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Thursday, July 7, 2011

Salviati e la questione della lingua

Luigi Speranza

Il 9 agosto 1580 Leonardo Salviati, grazie all’intercessione di Giacomo
Boncompagni e probabilmente del Cardinal d’Este, riceve dal Granduca
Francesco de’ Medici l’importantissimo incarico di occuparsi
della seconda revisione del "Decameron" di Boccaccio, che era stato inserito nell "Indice dei libri proibiti" del 1559,1 e successivamente, nel 1564, fu ammesso nella lista delle opere cui fu concessa la possibilità di circolazione e lettura dopo
che fossero state espurgate delle parti non consone alla morale religiosa.

Dopo due anni di intenso lavoro filologico, Il Decamerone di messer Giovanni
Boccacci, cittadin fiorentino, di nuovo ristampato, e riscontrato in
Firenze con testi antichi, e alla sua vera lezione ridotto dal cavalier Lionardo
Salviati, deputato dal Sereniss. Gran Duca di Toscana, con permessione
de’ Superiori viene stampato a Venezia per i tipi dei Fratelli Giunti.


«Boccacci Decades seu Novellae centum quae hactenus cum intollerabilibus erroribus
impressae sunt et quae posterum cum eisdem erroribus imprimentur» (Index 1559, 6v)
è la formula con cui nell’Index Librorum prohibitorum viene condannato il Decameron
(cfr. Longo 1986, 983–88).

Firenze non poteva permettere che al capolavoro di Boccaccio, oramai universalmente
riconosciuto modello della letteratura e della lingua italiana, fosse proibita la libera circolazione:

«il Decameron, così come la Commedia, era un’opera cui i fiorentini tenevano
molto non solo per ragioni d’arte, ma anche per il prestigio che dava alla Toscana.
E Cosimo nel gettare solide fondamenta al principato ben avvertì che sul primato culturale

toscano egli poteva impostare una politica volta a garantire la coesione interna del
paese, a lungo lacerato dalle lotte fra i partiti e i municipi, e non priva di mire egemoniche

» (Pozzi 1973, 273–74). Il Granduca, che da papa Pio V ebbe l’incarico di sovrintendere
ad una revisione del testo, si affidò nel 1571 a Vincenzo Borghini e all’Accademia
Fiorentina, facendo pubblicare l’edizione rassettata nel 1573. I motivi della decisione di
operare una seconda revisione del Decamerone sono stati oggetto di controversie da
parte di molti studiosi, tra cui si ricorda Brown 1957.

La rassettatura diede al Salviati l’occasione per realizzare l’opera più importante
della sua vita, quell’opera che, insieme al costante impegno filologico
e linguistico unito all’attivismo nell’Accademia della Crusca — la quale
realizzerà poi, a oltre vent’anni dalla morte del suo ispiratore, il

"Vocabolario"

— gli consentirà di entrare tra i grandi protagonisti della storia della lingua
italiana, e della questione della lingua in particolare, come colui nel quale
sono confluite e sintetizzate le maggiori correnti teoriche del secolo. Si tratta


«Con gli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone si chiude il percorso iniziato
nel 1501 dal Petrarca aldino. Le regole enunciate in quest’opera fondamentale della
trattatistica grammaticale cinquecentesca saranno adottate pressoché integralmente
dagli accademici e diffuse poi dal Vocabolario della Crusca» (Maraschio 1993, 181, ma
si vedano anche, in rapporto alla risoluzione di alcune questioni grafiche da parte degli Accademici e in relazione alle discussioni del Cinquecento e delle indicazioni del Salviati, Maraschio 1985; Parodi 1974 e Mura Porcu 1982). Si legge infatti
nell’Introduzione al Vocabolario: «Nel compilare il presente Vocabolario (col parere
dell’Illustrissimo Cardinal Bembo, de’ Deputati alla correzion del Boccaccio dell’anno 1573 e ultimamente del Cavalier Lionardo Salviati) abbiamo stimato necessario di ricorrere all’autorità di quegli scrittori, che vissero, quando questo idioma principalmente fiorì, che fu da’ tempi di Dante, o ver poco prima, sino ad alcuni anni, dopo la morte di Boccaccio.

Il qual tempo, raccolto in una somma di tutto un secolo, potremo dir, che sia
dall’anno del Signore 1300 al 1400 poco più, o poco meno: perchè, secondo che ottimamente discorre il Salviati, gli scrittori, dal 1300 indietro, si possono stimare, in molte parti della lor lingua, soverchio antichi, e quei dal 1400 avanti, corruppero non piccola parte della purità del favellare, di quel buon secolo. Laonde potendo noi tener sicuramente la lingua degli autori di quell’età, per la più regolata e migliore, abbiam raccolto le voci di tutti i lor libri, le abbiam potuto aver nelle mani, assicuratici prima, che, se non tutti, almeno la maggior parte di essi, o fossero scrittor Fiorentini o avessero adoprato nelle scritture loro, vocaboli e maniere di parlare di questa Patria»
--- Vocabolario della Crusca, 3v) e poco più avanti:

«Intorno all’autorità, e qualità di ciascun libro, o autore, stimiamo cosa assai più lodevole rimettercene a quanto in parte n’hanno detto altri prima di noi, che volerci fare arbitri di causa così importante: perciò per ora ci riferiamo
a quello, che ne scrissero Monsig. Bembo nelle sue Prose, i Deputati sopra la correzíon del Boccaccio dell’anno 1573 nel procinio dell’Annotazioni sopra il Decamerone, e il Cavalier Lionardo Salviati negli Avvertimenti della lingua Volume primo, lib. 2. cap. 12»
---------- Vocabolario della Crusca, 4r).

Dello stesso parere anche Poggiogalli (2002, 518):

«Verso la fine del secolo [...] la prassi correttoria di Leonardo Salviati, continuando il lavoro di razionalizzazione grafica e interpuntiva iniziato dal Bembo con l’edizione del Petrarca aldino (1501), compì il passo decisivo [... e con gli Avvertimenti e la prima edizione del Vocabolario] l’italiano assunse una veste grafica sostanzialmente uguale a quella moderna». Sul rapporto tra Salviati e la prima edizione del Vocabolario si veda il
fondamentale Vitale 1986, 117–172. Cfr. anche Della Valle 1993, 45–51.


Sulla questione della lingua si veda soprattutto Vitale 1984.

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dei due volumi — il primo5 pubblicato a Venezia presso i Guerra nel 1584 e il
secondo6 a Firenze presso i Giunti nel 1586 – che vanno sotto il titolo Degli
avvertimenti della lingua sopra il Decamerone. Con quest’opera il Salviati
ebbe modo di trasformare, definitivamente,
la selettiva e aristocratica teoria umanistica e ciceroniana della lingua, propria
del Bembo, in qualche cosa di molto diverso dal culto delle Tre Corone:
accanto a quei tre grandi, trovavano ora posto minori e minimi, spesso di livello
popolare, spesso privi di intento d’arte, i quali non avevano avuto altro
merito se non quello di essere vissuti nel Trecento e di essere fiorentini.
(Marazzini 1993, 274)

Il primo volume è suddiviso in tre libri, nei quali gli argomenti trattati riguardano,
rispettivamente, la questione filologica della riedizione del Decameron,
la questione della lingua in senso stretto, questioni riguardanti le
lettere e l’ortografia; il secondo volume è suddiviso in due libri, dedicati, rispettivamente,
al nome e al caso e vicecaso.

Apre l’opera un Proemio, che fa da introduzione al primo libro e all’intero
lavoro, in cui sono spiegate le ragioni per cui l’autore dopo tanti anni sia tornato
ad occuparsi di fatti di lingua:

la cura commessami dal mio Principe delle Novelle del Boccaccio, ultimamente
per mia opera, anzi per vostra, ritornate alla stampa, quasi contr’a
mia voglia, m’hanno tirato a farlo per tutte le maniere
e in cui sono presentate le parti in cui l’opera è suddivisa:

La prima, per rispetto all’altra assai breve, penderà quasi tutta dalla correzione
di quell’opera, mostrando intorno a essa quanto fia di mestiere, e al-
5 Il primo volume stampato in Venezia, presso Domenico, & Gio. Battista Guerra, fratelli,
1584 presenta nel frontespizio: Degli avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone
volume primo del cavalier Lionardo Salviati diviso in tre libri: I. in tutto dipendenti
dall’ultima correzione di quell’Opera; II di Quistioni, e di Storie, che pertengono a
fondamenti della favella; I diffusamente di tutta l’Ortografia. Ne’ quali si discorre
partitamente dell’opere, e del pregio di forse cento Prosatori del miglior tempo, che
non sono in istampa, de’ cui esempli, quasi infiniti, è pieno il volume. Oltr’a cio si risponde
a certi mordaci Scrittori, e alcuni sofistichi Autori si ribattono, e si ragiona
dello stile, che s’usa da’ piu lodati. All’Ecc.mo S. Iacopo Buoncompagni duca di Sora, e
d’Arce, sig. d’Arpino. Marchese di Vignuola, Cap. Generale degli huomini d’arme de
Re Cattolico nello stato di Milano, e Governator Generale di S. Chiesa, ec. — In Venezia
MDLXXXIIII. Con Licenza, e Privilegio.


