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Wednesday, February 7, 2024

FILOSOFI ITALIANI A-Z

   Sino da tempi antichissimi, le genti italiche del centro della penisola, e, tra esse, i romani e i latini, subirono diversi influssi sul temperamento auttotono, come risulta dalle tracce che ne sono rimaste nella lingua latina, nell'arte, e nella religione. 

Tali influssi, sì eserciti per il tramite dell'Etruria, della Magna Grecia. 

In seguito, i rapporti fra l'urbe di ROMA e la civiltà ellenica si rafforzarono grazie alla mediazione della cosi chiamata "Magna Grecia" e sopratutto Cuma.

Appunto per ciò, già al tempo della guerra dei romani contro i sanniti, e innalzata a Roma una statua rifiggurante il filosofo Pitagora, della setta di Crotone, ritenuto il più sapiente degl'uomini.

E probabile che i romani, dei crotonesi conosceno le credenze dell setta.

APPIO: IL PRIMO FILOSOFO ROMANO

Dell’azione esercitata dalla magna Grecia offre una conferma la raccolta di sentenze in versi saturni d'APPIO CLAUDIO IL CIECO, console, anche non presentano quel carattere pitagorico che vi scorge Cicerone, il quale riferisce che Panezio di Rodi le loda assai. 

Forse, dipende da greci contemporanei.

Nelle tre sentenze d'Appio che conosciamo -- fra le quali è rimasta celebre la proposizione 

FABER EST SVAE QVISQVE FORTVNA 

-- si manifesta piuttosto la riflessione sulla vita di tutti i giorni che una filosofia esplicita. 

Lo stato romano si espande nella magna Grecia, conquista la Sicilia, forma relazioni dirette con la Grecia e coi centri ellenistici dell'Oriente, e così amplia e rafforza la sua conoscenza di quella civiltà che, dopo la morte di Alessandro Magno, assume il carattere proprio d'ellenismo. 

LIVIO ANDRONICO

LIVIO ANDRONICO, di Taranto, prigioniero a Roma e schiavo di MARCO Livio Salinatore, inizia l’opera d'imitatore della filosofia ellena, di cui i romani cominciano così al acquistare conoscenza. 

Ma soltanto si determina quel movimento che apre le porte di ROMA alla cultura ellenica in tutta la sua ampiezza.

Quando trentamila tarantini sono condotti come schiavi, la credenza dei crotonesi puo diffondersi più largamente. 

Lo spirito romano, però, prova per lungo poca simpatia per questa speculazione straniera.

IL RE ETRUSCO NUMA POMPILIO 

Così, quando so conosciuti il libro di filosofia del re Numa, il pretore ordena di bruciarlo.

Cosi scrive Plinio maggiore:

"Tamen, lectis [Numae] libris, multa scripta inventa sunt de Pythagorica philosophia et propter hoc a praetore ussi sunt."

"Valerius Antias autem in opera sua etiam senatus consultum tradit quo eos uri iussum est."

Il libro di Numa e uno falso che ha lo scopo di fare apparire il re etrusco un discepolo dei crotonesi!

Le dottrine esposte nel saggio del re Numa hanno carattere teologico.

Ma non è certo che la dottrina deriva dai crotonesi o, peggio, come ha supposto lo Zeller, dalla stoa!

***

L’avversione dei romani alla filosofia si rafforza per le relazioni, sempre più ampie, che si formano con la provincia conquestata.

L'ellenismo si diffuse in Atene e vi invia a Roma rappresentanti, filosofi, filologi, retori, letterati, artisti, suscitando a Roma una forte corrente nazionalistica ostile. 

Cosi, un Senato consulto vieta la residenza a Roma ai filosofi elleni, inclusi (dieci anni ante) due filosofi elleni dall giardino d'Epicuro, ALCIO e FILISCO

***

Atene invia in Roma, come suoi ambasciatori, tre filosofi: 

CARNEADE degl'accademici, 

DIOGENE di Babilonia, della stoa o portico, e 

CRITOLAO, dal Liceo, 

per ottenere il condono di una multa che le e stata inflitta. 

I tre filosofi hanno conferenze pubbliche pro e contro il giusto che suscitano molto entusiasmo.

***

CATONE IL VECCHIO 

Allora, MARCO PORCIO CATONE, il rappresentante nazionalista più autorevole dell'opposizione alla cultura ellenistica, e al cosmopolitismo che include, e implacabile svalutatore della gente greca, si lagna in senato perchè i tre filosofi ambasciatori d'Atene da lungo tempo risiedevano a Roma.

CATONE ottenne che si decide al più presto della loro richiesta, per far sì che i tre filosofi ambiasciatori ritornano alle loro scuole -- e fa i romani, come prima, ascoltare la vera legge dai magistrati. 

Si può dire che la vita di CATONE, nativo di Tuscolo, tutta dedicata alla difesa della "romanità", si chiuda con la lotta contro Cartagine da una parte, di cuì domanda insistentemente la distruzione, e contro l’ellenismo invadente dall’altra. 

MARCO PORCIO CATONE partecipa valorosamente alla guerra contro Annibale. 

Questore di Publio Scipione, edile della plebe, pretore e console, si rese famoso con la sua censura per la quale fu chiamato "censorius."

Primo fra gl'annalisti, Catone usa la lingua latina negl'"Origines," che narrano le origines di ROMA.

Nell'"Ad Marcum filium" riune in un tutto.

Costitusce così la prima enciclopedia in lingua latina.

Raccolse, in forma apodittica, la conoscenza pratiche che puo servire al figlio. 

Un capitolo riguarda l’agricoltura, forse uno la medicina, e uno l’eloquenza. 

È dubbio che il "Ad Marcum filium" di Catone includesse uno scritto sull'arte della guerra. 

Catone compose lavori speciali sulla guerra, sulla giurisprudenza, e sull’agricoltura.

"De agri cultura" (o "De re rustica") è conservata.

Degli altri saggi restano soltanto frammenti. 

Un'opera di morale popolare applicata di Marco Porcio Catone e il "Carmen de moribus," di cui però è dubbia la forma poetica. 

Di Marco Porcio Catone si ricordano anche le *Epistolae* ad filium e una raccolta d'apottegmi, motti e sentenze. 


***

ENNIO

Catone stesso però, studia il greco per meglio conoscere il nemico da combattere.

Contribusce alla diffusione della filosofia conducendo Ennio con sè a Roma.

ENNIO, un messapio di Rugge, assimila la cultura ellena.

A Roma, Ennio insegna la lingua latina per vivere.

Fra le sue opere occupano il primo posto gli "Annales," in XVIII libri, in cui si narra la storia tradizionale di Roma.

Inoltre, ENNIO compose sei tragedie, prese dai elleni, commedie, satire e altre opere che si ricorderanno.

Questo attirano a Ennio il favore e l’amicizia dell'aristocrazia, principalmente di Scipione l’Africano Maggiore, di Scipione Nasica e di Marco FULVIO Nobiliore che conduce Ennio con sè nell’Etolia perchè celebrasse poi le sue imprese in quella terra. 

Il figlio di Marco Fulvio Nobiliore, Quinto, dona ad Ennio un possesso nel Piceno, e, con esso, Ennio diviene cittadino romano naturalizato.

Nell’"Epicarmo," scritto in trimetri trocaici, Ennio riduce un poema sulla natura, attribuito falsamente a quel poeta elleno.

Se la dottrina naturalista che v'e esposta ha o no impronta dei crotonesi, come si è affermato, non è possibile dire con certezza. 

Nell'"Evemero," Ennio traduce l'iscrizione d'Evemero, che spiega l’origine degli dei, insegnando che sono uomini insigni per saggezza. 

In complesso, si può riconoscere in Ennio interesse vivo per varii problemi.

Ma anche se conosce certe dottrine dei crotonesi, come la trasmigrazione delle anime, sembra troppo audace l'ipotesi che attribuisce una concezione generale pitagorico da girgenti, esposta in tutte le opere, anche negl'"Annali" a chi dice: "Mi è necessario filosofare, ma limitatamente."

***

L'opposizione nazionalistico all’influsso della cultura e in particolare della filosofia ellena e vana, perchè per troppe vie penetra in Roma. 

Soltanto alcuni dei mille achei condotti in Italia e ivi trattenuti anni come ostaggi hanno dimora in Roma.

Fra essi achei, si trovano uomini che, come POLIBIO, sebbene non filosofo, e imbevuto di una cultura che riceve la sua forma dalla filosofia e che contribusce a diffondere la conoscenza del pensiero elleno. 

Lucio Emilio Paolo, dopo la sua vittoria su Perseo, la cui biblioteca destina all’uso dei propri figli, scelse METRODORO fra gl'altri maestri di questi. 

Il senato-consulto, l’effetto prodotto dai tre ambasciatori di Atene, mostrano quale interesse suscita in Roma il pensiero filosofico.

Questo movimento si accentua fortemente. 

SCIPIONE L'AFRICANO MAGGIORE

La casa dei Scipioni, con SCIPIONE l’Africano Maggiore apre le porte all’ellenismo.

P. CORNELIO SCIPIONE EMILIANO L'AFFRICANO MINORE 

P. Cornelio Scipione Emiliano L'Africano Minore ospita Panezio di Rodi, cioè colui che è stato chiamato il fondatore del portico a ROMA e uno dei principali fondatori della filosofia di Roma e che con l’opera sua mira soprattutto ad agire sullo spirito dell’aristocrazia di questa città. 

Per mezzo degli insegnanti, la filosofia entra a far parte della cultura generale.

Così tutti gli indirizzi della filosofia sono conosciuti e seguiti. 

Al circolo degli Scipioni apparteno:

Panezio di Rodi

Polibio

Terenzio

Lucilio

C. Lelio, 

Quinto Elio Tuberone

Spurio Mummio 

Publio Rutilio Rufo

Marco Vigellio

L. Furio 

Filone

Valerio Sorano (da Sora)

Nel circolo o gregge della casa degli Scipione i svolse il concetto di "humanitas" -- sintesi di valori culturali ed etico-sociali. 

Sia Scipiano L'Africano Minore che i più insigni romani hanno come amici e consiglieri, filosofi e ne apprezzarono e seguirono le ricerche. 

Panezio di Rodi accompagna Emiliano nella sua ambasceria in Oriente.

L'accademico CLITOMACO dedica a Lucio Censorino e a Lucilio due scritti sulla gnoseologia di Carneade.

IL socialista Tiberio GRACCO ha come amico e consigliere C. BLOSSIO, di Cuma, e si dice che per impulso di lui, e del retore Diofane, difende la legge agraria. 

Lucullo e amico dell’accademico Antioco d'Ascalona.

P. Pupio Pisone e amico del peripatetico Staseas.

Pompeo ascolta l'insegnamento di Posidonio.

Lo stoico Diodoto e accolto nella famiglia di Cicerone, che segue gl’insegnamenti di diversi filosofi.

A Roma si recarono (oltre i tre ambasciatori ateniesi e Panezio) 

Staseas, 

Filone di Larissa, 

Posidonio

Gl'epicurei 

Fedro, 

Filodemo e 

Sirone.

QUINTO CECILIO METELLO

Quinto Cecilio Metello ascolta in Atene Carneade.

Eletto console, QUINTO CECILIO METELLO dirige la guerra contro Giugurta e che, sebbene sostituito da Mario, e dall'aristocrazia romana considerato il vero vincitore di essa, ha il soprannome di Numidico e ottenne l'onore del trionfo.

Per sottrarsi all'esilio, al quale e condannato per l’inimicizia di Mario, QUINTO CECILIO METELLO abbandona volontariamente Roma e visse, da prima a Rodi, ove coltiva gli studi filosofici, poi a Tralle, ove ha notizia del suo richiamo. 

***

Le scuole che ebbero maggior numero di seguaci sono il Portico e il giardino d'Epicuro, che e il primo indirizzo filosofico a Roma -- con i due epicurei spulsati, Alcio e Fulcio. 

***

BLOSSIO DI CUMA

Alla stoa romana si collega BLOSSIO DI CUMA (il nome ha origine osca), che e scolaro dello stoico Antipatro di Tarso. 

Dopo la morte di Tiberio Gracco, Blossio dove difendersi davanti ai consoli.

Poi, Blossio fugge da Roma, e si reca in Asia presso Aristonico di Pergamo e, quando questo e sconfitto, si da la morte. 

Seguirono la stoa anche due Sanniti, Marcio e Nisio.

NISIO

Di Nisio si dice che e scolaro di Panezio di Rodi e da l’esempio di parodiare argomenti serii.

SCIPIONE AFFRICANO MINORE

Al centro della più antica stoa romana si trova SCIPIANO l’Africano Minore.

Cnsole, distrugge Cartagine, ottenne la censura, dirige un’ambasciata in Oriente, e di nuovo console, distrugge Numanzia.

Scipione l'Africano Minore e un appassionato lettore della "Ciropedia" di Senofonte e ha tendenza del portico.

Forse, anche per questo motivo, da alle sue orazioni contenuto morale e vi dipinta la corruzione.

***

Fra i più antichi filosofi stoici romani, membri del circolo alla casa degli Scipioni, si contano 

Gaio Lelio e i suoi due generi, 

Gaio Fannio e 

Mucio Scevola l’Augure (non il Pontifice)

Quinto Elio Tuberone, 

Spurio Mummio, 

Publio Rutilio Rufo, 

Lucio Elio Stilone, 

Mucio Scevola il Pontefice Massimo (non l'augure)

Marco Vigellio, e 

Sesto Pompeo. 

***

GAIO LELIO

C. Lelio, ha fama soprattutto per l’intima amicizia che lo lega a Scipione L'Africano Minore. 

C. Lelio conosce i tre filosofi ateniesi inviati a Roma, ma fu attirato principalmente da Diogene, lo stoico.

In seguito C. Lelio ha rapporto con Panezio di Rodi e ne diffuse la dottrina del portico nell’aristocrazia romana.

Come legato di Scipione L'Affricano Minore, C. Lelio partecipa alla guerra contro i punici e si distinse nell’assedio di Cartagine, ottenendo in premio la pretura.

GAIO LELIO appartenne agl'auguri è diviene console. 

Nelle lotte civili determinate dall'azione socialisti di Tiberio Gracco, GAIO Lelio si schiera contro questo e i suoi fautori. 

C. Lelio e ammirato, se non come oratore come uomo politico, e forse dovette il soprannome di "sapiens," datogli dall’aristocrazia, al suo atteggiamento politico più che ad altro. 

***

GAIO FANNIO 

Per mezzo di C. Lelio, GAIO Fannio conosce Panezio di Rodi e ne segue l’insegnamento. 

GAIO Fannio combatte contro Cartagine, e tribuno della plebe e si distingue contro VIRIATO.

GAIO Fannio e pretore e console.

GAIO Fannio oppose alla proposta di Gaio Tiberio Gracco di concedere cittadinanza di romani ai meri latini e i diritti di questi ai meri italici, con una orazione famosa, di cui però, gli e contestata la paternità. 

GAIO FANNIO scrive un saggio storico spesso ricordata da Cicerone ("Annales"), che forse comincia con le origini di Roma -- e orazioni. 

***

QUINTO MUCIO SCEVOLA L'AUGURE 

Quinto Mucio Scevola l’Augure ascolta l'accademico CARNEADE della scesi, ma si avvicina alla stoicismo e soprattutto a Panezio di Rodi.

Con Quinto Elio Tuberone e Publio Rutilio Rufo, Quinto Mucio Scevola L'augure e lodato da Posidonio. 

Augure prima, Quinto Mucio Scevola ha la pretura e il governo dell'Asia e il consolato.

Quinto Mucio Scevola e un insigne giurista.

***

TUBERONE

Quinto Elio Tuberone, nipote di Emilio Paolo, come tribuno della plebe si oppone a SCIPIANO Africano Minore e a Caio TIBERIO Gracco.

Poi, QUINTO ELIO Tuberone e pretore.

Poco lodato come oratore, Tuberone si distinse per la cultura giuridica. 

La semplicità della vita e la rigidezza del carattere di Quinto Elio Tuberone lo portano verso il portico, la cui dottrina applica nella condotta. 

Quinto Elio Tuberone conosce Panezio di Rodi e ne segue l'insegnamento.

Da Quinto Elio Tuberone e da Ecatone gli fuTono I: scritti.

La cosa è dubbia per l'influenza di Posidonio su Quinto Elio Tuberone. 

SPURIO MUMMIO

Spurio Mummio, fratello del vincitore di Corinto, partecipa con Scipione Emiliano L'Affricano minore e con Lucio Metello Calvo a un’ambasciata politica in Oriente e così puo stringere più stretti rapporti con Panezio di Rodi.

Spurio Mummio scrive lettere in versi e orazioni.

Cicerone pone Spurio Mummio tra i quattro interlocutori nel dialogo della "Republica."

***

PUBLIO RUTILIO RUFO

Scolaro di Panezio di Rodi, Publio Rutilio Rufo combatte sotto Numanzia agl'ordini di Scipione L'Affricano Minore come "tribunus militum" ed e pretore urbano. 

Al pari di Mario, Spurio Mummio segue come legato Quinto Metello nella guerra contro Giugurta.

Quando Mario, quale console, assunse il comando dell’esercito, Spurio Mummio ritorna a Roma. 

Console, Spurio Mummio segue l’amico Marco Scevola l’Augure (non il Pontifice) nel suo proconsolato d’Asia.

Condannato ingiustamente per accuse di nemici che si e procurato con la sua rigida onestà, Spurio Mummio visse da prima a Mitilene e poi a Smirne, e rifiuta l'invito di Silla di accompagnarlo a Roma.

Cicerone conosce Spurio Mummio a Smirne.

A Smirne, Spurio Mummio scrive un "De vita sua" e una storia di Roma. 

SPURIO MUMMIO e oratore.

I discorsi di SPURIO MUMMIO hanno per la loro aridità impronta stoica/

SPURIO MUMMIO coltiva gli studi giuridici. 

STILONE

Quinto Elio Stilone, nato a a Lanuvio, appartenne all'ordine equestre. 

Quinto Elio Stilone segue nell’esilio Quinto Metello "Numidico."

A Roma, Quinto Elio Stilone e maestro e scrive discorsi per altri. 

I suoi discepoli più insigni sono Cicerone e Varrone. 

Conoscitore sicuro della coltura latina, Quinto Elio Stilone e il primo rappresentante notevole della "grammatica" -- o "letteratura."

Opere sicuramente di Q. Elio Stilone sue sono: 

"Interpretatio carminum Saliorum"

"Index comoediarum Plautinarum"

"Commentarius de Pro-Loquiis" -- uno studio sulla sintassi di impronta stoica

Discorsi per altri. 

Inoltre, Quinto Elio Stilone cura edizioni di scritti altrui. 

Gli è stata attribuita un’opera glossografica. 

***

QUINTO MUCIO SCEVOLA PONTIFICE, NON QUINTO MUCIO SCEVOLA AUGURE

Quinto Mucio Scevola e pontefice, questore, tribuno della plebe, pretore, console, proconsole d’Asia.

QUINTO MUCIO SCEVOLA PONTIFICE i attira, per la sua giustizia e il suo disinteresse, l'affetto dei provinciali e l’odio dei cavalieri romani, che accusarono il suo legato Rutilio Rufo, che Scevola difende. 

Pontefice massimo, Quinto Mucio Scevola cadde vittima delle lotte civili.

Giurista insigne, Quinto Mucio Scevola compose libri XVIII juris civilis, in cui, per la prima volta, tenta una trattazione sistematica dell’argomento, e un’opera intitolata "Horoi," che contiene definizioni di concetti e di rapporti giuridici. 

E molto ricercato l'insegnamento della giurisprudenza di Quinto Mucio Scevola.

Quinto Mucio Scevola insegna, derivandola, pare, da Panezio di Rodi, la distinzione di tre teologie, ripresa da Varrone: teologia (divina) poetica (falsa), teologia ufficiale (falsa) e teologia naturale (vera). 

***

MARCO VIGELLIO

MARCO Vigellio, amico del console Crasso, visse con Panezio di Rodi.

***

SESTO POMPEO


Sesto Pompeo, zio di Pompeo Magno, ha forte cultura giuridica e matematica e conosce a fondo la il portico.

Citato da Cicerone con i due Balbi. 

***

LUCIO CALPURNIO PISONE FRUGI 

E ricordato come Stoico, tribuno della plebe, pretore e console, combatte la rivolta degli schiavi in Sicilia e la doma parzialmente. 

LUCIO CALPURNIO PISONE FRUGI ottenne la censura.

Pisone lascia un’opera storica, gli "Annales," che si estende dalle origini al tempo suo.

Negl'"Annales," Pisone combatte le tendenze che si introduceno in Roma e il rilassamento morale. 

Opera di tese, non condenna l'assassinio del socialista Gaio Tiberio Gracco.

***

Altri seguaci della filosofia del Portico sono:

Lucio Lucilio BALBO 

Quinto Lucilio BALBO, suo fratello o cugino, 

Marco Porcio Catone L'Uticense o Minore

Marco Favonio, e 

Cornificio Lungo. 

***

LUCIO LUCILIO BALBO

Lucio Lucilio Balbo, scolaro di Quinto Mucio Scevola il Pontefice massimo (non l'augure), e soprattutto un filosofo giurista. 

***

QUINTO LUCILIO BALBO

Quinto Lucilio BALBO (non Lucio Lucilio Balbo) è chiamato stoico da Cicerone, che nel "De natura deorum," della natura degli dei, gli assegna l’esposizione della dottrina stoica sul divino. 

Ivi Quinto Lucilio Balbo dichiara di avere familiarità con Posidonio. 

Antioco d'Ascalona dedica a Quinto Lucilio Balco un saggio.

Secondo Cicerone, Lucio Lucilio Balbo e pari ai più insigni filosofi del portico.  

* * * 

CATONE MINORE 

M. Porcio Catone il Giovane o Minore ha come maestri due stoici, Atenodoro Cordilione -- che si reca a visitare a Pergamo perchè lo segue a Roma ove lo tenne come ospite -- e Antipatro di Tiro. 

In Sicilia, Catone Uticense conosce l’accademico Filostrato. 

Nei suoi ultimi giorni in Utica, Catone Uticense ha vicino a sè lo stoico Apollonide, e il liceale Demetrio. 

Catone Uticense e questore e pretore.

Catone Uticense i oppose ai triumviri. Anessa Cipro.

Nella guerra civile si schiera con Pompeo, non con Giulio Cesare.

Dopo Tapso, Catone Uticense si reca a presidiare Utica, ove si uccide.

Catone Uticense coltiva con molto successo l’eloquenza e si compiace di introdurre discussioni filosofiche nelle orazioni. 

Catone Uticense scrive anche giambi. 

Cicerone chiama Catone Uticense perfettissimo stoico.

Nel "De finibus" Cicerone assegna a Catone minore l'esposizione dell'etica di quella scuola di cui aveva studiato intensamente le opere. 

*  *  *  

MARCO FAVONIO

MARCO FAVONIO, pretore, e amico e ammiratore di Catone Uticense.

Aspro avversario dei triumviri, M. FAVONIO parteggia per Pompeo e lo segue nella fuga. 

Dopo l’uccisione di Giulio Cesare, M. FAVONIO si une ai congiurati.

Fatto prigioniero a Filippi, M. FAVONIO e subito giustiziato perchè e un proscritto. 

MARCO Favonio adere alla filosofia del portico. 

* * * 

CORNIFICIO LUNGO e autore di un’opera etimologica in tre libri, "DE ETYMIS DEORUM" composta fra il tempo di Cicerone e Ottaviano. Essamina l'etimologia di "Minerva" ecc. 

***

SORANO

Forse segue la scuola del portico Q. VALERIO SORANO, che Cicerone fa chiamare, da Crasso, "litteratissimomnium togatorum."

Q. VALERIO SORANO e in stretti rapporti con Cicerone e con Varrone. 

Q. Valerio Sorano partecipa attivamente alla vita politica ed e tribuno della plebe.

In seguito, Q. Valerio Sorano dove fuggire in Sicilia ove Pompeo lo fa giustiziare. 

Poco rimane di Q. Valerio Sorano, sicchè è difficile apprezzare la sua attività filosofica. 

Certamente Q. Valerio Sorano si occupa di storia letteraria e di grammatica. 

Q. Valerio Sorano dedica a Publio Scipione Nasica uno scritto che non si sa se e in prosa o in versi.

Q. Valerio Sorano sembra compone in prosa un’opera intitolata "Epoptides," che contiene principalmente interpretazioni allegoriche di nomi.

Due esametri che sì ricordano di Q. Valerio Sorano hanno pensare al panteismo stoico e probabilmente sono inclusi in un poema naturalistico. 

***

Anche più numerosi seguaci ha il giardino di Epicuro.

Per primo, pare, GAIO AMAFINIO espone in lingua latina -- criticato da Cicerone -- le dottrine della sua scuola.

Ne seguirono l'esempio RABIRIO e CAZIO -- i tre criticati perchè cattivi espositori.

Sono incerti però i loro rapporti con LUCREZIO

Essi trovarono molti seguaci che li superarono assai in facilità e semplicità. 

Nell’età di Cicerone si contano molti epicurei romani.

Ma in generale, salvo LUCREZIO, si conoscono soltanto per le notizie che LUCREZIO ne dà.

I più importanti fra essi sono TITO ALBUCIO e GAIO VELLEIO.

TITO ALBUCIO

TITO ALBUCIO, dottissimo nelle cose greche e satireggiato da Lucilio e Q. Mucio Scevola l'Augure per la sua grecomania, resse come propretore la provincia di Sardegna. 

Condannato per estorsioni, anda in esilio in Atene, sopportando con molta calma la sua sorte. 

Cicerone, che ricorda i suoi discorsi e lo chiama perfectus Epicureus, pare accennare a suoi scritti filosofici tra i quali forse si trovava un carme epicureo.

GAIO Velleio di Lanuvio fu senatore e tribuno della plebe. 

Nel "De natura Deorum" GAIO VELLEIO difende le teorie epicuree.

Stando a quel dialogo, l'oratore LUCIO Crasso prefere GAIO VELLEIO a tutti i romani e puo confrontare con lui pochi epicurei. 

CAZIO

Altri seguaci della stessa scuola furono il già ricordato CAIO Cazio, della Gallia Insubria, autore di quattro libri De rerum natura et summo bono, un gallo, Lucio Calpurnio Pisone Censorino, Gaio Cassio Longino, Gaio Vibio Pansa, i due Lucio Manlio Torquato, Statilio, e Lucio Varo, amico di Cesare. 

Lucio Calpurnio Pisone Censorino, questore, edile, pretore, console, coll’aiuto di Cesare che sposa una sua figlia. 

Lucio Calpurnio Pisone Censorino (non Frugi) e attaccato da Cicerone con l’orazione "In Pisonem" quando e governatore della Macedonia e ad essa rispose poi con un libello. 

Censore nel 50, Lucio Calpurnio Pisone Censorino cerca inutilmente d’impedire la guerra fra Cesare e Pompeo.

Gli stessi vani sforzi ripete perchè non seoppiassero nuove lotte civili.

In seguito, Lucio Calpurnio Pisone Censorino abbandona la vita politica. 

Lucio Calpurnio Pisone Censorino e molto amico di Filodemo.

Cicerone parla sempre di Lucio Calpurnio Pisone Censorino come di un epicureo. 

CAIO Cassio Longino e questore con Crasso nella guerra contro i pirati.

Poi pro-questore e tribuno della plebe, segue Pompeo. 

CAIO CASSIO LONGINO e uno dei capi della congiura contro GIULIO Cesare, e uno degli uccisori di questo. 

A Filippi, prevedendo la sconfitta, CAIO CASSIO LONGINO si uccise. 

GAIO VIBIO PANSA

GAIO Vibio Pansa, amico di Cicerone che ne loda l'ingegno, e lo chiama epieureo, fu tribuno della plebe. 

Console con Fazio, morì col collega a Modena combattendo valorosamente contro Marc'Antonio. 

LUCIO Manlio Torquato padre, pretore, proconsole nell'Asia, console, proconsole della Macedonia, senatore, si avvicina alla filosofia del Giardino al pari del figlio dello stesso nome, senatore e pretore.  

Nella guerra civile LUCIO MANLIO TORQUATO combatte in Africa con i Pompeiani.

Dopo Tapso, LUCIO MANLIO TORQUATO cerca di salvarsi in Ispagna per mare, ma vedendo la sua nave circondata dai nemici, sì uccide. 

Cicerone, che loda LUCIO MANLIO TORQUATO, nel "De finibus" gli fa esporre la dottrina epicurea. 

STATILIO 

Amico di Catone l’Uticense e di Bruto il minore, STATILIO si trova con Catone ad Utica, dichiara di voler seguire il suo esempio.

Catone, deciso ad uccidersi, affida STATILIO ad Apollonide, del portico, e Demetrio, peripatetico,  perchè gl’impedissero di imitarlo. 

Poi, STATILIO segue Bruto e muore a Filippi. 

EGNAZIO

EGNAZIO fu epicureo e imitatore di Lucrezio. 

D'Egnazio è ricordato un "De rerum natura." 

AURELIO OPILIO

Aurelio Opilio segue l'indirizzo del Giardino. 

Liberto di un epicureo, insegna filosofia, ma sciolse la sua scuola per seguire Rutilio Rufo a Smirne, ove compose varie opere, fra le quali Musarum libri IX. 

LUCIO PAPIRIO PETO 

Più dubbia l'appartenenza all’Epicureismo di un amico di Cicerone, LUCIO Papirio Peto. 

Peto si avvicinò a quella più che ad altre scuole, senza però seguirne alcuna.

TITO POMPONIO ATTICO

Tito Pomponio Attico, da stirpe nobilissima, condiscepolo prima, poi intimo amico di Cicerone, che gli dedicò il "De amicitia" e il "De senectute" e gli scrisse numerose lettere, raccolte in 16 libri. 

Per sfuggire i pericoli delle lotte interne di Roma, Attico visse in Atene.

Nella guerre civile, Attico rimase neutrale. 

TITO POMPONIO ATTICO e il primo grande editore di Roma. 

Per sottrarsi a una malattia incurabile si uccise per fame. 

TITO POMPINIO DETTO L'ATTICO scrive un "Liber Annalis", che includeva tutta la storia di Roma dalle origini al tempo suo.

Vi si ricordavano anche importanti riforme legislative e opere letterarie notevoli e vi si parlava degli eventi storici di altri popoli, particolarmente dei Greci. 

Tito Pomponio Attico compose anche monografie genealogiche, uno seritto greco sul consolato di Cicerone, versi posti sotto i ritratti di personaggi famosi. 

LUCIO SAUFEIO

LUCIO SAUFEIO, come il suo contemporaneo e amico Tito Pomponio Attico, e al pari di lui cavaliere romano e ricco uomo d’affari, si avvicina al giardino più che ad altre scuole.

Al pari di Attico visse lungamente in Atene per coltivarvi gli studi filosofici. 

Per le sue ricchezze i triumviri lo inclusero nelle proscrizioni.

Si salva per l'interesse di Attico.

Cicerone accenna a Lucio Saufeio come ad un epicureo, e pare sì riferisca ad un suo libro. 


GIULIO CESARE

Si è voluto collocare tra gli epicurei Giulio Cesare perchè nell’orazione che secondo Sallustio avrebbe tenuto in senato per opporsi alla condanna a morte dei complici di Catilina, nega l'immortalità dell’anima e le pene dell’oltretomba. 

Però non sappiamo se e fino a qual punto rispecchi il suo pensiero quell’orazione, che, in ogni modo, mirava a impedire l'uccisione dei catiliniani. 


MARCO PUPIO PISONE CALPURNIANO

MARCO PUPIO PISONE CALPURNIANO e peripatetico con mescolanze stoiche e accademiche (cioè eclettico), trionfa della Spagna, ed e console.

MARCO PUPIO PISONE CALPURNIANO, detto eloquentissimo e dottissimo, scrive 5 libri "peri telon." 

MARCO GIUNIO BRUTO MINORE

MARCO GIUNIO BRUTO appartene all'Accademia -- cioè effettivamente all’eclettismo con tendenze stoiche di Antioco d’Ascalona -- che, appunto, accetta dottrine derivate dal portico. 

In Atene MARCO GIUNIO BRUTO IL MINORE fa studi di filosofia, e in questa ha maestro Aristone. 

Nella guerra civile parteggia per Pompeo e combatte a Farsaglia.

Ottenne di riconciliarsi con Giulio Cesare.

Forma stretti rapporti con Cicerone che gli dedica varie opere ("Brutus", "Paradoxa", "Orator", "De finibus", "Tusculanae", "De natura Deorum."

A Cicerone Marco Giunio Bruto dedica il "De virtute."

Legato propretore nelle Gallie, pretore urbano, partecipa alla congiura contro Giulio Cesare e fu uno dei suoi uccisori. 

Sconfitto a Filippi da Ottaviano, si uccise.

