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Friday, July 8, 2011

Grisotto

Luigi Speranza

Erberto Paolo Grice, filosofo inglese della universita di Oxford, presenta un quadro del processo di comunicazione linguistica che è
alternativo a quello tradizionale: egli ritiene che il significato dei
proferimenti linguistici non sia il risultato di processi di codifica e di
decodifica realizzati da parlanti e da ascoltatori con riferimento alle
proprietà sintattiche e semantiche di un codice, ma sia piuttosto il
prodotto di un’intenzione complessa del parlante di avere un certo effetto
sull’ascoltatore che è ricostruita dall’ascoltatore stesso attraverso un
processo inferenziale di attribuzione di stati mentali al parlante nel
contesto in cui avviene lo scambio comunicativo.

L’ampio programma di Grice, come lui stesso afferma nella sesta
lezione di Logic and conversation, sorge da una distinzione che egli
desidera fare nella significazione totale di un’osservazione (the total
signification of a remark):

Logic and conversation è il titolo delle William James Lectures tenute da Grice
nella primavera del 1967 all’Università di Harvard nelle quali presenta in modo unitario la sua filosofia del linguaggio. Le lezioni diventano immediatamente celebri e circolano per anni in versione dattiloscritta. Alcune parti appaiono in tempi diversi in riviste e in
volumi miscellanei con una nota dell’autore che ne annuncia la pubblicazione integrale
da parte della Harvard University Press. È solo nel 1988 che Grice licenzia per la
stampa una raccolta di scritti, intitolata Studies in the way of words, comprendente due
parti: la prima parte è una versione rivista di Logic and conversation, la seconda parte
contiene vari saggi su problemi di semantica e di metafisica scritti fra il 1946 e il 1988,
in parte già pubblicati. La raccolta è edita dalla Harvard University Press nel 1989, un
anno dopo la morte di Grice.
In questo lavoro, nei riferimenti ai saggi di Grice, oltre l’anno di edizione del
volume da cui è tratto il riferimento, è indicato anche l’anno della prima pubblicazione
del saggio.

una distinzione tra ciò che il parlante ha «detto» [has said] (in un certo
senso speciale, e forse anche un po’ artificiale, di «dire») e ciò che ha
«implicato» [has implicated] (ossia fatto intendere, indicato, suggerito),
tenendo in considerazione il fatto che ciò che ha implicato può essere
implicato sia convenzionalmente (grazie al significato della frase o della
parola che ha impiegato) sia non convenzionalmente (nel qual caso la
specificazione dell’implicatura [implicature] esula dalla specificazione
del significato convenzionale delle parole impiegate). (Grice 1968, 1993:
166)
Lo sviluppo del programma porta Grice alla formulazione di un’articolata
teoria del significato (meaning), in termini d’intenzioni del parlante, e di
un’originale teoria delle implicature (implicatures), che sono i significati
impliciti che possono essere inferiti dall’ascoltatore, due teorie che, come
lui stesso dice, sono strettamente legate (vedi Grice 1989: V), tanto che la
nozione di «implicatura» è comprensibile solo sullo sfondo della teoria
del significato come intenzione.

Considerando un campione rappresentativo di enunciati ordinari in
lingua inglese che comportano l’uso del verbo to mean (significare, voler
dire), Grice distingue tra «significato naturale» (significaton) e
«significato non naturale» (significatonn) dei segni: un segno ha
significato «naturale» quando è un fatto che esso significhi qualcosa,
mentre un segno ha significato «non naturale» quando per mezzo di esso
qualcuno significa qualcosa (vedi Grice 1957, 1993: 219-221). Centrale
nell’analisi che Grice fa del significato non naturale è la nozione di
«significato del parlante» (speaker’s meaning). Egli delinea una teoria
del significato come intenzione (intention) del parlante che è alternativa
all’antipsicologismo della tradizione fregeana, per la quale le nozioni di
3
carattere psicologico non sono rilevanti per la teoria del significato (vedi
Frege 2001: 32-57; Marconi 2002: 15-61).
Grice condivide l’assunto degli altri filosofi del linguaggio ordinario
che si debbano prendere le mosse dall’analisi dei modi ordinari in cui i
parlanti usano i segni nelle occasioni concrete di comunicazione.
Afferma che
il significato [meaning] (in generale) di un segno deve essere spiegato nei
termini di ciò che con esso vuol dire [means] (o dovrebbe voler dire) chi
lo usa in particolari occasioni. (Grice 1957, 1993: 223)
Tale prospettiva metodologica, tuttavia, porta Grice a sostenere posizioni
differenti rispetto a quelle dei filosofi del linguaggio ordinario, lo porta a
rifiutare l’identificazione – da essi fatta – del significato delle espressioni
con il loro uso e a sostenere, piuttosto, l’utilità filosofica della distinzione
tra «significato» (meaning) e «uso» (use) (vedi Grice 1989, 1993: 34) a
indagare quale senso ordinariamente la gente attribuisce al verbo to mean
nelle espressioni «x voleva direnn [meantnn] qualcosa (in una data
occasione)» e «A voleva direnn [meantnn] qualcosa con x (in una data
occasione)» (Grice 1957, 1993: 223-224).
L’osservazione dei contesti ordinari nei quali gli esseri umani usano
segni per comunicare è il punto di partenza di Grice, ma il suo obiettivo è
l’individuazione di una definizione del senso ordinariamente attribuito a
to meannn in termini di condizioni necessarie e sufficienti. La prima
formulazione che egli dà è la seguente:
«A voleva direnn [meantnn] qualcosa con x» equivale
(approssimativamente) ad «A intendeva [intended] che l’enunciazione
[utterance] di x producesse qualche effetto su un uditorio [audience]
attraverso il riconoscimento di quella stessa intenzione [intention]»; e
potremmo aggiungere che chiedere cosa volesse dire A equivale a
4
chiedere di specificare l’effetto inteso [intended effect]. (Grice 1957,
1993: 227-228)
Il significato dell’enunciazione di un parlante in un contesto particolare è,
per Grice, approssimativamente equivalente a ciò che il parlante intende
comunicare, vale a dire all’«effetto inteso», all’effetto che egli intende
sia prodotto dall’enunciazione sull’uditorio che riconosce l’intenzione di
enunciazione. Intenzione che è complessa, che non equivale
semplicemente all’intender produrre un certo effetto o una certa risposta
in un uditorio, ma anche all’intendere che l’uditorio riconosca
l’intenzione che sta dietro l’enunciazione e all’intendere che il
riconoscimento, da parte dell’uditorio, dell’intenzione di enunciazione
svolga il proprio ruolo nell’indurre l’effetto o la risposta, che sarà una
credenza nel caso degli enunciati informativi e l’intenzione di compiere
un’azione nel caso degli enunciati imperativi (vedi Grice 1957, 1993:
227-229; 1968, 1993: 171-172; 1969, 1993: 152-153).