Il secondo volume stampato in Firenze nella stamperia de’ Giunti, 1586 presenta nel
frontespizio: Del secondo volume degli avvertimenti della lingua sopra il Decamerone.
Libri due del cavalier Lionardo Salviati. Il primo del Nome, e d’una Parte, che
l’accompagna. Il secondo dell’Articolo, e del Vicecaso. — In Firenze Nella Stamperia
de’ Giunti. 1586. Con Licenza, e Privilegio.

cune cose aggiugnendovi, che convenevolmente seguon quella materia.
Della seconda assai lunga, dopo alcune dispute, e altre cose in genere, che
pertengono alla favella, dimostramenti dietro alla lingua nostra, e alle regole
del ben parlare, saranno tema, e suggetto. Dico, dietro alla lingua, e alle
regole del ben parlare, secondo che in due capi fie ridivisa quella seconda
parte: il primo appartenente al gramatico; di regole necessarie al favellar dirittamente
nel presente linguaggio: il secondo tratterà d’artifici, e di bellezze,
e d’ornamenti, che impresa sono del retorico.

Il primo libro degli Avvertimenti è, infatti, diviso in 15 capitoli, nei quali è
data ragione filologica dell’edizione del Decameron del 1582, dei due manoscritti
che Salviati, così come Borghini e gli altri curatori dell’edizione della
prima Rassettatura, riteneva originali, e della superiorità del codice Mannelli7
su tutti i testimoni. Il nucleo della teoria linguistica sostenuta dal Salviati
risiede, però, nei ventidue capitoli in cui è suddiviso il libro secondo del
primo volume.8 Il terzo libro, intitolato Delle lettere e dell’ortografia, è
suddiviso in tre capitoli. Conclude l’opera la novella nona della Giornata I
del Decameron, volgarizzata in diversi volgari d’Italia: in lingua bergamasca;
in lingua veneziana; in lingua furlana; in lingua istriana; in lingua padovana;
in lingua genovese; in lingua mantovana; in lingua milanese; in lingua bolognese;
in lingua napoletana; in lingua perugina; in lingua fiorentina del mercato
vecchio.

LA TEORIA LINGUISTICA ESPOSTA NEGLI AVVERTIMENTI

Il discorso si apre, nel capitolo I, con un evidente collegamento soprattutto
al Ragionamento sopra le difficoltà di mettere in regole la nostra lingua
di Giovan Battista Gelli, ed è dedicato al problema se sia o meno possi-

----

Il codice Laurenziano XLII.1 conservato a Firenze presso la Biblioteca Medicea Laurenziana.

Come giustamente fa notare Peter Brown, dei tre libri che compongono il primo volume
dell’opera,

«the one which gives the Avvertimenti their greatest significance in the context of sixteenth-century culture is the second [... ed è questo il luogo in cui] Salviati presents to us in a powerful, compelling form that vision of the volgare, of its history, its use, its intimate nature, and its future which we have seen to lie behind all his works. In this “meraviglioso secondo libro degli Avvertimenti,” as Chiappelli (la citazione si trova in Chiappelli 1952, 16) has called it, Salviati gives as in mature form, and supported by the fruits of many years of painstaking research, the conception of the "lingua italiana volgare" as the symbol of Italian achievement which had been the distinctive feature of the Orazione in lode della
fiorentina favella» (Brown 1974, 187).

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bile «ristrigner sotto regola» le lingue vive, uno dei temi centrali delle
speculazioni sul volgare soprattutto nella prima metà del Cinquecento.

La questione importante è capire quale sia la fonte dalla quale raccogliere
le regole del parlato e dello scritto.

Tale fonte principale è costituita dagli scrittori, e dove gli scrittori non fornissero aiuto, si dovrebbe ricorrere all’esempio della lingua parlata dal popolo, nella quale ha sicuramente la priorità il «parlato pensato», come lo chiama proprio Salviati, sul parlato «sùbito e improvviso», cioè sul parlato spontaneo (Avvertimenti, 73).

Il passo successivo è semplice e quasi scontato, per chi come Salviati
aveva non solo fatto proprie le idee del Bembo, ma le aveva portate a maturazione,
filtrandole attraverso la lettura del Varchi, e verificate in un instancabile
e appassionato lavoro filologico sui testi antichi della tradizione volgare.

11

Le regole della lingua si troveranno negli scrittori del Trecento, e soltanto
in quelli, poiché prima di quel secolo, l’idioma non era ancora giunto a
perfezione e dopo il 1400 ha cominciato a sfiorire e decadere quasi irrimediabilmente.

Infatti, se la lingua del Cinquecento fosse migliore di quella del
Trecento, allora le regole si troverebbero nel volgare contemporaneo, sia
nella lingua scritta e letteraria sia nella lingua dell’uso vivo.

Ma siccome la
lingua moderna, persino dai moderni, è riconosciuta peggiore di quella del
secolo di Boccaccio, solo a quella varietà ci si può rivolgere, e

«se verrà mai
tempo, il quale scuopra nella Toscana lingua miglior favella e migliori scritture
di quelle di coloro, quando si stimi opportuno, si lascerà le prime, e

9

Anche Varchi si era posto il problema che la difesa della teoria del Bembo comportava

«l’accettazione della tesi arcaizzante e trecentesca contro la modernità dell’uso fiorentino

» (Sorella 1995, 76) e il connesso problema — posto già da Machiavelli nel suo

"Discorso intorno alla nostra lingua"

della regolamentazione di una lingua in fase di crescita
come il fiorentino.

10

Sono note le posizioni assunte via via dai partigiani della regolabilità, come Fortunio, che
compie il primo tentativo in questo senso nel 1516 proponendo come modello di riferimento
la lingua dei grandi trecentisti e la lingua colta del proprio tempo, e Bembo, che
confermerà e perfezionerà la teoria limitando il modello al solo Trecento, o quelle prese dai
perplessi, come Castiglione, e dai sostenitori della tesi dell’impossibilità di porre freni e
norme ad una lingua mentre è in vita, come Muzio, Firenzuola e appunto Gelli, che inoltre
aveva sostenuto che la lingua del Cinquecento fosse superiore a quella del Trecento. Le
fondamenta su cui si fonda la grammatica del Fortunio sono le «volgari cose di Dante, del
Petrarca, et del Boccaccio [...] Et scernendo tra’ scritti loro li lumi dell’arte poetica et oratoria
non meno spessi che a noi nella serena notte ci mostrino le stelle et non con minor luce
che in qualunque più lodato auttore latino risplendere, non mi potea venir pensato che
sanza alcuna regola di grammaticali parole la volgar lingua così armonizzatamente trattassono
», come è ben ricordato da Richardson nell’introduzione all’edizione delle Regole da
lui curata (Richardson 2001, xlii–lxi). Cfr. anche Marazzini 1999b.
11 Cfr. anche Gargiulo 2007 e 2008.


nuove regole si prenderanno per bisogno del parlar nostro – ed è giudicato
in errore chi affermi, come conseguenza di questo ragionamento, che siano
— gli scrittori, e non l’usanza signor della favella — poiché invece dovrà essere
sempre — l’uso in tutti i tempi, non gli scrittori, l’arbitro del favellare
[...] ma dello scrivere, non l’uso assolutamente, ma l’uso buono e approvato
dal consenso de’ savi, n’avrà lo ’mperio e’l dominio».

La conclusione naturale sarà che le regole del volgar nostro doversi prendere dai nostri vecchi autori, cioè da quelli, che scrissero dall’anno milletrecento, fino al millequattrocento: perciocché
innanzi non era ancora venuto al colmo del suo bel fiorire il linguaggio.