Marco Giunio Bruto uno dei maggiori rappresentanti dell’atticismo è oratore insigne. 

Marco Giunio Bruto scrive lettere (8 a Cicerone ci restano nella corrispondenza di questo), poesie e tre opere morali. 

Nel "De virtute," MARCO GIUNIO BRUTO difende la teoria dell’auto-sufficienza della virtù.

In "Sui doveri" MARCO GIUNIO BRUTO da precetti al fratello sulla sua condotta.

Nel "De patientia," tratta di questa. 

PUBLIO SELIO

CALIO SELIO

TETRILIO ROGO

Cicerone ricorda come uditori di Filone di Larissa, Publio e Caio Selio e Tetrilio Rogo, ma s’ignora se ne seguissero le dottrine. 

LUCIO ELIO TUBERONE 

LUCIO ELIO TUBERONE e seguace dello scetticismo neo-accademico. 

A LUCIO ELIO TUBERONE Enesidemo dedica i suoi "Discorsi pirroniani."

Amico intimo di Cicerone, che ne loda il carattere e la cultura.

Quello scritto dovrebbe porsi verso o dopo l'assassinio di Ciceroneure molto .

Lo scritto pure molto attinse alla scepsi dell'Accademia. 

L. Elio Tuberone e legato di QUINTO CICERONE, proconsole di Asia.

Nella guerra civile, insieme col figlio, LUCIO ELIO TUBERONE combattè coi Pompeiani.

Graziati ambedue da Cesare, vissero a Roma. 

LUCIO ELIO TUBERONE si occupa di studi storici. 

COTTA 

MARCO AURELIO COTTA seguì l'Accademia anche e verso di esso pare inclinasse GAIO LUTAZIO CATULO. 

COTTA e tribuno della plebe, vive in esilio, ottenne il consolato e e anche pontefice massimo.

 Appartenne ai più notevoli oratori del tempo suo. 

GAIO LUTAZIO CATULO

GAIO LUTAZIO CATULO ccombatte a Numanzia sotto Scipione Emiliano l'Affricano minore e così fu accolto nel suo circolo.

GAIO LUTAZIO CATULO e console con Mario e partecipa con lui alla vittoria di Vercelli sui cimbri.

Sorse allora fra loro una mutua gelosia che provoca l’implacabile inimicizia di Mario la quale costrinse Catulo, che era stato dalla parte del Senato, a darsi la morte col veleno per sottrarsi alla condanna capitale che lo attende. 

Compose epigrammi latini, un liber de consulatu et de rebus gestis suis, che Cicerone loda al pari dei suoi discorsi. 

LUCIO FURIO FILO

LUCIO FURIO FILO anche segue l'Accademia anche.

LUCIO FURIO FILO udì i tre filosofi dall'ambasciata: Carneade, Diogene e Critolao.

LUCIO FURIO FILO consegue il consolato e ottenne la Spagna come provincia. 

LUCIO FURIO FILO figura nel "De republica" di Cicerone come uno dei principali oratori.

LUCIO FURIO FILO ha l'abitudine di discutere il pro e il contra delle questioni. 

PUBLIO NIGIDIO FIGULO 

Publio Nigidio Figulo e una personalità assai notevole.

PUBLIO NIGIDIO FIGULO e senatore, pretore e ascoltatissimo consigliere di Cicerone nel momento critico della congiura di Catilina.

Nella guerra civile, PUBLIO NIGIDIO FIGULO si schiera col partito di Pompeo e dopo la sconfitta di questo vive in esilio.

Nella vita politica PUBLIO NIGIDIO FIGULO occupa sempre posizioni secondarie.

Ha fama notevole per l'ampiezza del suo sapere che lo fa ritenere il più dotto dei romani al pari di Varrone, che però lo superava per ampiezza di cultura. 

Cicerone afferma che PUBLIO NIGIDIO FIGULO fa risorgere le credenze della setta di Crotona come dottrina filosofica.

Ma effettivamente era riapparso come Neo-Pitagorismo in Alessandria, tanto è vero che ad esso appartenne Bolos di Mendes, o Bolos Democrito.

Quindi l’affermazione di Cicerone su PUBLIO NIGIDIO FIGULO si limita al mondo romano. 

Publio Nigidio Figulo raccogge intorno à sè un circolo di 'croonesi' che permise ai suol nemici personali di parlare di una factio.

Lo sforzo di PUBLIO NIGIDIO FIGULO di fondere l'insegnamento della setta di Crotona (nel quale vede la verità su filosofia, astronomia e scienze occulte -- con credenze, oltrechè romane, etrusche.

PUBLIO NIGIDIO FIGULO suscitò l'accusa di infedeltà alla 'religione' o culto ufficiale dello stato romano

Sembra che PUBLIO NIGIDIO FIGULO coltiva l'astrologia e la magia e che predice al padre di Ottaviano che il figlio che allora gli era nato avrebbe dominato il mondo. 

Di PUBLIO NIGIDIO FIGULO si ricordano i seguenti scritti:

"Commentarii grammatici," di almeno 29 libri; 

"De gestu" -- una monografia retorica.

"De dis" -- di cui è citato il 1. 199, è un tentativo di rappresentare tutto il pantheon romano. 

Precede un’opera simile di Varrone, che ne offusca il ricordoi si.

Vi notano intuizioni stoiche.

E dubbio l'influsso di Posidonio.

Chiari invece e l'influsso etrusco e astrologici; 

"De extis," si diffonde sull'arte augurale etrusca.

"Augurium privatum" in almeno 2 libri. 

È dubbia l'attribuzione a lui di un libro Sulla interpretazione dei sogni. 

Uno scritto "De ventis" comprendeva almeno 4 libri. 

Si cita di FIGULO il 4° libro di un'opera "De animalibus" e il 4° di un "De hominum natura".

È probabile abbia composto un "De terris" che sembra fosse un’opera di geografia astrologica. 

La "Sphaera" di FIGULO e un saggio di astronomia e di astrologia che includede una Sphaera graecanica (descriziene delle costellazioni greco-romana) e anche una "sphaera barbarica," colla descrizione delle costellazione di altri popoli.

Probabilmente conteneva predizioni astrologiche. 

Le tendenze mistiche, religiose e superstiziose che dominano FIGULO dovevano conservarsi in tutto il Neo-Pitagorismo posteriore. 


VATINIO

L'indirizzo pitagorico trova un fautore in Vatinio, al quale Cicerone (che poi si riconciliò con lui) rimprovera di coprire col nome di Pitagora mostruosità nefande.


GAIO SALLUSTIO CRISPO 

GAIO SALLUSTIO CRISPO, storico, nato ad Amiterno, può anche darsi che adere la setta dei crotonesi.

Tribuno della plebe e senatore, fu espulso dal senato per motivi morali, e probabilmente perchè fautore di Cesare, che lo nomina questore, pretore nella guerra africana e proconsole della Numidia.

Dopo la morte di Cesare abbandona la vita pubblica per dedicarsi completamente agli studi storici (La congiura di Catilina, La guerra giugurtina, Le Storie). 

A GAIO SALLUSTIO CRISPO venne rivolta l’accusa di essere stato complice dei sacrilegi di Nigidio Figulo.

Certamente Sallustio spesso insiste nei suoi scritti sulla opposizione di anima e corpo.

Sallustio parla di un nume divino che veglia sulla condotta dei mortali e accenna a sanzioni nell’oltretomba. 

È quindi probabile che allo storico debba essere identificato quel Sallustio che scrive un "Empedoclea" per esporre le dottrine del filosofo da Girgenti, tutte colorate di Pitagorismo. 


SESTO CLODIO 

Sesto Clodio, siciliano, retore e maestro di filosofia del triumviro Marc'Antonio, compose un libro sugli dei e verisimilmente anche uno scritto contro i nemici dell’alimentazione carnea (i pitagorici).

Ma non si può dire quale indirizzo seguisse. 

Alcuni romani insigni nutrirono interesse vivo per i problemi della filosofia.

LUCILIO

Ciò si può dire di un membro del circolo degli Scipioni, LUCILIO, nato a Sessa Aurunca da famiglia ricca e distinta. 

LUCILIO ha un fratello che e senatore e, per mezzo della figlia, nonno di Pompeo. 

LUCILIO conosce la cultura greca (di cui si penetra) nell’Italia meridionale e a Roma, ove passa la maggior parte della vita.

Forse soggiorna anche in Atene. 

Come cavaliere LUCILIO partecipa alla guerra contro Numanzia, agli ordini di Scipione Emiliano L'Affricano, con cui aveva già stretti rapporti.

In seguito appoggia delL'Affricano energicamente l'azione politica. 

LUCILIO fa parte, oltrechè del circolo degli Scipioni, di uno più ampio. 

LUCILIO e amico dell'accademico Clitomaco, che gli dedica un libro. 

Morì a Napoli.

LUCILIO scrive 30 libri di satire -- un genere filosofico --, di cui restano frammenti.

In esse satire, LUCILIO rappresenta e critica la vita romana dell’età sua, interessandosi soprattutto di questioni politiche.

Dei vizi del tempo LUCILIO e giudice severo. 

LUCILIO si occupa molto di problemi logico-grammaticali, retorici e letterari.

Si interessa anche di filosofia speculativa, alla quale deve avere dedicato una satira. 

Nei framm. del l. 28 la teoria epicurea è confutata verisimilmente da un accademico, anche perchè vi si trovano varie notizie sulla storia di tale scuola. 

La forma e il contenuto delle satire di Lucilio rivelano l’influsso della filosofia popolare del cinismo di Bione e di Menippo. 

Un ampio frammento in cui Lucilio dipinta la virtù romana, secondo alcuni proviene da Panezio, secondo altri da Cleante: però qualche storico pone Lucilio in relazione con l'Accademia. 

LUCIO LICINIO CRASSO

Non seguace di un indirizzo filosofico determinato, ma persone colte e animate da interessi filosofici fu L. Licinio Crasso.

LUCIO LICINIO CRASSO fu gran oratore, tribuno della plebe, console, proconsole della Gallia Cisalpina e censore. 

Secondo Cicerone, LUCIO LICINIO CRASSO ha stretti rapporti con filosofi e con uomini che si appassionavano per i problemi della filosofia, come il liceale STASEAS, il 'giardinere' VELLEIO, e MARCO VIGELLIO, scolaro del portico di Panezio. 

LUCIO LICINIO LUCULLO

Lucullo si distingue nella guerra sociale come tribunus militum.

Avendo avuto quale pro-questore sotto Silla nella guerra mitridatica l’incarico di recarsi dalla Grecia in Cirenaica e in Egitto e di raccogliere una flotta, LUCULLO volle avere presso di sè Antioco d’Ascalona in quel pericoloso viaggio sul mare. 

Pretore, propretore in Africa, e console, ottenne il governo proconsolare della Cilicia e il comando della guerra contro Mitridate e sconfisse prima questo, poi il suo alleato Tigrane re di Armenia. 

Negl'anni del suo comando, batiè con poche forze grossi eserciti nemici.

Ma per il malcontento dei soldati le cose peggiorarono, sicchè i suoi avversari lo fanno richiamare a Roma ove soltanto gli e concesso il trionfo. 

Lucullo contribuì potentemente alla diffuzione della filosofia in Roma.

LUCULLO e oratore, storico (scrive un’opera sulla guerra sociale) e si interessa vivamente per la filosofia, tanto che volle compagno Antioco sia da pro-questore che da pro-console e con gli studi filosofici si consolò degli insuccessi politici. 

Di Nigidio Figulo e di molti altri autori nominati restano soltanto testimonianze, e di alcuni, pochi fram- menti. 

Nel primo caso si trova Publio Nigidio Figulo, la figura principale fra le minori. 

Possediamo invece le opere di LUCREZIO, il poeta dell’Epicureismo, e di Cicerone, rappresentante dell’eclettismo.

Degli scritti di interesse filosofico di un altro eclettico, Terenzio Varrone, abbiamo frammenti abbastanza numerosi. 

Questo è una figura notevole, sebbene di secondo ordine. 

Incomparabilmente superiori a tutti sono i due primi. 

Della vita di LUCREZIO CARO casi nulla sappiamo. 

Sono incerte le date di nascita e di morte. È incerto il luogo di nascita. 

G. Della Valle sostene che Lucrezio e di POMPEI.

Sebbene Della Valle difende con passione la sua tesi, non si può dire che la dimostra. 

Secondo una notizia di Girolamo, che si suppone attinta a Svetonio, Lucrezio, impazzito per un filtro amoroso, dopo avere scritto in periodi di lucido intervallo alcuni libri -- cioè, il poema -- si sarebbe tolta la vita.

Sul valore di questa testimonianza di Svetonio i pareri sono discordi. 

Si afferma che Lucrezio e di umili origini.

Questo pare senza ragione perchè almeno un ramo della gens Lucrezia appartene all’aristocrazia di cui fa parte un Memmio identificato di solito a quel Gaio Memmio di cui parla Catullo, al quale Lucrezio (che pare gli fosse amico oltrechè protetto) dedica il suo poema. 

Secondo Girolamo, Catullo, dopo la morte di Lucrezio, fu corretto da Cicerone.

Deve trattarsi dell'edizione curata da CICERONE, che, in una lettera al fratello Quinto Cicerone, parla con lode dell’opera che certamente Lucrezio non rivede o corrige in modo definitivo.

Comunque, siccome rimangono tracce di questo fatto -- ad es., ripetizioni -- si deve pensare che Cicerone, se pure corrige il poema, limita fortemente l’opera sua. 

Lucrezio espone la dottrine epicurea con una fedeltà che le ricerca mette sempre meglio in luce, nel De rerum natura.

Lucrezio conserva anche notizie di aspetti degl’insegnamenti di Epicuro non testimoniati in altro modo. 

Lucrezio deriva la filosofia anche da altre fonti. 

In Epicuro, Lucrezio vede ed esalta con entusiasmo colui che ha liberato gli uomini dall’influsso funesto della religione.

Facendo conoscere la vera natura delle cose, Epicuro, secondo Lucrezio, dispersa le opinioni superstiziose che ne turbano la vita; cioè, la convinzione che gli dei intervengono ostilmente negli avvenimenti dell'esistenza degl'uomini, e il terrore della morte, prodotto da una rappresentazione paurosa del mondo d’oltre tomba. 

Lucrezio si interessa soprattutto di questo ufficio della filosofia epicurea, di assicurare tranquillità alla vita umana, e ciò si comprende meglio quando si ricorda che nell'età sua, alle feroci lotte politiche si unì una profonda crisi nel culto ufficiale, per cui si diffusero le forme più varie della superstizione e trovarono seguaci culti di origine etrusco, e discipline occultistiche, come l'astrologia e la magia. 

Invece, Lucrezio accenna soltanto fuggevolmente alla vera e propria etica edonistica del suo maestro del giardino, che ha abitualmente attirato l’attenzione, sia dei seguaci che degl'avversari. 

La passione severa, ma ardente, dicui Luerezio dà prova in questa polemica anti-culto ufficiale, conferisce al "De natura rerum" un vero e proprio carattere di religiosità sui generis. 

Ma insieme, questo punto è più accennato qua e là che espresso, LUCREZIO si volge appassionatamente alla filosofia per evadere dalle lotte e dalle brutture della vita politica, che però lo interessa in quanto non era affatto indifferente alle sorti del suo popolo. 

Il "DE NATURA RERUM" risulta di 6 libri.

Nel LIBRO I, Lucrezio parla dei principi di tutte le cose: gl'atomi nel vuoto.

Nel LIBRO II, Lucrezio parla dei movimenti degl'atomi e dei composti percepibili che ne risultano.

Nei LIBRI III e IV Lucrezio parla dell'uomo -- propriamente nel LIBRO III, Lucrezio parla dell'anima e della sua natura mortale e nel LIBRO IV dei sensi e dei loro oggetti.

Nel LIBRO V, Lucrezio parla dell'origine del mondo, della fondazione degl'esseri viventi e della storia della civiltà.

Nel LIBRO VI, Lucrezio parla di alcuni fenomeni naturali particolarmente notevoli. 

Siccome ragioni estetiche giustificano l'ordinamento attuale del "De natura rerum", non vi è motivo sufficente per ammettere che quello originario fosse diverso, ossia che considerasse prima la natura e poi l’uomo (I, II, V, VI, III, IV) o, come alcuno vuole, I, II, V, VI, IV, III). 

Però l'esposizione del pensiero filosofico richiede che dell’uomo (III, IV) Lucrezio parla in ultimo. 

Punto di partenza della costruzione sono due proposizioni.

Nessuna cosa nasce dal nulla. EX NIHILO NIHIL.

Questa proposizione va contro la credenza generale degl'uomini che, vedendo che molte cose avvengono di cui non sanno trovare le cause, le attribuiscono all’azione del divino, e così gl'uomini sono presi dal terrore davanti ad essa.


Nessuna cosa si dissolve nel nulla. AD NIHILVM NIHIL.

Nessun essere perisce effettivamente.

Nessuno si crea.

La nascita di uno ha per condizione la morte di un altro. 

Occorre quindi ammettere che i corpi visibili risultano di elementi primi invisibili; e siccome la realtà presenta processi di movimento, è necessario che esista anche il vuoto in cui essi sono collocati, il quale ne costituisce la condizione. 

I corpi si distinguono nei principi primi delle cose e nei loro compiti. 

I corpi sono indistruttibili ed eterni per la loro solidità, cioè perchè non includono vuoto.

Perciò la parte omogenea di cui risultano e INDIVISIBILE.

Ossia, e un "atomo", e e piccolissimo e quindi impercettibile. 

Infinito è il vuoto in cui i principi (gl'atomi) si muovono eternamente.

Illimitata pure è la somma degl'atomi. 

L'ordinamento attuale di una cosa (res) è stato preceduto da processi di movimento e di combinazione di atomi di ogni specie, dai quali le condizioni presenti sono risultate. 

Dello studio dei movimenti incessanti degli atomi, della forza che li determina, degli effetti che ne provengono basta ricordare alcuni concetti. 

I principi delle cose sono trasportati o dal loro peso o dall’urto di altri. 

Un movimento di particolare importanza è il "clinamen," cioè la de-cli-nazione di un atomo dal movimento in linea retta attraverso il vuoto che è determinato dal peso.

In questo punto certamente Epicuro, seguito da Lucrezio, si oppose a Democrito, anzi a tutti i filosofi dell’antichità. 

In un momento di tempo e in un punto dello spazio indeterminati un atomo deve scostarsi lievissimamente dalla verticale.

Altrimenti non puo urtarsi, e la natura non avrebbe mai nulla generato e tutto sarebbe sottoposto alle leggi del fato, nè esisterebbe quella libertà che appartiene a tutti gli esseri animati, per cui la loro volontà dirige i movimenti che compiono. 

Siccome tale potere è insito in noi, occorre che derivi da una simile causa naturale nei semi delle cose, perchè nulla può nascere dal nulla. 

Per questa ragione, sia la qualità totale della materia, che quella del movimento, restano eternamente identiche.

Ma molti dei secondi sono invisibili per la piccolezza degli atomi.

Questi presentano forme diverse e tale varietà e le differenze della loro piccolezza permettono di spiegare le proprietà sensibili delle cose. 

Però la varietà delle figure dei principi è finita, sebbene siano infiniti quelli che hanno forme simili. 

Per questa loro infinitezza esiste nell’eternità una lotta continua tra le forze vitali e quelle opposte, sicchè ora sono superiori le une, ora le altre e le morti e le nascite si mescolano. 

Ogni corpo risulta di più principi diversi.

Ma non tutte le combinazioni possono verificarsi, nè esse sono infinite in numero, altrimenti si genererebbero esseri mostruosi. 

Gli atomi non posseggono colori.

Questi derivano dalle loro diverse forme, dalle loro combinazioni, dalle loro posizioni e dai movimenti che s'imprimono reciprocamente.

La stessa cosa si deve ripetere per il caldo, il freddo, i sapori, gli odori, i suoni. 

In generale, tutto ciò che è perituro (come le proprietà sensibili) non può essere attribuito ai principi se si vuole che le cose poggino su basi immortali. 

Gl'esseri forniti di senso consistono di principi insensibili, come mostrano molteplici fatti.

Ad esempio, dalle uova derivano pulcini. 

Se nello spazio infinito si aggirano in molteplici modi con movimento eterno innumerevoli semi delle cose, non si può pensare che siano stati creati soltanto questo cielo e questa terra, quindi debbono esistere altri raggruppamenti di materia simili al nostro mondo, e in altre parti dell'universo altre terre, e vivere genti umane e altre specie di fiere.

Ma ogni cosa avviene per l’azione libera e spontanea della natura senza l’intervento di nessuna forza divina.

Ma il mondo, come nasce e cresce, grazie ai corpi estremi che si aggiungono a quelli simili che vi si trovano, così invecchia e già nell'età nostra ha le forze indebolite, e noi assistiamo al progressivo isterilimento della terra che crea e produce sempre meno. 

Come ogni cosa, anche il mondo si avvia verso la fine. 

Nel V libro Lucrezio, trattando dell’origine del mondo -- la terra e i corpi celesti che la circondano -- e degli esseri viventi, si occupa in modo particolare dell’uomo, della lingua, della religione e dello sviluppo della civiltà umana. 

Il mondo è perituro.

La terra e i corpi celesti che l’attorniano non sono animati e perciò non sono guidati nei loro movimenti da una mente divina, bensì dalla natura. 

Gli dei hanno corpi tenui e intangibili.

Le sedi dei dei hanno gli stessi caratteri e perciò si trovano fuori del nostro mondo, negl'intermundia.

Gli dei non hanno formato il mondo per gli uomini.

Su tale punto Lucrezio arreca molte prove e tra le altre questa.

Troppi sono i difetti del mondo per ciò che riguarda i bisogni dell’uomo e troppo misera è la condizione umana perchè si possa pensare a una produzione divina. 

Effettivamente il mondo non è perenne, ma è soltanto ai suoi inizi, come mostrano i progressi delle arti e delle scienze. 

Il mondo si è formato non per uno scopo dei principi delle cose, ma grazie al loro accozzamento fortuito determinato da movimenti di ogni genere prodotti dal loro peso.

La condizione attuale è stata preceduta da combinazioni e da movimenti di tutte le specie, a partire da uno stato in cui tutto era confuso e informe. 

In questo studio cosmologico Lucrezio, seguendo Epicuro, offre diverse spiegazioni possibili degli stessi fatti, senza ricercare quale sia preferibile. 

Parlando della formazione degli esseri viventi, Lucrezio, che riprende una teoria di origine empedoclea, afferma che la terra da prima produce molti animali mostruosi che perirono o perchè non erano capaci di riprodursi o perchè non potevano difendersi nè ottenere la tutela dell’uomo. 

Mai però si produssero mostri costituiti di membra di specie diverse, perchè tutte le cose sottostanno a leggi fisse della natura. 

La vita dell'uomo e da prima selvaggia.

Gradatamente si svolge la civiltà. 

La lingua non deriva da convenzioni arbitrarie, ma si forma partendo dai suoni naturali. 

La religione e il culto hanno avuto origine da visioni che gl'uomini hanno avuto, specialment nei sogni, di esseri più belli e più forti di loro, ai quali hanno attribuito vita perenne e felice.

Ad essi esseri gl'uomini hannò assegnato l'ordinamento dei cieli di cui non potevano conoscere le cause. 

Perciò gl'uomini supposero che tutto dipendesse dal volere degli dei, dei quali collocarono le sedi nel cielo. 

Ma, attribuendo queste azioni agli dei e inoltre acerbe ire, quanti mali si è procurato l’infelice genere umano.

Così si è generato il terrore dell’intervento divino nel corso della natura. 

Gradatamente vennero fatte scoperte utili alla vita e si formarono e svolsero le istituzioni sociali, le arti utili e belle, le scienze, ma insieme si generarono cupidigie, ambizioni, guerre, sicchè l'umanità si affatica sempre invano perchè ignora quale sia il limite del possesso e fino a qual punto possa erescere il vero PIACERE.

È qui palese una nota di pessimismo che non manca in Epicuro. 

Nel libro VI Lucrezio vuol dare la spiegazione di fatti di difficile interpretazione che si presentano sulla terra e soprattutto in cielo.

Di essi, per ignoranza delle cause, gl'uomini considerano autori gli dei che così si rappresentano come padroni crudeli, mentre effettivamente conducono una vita senza cure e perciò non si occupano delle faccende umane.

Per tale scopo, Lucrezio parla dei fenomeni celesti, che ineludono quelli meteorologici -- in questa parte si riconoscono derivazioni da Teofrasto e da Posidonio --, dei terremoti, delle eruzioni vulcaniche, delle inondazioni del Tevere, e di altre stranezze della natura, delle cause delle malattie e chiude il "De rerum natura" colla descrizione, che segue quella di Tucidide, della peste che desola Atene nel tempo della guerra peloponnesiaca. 

Però, come si è detto, si è alterato l’ordine dell’esposizione per collegare le dottrine naturalistiche. 

La trattazione dell’uomo nel Libro III comincia con lo studio dell’attività spirituale o mente ("animus") e della forza vitale ("anima"), che mira a disperdere i terrori dell’Acheronte i quali perturbano e avvelenano l’esistenza. 

Dalla paura della morte provengono in gran parte le colpe degl'uomini, che diventano criminali per il desiderio delle ricchezze e degli onori, in quanto senza di essi, ritengono la vita un soggiorno davanti alle porte del Tartaro. 

Il terrore della morte spinge gl'uomini a tradire la patria, i parenti, gli amici, talvolta a odiare la vita e a privarsene. 

È quindi necessario disperdere questo terrore e queste tenebre dell'anima, con la visione e la interpretazione della natura. 

E da prima si deve stabilire che la mente o spirito che governa la vita, e l’anima, sono parti del corpo non meno della mano e del piede. 

L’uno e l’altra sono intimamente congiunti e formano una sostanza sola.

Però la mente, che ha sede nel petto -- infatti ivi risiedono il timore e la gioia o piaceri-- tutto dirige, mentre l’anima, sparsa ovunque nel corpo, si muove secondo l'impulso del corpo.

La MENTE può conoscere e rallegrarsi o soffrire soltanto per sè, e, movendo l’ANIMA, agire sul CORPO. 

Ma da ciò e dal fatto che la prima subisce le impressioni del corpo, risulta che ambedue -- mente e anima -- hanno natura corporea.

Siccome la MENTE è rapidissima, deve essere costituita di semi o elementi insieme sommamente rotondi e sommamente minuti. 

Però la sostanza della mente e dell’anima non è semplice.

La sostanza della mente e dell'anima isulta di quattro principii: il vapore, il calore, l'aria e un quarto privo di nome, la sostanza più mobile e tenue che vi sia, composta degl'elementi più piccoli e più lisci, che mette in moto gli altri tre. 

Questa sostanza eterea, che inizia i movimenti della sensazione e li comunica agli altri elementi, si nasconde profondamente nell’interno del nostro corpo, forma l’anima di tutta l’anima e governa l’intero organismo dell'uomo.

La sostanza dell'anima è custodita da tutto il corpo che a sua volta essa custodisce e di cui determina la salute, perchè sono intimamente congiunti e non possono separarsi senza perire.

Il corpo e l'anima hanno la stessa origine e vita comune. 

Senza l’anima il corpo non può persistere oltre la morte.

L'anima senza del corpo non può sentire perchè il senso dipende dalla congiunzione dei loro movimenti. 

Ma più dell’anima, la MENTE domina la vita.

Quando la mente è assente, l’anima ne segue la fuga dal corpo, che è preso dalla morte, mentre essa si disperde nell’aria. 

In tutti gli esseri animati, la mente e l’anima nascono e muoiono.

Sulla loro mortalità Lucrezio insiste a lungo, sforzandosi di accumularne le prove, derivate soprattutto dalla loro connessione col corpo e con le sue condizioni. 

Del resto, se l’anima fosse immortale, dovrebbe ricordarsi della sua esistenza precedente e delle azioni che ha compiuto. 

Se l’anima passasse da un corpo all’altro, non si spiegherebbe la trasmissione ereditaria dei caratteri propri dei diversi animali, come la violenza nei leoni, il timore nei cervi, e non si intenderebbe perchè certe doti si formino soltanto col passare del tempo. 

Come poi si può comprendere che un essere immortale e perenne possa unirsi a una natura mortale?

Inoltre, possono restare eterni soltanto o corpi solidi e impenetrabili come gl'atomi, o ciò che, come il vuoto, permane intangibile e non patisce urti, o che, come l’universo, non è incluso in un luogo in cui le cose si possano dissolvere, nè esistono corpi capaci di urtarlo e di disgregarlo, mentre l’anima non corrisponde a nessuna di queste condizioni. 

Da ciò segue che, essendo mortale la sostanza dell’anima, la morte non ci riguarda affatto; e come prima di nascere non abbiamo provato dolore quando i Cartaginesi minacciavano di distruzione Roma, così, quando non saremo più, nulla potrà colpirei. 

Si deve dunque comprendere che nulla si deve temere dalla morte, che chi non è non può diventare infelice. 

Quindi, chi si rattrista per ciò che subirà il suo cadavere dopo la morte e perchè pensa che non godrà più le gioie della vita, anche inconsapevolmente ritiene che qualche cosa di lui esisterà ancora. 

D'altra parte, coloro che, per la brevità delle gioie umane, spingono a cercare il godimento nel vino -- cioè gl'epicurei volgari -- non considerano che dopo la morte la sete non li tormenterà più. 

Se la stessa natura dicesse ad alcuno di noi: 

Se hai potuto godere in passato, perchè non ti ritiri dalla vita, come un convitato soddisfatto? 

Se invece la tua esistenza passata è stata piena di sofferenze, perchè vuoi prolungarla, mentre io non posso escogitare nulla di nuovo per compiacerti, e le cose restano sempre le stesse? 

Egli potrebbe rispondere soltanto che essa dice il vero. 

Le generazioni si succedono e si lasciano successivamente il posto.

La vita non è data a nessuno come proprietà, ma è concessa a tutti perchè ne usino. 

La natura ci mostra nel periodo del tempo eterno che ha preceduto la nostra nascita lo specchio di quello che sarà il futuro dopo la nostra morte.

In ciò non vi è nulla di orribile, esso è anzi qualche cosa di più tranquillo di qualunque sonno, 

Del pari, gli orrori dell’Acheronte si presentano tutti nella nostra vita, perchè qui il vano terrore degli dei, il timore dei colpi del destino torturano i mortali, qui l'amore, la gelosia li consumano.

Questi sono i tormenti di cui le pene d’oltretomba sono raffigurazioni.

In questa vita esistono tremende punizioni per misfatti insigni, e anche senza di esse l’anima consapevole dei suoi delitti si flagella e teme che i suoi mali si aggravino nella morte. 

Infine, qui la vita degli stolti diventa un inferno. 

D'altra parte, tutti, anche i più potenti, anche i più sapienti come Epicuro, sono stati presi dalla morte.

Perchè deve indignarsi di ciò chi è tanto inferiore a loro? 

Se gl'uomini potessero conoscere la cause del male che pesa sul loro cuore non vivrebbero, come fanno i più, ignorando ciò che vogliono, e non cercherebbero sempre di mutare luogo e condizione per sfuggire se stessi, ma si sforzerebbero di conoscere la natura delle cose, perchè ciò che è in discussione è lo stato dell’eternità, in cui tutti i mortali debbono restare dopo la loro morte. 

Se poi il fine della vita è fissato per tutti, e vicino, e inevitabile, perchè tanto timore nei pericoli? 

Inoltre ei aggiriamo sempre intorno allo stesso punto, nè possiamo, vivendo, procurarci aleun piacere nuovo. In ultimo, per lunga che sia la nostra vita, è sempre un nulla rispetto al tempo illimitato che seguirà la nostra morte. 

Il Libro IV tratta da prima dei sensi e dei loro oggetti, poi delle conoscenze della mente, e comincia con lo studio dei fenomeni della vista, che, secondo una teoria di origine empedoclea, che però Epicuro ha deriva da Democrito e da Leucippo, li spiega per mezzo di immaginette (eidola, effigies, imagines, simulacra) costituite da atomi emananti dagli oggetti.

Un’immaginetta singola per la sua minutissima struttura non può essere vista dagl'occhi, che avvertono soltanto una successione incredibilmente rapida di simulacri.

In modo simile, Lucrezio dà ragione degli odori, dei sapori, dei suoni.

Si tratta di processi di contatto affini a quelli del tatto. 

Gli errorì che si attribuiscono ai sensi derivano dalla mente.

Così una torre quadrata vista da lontano appare rotonda perchè gli angoli delle sue immaginette sono logorati dall’aria nel loro percorso.

In questo e in altri casi simili non ingannano i sensi, ma la mente che aggiunge ai loro dati le proprie opinioni. 

Il concetto del vero ha avuto la prima origine dai sensi, che non si possono respingere perchè occorrerebbe sostituirli con qualche altro criterio più degno di fede, capace di confutare il falso col vero. 