Nella quinta lezione di Logic and conversation, intitolata «Utterer’s
meaning and intentions», Grice formula in modo più analitico la
definizione di significato del parlante (o enunciatore) indicando le tre
intenzioni alle quali tale significato corrisponde:
«E [l’enunciatore] voleva dire qualcosa enunciando x» è vero sse, per un
qualche uditorio A, E ha enunciato x intendendo [intending] che:
1. A manifestasse una reazione [response] particolare r
2. A pensasse (riconoscesse) che E intende 1
3. A si conformasse [fulfill] a 1 sulla base del suo conformarsi a 2. (Grice
1969, 1993: 138)
Tuttavia, i controesempi presentati da diversi filosofi del linguaggio, volti
a dimostrare che la definizione è troppo debole, troppo onnicomprensiva,
includendo casi che il senso comune non identifica come significatonn,
inducono Grice a riformularla più volte identificando ulteriori intenzioni
5
di livello superiore come condizioni sufficienti per produrre significatonn
(vedi Grice 1969, 1993: 139 e sgg.).
Nell’esempio presentato da Strawson, non vuol direnn alcunché
l’enunciatore che predispone una prova che p in un luogo in cui il
destinatario non può non vederla e predispone la prova sapendo che il
destinatario lo osserva, ma sapendo anche che il destinatario non sa che
l’enunciatore sa che il destinatario lo sta osservando. Pur potendo
attribuire all’enunciatore le tre intenzioni indicate nella definizione
originaria di significato del parlante, non gli si può attribuire l’intenzione
che il destinatario riconosca l’intenzione dell’enunciatore di indurlo a
riconoscere l’intenzione dell’enunciatore di indurlo a credere che p (vedi
Strawson 1978: 88-90; Grice 1969, 1993: 141-142). La definizione di
significato del parlante è integrata aggiungendo una quarta intenzione
alle tre già indicate, ossia l’intenzione del parlante di far riconoscere
all’uditorio l’intenzione 2 (vedi Grice 1969, 1993: 141-142).
L’enunciatore dell’esempio di Schiffer, che getta una banconota dalla
finestra perché vuole sbarazzarsi della persona avida che si trova con lui
nella stanza, non vuol direnn alcunché gettando la banconota dalla
finestra. L’enunciatore ha un’intenzione complessa che è ingannevole
nei confronti del destinatario, giacché egli non intende che l’uomo avido
riconosca che l’enunciatore intende che lui se ne vada sulla base del fatto
che ha riconosciuto che l’enunciatore vuole che lui se ne vada, ma
intende che l’avido se ne vada pensando che l’enunciatore intende farlo
correre dietro alla banconota (vedi Grice 1969, 1993: 142-143).
All’enunciatore si possono attribuire le quattro intenzioni della
definizione modificata dopo l’obiezione di Strawson, ma non gli si può
attribuire l’intenzione che il destinatario riconosca l’intenzione
dell’enunciatore che il destinatario lasci la stanza basandosi sul fatto che
il destinatario riconosce che l’enunciatore intende che il destinatario lasci
la stanza (vedi Grice 1969, 1993: 142-143). La definizione di significato
6
del parlante è integrata includendo l’intenzione del parlante che l’uditorio
riconosca che il parlante abbia l’intenzione che l’uditorio fornisca la
reazione r basandosi (almeno in parte) sul fatto che riconosce che il
parlante intenda che l’uditorio fornisca la reazione r (vedi Grice 1969,
1993: 143).
Identificando ulteriori livelli d’intenzioni, la riformulazione della
definizione del significato del parlante viene a presentare in più punti la
caratteristica che il parlante debba avere l’ennesima sotto-intenzione che
l’uditorio debba pensare che il parlante abbia la propria sotto-intenzione
n-1 (vedi Grice 1969, 1993: 143). Grice osserva che la presenza di tale
caratteristica conduce a ipotizzare che l’analisi del significato lungo
queste linee sia infinitamente o indefinitamente regressiva, poiché si
possono sempre trovare ulteriori controesempi che obblighino a
introdurre nuove condizioni dello stesso tipo (vedi Grice 1969, 1993:
143). Egli stesso riconosce la difficoltà di ammettere una tale situazione
dal punto di vista della comunicazione ordinaria, perché i calcoli
(calculations) delle intenzioni che a un certo punto il parlante potrebbe
richiedere all’uditorio per produrre la risposta diventerebbero di difficoltà
eccessiva, addirittura il parlante potrebbe non riuscire a trovare il modo
di indicare all’uditorio la necessità di tali calcoli e il processo di
comunicazione sarebbe compromesso (vedi Grice 1969, 1993: 144-146).
Come soluzione alternativa Grice propone una definizione di
significato del parlante, nella quale, in aggiunta alle tre intenzioni della
prima formulazione, introduce una clausola generale «antinganno» (a
general «antideception» clause) la quale impone che non ci debba essere
alcun elemento inferenziale (inference-element) tale che il parlante
intenda (1’) che l’uditorio si basi su tale elemento inferenziale nel
realizzare l’effetto inteso e, nello stesso tempo, intenda (2’) che l’uditorio
pensi che il parlante non intenda che l’uditorio si basi su quell’elemento
inferenziale (vedi Grice 1969, 1993: 146, 152). È una clausola che vieta
7
al parlante di avere un’intenzione complessa di un certo tipo, ingannevole
nei confronti dell’uditorio: era stata proprio la necessità di eliminare
controesempi con tale tipo d’intenzioni che aveva comportato il regresso
infinito e indefinito delle intenzioni nella definizione precedentemente
formulata (vedi Grice 1969, 1993: 141-146).
Nel saggio «Meaning revisited» Grice ammette di nuovo il carattere
regressivo delle intenzioni nella definizione del significato del parlante:
quando un parlante P proferisce un enunciato a un ascoltatore A volendo
direnn qualcosa q «P vuole [wants] che A pensi “q perché P vuole che A
pensi ‘q perché P vuole che …’ ”» e così via (vedi Grice 1982, 1993:
302). Tale regresso d’intenzioni costituisce una situazione che Grice
definisce allo stesso tempo «logicamente impossibile ma desiderabile»
(vedi Grice 1982, 1993: 303).