E dopo, senza alcun dubbio, subitamente diede principio a sfiorire.

Anzi, direm più oltre, che con la nascita del Boccaccio, o poco spazio davanti,
parve, che cominciasse subito la sua perfezione, e con la morte del
medesimo immantinente principio avesse la sua declinazione – aggiungendo
però che — su le scritture, addunque, che parto furono dello spazio di
quei cento anni, delle predette regole il fondamento sarà da porre, e dove
quelle ci abbandonino, parte dalle più lontane di quelle, se aver ne potremo,
parte dalle più vicine, parte dall’odierno popolo procacceremo il restante. E
in tal caso, e diligente lettura, e perfetto giudicio vorrà avere in colui che a
quell’opera debba dar compimento, poiché talora i presenti, talor l’antichità
sia convenevole d’anteporre». (Avvertimenti, 73)

Secondo l’ottica salviatesca il volgare ha cominciato il suo processo di deterioramento in seguito all’

«allargamento della Latina lingua»,

la quale ha
«quasi da lungo sonno, dato principio a svegliarsi, finalmente in quel
tempo», cioè subito dopo la morte del Boccaccio.

La rinascita del latino umanistico porta infatti con sé tre conseguenze
negative:

la prima che (come sempre piaccion le cose nuove e le ’mprese difficili
s’hanno per più orrevoli) i più ingegnosi e i più gravi, rivolgendosi a
quello studio, disprezzarono il lor linguaggio; la seconda che chi non era
da tanto che dettar potesse in Latino, l’appressarvisi quanto potea e usar
voci e modi che del latino avessero, gloriosa opera riputava; la terza che,
riempiendosi la città nostra di scuole di gramatica, di vocaboli e modi che
quindi sogliono uscire, in brevissimo spazio tutta si riempì. (Avvertimenti,
88)

Quindi il perfetto idioma toscano ha cominciato a sfiorire a causa
dell’inserimento di vocaboli provenienti dal latino, dell’aggiunta nel corpo
perfetto della lingua di quelle «parole nuove, sopravvenute nel nostro popolo
fino alla nostra età» (Avvertimenti, 88).

Aggiunge poi che tali parole
son tutte di quella guisa, cioè tratte dal Latino, e delle scuole uscite e
dalle cattedre della Latina lingua, là dove l’altre, che la corte di Roma o
le scritture ci hanno arrecate d’altri volgari d’Italia che, ad ogni modo, in
rispetto alle prime picciol numero sono, da cinquanta anni indietro nel
nostro volgo non eran trapassate. (Avvertimenti, 88–89)
Per cui, conclude Salviati «la morte del Latino fu nascita del parlar nostro
[... e] il risucitamento dello stesso Latino dello stesso parlar nostro sia
stato infermità, poiché è quasi naturale questa nimistà infra loro» (Avvertimenti,
89).

Da questo ragionamento alla condanna dei latinismi del Tasso, per Salviati
il passo è breve e semplice, poiché se è vero che, come dice Sozzi
(1955, 137–138), «l’introduzione di latinismi nel volgare gli appariva, da
un punto di vista esclusivamente linguistico, a prescindere cioè dal risultato
estetico caso per caso, un operare a ritroso del processo storico», è anche
vero che ciò significava compiere un passo indietro nel processo di ricerca
di identità e di indipendenza dell’era volgare moderna dall’era latina
e dal passato, e un momento di stasi nel processo di strutturazione
dell’egemonia politico-culturale di Firenze, patria della lingua e della letteratura.

Nel capitolo VIII poi è spiegato che, mentre è sconveniente l’uso di vocaboli
latini, è, pur sempre entro certi limiti, consentito l’uso di vocaboli
stranieri come i provenzalismi. Questi ultimi infatti sono stati introdotti
dagli scrittori in un arco di tempo molto più ampio di quanto non sia accaduto
per i prestiti dal latino e solo per necessità artistiche, cioè «con finissima
scelta eletti dagli scrittori, da quegli scrittori, diciamo, che nel buon
secolo la Toscana favella illustrarono, e sono de’ più leggiadri e de’ più sonori
e de’ più belli ch’abbia la lingua nostra» (Avvertimenti, 92).

Nei capitoli IX, X e XI è delineata la parabola seguita dal volgare nel
suo peggioramento dalla morte del Boccaccio sino al momento in cui a tale
peggioramento, almeno nella dimensione scritta, il «Poliziano, con le sue
Stanze bellissime a maraviglia, e forse la più fine opera che facesse giammai,
cominciò ad opporsegli ed eccitare gli altri al medesimo» (Avvertimenti,
93). Ciò non può dirsi anche per la lingua orale, che invece non ha
conosciuto quei momenti di interruzione del processo di decadimento che
sono intervenuti nella lingua scritta, grazie appunto a Poliziano nel Quattrocento,
e poi ad altri personaggi come Pietro Bembo e Giovanni della
Casa, del quale il Galateo, «non tra i moderni componimenti, ma tra le
miglior prose del miglior tempo, a niuna non seconda» (Avvertimenti, 94).

Anche nel Trecento però erano presenti le «scorrezioni di favella» simili
a quelle che si trovano nella lingua moderna, e in numero anche maggiore,
come è riscontrabile anche nelle opere pervenuteci, soprattutto perché
«gli scrittori di quel secolo scrissero appunto, come quasi da tutti comunemente
nel lor tempo si favellava: che, limitandosi il detto, con quella
voce quasi si vuol pur dinotare che qualche differenza doveva avere,
eziandio tra ’l popolo, nel favellar domestico», e inoltre, continua più
avanti il Salviati, essendo sempre la porzione della plebe, del rimaso del popolo più numerosa, senza comparazione, il picciol numero dal suo contagio (direm così) non
può difendersi nell’opera del favellare, ed eziandio che potesse, i savi
huomini, per altri ragguardamenti, massimamente nelle republiche voglion
parlare, come i più, onde si genera il vezzo che spesso, non accorgendosene,
trascorre nelle scritture. (Avvertimenti, 95)
La superiorità della lingua parlata nel Trecento sul parlato cinquecentesco
è riconoscibile soprattutto per quanto riguarda gli ambiti lessicali e sintattici
e infatti si conchiugga che anche nella favella della migliore età, come in tutte altre
lingue in tutti i tempi è verisimil ch’addivenisse, aveva nella plebe, avvengaché
forse in minor numero d’oggi, certi trasgredimenti di cose gramaticali
che nel parlar pensato non s’ammettevano in alcuna maniera; e
’l vanto che sopra questo nostro si suol dare a quel secolo, non è tanto per
questo, cioè per cose pertinenti a gramatica, quanto per la purità de’ vocaboli
e de’ modi del dire, e per la breve e vaga e semplice legatura. (Avvertimenti,
99)
Per quanto riguarda il lessico, inoltre, l’uso vivo era superiore alla lingua
degli scrittori perché «il popolo con le sue pure voci parlava naturalmente,
ma gli scrittori — mossi dalla ricerca di originalità — spesse fiate, senza bisogno,
ricorrevano alle straniere». Per questo motivo tra gli scrittori del
Trecento, sarà più pura la lingua dei più volgari, mentre dagli altri, diremmo
più colti e più letterari, «s’apprende di sentimento e di quel lume
che pertiene a retorica». Per gli aspetti che invece riguardano la legatura
delle parole e il numero, «quali fossero miglior maestri, o quelli che scrissero
popolarmente o quelli che retoricamente dettarono, oltre modo riman
dubbioso, come innanzi potrà vedersi» (Avvertimenti, 100).
Nel capitolo XII è riportata, infatti, una lunga e minuziosa lista degli
scrittori e delle opere del secolo d’oro che dovranno servire come modello
di lingua. Tra questi naturalmente il posto d’onore è riservato a Dante,
Petrarca e Boccaccio, e insieme a loro, anche a Villani.

Di Dante, Salviati loda la Divina Commedia e, pur esprimendo alcune
riserve sulla Vita nova, che presenta un «gran numero di voci senza molta
vaghezza tirate dal Latino», sul Convivio, «cotante sono le parole scolastiche
e i modi cattedrali che poco luogo può rimanervi per le voci natie», e
sulle Rime, nelle quali «tenne il medesimo ordine, o poco differente», la
giudica superiore alle Rime del Petrarca, perché «delle Rime del Petrarca
non è nel vero la purità, nell’opera della favella, la lode più principale, ma
più tosto la leggiadria» (Avvertimenti, 121).