Ma che cosa è più degno di fede dei sensi? 

Non certo il ragionamento che ne deriva e che perciò, se essi sono falsi, è pure falso.

Nè un senso può confutare l’altro, perchò ciascuno ha il proprio ufficio e deve decidere di determinate proprietà delle cose. 

Essi non possono confutare sè stessi in momenti successivi, perchè meritano sempre la stessa fede e ciò che ogni volta è apparso loro vero, è vero. 

Se si nega fede ai sensi, non soltanto la ragione, ma la vita stessa rovina. 

Ma anche la mente ha conoscenze sue proprie. 

Molte immaginette si muovono in tutte le direzioni ed essendo tenuissime, si combinano facilmente.

Esse, penetrando per gli interstizi del corpo, eccitano la sostanza della mente, sicchè noi vediamo mostri e immagini di morti. 

Le stesse cose accadono nel sogno.

Allora i sensi sono ostruiti e riposano e non possono confutare il falso col vero e langue anche la memoria, che è incapace di smentire quelle visioni ricordando che è morto colui che la mente erede di vedere vivente. 

I movimenti del corpo si spiegano in questo modo.

Immaginette di movimento colpiscono la mente e si forma la volontà di muovere il corpo. 

Allora, la mente agisce sull’anima che muove il corpo. 

Il libro IV si chiude con la descrizione dell’amore che è determinato dall’impulso sessuale, furore che non si soddisfa mai e reca dolori, tormenti, gelosie. 

L’analisi del poema di Lucrezio mostra che lo studio dei problemi morali, che aveva tanta parte nell’opera di Epicuro, non è affrontato direttamente e in modo sistematico. 

In un passo del Libro II (vv. 14 sgg.) si ripresenta la tesi fondamentale d'Epicuro, che la natura esige soltanto per il corpo l'assenza di dolore e per lo spirito un senso di letizia privo di preoccupazioni e di timori.

Si afferma che il corpo esige poche cose che, mentre tolgono il dolore, possono arrecargli molte gioie.

Con poco si soddisfano la fame e la sete. 

Altrove (Libro III, vv. 59 sgg.) si collegano al timore della morte, il desiderio delle riechezze e degli onori (che spinge gli uomini alla violazione del diritto e ai delitti), in quanto una vita povera e oscura sembra posta davanti alle porte della morte. 

Più oltre si afferma che le pene dell’Ade sono soltanto immagini dei desideri e delle passioni che torturano l’uomo in questa esistenza. 

Ma l’atteggiamento che Lucrezio assume di fronte alla vita si rivela soprattutto nell’ultima parte dello stesso libro (vv. 1076 sgg.). 

Come osserva Bréhier, Lucrezio non si limita al pari di Epicuro a liberarci dal terrore dell’oltre tomba, ma vuole proteggerei anche dall’orrore del nulla con la meditazione della morte immortale.

Lucrezio insiste sulla monotonia delle cose e così suggerisce più che l’intrepidità davanti alla morte, il disgusto della vita, valendosi di motivi delle diatribe del filosofo cinico.

In Epicuro, come in tutti gl'edonisti, il pessimismo e implicito, perchè il piacere richiede un continuo superamento del dolore.

Ma questo pessimismo nel grande discepolo si afferma imperiosamente e diventa, si può dire, il motivo ispiratore della visione della vita. 

In questo pensiero doloroso e nel pathos intenso che ispira la sua polemica contro la religione, concepita come fonte di terrori e di mali, risiede l’aspetto più originale dell’opera di Lucrezio. 

Per le fonti, Lucrezio attinto certamente, oltre che a Epicuro, a Girgenti, a Tucidide (per la descrizione della peste di Atene).

Inoltre si sono riconosciuti altri influssi -- Eraclito, Senofane, Democrito, Aristotele, Teofrasto, Posidonio, Filodemo -- ma in ogni caso hanno minore importanza. 

Ben presto l’arte di Lucrezio desta ammirazione, anche se non mancarono le riserve e le limitazioni e soltanto Ovidio mostra di apprezzarlo degnamente.

E certo, però, che quasi tutti i poeti sotto il principato d'Ottaviano, come Virgilio o Properzio, aspirano, anche momentaneamente, a gareggiare con lui. 

Lucrezio agì pure su prosatori, come Seneca.

Tacito attesta che alcuni filosofo preferirono Lucrezio a Virgilio. 

Nel principato posteriore, i filosofi, anche se criticano, studiano e imitano Lucrezio.

Ma dopo Rabano Mauro venne ignorato. 

Quando Bracciolini lo riscopre, Lucrezio suscita l’ammirazione e lo studio degl'umanisti -- per es. di Poliziano e di Pontano) e ispira anche all'arte del Botticelli la figura di Venere nella Primavera. 

Bruno derivato da Lucrezio la concezione dell’infinito. 

Lucrezio attira l’interesse dei altri pensatori e per suo mezzo Gassendi ritornò ad Epicuro, determinando, come reazione, 1’ Anti-Lucrezio del Polignac.

Sì interessno di Lucrezio anche i tedeschi -- Kant, Winckelmann, Herder, Schlegel, soprattutto Goethe -- e gli inglesi italianati, diavoli incarnati -- Byron, De Quincey, Browning, Tennyson.

In Italia ammira Lucrezio assai Foscolo. 

Lo studio filologico di Lucrezio si inizia con Lachmann. 

VARRONE 

M. Terenzio Varrone, nato a Rieti, e triumviro capitale, questore legato, pro-pretore di Pompeo, nella guerra contro Sertorio tribuno della plebe, pretore legato di Pompeo nella guerra contro i pirati ed ha altri uffici importanti. 

Da prima, nella guerra civile, e legato di Pompeo in Ispagna.

Si trova a Durazzo con Cicerone e Catone il minore.

Ma poi si astenne dal parteciparvi e si pacifica con Giulio Cesare.

Giulio Cesare, al quale Varrone dedica le "Antiquitates rerum divinarum," affidò a Varrone incarico di organizzare una biblioteca, ma fu proscritto da Marc'Antonio.

Varrone puo sottrarsi alla morte, ma le sue biblioteche private vennero saccheggiate. 

Negli anni che seguirono la guerra civile Varrone scrive le opere più importanti. 

E giudicato il più dotto dei romani.

Effettivamente domina tutto il sapere del tempo suo, greco e romano.

Per Varrone lo studio era un bisogno. 

Varrone fu soprattutto uno studioso delle antichità romane che volle rendere familiari ai suoi concittadini, valendosi dei procedimenti scientifici.

Insieme mira a far conoscere in Roma grandi opere d'erudizione. 

Ma non voleva mentre teneva l’occhio fisso sulla vita passata di Roma, rappresentarla soltanto, ma con quello studio, esercitare un’azione sul presente. 

Le opere di Varrone hanno costituito il tesoro cui hanno attinto in seguito, per secoli e secoli, quanti si sono occupati di antichità romana, e hanno così esercitato un’azione fondamentale sulla cultura posteriore. 

Varrone scrive 490 libri, e non si può dire quanti ne abbia composti poi. 

Opere in prosa:

"Libri tres rerum rusticarum"

Scritti grammaticali 

Principale il "De lingua latina", in 25 libri, di cui restano soltanto sei. 

Scritti di storia letteraria.

Si possono ricordare: 

"De poematis" in 3 libri

"De poetis" -- una storia di poeti romani

"De scaenicis originibus", in 3 libri, sulle origini del teatro

"De actionibus scaenicis", in 3 libri; 

Quaestionum Plautinarum libri VI.

Scritti archeologici e stoici 

"Antiquitates rerum humanarum et divinarum" in 41 libri -- l’opera più letta nell’antichità.

"Annalium" libri III. 

Fra le opere politiche:

"De Pompeio" in 3 libri; 

"Legationum" libri ITI. 

Scritti di geografia, di agraria, di retorica, di diritto (fra i quali "De iure civili", in 15 libri). 

Il primo tentativo di un’enciclopedia includente le arti liberali. 

"Disciplinarum" libri IX 

LIBRO 1. De gramatica. 

LIBRO 2. De dialectica. 

LIBRO III De rhetorica. 

LIBRO IV De geometria. 

LIBRO V De arithmetica. 

LIBRO VI De astrologia. 

LIBRO VII De musica. 

LIBRO VIII De medicina. 

LIBRO IX De architectura). 

Con lo studio delle humanae artes, l’uomo dove essere educato ed elevato dalle cose inferiori alle superiori. 

Scritti di oratoria 

"Orationes", in 22 libri, 

Swasio- nes, in 3 libri, 

De lectionibus, in 3 libri. 

Scritti filosofici 

"Liber de philosophia" -- sul fine della filosofia

"De forma philosophiae libri III" -- i principî di filosofia

"De principiis numerorum libri TX -- esposizione delle teorie pitagoriche sui numeri

I Logistorici in 76 libri: 

ogni trattazione porta due titoli:

il nome di una persona e 

l'indicazione del contenuto (per es., "Cato, de liberis educandis"). 

Danno notizia dei "Logistorici" scritti posteriori. 

Secondo alcuni studiosi, I "Logistorici" sono prose in cui dottrine filosofiche si univano a esemplificazioni storiche.

Secondo altri, i Logistorici sono dialoghi (dialogoi) che confermavano con l'esposizione storica tesi filosofiche. 

I "Logistorici" riguardano argomenti d’interesse generale come 

il culto degli dei, 

l’educazione dei figli: 

Opere in poesia: 

 4 libri di Saturae; 

6 libri Pseudo-tragoediarum (tragedie da lettura); 

10 libri di Poemata, o brevi carmi.

È dubbio un poema didascalico. 

Miste di prosa e di versi erano le "Saturae Menippeae" in 150 libri in cui Varrone, a quanto si è pensato, avrebbe preso a modello Eraclide Pontico.

Nelle "Sature Menippee," di cui restano frammenti, Varrone satireggia i corrotti costumi dell’età sua, posti in contrasto con la vita semplice e sana del buon tempo antico. 

Gli argomenti trattati erano talvolta politici, ma soprattutto morali. 

Le Menippee parlavano anche ripetutamente di argomenti filosofici, come le differenze e i contrasti delle varie scuole. 

Varrone dichiara di accettare la filosofia accademica d'Antioco di Ascalona, di cui era stato scolaro.

Effettivamente, Varrone e un eclettico. 

Varrone segue lo Stoicismo, specialmente di Panezio, nello studio della mitologia, e di Posidonio in quello della scienza della natura. 

Dal Pitagorismo Varrone accolge la tendenza verso la concezione mistica dei numeri.

Dal Cinismo, Varrone accolge l'esaltazione della vita semplice e la condanna del desiderio del lusso e del piacere.

Negli studi letterari Varrone accetta la dottrina del liceo. 

Varrone s'interessa soprattutto per i problemi dell'etica. 

Per lui, movente della filosofia è la ricerca dell’eudemonia.

Le differenze importanti delle scuole filosofiche sono soltanto quelle che riguardano la concezione del fine della vita. 

Sotto questo rispetto, distingueva 288 indirizzi filosofici possibili, riducibili a 3 classi principali.

Infatti, il problema fondamentale è quello di determinare quale rapporto si debba porre fra la virtù e ciò che è primo secondo natura.

Sono la prima fine e il secondo mezzo, o viceversa, o ambedue sono fine per sè? 

Siccome si tratta del bene supremo dell’uomo, che risulta di anima e di corpo, esso deve includere i beni dell’una e dell’altro ; sia la virtù che il primo per natura, sono desiderabili per sè. 

Ma il supremo bene è la virtù che è l’arte di condurre la vita, acquistata con lo studio. 

Però, siccome include in sè anche ciò che è il primo oggetto dell'impulso naturale, desidera anche questo per sè stesso.

Essa considera sè come il bene più alto, ma possiede anche gli altri e sa assegnare a ciascuno il posto che gli spetta. 

Il possesso della virtù e dei beni dell'anima e del corpo che ne sono le condizioni costituisce la vita beata.

Se le si aggiungono quelli di cui la virtù può fare a meno, si ha la "vita beatior."

Se poi non manca alcun bene dell'anima e del corpo esiste la "vita beatissima".

La "vita beata" deve esplicarsi in rapporti sociali sempre più vasti che vanno dalla famiglia all'universo e realizzarsi in una connessione di attività teoretica e pratica. 

I principî dei beni e dei mali però non debbono essere puramente verosimili, ma superiori a ogni dubbio. 

In tutte queste teorie, Varrone si mantiene nelle linee direttive della filosofia di Antioco.

Forse segue questo anche quando, avvicinandosi al portico, materialisticamente vede nell'anima un pneuma. 

Adere allo Stoicismo nelle dottrine teologiche in cui identificava il divino all'anima del mondo, le eni parti (cioè le anime che reggono le divisioni dell'universo) sono gli dei celesti, gli eroi, i lauri e i geni. 

Con Panezio e Mucio Scevola, Varrone distingue i tre generi di teologia.

Mentre critica vivacemente la mitologia dei poeti, osserva che le dottrine dei filosofi discordano fra loro e riteneva che avessero one coloro che ammettevano uno solo divinito, l’Anima del mondo.

Quanto alla teologia politica (cioè l'insieme delle istituzioni religiose degli stati), pure riconoscendovi elementi criticabili, riteneva che fosse necessario conservarla per l’utilità della massa. 

Neanche in ciò si può trovare alcunchè che oltrepassi lo stoicismo di Panezio, che si poteva conciliare benissimo coll’eclettismo di Antioco. 

MARCO TULLIO CICERONE 

M. Tullio Cicerone nacque in Arpino, la patria di Mario, da una famiglia di possidenti. 

Cicerone riceve a Roma l'insegnamento di Marc'Antonio e Lucio CRASSO nell’arte oratoria, dei due Mucio Scevola (MUCIO SCEVOLA l’augure e MUCIO SCEVOLA il pontefice massimo) nella giurisprudenza, dell’epicureo Fedro e del neo-accademico Filone nella filosofia. 

Ma il fine e quello di diventare un oratore e ad esso sono subordinati gli altri studi, considerati mezzi necessari per conseguirlo. 

Cicerone inizia la sua attività di scrittore e di avvocato.

Però, per completare la sua cultura, al pari di molti altri romani, si reca in Grecia e in Asia. 

In Atene, Cicerone ascolta diversi filosofi e altri ne udì in Asia e a Rodi. 

Ritornato a Roma, riprende la sua opera di patrono e ottenne la questura e l’amministrazione della Sicilia occidentale. 

Per fare cosa grata ai siciliani che aveva conosciuto, sostenne l'accusa che essi rivolgevano a Verre, di avere come pro-pretore dell’isola commesso abusi di ogni sorta a loro danno. 

Sebbene Verre fosse difeso da uno dei più autorevoli rappresentanti del partito senatorio, Q. Ortensio, dovette spontaneamente recarsi in esilio per sottrarsi a una condanna sicura. 

Cicerone e edile curule, pretore con la giurisdizione sui processi de repetundis, e console. 

Si forma la congiura di Catilina e Cicerone riuscì a soffocala.

Ma se così toccò l’apice della sua carriera politica, si prepara una serie di sventure per il futuro. 

Cicerone e considerato strumento dell’oligarchia senatoria e accusato di aver fatto uccidere senza processo cittadini romani, sicchè i triumviri -- Giulio Cesare, Pompeo, e Crasso -- per toglierlo di mezzo, si valsero del tribuno Clodio perchè proponesse che chi avesse agito così fosse esiliato. 

Cicerone abbandona Roma.

La condanna venne pronunciata contro lui assente. 

La sua lontananza da Roma termina quando, per un decreto dei comizi centuriati, e richiamato, ma ben poco puo fare, sicchè la sua attività politica venne interrotta. 

Ritornato a Roma dopo essere stato pro-console in Cilicia si trova involto nella guerra civile fra Giulio Cesare e Pompeo.

Per qualche tempo, Cicerone esita.

Poi, Cicerone si decise a seguire Pompeo a Durazzo, quantunque comprendesse che il conflitto si sarebbe rivolto in ogni modo con la caduta della libertà. 

Dopo Farsaglia, si reca a Brindisi sperando di ritornare a Roma.

Ma là dovette attendere il ritorno di Giulio Cesare, che lo tratta molto bene e gli concesse di attuare il suo progetto. 

Però di nuovo Cicerone dovette tenersi lontano dalla vita pubblica, che, dopo diverse sventure domestiche, gli si riapre con la morte di Cesare.

Ma ciò produce la sua fine.

Infatti, essendosi opposto con violenza a Marc'Antonio, che assale aspramente nelle "Filippiche," Cicerone venne incluso dai triumviri -- Ottaviano, Marc'Antonio, e Lepido -- nelle liste di proscrizione e ucciso nella sua villa di Formia dai sicari di Marc'Antonio. 

Cicerone coltivato gli studi filosofici.

Ma gli interessi che prova per essi non furono sempre gli stessi. 

Da prima, il desiderio di emergere nella vita politica di Roma per mezzo dell’eloquenza (la via più adatta per un "homo novus"), bene lo induce a ricercare in un’ampia cultura, che include una certa conoscenza della filosofia, il mezzo migliore per conseguire il suo scopo. 

Si comprende quindi perchè Ci-cerone (il quale del resto aveva avuto come maestro Elio Stilone, seguace dello Stoicismo e che, terminati gli studi, era stato dal padre affidato, nel suo tirocinio giuridico e politico, a due giureconsulti insigni che appartenevano alla stessa scuola e che aveva già avuto rapporti con l’epicureo Fedro -- abbia seguito l'insegnamento del capo della Nuova Accademia, Filone di Larissa, che si era recato allora a Roma.

Ma gradatamente, pure vedendo nelle discussioni filosofiche un esercizio utile alla sua attività di oratore (soprattutto l'abitudine dei neo-accademici di sostenere rispetto a una tesi il pro e il contra gli sembrava uno strumento prezioso per quello scopo) comincia a interessarsi direttamente per gli argomenti trattati e ad apprezzarne l'importanza. 

Cicerone segue l’insegnamento di dialettica dello stoico Diodoto. 

Riprende gli studi filosofici ascoltando le lezioni di Antioco d'Ascalona, discepolo di Filone di Larissa e poi suo avversario.

Ciò non impedisce a Cicerone di seguire l'insegnamento di due maestri epicurei, Fedro e Zenone. 

A Rodi, Cicerone studia con Molone.

Ma è probabile che a Rodi Cicerone conosce lo stoico Posidonio che dove poi ricordare fra i suoi maestri e che a Roma e un suo familiare. 

Ritornato a Roma, Cicerone rientra nella vita pubblica e ad essa dedica le proprie attività migliori.

Ma i suoi discorsi, in cui sono abbastanza frequenti gli accenni a questioni filosofiche, mostrano che non trascura gli studi ai quali lo riconducono le relazioni di amicizia che lo stringono a uomini che, come Attico, Varrone, Catone, o Bruto, s’interessavano per esse. 

Quando, dopo il primo triumvirato, e costretto a interrompere la sua attività politica, scrive di argomenti collegati con la filosofia, componendo opere retoriche e politiche, il "De oratore"; il "De republica," il "De legibus".

Cicerone include i suoi scritti retorici tra quelli filosofici, ed effettivamente cerca di mettere in evidenza la necessità di collegare l’eloquenza con la filosofia. 

Questi scritti retorici però non hanno carattere essenzialmente filosofico. 

Dopo le vittorie di Giulio Cesare sui pompeiani, Cicerone deve astenersi dal prender parte alla vita pubblica ed è rattristato, oltre che dalle sofferenze di cittadino per la perdita della libertà romana, da dolori familiari e da preoccupazioni economiche.

Cicerone si volge allora agli studi filosofici per trovarvi conforto, per esplicare in modo degno di lui le sue attività intellettuali. 

Ma principalmente Cicerone vuole servire la sua patria, sia offrendole quella letteratura e quel linguaggio filosofico che ancora le mancavano -- perchè gli scritti degl'epicurei romani erano secondo Cicerone, non soltanto errati nel contenuto, ma anche difettosi nella forma), sia ammaestrando discepoli, se non altro i migliori, a vincere in se stessi la decadenza morale del loro tempo e a prepararsi così a esercitare un’azione benefica nello stato romano.

I primi scritti di quest'epoca, però -- le "Partitiones oratoriae", il "Brutus", i "Paradoxa stoicorum," con- siderati dall’autore un’esercitazione retorica, l’"Orator" -- , riguardano la rettorica, pur collegandola con la filosofia.

Ma subito dopo l’ultima opera, se non anche prima, sembra che Cicerone conceve il programma di presentare ai suoi concittadini in forma facilmente accessibile il contenuto complessivo della filosofia.

L'attuazione di quel proponimento, iniziata con la composizione dell’"Hortensius" e interrotta.

Cicerone si isola nella solitudine della sua villa di Astura presso Anzio e si immerge nella produzione filosofica, scrive sia di giorno che di notte perchè il sonno lo sfugge.

Compone la "Consolatio", gli "Academica", il "De finibus", le "Tusculanae Disputationes", la traduzione di parti del Timeo, il "De natura deorum," il "Cato Maior de senectute," il "De divinatione," il "De fato," il "De gloria," il "Laelius de amicitia," i "Topica" e, infine, il "De officiis."

Segue il "De virtutibus."

L’"Hortensius" costitue un protrettico alla filosofia.

Gl'"Academica" espongono la teoria della conoscenza.

Il "De finibus" e le "Tusculanae" presentano la teoria morale in generale. 

Il "De senectute", il "De amicitia", e il "De gloria", considerano argomenti etici speciali.

Il "De officiis" e il "De virtutibus" trattano dell’etica applicata. 

Alla fisica, o filosofia della natura, che include la teologia, si riferiscono il "De natura deorum," il "De divinatione" e il "De fato."

Dell’opera principale, invece, restano soltanto frammenti della introduzione a un dialogo e della traduzione di una parte del "Timeo."

I "Topica" sono uno scritto di occasione.

Gli scritti filosofici di Cicerone non sono stati raccolti insieme nell’antichità. 

Un corpus comprende "De natura Deorum," "De divinatione", "Timaeus", "De fato," "Topica," "Paradoxa," "Lucullus," e "De legibus."

Che una produzione così rapida non potesse avere carattere originale è chiaro.

E questo fatto e soprattutto ciò che, in una lettera ad Attico, Cicerone stesso dice di quei lavori (Ar6ypupe sunt; minore labore fiunt, verba tantum ajfero, quibus abundo : Ad Att. XII, 52,3) hanno fatto supporre che Cicero si limitasse a *tradurre* e a coordinare testi presi a vari scritti, che si è cercato di identificare facendo uso di ipotesi che si debbono giudicare sempre arrischiate quando l’autore stesso non nomina le fonti che adopera, perchè si sono perdute le opere filosofiche dell’età ellenistica, da Aristotele al tempo di Cicerone.

Del resto, talvolta si ha ragione di non prendere alla lettera certe indicazioni di Cicerone in proposito. 

Ma v'è di più. 

Cicerone stesso più volte limita il significato della sua dichiarazione ad Attico, affermando che si serve delle fonti secondo il suo giudizio (per la scelta delle fonti stesse) e l'ordinamento e ne espone il contenuto nel proprio stile (De off. I, 2,6; De fin. I, 2,6). 

Effettivamente, vi sono cose che i modelli non potevano offrir Cicerone: citazioni di antichi poeti latini, fatti, aneddoti, esempi presi alle tradizioni, alla storia, alla vita di Roma, e non soltanto si è servito di questo materiale indigeno, ma ha dato impronta romana alle cose che esponeva soprattutto in quanto sempre ha avuto presenti alla mente i modi di pensare e di sentire del suo popolo, e propriamente della aristocrazia che Cicerone rappresenta nei suoi scritti e alla quale li destina. 

Di più non mancano casi che portano a ritenere che Cicerone non si sia limitato a tradurre o a ridurre i pensieri d'altri filosofi. 

Ma anche se si ammette l’opera personale di Cicerone nella presentazione di una determinata dottrina, occorre ricordare ciò che è stato già osservato sul carattere essenzialmente ipotetico delle ricerche fatte per scoprire le sue fonti, che del resto hanno condotto più volte a conclusioni assai diverse tra loro. 

È soltanto con tali riserve che si può parlare delle fonti ciceroniane. 

Quanto alla forma, gli scritti filosofici di Cicerone, con poche eccezioni (la "Consolatio", L'"Orator", i "Paradoxa" -- questi del resto, per il loro carattere di diatriba, si avvicinano al dialogo -- hanno forma dialogica. 

Essa non e una novità per i romani.

L'usano C. Marco Giunio Bruto il giurista in un’opera "De jure civili" e più tardi, C. Sceribonio Curione, in uno scritto che era un’invettiva contro Giulio Cesare. 

Però Cicerone modella il dialogo filosofico su quelli derivati nelle loro varie forme dalla conversazione socratica, di cui ci danno una rappresentazione soprattutto gli scritti platonici del cosidetto periodo socratico. 

Molti filosofi successivi, pure riprendendo il modello antico, lo atteggiarono in vari modi.

Cicerone conferma l’opera sua a quei diversi esempi, ma in complesso, l'autore che esercita l’influsso maggiore sulla forma artistica dei dialoghi ciceroniani è Platone. 

Quanto al contenuto, ben raramente, in generale, Cicerone attinge per l'insieme in modo diretto alle opere dei maggiori pensatori, Platone, Aristotile, Crisippo, Epicuro.

Si serve invece principalmente degli autori posteriori ed anche di compendi e di trattati popolari. 

Per eccezione, nei primi due libri del "De officiis", si attiene strettamente a Panezio che riassume. 

Si osserva infatti una progressiva attenuazione della libertà con cui Cicerone si e servito delle fonti degli scritti più antichi. 

Forse lo scritto più antico di Cicerone riguardante argomento filosofico è la traduzione dell’ Ecomomico di Senofonte, di cui rimangono frammenti.

Però è un semplice esercizio stilistico. 

Nei he- toriei libri, o "De inventione" (ec. 80) appaiono influssi filosofici svariati.

Già Cicerone si dichiara seguace del portico neo-accademico e mostra di aderire a Filone di Larissa.

Inoltre lo scritto di Cicerone rivela l’azione di pensieri platonici, probabilmente mediati da altri, e stoici. 

Come in opere posteriori, vi è affermata da Cicerone l’esigenza che un oratore possede cultura filosofica.

La stessa tesi è sostenuta nel "De oratore libri III", scritto quando infuriano le lotte fra Milone e Clodio, che include dottrine neo-accademiche e stoiiche, specialmente di Panezio e di Posidonio, ma rielaborate in modo personale. 

Per la forma e il contenuto, il "De oratore" rivela influssi platonici. 

Contro i retori e l’insegnamento delle scuole, che facevano consistere tutto nelle REGOLE, PRESCRIZIONI O MASSIME, Cicerone afferma che, per conversare bene occorre pensare bene e conoscere gli argomenti di cui si parla. 

Per conseguenza, il fondamento dell’arte della colloquenza deve ssere la cultura generale, cioè l'insieme di quella conoscenza che e degna di un uomo libero, tra le quali emergono il diritto civile e la storia, ma soprattutto la filosofia in quanto tratta dei *concetti* generali che si riferiscono a tutti i casi particolari di cui si puo parlare.

Tra le discipline filosofiche, Cicerone attribuisce importanza particolare non alla logica -- che equivale alla colloquenza medesima, ma all'etica, che tratta dei costumi e della vita sociale.

Siccome il pensiero è inseparabile dall’espressione, è necessario per Cicerone stabilire un nesso di filosofia e di eloquenza, come venne poi spezzato da Socrate e dai suoi continuatori. 

Il "De republica", in 6 libri (ne doveva includere 9), venne finito dopo vari mutamenti del piano e della composizione.

E dedicato al fratello Quinto Cicerone. 

Il dialogo ha diversi personaggi del circolo degli Scipioni.

Il principale interlocutore e Scipione Emiliano, ma vi interviene ripetutamente C. Lelio. 

Il tema è "De optimo rei publicae statu."

Rimangono una parte del Libro VI, denominata "Somnium Scipionis",  citazioni o riassunti di Lattanzio e di Agostino ei frammenti scoperti da A. Mai in un palinsesto vaticano. 

Nell’introduzione, in cui è notevole la preferenza data agli statisti ed ai legislatori sui filosofi, Cicerone mette in rilievo che è dovere occuparsi dello stato romano.

Nel libro I, Emilio Scipione, dopo aver trattato dell’essenza e dell’origine dello stato romano, distingue le tre forme pure degli ordinamenti politici -- monarchia, l’oligarchia e democrazia -- parla delle loro degenerazioni e stabilisce che il miglior regime è quello che sostanzialmente coincide con la costituzione di Roma. 

Nel libro II, per mostrare come l’ideale si attua, Cicerone segue lo svolgimento di questa fino al decemvirato. 

Il libro III prova che il giusto deve essere il fondamento dello stato romano.

Il LIBRO IV tratta delle istituzioni, che, a cominciare dall’educazione, doveno assicurare ai romani una vita morale e felice.

IL LIBRO V considera la formazione del rector rerum publicarum.

IL LIBRO VI continua il precedente. 

Nel Somnium, Emilione Scipione L'Affricano minore narra che, in un sogno, il suo avo, l’Africano Maggiore, gli ha rivelato come ritornino alla sede celeste da cui sono usciti e quali premi conseguano coloro che si sono resi benemeriti della patria. 

Fonte principale per la forma e per molti pensieri è Platone, di cui riappare nel Sogno la svalutazione della vita terrena. 

Da lui, da Aristotele e da Dicearco proviene, per mezzo di Panezio, la tesi che lo stato misto è il migliore.

Per il contenuto pare che l’opera (nei libri II e III) dipenda soprattutto da Panezio, ad eccezione del Sogno, che si ritiene derivato da Posidonio o da questo e da Platone.

Si è anche sostenuto che alcune parti debbono probabilmente collegarsi al Protrettico e al De philosophia di Aristotele che rispecchiano il platonismo del edone. 

Riporta a Polibio (1. II) lo studio dello svolgimento dello stato romano, in cui Cicerone certamente si è servito di fonti patrie.

Per il libro III si pensa anche a Carneade e a Crisippo. 

Del "De legibus" rimangono tre libri che promettono il IV e un frammento del V. 

Ma forse l’opera ne includeva anche altri. 

Questo dialogo filosofico, che si pone in Arpino, e poi in un’isola del fiume Fibreno, e poi presso il Liri, ha per interlocutori Cicerone medessimo, il fratello Quinto Cicerone, e Attico. 

Argomento: la leggi migliore. 

Il libro I tratta del diritto naturale e del concetto medesimo di legge. 

Cicerone mostra che il diritto si fonda non nell'opinione dei romani, ma in una legge insita alla natura e che esso diritto, e in generale ciò che è moralmente lodevole (honestum), deve essere ricercato per sè, non per fini interessati. 

Il libro II ci mostra che la legge di Roma dove derivarsi dalla natura e ne offre un piano stando al modello che è presentato da essempli della legge di Roma che si avvicinano alla natura.

Poi si determinano la legge della religion.

Nel libro III, se determina la legge del magistrato.

Il libro IV tratta De judiciis.

Il Libro V, De educatione. 

Il modello sono le "Leggi" di Platone sia per la forma, sia, in varie cose, per il contenuto. 

Sono citati molti altri autori greci (1. III), ma forse secondo una fonte del platonismo recente (Antioco d’Ascalona, a parere di alcuni). 

Per i libri I e III si considera fonte Panezio o Antioco o Crisippo.

Per il libro I, in particolare, secondo alcuni fonte principale è Posidonio, secondo altri Posidonio, Panezio e Antioco, o un manuale stoico rispecchiante la mentalità del tempo di Antipatro. 

Il libro II utilizza Posidonio e fonti romane usate anche per il libro III. 

Heinemann ritiene che la filosofia del diritto del De republica e del De legibus, specialmente nel libro I (anche se riportano a pensieri dello Stoicismo Antico), derivino da Posidonio. 

Le "Partitiones oratoriae" costituiscono un manuale di retorica, composto dietro domanda del figlio, nella forma di un dialogo tra questo e il padre, in cui Cicerone pone alla base della eloquenza la conoscenza della filosofia.

Vi si notano influssi dell'Accademia e di Antioco. 

Il "Brutus" è un dialogo fra Cicerone, Bruto e Attico, scritto dopo la vittoria di Cesare a Farsaglia.

Il "Brutus" contiene una storia dell’eloquenza romana sotto la repubblica, che viene presentata come processo ascendente che culmina in Ortensio, che a sua volta deve considerarsi inferiore a Cicerone -- di cui non è fatto il nome -- appunto perchè Cicerone, e non Ortensio, possede quella cultura generale e soprattutto filosofica che è condizione necessaria della ottima eloquenza. 

Sono interessanti le notizie sul giudizio che le tre scuole filosofiche degli stoici, degli epicurei e dell’eclettismo accademico, davano sull’eloquenza e sulla carriera di Cicerone come oratore e filosofo. 