Di fatto, l’analisi di Grice, pur essendo fondata sull’osservazione degli
usi ordinari di parlare, ha l’obiettivo di delineare le condizioni ideali del
processo di comunicazione, piuttosto che descrivere ciò che accade
realmente nel «mondo sublunare» (vedi Grice 1982, 1993: 303). La
delineazione delle condizioni ideali costituisce il criterio in relazione al
quale valutare le situazioni concrete, quasi come le Idee platoniche erano
i paradigmi delle cose sensibili. Grice afferma che
tutto ciò di cui abbiamo bisogno è, per così dire, un modo per misurare
oggetti individuali esistenti rispetto alla qualità irrealizzabile degli
oggetti individuali perfetti. Forse Platone aveva in mente proprio
qualcosa del genere. (Grice 1982, 1993: 303-304)
Cosenza osserva che l’infinito numero d’intenzioni nella definizione di
significato del parlante costituisce
un limite teorico ideale concepito al solo scopo di enfatizzare una
proprietà fondamentale che secondo Grice la comunicazione deve avere
8
[…]: la bontà e onestà delle intenzioni dell’emittente, cioè la totale
chiarezza e trasparenza per il destinatario di tutti i livelli di queste
intenzioni. (Cosenza 2002: 89)
È la trasparenza delle intenzioni del parlante che può permettere
all’uditorio di riconoscerle, ed è il riconoscimento delle intenzioni del
parlante da parte dell’uditorio che rende possibile la loro realizzazione
(vedi Grice 1957, 1993: 226). Sono queste le condizioni della produzione
del significatonn e della comunicazione riuscita.
Infine, per superare le ulteriori obiezioni sollevate da Searle (1973:
95-98), Grice integra la definizione di significato del parlante includendo
la conoscenza, sia da parte del parlante sia da parte dell’uditorio, degli
aspetti convenzionali del significato che legano il proferimento degli
enunciati agli effetti che il parlante intende indurre nell’uditorio per
mezzo di tale proferimento. Egli precisa di non aver mai voluto negare
che
quando il veicolo del significato è un enunciato [sentence] (o il
proferimento di un enunciato [utterance of a sentence]) le intenzioni del
parlante devono essere riconosciute, di norma, in virtù della conoscenza
dell’uso convenzionale dell’enunciato. (Grice 1969, 1989: 100-101, trad.
mia)
È perché il parlante sa che fra un certo enunciato x e un certo effetto r
esiste una correlazione convenzionale e sa anche che l’uditorio può
riconoscere questa correlazione che il parlante può intendere di provocare
nell’uditorio l’effetto r e l’uditorio può riconoscere le intenzioni del
parlante e realizzare l’effetto inteso.
La versione della definizione del significato del parlante, cui Grice
giunge nella quinta lezione di Logic and conversation, contiene un
insieme di condizioni specifiche per «E voleva dire qualcosa con x». Dati
i seguenti domini delle variabili: E = enunciatore, A = uditorio, c =
9
caratteristiche delle enunciazioni, r = reazioni, m = modo d’associazione
(iconico, associativo, convenzionale), la definizione è:
($A) ($c) ($r) ($m):
E ha enunciato x intendendo:
1. Che A pensi che x possieda c
2. Che A pensi che E intenda 1
3. Che A pensi che c sia correlata in maniera m al tipo cui appartiene r
4. Che A pensi che E intenda 3
5. Che A pensi sulla base del proprio adeguamento [fulfillment] a 1 e 3
che E intenda che A manifesti r
6. Che A, sulla base del proprio adeguamento a 5, manifesti r
7. Che A pensi che E intenda 6. (Grice 1969, 1993: 151)
La definizione è riformulata anche nella versione con la clausola negativa
che vieta al parlante d’avere intenzioni ingannevoli:
($A) ($c) ($r) ($m):
a) E ha enunciato x intendendo:
1. Che A pensi che x possieda c
2. Che A pensi che c sia correlata in maniera m al tipo cui appartiene r
3. Che A pensi sulla base del proprio adeguamento a 1 e 2 che E intenda
che A manifesti r
4. Che A, sulla base del proprio adeguamento a 3, manifesti r e
b) Che non vi sia nessun elemento inferenziale [inference-element] i tale
che E intenda
1’. Che la determinazione di r da parte di A si basi su i
2’. Che A debba pensare che E intenda che 1’ sia falso. (Grice 1969,
1993: 152)
Leonardi propone una soluzione non-griciana dei controesempi esaminati
da Grice che permette la formulazione di una definizione di significato
del parlante nella quale è evitato il ricorso al regresso indefinito delle
intenzioni o alla clausola generale «antinganno». Egli nota che i
controesempi esaminati da Grice sono casi di significato naturale e
allarga la nozione griciana di significaton sino a includere anche forme
10
che dipendono da regolarità psicologiche o sociologiche (vedi Leonardi
1992: 165; 2001: 38). Leonardi evidenzia che la situazione presentata nel
controesempio di Schiffer, cioè l’uomo che getta la banconota dalla
finestra perché vuole sbarazzarsi del suo ospite avido, può ritenersi un
caso di significato naturale, poiché è possibile dire: «Il fatto che
quell’uomo getta la banconota dalla finestra significa che offende il suo
ospite avido». Nella situazione considerata l’enunciatore fa un’azione
(getta la banconota dalla finestra) che ha determinate conseguenze
(offendere l’ospite avido e indurlo ad andare via perché offeso). Nel fare
tale azione - rileva Leonardi - le intenzioni dell’enunciatore, eccetto
quella di fare l’azione che compie, sono irrilevanti. La produzione della
serie di effetti è conseguenza dell’azione compiuta dall’enunciatore. Gli
effetti si producono anche in assenza dell’intenzione dell’enunciatore di
produrli, il quale, tuttavia, è responsabile di essere la causa di quegli
effetti (vedi Leonardi 2001: 38). La riformulazione della definizione di
significato del parlante proposta da Leonardi è:
«L’enunciatore vuol dire p per mezzo di x» è vero sse, per un qualche
uditorio, l’enunciatore ha enunciato x intendendo che il suo uditorio
a. 1. produca una risposta particolare q;
2. si conformi a 1 almeno in parte sulla base del riconoscimento
dell’intenzione 1,
e sse
b. x non significhi naturalmente p.
(Qui p e q non sono variabili). (Leonardi 2001: 39, trad. mia)
È una formulazione non-griciana di significato del parlante che dà le
condizioni sufficienti per individuare il significato non naturale
fondandosi sulla opposizione fra significato naturale e significato non
naturale, ma nella quale va perduta l’espressione dell’esigenza
fondamentale manifestata nelle formulazioni griciane, ossia la totale
trasparenza per il destinatario di tutti i livelli delle intenzioni
11
dell’enunciatore, che è il presupposto per il loro riconoscimento ai fini
della realizzazione della comunicazione.
