp opuol losso lou I milſild l)  il dſ II o Il pl) il 5 il ril oi lotti lop plAtº t.I sotu ! ! Io l: - olso.it) o toplſ llli uou opolds llo.ool o lo opm ſi pull Dl Ippll llſ lou o tolto. llo.ool o lo upo )  Izzo!) o tool -ms ll o oli uos lp di qll ollllll lp od too ul pllio, ll plotto, un uld lp  l loll (I lo Spºl uo il lun. I tu n = bupl os I loli fini M to(I, 'odulo. ls oillſ plm o lo pnbop,l lod o lo tol ma o um,l lo! I lons,oo Ilſi o llllllls,o. lllullS  lo! I Dl.ol)lli p.t.to) m opp.lli ons ll li o l.) e olsn ſi pl, m. l opm. I m/s opuolod l 1 ) Iollfill, l.lo. I l II), noſ) | I l N.1 o V, D.ln / uo, plm tl pl.).om.) m. n.) Duom:I o l.los D. l Il p.) od tuoi olto i ton.) A eCI ) un lato i po.t o, ul, olpm Is u. I  (- Il n.ll l uo il lo)) SNI)| Dp Isl 1 I.)lli S I lil souloI Nm \\ - l 10 pl pluſ ml luo).om.I.L) - di pls lospl oa mi ps lou l I,) lo Iel lli),l o l.lo.) o I molfin. pl Dz.iol pl o il to,  Atº (l o utild lo, “ollo) Il D.l ol li Out o l)ssol l)lloli o topi). l) o. pplli) 0.ool.) ll opo, l I, A 'CI olfils to.) o I.) olod il l lulti ou up I l) li p.to il filºl!)o lotto) oil. Il 1 | Iloil polo lui) li o) p.) Il to il l.s lou lons ll pot l oi l I, ) ufos ll put o lon. ll piu ! I, 'oli.I e le lotti e liti tetti o I. pl ſi fiou.tp.) mlfi fio) sof l I, oliuls l.ol pol I ssop osso lo po. I u.osso M oum. ll u lp o o upd lllllll pol  lt lo l mm.it/ ol). 1. ll l / D I SI onl:) Nm p... W i tons ) un I.iol 1 m. pl/mq uoq loss  o o d Il 5 o II o II.oni, ons lop Ile ond o Intini - l I..)oufi mi spºt pms pl).op i pl Qnd un ufi ()  epº.I s I.).ol. II. o II. olio Alio. es. otI.), tºnfi le id o Ie Ip e lo IIIIIII.I Iloil III o o lu mſ plº (lm ollo, lo pſ lou l I, puo il m ollo il pilo.) p.). Dallon, o l.) Ollon h o, o la toil o lom p ll ſi o I.) ollonh lp pp roll l I.) m.).oo) ll ſi o lo onl) ps ls uoi p.).) o il o l uop pl pil in o I. ll I  “) lugl o I][..losO Ip III) -nlillotti e Iluotti lep mln out e tio.Ipel otrosso Joid lp o.I 'elopſ o 5o lp “m.i.a) oa l uop l.luc[.Ieq i lutti lop e tituli lod o.Iugl - p.t.to) O.I luop mld oluti.Ioli onp sulllo alle ol) optio.) ng » - o Imu o. I top m.llo) 0.I luo(I rooogI « allo Iod olionl uonq un lui li ott o) ups m oampum ossOd lo IIOII otlo olopo.A o II.) » – oln.) O.Iones li oli ed i pilo.Id – Olups o o ampu V roo nelll.) lens e lº slº.), i ti so I ep III lº Ions I l I sè.A o II o I z-utellIA In p oil.oun po 'oion lode. In lons illie od o Iupire ole.A o n.oI) Il n.roluntII I II..ms o epilo.o! A nſiti nunoIl lod p) Il p o V ».).oogI pl/lo. m l), m)pum OUI.) oll) Ollion | In AO.I] () otI.).oo!.).Iod » – p) ll. m o impuyChi ha terra ha guerra. Giamb. Volpe recchia non teme laccio. Fier. A buon intenditor poche parole – dal latino intelligenti pauca. Così le intelligenze equilibrate e l'ele. Ma il tedesco pedante: Gelehrten ist gul predigen. L'inglese fa lo spiritoso: rith a clerer one word. Al fran cese è troppo una parola: è un home d'esprit un lemi mot. Indi l'indole (ielle nazioni.Inran si pesca se l'ago non ha esca –, W e nicht gut schmierl, faehrt nich l ſul\ on è il più bel messo che se stesso. Selbst isl del Mann. \ iun bene senza pene. A cine Freud oline Leid).l'aga ben chi paga lo slo - VV e rasch giebl, giebl doppellº. \ on scherzare collo so se non ruoi essere morso. 'Mil grossen 11erren isl nich l ſul lv il Ncl en essen.