I "Paradoxa Stoicorum", dedicati a Bruto, presentano in forma retorica tesi caratteristiche della morale stoica, valendosi di argomenti usati nella diatriba cinico-stoica, ma corredati di esempi romani.

Cicerone si serve di un trattato di filosofia popolare sull’argomento. 

Nell'"Orator", pure dedicato a Bruto, è tracciato il ritratto del. l'oratore ottimo, che coincide con quello di Cicerone. 

Cicerone ribadisce la necessità di congiungere l’eloquenza con la filosofia e mette in luce il valore della conoscenza della logica, della fisica e dell’etica per l’oratore. 

Cicerone scrive anche una "Consolatio" sul tema De moerore minuendo. 

Include quella svalutazione della vita che appare nel Sogno e poi nelle Tusculane. 

Le citazioni che ne restano provengono principalmente dallo stesso Cicerone, poi da Lattanzio. 

Come fonti, si serve di Crantore (che egli stesso cita) e probabilmente di uno scritto consolatorio popolare. 

Si è perduto anche l’"Hortensius", di cui restano numerosi frammenti e testimonianze. 

Quest’opera, con cui Cicerone inizia la attuazione del progetto di presentare ai romani tutta la filosofia, era cominciata prima della Consolatio e finita prima degli Academici priores. 

L'"Ortensio" e un dialogo filosofico fra Cicerone, Ortensio, Lucullo e Catulo e costitue un’esortazione allo studio della filosofia, di cui prende la difesa contro gl'avversari. 

Fonte principale e il Protrettico di Aristotele.

Vi è chi pensa anche a Posidonio e ritiene anzi possibile che da lui derivino gli elementi aristotelici dello scritto di cui sarebbe la fonte principale. 

In ogni modo, vi si incontrava lo scetticismo del pensiero ciceroniano. 

L'"Ortensio" trova gran favore in seguito ed Agostino testimonia che e usata nelle scuole come introduzione alla filosofia. 

Cicerone compone un Volumen prohoemiorum, non pubblicato, dal quale toglieva i prologhi da premettere ai suoi scritti. 

Degl'"Academici libri", Cicerone stese due redazioni, gl'"Academici priores" in due libri (i cosidetti Ac. priora) e gli Academici libri quattuor (gli Ac. posteriora). 

Degli Ac. priores resta il II libro (Lucullus: il I, Catulus, si è perduto).

Degli Ae. libri IV, il I libro, frammenti e testimonianze. 

Gli Ac. priores sono trati a termine ad Astura.

Gli'Ac. libri IV, in Arpino. 

Le due opere avevano forma dialogica.

Negli Ac. priores figurano come interlocutori Cicerone, Ortensio, C. Lutazio Catulo, e L. Licinio Lucullo.

Il dialogo del "Catulus" ha per sede una villa di Cicerone sulla costa campana.

Quello del Lucullus, ha per sede una villa di Ortensio presso Bauli.

Il "Catulus" contene un’esposizione, fatta da Ortensio, dello sviluppo delle scuole socratiche sino a Filone e ad Antioco.

Poi Catulo presenta, contro l’interpretazione filoniana, la teoria autentica di Carneade. 

Nel "Lucullo," Lucullo sostiene le dottrine di Antioco contro quelle di Carneade.

Poi è confutato da Cicerone. 

Siccome Catulo e Lucullo non sono adatti per sostenere discussioni scientifiche, Cicerone pensa di sostituirli con Catone e Bruto, poi, per soddisfare il desiderio di Varrone che gli fosse dedicata quell’opera, ne mutò di nuovo il piano. 

Gli Ac. libri IV, hanno per interlocutori Cicerone, Varrone e Attico, per sede la villa di Varrone presso Cuma, vicino a quella dell'autore, ove era posto il dialogo dei libri III e IV.

Il contenuto differe poco da quello dello scritto precedente. 

Varrone, invece di Ortensio, espone lo svolgimento delle scuole filosofiche fino a Carneade (è l’unica parte rimasta) e sostituisce Lucullo nel difendere le teorie di Antioco.

Contro di lui Cicerone, che ha preso il posto di Catulo nell’esporre le tesi di Carneade, difende lo scetticismo neo-accademico. 

Per le fonti del "Catulo" e del libro I degl'"Ac. libri IV", si suppone che l’esposizione storica delle teorie dei dogmatici fino a Zenone deriva da Sosos d'Antioco, quella dell'Accademia da Filone. 

Nel "Lucullo" Cicerone usa Sosos per l'esposizione luculliana, mentre per la replica dell'autore alcuni si riferiscono a Clitomaco che aveva presentato le teorie di Carneade. 

Secondo un’altra opinione, qui la fonte sarebbe un’opera di Filone (scritta per rispondere alle critiche dell’antico discepolo), dalla quale proverrebbe anche il richiamo & Clitomaco. 

Cicerone scrive in forma di lettera un ovpfovievtixév a Cesare, in cui gli rivolgeva consigli e lodi.

Ciccome gli amici del dittatore richiedevano molte modificazioni, Cicerone decide di non spedirlo e di distruggerlo. 

Cicerone progetta la stesura di un dialogo politico, sul genere di Dicearco, ma non se ne occupa più. 

Cicerone accenna al "De finibus bonorum et malorum" (finis — estremum, ultimum, termine ultimo) che scrive contemporaneamente agli Academici e porta a termine, dedicandolo a Bruto.

"De finibus" mira all'esposizione sistematica di una teoria personale.

Cicerone vuole esporre quelle dei diversi filosofi e le critiche che hanno suscitato. 

In sostanza, Cicerone si limita alle dottrine dell’Epicureismo, dello Stoicismo e dell’eclettismo di Antioco d'Ascalona. 

Il "De finibus" comprende tre dialoghi.

Il primo dialogo include i libri I-II, ed vviene in una villa di Cicerone a Cuma.

Il primo dialogo ha per interlocutori Cicerone, C. L. Manlio Torquato, e C. Tricario. 

Torquato, nel libro I, espone la teoria epicurea che pone il bene nel piacere e Cicerone la confuta nel libro II. 

Il secondo dialogo, che comprende i libri III e IV, ha per interlocutori solo Cicerone e M. Porcio Catone ed ha luogo in una villa Tusculana di Lucullo. 

Catone sostiene la teoria stoica, secondo la quale il sommo bene è l’honestum (la virtù) e tutte le altre cose sono indifferenti.

Cicerone la critica e afferma che lo stoicismo non ha fatto altro che riprendere le dottrine dei Platonici e degli Aristotelici, mutando soltanto i termini usati. 

Nel terzo dialogo (Libro V) figurano come interlocutori Cicerone, suo fratello Quinto Cicerone, il loro cugino Lucio Cicerone, Attico e M. Pupio Pisone Calpurniano. 

Questo terzo dialogo ha luogo in Atene, nell'Accademia.

Pisone sostiene la teoria di Antioco, per cui la vita beatissima include i beni dello spirito e del corpo, ma anche senza i secondi può esistere la vita beata. 

Cicerone solleva brevi obbiezioni. 

Secondo Schanz, unica fonte sicura è Antioco per i libri IV-V. 

Altri parlano di Epicuro o di un epicureo recente (Zenone, o Fedro o Filodemo) per il libro I, di Crisippo o di Panezio o di Antioco per il libro II, di una fonte stoica (Crisippo, o Diogene di Babilonia o un autore recente dipendente da questo o Antipatro o uno storico conosciuto da Cicerone) per il libro III. 

Si è pensato anche a Ecatone, ad'Antioco e a un’epitome di scritti di molti filosofi e qualcuno ha considerato Antioco la fonte delle critiche dei libri II, IV e V. 

"Tusculanae disputationes," in cinque libri, dedicate a Bruto, completano il "De finibus", e lo seguirono immediatamente.

Si suppone che il dialogo delle Tusculane ha luogo nella villa ciceroniana di Tuscolo tra due interlocutori non nominati. 

I due dialoganti dei Tusculane trattano delle cose che sembrano soprattutto necessarie per vivere felicemente ed ha carattere popolare perchè si rivolge ad un pubblico più esteso di quello al quale erano rivolti gli scritti precedenti. 

Da prima (1, I) si prova che l'uomo saggio non ha paura della morte (riappare qui, ce. 34-36, quella intuizione pessimistica della vita che, accennata nel Sogno, è sviluppata nella Consolatio), che non teme i dolori del corpo (1. II); che è inaccessibile alla tristezza (1. III) e alle altre passioni (1. IV). 

Da ciò risulta già la tesi che viene più ampiamente provata nel Libro V, che la virtù o la saggezza basta da sola o quasi a far conseguire la vita felice, perchè è l’unico bene (Stoicismo).

Anche se ve ne sono altri, è tanto superiore ad essi che chi la possiede è nella massima parte felice (Peripatetici, Antioco). 

Cicerone mostra di preferire la tesi stoica, ma non si decide in modo preciso. 

In complesso, sebbene anche nelle "Tusculanae" Cicerone dichiari di seguire l'Accademia, l’opera ha carattere stoico e si ispira soprattutto allo Stoicismo Medio, platonizzante. 

Con ragione, Schanz affermato che la determinazione delle fonti è più difficile per le "Tusculanae" che per gli altri scritti ciceroniani; perciò si sono presentate in proposito ipotesi svariatissime.

Hirzel è il solo che parlato d’una fonte unica, un’opera di Filone, perchè tutti gli altri critici ne ammettono varie. 

Libro I: Posidonio ; Posidonio e Crantore ; ambedue e Dicearco; Antioco; questo e anche in parte Crisippo. 

Secondo altri, per la prima parte (immortalità dell'anima) Platone per la disposizione, un trattato popolare, uno stoico contemporaneo e altri scritti (la Consolatio e le sue fonti).

Per la seconda parte principale quella usata nella precedente e nella Consolatio (un ampliamento di Crantore forse usato in tutto il libro I). 

Per certi punti, Cicerone, come nel Somnium Scipionis, usa il Protrettico e del De philosophia aristotelici.

 Per il libro II, uno stoico recente.

Di solito si pensa a una lettera di Panezio a Q. Tuberone.

Libri III-IV: Crisippo e Diogene di Babilonia molto rielaborati o Antioco o uno stoico recente che si è attenuto a Crisippo. 

Fonte parziale Posidonio. 

Per il libro III: Antioco o uno stoico (che secondo alcuni è Posidonio) o entrambi. 

Per il libro IV: Crisippo. 

Per il libroV : Posidonio, Antioco e un epicureo (Zenone o Fedro); o Posidonio e Antioco ; o uno stoico recente e un epicureo ; e per la prima parte una fonte stoica recente, per la seconda Antioco, un epicureo e trattati senza una posizione filosofica precisa per la dossografia. 

Sono posteriori al "De finibus" le traduzioni di due opere platoniche, il "Protagora," completa, e il "Timeo."

Di questa resta una parte ed è presumibile che Cicerone non volesse tradurre tutto il dialogo platonico.

Cicerone vuole includere la traduzione in un dialogo che intende comporre sulla filosofia della natura in cui interlocutori dovevano essere egli stesso, il neo-pitagorico Nigidio Figulo e il peripatetico Cratippo, da lui incontrati in Efeso, ai quali era affidato l’ufficio di esporre le teorie fisiche delle loro scuole. 

Ci- cerone intendeva, sull’esempio di Carneade, criticare i fisici, 

Il "De natura deorum libri tres" venne finito dopo la pubblicazione delle Tusculanae.

E dedicato a Bruto. 

Nelle ferie latine Cicerone si reca da Gaio Aurelio COTTA l’accademico e vi incontra l’epicureo Gaio Velleio e lo stoico Quinto Lucilio Balbo. 

Cicerone segue l’Accademia.

Gl'altri tre sono chiamati principes delle loro scuole. 

Queste persone discutono della natura degli dei. 

Nel libro I, Velleio, dopo avere polemizzato contro Platone e lo Stoicismo, delinea lo sviluppo delle teorie teologiche da Talete a Diogene di Babilonia e poi espone quella di Epicuro, che è confutata da Cotta. 

Nel libro II, Balbo presenta la teoria stoica sull'*esistenza* degli dei, sulla loro natura, sul loro governo del mondo e sulle cure ehe hanno per gli uomini. 

Nel libro III, Cotta segue questa ri-partizione nella sua confutazione allo Stoicismo.

In questo libro esiste una notevole lacuna (mancano la fine della parte 2a, quasi tutta la 34 e parte della 4%). 

Alla fine, Cicerone, sebbene seguace della Accademia, dichiara di trovare più verosimile delle altre, l’opinione di Balbo. 

Per le parti storiche del libro I sarebbe fonte Filodemo, per quelle non storiche Zenone l’Epicureo; o per tutte Zenone o Fedro o Filodemo o una pluralità di autori. 

Per la critica dell’Epicureismo si è pensato a Carneade, mediato da Clitomaco o da Filone, o a Clitomaco e a Posidonio. 

Per il libro II sarebbero fonte Panezio (in gran parte) o Posidonio; o Posidonio e uno scritto neo-accademico (Filone che attingeva a Carneade); o Posidonio, Antioco e un manuale stoico (una raccolta di opinioni di filosofi, soprattutto in forma di sillogismi) ; o Posidonio, Apollodoro, Panezio e altri; o Crisippo, Panezio, Posidonio; o un manuale stoico e una fonte stoica. 

Fonte del libro III del "De natura deorem" e in ultimo Carneade, mediato però da Clitomaco o da Filone. 

Il De natura Deorum e molto usato.

A quell’opera segue il De divinatione e il De fato. 

Il De divinatione Il. duo, che però sono preceduti dal De senectute, sono pubblicati poco dopo la morte di Giulio Cesare. 

Il dialogo si svolge tra Cicerone e il fratello Quinto Cicerone, nella villa di Tuscolo.

L'oggetto proprio dell’opera è combattere la *superstizione* collegata con la divinazione, senza danneggiare la religione. 

Nel libro I è da prima esposta la storia della mantica e della critica di essa.

Poi, Quinto Cicerone difende la teoria stoica e dichiara che occorre fondarsi sui fatti numerosi offerti. dall’esperienza che la attestano, anche se non si riesce a darne ragione. 

Nel libro II, Cicerone critica la teoria esposta dal fratello. 

Fonte principale del libro I si ritiene PoSidonio, una parte secondaria è data a Cratippo. 

Gran parte della. critica del libro II è derivata da Carneade, probabilmente per mezzo di Clitomaco.

La confutazione dell'astrologia proviene da Panezio. 

Inoltre è chiaro l’uso di fonti romane. 

Anche il De fato, come il De divinatione, scritto dopo il De senectute, serve a completare il De natura Deorum, stato composto dopo la morte di Cesare, ma nelle linee generali può essere stato disegnato prima. 

Il "De natura deorum", che ci e giunta con lacune, consistere in un dialogo filosofico nel Puteolanum di Cicerone, tra Cicerone e il console Irzio al quale lo seritto così e dedicato.

Ma siccome l’interlocutore non possede cultura filosofica, Cicerone dove esporre la teoria stoica fato omnia fiunt. 

Cicerone, che già da molto tempo sì era fortemente interessato del problema della libertà, rileva l'incertezza di Crisippo tra questa e la necessità e mostra di essere convinto dell’esistenza del libero volere dell'uomo. 

Fonte principale si ritiene Carneade (o Clitomaco).

Alcuni parlano di Antioco. 

Il Cato maior de senectute e scritto da Cicerone prima E di avere portato a termine il De natura Deorum e il De divinatione.

Dedicata ad Attico, il "Cato maggiore" contiene un dialogo filosofico avvenuto tra Catone il Censore, Scipione Emiliano e C. Lelio.

Catone difende la vecchiaia dalle accuse che le sono rivolte. 

L’autore ricorda uno scritto sull’argomento di Aristone Chius (lo stoico di Ceo o il peripatetico di Chio?); ma si è pensato anche a Posidonio, a Teofrasto, a un trattato popolare derivato forse da una diatriba di Bione. 

La fonte primitiva si può considerare un testo della Repubblica platonica (I, 328 sgg.). 

Alcuni passi vengono collegati a Senofonte.

 L’opera, che si serve di molto materiale romano, ha in seguito numerosi lettori, 

Pure dedicato ad Attico è il "Laelius de amicitia", che segue il De senectute e precede il De officiis.

Il "Lelio" e un dialogo che si suppone avvenuto nella casa di Lelio, amico di Scipione il Minore, dopo la morte di questo, e i suoi generi C. Fannio e Q. Mucio Scevola. 

Per la fonte principale si è pensato a peripatetici (Aristotele o Teofrasto o tutti e due) o a Panezio che si sarebbe servito di pensieri dei due filosofi ricordati, o a Panezio e Teofrasto. 

Fu molto conosciuto e apprezzato e venne ricordato d'Alighieri nel Convivio, II, 13. 

Si è perduto il "De gloria", in due libri, scritto dopo il De amicitia. 

Fu iniziato in Tusculo.

Ne restano pochi frammenti.

Probabilmente Cicerone ha attinto al libro sui doveri di Panezio. 

L’Herakleideion, al quale Cicerone accenna in lettere, doveva essere una *difesa*, in forma dialogica, dell’uccisione di Giulio Cesare. 

I "Topica", composti in un viaggio per mare da Velia a Rhegium e dedicati al giureconsulto Trebazio, sono essenzialmente un’opera retorica di carattere tecnico. 

Cicerone se serve della memoria, senza aiuto di libri, valendosi delle sue letture precedenti e delle lezioni dei suoi maestri. 

È dubbio che Cicerone abbia letto l’opera omonima di Aristotele, che egli cita. 

Molto più importante e il "De officiis", in tre libri, composto dopo il Lelius e il De gloria. 

Venne portato a termine dopo il ritorno di Cicerone a Roma.

È però difficile che quest'opera, dedicata al figlio, sia stata pubblicata dall'autore, perchè vi manca l’ultima mano. 

Oggetto: i media officia (rà xadhxovta degli stoici). 

Nel libro I si considerano il dovere morale (l’honestum).

Nel libro II si considera il dovere dell'utilità, che però non è separabile dall'onesto.

Il libro III tratta dei possibili conflitti tra l'honestum e l'utile, cioè dei casi in cui, malgrado il principio generale che il primo deve anteporsi al secondo, può restare dubbia la decisione. 

L’opera, che ha carattere stoico, nei due primi libri segue II, toò xa9MMxovtos di Panezio, in tre libri, però con abbreviazioni da una parte, con ampliamenti dall’altra, in quanto Cicerone si serve di materiale attinto alla vita e agl'essempli della storia di Roma.

Si ammette che alcune parti di quei libri provengano da Posidonio o dai xep4Axtx di Atenodoro Calvo o Sandonio. 

Si ritiene che nel libro III, in cui è trattato un argomento omesso da Panezio, Cicerone si sia servito di Atenodoro o di questo, di Posidonio e di Ecatone, forse di altri. 

Il "De officiis" è molto letto e ammirato. 

Il "De officiis" sirve di modello a Ambro- gio per il "De officiis clericorum."

Nella moderna, la teoria del prepon ha esercitato un’azione sui moralisti inglesi, su Kant, su Schiller e su Herbart. 

Non senza esagerazione Voltaire e Federico il Grande giudicano "De officiis" la migliore etica che conoscessero. 

Un’integrazione del 'De officiis" e il "De virtutibus" in un libro, che si occupava delle quattro virtù cardinali: la prudenza, la prudenza, la prudenza, e la prudenza.

Ne rimangono soltanto due frammenti. 

Le opere filosifiche di Cicerone so molto lette e diffusi.

Alcune sono usatè nelle scuole (ciò avvenne per l'"Hortensius")

Ma esercitano un’azione piuttosto con la forma artistica che col contenuto. 

Si studiano con intensità quando l’aristocrazia di Roma vi ricercava una difesa delle credenze avite.

Si può ricordare il commento di Macrobio al Somnium Scipionis.

Minucio Felice nell’Ottavio, Lattanzio, e Girolamo, sono imitatori appassionati di Cicerone, il cui De officiis forma il modello del De officiis clericorum d'Ambrogio, destinato ad avere un’importanza fondamentale 

Agostino, che riconosce che dall’Hortensius è stato spinto verso lo studio della filosofia ha formato sugli Academica la propria gnoseologia, che ha esercitato un'azione sino al Descartes.

Però nella sua ultima fase Agostino si avvicina a una corrente ostile a Cicerone.

Per l’opera di Cassiodoro e dei monaci che ne seguirono le direttive, i testi dei filosofi romani sì sottrassero alla distruzione di cui erano minacciati, sicchè, dopo un periodo di trascuranza, la rinascenza carolingia puo ritornare ad essi e preparare nuovi manoseritti dai quali, in generale, derivano quelli che noi possediamo. 

Nell’età scolastica Aristotele domina il pensiero filosofico, mentre tra gli filosofi romani il più ammirato e studiato fu VIRGLIO, sia come poeta, sia come colui che nell’Eneide aveva rappresentato.

Cicerone compose anche orazioni, lavori storici e geografici, poesie e lettere, e vicende dell'anima nella via della r enzione.

Però anche Cicerone trova cultori e tra egli Alighieri che lo incontra tra gli abitanti del nobile stello del Limbo (Inf. IV, 141), lo menziona spesso, ricorda vari suoi seritti e dichiara che dalla lettura del De amicitia è stato spinto allo studio della filosofia. 

Petrarca sceglie Cicerone come guida perchè vede in lui (e così dovevano fare gli Umanisti) l’esempio e il maestro della libera agita e della personalità. 

Petrarca ne ammira ed esalta anche insegnamento filosofico.

Ma gl'umanisti in ciò si allontanano da Petrarca, perchè all’Aristotele della scolastica contrappongono o l’Aristotele autentico (quale essi l’intendono) o un Platone che però vedono spesso con gli occhi del Neo-Platonismo.

In Cicerone si interessano piuttosto all’arte dello scrittore che al pensiero del filosofo.

Però si rivolgono a Cicerone perchè nel "De officiis" gl'umanisti vedono rappresentato quell’ideale dell'umanità che prediligono. 

Il latino divenne l'unica lingua dotta, e i scritti di Cicerone occupano un posto d’onore negl'istituti di tipo umanistico per tutta l'Europa.

Le scuole dei Gesuiti fra i cattolici, le scuole latine tra i riformati agirono sulla cultura non soltanto con la forma, ma anche col contenuto, in quanto contribusce fortemente a formare la coscienza della classe superiore.

D’altra parte, l’illuminismo deriva da Cicerone sia diverse teorie positive, e specialmente il concetto di natura, sia la critica scettica della metafisica razionale.

Il "De officiis" trova ammiratori, tra i quali Voltaire e il Gran Federico. 

Si collegano all’insegnamento di quest'opera i moralisti dell’indirizzo sentimentalista quando pongono nel sentimento estetico le radici del giudizio morale e così aprono la via a teorie che dovevano essere sviluppate da Kant, da Schiller e poi da Herbart. 

Il neo-umanesimo attinse a Cicerone e quindi anche a Panezio il suo ideale dell'umanità. 

Una presentazione, sia pure schematica, delle idee filosofiche esposte da Cicerone presenta difficoltà per le numerose e fèrii incoerenze che includono, le quali dipendono in parte dall’uso di fonti diverse.

Ma le icoerenze hanno per origine generale la mentalità di Cicerone, che non sente il bisogno di connettere i suoi pensieri in modo organico.

Cicerone si compiace di rimproverare agli altri filosofi e specialmente ad Epicuro, le incoerenze in eni cadono, si vanta quasi, come se ciò costituisse la prova della sua libertà intellettuale, di accettare in momenti diversi teorie contrastanti, se ora l'una, ora l’altra, gli sembra più probabile e crede che questo procedimento risulti dal suo atteggiamento gnoseologico. 

Ma, effettivamente, il probabilismo che Cicerone accetta esigere che, in tali casi, riconosciuto il conflitto delle diverse opinioni, si mettesse in luce che esse non possono accettarsi insieme e che perciò le une o le altre almeno non possono essere accolte. 

Secondo Cicerone, occorre partire da un fatto indiscutibile, il nostro desiderio della felicità che ci spinge a filosofare. 

Così si coglie un quid che supera la sfera della probabilità, per la sua natura soggettiva che non implica alcuna dubbiezza.

Ma, in tal modo, si mette anche in luce la funzione essenzialmente pratica che Cicerone attribuisce alla filosofia.

Sebbene Cicerone riconosce che, nell’uomo, esiste un innato desiderio di sapere e afferma che nelle isole dei beati non vi sarebbe posto per le virtù morali, ma ve ne resterebbe per la conoscenza della natura e per la scienza che sola fa lodare la vita degli dei. 

Per Cicerone, che segue la tendenza generale del pensiero romano, ma soprattutto esprime le proprie convinzioni e le proprie preferenze personali di uomo d’azione, che nella filosofia ricerca una guida per la condotta e un rifugio dalle tempeste della vita, la conoscenza è preparazione all’azione e rimane monca se non si realizza in essa. 

L’azione è superiore alla conoscenza.

Perciò, si debbono porre gli statisti e i legislatori più in alto dei pensatori meramente speculativi.

La parte più importante e più interessante della filosofia è la teoria morale. 

Il problema filosofico essenziale è quello del sommo bene o dell’ultimo fine che coincide con quello della felicità, dalla cui soluzione dipende tutto il resto. 

Talvolta Cicerone parla di un altro problema decisivo, perchè menziona anche quello del criterio del vero.

Ma le due affermazioni si possono accordare, perchè si può vedere nella soluzione del secondo, Ja condizione delle costruzioni filosofiche da cui dipendé quella del primo. 

La ricerca filosofica deve chiedersi all’inizio quale certezza abbiano le conoscenze che superano quel dato soggettivo da cui essa riceve l'impulso. 

Ora, Cicerone si dichiarato seguace dello scetticismo della Nuova Accademia e in particolare del probabilismo di Carneade, ma effettivamente ha subito in modo profondo l’azione di Filone di Larissa (che gli era stato maestro), che aveva assai attenuato il pensiero del suo predecessore e soprattutto si è avvicinato al discepolo, poi avversario del Larisseo, Antioco di Ascalona, di cui ha accettato l’eclettismo, in modo da far sue numerose dottrine platoniche, peripatetiche e particolarmente stoiche. 

Del resto, anche per conto suo, Cicerone ha mitigato le andaci critiche di Carneade.

Così, se al pari di questo ritiene che è impos- sibile trovare un criterio che permetta di distinguere con sicurezza le rappresentazioni vere dalle false, cioè la verità dall’errore, e che perciò non si può pretendere di possedere alcuna conoscenza certa, fonda il suo dubbio soprattutto sui contrasti esistenti fra le dottrine altrui, mentre quel filosofo e gli scettici precedenti lo avevano giustificato essenzialmente con l’esame diretto dei problemi. 

CARNEADE, per respingere l’obbiezione degli avversari che il dubbio scettico rende impossibile l’azione, aveva sostenuto che questa può regolarsi secondo la probabilità (pithanon, probabile piuttosto che "verosimile" -- eikos -- come traduce Cicerone -- e distinto vari gradi di essa.

Così la teoria del probabile [Grice, Pro-bability] compe un ufficio puramente pratico e ha un posto subordinato di fronte allo scetticismo generale.

In Cicerone la posizione si rovescia, perchè, discutendo il pro è il contra delle tesi sostenute dagli altri filosofi, cerca di determinare quale sia la più probabile e in tal modo, al pari di Filone, estende il concetto di "pithanon" a tutta la sfera della conoscenza. 

Soprattutto pate che, per Cicerone, la critica scettica costituisca, per così dite, l'introduzione a una teoria del probabile che occupà il centro della ricerca e che a sua volta sta alla base di un eclettismo affine a quello di Antioco, che giustappone teorie derivate, ad eccezione dell’Epicureismo, dai diversi sistemi filosofici contemporanei e particolarmente dallo Stoicismo, che era stato l'oggetto preferito delle polemiche di Carneade. 

Lo scetticismo di Cicerone si tempera anche dalla fiducia che ripone nella natura che crea ogni cosa perfetta. 

Nella sfera teorica, sarebbe contro natura l’inesistenza di una conoscenza probabile, tra le quali Cicerone pone le testimonianze dei sensi, pure criticandole. 

Soprattutto, Cicerone accorda valore nella sfera etica a quei "semina innata virtutum" che la natura ha posto nelle anime di tutti gl'uomini, e ciò spiega il suo apprezzamento del consensus gentium, specialmente rispetto ai problemi della morale.

Si è discusso se Cicerone ammettesse vere e proprie idee innate (Zeller) o se, come sembra più probabile, designasse così disposizioni che si svolgono in connessione con l’esperienza, o pensasse ai risultati uguali in tutti gl'uomini di un’esperienza naturale e primitiva. 

È certo però che Cicerone non ha ribattuto gli argomenti che nel "De natura deorum" Cotta -- che probabilmente li deriva da Carneade -- rivolge controla tesi stoica che la provvidenza divina regge il mondo e che gli dei tutto fanno per il bene degl'uomini, tesi che coincide, sotto molti rispetti, con l'ottimismo naturalistico che Cicerone propugna. 

Occupandosi delle tre parti in cui la tradizione divide la filosofia -- dialettica (logica), fisica (filosofia della natura includente la teologia, e moralia -- Cicerone rimane fedele alla sua convinzione che la filosofia ha il primato, come regina, su ogni altro aspetto del sapere, in quanto è necessario che il sapere ha per difesa la logica, mentre la conoscenza di sè, raccomandata da Socrate, che è indispensabile per la soluzione del problema della felicità, esige una sicura fondazione naturalistica in quanto questa permette di rendersi conto del nostro vero io, della nostra origine e della nostra destinazione. 

Nell'ultima tesi Cicerone segue Posidonio.

Però, quando considera in particolare le diverse parti della filosofia, Cicerone cade in alcune incoerenze. 

Da una parte accusa Epicuro di avere trascurato la dialettica.

Dall'altra rimprovera alla dialettica di essere una disciplina puramente formale. 

Quanto alla filosofia della natura, Cicerone ritiene che in essa, in misura anche maggiore che in altri argomenti, è più facile dire quello che le cose non sono di ciò che sono e che non vi è aleuno che possa pretendere di possedere una conoscenza sui suoi oggetti, che sono impenetrabili per il pensiero umano.

Ma questo non impedisce a Cicerone di ritrovare nella filosofia naturale teorie che gli sembrano base sicura per la sua morale, e quanto teologia in particolare, pur dichiarando di non voler superare i limiti del probabile, ne Cicerone parla con una certezza assai maggiore di quella che le sue premesse gli consentirebbero. 

Nella sua rappresentazione totale dell’universo, che riporta ad Aristotele e soprattutto a Posidonio, Cicerone distingue nell'universo una parte superlunare e una sublunare, sotto tutti i rispetti inferiore all'altra. 

L'esfera superlunare è costituita di etere, include tutte le stelle che sono animate da menti divine, ed ha una grandezza immensamente più estesa della sfera sublunare.

La supralunare è la sfera in cui regnano in modo insuperabile bellezza, ordine, regolarità, eternità, incorruttibilità. 

La sfera sublunare, che dipende dall'esfera supralunare, e principalmente la terra, è piccola cosa di fronte all'universo, con le sue bellezze presenta deficienze, come le regioni inabitabili, e soprattutto è il mondo della mutabilità e della corruzione. 

I caratteri di perfezione che presenta l’universo, a parere di Cicerone, offrono una base sicura all’affermazione che esso deve avere per causa non il caso o la necessità, ma un essere razionale, cioè il divino. 

È difficile però determinare esattamente la posizione di Cicerone su questi argomenti. 

Alla fine del "De natura deorum," Cicerone dichiara di trovare più probabile la teologia stoica dell’agnosticismo di Cotta seguace dell'Accademia, alla quale egli pure si collega, agnosticismo che si estende anche al passaggio dall’universo alla sua causa.

Ma non è lecito prenderlo completamente in parola, sia perchè sono troppo numerose e stringenti le critiche che Cotta rivolge contro quella teologia, che non trovano risposta, sia perchè in non poche cose Cicerone si allontana da essa. 

Comunque, Cicerone ritiene che la credenza nell'ESISTENZA degli dei sia l'opinione più probabile e quella a cui la stessa NATURA ci porta, che la NATURA stessa ci insegna, come risulta dal consensus gentium su questo punto.

E se Cicerone non sente il bisogno di respingere le obbiezioni di Cotta, probabilmente ciò avviene perchè trova che quella convinzione è giustificata sufficientemente dal fatto che, eliminata la Provvidenza divina (che su di essa evidentemente si fonda), erollano la pietà, la religione, il culto, la società del genere umano, la giustizia e le altre virtù. 

Cicerone, come in generale i filosofi antichi, parla sia del divino che degli dei, ma non si preoccupa di conciliare l’unità o il singolare del primo, che egli ammette, con la molteplicità o la plurarita dei secondi.