2.2. Cosenza ha segnalato un limite del modello griciano della
comunicazione trasparente: esso impedirebbe di rendere conto della
funzione ingannevole di molte forme della comunicazione ordinaria. Ella
afferma:
Dovremmo forse negare, per seguire l’analisi di Grice, che nei contesti
reali della comunicazione cerchiamo spesso di ingannare gli altri e di
nascondere le nostre intenzioni? Non solo molto spesso nella vita di tutti
i giorni inganniamo i nostri destinatari, ma spesso nascondere le
intenzioni è indispensabile alla riuscita della comunicazione. (Cosenza
2002: 282)
Tale interpretazione di Cosenza non appare corrispondente alla
prospettiva di Grice. La dimensione di inganno delle intenzioni vietata
nella definizione di significato del parlante è differente dalla dimensione
di inganno che si realizza nelle forme ordinarie di comunicazione
menzognera. Lo stesso Grice considera tale tipo di comunicazione in
alcuni passi dei suoi scritti, anche se non ne fornisce una trattazione
articolata. Nella comunicazione menzognera, egli dice, «l’inganno
consiste nel cercare di indurre un organismo a credere, falsamente, che
certe cose siano segni di qualcos’altro» (Grice 1982, 1993: 294). Inoltre,
nella seconda lezione di Logic and conversation, dopo aver presentato i
principi che informano gli scambi conversazionali, Grice mette in
evidenza che si realizza una comunicazione menzognera quando uno dei
partecipanti allo scambio conversazionale viola, tranquillamente e senza
mostrarlo, una delle massime conversazionali (vedi Grice 1975, 2003:
233).2
2 I principi della conversazione sono illustrati nel terzo paragrafo di questo capitolo.
12
Nella prospettiva di Grice sembra che nella comunicazione volta
all’inganno il parlante nasconda all’uditorio la sua intenzione di
manipolare e falsificare l’informazione, ma non nasconda all’uditorio
quell’intenzione vietata dalla clausola «antinganno» nella definizione del
significato del parlante, ossia l’intenzione che l’uditorio riconosca
l’intenzione del parlante di comunicargli una determinata informazione:
il parlante intende che l’uditorio creda che il parlante crede a ciò che gli
sta dicendo, nonostante ciò che gli sta dicendo sia falso (vedi Anolli
2002: 290-291). Nella comunicazione menzognera le intenzioni del
parlante producono significatonn, anche se attraverso un’associazione
manipolata di un segno a una cosa, mentre l’intenzione complessa
ingannevole, vietata dalla clausola «antinganno», impedisce proprio la
produzione del significatonn.
Non sembra, perciò, che il modello griciano della comunicazione
trasparente impedisca di rendere conto della comunicazione menzognera.
Anzi, Grice fornisce utili strumenti anche per l’analisi di tale forma della
comunicazione.
2.3. In genere, il programma di Grice di definire il significato del parlante
in termini d’intenzioni è stato interpretato in senso riduzionista dai
filosofi analitici, ossia è stato ritenuto un tentativo di ridurre il significato
linguistico a concetti psicologici (vedi Lycan 2002: 125). Ma lo stesso
Grice ha respinto quest’interpretazione, affermando di non aver mai
abbracciato il riduzionismo che comporta l’idea che i concetti semantici
siano insoddisfacenti e inintelligibili se non sono interpretati nei termini
di qualche insieme di concetti predeterminato, privilegiato e favorito
(vedi Grice 1989: 351).
Come rileva Avramides, l’analisi di Grice del rapporto tra significato
del parlante e intenzioni è da intendersi, piuttosto, come un’«analisi
reciproca», un’analisi che evidenzia le interdipendenze fra i concetti e, in
13
tal modo, aiuta a chiarire la comprensione di alcuni concetti attraverso
altri che si trovano sullo stesso livello teorico e non a un livello più
fondamentale (vedi Avramides 1989: 23-24).
Punti nodali della teoria di Grice sono: a) la nozione di «intenzione di
significato» e b) il rapporto tra enunciatore e uditorio o destinatario.
a. Grice non specifica alcun senso tecnico del termine «intenzione di
significato» (meaning-intention), afferma di non voler risolvere nessun
problema filosofico circa l’intendere e che il suo uso della parola
«intenzione» (intention) in relazione al significato non solleva nessuna
difficoltà particolare (vedi Grice 1957, 1993: 229). Egli ritiene che le
intenzioni linguistiche siano come le intenzioni non linguistiche, poiché i
criteri per giudicare le intenzioni linguistiche sono simili ai criteri per
giudicare le intenzioni non linguistiche (vedi Grice 1957, 1993: 231).
Egli osserva:
vi saranno dei casi in cui un’enunciazione [utterance] è accompagnata o
preceduta da un «piano» consapevole [conscious «plan»], dalla
formulazione esplicita di un’intenzione (ad esempio, dichiaro il modo in
cui sto per servirmi di x, o mi chiedo come possa «farmi capire»). La
presenza di tale «piano» esplicito milita fortemente, è ovvio, a favore del
fatto che l’intenzione (significato) del parlante sia altrettanto
«pianificata», anche se non si tratta, a mio avviso, di una prova
conclusiva […]. Le intenzioni linguistiche (o semi-linguistiche)
formulate esplicitamente sono senza dubbio relativamente rare. In loro
assenza sembriamo fare affidamento precisamente sugli stessi criteri cui
ci affidiamo nel caso delle intenzioni non linguistiche per le quali esiste
un uso generale [general usage]. (Grice 1957, 1993: 229-230)
Le intenzioni linguistiche possono essere considerate pianificazioni di
azioni linguistiche come le intenzioni non linguistiche sono considerate
pianificazioni di azioni non linguistiche, secondo la pratica generale
prevalente (general usage).
14
La teoria griciana del significato come intenzione è parte di una teoria
dell’essere razionale (rational being), dell’essere che agisce perché ha
l’intenzione di perseguire scopi ritenuti vantaggiosi sulla base di
inferenze che fanno riferimento a credenze relative alla realtà (vedi Grice
1982, 1993: 284-286). La comunicazione è una forma di comportamento
e, in quanto tale, ha la caratteristica di essere finalizzata, essa è volta a
rispondere a bisogni pragmatici degli esseri viventi, a incrementare
l’esperienza condivisa a fondamento dell’agire (vedi Grice 1982, 1993:
286-290).
b. Piuttosto articolato è il rapporto tra parlante e uditorio delineato
nella teoria di Grice. Il significato del parlante appare definito in
relazione al processo di ricezione dell’uditorio, quale è inteso dal
parlante. Sono essenziali per il parlante sia l’intenzione di indurre una
certa credenza nell’uditorio, sia l’intenzione che l’uditorio riconosca
l’intenzione del parlante di indurre la credenza, sia l’intenzione che
l’uditorio riconosca che il parlante intende fare riconoscere la sua
intenzione di indurre la credenza, e così via. Grice sottolinea che il
parlante deve intendere che il riconoscimento delle sue intenzioni da
parte dell’uditorio svolga il proprio ruolo nell’indurre la credenza, e, se
non lo fa, le sue intenzioni non saranno soddisfatte (vedi Grice 1957,
1993: 226). L’interesse fondamentale del parlante, secondo Grice, è per
la realizzazione della comprensione delle sue intenzioni comunicative da
parte dell’uditorio. Atteggiamento che è fondato sull’assunto che vi sia la
possibilità che il riconoscimento delle sue intenzioni si verifichi (vedi
Grice 1957, 1993: 226). Possibilità che, a sua volta, poggia sulle capacità
dell’uditorio di «formulare certi pensieri e di trarre certe conclusioni»
(Grice 1969, 1993: 145), vale a dire, sulle capacità che ha l’uditorio di
inferire le intenzioni del parlante.