() gni santo ruol la sua candela. Ehi e le m Eh re gebili rl). l dl ct sino al tiro but N lom tl i ro au) cinem gl o ben I lotz gehört e in I rober A e ill)i quel che non li cale non di nè ben nè male. W as ist nicht ucciss, match t mich nich I heiss. Il ledesco è limigliore dell'iltiliano.Più ricino è il mio dente che nessun parente, leder ist sich sclbst der \ aechsle Nell'italiano, senti l'uomo coscienle della individualità del Sll 'S.Stº l'.Dopo il bere ognun lice il suo parere. Del V e in lisl die Zunge). Pal ere e non essere si è come lila) e e non tessere.Chi di galla nasce, so ci piglia. Dic Ralze latess das Mausen nicht'. (cqua che la cerni mºna. (com). Menare Stille VV asser sind tie'ſ. () / mi legno ha il suo latº lo ogni ctgio ha il suo disagio. ('hi dell'altrui prende le sue liber là rende, ('hi ha dentro fiele non può spillar miele. Dopo il con len lo riene il lor men lo. ('hi parla semina, chi lace, accoglie vergogna! snellere questa sen lenza che è losſ 'a e ricullissima, e si sliluirvi la ledesca, malerialissima: Redeli isl Silber, Schweigheli isl (i old.l grande molle gi andi lan le ne (i rosse i bel erſo dern grosse Mittel). ('ol mollo non sta bene, col poco si sostiene. Mi riclem hatell man (tl N, mi il trºnig kon mi l man (tus).Morla la bestia, morto il veleno. Todle II und beiszt nicht mehr). E' meglio esser capo di gallo che coda di leone.Non si può cantare e portar la croce Gule Mirne zum bisen Spiel mi (tch e nº.Shºm (tco digiuno non spregia cibo alcuno. Il un ger ist der beste Koch. Giuoco che li oppo dura, di ren la seccatura.('hi li oppo l'assottiglia, la scarezza. Ill: uscha, i machl schartig). Chi è bella in rista spesso dentro è Irisla. Fier (Der schinste (piel li atl oil einem VV trim.La donna è come una castagna ch'è bella di fuori e ha dentro la ma il magnat. l oce. I quali ino a quattrino si fa il fiorino.Le fave nel nolaccio, il gran nel polveraccio. Dav. Chi è reo e buono è lenulo può fare il male e non è credulo. Bocc. ('hi ha allar con Tosco non ruol esser losco. Bocc.Alle giovani i buoni bocconi e alle vecchie gli strangulioni. Docc. strangulione lett. è angina, infiammazione delle tonsili. Chi lava la testa all'asino perde il ranno ed il sapone. Ciaballin rimanli al cuoio Schuster bleil bei deinen Leislen). Mal fan coloro che voglion far l'altrui mestiere. Fier. Qual guaina, tal coltello. Qual asino dà in parete, al licere – a chi ſe la fa, fagliele, o se ſu non puoi, tienloli a mente linchè lui possa, acciocchè qual asino dà in a parete la ricerca n. 13oce. Secondo la misura che lati, misura lo sarai. Paga e di tal nome la quali furono le derra le vendulº. Q ual proposta tal risposta. l?ender pan per focaccia - (i leiches mit (, leichem rergellºn. Chi la la, l'aspetti. Chi altri tribola, sè non posa. Chi offende s'offende. 1?l'overbi bellissimi, il [ichi e dell'Ilsci, «che, dice il Meini, giovel'ob be rallimentar sempre, e più a chil' igne ha più lunghe». A confortator non duole il capo–e dal confortare all'operare è gran (le diffel'eliza edistanza, e dove l'uno è molto agevole, l'allro è somma Inoli o malagevolo). Bocc. La  determinazione  suprema  della  voce,  «la  favella,  cioè  la  pronuncia  articolata  della  dialettica  psichica»  ('),  è  il  vero  fondamento  dello  scibile  (*),  perchè  concreta  sensibilmente  lo  sdoppiarsi  del  pensiero:  è  «la  formula e insieme lo strumento più eminente della manifestazione spirituale»  (*).  Sebbenené la favela, né la facoltà di acquistarla siano necessariamente richieste per determinarela posizione dell'uomo nella natura (•) il sorgere del linguaggio, è, come il pudore, sintomo della spiritualità che nasce e si afferma. Lo studio della linguistica che sembrerebbe poter procedere sopra un terreno libero da qualsivoglia passione( [Introduzione alla coltura generale, pag. 141. ][Op. cit., pag. 144. ]Prolegomeni I, pag. 367. (*) Introduzione alla Coltura generale, pag. 121. (*) Massime e Dialoghi^ Fasc. 86, pag. 8. (•) Prolegomeni I, pag. 368. 