Protagonisti assoluti sono quindi Boccaccio, presentato come insuperabile
modello di prosa e come «colui che, vivendo, alzò il linguaggio al suo
colmo e, morendo, al principio del suo discendere, come addietro si disse,
parve che desse il cominciamento» e nelle cui opere «si veggion cose non
pur maravigliose, ma quasi fuor di natura» (Avvertimenti, 127), e il Decameron,
«senza dubbio, la più illustre prosa che abbia la lingua nostra, avvegnaché
gl’iperbati e gli altri stravolgimenti della natural tela del favellare
sieno in quell’opera contra la forma dello scrivere che s’usava da’ buoni in
quel tempo» (Avvertimenti, 128).

Nel XVI capitolo si conclude il ragionamento in cui gli scrittori, i buoni
autori, sono elevati a giudici dell’uso, e nei capitoli successivi, dal XVII al
XXII, sono ancora ribaditi i medesimi concetti e ancora l’idea di Firenze
unico centro e unica patria della lingua.
Il libro si chiude con un’energica ennesima difesa del fiorentinismo in un
tono che richiama l’atmosfera e la passione del giovane oratore che si presentava
alla sua città e al mondo nel 1564.
Domina, infatti, tutto il volume la stessa visione del fiorentinismo moderno
che aveva ispirato l’Orazione del ’64, quella stessa idea di superiorità
della lingua e della letteratura di Firenze sulle altre lingue e sulle altre letterature.

Il volgare fiorentino rappresenta, infatti, nella sua totale — ribadita
ovunque e continuamente sottolineata — indipendenza dal modello della
classicità antica, conquistata grazie all’importante lavoro compiuto dagli
scrittori del Trecento e all’analisi portata avanti da alcune menti illuminate
del Cinquecento, la manifestazione più alta ed eclatante del cammino intrapreso
dalla cultura dell’uomo nella civilizzazione. Il rifiuto del latino moderno,
ci porta ad escludere da tale visione il passato più recente, per quindi
rivolgerci esclusivamente alla genuinità della lingua del Trecento, che risulta
essere il punto di partenza e unico e insuperabile modello per il futuro, perché
è proprio al futuro che Salviati guarda e si rivolge: un futuro in cui auspica
una lingua fiorentina parlata e scritta, viva e in uso, produttiva anche
nelle sue varietà, così come lo era stata in passato. Solo una presa di coscienza
e un effettivo recupero renderanno possibile una nuova stagione letteraria
di alto livello, e solo così Firenze, dettando inoltre le regole della lingua
e offrendo al mondo il Vocabolario, potrà recuperare il proprio ruolo
centrale e il dominio incontrastato su tutto.

SAGGIO DI UN’EDIZIONE CRITICA DEGLI AVVERTIMENTI: I TRE PROEMI

Naturale conseguenza del lavoro sulla Rassettatura del Decameron, gli
Avvertimenti rappresentano, con la loro messe di materiale linguistico
minuziosamente analizzato e classificato secondo l’ottica fiorentinista, il
\risultato del raggiungimento di una piena maturità delle teorie sui fatti
linguistici e sulla loro interpretazione. Se si esclude però la selezione di alcuni
brani tratti dal secondo libro del primo volume pubblicata da Pozzi
(1988) nelle

"Discussioni linguistiche del Cinquecento",

non esiste
un’edizione moderna di quest’opera che è da considerarsi il centro della
speculazione teorica del Salviati e, con i suoi pregi e i suoi limiti, l’opera in
cui vengono a confluire correnti teoriche linguistiche differenti e contrapposte,
che qui riemergono piegate alle esigenze di Firenze e della sua politica
culturale e linguistica.

L’ultima edizione completa degli Avvertimenti è infatti la già citata
Edizione Milanese del 1810 per i tipi della Società dei Classici Italiani: volumi
II–III dell’Edizione delle Opere del cavaliere Lionardo Salviati, Milano
1810.

Le precedenti edizioni sono la veneziana del XVII secolo e la
napoletana del XVIII secolo, rispettivamente: volumi IV–VI della Raccolta
degli autori del ben parlare per secolari e religiosi. Opere diverse, Venezia,
Salicata, 164312; Avvertimenti, Napoli, Stamperia di Bernardo-Michele
Raillard, 1712.

Oltre che per l’assenza di una moderna edizione, la necessità di colmare
tale vuoto è data anche dal ritrovamento dell’esemplare utilizzato dal Salviati
stesso come base nel suo lavoro di revisione sulla stampa veneziana, in vista
di una seconda edizione del primo volume degli Avvertimenti, che però non
fu mai da lui realizzata.

Nella Serie dei testi di lingua e di altre opere importanti nella letteratura
italiana scritte dal secolo XIV al XIX, compilata da Bartolomeo
Gamba, alla voce Leonardo Salviati (Gamba 1839, 875–878), si ricavano
notizie circa l’esistenza presso Girolamo Baruffaldi di un esemplare del
primo volume degli Avvertimenti, corretto e postillato dall’autore. Tale
esemplare, è detto oltre, è successivamente passato nella Pubblica Biblioteca
di Ferrara, oggi Biblioteca Comunale Ariostea. In una nota al testo si
legge anche:

in una postilla di mano del can. Biscioni, fatta nell’esemplare Notizie degli
Uomini ill. dell’Accad. Fiorentina ec. posseduto già in Milano da Francesco
Reina, a carte 219 leggesi: ‘che il sig. cav. Salviati pensasse di fare
una ristampa più corretta del primo volume degli Avvertimenti lo conghietturiamo
da un esemplare tutto corretto e postillato di mano dello

In questa edizione è contenuta anche una Opinione del Salviati su Qual sia la favella
nobile d’Italia e quale sia il nome suo, basata sui capitoli XVII–XXI degli Avvertimenti.

La stessa edizione ’43 si trova pubblicata anche in Operum Graecorum, Latinorum, et
Italorum Rhetorum Tomi Octo, Venezia (1644–45).

stesso autore, esistente appresso il chiarissimo sig. dottore Girolamo Baruffaldini.
Tale copia degli Avvertimenti, d’ora in avanti chiamata Copia Ferrarese,
tuttora conservata presso la Biblioteca Comunale di Ferrara, ma non
nominata nel catalogo del Censimento nazionale delle edizioni italiane del
XVI secolo – EDIT 16, presenta nel verso del I foglio due scritte, opera di
due mani differenti. Nella prima è attestata la proprietà del volume a Girolamo
Baruffaldi, nella seconda è detto: «Esemplare ricordato da Gamba
Fatti di Lingua».

Nelle pagine successive, per esattezza nella Dichiarazione dell’abbreviature e
nella Tavola degli scrittori, si trova, a margine di ogni carta, una serie di interessanti
annotazioni, che proverebbe l’intenzione ad operare per una seconda edizione:

«Nota che dove tu troverrai simil segni, vuol dire, che nel ristamparsi non
vi dà da essere spazio fra verso, e verso» (Avvertimenti, Tavola degli scrittori,
c3v).

Anche altrove si fa riferimento con molta chiarezza ad una seconda edizione.
In margine alla carta dove è scritta la Nota ristretta di coloro, in cui potere sono le copie de’ soprascritti libri, si legge: «è da avvertire, che nel ristamparsi questa nota, tutti i nomi debbon cominciare al principio del verso»; mentre nella pagina che ospita la Tavola dei luoghi citati è scritto: «Per intendere quel 2.6- che è in margine, sappi, che nel ristamparsi, si dee prima stamparsi dove troverrai l’1.6-
e così farai di simili altri numeri in tutte le tavole».
L’interesse e il valore delle correzioni e delle postille, presenti quasi in
ogni pagina del volume, si fa maggiore quando ci si inoltra nel testo
dell’opera vero e proprio.
Ciò che risulta importante è che né l’edizione del 1809–1810 della Società
Tipografica de’ Classici Italiani né il Pozzi (1988), tengono conto delle
correzioni proposte dalla Copia Ferrarese, ma naturalmente correggono
solo quanto indicato nella Tavola degli errori.
Questa trascrizione del primo volume degli Avvertimenti della lingua
sopra ’l Decamerone di Leonardo Salviati — basata sulla editio princeps,
stampata a Venezia nel 1584, per Domenico e Giovambattista Guerra, fratelli
— si fonda quindi sull’esemplare conservato presso la Biblioteca Comunale
Ariostea di Ferrara (collocazione L 2.4.37), collazionato con
l’esemplare conservato presso la Biblioteca Comunale di Siena e con quello
conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze. La copia ferrarese
infatti manca della prima carta col frontespizio, contenente il titolo
dell’opera, il nome dell’autore, la dedica, l’arme del duca di Sora e il privilegio.