Cicerone pensa lo divino come un'intelligenza libera e separata da ogni conerezione mortale (7'use. I, 27, 66).

Ma Cicerone non è sicuro che sia spiritualità pura, perchè ammette che possa consistere di aria o di fuoco, diversi però dai terrestri (ivi, 26, 65).

In ciò probabilmente sta sotto l’influsso di Posidonio. 

Però la sua concezione del divino accentua più di quelle offerte dallo Stoicismo la natura personale di essa. 

Come si è detto, Cicerone accorda grande valore alla tesi della provvidenza divina, pure non ribattendo le critiche di Cotta. 

Cicerone respinge le credenze nel fato e nella divinazione che in particolare sono state propugnate dagli stoici.

Nella 'divinazione,' Cicerone trova un'espressione della superstizione che Cicerone vuole totalmente sradicata. 

Per contro Ciceroone deve propugnarsi quella religione che è congiunta con la conoscenza della natura e deve essere tutelata per motivi sociale quell'insieme di opinioni sull divino, di culti e di riti che è imposto dalla tradizione degl'avi. 

Quanto alla mitologia, Cicerone vuole che sia purificata da queste invenzioni dei poeti che appaiono indegne della natura degli dei o del divino.

Parlando divino si è trattato già di un essere che è affine a ciò che vi è di superiore nell'uomo, e che ne costituisce l'essenza, l’anima razionale, la quale forma l'oggetto vero della nostra conoscenza. 

L'uomo risulta del corpo e dell'anima.

Ma il corpore è, senza confronto, inferiore all'anima che arreca al corpor la vita e il movimento. 

L'anima include una parte irrazionale che appartiene anche agl'animali, e che possiede l’attività vegetativa e quella sensitiva, la quale ultima compie le funzioni del senso, edel movimento e dell'appetito.

Ma l'anima ha in proprio una parte razionale ("ratio"), che assume gl'aspetti di pensiero intuitivo ("intelligentia"), di conoscenza discorsiva ("ratio" in senso stretto) e di volontà.

Cicerone è convinto che questa anima razionale è libera in quanto è indipendente dai moventi esterni e per giustificare questa tesi si vale degli argomenti di Carneade. 

La "ratio" costituisce il vero essere dell’uomo ed è il divino in lui. 

Più volte Cicerone, collegandosi a Platone e forse a Posidonio, afferma che il corpo è un’appendice dannosa dell'anima che vi è incelusa.

La vera sede della parte razionale dell'anima dell'uomo non è la terra, ma il cielo, che al pari di essa è immortale e imperituro. 

L'anima umana è affine a quella divina dalla quale proviene e perciò la determinazione della sua natura suscita le stesse difficoltà che si presentano per quella della seconda. 

Cicerone si interessa particolarmente della credenza dell'anima IMMORTALE, che cerca di giustificare con argomenti presi a Platone, specialmente con quello che si fonda sul suo carattere di principio auto-motore, e col consensus gentium.

Cicerone ammette la  possibilità dell'opposto, ma per mostrare che nemmeno in questo caso è giustificabile il timore della morte. 

Le teorie esposte da Cicerone sulla natura dell'uomo, identificato nella parte divina e razionale dell’anima per cui il corpo è un ostacolo e le parti inferiori possono essere causa di colpe e di infelicità, sulla sua affinità col divino, sulla sua origine e sulla sua destinazione celeste, sulla posizione che l’uomo stesso occupa nel mondo, concordano col dualismo e col misticismo di Posidonio.

Invece non a questo, ma al Platone del "Fedone" riporta un passo delle "Tusculane" (I, 74-75) che afferma non essere altro tutta la vita dei filosofi che una meditazione della morte, perchè quando ci sforziamo di allontanare l’animo dal piacere, cioè dal corpo, dalle sostanze, dalla vita politica (a republica), da ogni attività pratica, non facciamo altro che questo. 

Abbiamo in ciò l'affermazione di un pessimismo e di un ascetismo che, per quanto riguarda l'allontanamento dello stato, sono in insanabile contraddizione con le convinzioni e con la vita reale di Cicerone, il quale, del resto, insegna continuamente che i più urgenti doveri riguardano la vita sociale e politica e soprattutto quelli che si riferiscono alla patria. 

Anche nel Sogno (in cui pure è svalutata l'esistenza terrena di fronte alla celeste) si dichiara che la via per salire al cielo risiede nelle benemerenze verso la patria, affermazione questa che non s'accorda col cosmopolitismo propugnato altrove in accordo con Panezio e con Posidonio. 

Il testo citato sopra delle "Tusculane" è seguito da un altro (ivi, 82 agg.) anche più radicalmente pessimista, che, sfruttando motivi di pensiero usati di solito nelle "Consolazioni" e nelle diatribe cinico-storiche (e presenti, del resto, anche in Lucrezio), dipinge coi più foschi colori le miserie e i dolori della vita per mostrare che non vi sarebbe ragione di temere la morte anche se l’anima non fosse immortale. 

In complesso, si può pensare che in ambedue quei testi dal Fedone citati nelle "Tusculane" Cicerone si lascia dominare sia dal desiderio di provare che la morte non deve in alcun caso incutere terrore, sia da motivi più retorici che filosofici.

Comunque, se si fa eccezione del secondo testo, ultra-pessimista, le teorie esposte implicano già la soluzione generale del problema del sommo bene, della felicità e dell'ultimo fine. 

Cicerone però, se respinge senza altro l’Epicureismo, che identifica il bene al piacere, non riesce a prendere una posizione sicura tra lo stoicismo, che riteneva unico bene la virtù (l’honestum), e l’eclettismo accademico-peripatetico di Antioco d'Ascalona, il quale, pure riponendo in essa il sommo bene e affermando che basta a rendere la vita felice, sosteneva però che esistono altri beni, esterni al soggetto, che sono elementi della vita felicissima. 

Talvolta trova che lo stoicismo ha soltanto espresso con diverso linguaggio le tesi dell'Accademia e del Liceo, talvolta riconosce e accentua le loro differenze. 

Cicerone oscilla pure nella soluzione.

Cicerone ora propende per quella stoica che lo attira con la sublimità e la coerenza delle proprie dottrine, ora critica quella eclettica (De fin. TV) verso la quale lo portava la considerazione della debolezza umana, sua e altrui, ora si rimprovera di giudicare della funzione della virtù tenendo conto non della natura di questa, ma della mollezza umana. 

Cicerone, che riconosce questa sua oscillazione, crede di potersi contentare con l’affermazione che l’honestum (o la virtù), se non l’unico bene, è quello che supera tutti gli altri, che al confronto appaiono privi di ogni significato. 

In complesso, però, come mostrano i suoi ultimi scritti (Tusculanae, De officiis), Cicerone ha subito sempre più fortemente l'influsso dell’etica stoica. 

Particolarmente Cicerone si accorda con lo Stoicismo nell’affermare che le passioni (748) debbono essere sradicate, non, come volevano gli aristotelici, ridotte alla giusta misura nell’anteporre la virtù pratica (o etica o morale) a quella dianoetica o intellettuale. 

Mentre Cicerone ritiene che anche nella questione fondamentale del sommo bene occorre ricercare soltanto la soluzione più probabile, con nuova incoerenza chiede all'Accademia, perturbatrice di ogni cosa, di tacere in ciò che riguarda la filosofia pratica (morale, etica, giuridica, politica), per non produrre troppe rovine (De leg. I, 13, 39 : 

Perturbatricem harum omnium rerum Academiam, hane ab Arcesila et Carneade recentem, exoremus ut sileat. Nam si invaserit in haec, nimias edat ruinas.

Se ciò si accorda con l’intonazione con cui Cicerone presenta molte teorie di morale applicata è in contrasto con l'incertezza del loro fondamento generale. 

La soluzione del problema della felicità o del sommo bene riguarda propriamente il sapiente ottimo, che compie scientificamente doveri perfetti, per lui soltanto si può dire che la virtù è recta ratio, perfecta ratio, perchè è appunto la ragione che rende perfetta l’attività. 

Lo stesso significato hanno altre espressioni: Bonum mentis, perfectio rationis.

Cicerone però si occupa anche dell'uomo buono e onesto che non realizza la perfezione e perciò nei primi due libri del "De officiis" prende per guida Panezio che si era interessato particolarmente del secondo. 

Sebbene e difficile determinare con precisione ciò che appartiene all’uno e all’altro, perchè conosciamo in questa parte la fonte greca soltanto attraverso la sua derivazione romana, si può ritenere che le linee generali della trattazione risalgono a quella. 

L'uomo, in quanto essere ragionevole, possiede quattro impulsi fondamentali, che mancano agli altri animali: 

verso la conoscenza, 

verso la vita sociale in cui gli uomini sono uniti per mezzo della ragione e del linguaggio, 

verso il dominio e l'indipendenza, v

erso la bellezza, che consiste in un ordine e in un'armonia.

Questo impulso si riferisce da prima a oggetti naturali.

Ma poi l’uomo cerca di realizzare tale ordine e armonia nella propria vita, nel pensiero e nell’azione. 

Questi impulsi, se regolati dalla ragione, si esplicano nelle virtù, che sono le condizioni perfette delle attività spirituali, 

Si tratta però sempre di virtù che non provengono dalla scienza e che perciò si fondano su una ragione che si limita al probabile. 

La virtù che si rifere alla conoscenza è teoretica, le altre tre sono pratiche. 

Propriamente, la prima virtu può avere per oggetto sia la pura contemplazione, ed è la sapienza, sia le decisioni che si debbono prendere sulle cose che riguardano la vita buona e felice, ed è la prudenza ; quella riguardante la vita sociale si divide nella giustizia, in cui è lo splendore massimo della virtù, e nella beneficenza o benignità o liberalità. 

La virtù che riguarda il predominio e l'indipendenza dalle cose esterne si esplica nella magnanimità, che è veramente tale se non si lascia dominare dall’egoismo, ma si rivolge verso il bene della società, soprattutto nella partecipazione e nella direzione della vita pubblica. 

La virtù che ha per oggetto la bellezza è la moderazione o la temperanza, che del resto, non si esplica soltanto nella sfera propria come dominio delle tendenze inferiori, ma anche in quella delle altre virtà (che sono forme del bello morale, l'honestum), perchè occorre portare ordine e misura nella esplicazione di tutte le singole attività e nella totalità della vita dello spirito che deve presentare armonia e quindi costanza e unità. 

Le virtù come condizioni e le loro esplicazioni costituiscono l’honestum (xaX6v), il bello morale, che come la virtù e le virtù si deve ricercare *per sè*, non per considerazioni *utilitarie*. 

L’honestum si manifesta all’esterno come il conveniente (decorum, mpérov), che suscita nelle persone colle quali si vive e di cui è doveroso considerare il giudizio, un senso estetico di approvazione. 

Ma questa convenienza o adeguatezza a un modello armonico e unitario riguarda non soltanto la natura razionale dell'uomo in generale, ma anche quella dell'individuo, se essa non è in contrasto con la prima, eltrimenti non darà mai alla vita, costanza, coerenza, unità. 

Cicerone insiste sulla giustificazione dell'esigenza che ciascuno, pure comportandosi in conformità con la natura umana, sia fedele a quella sua individuale. 

La formazione della nostra personalità dipende sia da condizioni che sono in balia del caso, sia dalle nostre decisioni volontarie.

Occorre che le seconde si conformino soprattutto alle disposizioni proprie alla nostra natura.

L’uomo deve poi conformare la propria condotta alla sua età, alla sua condizione sociale, deve ricercare il conveniente (decorum) nel contegno e nei movimenti del corpo, nel modo di parlare, di vestire, nell'abitazione. 

Siccome gl'individui umani sono stati fatti gli uni per gli altri, l’uomo è l'essere più utile o dannoso all’altro uomo e anche i più potenti non possono prescindere dall’aiuto degli inferiori, sicchè la vera utilità del singolo è inseparabile da quella della totalità sociale di cui fa parte.

Perciò l’utile e l’onesto sono indissolubilmente connessi, anzi coincidono. 

Così il magnanimo, che Cicerone si rappresenta come il modello più alto di umanità, contribuendo al bene di tutti, consegue anche il proprio, in quanto può esplicare liberamente e armonicamente le proprie attività. 

L'ideale della "humanitas" consiste dunque per Cicerone come per Panezio nel libero e armonico sviluppo delle attività spirituali che dominano le tendenze inferiori e arrecano ordine e misura anche al comportamento esteriore. 

Però, questa rappresentazione include elementi propriamente romani che Cicerone deve avere aggiunto a quelli del suo modello.

Come tali si possono considerare il valore dato alla mitezza, alla benignità, alla clemenza verso i nemici, cioè a doti che l'aristocrazia di Roma riteneva proprie degli antenati e l'affermazione che nessuna società è più importante e più cara dello stato di Roma, che fra i doveri umani i primi e i più urgenti sono quelli che riguardano la patria, affermazione che però è in contrasto col cosmo-politismo propugnato altrove dallo stesso Cicerone, che del resto insiste spesso sul concetto della societas humani generis (v. ad es. De fin., V, 65; De off., I, 50 sg. ; 149; 153 e passim). 

Si fa derivare da Posidonio, ma potrebbe essere l’espressione della mentalità romana, l’affermazione che il primo dovere riguardano il divino, che rimane isolata e senza giustificazione ed è in contrasto col pensiero di Panezio che non li ammetteva. 

Cosa molto più importante, Cicerone omette completamente i concetti metafisici sui quali il Panezio fondato il suo ideale insieme individualistico e universalistico. 

L'ideale della "humanitas" propugnato da Cicerone ha indiscutibilmente carattere aristocratico, come risulta dal rilievo dato alle qualità estetiche, dal fatto che soltanto pochi uomini in Roma potevano conseguire il libero e armonico sviluppo di tutte le attività spirituali poggiante sulla cultura, dall’apprezzamento del comportamento esterno, dall’accentuazione della libertà, soprattutto dalla convinzione che il magnanimo rappresenta il modello più perfetto dell’uomo. 

Aspetti simili doveva avere, almeno in gran parte, l’ideale umano di Panezio e di Posidonio (che però differivano tra loro per il forte carattere religioso presente nel secondo, assente nel primo), ma, sebbene si sia affermato — che quello dello stoico di Rodi non era meno aristocratico ed esaltatore della devozione allo stato romano, della humammitas ciceroniana, sembra giusto ritenere che includesse il cosmopolitismo e i principi dell'uguaglianza di tutti gli uomini e dell'amore universale che si trovano in due suoi discepoli, Posidonio e Antioco. 

Antecedenti diga questi pensieri offre il Liceo con Teofrasto e Dicearco. 

Come i due rappresentanti dello Stoicismo Medio conciliassero il loro ideale aristoeratico di rardetx con l’universalismo e il principio dell’a-more (che, anche se non sviluppato, era presente alla loro mente), è difficile determinare, ma che in essi l’humanitas includesse tutti quei fattori sembra certo. 

In Cicerone, la cosa è diversa. 

La valutazione che Cicerone dà dello stato romano puo apparire superiore per concretezza al cosmopolitismo difeso dai due filosofi greci che non erano cittadini romani ma strettamente schiavi, ma con essa si collega l'assenza del riconoscimento dell’uguaglianza umana e del dovere dell'amore. 

Infatti, Cicerone, che talvolta, ispirandosi ad Antioco (e così quasi certamente a Panezio), parla della "caritas humani generis" (De fin. V, 65, 66 e 67 ; II, 45) ed esprime l'esigenza dell'amore universale seguendo Posidonio (De leg. I, 60), nel De officiis (I, 41) non soltanto non svolge questi cenni, ma quando parla degli schiavi, si limita a chiedere che siano trattati con giustizia e ad approvare l’affermazione di Crisippo che essi si debbono considerare mercenari perpetui, di cui si deve pretendere l’opera e ai quali è doveroso dare il giusto, e non ricorda che per lo stoico antico (che era stato preceduto da: alcuni sofisti, da ‘Sofocle e da Euripide) nessun uomo è schiavo per natura.

Così, quando afferma che la ragione comanda alle passioni come il padrone agli schiavi, che li affatica per domarne la malvagità, ammette che questi erano giustamente trattati con durezza. 

Quando parla delle lotte dei gladiatori, Cicerone dichiara che, se avvengono tra malfattori, sono la più forte scuola che si possa offrire agli occhi contro il timore del dolore e della morte (use. II, 41). 

Si ha l'impressione che i principî di uguaglianza umana e di amore universale rimangano in Cicerone formule fredde di scuola e non siano l’espressione di convinzioni intimamente vissute. 

In complesso, l'ideale di Cicerone di "humanitas", che designa soprattutto ciò che si è chiamato cultura dello spirito, coordina in una sintesi armonica elementi che probabilmente erano rimasti privi di ordinamento sistematico nello Stoicismo Medio, ma esclude alcuni dei valori fondamentali che esso aveva riconosciuto e che in seguito dovevano costituirne l’essenza. 

D'altra parte occorre riconoscere che Cicerone così da impronta nuova a elementi presi al pensiero, in quanto li collega in un ideale corrispondente alle esigenze dell’aristocrazia romana. 

Dall’ideale dell’"humanitas" si passa naturalmente a quelli del diritto e dello stato di Roma.

Fondamento della filosofia giuridica di Cicerone e il concetto di legge.

Nella sua essenza, la legge si identifica alla ragione retta e suprema che proviene dalla volontà divina ed è insita alla natura. 

La legge tutta regge in cielo e in terra e unisce in una società e nello stato di Roma il divino e i romani. 

Quella ragione, che diviene legge quando risiede nella mente umana, è data dal divino ai romani, ai quali prescrive ciò che si deve fare e proibisce l’opposto. 

La legge e eterna, immutabile, universale, e precede nel tempo tutte le legislazioni scritte che possono chiamarsi leggi soltanto in quanto sono giuste, conformandosi ad essa. 

L’obbedienza che le prestano i romani non è deteminata dal timore della pena o da motivi utilitari, ma dal fatto che trova un’eco nell’anima del giusto e dai tormenti della coscienza di chi la viola. 

Queste tesi riportano sostanzialmente allo Stoicismo, ma forse per mezzo di Posidonio.

In ogni modo, si trova qui un’espressione che abitualmente manca in Cicerone. 

Questo si accorda con Posidonio quando respinge ogni motivazione utilitaria della legge e del diritto, ma se ciò è in armonia coi testi che parlano nello stesso modo dell’honestum e delle virtù in generale e del jus in particolare, è in insanabile contrasto con quello in cui Cicerone, seguendo Panezio, afferma che se il diritto ha per fondamento un impulso naturale dei romani verso la società, ha l’ufficio di garantire la proprietà privata. 

Più propriamente, fondamento del diritto è la tendenza naturale che porta ad amare i romani (ad diligendos homines), dalla quale nascono le virtù. 

Ciò significa che quella tendenza li spinge ad associarsi tra loro e a regolare tale comunione con le norme del diritto, in quanto la legge civile, che deve rispecchiare quella naturale, è il vincolo della società romana

Ma anche a proposito dello stato romano (societas juris, associazione di uomini governati da leggi) si ripresentano le incoerenze incontrate a proposito del diritto. 

Talvolta Cicerone, seguendo Posidonio, ritiene che la consociazione romana non è stata determinata dai bisogni della vita, ma da un impulso naturale e afferma che lo stato romno ha l’ufficio di assicurare ai romani una vita felice e morale (la felicità effettivamente coincide con la virtù).

In altri casi, invece, accordandosi con Panezio, sostiene che la società e lo stato romano debbono le loro origini ad ambedue quei motivi, mettendo in rilievo l’importanza della tutela della proprietà privata e talvolta definisce lo stato romano per mezzo della comunione dell’utilità. 

In ogni modo, Cicerone è convinto che alla causa o alle cause dell’origine dello stato romano debbano corrispondere le sue finalità e che esso deve fondarsi sulla giustizia che si identifica alla ragione. 

Si è già ricordato che Cicerone, riprendendo una dottrina derivata in ultimo da Platone e dal Liceo ritiene che la forma più perfetta dello stato sia quella mista, che egli vede realizzata negli ordinamenti romani. 

Basta poi richiamare che in Cicerone e nei suoi contemporanei, salvo Lucrezio, le finalità etico-pratica (che e al centro degli interessi spirituali) non sono quelle dell'individuo, perchè riguardano la collettività politico-sociale che ha nome Roma, alla quale il singolo sente legata la propria sorte in modo indissolubile.

In complesso, non è troppo severo il giudizio del Philippson che non esiste una filosofia di Cicerone.

Ciò si può dire non perchè Cicerone prende ad altri tutti i suoi concetti filosofici (anche procedendo così, avrebbe potuto connetterli organicamente), ma per la ragione che, pure interessandosi in modo vivo e intenso per i problemi che trattava, non ha mostrato di avvertire quelle esigenze di rigore, di profondità, soprattutto di coerenza, che sono la condizione imprescindibile di serie ricerche di tal genere. 

Infatti, CICERONE cade in continue incoerenze perchè giustappone pensieri presi a indirizzi opposti e contrastanti.

Allo scetticismo dell'Accademia e al dogmatismo eclettico di Antioco d'Ascalona.

Al dualismo spiritualistico di Platone e al panteismo materialistico degli stoici e entro questo al vitalismo puramente monistico di Panezio e alla concezione religiosa e mistica del Logos-demone universale di Posidonio con tendenze dualistiche.

All’ascetismo di certi aspetti del Platonismo, alla intransigente etica razionalistica dello Stoicismo, all’etica più mite del Liceo e del portico.

All’universalismo umano di origine stoica e all’esaltazione romana dello stato romano nazionale.

Per attenuare i contrasti e spesso anche per esprimere le predilezioni di CICERONE per un divino separato dal mondo che governa, CICERONE cerca di mitigare il significato dei pensieri che fa suoi, soprattutto in quanto li scioglie dalle connessioni che formavano nei sistemi originari, ma in tal modo riesce soltanto a impoverirli del loro contenuto filosofico più importante, non a eliminare le incoerenze che si presentano ovunque. 

Però Cicerone merita di occupare un posto nella storia della filosofia. 

A CICERONE Roma deve un notevole ampliamento e arriechimento della cultura, perchè le ha arrecato un linguaggio filosofico che ancora non possedeva e la conoscenza diffusa del pensiero limitata sino al tempo suo entro ambienti ristretti di lettori. 

CICERONE conserva notizie, ora più, ora meno estese di teorie della filosofia ellenistica, che altrimenti, per la scomparsa delle opere originali, sarebbero rimaste ignote o molto meno note. 

Sotto questo rispetto, CICERONE occupandosi in generale di filosofi di secondaria importanza, ha reso un maggior servizio alla conoscenza del pensiero 

È antico di quel che ha se si fosse interessato principalmente delle grandissime figure dell'età precedente, Platone e Aristotele, Cicerone ha diffuso e reso familiari quei principi dell'uguaglianza umana e di una legge razionale e naturale, criterio di valutazione del diritto romano positivo, che dove esercitare un’azione fortissima sullo spirito delle età successive.

Di più|,Cicerone ha dato espressione a quel concetto romano, di "humanitas", che e destinato ad esercitare un'azione vastissima sull’ideale della vita di certi periodi della storia della civilizazione occidentale.

Così, Cicerone ha agito fortemente su questa, perchè, dopo il Rinascimento, molti uomini colti, formati nelle scuole umanistiche, hanno assimilato quei concetti.

I concetti etici di Cicerone basati sull'amore universale e ne hanno fatto i criteri direttori della loro condotta.

L'interpretazione della vita morale è divenuta, per molto tempo, quella dell’Ronnéte Romme, che senza studiare tecnicamente la filosofia di Platone o Aristotele, cerca nella filosofia una fonte di cultura, ma anche un ideale di vita. 

Ad un certo punto, però, i quell’ideale di "humanitas" è sembrato troppo ristretto ed è apparsa la necessità di ridargli quel significato universalistico che possede nello Stoicismo Medio. 

***** FINE DI CICERONE 

Il principato di Roma -- iniziato con Ottaviano -- determina nel mondo romano effetti simili a quelli che si produceno in Grecia quando, per opera di Alessandro, si e chiusa l’età di una libera città-stato -- Roma eccetta.

I romani, che hanno posto nel centro dei propri scopi il servizio dello stato romano, ora, non dovendosi più interessare del governo della vita pubblica, diretta gia da un principe e dai suoi rappresentanti, si concentrano in se stessi e si chiedono come debbano orientare e dirigere la propria esistenza privata e individuale, come svolgere le proprie attività, e per conseguenza si volgono alla filosofia che, specialmente per il prevalere dell'esigenza pratica a Roma, appare la ottima guida della condotta.

Alla filosofia ricorrono soprattutto i membri della nobiltà che si sente più fortemente colpita dal principato colla perdita della libertà.

La direzione dello stato romano repubblicano aveva costituito un suo privilegio degl'aristocrati.

Ma questa tendenza è così viva e diffusa, che anche il principe e gl'uomini che lo circondano la dividono. 

OTTAVIANO 

OTTAVIANO Augusto, che tenne vicino a sè due stoici -- 


ARIO DIDIMO


ARIO DIDIMO, che e il suo filosofo personale, e ATENODORO DI SANDONE, di Tarso -- compose, secondo riferisce Svetonio, "Hortationes ad philosophiam", cioè un protrettico, forse di contenuto stoico. 

Livia, sua moglie, dopo la morte di DRUSO, ricorre agl’insegnamenti di ARIO DIDIMO e dichiara di averne tratto molto conforto. 

ATENODORO 

ATENODORO DI SANDONE dedica uno saggio filosofico a Ottaviano, su discepolo.

GAIO CILNIO MECENATE 

Interessi. filosofici prova C. CILNIO MECENATE, il potentissimo consigliere d'Ottaviano. 

Di origine etrusca, e probabilmente aretina, C. CILNIO MECENATE discende da stirpe regia, ma volle restare semplice cavaliere romano. 

Combattè a Filippi per i triumviri e e intimo di Ottaviano che egli cerca di conciliare con Marc'Antonio, siechè ha luogo l’incontro di Brindisi. 

Per conto di Ottaviano si reca presso Marc'Antonio affinchè partecipasse alla guerra contro Sesto Pompeo. 

GAIO CILNIO MECENATE e il rappresentante di Ottaviano a Roma e in Italia con poteri illimitati. 

Ottaviano si servì di Mecenate in pace e in guerra e trova sia in lui che in Agrippa il sostegno più sicuro del suo principato.

Ma IL MECENATE deve la sua fama imperitura alla protezione che concesse ai maggiori filosofi del tempo suo. 

Restano pochi frammenti dei scritti del MECENATE in versi e in prosa, nei quali, e specialmente nel Simposio o CONVITO (opera che introduce in Roma un genere letterario molto coltivato in Grecia), mostra di subire l’influsso dei filosofi del giardino d'Epicuro. 

Interessi filosofici e influssi epicurei si manifestano negli seritti dei maggiori filosofi del circolo del Mecenate.

Virgilio

Orazio

Properzio

Siccome poi in due grandi scuole dell’età ellenistica, il portico e i filosofi del giardino di Epicuro, la filosofia della natura era posta alla base della morale, non sorprende che spesso quegli filosofi si occupino di problemi naturalistici. 

LUCIO VARIO RUFO 

Lucio Vario Rufo, del circolo del Mecenate, e amico di Virgilio e di Orazio.

LUCIO VARIO RUFO cura, per ordine d'Ottaviano la pubblicazione dell’"Eneide".

Lucio Vario Rufo e filosofo e poeta elegiaco, epico e tragico e scrive un poema in onore del principe OTTAVIANO. 

LUCIO VARIO RUFO compone un altro poema sulla morte in cui cerca, ponendosi nella posizione epicurea di Lucrezio, di combattere il terrore che ispira agl'uomini e l’infelicità che ne proviene.

Ciò ha supporre che appartene al circolo epicureo di Sirone, come Virgilio. 

PUBLIO VIRGILIO MARONE 


Influssi di Lucrezio e quindi epicurei appaiono anche in Publio Virgilio Marone, nato a Andes presso Mantova.

Virgilio e certamente scolaro del filosofo Sirone, un filosofo del giardino d'Epicuro. 

In una poesia (Catal. 5) Virgilio prende congedo dalle muse per volgersi verso la scuola di SIRONE affinchè la filosofia gl’insegni a liberare la vita dalle passioni ed esprime il proponimento di dedicare alla filosofia il resto dell’esistenza, e nel Ciris (1-12) (che ormiai quasi concordemente è ritenuto suo) esaltando di nuovo l'insegnamento dei filosofi del giardino d'Epicuro, manifesta l'intenzione di comporre un carme sui fenomeni celesti. 

L’influsso del Giardino d'Epicuro è esplicito nelle "Georgiche" (II, 490 sgg.).

Ma l’"Eneide", nella escatologia del libro VI (724 sgg.), dipende invece dalla corrente orfico-pitagorica, mediata, si erede, da POSIDONIO, dal quale si fanno derivare le rappresentazioni dell’età dell'oro e dello sviluppo della civiltà umana e alcune teorie d’impronta stoica. 

Agl'interessi filosofici si collegano quelli naturalistici. 

Nell'"Ecloga" VI (31 sgg.), Sileno espone ùna cosmogonia.

Nelle "Georgiche" (II,475sgg.) VIRGILIO prega le Muse d’interpretargli una serie di fenomeni naturali.

Nell’"Eneide" (1, 740 sgg.) Iopas tratta di problemi naturalistici. 

Fa parte dell'"Appendix Vergiliana" il poemetto "Aetna" sullo cause e gli effetti delle eruzioni vulcaniche, del quale sono incerte la paternità e la data. 

Fra gli autori ai quali è stato attribuito il "Aetna", trovano adesioni soprattutto Virgilio e Lucilio il Giovane, l’amico di Seneca. 

Per le teorie scientifiche particolari l’autore dell'"Aetna" si serve principalmente di Posidonio e ciò spiega l’affinità dell'"Aetna" con le "Questioni Naturali" di Seneca che provengono dalla stessa fonte. 

Per la filosofia, Virgilio mescola ecletticamente elementi svariati e non fusi, perchè espone dottrine stoiche, epicureo-lucreziane e inoltre pensieri eraclitei, democritei, ecc.

ORAZIO

QUINTO ORAZIO FLACCO, nato a Venosa fu attirato dai problemi morali ed estetici 

Soltanto nelle "Epistole," cioè nella sua opera più tarda, Orazio dichiara di sentirsi attirato dalla filosofia morale per la quale abbandona la lirica (I, 1, 10-23; II, 2, 141-144: si è notato che dal v, 145 alla fine questa epistola è un protrettico).

Ma anche negli scritti precedenti Orazio tocca spesso argomenti filosofici. 

Scherzosamente Orazio si chiama Epicuri de grege poreus (Epist. I, 4, 16), ma effettivamente Orazio, che dichiara di non voler giurare sulle parole di nessun maestro, non appartiene ad alcun indirizzo determinato, 

Orazio, che in Atene conosce dottrine di scuole diverse, vede nella filosofia una disciplina che non deve essere ignorata, ma s’interessa soprattutto per la morale applicata ai casi della vita. 

La sua indole, amante dell’equilibrio, della tranquillità, della serenità, gli fa considerare con simpatia l’etica del Giardino d'Epicuro, di cui si scorge l’influsso nella seconda satira del primo libro ; e nella 3% di |. questo, in versi che abbondano di reminiscenze lucreziane, riassume la teoria dell’Epicureismo sull’origine del diritto e della legge.

Più volte Orazio satireggia paradossi stoici (tutte le colpe sono uguali, il sapiente è re e conosce ogni cosa) e disegna la caricatura degli stoici capelluti e barbuti che, predicatori ambulanti, espongono precetti ai quali non sempre fanno corrispondere la vita.

Orazio mostra di apprezzare maggiormente la severa nobiltà degli ideali dei filosofi del portico. 

Orazio si avvicina sia al giardino che al portico quando loda la vita semplice e sana della campagna.

Ma quando sferza la caccia alle riechezze e al lusso, Orazio si collega al Cinismo, delle cui diatribe si avverte l'influsso nelle sue satire. 

Nell'insieme, la morale di Orazio è utilitaria ed è diretta dall’esigenza dell’equilibrio e della misura, ma non è una teoria filosoficamente fondata e perciò non manca di incoerenze. 

Nell’"Arte Poetica" si riconoscono abitualmente riflessi di teorie peripatetiche e particolarmente di Neottolemo di Pario che assegna alla poesia il duplice ufficio di dilettare e di giovare, mentre da Panezio si fa provenire il concetto del "decorum", che ha un posto centrale nella dottrina estetica che egli propugna. 

SESTO PROPERZIO 

In complesso, questa (che corrisponde non soltanto alle direttive d'Ottaviano, ma anche alle esigenze della coscienza del tempo, desiderosa di una completa restaurazione dell'ideale della "virtus romana") si contrappone all'autonomia dell’arte propugnata 

FILODEMO

da Filodemo e assegna a questa un ufficio morale e 

SESTO PROPERZIO

Sesto Properzio, nato nell’Umbria, si propose di studiare problemi naturali collegati con la filosofia. 