Il processo di riconoscimento delle intenzioni di significato da parte
del destinatario è considerato da Grice un processo di calcolo
15
(calculation) delle intenzioni, ma è un calcolo che non consiste in una
semplice «decodifica» del significato del parlante, è piuttosto un calcolo
che comporta la partecipazione del destinatario all’elaborazione del
significato (vedi Grice 1969, 1993: 145). Grice precisa che
l’effetto inteso [intended effect] deve essere qualcosa che l’uditorio possa
in un certo senso controllare, o che in qualche senso di «ragione»
[reason] il riconoscimento dell’intenzione che sta dietro a x sia per
l’uditorio una ragione e non semplicemente una causa. (Grice 1957,
1993: 228)
L’effetto che il parlante intende produrre sull’uditorio non è
completamente sotto il controllo del parlante, ma è qualcosa che in un
certo senso l’uditorio può controllare, ossia qualcosa che l’uditorio può
ricostruire sulla base di ragioni che fanno riferimento all’esperienza
condivisa (vedi Grice 1957, 1993: 228-229).
Secondo questa prospettiva, allora, l’attività di ricostruzione
dell’intenzione comunicativa da parte dell’uditorio non può essere
considerata un’attività di semplice riconoscimento d’intenzioni, ma
dev’essere considerata un’attività di attribuzione d’intenzioni di
significato al parlante. Infatti, Grice considera casi nei quali sussistono
dubbi circa quale di due o più cose un parlante intende comunicare. In
tali casi, egli osserva, tendiamo a fare riferimento al contesto linguistico
o extra-linguistico, chiedendoci quale alternativa risulterebbe pertinente o
quale intenzione in una situazione data si accorderebbe meglio con lo
scopo che il parlante sta perseguendo (vedi Grice 1957, 1993: 230).
Non è condivisibile, perciò, l’interpretazione di Cosenza la quale
afferma che
Grice ha cercato sempre di spiegare il significato del parlante o
dell’emittente, mai quello dell’ascoltatore o del destinatario. […]
16
L’unico ruolo che Grice abbia mai attribuito all’ascoltatore è il
riconoscimento delle intenzioni del parlante. (Cosenza 2002: 279)
D’altra parte, se si tiene conto del contesto all’interno del quale Grice
formula la definizione di significato del parlante, che è quello dell’uso
ordinario che la gente fa dell’espressione «significare» (to mean) (vedi
Grice 1957, 1993: 223), è evidente, come osserva Sbisà, che
ciò che è in gioco innanzitutto non è la «vera storia» del modo in cui il
significatonn ha origine in un soggetto enunciatore, ma la chiarificazione
di ciò che intendiamo, o forse di ciò che facciamo, quando usiamo la
parola problematica «significare». (Sbisà, 2001: 187, trad. mia)
La definizione di significato del parlante è data da Grice dal punto di
vista del destinatario, è ciò che il destinatario intende quando ritiene che
un parlante intende direnn qualcosa. Alla luce di queste considerazioni,
Sbisà propone di riformulare nel modo seguente la definizione
generalmente accettata di significato del parlante:
Ogni volta che un uditorio A ritiene che un enunciatore U voglia direnn
qualcosa per mezzo di un enunciato x:
(i) A dovrebbe attribuire a U l’intenzione di ottenere l’effetto E su A,
(ii) A dovrebbe attribuire a U l’intenzione di far sì che A riconosca che U
intende ottenere l’effetto E su A,
(iii) A dovrebbe attribuire a U l’intenzione che l’effetto E su A sia
ottenuto sulla base del riconoscimento da parte di A dell’intenzione
di U di ottenere l’effetto E su A. (Sbisà 2001:189, trad. mia)
Ciò che emerge dalla prospettiva di Grice, che comporta sia la
trasparenza delle intenzioni di significato del parlante, sia l’attribuzione
d’intenzioni al parlante da parte del destinatario, è la reciprocità tra
parlante e uditorio: il significato è il risultato dell’attività di entrambi i
partecipanti al processo di comunicazione.
17
3. Intenzioni e implicature
3.1. Grice mette in evidenza che un parlante comunica molto più di ciò
che dice in modo esplicito. Un parlante che dice «Egli è un inglese;
quindi è coraggioso» non dice, ma fa intendere che dal fatto che un
particolare individuo sia inglese segua che sia anche coraggioso. Un
cronista che riferisce «La signorina X ha emesso una serie di suoni
strettamente corrispondente all’aria di “Casa dolce casa”», invece di dire
semplicemente «La signorina X ha cantato “Casa dolce casa”», lascia
intendere alcune notevoli differenze tra la prestazione della signorina X e
quelle alle quali, di solito, è applicato il verbo «cantare». La supposizione
è che la prestazione della signorina X sia caratterizzata da difetti
orripilanti (vedi Grice 1975, 2003: 227-228, 241).
Grice chiama «implicature» (implicatures) le eccedenze di significato
comunicate in modo implicito dal parlante e le distingue in «implicature
convenzionali» e «implicature conversazionali», a seconda che siano
legate al significato convenzionale delle parole, come nel primo esempio,
o siano connesse con certe caratteristiche generali del discorso definite da
un principio generale denominato «Principio di Cooperazione»
(Cooperative Principle), come nel secondo esempio.
I nostri scambi linguistici, secondo Grice, sono, almeno in un certo
grado, «lavori in collaborazione», in cui ciascun partecipante riconosce
uno scopo comune o almeno un orientamento mutuamente accettato,
poiché una successione di osservazioni prive di connessioni reciproche
non sarebbe razionale. Ogni interlocutore è ritenuto fare riferimento a un
«Principio di Cooperazione» per il quale dà alla conversazione un
contributo «tale quale è richiesto, allo stadio in cui avviene, dallo scopo o
orientamento accettato dello scambio linguistico» in cui è impegnato
(vedi Grice 1975, 2003: 229). Il Principio di Cooperazione si declina in
«massime conversazionali» che specificano la rete di aspettative
18
reciproche, nello scambio di informazione, tra interlocutori che si
suppongono razionali: dare un contributo tanto informativo quanto è
richiesto (massima della Quantità), non dire ciò che si ritiene esser falso
o per cui non si hanno prove adeguate (massima della Qualità), dire cose
pertinenti (massima della Relazione) ed esprimersi in forma chiara, non
ambigua, concisa e ordinata (massima del Modo) (vedi Grice 1975, 2003:
229-230).