390 1^0 Spirito  oggetiivo] sione partigiana, invece cammina sotto vane bandiere teologiche,  o in  balla del liberalismo  naturalistico o finalmente asseconda le simpatie e avversioni etniche. «Come ogni popolo crede ed ha creduto sempre di essere il primo popolo della terra, cosi crede ed ha creduto sempre di possedere la più perfetta di tutte le lingue» (') opinione che naturalmente osta ad un bilanciodel contributo che ogni idioma portò all'educazione dello spirito umano. Il problema dell'origine delle lingue, cosi come fu posto per tanto  tempo, è assurdo, giacché «presuppone  prenato  alla  lingua il  pensiero, il quale mediante  essa  debba  riferirne l’origine. L'unica  ricerca genetica che, fuori del dominio speculativo,  possa condurre  a  utile  risultato, è  la  determinazione  di  un  periodo riconoscibile nelle vicende storiche, dal quale si siano sviluppate le attuali forme linguistiche. Considerando il rapporto tra l'idea e le primissime radici designative si capisce che detto rapporto non è idealmente definibile, perchè è meramente naturale: è una ragione psichica immediata come quella per la quale il riso è foneticamente altro dal lamento e significa diversa condizione dell'anima. Ma l'idea progressivamente si emancipa dalle forme materiali e radicali: giacché agevolmente si capisce come una radice viva, ossia espressiva di un solo concetto determinato,patisca in questa determinazione un impedimento alla sua dialettica e storica evoluzione; anzi, la (*) Considerazioni ecc.,  pag. 12. Lo spirito oggettivo 391 radice e l'idea si legano reciprocamente, e così l'una e l'altra sono arrestate nel loro metamorfico svolgimento.  Si  può  dire  che  il  pensiero  di  un  popolo  tanto  più  li-  beramente si svolge nella storia quanto meno sia spiritualmente legato dalle radici vive della propria lingua, e che reciprocamente l'inerzia dialettica conserva le radici vive come l'attività  le  corrompe e spegne  (').  Molta  importanza  ha lo studio delle  lingue per la istruzione e l'educazione  del  pensiero: l'uomo è tante volte uomo quante lingue  conosce, giacché  tale studio concerne vari  modi  che  rispondono  ai  vari gradi del pensiero (*). Infatti  l'idioma  accennò  progressivamente a) a dare le forme sensibili, 3) le intellettive, e) le concettuali(*). Quanto più il pensiero si avvia all'espressione rigorosamente logica tanto più si libera dalle esigenze tutte formali della lingua. «Giovanetto, sperimentai che dalla lingua è occasionato  il pensiero;  più  tardi  capii  che la  lingua  è  mezzo  necessario  alla  sua formulazione;  finalmente  concepii  che  la  vera  forma  intrinseca del pensiero non può  essere  manifestata  da  questo  mezzo  estrinseco,  che  è  la  lingua»  (*).  Il  che  significa  che essa,  giunta  che  sia  di  fronte  alla  speculazione pura, o per dir meglio, al sistema contemplative si esautora da sé medesima, riconoscendosi insufficiente a esprimerlo concretamente: anzi, «la lingua  (*) Idee radicali delle discipline matematiche ed empirico-induttive. Fasc. I e 2.  (^) Introduzione alla coltura generale, pag. 121. (*) Prolegomeni, pag. 368. (*) Massime e Dialoghi^ Fase. 18, pag. 18. 