PUBLIO OVIDIO NASONE

PUBLIO OVIDIO NASONE, nato a Sulmona,rivela influssi assai svariati. 

A Posidonio, mediato da Varrone, si fa risalire la rappresentazione d'Ovidio dell'età dell'oro e dello sviluppo della cultura ("Metamorfosi," XV, 96 5898; "Fasti" I, 335 sgg; IV, 395 sge.). 

Dalla setta di Crotona deriva in larga misura il libro XV delle "Metamorfos"i (69-478), in cui Pitagora (di cui si dice che si innalzò sino agli Dei col pensiero e scorse con l’animo ciò che la natura nega agli sguardi umani) espone ai discepoli un ampio insegnamento sulla natura, il divino, numerosi problemi naturali oscuri e condanna l’uso delle carni animali, giustificando questa proibizione con la teoria della metempsicosi. 

Nella tesi che nulla è stabile nella natura e nell’uomo, che anche gli elementi si trasformano gli uni negli altri, si notano invece influssi eraclitei e di Girgenti.

La formazione del mondo dal caos (Met. I, 1, sgg.), in complesso, riecheggia il portico, ma include anche elementi che fanno pensare a Girgenti, ad Anassagora e a Lucrezio.


MARCO VALERIO MESSALLA CORVINO

Imbevuto di discorsi socratici e MARCO VALERIO MESSALLA CORVINO, insigne per le sue attività politiche e militari, scrittore e protettore di poeti e di filosofi. 

Corvino studia in Atene con Orazio e poi coltiva l’eloquenza, la grammatica, e la poesia. 

Corvino e incluso nelle liste di proserizione perchè avversario di Giulio Cesare, ma salva la vita. 

Corvino combatte con Bruto e Cassio a Filippi.

Poi, Corvino si unì ad Marc'Antonio.

In seguito, Corvino strinse rapporti con Ottaviano. 

Corvino e console, combatte ad Azio, e ha comandi in Oriente. 

Per una vittoria sugl'Aquitani, Corvino consegue il trionfo.

Corvino rimane però sempre fedele alle antiche convinzioni politiche, e perciò, dopo sei giorni dalla nomina, abbandona l’ufficio di praefectus urbis. 

Corvino e curator aquarum. 

A nome del Senato, Corvino saluta Augusto "pater patriae."

Corvino fu capo di un circolo filosofico al quale appartennero TIBULLO e LIGSDAMO.

Corvino scrive carmi bucolici e orazioni. 

Come oratore, Corvino e molto lodato da TACITO e QUINTILIANO.

Corvino compone un’opera storica, probabilmente di memorie.

GRATTIO

 Alcuni hanno rilevato influssi dell’Epicureismo, altri di Posidonio, nel lungo frammento che ci rimane di un poema sulla caccia ("Cynegetica") composto da GRATTIO, vissuto al tempo di Augusto.

Ma abbiamo elementi troppo scarsi per determinare le direttive del pensiero di GRATTIO.

Di LINCEO -- probabilmente questo era uno pseudonimo -- Properzio, suo amico e rivale in amore, dice che attinge la sua sapienza ai libri socratici, e che avrebbe potuto trattare del corso delle cose, del sistema del mondo e di problemi, escatologici e naturali. 

TITO LIVIO 

Tito Livio, nato a Padova, scrive saggi e dialoghi su argomenti filosofici.

ASINIO POLLIONE

Asinio Pollione deriva dal portico la sua concezione deterministica della storia esposta nella sua opera sulle guerre civili (dal primo triumvirato a Filippi).

Ad Asinio Pollione, Virgilio dedica la IV Ecloga. 

Ostile al primo triumvirato e soprat tutto a Pompeo, Pollione si schiera poi con Giulio Cesare che serve in Africa e in Sicilia.

Pollione e presente a Farsaglia, e a Tapso e a Munda segue il vincitore. 

Dopo la morte di Cesare, Pollione si une a Marc'Antonio di cui e legato nella Gallia Transpadana. 

Pollione ha il consolato.

Pollione si allontana da Marc'Antonio e stringe rapporti con Ottaviano, ma si rifiuta di seguirlo ad Azio, e da allora in poi si occupò di studi filosofici. 

Pollione s'interessa anche intensamente di poesia e di eloquenza e si distingue come acuto critico letterario. 

TULLIO ALFENO VARO 

Tullio Alfeno Varo -- verosimilmente identico a l’Alfeno di Orazio e forse a quello al quale Catullo dedica il e. 30 --, come legato d'Ottaviano, dirige la divisione delle terre ai veterani nella Gallia Transpadana.

Varo protegge i beni di Virgilio dal quale e ricordato più volte nell'"Ecloghe" e e consul suffectus.

Varo si interessa soprattutto di studi giuridici e compose opere di diritto: "Digesti" in 40 libri.

Dubbia l’opera Coniectanea.

Ma in un frammento di esse, Varo menziona la teoria degl'atomi democrito-epicurea. 

Si dice che, con Virgilio, Varo e discepolo di Sirone.

In tal caso, il condiscepolo di Virgilio sarebbe probabilmente Quintilio Varo, cremonese, amico di Catullo. 

GAIO TREBAZIO TESTA

È molto dubbio che si doveno prendere alla lettera certe espressioni di Cicerone che accennano all’epieureismo di Gaio Trebazio Testa.

Testa provenne da famiglia agiata di Velia, nella Lucania, e pare che si sia recato a Roma per darsi agli studi giuridici. 

Per raccomandazione di Cicerone, Giulio Cesare lo conduce nelle Gallie.

Giulio Cesare si serve di lui per pareri giuridici.

 Ritornato a Roma all’inizio della guerra civile, Testa age da mediatore tra Cesare e Cicerone. 

Nel conflitto fra Cesare e Pompeo, Testa si schierò col primo al quale rimase sempre fedele. 

Dopo l'assassinio di Cesare, Testa si reca spesso alla villa Tuscolana di Cicerone, ove gli caddero in mano i "Topica" di Aristotele.

Per contentare il suo desiderio di avere chiarimenti di quella trattazione, Cicerone scrive l’opera omonima che dedica ed invia a Testa.

In seguito, Trebazio segue Ottaviano. 

Orazio dedica a Trebazio la prima satira del libro III, in cui lo presenta come un insigne giurista. 

Trebazio venne nominato cavaliere o da Cesare o da Ottaviano. 

Trebazio e un insegne giurista e ha come scolaro Antistio Labeone. 

Trebazio scrive sul diritto civile e sul culto, ma ci restano soltanto citazioni di autori posteriori.

Trebazio adere a un eclettismo simile in parte a quello di Cicerone con forti caratteri accademici e stoici, ma non si può dire se accetta lo scetticismo probabilista dell'Accademia. 

MARCO ANTISTIO LABEONE

Marco Antistio Labeone ha larga cultura filosofica.

E un giurista insigne, ma si ignora se segue un indirizzo determinato. 

Giunge fino alla pretura.

Labeone rifiuta il consolato offertogli d'Ottaviano perchè conseguito prima di lui da persona meno anziana. 

Labeone appartenne al partito della repubblica.

Si dice che Labeone scrive 400 libri -- di cui restano frammenti. 

Si ricordano fra gli altri: 

"De iure pontificio" -- in almeno 15 libri

diversi "Commentarii giuridici", 7davd, 

"Responsae", in almeno 15 libri, 

"Libri posteriores", in almeno 40 libri. 

Labeone s'interessò anche di studi logico-grammaticali. 

VITRUVIO

Vitruvio Pollione, architetto di professione, e nelle campagne militare di Giulio Cesare e di Ottaviano, compone "De architectura" in 10 libri che dedica ad Ottaviano.

Vitruvio ritene necessario lo studio della morale per la vita e quello della filosofia della natura per la professione dell’architetto. 

ICCIO 

Iccio, procuratore dei beni di Agrippa in Sicilia, compra ovunque opere di Panezio. 

In complesso, in questi filosofi del principato d'Ottaviano e del circolo del Mecenate in generale, manca una concezione filosofica organica e coerente.

Perciò il loro interesse per i problemi filosofici, specialmente per quelli morali, anche se vivo, li porta verso quell’eclettismo che, del resto, è una caratteristica di tutta la filosofia romana. 

Precetti filosofici, e soprattutto morali, erano luoghi comuni nel mondo delle persone colte e venivano largamente usati dai tutti.

Insomma, nel principato d'Ottaviano e nel circolo del Mecenate, la filosofia, di cui gli spiriti migliori senteno viva e profonda l'esigenza, si mantenne come un argomento alla moda della classe superiore. 

Oltre questi uomini dilettanti che si interessano per la filosofia, il principato d'Ottaviano presenta veri e propri filosofi professionali.

VOLUMNIO

Plutarco ricorda come tale, senza indicare la sua scuola.

Volumnio e l'autore di una vita di Marco Bruto. 

SERGIO PLAUTO

E stoico Sergio Plauto.

Publio FABIO MASSIMO DI NARBONA

Erano stoici e tre persone ricordate d'Orazio nelle sue opere di cui ci danno alcune notizie i suoi commentatori. 

Publio Fabio Massimo di Narbona, di famiglia equestre, seguace del partito pompeiano, scrive alcuni trattati di contenuto stoico.

STERTINIO

Stertinio, in 220 libri, tratta di problemi della filosofia del portico, rendendo coi suoi versi anche più oscura la filosofia studiata.

Plozio CRISPINO

Plozio Crispino scrive in versi sulle dottrine del Portico.

QUINTO SESTIO

Dipende essenzialmente dal portico la scuola dei due Sesti, sorta con vigorosi inizi nel principato d'Ottaviano ed estintasi rapidamente dopo.

Il circolo venne fondata da Quinto Sestio, uomo di anima forte, che per consacrarsi pienamente alla filosofia che ama profondamente trascure gl'onori e gl'uffici politici ai quali lo destina la sua nascita e rifiuta il laticlavio offertogli da Giulio Cesare. 

Gli succede come capo del circolo il figlio Sesto che viene identificato al Sextius Niger, che Plinio indica come fonte dei libri 12- 13, 21-30, 32-34 della sua "Storia naturale".

Si tratta di un’opera di medicina. 

SOZIONE D'ALESSANDRIA

Adere alla scuola dei Sesti Sozione d’Alessandria, di tendenze pitagoriche, che e maestro di Seneca.

CORNELIO CELSO

Anche del circolo dei Sesti e Cornelio Celso, l’enciclopedista.

LUCIO CRASSICIO

Altro filosofo del circolo dei Sesti e L. Crassicio, di Taranto, che per seguire la filosofia dei Sesti abbandona l'insegnamento in cui aveva acquistato fama

FABIANO PAPIRIO

Anche Fabiano Papirio, passato dalla retorica agli studi filosofici. 

Anche FABIANO PAPIRIO e maestro di Seneca, il quale testimonia che Fabiano Papirio non era un filosofo "ex his cathedraris, sed ex veris et antiquis," -- non un professore, ma un vero filosofo di stampo antico.

Seneca ricorda la doti di Fabiano Papirio di conferenziere (le declamazioni, le pubbliche letture sono alla moda), ne loda il nobile carattere e le doti di saggista.

Seneca rifere che la produzione filosofica di Fabiano non e meno ampia di quella di Cicerone. 

Di lui si ricordano 

"Libri causarum naturalium," almeno tre.

"De amimalibus"

"Libri civilium" 

Quinto Sesto e Sozione scriveno in greco.

Delle opere della scuola dei Sesti rimangono poche sentenze di ambedue Sesti e di Fabiano, conservate da Seneca e dallo Stobeo, che confermano il giudizio di Seneca, che la dottrine di quell’indirizzo e caratterizzata dal vigore romano, ma hanno carattere stoico, sebbene il fondatore negasse di appartenere al portico.

Però si allontanano dallo Stoicismo Antico, quando limitano le loro ricerche all'etica e in questa trascurano la parte teorica.

Ma così si avvicinano alla posizione dei cinici e degli stoici, e insieme alle preferenze dello spirito romano per ciò che serve all’azione. 

I due Sesti mirano, non a sviluppare teorie, ma a esercitare un influsso personale sulla condotta degl'uomini e condanno le dottrine che non miravano a un’azione etica. 

Puramente stoica è la tesi di Sesto che Giove non ha maggior potere dell’uomo virtuoso. 

Alcuni loro precetti, invece, non hanno le caratteristiche di una filosofia particolare.

Inoltre, anche nel circolo dei Sesti si manifesta l’eclettismo.

Il circolo di Sesti accoglie teorie pitagoriche (la norma di rendersi conto ogni giorno della propria condotta, l'astinenza da cibi carnei, in Sozione la teorìa della trasmigrazione delle anime) e, platonico-aristoteliche: la natura incorporea o immateriale e non spaziale dell'anima.

Nulla di filosoficamente importante può trovarsi in questi filosofi, che però sono interessanti in quanto mostrano come Stoicismo e romanità si potessero collegare e fondere in alcune anime nobili e vigorose.

AZIO CORNELIO CELSO  

Azio Cornelio Celso, vissuto sotto Tiberio, secondo Quintiliano, adere alla scuola dei Sesti.

Ma le opere in cui si esprimono quelle sue convinzioni dovevano essere diverse dai sei libri che costituivano la parte filosofica della sua enciclopedia (intitolata "Artes" secondo i ms.), che include sei sezioni: 

Agricoltura

Medicina

Arte della guerra

Retorica

Filosofia

Giurisprudenza. 

Si è conservata soltanto la parte riguardante la Medicina, fondamentale per la conoscenza di quella disciplina nell’età alessandrina sino ad Asclepiade e degli inizi della scuola metodica. 

In quella filosofica AGOSTINO afferma che CELSO si limita a esporre e a criticare le opinioni di tutti i filosofi che sino al tempo suo fondano scuole, nominando anche quelli che hanno seguito altri. 

Così CELSO menziona un centinaio di filosofi. 

Sebbene la filosofia trova larga diffusione, persiste ancora, in romani di stampo antico, l’ostilità per essa. 

SENECA, un provinciale, ci assicura che suo padre, SENECA MAGGIORE, l’odia.

QUINTILIANO, altro provinciale, e ostile ad una disciplina come la filosofia che allontana i suoi cultori dall’esercizio dell’eloquenza e dalla partecipazione alla vita pubblica.

Anche TACITO mostra per la filosofia speculativa sentimenti simili. 

Particolarmente i duodici principi successori d'OTTAVIANO provarono diffidenza e avversione per i filosofi stoici soprattutto, ma anche per i cultori della filosofia in generale, e in vari casi li perseguitarono. 

ATTALO

Sotto il principe TIBERIO e bandito da Roma lo stoico ATTALO.

GIULIO CANO

Caligola manda a morte Giulio Cano.


Claudio esilia in Corsica Seneca. 

NERONE

Sotto il principato di Nerone, alcuni filosofi stoici e alcuni seguaci di questa filosofia, sono uccisi 

-- TRASEA PETO, SENECA, LUCANO, RUBELLIO PLAUTO -- o esiliati -- MUSONIO RUFO, CORNUTO, PACONIO AGRIPPINO -- e fra le accuse sollevate da TIGELLINO contro RUBELLIO PLAUTO e quella di seguire la setta arrogante degli stoici, che rende turbolenti e desiderosi di disordini.

Tacito, Ann. XIV, 57.

ELVIDIO PRISCO

Sotto Vespasiano, ELVIDIO PRISCO, il genero di TRASEA PETO, e mandato a morte.

Tutti i filosofi sono cacciati da Roma ad eccezione dell'etrusco MUSONIO RUFO, che vi era ri-entrato sotto Galba.

DIONE CRISOSTOMO

DIONE CRISOSTOMO, filosofo cinico, compone il discorso "Contro i filosofi," peste delle città e dei governi.

Domiziano, irritato per l’elogio che di TRASEO PETO e di ELVIDIO PRISCO compone GIUNIO RUSTICO, fa uccidere questo e il figlio di ELVIDIO PRISCO.

Domiziano caccia da Roma tutti i filosofi. 

La persecuzione sotto il principato di Domiziano, però, e determinata o da motivi personali o da ragioni politiche ed estendano a tutti i filosofi la diffidenza e l’avversione che erano suscitate principalmente dai seguaci del portico.

In tutte le scuole filosofiche di quel tempo agitato e pieno di pericoli predominano l'nteresse morale e la filosofia appare una fonte di pace interiore, di auto-dominio, di sicurezza e di forza davanti alle tempeste della vita.

I suoi cultori sono considerati consiglieri, guide della condotta, direttori di anime.

Ma soprattutto il portico, che con la sua dottrina morale severa si diffunde fra gli spiriti migliori, ai quali arreca, più che le altre scuole, quel conforto e quell’energia interiore che sono necessari per non cedere alla marea dei tempi o alla disperazione, attira agl'ristocrati, ostili per principio al principato, sicchè sebbene nemmeno allora costituisse un partito politico, conta tra i propri seguaci non pochi membri dell’opposizione all’autorità del principe. 

In seguito, però, le cose mutano. 

LA RINASCITA DELLA FILOSOFIA SOTTO IL PRINCIPATO D'ADRIANO.

Sotto il principe ADRIANO sono istituiti insegnamenti pubblici di filosofia con onori e stipendi.

Antonino Pio estese questa misura alle XII province d'Italia.

MARC'AURELIO ANTONINO stabile che fossero insegnanti pubblici, pagati dallo stato romano, di le *quattro* scuole filosofiche: il portico, l'accademia, il liceo, e il giardino.

Questo fatto si collega all’interesse che i diversi indirizzi provano allora per le propri origini e che li induce a occuparsi della vita, delle opere e dell’insegnamento dei fondatori. 

Questa attività erudita, particolarmente intensa in prima linea nel Liceo, e poi nell'Accademia, nelle quali persiste senza interruzioni ha cultori anche negli altri indirizzi filosofici. 

Parlando di questo periodo del principato, non è possibile considerare a parte le maggiori personalità filosofiche.

Non si presenta più il fatto che soltanto di esse rimangano opere complete o almeno frammenti importanti. 

Inoltre, alcune delle scuole di cui si deve parlare -- il portico, i crotonesi, l'accademia -- costituiscono il precedente necessario della filosofia che ha il predominio assoluto nei secoli successivi, cioè il Neo-Platonismo. 

Occorre dunque considerare in ultimo tali indirizzi, ai quali, del resto, appartengono i filosofi più notevoli del principato.

Oltre alle quattro sette -- accademia, liceo, portico, giardino -- , altre sono attive nel principato.

Il cinismo acquista nuova vita e trova larga diffusione, i crotonesi, la Scuola platonica del tempo (Platonismo Medio), la Scesi.

Di tutte queste sette sono ricordati seguaci romani.

Ma soltanto di alcune si menzionano aderenti notevoli in Roma. 

Il portico, la scuola più importante del periodo, deve a Roma due tra le figure filosofiche più insigni di questi secoli, Seneca, e un principe stesso, Marc'Aurelio Antonino, e inoltre altri numerosi rappresentanti. 

CLAUDIO SEVERO ARABIENO

Console, appartenne al Liceo, e il maestro di filosofia del principe Marc'Aurelio Ottaviano che lo ricorda con affetto, ammirazione assai forti e dichiara di dovere a lui il culto costante della filosofia, l’amore del vero e del bene, il chiaro concetto di uno stato democratico fondato sull’uguaglianza dei cittadini, di un impero rispettoso soprattutto della libertà dei sudditi. 

Seguirono la stessa scuola PAOLO, praefectus urbis, e FLAVIO BOETO, consolare, cultore di medicina e di filosofia, menzionato da GALENO, che gli dedica vari scritti, e VIRGINIO RUFO, pure peripatetico.

Il cinismo conta certamente molti seguaci in Roma.

Ma si ricordano soltanto pochi rappresentanti col nome romano:

OSTILIO, sotto il principato di Vespasiano

CRESCENTE, l’accusatore di Giustino Martire, sutto il principato di Antonini, e 

ONORATO, che si vesti con pelli di orso. 

Segueno il giardino due filosofi dal nome di CELSO, vissuti, l’uno nel tempo di NERONE, l’altro, in quello di ADRIANO.

LUCIANO, che dedica a Celso l’Alessandro, ricorda una sua opera, "Contro i Magi."

Sono pure del giardino d'Epicuro il senatore POMPEDIO, sotto il principato di Caligola, ASTOLOS AUFIDIO BASSO (che Seneca ricorda, autore di un’opera che si ritiene andasse dall’inizio delle guerre civili alla morte di Tiberio, almeno; 

POLLIO FELICE, di Pozzuoli, sotto il principato di Domiziano, amico di STAZIO che gli dedica il libro III delle Selve. 

È dubbia l'appartenenza all'Epicureismo di un PRISCO, di cui Marziale ricorda un’opera sui piaceri della tavola.

Un periodo di risveglio ha quell’indirizzo in opposizione al diffondersi delle correnti religiose 

Adriano si interessa per il ri-ordinamento del Giardino, di cui furono seguaci ANTONIO, amico di GALENO, che critica le teorie che aveva esposto in un libro (sulla difesa dalle proprie passioni: rep rig ènì roîs Idlors nddeor tpedpelac). 

PRUDENZIANO

Epicureo, menzionato da Galeno in uno dei suoi seritti (Ez:oroA) Iovdevria- vo ’Erixovpetov). 

Dell'Epicureismo sono seguaci anche P. OTTAVIO SECONDO e C. STALLIO AURANIO (Hauranius) di Napoli.

AGRIPPA

Diversi rappresentanti romani trova la scepsi iniziato  e forse tra essi può collocarsi anche uno dei più notevoli pensatori di quel. l'indirizzo, quéll’Agrippa, di cui, per la vita e la cronologia, può dirsi soltanto che è vissuto tra Enesidemo e Sesto Empirigo.

I dieci tropi o argomenti di Enesidemo in favore della sospensione del giudizio, riguardavano la conoscenza sensibile e la valutazione morale e si potevano ridurre ai due della divergenza fra le credenze degli uomini e fra le opinioni dei filosofi e alla relatività delle conoscenze. 

Agrippa ne presentò cinque che avevano un carattere più generale, perchè si riferivano a ogni forma del conoscere, sensibile e intelligibile, e includevano, oltre i due ora ricordati (il 10 e il 3°), altri tre riguardanti, piuttosto che il contenuto, la forma della conoscenza. 

Propriamente, essi hanno per oggetto il tentativo di giustificare qualche tesi. 

Questi argomenti sono : 20 del processo all'infinito, perchè ciò che è in questione deve essere provato con altro e così via illimitata- mente; 

4° delle premesse ingiustificate : se si vuole sfuggire al 2° argomento occorre partire da ipotesi che non si impongono più delle conseguenze ; 

5° del circolo, perchò a deve provarsi con d e è con a, altrimenti si ricade nei due casi precedenti. 

CASSIO

Cassio viene ricordato come filosofo della scepsi.

Cassio ha rivolto critiche a diverse tesi di Zenone i sì erede sia identico al filosofo omonimo che,  secondo Galeno, condanna l’uso di quel ragionamento che era stato denominato il passaggio dal simile al simile, cioè l'analogico. 

Potrebbe però trattarsi di due scettici diversi.

SATURNINO

Seguace di Sesto Empirico, scettico pirroniano e medico, non si ricordano sue dottrine particolari, ma si può supporre che accettasse Diogene Laerzio dice che era soprannominato Kvnvag : la parola è incomprensibile, ma forse indica un’origine greca, quelle fondamentali del maestro che, negando la possibilità di una scienza razionale che pretendesse di cogliere le cause nascoste delle cose, ammette la legittimità di arti (prima fra esse la medicina) che si limitassero a constatare empiricamente coincidenze e successioni di fenomeni per fondare così previsioni probabili per il futuro. 


FAVORINO D'ARELATE

Si collega da una parte alla scepsi, dall’altra a quello dell'Accademia, ma è soprattutto un eclettico, Favorino di Arelate, nato ad Arles, piuttosto retore ed enciclopedico che filosofo, sebbene volesse essere chiamato con questo nome. 

Può essere stato discepolo di Dione Crisostomo a Roma ma non è provato che ha per maestro Epitteto. 

Già al tempo delle guerre daciche di Traiano FAVORINO deve avere conosciuto Plutarco che gli dedica il De primo Frigido e ne fece un interlocutore delle Quaestiones Conviviales.

Inoltre FAVORINO e maestro di Erode Attico che conserva sempre per lui affetto e ammirazione. 

Vive soprattutto a Roma (ove e ascritto all'ordine equestre, mentre in patria consegue un ufficio sacerdotale) sotto Traiano, Adriano e Antonino.

Ma si recò a tener discorsi e conferenze ad Atene e a Corinto, che lo onorarono ciascuna con una statua-ritratto, e nell'Asia Minore, riportando successi specialmente a Efeso. 

In quel tempo si svolse fra FAVORINO e il suo concorrente Polemone un'aspra polemica che venne ripresa a Roma, ove i due sofisti si disputano il favore del principe Adriano.

Favorino, dopo averlo goduto, lo perde, e probabilmente per ciò deve essere stato esiliato a Chio.

Ritorna a Roma quando sale al trono Antonino e stabilì la sua residenza in quella città, ove il pubblico lo amma assai. 

Favorino e in relazione con le persone più colte del tempo suo, come Frontone e Aulo Gellio.

Favorino e uomo di vasta cultura, dominava sia la letteratura greca che quella romana e si distingueva per l’acume della dialettica e per la leggiadria dell’espressione. 

Favorino scrive in greco, trattando argomenti svariati.

Ma delle sue opére rimangono soltanto alcuni discorsi e diatribe e pochi.frammenti. 

Un gruppo di scritti e costituito da discorsi epidittici e da diatribe.

Nei primi, secondo il gusto retorico del tempo, sono contenute lodi di esseri dannosi o spregevoli (Tersite, per es.). 

Fra gli scritti di erudizione storica e più importanti sono i "Memorabili", in almeno 5 libri, e la "Storia svariata", in 24 libri che interessano la storia della filosofia.

I primi, che conosciamo per ciò che ne riferisce Diogene Laerzio, sono principalmente una raccolta di aneddoti sui filosofi.

La seconda ha un contenuto molto vario.

Nei frammenti che sono conservati emergono i capitoli che riguardavano i filosofi che hanno fatto qualche scoperta importante per la storia della cultura; Gli accusatori dei filosofi. 

Un Compendio di Pamfile e un estratto di un’opera di questa.

Più numerosi gli seritti di filosofia scientifica o popolare: 

"Sulle idee"

"Sulla filosofia di Omero"

"Su Platone"; 

"Su Socrate e sulla sua arte erotica"

"Sul modo di vivere dei filosofi"

"Plutarco, o dello stato d'animo dell’ Accademico ; Contro Epitteto (dialogo) ; «Alcibiade; 3 libri rep. is xaradngetIXiio pavraolag.

Contro la gnoseologia stoica.

In un libro intero, Favorino mostra che nemmeno il sole è comprensibile: xateAnmemdv). 

L’opera sua più importante era giudicata uno seritto in 10 libri, / tropî pirroniani, in cui disponeva in modo diverso dal solito gli argomenti di Enesidemo. 

È dubbia una raccolta di sentenze (G@nomologia). 

Agli scritti filosofici si può aggiungere un esteso frammento, recentemente scoperto, di un discorso Sull’esilio, rivolto agli abitanti di Chio.

Ciò che resta sembra costituisse l’introduzione a una diatriba d’intonazione cinico-stoica sull’esilio che, giudicato un male dai più, non può nuocere al filosofo. 

Ritenuto al tempo suo uno dei primi scrittori, fu criticato da Galeno in varie opere e trova molti lettori 

Poca importanza hanno le sue opinioni nella sfera della morale (in cui, in generale, non supera i limiti dei luoghi comuni abituali) e alcune sue tesi naturalistiche, che mostrano influssi aristotelici é stoici. 

Più interessante è il suo atteggiamento filosofico generale. 

FAVORINO si collega all'Accademia, di cui accettava il principio fondamentale inquirere potius quam decernere, e ritenene l'insegnamento migliore quello che argomentava pro e contra.

D'altra parte, la sua opera principale mostra che accetta la scepsi.

Ma effettivamente non si fermava al puro e semplice dubbio, perchè accetta la tesi accademica della probabilità, sicchè, dopo avere difese successivamente due proposizioni opposte, lasciava che i disce- a ‘poli scegliessero la più vera, cioè la più probabile.

Così, al pari di CICERONE, FAVORINO estende il probabilismo oltre i limiti della vita pratica assegnatagli da Carneade e, __‘—col suo predecessore romano, fac di esso il fondamento dell’eclettismo.

Infatti, è verosimile che in questo modo giustificasse l'affermazione che l'insegnamento del Peripato del Liceo conteneva la maggiore probabilità. 

LUCIO STAZIO QUADRATO

Segue l'indirizzo di FAVORINO il suo discepolo Quadrato, che viene identificato a LUCIO Stazio Quadrato, console, pro-console d’Asia. 

LUCIO LICINIO SURA 

Lucio Licino Sura può collegarsi alla scessi dell'Accademia.

Corregionale e amico di MARZIALE. 

LUCIO LICINIO SURA e tre volte console e contribusce notevolmente alle vittorie di TRAIANO sui e daci. 

Amico di TRAIANO che se ne serviva per la composizione dei suoi discorsi, e, dopo di lui, l’uomo più autorevole dello stato. 

Persona molto colta, LUCIO LICINIO SURA si interessa di problemi della filosofia della natura (fisiologia) e partecipa attivamente ai movimenti spirituali.

PLINIO MINORE IL GIOVANE, che gli ha indirizzato due lettere, dice che Sura ha l'abitudine di discutere su una proposizione il "pro," la evidenza, e il "contra," la contra-evidenza. 

Il portico, valendosi di tutti i mezzi orali e scritti, soprattutto di quelli più popolari, che favoriza la diffusione del suo insegnamento, esercita una forte azione non soltanto sulla classe superiore ma anche su quelle più modeste della società romana per mezzo di vere e proprie predicazioni, determinando un gran numero di adesioni e di conversioni.

Sequaci del portico furono infatti uno schiavo come EPITETTO e un principe come MARC'AURELIO ANTONINO.

Siccome, però, soltanto alcuni di essi, soprattutto questo, e più di lui SENECA IL MINORE e anche l'etrusco MUSONIO RUFO, meritano di essere considerati particolarmente, è opportuno ricordare da prima i nomi degli stoici dell’epoca e poi parlare separatamente dei principali. 

Non tutti i seguaci del portico rappresentano degnamente la scuola.

Alcuni filosofi stoici romano sono la negazione o contradizione vivente della dottrina morale che insegnano.

NERONE 

PUBLIO EGNAZIO CELERE

Così sotto il principato di Nerone, PUBLIO Egnazio Celere denuncia un altro stoico, Borea Sorano.

GIOVENALE ricorda a titolo d’infamia PALFURIO SURA, pure stoico.

Ma si tratta di casi isolati. 

MARCO MANILIO 

A portico e probabilmente in modo particolare a Posidonio può collegarsi M. Manilio, vissuto nell’età d'Ottaviano e di Tiberio. 

Nel suo poema astrologico, "Astronomica," MANILIO propugna con entusiasmo una visione del mondo che ha per centro il principio dell'unità di tutte le cose, che sono sottoposte a una legge divina, fissa e ineluttabile, che penetra e vivifica l'universo. 

Il divino risiede nel mondo celeste, del quale quello la terra è un’immagine. 

Le stelle determinano la sorte degl'uomini ai quali non resta che rivolgersi ad esse per interrogarle.

Questa conoscenza sulla sorte dell'uomo rende l’uomo simile al divino.

GAIO GIULIO CESARE GERMANICO

Si occupò di argomenti astronomici anche Gaio Giulio Cesare Germanico, figlio di Nerone Claudio Druso Germanico.

GAIO GIULIO CESARE GERMANICO e adottato dal principe TIBERIO, che contemporaneamente e adottato d'OTTAVIANO, e in tal modo fa parte della famiglia Giulia. 

Dopo la morte d'OTTAVIANO, GAIO GIULIO CESARE GERMANICO dove reprimere le gravi rivolte che erano scoppiate nella regione del Reno fra le legioni.

Poi, passato il Reno, Germanico intraprese una spedizione in Germania, sconfide Arminio, vendicando la sconfitta delle legioni di Varo. 

Richiamato da Tiberio, GAIO GIULIO CESARE GERMANICO venne inviato in Oriente con poteri straordinari. 

In Oriente, GAIO GIULIO CESARE GERMANICO venne in conflitto col pro-console della Siria, CALPURNIO PISONE.

Intanto si ammala improvvisamente in Antiochia e muore. 

Si diffuse la voce che GAIO GIULIO CESARE GERMANICO e avvelenato da PISONE. 

Tale accusa venne smentita nel processo che si fa in seguito. 