Grice osserva che le aspettative e le presunzioni connesse con il
Principio di Cooperazione e con alcune massime hanno i loro
corrispettivi in sfere di transazione diverse dallo scambio linguistico
(vedi Grice 1975, 2003: 232). Lo scopo di Grice è dimostrare che la base
sulla quale si assumono il Principio di Cooperazione e le massime della
conversazione non è empirica, ma razionale: essi sono riconducibili ai
principi generali di razionalità propri di ogni forma d’agire degli esseri
razionali, che è razionale perché è finalizzato. Il discorrere è un caso
speciale di comportamento razionale, è una forma di cooperazione
razionale (vedi Grice 1975, 2003: 231-233; 1989: 341).
Principio e massime non sono qualcosa che, di fatto, tutti seguono, ma
qualcosa - dice Grice - che è ragionevole (reasonable)3 che tutti seguano
e da cui non dovrebbero deviare: essi hanno un valore non puramente
3 In Aspects of reason (2001: 24-25) Grice afferma di non essere in grado di dare
una soluzione dettagliata del problema della distinzione fra «razionale» (rational) e
«ragionevole» (reasonable), tuttavia fornisce due chiavi per risolverlo. La prima chiave
è che «ragionevole», a differenza di «razionale», è un termine privativo. «Essere
ragionevoli» equivale a «essere liberi da irragionevolezza». La seconda chiave si trova
nell’Etica Nicomachea di Aristotele, il quale nota che tanto la parte raziocinativa quanto
la parte non raziocinativa dell’anima possono avere la ragione, la prima può avere la
ragione come fonte di principi o precetti razionali (rational principles or precepts),
mentre la seconda può avere la ragione nel senso di tener conto o dare ascolto a quei
principi o precetti. L’idea di Grice è legare la prima delle interpretazioni di Aristotele di
«avere la ragione» con la parola «razionale» e legare la seconda delle interpretazioni di
Aristotele di «avere la ragione» con la parola «ragionevole». Perciò, egli dice, «in
applicazione al comportamento, essere razionale è possedere (o, in una data occasione,
mostrare) la capacità di pervenire a principi o precetti collegati alla condotta, essere
ragionevole è (in generale o in un’occasione particolare) essere liberi dall’interferenza
del desiderio o dell’impulso nel seguire tali principi o precetti». (Grice 2001: 24-25,
trad. mia)
19
descrittivo ma anche normativo, sono indicazioni generali di
comportamento che si dovrebbero seguire per promuovere «la razionalità
conversazionale» (conversational rationality) (vedi Grice 1975, 2003:
232; 1989: 369-370).
Come la definizione di significato del parlante, il Principio di
Cooperazione e le massime conversazionali delineano un quadro di
comunicazione razionale ideale (vedi Cosenza 2002: 182-183). Grice
sostiene che essi sono stati formulati come se lo scopo di uno scambio
linguistico fosse «uno scambio di informazioni quanto più possibile
efficiente» (Grice 1975, 2003: 231). È ideale la comunicazione nella
quale non solo il parlante rende trasparenti tutte le sue intenzioni di
significato al destinatario, ma dà anche l’informazione richiesta, dice la
verità, è pertinente ed è perspicuo.
L’idealità del Principio di Cooperazione e delle massime
conversazionali rende conto dei casi reali di comunicazione nei quali i
partecipanti possono mancare di soddisfare le massime in vari modi (vedi
Grice 1975, 2003: 233-234). Quando una massima è violata apertamente,
o non è chiaro se una massima è violata, e il parlante non dà
l’impressione di voler uscire dalla situazione di comunicazione,
l’ascoltatore cercherà di riconciliare il fatto che il parlante abbia detto
quello che ha detto con la supposizione che egli si stia conformando al
Principio di Cooperazione e riterrà che il parlante abbia voluto
comunicare, oltre a ciò che le sue parole letteralmente significano, anche
qualcos’altro, ossia che abbia dato luogo a un’implicatura
conversazionale (vedi Grice 1975, 2003: 234).
La nozione di «implicatura conversazionale» è caratterizzata da Grice
nel modo seguente:
Di un uomo il quale dicendo (o facendo mostra di dire) che p abbia
implicato che q, si può dire che ha implicato conversazionalmente che q,
20
nel caso in cui (1) si abbia motivo di presumere che egli stia
conformandosi alle massime conversazionali, o almeno al Principio di
Cooperazione; (2) per rendere coerente con questa presunzione il fatto
che egli dice o fa mostra di dire che p (o che fa l’una o l’altra cosa in quei
termini) è richiesta la supposizione che egli si renda conto che, o pensi
che, q; e (3) il parlante pensa (e si aspetta che l’ascoltatore pensi che lui
pensa) che faccia parte della competenza dell’ascoltatore inferire, o
afferrare intuitivamente, che è richiesta la supposizione indicata in (2).
(Grice 1975, 2003: 234)
Grice precisa che la presenza di un’implicatura conversazionale deve
poter essere elaborata (must be capable of being worked out), anche se, di
fatto, può essere afferrata intuitivamente (vedi Grice 1975, 2003: 234-
235): l’intuizione deve essere sostituibile da un ragionamento (argument)
che è ricostruito da Grice secondo il modello seguente:
1. il parlante ha detto che p,
2. non c’è motivo di credere che non si stia conformando alle massime, o
per lo meno al Principio di Cooperazione,
3. non potrebbe farlo se non pensasse che q,
4. sa (e sa che io so che lui sa) che posso capire che è richiesta la
supposizione che lui pensa che q,
5. non ha fatto niente per impedirmi di pensare che q,
6. intende farmi pensare, o almeno è disposto a lasciarmi pensare, che q,
7. dunque ha implicato (has implicated) che q (vedi Grice 1975, 2003:
235).
È la ricostruzione del ragionamento dell’uditorio il quale, per
realizzarlo, può contare sui seguenti dati:
1. il significato convenzionale delle parole usate, insieme con l’identità di
ogni riferimento che possa entrare in gioco,
2. il Principio di Cooperazione e le sue massime,
3. il contesto, linguistico o extralinguistico, del proferimento,
4. altri elementi del bagaglio di conoscenze,
21
5. il fatto (o supposto tale) che tutti gli elementi pertinenti che rientrano
nelle categorie elencate siano accessibili ad ambedue i partecipanti e che
ambedue i partecipanti sappiano o assumano che sia così (vedi Grice
1975, 2003: 235).