I criteri cui mi sono attenuto sono tendenzialmente conservativi per
l’esigenza di rimanere fedeli alle intenzioni dell’autore, in un’opera in cui
l’aspetto linguistico costituisce l’argomento centrale.
Ho com’è consueto distinto tra u e v, eliminato la distinzione tra s sorda e
s sonora e sciolto le abbreviature, sia quelle segnalate con il punto, trascrivendo
sempre per intero i nomi di autori e di opere citati abbreviati (Mann.
> Mannelli; Sec. > Secondo; P.N. > Pier del Nero), sia quelle rappresentate
dal titulus per n o m, o dal trattino sotto la p in luogo di per, presenti spesso
anche nelle postille. Salviati stesso indica nel margine destro della carta 2r
della copia ferrarese: «Nel ristamparsi questo volume, si dee avvertire, di
non vi fare abbreviature, come titoli, che servino per m, o per n, o p tagliati
per per o simili altre».

Ho razionalizzato l’interpunzione per conseguire una lettura più agevole,
pur tenendo conto delle correzioni della Copia Ferrarese, segnalate sempre
in nota. In molti casi i due punti sono stati sostituiti da un punto e virgola,
come nell’esempio che segue, in cui i diversi elementi dell’elenco erano
nell’originale separati da una virgola, mentre la Copia Ferrarese sostituisce
ogni virgola con due punti:

la "l" e la "n" ora scempie e or doppie:

amavan meglio, aver caro, umil donna,
fratel mio, la quale, come messer Torel vide, sentivan dire, dan fede, saran
care ] la l e la n ora scempie e or doppie: amavan meglio: aver caro: umil
donna: fratel mio: la quale: come messer Torel vide: sentivan dire: dan fede:
saran care. (Avvertimenti, 253)

Pur adeguando l’accentazione agli usi moderni, ho posto l’accento grave
su

"nè",

in conseguenza dell’antica pronuncia aperta della vocale:

Salviati lo
scrive sempre senza accento spiegando che

«sopra niuna voce d’una sillaba
sola, poiché del luogo della posa dubbio non vi può nascere, il segno
dell’accento, secondo il convenevole, dovrebbe adoperarsi»
---- Avvertimenti, 322).

Ho disciplinato l’uso delle maiuscole tendenzialmente secondo l’uso
moderno, tenendo conto però anche in molti casi dell’usus del Salviati e
quindi delle indicazioni della Copia Ferrarese, segnalate sempre in nota
(es.: Autore, quando si riferisce al Boccaccio; sono mantenute le maiuscole

Si veda ciò che in proposito dice Varchi: «Havete dunque a sapere che questa particella o
monosillabo ne si pronunzia e si scrive alcuna volta con l’e aperto, e dicesi nè, e alcuna
volta con l’e chiuso e dicesi ne; quando ella si scrive e pronunzia con l’e aperto, ella è avverbio
di negazione e significa propriamente quello che i latini dicevano nec, o vero neque,
donde si bede che ella è cavata, cioè “non,” o veramente “e non”» (Hercolano, 745).

negli etnici e nelle definizioni della lingua, es.:

Franceschi;
Latina lingua;
Fiorentino; ecc.).

Il Salviati è infatti molto chiaro sull’uso delle maiuscole:

I nomi propri tutti, così d’huomini, come di donne, i soprannomi ed i
nomi delle famiglie e, brievemente, i propri nomi, di qualunque cosa
particolare, o vera o immaginata, o sustanziale o accidentale, o corporale
o senza corpo, o con ispirito o senza. E chiamo nome proprio quel che
non sia dell’altre cose della specie medesima, sì come Cesare non è nome
di ciascuno huomo, nè Baiardo d’ogni cavallo, nè Italia d’ogni provincia,
nè Vinegia d’ogni città, nè Parione d’ogni contrada, nè Arcipelago d’ogni
mare, nè Scilla d’ogni scoglio, nè Arno d’ogni fiume, nè Trievi d’ogni
fontana, nè Iliade d’ogni poema, nè Incanto de’ vermini di ciascuna novella,
nè Ritonda di ciascun tempio, nè Darindana di tutte spade, nè Primavera
di tutte le stagioni, nè Sabato di tutti i giorni, nè Matematica
d’ogni scienzia, nè Equinoziale e Chimera d’ogni immaginazione, e così
partitamente di tutte l’altre simili. (Cap. IIII, Particella XXIII, Avvertimenti,
325 e segg.)

Ho mantenuto le h etimologiche e paretimologiche, la cui presenza è sempre
spiegabile col fatto che l’autore usa citare dai testi del Trecento, conservando
la grafia originaria,14 e perché, come egli stesso indica,
in alcune voci del verbo avere, che tor si potrebbono per altre, secondoch’io avviso,
questa h scioperata si potrà rimanere; ciò sono quattro e non più: ho, hai, ha ed
hanno, e ci pongo hai e hanno, poiché quella per alli e questa, dicono, che per un
nome in fallo tor si potrebbe. Nella parola huomo niuna cagione ci avrebbe di lasciarla,
ma il consenso la ci pur vuole ed all’arbitrio del tutto convien donarla. (Avvertimenti,
288)

Ho rispettato le rare oscillazioni grafiche (es.: perciocché è sempre reso con
geminata tranne che in un unico caso in: percioch’ell’era (Avvertimenti, 9) e
ho infine modernizzato i criteri per le citazioni d’autore, che ho sempre racchiuse
tra virgolette e fatte precedere dai due punti, dando i titoli delle opere
citate in corsivo.

Per quanto riguarda l’apparato ho seguito un criterio estensivo:
o registro, e ne do indicazione in nota, tutte le correzioni proposte
dalla Copia Ferrarese (CF) sul testo a stampa (A);
o indico quando la correzione è riportata anche nella Tavola degli
errori (TE);

Ad esempio per quanto riguarda i testimoni del Decameron ci dice: «sia eziandio nel
Mannelli ed in altri di quell’età, davanti a uopo e a uovo talor la h si trova scritta, ed in
ciò seguongli alcuna volta, benché di rado, insieme col ’27 quei del ’73» (Cap. III, Particella
XV, Avvertimenti, 286. Cfr. anche Particella XVI e XVII).

o do nota anche della collazione con l’Edizione Milanese (EM),
indicando volume e pagina, e specificando inoltre tutti i casi in
cui il testo milanese non riporta le correzioni della Tavola o corregge
in modo autonomo.
MARCO GARGIULO UNIVERSITÀ DI CAGLIARI, UNIVERSITY OF BERGEN

DEGLI
AVVERTIMENTI
DELLA LINGUA
SOPRA’L DECAMERONE

Volume Primo

DEL CAVALIER LIONARDO SALVIATI

Diviso in tre libri

Il I in tutto dependente dall’ultima correzione di quell’Opera

Il II di Quistioni, e di Storie, che pertengono a’ fondamenti della favella

Il III diffusamente di tutta l’Ortografia

Ne’ quali si discorre partitamente dell’opere, e del pregio di forse cento
Prosatori del miglior tempo, che non sono in istampa, de’ cui esempli,
quali infiniti, è pieno il volume. Oltr’a ciò si risponde a certi mordaci
scrittori, e alcuni sofistichi Autori si ribattono, e si ragiona dello stile,
che s’usa da’ più lodati.

All’Eccellentissimo Signor Iacopo Buoncompagni Duca di Sora, e d’Arce,
Signore d’Arpino, Marchese di Vignuola, Capitano Generale degli huomini
d’arme del Re Cattolico nello Stato di Milano, e Governator Generale di
Santa Chiesa, ecc.

IN VENEZIA MDLXXXIIII
Con Licenza, e Privilegio

IL PROEMIO

Troppo era senza fallo lunge dal mio pensiero, Eccellentissimo signor
Duca, lo scrivere in questo tempo dietro a materie pertinenti alla lingua;
ma la cura commessami dal mio Principe16 delle Novelle del Boccaccio,
ultimamente per mia opera, anzi per vostra, ritornate alla stampa, quasi
contr’a mia voglia, m’hanno tirato a farlo per tutte le maniere.17 Percioc-
15 È qui, nel margine destro della carta 2r, che CF presenta la postilla: «Nel ristamparsi
questo volume, si dee avvertire, di non vi fare abbreviature, come titoli, che servino per
m, o per n, o p tagliati per per o simili altre». È aggiunta inoltre l’indicazione

«PROEMIO» in tutte le carte del medesimo.