Germanico ha larga cultura. 

Scrive commedie e gli si attribuiscono epigrammi.

Germanico e anche un valente oratore. 

Germanico ri-elabora liberamente, servendosi dei progressi compiuti dalla scienza astronomica, i 'Fenomeni" d'Arato. 

Di quest'opera restano 700 versi. 

Possediamo pure frammenti di contenuto astronomico -- circa 200 versi --, che precedentemente si consideravano avanzi di Prognostica, ma che doveno essere inclusi nella seconda parte dei Fenomeni con cui GAIO GIULIO CESARE Germanico vuole completare l’opera d'Arato. 

GAIO GIULIO CESARE GERMANICO segue fedelmente il portico.

Ma le affinità che vi sono indicate, rispetto ad argomenti particolari, tra certe tesi sue e le dottrine di quella scuola non riguardano le teorie centrali di essa. 

GIULIO CANO

Sotto i principi Claudio e Caligola visse Giulio Cano, ucciso da Caligola.

Stando a Seneca, davanti alla morte Giulio Cano mostra una rara imperturbabilità. 

L'interesse da GIULIO CANO mostrato per la sua anima immortale fa pensare a influssi dei crotonesi sul portico.

NERONE

CHEREMONE 

Nel principato di Nerone -- che ebbe per maestri due stoici, Cheremone e Seneca -- segueno il portico

CLARANO 

Clarano, condiscepolo e coetaneo di Seneca, e 

ANNEO SERENO 

Anneo Sereno, amico e parente o liberto di SENECA (che gli dedica vari scritti), "praefectus vigilum."

Stoici e un altro amico di Seneca, 

GAIO CRISPO PASSIENO


GAIO Crispo Passieno, e

LUCIO ANNEO CORNUTO, di Leptis. 

GAIO CRISPO PASSIENO, oratore insigne, e due volte console.

sposa Agrippina.

CORNUTO e confinato da Nerone in un’isola per la libertà delle sue critiche, scrive su argomenti retorici e filosofici. 

Compose "De figuris sententiarum," un commento a Virgilio e un "De enuntiatione vel de ortographia."

"La sua opera ‘principale è Ertdpopà tov xatà Thv ’EXXgvix}y deoXbylay rapadedo- pévoy (che ancora ci rimane) che, valendosi di opere precedenti più estese sull'argomento, presenta l’interpretazione stoica dei miti considerati come allegorie della dottrina naturale stoica. 

Scolari di Cornuto furono 

Anneo Persio Flacco 

Le cui satire sviluppano in versi vigorosi, ma spesso oscuri, dottrine del portico -- e 

Marco Anneo Lucano

Nipote di Seneca, mandato a morte dal principe Nerone per la sua partecipazione alla congiura di Pisone, che nella Farsalia spesso manifesta la sua adesione al portico. 

GIUNIO MODERATO COLUMELLA

Influssi di un portico eclettico si sono rilevati negli scritti di Giunio Moderato Columella, di Cadice, contemporaneo di Seneca, tribuno militare della 6 legione ferrata, che risiedeva nella Siria. 

Columella possede terre in Italia, che riteneva il paese più adatto per l'agricoltura, di cui si interessò in modo particolare. 

Columella compose due redazioni di un’opera sulla agricoltura, una breve (di cui resta un libro "De arboribus"), che doveva includere tre o quattro libri, e una ampia in dodici ("De re rustica").

Di Columella rimane anche sugli stessi argomenti un liber singularis. 

Quando Columella redigeva l’opera maggiore ne aveva già scritta una opera contro gli astrologi, e ne disegna un’altra, riguardante lustrationes ceteraque sacrificia quae pro frugibus sunt, che, se pure è stata composta, non ci è giunta. 

Appartengono all’età del principato di Nerone e dei suoi successori, oltre Borea Sorano e P. Egnazio Celere, anche altri filosofi del portico. 

BOREA SORANO

BOREA SORANO, consul designatus -- veramente consul suffectus -- fu pro-console di Asia.

BOREA SORANO e accusato presso Nerone perchè era amico di Rubellio Plauto e perchè cerca di acquistarsi il favore dei propri amministrati, nei quali fomenta lo spirito di rivolta.

Corrotto dagl'accusatori, testimonia falsamente contro ambedue SORANO E RUBELLIO PLAUTO il cliente e amico e attuale insegnante di filosofia stoica di Sorano, P. Egnazio Celere, di Berito.

BOREA e condannato a morte.

Sotto Vespasiano, Egnazio Celere e accusato davanti al Senato da Musonio Rufo e, sebbene difeso dal cinico Demetrio, fu a sua volta condannato alla pena capitale. 

PALFURIO SURA 

Visse da prima nel principato di Nerone.

Allontanato dal senato dal principe Vespasiano, PALFURIO SURA divenne stoico e acquista fama come oratore e poeta. 

Fu delatore al tempo del principe Domiziano.

Morto Domiziano, venne accusato davanti al senato e condannato. 

Rubellio Plauto, nipote d'OTTAVIANO allo stesso grado di Nerone, adere al portico, seguendo la tradizione della propria famiglia. 

Confinato da Nerone nell'Asia Minore, RUBELLIO PLAUTO stringe amicizia con BOREA SORANO, pro-console d’Asia, ed ebbe rapporti con Musonio Rufo e Cerano. 

Tigellino decise Nerone a liberarsi di RUBELLIO PLAUTO.

Fra le accuse che gli erano rivolte a RUBELLIO PLAUTO v'era quella di appartenere al portico. 

Condannato a morte RUBELLIO PLAUTO segue il consiglio di Musonio Rufo e di Cerano e si lascia uccidere da un centurione. 

Paconio Agrippino, il figlio di MARCO Paconio, mandato a morte dal principe Tiberio, dopo essere stato al tempo di Claudio questore in Creta e in Cirenaica, e da Nerone esiliato dall’Italia. 

Morto Nerone, Paconio Agrippino ritorna in Cirenaica come legato del principe Vespasiano.

TRASEA PETO

Nella stessa epoca vissero due audaci assertori dell'ideale del partito repubblicano: Trasea Peto e suo genero Elvidio Prisco. 

TRASEA PETO, nato a Padova da famiglia distinta e ricca, risiede a Roma.

Sebbene appartenesse all'opposizione al regimen del principato, TRASEA PETO e consul suffectus e partecipa attivamente all'adunanze del Senato, opponendosi al principe Nerone.

Ne stette lontano.

Il principe Nerone gli era ostile a TRASEA PETO sia perchè aveva composto uno scritto in lode di Catone Minore, sia per l’azione personale che svolge. 

Processato davanti al senato e condannato a morte, TRASEA PETO si fa segare le vene dopo aver detto al questore che gli aveva comunicato la sentenza, "Libiamo a Giove liberatore."

Lo assistette negl'ultimi momenti il cinico DEMETRIO col quale precedentemente discute della natura dell'anima e della sua divisione dal corpo. 

ELVIDIO PRISCO 

Elvidio Prisco, nato nel Sannio, si dedica alla filosofia ed ebbe maestri stoici. 

Sebbene rigido membro del partito repubblicano, Elvidio PRISCO partecipa attivamente alla vita pubblica durante il regimen del principato. 

Elvidio Prisco e quaestor Achaiae.

Come quaestorius, ELVIDIO PRISCO comanda una legione ed e tribuno della plebe.

ELVIDIO PRISCO e involto nel processo del suocero e bandito da Roma.

Richiamato dal principe Galba, accusa il delatore di Trasea Peto.

ELVIDIO PRISCO ottenne la pretura. 

Energico oppositore del principe, si attirò l’avversione personale di Vespasiano e perciò e relegato per la seconda volta, poi condannato a morte.

GAIO TUTILIO OSTILIANO

Il filosofo stoico Ostiliano, da Cortona, e bandito dal principe Vespasiano. 

Nell’età di Domiziano vissero 

C. Vibio Massimo, 

Giunio Aruleno Rustico, 

Erennio Senecione e inoltre Frontone, Lucio Silio Deciano, console, di Emerita, nella Lusitania, ricordati da Marziale.

GAIO VIBIO MASSIMO 

Gaio Vibio Massimo e prefetto della 3% coorte alpina nella Dalmazia, prefetto dell'Egitto.

Gaio Vibio Massimo e amico di Stazio e di Plinio il Giovane. 

GIUNIO ARULENO RUSTICO 

Giunio Aruleno Rustico, tribuno della plebe, pretore, e fatto a uccidere dal principe Domiziano perchè filosofa e considera Trasea Peto un santo. 

SENECIONE

A eguale sorte, per avere scritto la vita di Elvidio Prisco, Senecione, nato nella Spagna Betica ove fu questore, seguace del portico. 

SILIO ITALICO

Silio Italico, l’autore dei Punica, un poema sulla guerra punica.

Nato a Italica in Italia. 

Accusato di essere stato un delatore sotto Nerone, ottenne il consolato, l’ultimo anno del principato di quell’imperatore, poi partecipò attivamente alle lotte per la successione all'impero, che avvennero negli anni seguenti e ottenne bella fama come proconsole d’Asia. 

Ritiratosi a vita privata, impiegò il suo tempo negli studi, passando gli ultimi anni nella Campania. 

Per sottrarsi a una malattia incurabile, si da la morte con la fame. 

PLINIO MAGGIORE, PLINIO MINORE

I due Plinii non si possono considerare stoici, sebbene nei loro scritti si trovino pensieri che dipendono dalla filosofia del portico, di cui Plinio il Vecchio e un ammiratore. 

Quanto a Plinio il Giovane, conosce in Siria, quando vi prest servizio, due filosofi, Artemidoro e Eufrate, coi quali più tardi ha stretti rapporti in Roma. 

GIOVENALE, anche se si collega al portico, si ferma alla morale delle diatribe senza imprimervi carattere propriamente filosofico. 

TACITO

Si è voluto far dipendere dal portico anche Tacito, che effettivamente prova simpatia per la rigida morale di esso.

Ma è certo che nella sua concezione della storia, e quindi nella sua visione della realtà, Tacito (che in generale non apprezza troppo la filosofia e i suoi cultori) mostra un pensiero poco coerente e poco organico, tanto è vero che spiega gli stessi avvenimenti sia con cause naturali, sia con forze che le trascendono, come il favore degli dei e il destino, e anche, rispetto alle seconde, oscilla fra il caso e il fato. 

Nell’età del principe Adriano e nella seguente visse Lucio, discepolo di Musonio Rufo. 

Marc'Aurelio Antonino ricorda con affetto e lode tre seguaci del portico, tutti i tre suoi maestri.

GIUNIO RUSTICO, figlio o nipote di G. Rustico Aruleno, due volte console, e collega del principe Adriano nel suo terzo consolato, e praefectus urbis.

CLAUDIO MASSIMO, console, legato, e procuratore imperiale.

CINNA CATULO, tutti e tre suoi maestri. 

Era seguace del portico anche il principe MARC'AURELIO.

Dopo Marc'Aurelio Antonino, il portico perde importanza e si estingue. 

ANNIO 

Vengono ricordati due suoi rappresentanti romani contemporanei della formazione del Neo-Platonismo : Annio e Medio.

Una discussione che MEDIO ha con Longino può essere avvenuta. 

Secondo Longino, ANNIO E MEDIO sarebbero stati privi di originalità e si sarebbero limitati a riprodurre il pensiero degli antichi. 

MUSONIO

Forse era romano lo stoico Musonio che insegna in Atene quando vi studia Longino, ma non pubblica scritti. 

Non è nota la cronologia di un altro stoico, il romano T. Claudio Alessandro. 

In ogni modo, il portico esercita un’azione profonda ed estesa sullo svolgimento posteriore della etica come disciplina filosofica e come norma pratica di vita, esercitato una forte azione sul Neo-Platonismo, i

LUCIO ANNEO SENECA

Lucio Anneo Seneca nacque a Corduba. 

SENECA MAGGIORE

Il padre chiamato poco esattamente il retore, cultore degli studi letterari e, soprattutto, dell’eloquenza, srive una storia romana dalla guerra civile in poi, che si è perduta, dieci libri di "Controversiae" e uno di "Suasoriae", in cui, servendosi dei suoi ricordi, raccoglie parti di declamazioni di retori che ha ascoltato. 

Il fratello maggiore di Seneca, Marco Anneo Novato, al quale Seneca dedica il "De ira", il "De vita beata" e il "De remediis fortuitorum", e adottato dal retore Giunio Gallione, amico di suo padre, il Seneca maggiore, di cui prese il nome. 

Marco Anneo Novato copre uffici molto elevati perchè e console e pro-console dell’Acaia.

Mdopo qualche tempo dalla morte del fratello; si tolse la vita, forse perchè fatto oggetto degl'attacchi, da prima inutili, dei suoi nemici. 

Di Marco Anneo Novato Seneca parla spesso con affetto e stima, mentre raramente accenna al fratello minore, Mela.

MELA ha per figlio Lucano. 

Lucio Anneo Seneca e condotto a Roma 

La filosofia lo attira ben presto, sicchè si interessò degl'insegnamenti dei più notevoli rappresentanti di essa in Roma.

Ha per maestri Sozione d’Alessandria e Sestio il giovane, Attalo, Papirio Fabiano e il cinico Demetrio, che ricorda spesso con viva ammirazione. 

Seneca adere allo Stoicismo, di cui volle applicare le norme severe alla vita di tutti i giorni.

Ma per consiglio de Seneca maggiore, che temeva sia che le rinuncie che si imponeva incorresse nell’avversione del principe Tiberio, ostile ai filosofi, si volge all’eloquenza forense e alle cariche pubbliche. 

Seneca consegue la questura, entra in Senato e come oratore consegue tali trionfi da suscitare l'invidia e l’avversione del principe Caligola che avrebbe voluto mandarlo a morte, ma che muta, parere, perchè venne convinto che Seneca ha ben poco tempo da vivere. 

Allora Seneca abbandona l'avvocatura, poi rimasto libero per la morte del padre ritorna agli studi filosofici.

Appartengono forse a questa epoca le sue prime opere di filosofia, la "Consolatio" e i libri del "De ira."

Ma una nuova tempesta lo cole perchè venne aceusato di adulterio colla sorella di Caligola.

Sicchè il principe Claudio esilia Seneca in Corsica. 

Rimesso dal grave colpo tenta di trovar conforto e forza nell’insegnamento del portico con altra "Consolatio".

Poi si abbatte a tal punto da scrivere una terza "Consolatio" -- dedicata a Polibio, liberto e segretario di principe Claudio -- piena di adulazioni per Polibio e il principe.

Claudio richiama Seneca dall’esilio a Corsica, lo nominare pretore e gli affide l'educazione del figlio Nerone adottato da Claudio.

Siccome Nerone ha altri due precettori di filosofia, Annio e Cherecho, è probabile che Seneca si occupasse piuttosto degli insegnamenti dell’eloquenza e della poesia e della formazione morale del discepolo. 

Collega di Seneca e Afranio Burro, prefetto del pretorio, uomo di nobile tempra morale. 

Si assicurare il principato a Nerone ai danni di Britannico. Quando Claudio muore avvelenato, e proclamato principe Nerone.

Allora Seneca, che per la morte di Claudio scrive una satira feroce contro di lui, vide rafforzato il suo potere e ottene il consolato. 

A Nerone Seneca dedica il "De elementia".

Ma in questo periodo la sua attività filosofica di Seneca si rallenta.

Infatti Seneca e Burro, divenuti ministri, erano i veri dominatori del principato che, guidato con saggezza. 

Ma ben presto il potere di Burro e Seneca scema, perchè il principe ascolta cattivi consiglieri e si mostra sempre più malvagio e crudele, malgrado i tentativi dei suoi maestri per dissuaderlo dai suoi insani propositi.

Seneca scrive il messaggio inviato da Nerone al Senato per giustificare la morte di Agrippina.

Seneca e fortemente attaccato dai suoi nemici e specialmente da Suillio che lo accusa di essere riuscito in pochi anni ad accumulare immense ricchezze, di andare a caccia di testamenti, di captare la benevolenza di vecchi senza eredi, di opprimere l’Italia e le province con usure formidabili. 

Seneca ottenne che Suillio e confinato nell'isole Baleari.

Non riusce a fare esiliare anche il del figlio di Suillio.

Seneca cerca poi nel "De vita beata" di rispondere alle critiche che gli sono state rivolte.

La difesa è poco convincente. 

Morto Burro, decadde sempre più l'autorità di Seneca che, denigrato presso il principe, per sfuggire ai pericoli che lo minacciavano, gli offre le sue ricchezze e gli chiese il permesso di abbandonare la corte. 

Nerone respinse ambedue le proposte, ma Seneca approfittò delle costruzioni intraprese dal principe per rendergli in parte i suoi doni, e, deposto ogni lusso e ogni fasto, conduce vita solitaria occupandosi esclusivamente di studi filosofici. 

A questo tempo appartengono il "De beneficiis", le Lettere a Lucilio, e le Questioni naturali. 

Nerone, che inutilmente cerca di far avvelenare Seneca, si valse dell'accusa che gli fu rivolta di partecipare alla congiura di G. Calpurnio Pisone per ordinargli di ucecidersi. 

Seneca domanda di far testamento, e avuto un rifiuto, dice agl'amici che lega loro l’unico bene che gli era rimasto, l'esempio della sua vita, e l'esorta a vincere il dolore che l'invade. 

Si fa segare le vene.

Siccome la morte tarda a venire.

Seneca detta ai suoi segretari parole che Tacito non ci ha trasmette perchè tutti le conosceno.

Per affrettare la morte beve cicuta, ma inutilmente, per le condizioni del suo organismo. 

Allora si fa portare in un bagno caldo e, aspersi con quell'acqua gli schiavi che gli erano vicini, dice : consacro questo liquore a Giove liberatore. 

Portato in una stufa spira fra quei vapori.

Le opere che ci restano di lui sono molto numerose, e diverse non ci sono giunte. 

Quintiliano divide quegli scritti in orationes, poemata, epistulae, dialogi. 

Quanto alle orazioni si conservano frammenti o notizie di quelle fatte in lode di Messalina e per Plauzio Laterano e dei discorsi composti per Nerone in onore di Claudio, ai pretoriani, al Senato e a questo, per giustificare la morte di Agrippina. 

Si può menzionare anche il discorso, che secondo Tacito, rivolge a Nerone per offrirgli le sue ricchezze e per ritirarsi dalla corte. 

Le poesie più brevi doveno comprendere almeno 4 libri, 

Si discute sull’autenticità degli epigrammi che portano il nome di Seneca, ma almeno alcuni sembrano suoi.

Alle poesie appertengono le tragedie.

 L’Apokolokyntosis ("L’inzuccamento di Claudio;) è una satira menippea mista di prosa e di versi. 

Ri-entrano nelle opere filosofiche le lettere a Lucilio in 20 libri.

Si è perduta una "Vita patris" che non rientra nella divisione di Quintiliano. 

Quintiliano designa con "Dialogi" tutte le opere filosofiche salvo le lettere a Lucilio, dando a quella parola il significato di diatribe. 

Fra le opere di Seneca ci interessano, oltre gli seritti filosofici, le tragedie per l’affinità che presentano nel loro contenuto con le dottrine morali dell’autore.

E questo uno dei più forti argomenti che si possono portare per rivendicarne al filosofo la paternità, che è stata a lungo discussa, ma che ora è accettata generalmente. 

Come mostrano gli stessi titoli -- "Hercules [furens]", "Troades" [o "Hecuba"], "Phoenissae" [o "Thebais"], "Medea", "Phaedra" [o "Hippolytus"], "Oedipus", "Agamemnon", "Thyestes", "Hercules Ocetaeus"), gli argomenti sono presi dal mondo delle leggende.

Ma l’autore vi ha messo l'impronta della romanità. 

È più dubbia la paternità della "Octavia," l’unica tragedia praetexta che sia rimasta, ma trova ancora difensori. 

È discussa la cronologia delle tragedie.

La tesi più accettata in passato ne poneva la composizione nel tempo dell’esilio in Corsica.

Ma ora si propende a credere che siano state scritte quando Seneca vive a corte.

Anzi, vi è chi pensa che il "T'hyestes" appartene ad anni posteriori. 

Importanza molto maggiore hanno gli seritti filosofici in prosa.

Come si è detto, Quintiliano li chiamava tutti dialoghi, ma la tradizione manoscritta denomina così dieci lavori: 

"De providentia"

"De constantia sapientis"

"De ira libri tres"

"De consolatione"

"De vita beata"

"De otio"

"De tranquillitate animi"

"De brevitate vitae"

"Ad Polybium de consolatione"

"De consolatione."

Sono però dialoghi apparenti, perchè effettivamente presentano esposizioni continuate, interrotte talvolta da interrogazioni o da obbiezioni presentate o dalla persona cui l’opera è dedicata o da altri. 

Scritti non inclusi in questa raccolta sono: 

"De clementia libri tres"

"De beneficiis libri septem"

"Naturalium quaestionum libri octo"

"Epistulae morales ad Lucilium" -- ne restano 20 libri, ma non sono complete, perchè Aulo Gellio ne ricorda il libro XXII. 

È incerta la cronologia di questi scritti che rappresentano soltanto una parte della produzione filosofica di Seneca, perchè diversi sono perduti.

Di alcuni rimangono soltanto frammenti citazioni, di altri rielaborazioni o florilegi medioevali. 

Rientrano nel primo gruppo scritti filosofici, soprattutto morali:

"Exhortationes", 

"De officiis", 

"De immatura morte", 

"Quomodo amicitia continenda sit"

"De superstitione dialogus"

i "Moralis philosophiae libri", in generale, si ritengono un’opera a sè, ma alcuno crede che con quel titolo Seneca designa un gruppo di lavori affini, fra i quali "De clementia," "De beneficiis", "De providentia", "De officiis") e naturalistiche ("De motu terrarum", "De lapidum natura," estratto dalle "Naturales Quaestiones" come lo scritto seguente, "De piscium natura", "De situ Indiae", "De situ et sacris Aegyptiorum", "De forma mundi".

Come si è detto, si è perduta una "Vita patris"/

Inoltre, non ci sono giunte lettere a Marullo, Cesonio Massimo e Novato. 

Dello scritto "Ad Gallionem fratrem de remediis fortuitorum", composto al tempo di Nerone, ricordato da Tertulliano, venne composta piu tarde una rielaborazione con lo stesso titolo. 

Il "De matrimonio", pure perduto, serve a Girolamo per comporre la sua epistola "Ad Jovinianum."

Nell’età medioevale si composero estratti e florilegi di opere sue, soprattutto di alcune perdute. 

Martino di Brancara tratta dal "De" ira uno scritto con lo stesso titolo, e nella "Formula honestae vitae o De quattuor virtutibus" rielabora materiali tolti, pare, alle "Exhortationes" o al "De officiis". 

Dallo scritto precedente e dalle Lettere a Lucilio e ricavato il "De copia verborum". 

Alcuni però ritengono che esistessero tre scritti assegnati a Seneca con quei titoli, altri, che dal primo siano stati derivati il secondo e il terzo.

Con "De paupertate" sono intitolati estratti dalle lettere a Lucilio. 

Appartiene ai florilegi il "Liber de moribus", una serie di 145 sentenze morali che pare fosse conosciuta come opera di Seneca.

Sembra un estratto da una raccolta più ampia, dalla quale deriverebbero anche i "Monita Senecae". 

Dal "Liber de moribus" provengono in gran parte i "Proverbia" o "Sententiae Senecae", 149 sentenze in prosa, disposte in ordine alfabetico da N a Q e destinate a integrare quelle di Publio Siro nella redazione che giungeva soltanto sino a N. 

Può darsi che altri scritti di Seneca siano spariti senza lasciare traccia. 

È apocrifa la corrispondenza fra Seneca e Paolo di Tarso, conosciuta già da Girolamo e da Agostino.

Apocrife sono anche le "Notae Senecae", sei elenchi di abbreviazioni tironiane con le spiegazioni relative. 

È difficile stabilire la cronologia delle opere filosofiche di Seneca.

Sembra, come si è indicato, che la consolazione a Polibio, e le due altri, stiano tra le più antiche. 

Esse rientrano in un genere particolare, molto coltivato dai filosofi dell’età ellenistico-romana, specialmente dagli Stoici. 

Anche Cicerone ne scrive una.

Essi cercavano di dare conforto e coraggio alle persone più legate a loro quando le vedevano colpite a fondo dalla sventura; e partendo dalle loro condizioni particolari si elevavano a considerazioni filosofiche generali e portavano esempi di casi della stessa natura avvenuti a persone insigni e -- questa parte era in complesso simile in tutti gli scritti del genere -- per convincere il destinatario che doveva farsi forza e rimanere al suo posto nelle lotte della vita. 

Queste esortazioni e questi insegnamenti morali doveno servire non soltanto al destinatario, ma a tutti gli uomini colpiti da dolori e da sventure simili. 

CREMUZIO CORDO

Forse la "Consolatio" più antica è quella rivolta a Marcia, figlia di CREMUZIO CORDO, che per il suo libero linguaggio venne preso in odio da Seiano il quale, valendosi dell’audacia con cui scrive i suoi annali, lo fa accusare di lesa maestà. 

Dopo esserti alteramente difeso davanti al Senato, CREMUZIO CORDO si tolge la vita con la fame per sottrarsi a una sicura condanna. 

Si ottenne da Caligola il permesso di pubblicar gl'Annali, dopo averne tolto la parti pericolose.

I due figli (Giulio e Metilio) della sua figlia sono morti. 

Per darle conforto, Seneca scrive la "Consolatio," che certamente è posteriore all'avvento al trono di Caligola.

Può darsi che la menzione di Fabiano accenni a Seneca come fonte.

E possibile che Seneca attinge anche ai conforti dati da Ario Didimo. 

Abitualmente si pensa a rapporti con la Consolatio di Cicerone e ai passi delle sue Tusculane che si riferiscono ad argomenti simili. 

La seconda Consolatio dimostra che Seneca non soffre nulla per cui possa essere chiamato infelice e non può diventarlo, perchè quelli che abitualmente si chiamano mali -- lontananza dalla patria, povertà -- non sono tali.

Si esorta a darsi agli studi liberali, il solo rifugio che si apre a coloro che fuggono i colpi della fortuna. 

Seneca chiude questo scritto assicurando  che è lieto e alacre, come chi si trovi nelle condizioni più fortunate.

Ed effettivamente è in tale situazione perchè l’anima sua, libera da ogni occupazione, attende agl'uffici propri e ora si allieta con studi più leggeri, ora si eleva a considerare la natura propria e quella dell'universo, finchè sale alle somme altezze e contempla lo spettacolo delle cose divine : e, memore della propria eternità, percorre tutto il passato e tutto il futuro. 

Come fonti, Seneca accenna Varrone e a M. Bruto. 

Però l’esilio divenne tanto grave che scrive una Consolatio ad Polybium (di cui si è perduto il principio), apparentemente per confortarlo per la morte di un fratello, ma effettivamente per ottenere la revoca della condanna.

E per raggiungere lo scopo, esalta con adulazioni indecorose il destinatario e l’imperatore, senza però che la grazia gli fosse concessa. 

Probabilmente fa parte delle più antiche opere di Seneca anche il "De ira," composto, a quanto sembra, sotto Caligola.

L'opera in tre libri, mutila all’inizio del primo, è dedicata al fratello Novato Gallione che gli chiede di indicargli come e possibile calmare l'ira. 

Tale passione non era stata spesso trattata dai filosofi romani -- sempre gravi.

Seneca, nel libro I, per mostrare che chi ne è posseduto è in uno stato di pazzia, ne descrive le manifestazioni esterne, odiose e deformi, ne indica gli effetti funesti, ne dà una definizione (che nel testo manca, ma doveva essere quella tramandata da Lattanzio nel De ira Dei:

Ira est incitatio animi ad nocendum ei qui nocuit aut nocere voluit.

Mette in luce che appartiene soltanto all'uomo.

Seneca distingue l'ira dall’"iracondia."

Seneca critica a lungo il Liceo il quale afferma che l'ira deve esserè non estirpata, ma moderata, perchè è data dalla natura ed è utile.

Seneca mostra che produce sempre effetti funesti, per concludere, dichiara che l'ira  non è mai nè grande, nè nobile che, al pari dell'altre passioni.

L'ira è miserabile a bassa. 

Nel libro II comincia coll’affermare che l'ira non nasce entro di noi involontamente (insedis nobis), ma dipende dal concorso della volontà, cioè dal consenso dell'anima e perciò può essere vinta dalla ragione.

Poi, dopo avere criticato gli argomenti che sono stati portati per difendere la passione dell'ira, passa a trattare sui suoi rimedi. 

L'educazione si può usare per i fanciulli.

Negli adulti, occorre combattere da prima la causa fondamentale dell’ira, e siccome essa risiede nell’opinione che altri ha voluto recarci ingiuria, non bisogna prestarle fede facilmente. 

Nel libro III Seneca ricerca come l’ira possa essere sradicata o almeno frenata. 

Seneca critica di nuovo la teoria del Liceo che non vuole estirparla dall'anima.

Poi ricerca come sia possibile non cadere in essa o liberarcene se ci ha vinto, infine, come possiamo calmare e ridurre alla ragione un uomo irato. 

In ultimo osserva che l’aiuto migliore è il pensiero della nostra mortalità. 

Non abbiamo tempo da perdere.

Cerchiamo di rendere questa nostra breve vita placida e pacifica per noi e per gl'altri, di far sì che altri ci ami in vita e ci desideri dopo la morte. 

Finchè restiamo fra gl'uomini, esercitiamo l'umanità, non siamo causa di pericolo o di timore per alcuno. 

È chiaro che quest'opera non segue un piano organico e unitario ed è priva di ordine e di coerenza. 

Siccome il libro III è difettoso, soprattutto perchè ritorna su argomenti studiati precedentemente, alcuni l’hanno considerato un trattato a sè, o come una redazione diversa del II, che forse lo stesso autore o altri avrebbe aggiunto ai precedenti.

Ma anche i libri precedenti sono difettosi e la mancanza d’ordine e di nesso si incontra pure in altri scritti di Seneca, sebbene in misura minore sicchè non è necessario ricorrere a quelle ipotesi. 

È naturale che difetti simili appaiano più accentuati in uno dei primi scritti di questo autore. 

In ogni modo, è notevole la conclusione, in cui si rivela uno dei motivi dominanti del suo pensiero, cioè la convinzione che la consapevolezza della brevità della nostra vita deve renderei miti e umani verso tutti. 

Quanto alle fonti, si è molto disensso. 

I nomi che si presentano abitualmente sono quelli di Crisippo, Posidonio e Sozione e alcuni parlano anche di Antioco.

Vi è chi ritiene la questione delle fonti insolubile. 

Il "De brevitate vitae", che probabilmente è stato composto dopo il ritorno dall’esilio in Corsica, è dedicato a un Paolino, prefetto dell’annona, che secondo alcuni sarebbe stato il padre di quella Pomponia Paolina che poi Seneca doveva sposare. 

Il tema principale del "De brevitate vita" è la tesi, che contrasta coi lamenti sulla limitazione della esistenza umana che è un motivo fondamentale delle tre "Consolationes", che a torto gl'uomini si lagnano della brevità della loro vita, perchè sono essi che la rendono tale sciupandola con una prodigalità insensata in occupazioni vuote e inutili, nelle quali Seneca include le ricerche di erudizione) e nel compiacere alle loro passioni e ai loro vizi. 

La vita è abbastanza lunga se è consacrata allo studio della sapienza -- che è, essenzialmente, la filosofia morale.

Vivono davvero coloro che si dedicano a questa, che non soltanto occupano bene la loro esistenza, ma aggiungono ad essa tutti i secoli passati. 

In loro dobbiamo vedere le guide della nostra vita.

Tutti ci insegnano a morire.

I grandi filosofi ci aprono la strada dell'eternità dalla quale nessuno è precipitato.

E questo l’unico modo di trasformare la nostra mortalità in immortalità. 

Quindi la vita del sapiente è molto estesa, perchè egli solo è libero dalle leggi del genere umano, in quanto tutti i secoli gli sono sottoposti come al divino.

Col pensiero, infatti, il sapiente domina il presente, il passato e il futuro. 

Seneca conclude lo scritto esortando Paolino a rinunciare alla vita pubblica per consacrare le sue attività agli studi filosofici, ricerchi quale sia la natura del divino, quale la sorte dell'anima dopo la morte, quale la struttura dell’universo. 

Però se certi concetti principali si possono facilmente indicare, è difficile analizzare particolarmente l’opera, perchè contiene digressioni che la rendono priva di coerenza. 

Il "De clementia", indirizzata a Nerone da poco principe.

Se si sta alla lezione comune per cui si dice che l’imperiale discepolo aveva oltrepassato il 18° anno.

Prèchac, invece, correggendo il testo, lo vuole composto pria. 

Il sommario divide la trattazione "De clemenza" in tre parti.