A potrebbe ragionare in questo modo per inferire che cosa B abbia
inteso col dire che «C va proprio bene col suo lavoro in banca, si trova
bene con i colleghi e non è ancora finito in prigione»: (1) B, a quanto
pare, ha violato la massima «Sii pertinente» e perciò si può ritenere che si
sia fatto beffe di una delle massime in modo perspicuo; tuttavia non ho
motivo di supporre che stia uscendo dal raggio d’azione del Principio di
Cooperazione; (2) date le circostanze, posso considerare come soltanto
apparente la mancanza di pertinenza di quanto ha detto se, e soltanto se,
suppongo che egli pensi che C è potenzialmente disonesto; (3) B sa che
io sono in grado di operare il passaggio (2). Dunque, B implica che C è
potenzialmente disonesto (vedi Grice 1975, 2003: 234).
È oggetto di dibattito il modo in cui Grice intende il rapporto tra
intenzioni di significato del parlante e implicature conversazionali. Neale
considera fondamentale la condizione (3) nella ricostruzione degli stati
mentali da attribuirsi al parlante per poter dire che ha prodotto
un’implicatura: «il parlante pensa (e si aspetta che l’ascoltatore pensi che
lui pensa) che faccia parte della competenza dell’ascoltatore inferire, o
afferrare intuitivamente, che è richiesta la supposizione indicata in (2)»
(Grice 1975, 2003: 234), ossia che il parlante si renda conto che, o pensi
che, q. Perciò, Neale ritiene che l’implicatura conversazionale sia intesa
(intended) dal parlante, nel senso che ciò che il parlante implica è parte di
ciò che il parlante significann e che ciò che il parlante significann è
determinato dalle sue intenzioni comunicative (vedi Neale 1992: 528).
Conseguenza di tale posizione è che se il parlante non ha inteso
l’implicazione in questione, essa non conterà come un’implicatura
conversazionale (vedi Neale 1992: 528). Inoltre, Neale ritiene che sia una
22
caratteristica interessante di alcuni esempi di implicature conversazionali
il fatto che «potrebbe ben darsi il caso che solo ciò che è implicato è
significato (cioè, sostenuto dalle intenzioni comunicative di U [del
parlante])» (Neale 1992: 525). Così il professor U che presenta il suo
allievo X, candidato a un posto di insegnante di filosofia, proferendo
l’enunciato «Il sig. X ha un’eccellente scrittura ed è sempre molto
puntuale» intende dire (means) solo ciò che implica
conversazionalmente, ossia che il sig. X non è molto bravo in filosofia.
Neale osserva che U ha fatto solo come per dire che il sig. X ha una
scrittura eccellente ed è sempre molto puntuale, poiché egli non ha
intenzione di indurre nel suo uditorio la credenza che egli pensa che il
sig. X ha una scrittura eccellente ed è sempre molto puntuale. Il
messaggio primario va individuato al livello di ciò che è
conversazionalmente implicato (vedi Neale 1992: 525).
Cosenza condivide l’interpretazione data da Neale relativamente alla
dipendenza dell’implicatura conversazionale dalle intenzioni del parlante
e osserva che il nesso tra intenzioni di significato e implicature
conversazionali non è stato colto da diversi studiosi di Grice perché è
mancata loro una visione completa della filosofia del linguaggio griciana
(vedi Cosenza 2002: 267-268, 317: nota 279).
Saul respinge l’interpretazione di Neale mettendo in evidenza che ci
sono situazioni nelle quali i parlanti significanonn cose che non implicano
e situazioni nelle quali l’implicatura calcolata non è un contenuto
significatonn dal parlante (vedi Saul 2002: 229-230, 237-238). Ella ritiene
che le caratterizzazioni fatte da Grice del significato del parlante e
dell’implicatura conversazionale sono date in termini differenti, mentre la
caratterizzazione del significato del parlante è data completamente in
termini d’intenzioni del parlante, la caratterizzazione dell’implicatura
conversazionale è data tenendo conto anche dell’uditorio (vedi Saul
2002: 229). L’inclusione di criteri orientati sull’uditorio è, secondo Saul,
23
un’operazione fatta da Grice allo scopo di dare un qualche grado di
intersoggettività alla nozione di implicatura conversazionale. Ella
afferma:
Che il parlante intenda comunicare p dicendo q non è sufficiente affinché
il parlante implichi p. Deve essere necessario anche che l’uditorio creda
che il parlante crede p allo scopo di mantenere l’assunzione della
cooperatività del parlante. […] D’altra parte, Grice è attento a non
concedere troppo controllo all’uditorio. Ciò che importa è ciò che si
chiede all’uditorio di credere, non ciò che l’uditorio crede. (Saul 2002:
241, trad. mia)
La nozione di «implicatura conversazionale» è legata da Saul alla
nozione di «informazione che il parlante rende disponibile [makes
available] all’uditorio»: dire che il parlante implica conversazionalmente
qualcosa non significa che il parlante garantisce la comprensione
dell’uditorio, ma significa che il parlante rispetta le sue responsabilità
comunicative riguardo a ciò che vuole comunicare oltre ciò che dice,
ossia che rende disponibile il suo messaggio all’uditorio. Egli può non
riuscire a comunicare il messaggio che intende comunicare, ma lo rende
disponibile. È l’aspetto normativo dell’implicatura conversazionale (vedi
Saul 2002: 245).
Sbisà concorda con Saul nel ritenere che l’implicatura conversazionale
sia senso «reso disponibile» dal parlante e osserva:
che essa sia senso «reso disponibile» non vuol dire semplicemente che il
ricevente è messo in grado di recuperarla, ma, anche, che è autorizzato ad
attribuire al parlante l’intenzione di comunicarla. E non solo devono
esserci dei motivi per attribuire quel senso (possibilmente, un percorso
argomentativo), ma, anche, dev’essere ragionevole attribuirlo. (Sbisà
2007: 126)
24
Sbisà sottolinea la razionalità del processo realizzato dall’uditorio
nell’attribuire al parlante l’intenzione di comunicare qualcosa che
corrisponde al contenuto dell’implicatura. Considerando il passo
conclusivo del ragionamento dell’uditorio che ascrive al parlante
l’intenzione di fargli pensare o, almeno, la propensione a lasciargli
pensare l’implicatura, ella afferma:
Sarebbe superficiale concludere che un’implicatura sia l’intenzione o la
volontà del parlante di permettere che l’uditorio pensi qualcosa. Ciò che
l’intero «modello generale dell’inferire un’implicatura conversazionale»
fa è mostrare che un’implicatura conversazionale è qualcosa tale che è
ragionevole ascrivere al parlante l’intenzione di comunicarla. (Sbisà
2001: 196, trad. mia)
Che l’implicatura conversazionale non sia resa tale da un’intenzione del
parlante, ma sia attribuita al parlante dall’uditorio, è evidente sia dalla
ricostruzione del ragionamento di calcolo dell’implicatura sia dalla
caratterizzazione dell’implicatura stessa fatta nella seconda lezione di
Logic and conversation: l’uditorio argomenta che «il parlante non
potrebbe aver detto p se non pensasse q», che «il parlante sa (e sa che lui
sa che il parlante sa) che lui può capire che è richiesta la supposizione
che il parlante pensa che q», che «il parlante intende fargli pensare, o
almeno è disposto a lasciargli pensare, che q» e suppone che «il parlante
si renda conto [is aware] che, o pensa che, q» (Grice 1975, 2003: 234-
235). La condizione (3) nella caratterizzazione dell’implicatura
conversazionale ha il suo corrispettivo nel passo n. 4 del ragionamento
fatto dall’ascoltatore: è l’ascoltatore che pensa che il parlante pensi (e
s’aspetta che l’ascoltatore pensi che lui pensa) che faccia parte della
competenza dell’ascoltatore inferire, o afferrare intuitivamente, che è
richiesta la supposizione indicata in (2), ossia che il parlante si renda
conto che, o pensi che, q (vedi Grice 1975, 2003: 234-235). Importante è
25
anche un passo della quinta lezione di Logic and conversation nella quale
Grice afferma:
ciò che implicato è ciò che si deve ritenere un parlante pensi al fine di
mantenere l’assunzione che egli sta osservando il Principio di
Cooperazione (e forse anche qualche massima conversazionale), se non a
livello di quanto è detto, almeno a livello di quanto è implicato. (Grice
1969, 1993: 131)
Ciò che è implicato è ciò che la situazione comunicativa richiede che
l’uditorio assuma come pensiero del parlante per preservare l’assunzione
che il parlante stia rispettando il Principio di Cooperazione e le massime,
almeno a livello di ciò che è implicato.