Il Principe è Francesco de’ Medici, succeduto il 22 aprile 1574 a Cosimo, morto un
giorno prima. Per l’occasione Salviati compose l’Orazione funerale per Cosimo I de’
Medici (I ed. Firenze, Giunti, 1574), con lettera dedicatoria a Francesco de’ Medici,
Granduca di Toscana. Da ricordarsi anche che nel 1569 Leonardo Salviati aveva recitato

l’Orazione intorno alla coronazione del serenissimo Cosimo Medici gran duca di Toscana
(pubblicata, con lettera dedicatoria a Jacopo Sesto d’Aragona d’Appiano, in Firenze,
presso Bartholomeo Sermartelli, nel 1570).

Si riferisce all’incarico offertogli da Francesco di occuparsi della seconda “Rassettatura” del
Decameron. Infatti nel 1559, come è noto, papa Paolo VI nel promulgare l’Indice dei libri
proibiti mise al bando, tra le tante opere, anche il Decamerone di Boccaccio. Dopo il 1564,
quando cioè il Concilio di Trento stilò un nuovo più moderato e tollerante elenco di libri
all’Indice, fu concessa ad alcune opere la possibilità di circolazione e lettura dopo che fossero
state espurgate delle parti non consone alla morale religiosa. Il Decameron rientrava
tra queste, e il Granduca di Toscana, dopo aver ottenuto da papa Pio V nel 1571 il permesso
di occuparsi della realizzazione dell’operazione di censura sul capolavoro del Boccaccio, incaricò
alcuni membri dell’Accademia Fiorentina, tra cui primeggia Vincenzo Borghini, di
compiere i tagli e le sostituzioni che soddisfacessero i voleri dell’Inquisizione. L’edizione
espurgata — «un affare di stato, sorvegliato in ogni particolare dal principe e dall’ “universale,”
cioè dal popolo fiorentino» (Pozzi 1973, 274) — fu stampata nel 1573. Un decennio
più tardi, in un clima forse più rigido, si decise di dare il via ai lavori per una seconda “Rassettatura.”
L’incarico viene dato questa volta a Leonardo Salviati, grazie all’intercessione di
Giacomo Boncompagni e probabilmente del Cardinal d’Este. Così il 9 agosto 1580 il Granduca
di Toscana assegna ufficialmente al Salviati l’incarico di occuparsi della revisione definitiva
del Decameron: «Disiderando noi, per beneficio, e splendore della nostra lingua
toscana, che si ristampi il Decameron del Boccaccio, confidati spezialmente nel sapere, e
giudizio del Magnifico Cavalier Lionardo Salviati, nostro gentil’huomo Fiorentino, lui solo
habbiamo eletto, e deputato a questo carico del ridurlo alla sua vera lezione, e così ridotto,
con permissione de’ superiori ecclesiastici farlo stampare, dove, e da chi, come più gli piacerà.
In fede di che habbiamo fatta fare la presente nostra lettera aperta, sottoscritta di nostra
mano, e sigillata dal nostro solito sigillo. Data in Firenze il Dì IX d’Agosto MDLXXX.
Antonio Serguidi Segretario» (Decameron 1582, 2r–2v). Il nostro comincerà a lavorare
nella seconda metà del 1580 a Firenze per pubblicare infine il volume due anni dopo: Il
Decameron di messer Giovanni Boccacci, cittadin fiorentino, di nuovo ristampato, e riHeliotropia
ché dovendo leggerle così attentamente, come m’è convenuto, molte cose
ho scoperte sopra questo soggetto, le quali da me, in forse venti volte,
ch’io l’aveva trascorse, erano appena leggerissimamente state considerate.
Il che pensando io, che parimente ad altri qualche fiata potesse addivenire,
a dover renderle comuni a tutti, immantenente m’estimai obbligato.
Senzachè nel ridur quella prosa, e quanto alle parole, e quanto alla
tela di esse, alla sua vera forma, nella qual fu primieramente dettata
dall’autore, e dalla quale il non sapere, e l’ardire prima de’ copiatori, e
poi di molti, che fecer profession d’illustrarla, a poco a poco l’avevano
allontanata; è stato di bisogno ripigliar molte cose, che, perché oggi son
dismesse, e nelle stampe leggiermente non si ritruovano, appaiono fuor
di ragione: onde è pur necessario farne capace il lettore; e non di questo
solamente, ma di quella parte, oltr’a ciò, che con istrana voce si chiama
ortografia: poiché talvolta dalla vecchia, talvolta dalla novella si parte la
nostra stampa, che non ne mostrando il perché, si prenderebbe per nigligenza,
o sarebbe creduto errore. Per la qual cosa in due parti principali
fie diviso questo trattato. La prima, per rispetto all’altra assai breve,
penderà quasi tutta dalla correzione di quell’opera, mostrando intorno a
essa quanto fia di mestiere, e alcune cose aggiugnendovi, che convenevolmente
seguon quella materia. Della seconda assai lunga, dopo alcune
dispute, e altre cose in genere, che pertengono alla favella, dimostramenti
dietro alla lingua nostra, e alle regole del ben parlare, saranno
tema, e suggetto.

Dico, dietro alla lingua, e alle regole del ben parlare,
secondo che in due capi fie ridivisa quella seconda parte.

Il primo appartenente
al gramatico, di regole necessarie al favellar dirittamente nel
presente linguaggio; il secondo tratterà d’artifici, e di bellezze, e
d’ornamenti, che impresa sono del retorico. Non dico appieno di tutta la
gramatica, nè di tutta la retorica appieno, ma solamente di quella parte,
di cui opportuna cagione mi sarà data dalle dette Novelle. Perciocché io
non intendo di toccar cosa, la quale almeno in somma18 quivi non si
consideri, e che col testimonio di quella prosa almeno in genere non si
possa risolvere; procedendo nel rimanente, salvo questo rispetto, secondo
l’ordine, e natural divisamento di ciascuna di quell’arti. Il qual riguardo,
oltr’al mio primo proponimento, per continuazione della tela, m’ha fatto
scontrato in Firenze con testi antichi, e alla sua vera lezione ridotto dal cavalier Lionardo Salviati, deputato dal Sereniss. Gran Duca di Toscana, con permessione de’ Superiori, stampato a Venezia per i Fratelli Giunti nel 1582 (sulla storia pre-editoriale di questa edizione
si veda Bertoli 1998).

A «in Somma» CF «in somma».

alquanto allargare; sì che non solo a quelle cose, ch’io diceva pur ora, essermi
quasi nuove apparite, ma eziandio ad altre, per non rompere il filo
di quelle facultà, assai volte son trapassato, come innanzi potrà vedersi.

Niuno adunque dirittamente dovrà riprendermi, se quando forse più
gravi studi s’aspettavano dall’età mia già matura, alle minute cose della
prima arte son condesceso con sì giusta cagione; avvegnaché senza questo
a ogni modo io nol mi prendessi a vergogna, poiché nel vecchio secolo
i valorosi principi, ed eccellentissimi capitani, e nel moderno i gran signori,
e i piu savi letterati non hanno sdegnato di porci mano. Ma lasciando
il più lungamente proemizzare, alla proposta materia vegnamo
a dar principio, trattandone con chiarezza, e con ogni piu breve, ed
ignuda semplicità, al soggetto conveniente; ad altra più convenevol tema
gli ornamenti della favella, e la bellezza lasciando delle parole.