392 Lo spirito oggettivo volgare, per l’uso pratico della vita, vuol essere studiata assai differentemente che la letteraria e la filosofica, perocché lo scopo delle varie forme linguistiche non è menomamente identico» C)«Anche la semplice nozione storica di un paese è assai collegata colla conoscenza del suo idioma speciale. Narrando di un viaggio fatto dall'eroe di uno de' suoi tanti romanzi, il Ceretti dice: «Il mio protagonista studia vasi sopratutto di famigliarizzarsi coi  singoli  idiomche erano svariatissimi e giudicava che la nozione à\ un certo paese supponesse quella del minuto popolo, epperciò una pratica dell'idioma locale» (*). E vedemmo che così si comportò nei suoi viaggi egli stesso. Quanto  alla  questione  circa  la  preminenzadel toscano sugli altri dialetti nella nostra lingua letteraria, ecco le osservazioni, che noi riferiamo qui non perchè ci paiano originali, ma per dimostrare, una volta di più, quale sicurezza di sguardo avesse il Ceretti in ogni questione, che si affacciasse al suo intelletto: «La lingua italiana possiede,  come  tutte le altre, il suo proprio genio caratteristico, per il quale non può essere confusa con veruna delle lingue romaniche. I suoi dialetti, moltissimi e svariatissimi, si distinguono fra loro singolarmente per il loro specifico carattere, ma nessuno potrebbe sospettarli dialetti d'una lingua altrimenti che l'italiana: questo avviene eperchè fra tante differenze essi posseggono un caratter comune(') Memorie postunte, Fasc.13, pag. 6. (') Itinerario di un inqualificabile, Fasc., i, pag. 14. Lo Spirito oggettivo 393 grammaticale e lessicale; e l'unità dello spirito italiano, nonostante le sue profonde differenze, è improntata in questo generalissimo tipo comune dei dialetti.  Oggidì da letterati si disputa seriamente se il solo toscano sia il tipo classico della lingua italiana, ovvero se il genio della nostra lingua,  essendo sparso in vari dialetti, si debba ecletticamente approfittare di tutti. Esporrò brevemente la mia opinione. Il toscano è senza dubbio il più ricco, il più venusto e sopratutto, diremo, il più prettamente italiano dei dialetti parlati nella penisola, e perciò esso è senza dubbio il repertorio più copioso e più italiano; ma non si deve dimenticare che la lingua parlata in Toscana, quanto-sivoglia buona, è pur sempre un dialetto, epperciò non può essere una lingua letteraria sufficiente: nessun popolo scrive come parla; le lingue parlate nascono e crescono nel popolo, e contengono le mere idee del popolo; la letteraria e la scientifica sviluppano il materiale linguistico della parlata giusta le esigenze progressive delle lettere e delle scienze. Ora questo materiale della lingua parlata sarà tanto più sufficiente quanto più ampiamente sarà desunto da tutti i dialetti italiani: ognuno di essi possiede certe locuzioni così proprie all'idea, quali non sono specificamente possedute da verun altro. Di queste precellenze particolari la lingua delle lettere e della scienza deve liberamente approfittare e non immiserirsi nell'idioma locale d'una provincia. Seguitiamo il buon esempio del grande Alighieri,che, quantunque toscano,  esordì  a scrivere la sua Commedia non nell'idioma toscano, ma in una lingua veramente italiana. 394 ^ Spirito oggettivo.Molte forme grammaticali e lessiche sono riducibili allo spirito generale della lingua italiana, talune non lo sono: il buon criterio del letterato deve scernere quelle da queste, e, se l'idea esige neologismi, li deve creare conformemente al genio della lingua, e omogeneamente ai materiali idiomaticamente o letterariamente prestabiliti nella  lingua  italiana.  Coll'idioma  esclusivamente toscano  s'immiserisce  non  solo  la  lingua,  ma  con-  seguentemente anche  l'idea,  la  quale  trascende  le  limitazionilocali e popolari»  (*). Luigi Cerebotani. Keywords: implicature, la lingua e lo spirito d’Italia, Hegel, il Tedesco e lo spirito della Germania. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerebotani” – The Swimming-Pool Library.

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