È proprio da una considerazione d’assieme della filosofia del
linguaggio di Grice che non possono essere condivise le posizioni di
Neale e Cosenza sul rapporto tra intenzioni del parlante e implicatura
conversazionale: come il processo con cui l’uditorio riconosce le
intenzioni di significato del parlante deve essere inteso un processo di
attribuzione al parlante delle intenzioni di significato, così il processo con
cui l’uditorio calcola l’implicatura conversazionale deve essere inteso
come un processo di attribuzione al parlante del contenuto
dell’implicatura, ossia come un processo di attribuzione al parlante,
ritenuto cooperativo, dell’intenzione di comunicare il contenuto
dell’implicatura conversazionale.
3.2. Diverse interpretazioni sono state date della struttura inferenziale del
modello di elaborazione dell’implicatura conversazionale. Cosenza
afferma che il processo di derivazione dell’implicatura conversazionale
da parte dell’ascoltatore può «essere ricostruito […] nella forma di un
vero e proprio argomento deduttivo, di cui il Principio di Cooperazione e
le massime sono gli assiomi fondamentali» (Cosenza 2002: 186-187).
26
Levinson, invece, ritiene che le implicature griciane sono «più simili alle
inferenze induttive che a quelle deduttive» (Levinson 1993: 125-126). E
Bianchi afferma che «le implicature griceane, più che inferenze logiche
vere e proprie, possono essere viste come meccanismi di formazione e
conferma di ipotesi» (Bianchi 2003: 102).
Se consideriamo sia il peso che Grice attribuisce alle supposizioni
dell’ascoltatore nel processo di inferire l’implicatura conversazionale, sia
i diversi esempi di inferenza che egli presenta, la struttura del processo di
calcolo dell’implicatura conversazionale appare quella di un
ragionamento che procede per constatazione di fatti, assunzioni ed
elaborazione di ipotesi interpretative dei fatti osservati.
È possibile considerarlo un procedimento abduttivo come hanno
proposto Hobbs e i suoi collaboratori (vedi Hobbs et al. 1993: 114)?
L’abduzione è l’inferenza di una ragione da un fatto osservato e da
un’ipotesi formulata, che procede «dal conseguente all’antecedente»
secondo la forma «q, se p allora q, perciò p» (vedi Peirce 1980: § 5.276;
1984: §§ 2.621-2.623, 2.636). È uno schema di inferenza elaborato da
Peirce nel contesto di una concezione del segno come indizio di qualcosa
per qualcuno con l’obiettivo di spiegare perché un enunciato può ritenersi
vero, ma che non conduce a individuare intenzioni di significato. Se
sembra sensato considerare l’implicatura conversazionale una ragione di
un fatto osservato, cioè una ragione del proferimento di un enunciato, è
problematico in quale modo elaborare l’ipotesi dalla quale inferire
l’implicatura conversazionale, che porti ad ascrivere un piano
intenzionale al parlante.4
Più plausibile sembra, invece, ritenere che la struttura del processo
inferenziale di elaborazione dell’implicatura conversazionale sia simile
alla struttura dell’argomento «conduttivo» descritto da Govier (2005).
4 Sul rapporto tra intenzioni, ragioni e azioni vedi Anscombe 1957.
27
L’argomento conduttivo è un argomento nel quale le premesse non
implicano logicamente (don’t entail) la conclusione, né la sostengono per
mezzo di una generalizzazione induttiva o un’inferenza alla spiegazione
migliore, come può considerarsi un’abduzione, o per mezzo di
un’analogia, ma forniscono piuttosto un «supporto» (support) alla
conclusione, un supporto convergente (convergent support) verso la
conclusione (vedi Govier 2005: 392). Nell’argomento conduttivo il
numero delle premesse è aperto, esse costituiscono delle ragioni
singolarmente rilevanti (separately relevant reasons) per la conclusione e
la supportano in modo cumulativo (in a cumulative way): l’eliminazione
di una delle premesse non ha effetto sulla portata delle altre per la
conclusione, ma soltanto sulla forza della conclusione che viene
indebolita (vedi Govier 2005: 52, 392). Nell’argomento conduttivo la
forza della conclusione è determinata tenendo conto anche del peso della
rilevanza negativa delle controconsiderazioni che possono sorgere (vedi
Govier 2005: 395, 404).
La ricostruzione del processo inferenziale di elaborazione
dell’implicatura conversazionale fatta da Grice è un modello di
ragionamento informale che appare analogo a quello dell’argomento
conduttivo: esso non è uno sviluppo lineare da premesse a conclusioni,
ma contiene come premesse assunzioni, formulazioni e confronto di
ipotesi che convergono verso l’inferenza di un’implicatura
conversazionale. In tale processo la serie di ipotesi che l’ascoltatore
formula facendo riferimento, spesso anche se non sempre, al Principio di
Cooperazione e alle massime conversazionali, al contesto linguistico ed
extralinguistico di proferimento, al proprio bagaglio di conoscenze e alle
assunzioni che ritiene condivise con l’interlocutore costituiscono delle
ragioni rilevanti per l’inferenza di un’implicatura: esse giustificano
l’inferenza dell’implicatura conversazionale da parte dell’ascoltatore

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