IL LIBRO SECONDO

PROEMIO

Se l’uso della favella, Eccellentissimo signor Duca, per iscoprire a nostra
voglia i pensieri, e ad arbitrio nostro palesare il discorso, ne fu, sì com’io
credo, dato dalla natura, ciascuna altra arte intorno a questo potrà parer
soverchia, fuor solamente quella che più agevolmente, e per più corta
via, e con più efficacia c’insegni d’adoperarlo. Egli è il vero che per due
accidenti quasi due altri rami gli si sono innestati: l’artificio del commuovere,
introdotto dalla necessità, e lo studio del dilettare, manifestatoci
dalla pruova. Più avanti gli antichi savi non abbracciarono col nome
di retorica, e fino a questo termine, e non più oltre, estimano molti che
dietro all’opera del favellare meriti il pregio d’affaticarsi. Ma perché
l’arte del ben parlare (che così le dissero i nostri antichi) non insegna essa
il linguaggio, ma presuppone che altri il sappia, nè tutti dalle balie abbiam
quello che più d’ogni altro ci bisogna o ci aggrada, consentono che
ci abbia luogo uno studio (ciò si è la gramatica), di cui sia impresa il mostrarloci;
ma cotanto, e non più, quanto ci basti per farci bene intendere,
e all’incontro bene intendere altrui. Il rimanente, cioè quella minuta cura
e quelle minute distinzioni che non aiutano il fin della retorica, hanno per
vano e per frivolo, e fanno beffe di chi vi spenda alcun tempo. Perciocché
dicono che dire «il carro» o «el carro», «i buoni» o «e buoni», «sopportano
» o «sopportono», «andarono» o «andorono», «mise» o «misse»,
«facciano» o «faccino», «potuto» o «possuto», «paruto» o «parso» e
cento altri di questa guisa, niente non rilieva, nè quanto al sentimento, nè
quanto alla vaghezza. Ma comeché queste minuzie in ogni guisa reputino
assai leggiere, pur nelle lingue, che vive restano19, solamente ne’ libri degli
scrittori l’hanno per tollerabili; ma, in quelle che vivon nelle bocche
del popolo, non giudican non ch’altro che sien da sofferire, e affermano
cotal fatica non solamente prendersi senza alcuna cagione, ma eziandio
senza fine, poiché nè bisogno ha di legge, dov’è la legge viva, nè vale il
porla dove siam certi che servar non si debba. Dietro al qual capo, lasciati
tutti gli altri che dal consenso universale son riprovati a bastante,
come di cosa che questa mia fatica vien dirittamente a ferire, prima ch’io
passi più avanti, partitamente fa luogo di ragionare. Della qual cosa,
sarò per avventura ripreso da chiché sia, quasi io sormonti d’una dot-
19 A «assai leggiere pur, nelle lingue, che vive restano» CF «assai leggiere, pur nelle lingue, che vive
restano».

trina in un’altra e provar voglia i principi di quel soggetto ch’io ho tolto
per tema. Il che forse sarebbe vero, se io di scriver la gramatica in questi
libri facessi professione, là dove di discorrere di diverse materie pertinenti
alla lingua, e di gramatica, e d’altro fin da principio fu mio proponimento.
Heliotropia 6.1-2 (2009) http://www.heliotropia.org
http://www.heliotropia.org/06/gargiulo.pdf

IL LIBRO TERZO20
Delle Lettere,21 e dell’Ortografia

PROEMIO

Egli, mi pare di comprendere, eccellentissimo signor duca, secondo i vari
affetti di chi sia per leggerle di mano in mano alle cose da me prodotte ne’
precedenti libri, molti contrasti doversi recare avanti. De’ quali, per avventura,
sarà quello il primiero che una volta, non ha gran tempo, nella
presenza vostra, e a me, e ad altri, diede materia di lungo ragionamento.
Conciossiecosa che, favellandosi della volgar favella, un cotal motto
uscisse d’un valent’huomo che, per ventura, quivi si ritrovava: che i fiorentini
huomini a questi tempi fanno, come si dice in proverbio, in guisa
che far sogliono i cani dell’ortolano, che l’erbe per sé non pascono, nè
prender le lasciano altrui; affermando che gli huomini di quella patria
(cheché già si facessero i bisarcavoli degli avoli o padri loro), a’ giorni
nostri, poco o niente alla cultura attendono della lingua natia, nè con gli
altri comunicar la vogliono che tutto giorno brigano per illustrarla, soggiugnendo
che, rade volte, volgari componimenti uscir si veggono della
nostra città e che, qualora pur se ne vede alcuno nella favella della feccia
del popolo, cavatone il Casa ed il Varchi ed il più, due o tre altri, non solamente
senza alcuno ornamento, ma piena di discordanze si trova quasi
ogni riga. Ed erano appunto, per avventura, in quel luogo dove la quistione
era mossa, sopra una tavola presti tre libri di fiorentini autori, uno
de’ quali, se non mi falla la ricordanza, era una vita d’un antichissimo
cittadino di Firenze, già famosissimo in arme; l’altro un comento sopra
una parte d’alcun nostro poeta; nell’ultimo certe pompe e spettacoli si discrivevano
in disteso volume. E presso a questa, altre simili descrizioni
d’altri autori, pur di Firenze, eran legate in quel libro. Il quale, insieme
con gli altri due, contra di me, che la ragione aveva impresa a difendere,
furono di presente prontissimi testimoni. E, avendo io replicato che anche
in Atene ed in Roma, quando più fioriva il linguaggio, di cotali scritture
spesso si pubblicarono, fu con piacevole sentenzia, in questa guisa, diffinita
quella quistione che, fino che io, col testimonio d’altri moderni autori
usciti della mia patria, non abbattessi i primieri, dalla parte del mio av-
20 A «LIBRO TERZO» CF «IL LIBRO TERZO».
21 A «lettere» CF «Lettere».

versario la vittoria si rimanesse. [+]22 Ora, continuuando il mio dire a
quella lite che nacque quella volta per intertenimento, avrebbono voluto
alcuni che ne’ due libri addietro si fosser mozze le radici del tutto. Ma
perché hanno i nostri huomini già buona pezza a cacciar via questo dubbio,
con l’opera incominciato, secondoché pure in questi libri d’alcun di
loro s’è fatta menzione, e per innanzi più ogni giorno s’apparecchian di
farlo, vana impresa e soverchia, dove son preste l’operazioni, ho estimata
la prova delle parole. Senzaché il rispondere avanti alla proposta sarebbe
sì, com’io credo, uno stravolger l’ordine delle cose, e un proceder, come si
dice, a ritroso, e qualche pregiudicio ne potrebbe arrecare. Forse che non
sian mosse cotali opposizioni, e se, o queste, od altre pur saranno proposte,
allora, o da me, o da altri in mia vece, secondo la saldezza, o debolezza
di quelle cose che fussero recate avanti, od il riguardo delle persone
che le mettessero in campo, sarà, s’io non m’inganno, risposto per ogni
guisa, se già non fossono o così vere che, anzi che difesa, meritassono
[+]23 Popolo minore studio che gli stranieri ponesse nel suo linguaggio,
chi non conosce questo, per natural cagione, di tutte l’altre cose parimente
avvenire, che meno si prezzano i beni da chi gli ha più presti a sua
voglia, e men si cercano dove la copia è maggiore? Ma che coloro più
scrivano, che far lo sanno meno, e i contrari allo ’ncontro, non è forse anche
da prenderne maraviglia, poiché chi manco conosce la virtù, manco
teme d’errare, e chi non iscorge i pericoli, baldanzosamente scorre per
tutto, e quasi sempre è in giuoco chi niente può perdere? Sono in Firenze
e, come in Atene ed in Roma esser dovettono ancora, quattro maniere
d’huomini intorno all’opera del mettere in iscrittura. Perocché alcuni
scrivono e sanno scrivere, e di questi se n’è addietro mentovata una
parte, altri non sanno scrivere e anche non iscrivono, certi scrivono, benché
non sappiano chenti eran quelli, che testimoni mi furon contra nel

A «Così a quel contrasto, il quale, a dirne il vero, troppo s’era allungato, fu posto fine
in quel giorno, per lo discreto avviso di due miei ottimi e onorandissimi amici,
d’amendue i quali, breve spazio di giorni novellamente m’ha lasciato privo in un
tempo. Ma a luogo più convenevole, come sempre amai la lor vita, ed ebbigli d’ogni
tempo in gran pregio, così da me sarà, per avventura, la memoria d’entrambi quandoché
sia onorata» CF [+].
2
A «ringraziamento, o così false o sì frivole, e da cotale si partissono che il tacersi fosse
degna risposta. E certo io non comprendo che dietro a questa cosa nascer possa alcun
dubbio, di che altri assai leggiermente non debba diliberarsi. Perciocché imprima è
falso che di Firenze, men che d’altra contrada, si veggano generar parti della toscana
lingua. E quali sono questi altri luoghi che ne producono più spessamente? che gli
producono migliori? E, posto che quel» CF [+].

piato, ch’io dissi dianzi; e di quelli v’ha anche che far lo saprieno, e nol
fanno; e questi son gran numero: chi impedito da altri affari che a lui più
rilievano, chi da studi più gravi, chi ritenuto da qualch’altro riguardo.
Imperciocché a cui potrebbe mai esser dubbio che Pier Vettori, acciocch’io
tolga il principio dal più nobile e più sovrano, e da colui in brieve, cui per
maestro hanno tutti, che Pier Vettori dico, il quale scrive in guisa nella
latina lingua, che tra ’l suo stile ed il migliore del miglior secolo, i più intendenti
huomini e più pratichi di quello studio, non sanno scernere alcun
vantaggio, qualora egli a dettar cheché sia nel suo natio idioma l’animo
disponesse, altrettale, o maggiore, non fosse per apparire? E se Giovanni
di Marcello Acciaiuoli, altresì della mia patria nobilissimo cittadino, già
trapassati i primi anni della sua giovinezza, lasciata ogni altra cura,
tutto volto allo studio dell’antiche favelle, e appresso delle scienzie più
profonde e più nobili, nell’une e l’altre in brieve spazio divenne solennissimo;
se Bartolommeo Barbadori tanto oltre è trapassato nella greca favella,
che niuno altro a questi tempi sa forse all’avvenante cotanto della
nostrale, per non dire ora alcuna cosa delle sue notizie più prencipali e
maggiori. Se Bastiano Antinori, gentiluomo di tanto senno e virtù, di sì
nobil letteratura, in ciascuna opera da lui impresa, ha gli altri sopravanzato;
se Giovanni d’Alessandro Rondinelli, suo e mio virtuosissimo
amico, nelle lingue che più non vivono nella voce del popolo, ha gusto sì e
squisito, e nel volgar materno è così raro nell’altezza del verso, chente lo
mostrano le sue tragedie, magnifiche oltre a misura; se Lorenzo Giacomini,
per non tacere in tutto dell’età men matura, ne’ detti due linguaggi
e negli aringhi, in qualunque delle sue cose è di sì vivo ingegno e sì fine;
se messere Orazio Capponi, in così giovani anni, nella sua grave professione,
mostra in cotesta corte tanto giudicio e valore; e se cento altri della
stessa città, in queste ed altre cose, altrettanto fanno ogni giorno, perciocché
troppo lunga opera sarebbe l’annoverargli tutti, chi vorrà credere
che i medesimi, quantunque volte a dettar prosa nel lor proprio
idioma rivolgeranno il pensiero, così in questa, come nell’altre imprese,
di finissima prova non abbiano a riuscire? Ma, come è detto, varie son le
cagioni, onde molti se ne ritengono. Ned’è menoma, oltre alle dette, il
pensar d’avere a scrivere in un linguaggio, del quale, o poco, o molto,
ciascun pretende di poter dar sentenzia, e a molti non piace di sottomettersi
al giudicio d’ognuno, e massimamente in contrada, nella quale24,
per la natural vivezza degli ’ntelletti25, e per la gran copia degli abitanti,
24 A «qual» CF «quale».
25 A «degl’intelletti» CF «degli’ntelletti».

come son quasi senza novero i discreti huomini e intendenti, così v’ha pur
di quelli che di lor senno presummono oltre al dovere, i quali, o del tutto
ignoranti, in ogni cosa, come disse il poeta, voglion sedere a scranna, o
con ogni poco di tintura di notizia gramaticale, senza riguardo se d’assai
lungo spazio, o di due giorni innanzi fosson venuti al Mondo, se26 nelle
nobili speculazioni, o siano immersi negli esercizi manovali, o meccanici,
ardiscono ogni gran cosa; si credono di saper tutto; di ciascuna opera
danno finalmente sentenzia, e saltano, avviliscono, correggono, moderano,
applaudono a sé medesimi. De’ quali, comeché tutti faccian beffe
igualmente, non perciò tutti igualmente, la dissipita lor tracotanza
s’acconciano a sostenere. Quindi addivien che molti, riputando cosa indegna
l’aversi contra sì fatti huomini a risentire, anzi tolgono di starsi,
che con dispetto d’animo mettersi a prova della lor sofferenza. E avvegnaché
a i cotali altra risposta, che di farse e di frottole comunemente
non si soglia donare; e di quelle cotante alli lor famigliari e serventi,
molti costumino di lasciarne la cura, tuttavia ci ha di quelli, cui anche
questo è noioso, e fuggonlo a lor potere. Perché a minor numero, assai
che non farebbe, tolto questo riguardo, tra quei che pur conoscono la
’mportanza del fatto, e che di farlo hanno spazio, resta in Firenze a questi
tempi la ’mpresa del dettare. Ciò son coloro solamente, cui più rendon sicuri
i molti savi e discreti, che non gli sbigottiscono i pochi temerari e
maligni. Così, se da’ primieri sgannati vengono di cheché sia, non pur
non se ne crucciano, ma gli ringraziano ancora, e rendonne spesse volte
pubblico testimonio; se da’ secondi sono oltre al dovere infestati, senza
prenderne alcuna noia, in quella guisa o altra simile, che pure ora abbiam
detto, rintuzzano la lor follia. Col qual proponimento, io altresì con
ciascheduno, o forestiere, o nostrale, così dietro al contrasto ch’io dissi da
principio, come eziandio ad ogni altro, la materia di questi libri verrò
continuuando; e avendo nel primo di cose dependenti dal testo delle Novelle
e dalla sua correzione, e nel secondo certe quistioni in genere disaminate
d’intorno alla favella, in questo terzo, tuttavia nella guisa che
sempre addietro s’è promesso da me, a ragionar delle sue regole darem
cominciamento. E prima della natura delle lettere, di cui molto è da dire,
appresso di ciò che con le lettere fuor di modo è congiunto, cioè dello scriver
correttamente, che da’ gramatici ortografia suol chiamarsi fino alla
fine del libro, distenderemo il trattato. E quantunque l’ortografia, dopo le
parti del favellare, più convenevolmente paresse avere il suo luogo, non-
26 A «venuti al Mondo nelle nobili speculazioni» CF, TE e EM (Opere, vol. III, 12) «venuti
al Mondo, se nelle nobili speculazioni».
dimanco per l’essere questa parte molto appiccata con le già dette cose
che alla detta correzione appartengono, e quasimente un lor membro,
con sì lungo tramezzo, non abbiamo stimato di doverle disgiugnere,
senza che dalla lettera è, com’io credo, di sì fatta materia proprio il cominciamento,
e con la lettera la sillaba, e con la sillaba la parola, e con la
parola i parlari, e con ciascuna di queste cose la vera guisa e diritta del
metterle in iscrittura, s’accompagna naturalmente. In questo, adunque,
delle lettere e dell’ortografia, e ne’ seguenti libri d’altre materie pertinenti
a gramatica, e ancora a retorica, alcune cose s’andrà considerando. Nel
qual trattato, i nomi e i termini de’ latini gramatici useremo quasi sempre,
poiché oramai dimestichi son divenuti in guisa del parlar nostro,
che, il volergli volgarizzare, altro non sarebbe che, con maggior lunghezza,
rendergli men noti al lettore. Perciocché il dir «pronome», «participio
», «congiunzione», meglio s’intende dalla più parte, che se tu dica
«vicenome», «partefice», «giuntura», e sì fatti, co’ quali spesse fiate, oltre
a i detti disconci, si perde assai col lettore. Perciocché udendo da valent’huomo
la voce «esclamazione» chiamarsi «schiamazzio» (basti una
sola per esemplo di molte) da quei che sentono quasi naturalmente la diversità
del concetto, non si può, senza risa, trapassar la lettura; i quai
pericoli a tutto poter nostro, disiderando noi di fuggire, i più comuni
termini in questa parte ci piace di seguitare. Nè nell’ordine ancora non
usciremo della comune forma già ricevuta dall’uso delle scuole, avvengaché
ella non fosse in tutto, ogni fiata, così perfetta; perocché anche questo
potrebbe accrescere qualche difficultà, senza recarne, d’altro canto,
molto solenne profitto. Onde in quella parte della gramatica, della qual ci
darà materia di ragionare il predetto «Libro delle novelle» (che di tanta,
e non più di favellare, intendiamo), in semplice guisa procederemo, ogni
cosa fuggendo, che alla brevità e alla chiarezza potesse recar contrasto, e
non avendo altro fine che l’utilità di chi legge, ciascun nostro particular
riguardo porrem da canto per questa volta sola.


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