Generalmente si ritiene che si possegga soltanto la prima (I libro) e l’inizio della seconda (II libro), sicchè mancherebbero la parte maggiore del II e la totalità del III.

Préchac invece erede che possediamo l’opera completa, in un libro solo, perchè corregge a suo modo il testo corrotto che indica la 1% parte e pone tutto il I libro, a partire dal sommario, dopo ciò che possediamo del II.

Ma questa audacissima trasposizione non soddisfa, se non altro perchè non corrisponde alle indicazioni del sommario stesso. 

Secondo l’interpretazione abituale, la prima parte introduttiva tratta in generale della clemenza e mostra che è in modo particolare doverosa e utile per il principe.

La seconda parte doveva definir la clemenza e indicare quali, siano i caratteri che la distinguono dai vizi che la imitano.

Nella terza parte della "Clemenza" si ricerca come l’anima possa essere portata a quella virtù, come la rafforziamo e come con l’uso essa diventi nostra. 

Della seconda parte rimangono la definizione della clemenza che è contrapposta alla crudeltà, e la distinzione tra la clemenza e la misericordia o "compassione" e la venia (il perdono). 

Sorprendono le lodi illimitate della clemenza di Nerone, che poco prima aveva fatto uccidere Britannico, ma può darsi che così Seneca volesse costringerlo a frenare le tendenze brutali che cominciava a manifestare e obbligarlo a non contraddire le dichiarazioni che aveva fatto all’inizio del suo principato. 

È presumibile che l'opera abbia usato fonti stoiche, ma non è possibile determinarle esattamente. 

Il De clementia ispirato a Montaigne pagine interessanti, a Corneille il Cinna, a Racine versi eloquenti del Britannicus nella parte di Burro.

Il De constantia sapientis è dedicato a Anneo Sereno (che succede a Tigellino come praefectus vigilum), morto prima di Seneca; probabilmente è stato scritto all’inizio dell'ascesa al trono di Nerone, ma qualcuno lo ha collocato dopo la condanna di Suillio. 

Il "De constantia sapientis" vuole dimostrare il paradosso stoico che il sapiente non può ricevere nè ingiuria ("injuria") nè offesa ("contumelia"). 

Seneca osserva che il sapiente è impenetrabile ai colpi dell'ingiuriae che effettivamente essa non può raggiungere il suo scopo di fare del male, perchè la sapienza non lascia posto a questo.

Chi possiede la sapienza si contenta della virtù che non gli può essere tolta dalla fortuna e per conseguenza non può ricevere ingiuria. 

Quanto all’offesa, implica disprezzo.

Ma non possiamo disprezzare, chi ci è superiore.

Come i genitori non sono offesi dalla condotta dei loro bambini, che non possono disprezzarli, così si comporta il sapiente con tutti gli uomini che, anche se canuti, permangono bambini. 

Nel "De beata vita" (mutilo nell’ultima parte) la discussione della critica rivolta ai filosofi di non conformare la vita alle teorie sostenute.

Fa supporre che Seneca la compone per difendersi dalle accuse di Suillio. 

Seneca da prima osserva che tutti desiderano vivere felicemente, ma che è difficile raggiungere questo scopo.

Occorre non seguire come pecore il gregge della massa del volgo che preferisce credere a giudicare e conduce nell’errore, ma rivolgersi alla ragione. 

Seneea da prima determina che cosa sia la vita felice.

In ciò Seneca segue il parere degli stoici, per i quali è tale quella che si accorda con la natura. 

Del resto, il bene può definirsi anche diversamente.

In ogni modo, occorre far consistere il bene nella virtù che si fonda sull’esercizio della ragione ed è necessario da prima distinguerlo dalla voluttà colla quale è incompatibile. 

Perciò Seneca critica largamente la dottrina del giardino d'Epicuro che collega inseparabilmente termini inconciliabili.

Pur ammirando la vita e i precetti del suo fondatore, ritiene che con le sue teorie abbia offerto una giustificazione ai viziosi. 

E non si può nemmeno dire (e così si passa alla critica delle dottrine di Antioco d'Ascalona) che virtù e voluttà insieme costituiscano il sommo bene, perchè chi le collega toglie alla prima ogni solida base, pone l’uomo nella più grave delle servitù, quella della fortuna, 

Però, se la virtù è il fondamento della vera felicità, perchè basta a far sì che la vita sia felice, chi tende verso di essa dipende ancora in qualche misura dai favori della fortuna. 

Non vi è quindi ragione di rimproverare ai filosofi perchè non uniformano la vita ai precetti, valendosi di accuse che si sono rivolte ai maggiori (Socrate, Platone, Aristotele), i quali dicevano non come essi vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere, e di rinfacciare loro che trascorrevano l’esistenza nel lusso e nelle ricchezze. 

Invece di disprezzare gli uomini che tentano ascensioni ardue se non raggiungono la cima, occorre ammirarne la difficile impresa anche se non condotta a termine. 

D'altra parte, non è necessario che il sapiente faccia getto dei beni esterni offerti dalla fortuna, come le ricchezze, basta che non se ne renda schiavo. 

Egli non le ama, ma le ritiene cose preferibili alle opposte.

Così Seneca si vale della teoria stoica che fra le cose indifferenti alcune sono da preferire, altre da respingere.

Basta che le acquisti onestamente, che se ne serva bene e in modo generoso, e che non si lamenti quando lo abbandonano. 

Le ricchezze *servono* al sapiente, comandano allo *stolto*. 

Il "De otio," che in un certo senso si collega al "De vita beata", nella parte in cui questo scritto ricorda il ritiro dalle cose pubbliche, mutilo all’inizio e alla fine, è stato scritto quando Seneca si era ritirato dalla vita politica.

Infatti, Seneca cerca di difendersi dall’accusa di disertare la causa del portico cui aderiva.

Seneca ricorda che, secondo Zenone, il sapiente si occupa delle cose pubbliche, se qualche causa non lo vieta, ma questa causa ha estensione molto ampia, perchè include i casi in cui lo stato è troppo corrotto perchè sia possibile soccorrerlo e quelli in cui la salvezza del sapiente costituisce un ostacolo all’opera sua. 

Chi non può giovare ad altri (a molti, e se non altro a pochi) deve cercare di essere utile a se stesso, perchè così prepara del bene ad altri. 

Seneca cerca di provare due tesi.

La prima tesi: che alcuno può, sino dalla prima età, darsi completamente alla contemplazione della verità, cercare una norma di vita e tradurla in pratica, nella esistenza privata.

La seconda tesi: che alcuno può fare ciò col maggiore diritto quando è già avanti negli anni e ha lungamente servito la cosa pubblica. 

Ma effettivamente ciò che resta del trattato ha per oggetto di mostrare in generale che è lecito consacrare le proprie attività alla contemplazione. 

Se consideriamo quel grande stato (res publica) che include gli dei e gli uomini, vediamo che possiamo servirlo soprattutto nel riposo, meditando sui grandi problemi che riguardano il divino, la natura, e la condotta umana. Così serviamo il divino, in quanto facciamo sì che le sue grandi opere non restino prive di testimoni 

Del resto, si dice che il sommo bene consiste nel vivere secondo la natura.

Ora questa ci ha generati sia per la contemplazione che per l’azione.

Infatti, un impulso *naturale* spinge gli uomini alla ricerca. 

La natura stessa ci porta allo studio dell'universo, per il quale è troppo breve l’intera vita umana.

Quindi l’uomo vive secondo la natura, se si dà completamente ad essa. 

Ma in tal modo l'uomo non soltanto contempla, ma anche agisce, perchè la speculazione deve tradursi nell’azione. 

Se poi il sapiente non ha modo di comportarsi così, può, anche restando solo con se stesso, agire in maniera tale da essere utile alla posterità. 

I grandi filosofi stoici hanno compiuto cose maggiori dei capitani e dei legislatori, perchè hanno operato per tutto il genere umano, presente e futuro. 

Del resto, se, come la realtà mostra, non si trova stato alcuno che il sapiente possa sopportare o che possa sopportarlo, se non se ne trova uno uguale a quello che ci immaginiamo, il riposo appare una necessità per tutti, perchè non esiste l’unica cosa che gli poteva essere preferita. 

Il "De tranquillitate animi", dedicato a Sereno, che si può ritenere scritto non molto dopo il "De otio", ha una singolare introduzione, in cui Seneca, parlando a se stesso, riconosce che l’esame della sua anima gli mostra che include vizi di cui non sa liberarsi, pure non essendone schiavo, sicchè si trova nello stato penoso di chi non è nè sano nè malato.

Così non tende fortemente nè verso ciò che è retto, nè verso l’opposto. 

A questa dichiarazione segue una specie di esame di coscienza, in cui Seneca indica le forze che lo spingono in direzioni opposte, le tentazioni, si potrebbe dire, che agiscono su di lui.

Seneca prega Sereno di indicargli, se lo conosce, qualche rimedio per quei suoi ondeggiamenti. 

Desidererebbe di conseguire quella eòdupia di cui ha trattato Democrito, cioè la tranquillità dell'anima per cui essa è in accordo con se stessa.

A questo stato si oppone quello in cui l’anima dispiace a sè e perciò sì agita e detesta il riposo.

Si irrita contro la sorte, si lamenta del secolo, si rincantuccia e si concentra nella sua sofferenza, ha disgusto di sè. 

Per uscire da questo stato cerca continuamente di mutare sedi, occupazioni. 

Secondo Atenodoro, il rimedio migliore sarebbe l’occuparsi degli uffici pubblici.

Ma per i vizi degl'uomini, la simplicitas è poco sicura e perciò occorre allontanarsene. 

Però, anche nella solitudine si può essere utili a tutti, educando le anime alla virtù. 

Seneca pensa che la cosa migliore è il mescolare il riposo all'attività, perchè vi è sempre posto per un’azione virtuosa, anche nelle condizioni politiche più infelici se non altro nei rapporti privati.

A seconda della situazione dello stato e di ciò che la fortuna permette, occorre ora esplicare se stessi, ora rinchiudersi in sè, senza mai intorpidire per timore.

 Quando si vive in una età difficile, bisogna consacrare maggior tempo al riposo e agli studi. 

A queste considerazioni generali si aggiungono norme particolari per conseguire la tranquillità dell'anima. 

Il "De providentia", al pari delle "Naturales Quaestiones", è dedicato all'amico Lucilio, che è pure il destinatario delle "Epistulae morales".

Lucilio, nato nella Campania, e procuratore nelle Alpi Cozie, poi in Epiro, Macedonia, Africa, e Sicilia. 

Scrittore e poeta, forse Lucilio e l’autore del poemetto Aetna. 

Il "De providentia" deve collocarsi fra le ultime opere di Seneca. 

Alcuni lo ritengono anteriore alle lettere a Lucilio in cui è annunciata una grande opera, moralis philosophiae libri, che abitualmente si considera un lavoro a sè; ma siecome egli poteva designare così un gruppo di scritti affini, contrapposti a quelli riguardanti la filosofia naturale, di cui il "De providentia" fa parte, quella collocazione non è sicura. 

Lucilio gli chiede a Seneca perchè, se il mondo è guidato dalla provvidenza, tanti mali avvengono agli uomini buoni. 

Seneca rimanda ad un’altra opera la dimostrazione della tesi che l'universo non sottostà al caso e che la Provvidenza governa e dirige ogni cosa.

Il corso della natura è governato da una legge eterna.

Per mezzo di quel principio meglio si potrà risolvere la difficoltà presentata, perchè da ciò, segue che le avversità che colpiscono i buoni debbono provenire da quella Provvidenza. 

Per il momento, Seneca afferma che il divino e l’uomo buono si assomigliano e differiscono soltanto per la durata della vita.

Il divino è un padre per l'uomo, ma un padre severo, che educa duramente, che per mettere alla prova i buoni e per renderli migliori, li sottopone ai colpi della fortuna. 

Anzi, lo spettacolo che merita lo sguardo del divino si presenta quando l’uomo forte lotta con la fortuna avversa, soprattutto quando l’ha provocata. 

Del resto (è questa la tesi che riceve più ampio svolgimento), quelle che si chiamano avversità, cose abbominevoli, riescono utili da prima a coloro che le soffrono, perchè la sventura è un’occasione per la virtù (e questa affermazione coincide con una precedente), e poi alla universalità degli uomini, di cui gli Dei più si curano che dei singoli.

Infatti, in questo modo appare che ciò che il volgo appetisce, non è un bene, come non è un male quello che il volgo teme. 

I buoni sopportano volontariamente queste cose che avvengono per l’azione del fato e per la stessa legge che li rende buoni. 

In fine, non bisogna provare compassione per i buoni, che si possono chiamare infelici, ma non possono essere tali. 

Anche l’ultima tesi è trattata e perciò non si può ritenere, come alcuno ha fatto, che l’opera non sia completa.

Però, come gli scritti di Seneca in generale, pecca nell’ordine e nel nesso dei pensieri e ha una forte impronta retorica. 

In questo scritto, Seneca ricorda e riproduce abbastanza a lungo dottrine del cinico Demetrio al quale s’ispira. 

Il "De beneficiis", in sette libri, è dedicato a Ebuzio Liberale che può identificarsi all'amico Liberale che in una lettera a Lucilio si dice molto afflitto per l'incendio della sua città, Lione, alla quale era assai affezionato, sebbene vivesse a Roma. 

Sembra che Eubuzio Liberale e cavaliere e molto ricco, e certamente possede cultura letteraria. 

Il "De beneficiis", senza dubbio posteriore alla morte di Claudio, è generalmente posto nell’ultimo periodo della vita di Seneca. 

I sette libri non sono composti insieme.

Al principio del Libro V Seneca dice che nei quattro precedenti si è realizzato il piano dell’opera, sicchè i ll. V- VI formano un gruppo nuovo e il 1. VII è chiaramente un complemento, di modo che il problema cronologico si complica. 

Sembra che l’opera si possa assegnare a dopo la sua caduta.

Seneca, venuto in odio al suo antico discepolo che precedentemente lo aveva colmato di doni e di favori, dove ritenere che effettivamente il vero beneficato era stato il principe che ora gli si mostra ingrato e perciò non poteva non interessarsi personalmente ai problemi discussi in quello scritto.

Però è molto dubbio che questo includa numerose allusioni ostili a Nerone come alcuno ha supposto.

 Nel Libro I, Seneca comincia con l’osservare che nessun vizio è più frequente dell’ingratitudine, della quale, però, sono spesso causa coloro che beneficano per il modo in cui si comportano.

Ma l'ingratitudine non deve distogliere dalla beneficenza, che Seneca fa consistere nell’intenzione benevola di arrecare gioia con un'azione o con un dono. 

Poi ricerca quali benefici si debbano impartire, a quali persone e in qual modo.

L'ultimo punto è trattato nel Libro II, in cui si parla del modo di ricevere i benefici, della intenzione ingrata, delle cause della ingratitudine e si definisce la riconoscenza. 

Il Libro III, definita l’ingratitudine ed esaminati i suoi aspetti, discute diversi problemi, tra i quali è interessante la questione se uno schiavo possa beneficare il padrone.

Seneca la risolve affermativamente, portando numerosi esempi di azioni generose compiute da schiavi. 

Il Libro IV ricerca se beneficare e dimostrare gratitudine sono cose desiderabili per sè e risponde in modo affermativo, dopo avere criticato la loro giustificazione utilitaristica e trattato ampiamente dei benefici che il divino concedono agli uomini e del concetto del divino. 

Poi si chiede se l’uomo buono debba beneficare anche l’ingrato che conosce come tale e nello stesso modo che all’inizio del Libro I, risponde di sì per ciò che riguarda chi è inclinato per natura all’ingratitudine. 

I tre libri successivi, distinti dai precedenti, trattano problemi particolari e in complesso costituiscono una casistica dell'argomento. 

Il VIT; che spesso riprende in esame questioni studiate precedentemente, finisce insegnando come ci si deve comportàre con gli ingrati.

L'organizzazione della materia è difettosa, perchè abbondano le digressioni e manca un nesso unitario.

Negli ultimi libri, la casuistica conduce a sottigliezze.

Ma l’opera contiene acute osservazioni della vita. 

È certa una lacuna (prima di VII, 13). 

Alcuni né ammettono altre tre (alla fine di I, 9, 1; di I, 9, 2; di III, 18, 1).

Préchac nega almeno la prima e la terza. 

Fonti principali sono Panezio e soprattutto Ecatone.

Inoltre, al principio del 1. VII, si ricordano il cinico Demetrio (che è molto lodato) e Bione. 

Seneca mette di suo aneddoti di storia romana e digressioni filosofiche che riguardano specialmente argomenti politici, sociali e religiosi.

La parte più originale riguarda gli schiavi e la loro difesa.  

Le "Naturales Quaestiones" constano ora di sette libri, ma dovevano contenerne otto, perchè occorre dividere il IV in due, sicchè il titolo era presumibilmente "Naturalium Quaestionum libri VIII."

 Quest'opera, dedicata a Lueilio, è senza dubbio una delle ultime di Seneca, cioè è stata composta insieme al De providentia, al De beneficiis e a molte delle Epistulae ad Lucilium, e forse ad altri scritti ancora. 

Questa rapidità si spiega in parte ricordando che Seneca si occupa fin dalla giovinezza di problemi naturalistici. 

I diversi libri devono essere stati composti e inviati a Lucilio separatamente e soltanto più tardi raccolti insieme, ma è probabile che la successione cronologica differisse dall'ordinamento attuale (IVb - VII ; I-IV a). 

L’opera presenta una grave lacuna perchè manca la fine del 1. IVa e il principio del 1. IV db. 

Il Libro I comincia col distinguere la filosofia morale da quella della natura -- la "fisica" -- che viene esaltata.

Poi, Seneca passa bruscamente a trattare dell'oggetto del libro, costituito effettivamente dalle meteore luminose (i fuochi e le luci che esistono nell’aria) e soprattutto dall’arcobaleno e dall’alone. 

Il 1. IT si apre con la tripartizione della scienza della natura in Astronomia, Meteorologia, e Geografia, secondo che considera la regione celeste, quella che sta fra il cielo e la terra, o la terra ; poi studia i fulmini e i tuoni. 

Nel 1. III Seneca si duole di avére preso a trattare nella vecchiaia un argomento tarto vasto, al quale vuole consacrare tutto il tempo che potrà. 

Dopo essersi lagnato degli scrittori che si occupano delle storie di Filippo, di Alessandro, di Annibale, invece di insegnare agl'uomini a vivere bene, parla delle acque terrestri, e, infine, rappresenta il diluvio universale e la fine dell'umanità. 

Il 1. IV da prima esorta Lucilio a guardarsi dalle adulazioni.

Poi tratta delle inondazioni del Tevere e dell'Arno.

Ma questa parte è mutila.

La lacuna involge gran parte del 1, IV, che ha per oggetto le nubi, di cui restano soltanto gli ultimi capitoli, che considerano la grandine e la neve. 

Il Libro V muove dalla definizione del vento e studia gli argomenti che si collegano ad esso. 

Il Libro VI ha per oggetto i terremoti. 

Nella prefazione Seneca ricorda quello che devasta Pompei  e il terrore che ne era derivato e cerca di liberare gli uomini da esso. 

Dopo avere cercato la spiegazione del fenomeno, si sforza di indurre gli spiriti a vincere il timore della morte. 

Il 1. VII considera le comete. 

È chiaro che non è attuato il piano indicato al. principio del l. II, di studiare tutto l'universo fisico.

E e ciò ha fatto pensare che si ha da fare non con una trattazione sintetica, ma con monografie particolari, indipendenti l'una dall’altra: si è supposto da qualcuno che il piano indicato mostra che l’autore ha in un certo momento concepito, ma non attuato, il progetto di rielaborare ed ampliare l’opera sua. 

I ll. I-IVa sono preceduti da prefazioni generali abbastanza collegate tra loro, ma non coi libri stessi. 

L’autore usa sia la trattazione sistematica, sia l'esposizione delle opinioni altrui, ma in modo diverso nei vari libri.

Talvolta, come nel II, i due procedimenti si alternano, nel VI e VII predomina la *dossografia*, nel III e V l’esposizione delle teorie accettate. 

Seneca non si limita a descrivere i fenomeni naturali, ma cerea di scoprirne le cause.

Però troppo spesso nella descrizione accetta senza discriminazione le affermazioni degli autori che segue anche se inesatte e presenta come spiegazione le opinioni altrui che preferisce, dopo avere discusso le diverse ipotesi con procedimentì essenzialmente dialettici.

Ma le sue finalità sono quellè di un moralista che coglie tutte le occasioni per dare atmaestramenti e si vale dei mezzi che gli offre la retorica, sicchè le "Naturales Quaestiones" si avvicinano alle altre opere dell’autore e differiscono profondamente dai veri trattati scientifici.

Siccome l’opera, quale noi la possediamo, non ha carattere unitario, si è cercato di ricostruirla, giungendo a risultati svariatissimi e non si è in alcun modo raggiunto lo scopo. 

Effettivamente, essa, per la sua natura moralistica e retorica, è, al pari degli altri scritti di Seneca, e anche più di essi, in generale, priva di organicità e ricca di digressioni che turbano lo sviluppo degli argomenti. 

Seneca cita molti autori, ma di solito deve ricordarli di seconda mano. 

La fonte principale dell’opera è senza dubbio Posidonio.

Si ritiene che Seneca si sia servito di Aselepiadoto quando se ne allontana, ma ciò è stato messo in dubbio. 

Si è anche pensato alle guar v dbÉat di Teofrasto.

Sono state poco sfruttate le fonti scientifiche LATINE. 

Le "Naturales Quaestiones" hanno esercitato una forte azione sulla Farsaglia di Lucano. 

Plinio però si è servito come fonte degli studi naturalistici speciali di Seneca, non dell’opera generale. 

Passata una lunga eclissi, la scolastica le ha concesso una immensa autorità.

Ruggero Bacone specialmente l’ha citata con molta ampiezza. 

Le "Epistulae Morales ad Lucilium," ora divise in 20 libri, appartengono all'ultima età di Seneca.

I primi tre libri si possono raggruppare insieme.

Il Libro I presenta diverse regole per la vita.

Il Libro II insiste sulla tesi che l’unica guida alla felicità è la filosofia e insegna a non allontanarsi da essa per cose senza valore.

Il Libro III, come sia facile superare ostacoli di tal genere. 

Debbono essere stati pubblicati insieme.

Ma è dubbio che ciò sia avvenuto per i libri seguenti, e che Seneca volesse raggrupparli in altre uni certo che Seneca destinava quelle lettere alla educazione e che, pure indirizzandole a Lucilio, geva al pubblico.

Ma si è esagerato parlando di una corrispondenza artificiale e di pseudo-lettere.

Sembra però verosimile che, raccogliendo le lettere insieme, secondo l’ordine cronologico, l’autore vi abbia inserito trattazioni morali, che diventano più numerose negli ultimi libri, alle quali ha dato la forma epistolare. 

Queste lettere hanno per oggetto la morale pratica e vorrehbero guidare alla felicità, ma offrono l’aspetto non di una trattazione sistematica, bensì di una serie di saggi. 

La corrispondenza, che è l’opera più importante di Seneca, mentre raccoglie i frutti di una lunga esperienza della vita, tratta argomenti svariati, richiama e discute teorie filosofiche precedenti, specialmente morali, occupandosi in modo particolare dei diversi indirizzi dello stoicismo. 

Se l’eccesso della predicazione morale e talvolta l’abuso di sottigliezze alla lunga stancano il lettore, l’opera sviluppa molti pensieri elevati, e spesso audaci, come il dovere dell'amore verso tutti gl'uomini, la dura condanna del trattamento inumano degli schiavi e dei gladiatori, l'uguaglianza dei sessi e l'obbligo della fedeltà coniugale, l'amore della natura. 

Modello per la’ forma sono le lettere di Epicuro e dei suoi SUCCEsSOTÌ ; pensieri del primo sono spesso citati e svolti nelle 31 lettere che aprono la corrispondenza.

Poi, Seneca ricorda Epicuro assai più raramente e pare attinga molto a Posidonio. 

Un forte influsso ha esercitato su quest’opera l’insegnamento orale di Attalo e del cinico Demetrio, e si è parlato anche dell’influsso d'Antioco, ma nell'insieme essa costituisce un’interpretazione dello Stoicismo, soprattutto di quello posidoniano. 

L’antichità, se si interessa dell’opera di Seneca -- per lodarla o per criticarla -- poco si occuppa della sua filosofa, che invece attira le simpatie di quelli che lo sentirono, almeno in parte, affine al proprio.

Così, Tertulliano e Lattanzio citano Seneca con lode. 

Soprattutto furono attirati a Seneca dalla apocrifa corrispondenza con Paolo, che lo presenta come ‘un galileo.'

Così, Seneca venne chiamato il "venerabile Seneca" da Girolamo, che lo cita largamente.

La miglior prova dell’influsso esercitato da Seneca in tutto è offerta dalle ri-elaborazioni, dai florilegi e dagli estratti delle sue opere che si fanno.

I scritti di Seneca, spesso ri-copiati, molto letti e studiati, sono inclusi nei cataloghi di quasi tutte le biblioteche, alla quale Seneca apparve uno dei più insigni rappresentanti della filosofia morale -- "Seneca morale", lo chiama Alighieri.

Giusto Lipsio si ispira principalmente alla filosofia di Seneca quando inizia un ritorno alle dottrine stoiche.

Ma, in complesso, la fama di Seneca di moralista si oscura, mentre si afferma la sua azione sulla formazione della tragedia classicheggiante italiana che lo prende a modello. 

Seneca esercita un’azione anche in Inghilterra. 

Nel campo delle ricerche filologiche di Seneca si interessarono delle opere sue studiosi come Erasmo, che ne curò un'edizione, Lipsio, e Bentley. 

La filosofia di Seneca, invece, non suscita molto interesse. 

In Francia, ha simpatie per Seneca Diderot.

In Germania -- ove in complesso non suscita molto favore -- Goethe e Lessing si appropriarono alcuni concetti di Seneca e piu tarde Schopenhauer lo studia intensamente. 

Però, la filosofia di Seneca non è apprezzata come meriterebbe. 

La filosofia di Seneca -- e la stessa cosa si deve ripetere per il principe Marc'Aurelio Antonino -- anche più di quella di altri filosofi di quell’età, produce l'impressione di essere rivolta allo scopo di risolvere il problema della vita nell'aspetto che assume agl'occhi del suo costruttore, e di giustificare alcune credenze accettate sino dall'inizio senza discussione. 

Si tratta di questo o quello presupposto -- i 'taken for granted' di Grice -- che, considerati con un criterio esclusivamente teoretico, puo apparire poco coerente, mentre si fonda in uno stato d’animo complessivo di cui sono i momenti. 

A Seneca, la sua vita si presenta, nell’insieme, sotto gl'aspetti che avevé assunto nell’età del principato romano, quelli che avevafio offerto alla consolazione alcuni dei sudi temi preferiti. 

I beni umani sono pieni di fragilità.

Ogni cosa è incerta, perchè su tutte le cose domina -- dura, mutevole, inesorabile -- la fortuna che sconvolge ogni nostro progetto. 

L’uomo è un essere debole, che un nulla infrange.

Tutta la vita dell'uomo è una meschinità, un tormento, una causa di pianto, sicchè l’unico rifugio in questo mare tempestoso è il porto della morte. 

E questa filosofia è rafforzata dalla convinzione, dominante nel principato romano, che l’anima, che proviene dal cielo al quale deve risalire, è prigioniera nella carne miserabile in cui è inclusa, che costituisce per essa un peso e una pena, che la sua vera vita è altrove, non in questa terra. 

Ma alla speranza in una immortalità beata e al desiderio di sottrarsi ai dolori di questa vita, si contrappone il terrore della morte, che per Seneca deve essere stato una vera ossessione, perchè continuamente ha cercato di liberarsene, valendosi di argomenti svariati.

La causa maggiore di tale ossessione probabilmente consiste nel timore dell’ignoto e delle tenebre del mondo infero. 

Però, la visione delle incertezze e dei dolori della vita, e la preoccupazione del mistero della morte si collegano in Seneca (e lo stesso fatto è avvenuto altre volte in seguito) coll’esigenza dell'amore universale per gl'uomini, tutti infelici e tutti mortali, che è forse l'aspetto più significativo dell’opera di Seneca, esigenza che ha cercato poi di giustificare filosoficamente. 

Come prima di lui Antifonte e come in seguito Leopardi, talvolta Seneca fonda quell’esigenza con una motivazione utilitaristica. 

Lo scambio dei benefici -- in cui si esprime l'amore -- è la cosa che costituisce il maggior vincolo della società umana (De ben. I, 4, 1).

Questo scampio è la migliore e più salda, anzi l’unica difesa contro i mali e i pericoli della vita, contro i colpi della fortuna. 

Ma ciò non si accorda con la convinzione costante di Seneca, che il bene si deve compiere disinteressatamente, che la virtù spesso consiste in un sacrificio spontaneo. 

Meglio corrisponde alla convinzione intima di Seneca l'affermazione -- che riappare nel Pascoli -- che il pensiero della brevità della vita, della imminenza della morte che ci rende tutti uguali, deve estinguere i nostri odi, ispirarei mitezza, umanità, suscitare il desiderio di farci amare. 

Qui, la visione della morte determina il concetto della essenziale uguaglianza umana, che Seneca cerca di giustificare filosoficamente. 

Forse, anche prima di costruire una filosofia, Seneca aveva attinto alla religiosità contemporanea quella intuizione di un divino personale, di cui gli uomini sono figli, che male si accorda coi principi speculativi da lui propugnati. 

Queste profonde esigenze imprimono alla filosofia  di Seneca i caratteri più significativi e ne fanno una teoria della purificazione e della liberazione, dominata da finalità etico-religiose. 

Per risolvere i problemi della fortuna, del dolore, della morte, per giustificare la sua fiducia nell’immortalità dell'anima e in un divino benefico e provvidente, Seneca si rivolge alla filosofia stoica, che nella forma che le aveva arrecato POSIDONIO, da appagamento alle esigenze della coscienza religiosa. 

Seneca, però, non si crede legato dall’ortodossia stoica, e afferma il suo diritto al libero esercizio del proprio pensiero, ma in tal modo rende ancora più eclettica una filosofia che con Posidonio assimila elementi di altre dottrine. 

Sotto l’influsso del cinismo di Diogene e specialmente di Demetrio, la cui azione è fortissima sulle lettere a Lucilio, Seneca accentua l’ufficio pratico della filosofia e condanna sia le sottigliezze dialettiche di eni si era compiaciuta la sua scuola, sia le critiche negative e distruttrici dell'’eleatismo dei veliani come Parmenide o Zenone, e della Scepsi, e inoltre mostra di apprezzare poco le cosidette sette arti liberali, gli studi storici, archeologici, letterari, cioè discipline che Posidonio coltiva con amore. 

Inoltre, assai più degli altri stoici, Seneca mostra di apprezzare la filosofia del giardino di Epicuro, di cui nelle Lettere ricorda, per accettarli, molti pensieri. 

Qualche volta giunge a dire scetticamente: 

Vi sono molte cose di cui ammettiamo l’esistenza, ma ignoriamo la natura e fra queste è l’anima.

Ma se essa non è sicura intorno a se stessa, non può arrecare certezza sugli altr'esseri. 

Sull’oggetto della filosofia, le sue parti e il valore di esse, Seneca sì esprime in modi diversi, senza indicare come sia possibile conciliare i suoi pensieri. 

Talvolta definisce la filosofia, o meglio la sapienza -- che è la meta alla quale essa tende -- come la scienza delle cose divine e umane.

Nel suo primo aspetto, la filosofia è contemplativa e mostra ciò che avviene nel cielo o, in generale, studia tutto l'universo e conduce a teorie (decreta).

Nel secondo aspetto, la filosofia è attiva.

La filosofia nsegna ciò che si deve fare sulla terra e impartisce norme (praecepta). 

Il secondo studio prattico -- praecepta -- deve fondarsi sul primo -- decreta.  

Tale definizione coincide con l’altra.

La filosofia è lo studio della virtù, perchè con questa, nel senso più generale, è designata appunto la sapienza. 

Così, però, è omessa la parte razionale della filosofia, suddivisa in rettorica e in dialettica o logica, che lo stesso Seneca ricorda in seguito insieme con la fisica, che coincide con lo studio delle cose divine o naturali, e con la morale che ha per oggetto quelle umane. 

Talvolta, invece, Seneca fa coincidere la filosofia con la morale, perchè la definisce la scienza o l’arte della vita retta, l’arte o la legge della vita. 

Con questa concezione si collega il primato che qualche volta concede alla morale sulle altre parti della filosofia. 

Lo scarso valore riconosciuto alla logica risulta sia dal fatto che quasi Seneca non ne tratta, sia dalla già ricordata condanna delle sottigliezze dialettiche. 

Quanto alla fisica -- filosofia della natura e teologia -- Seneca, che talvolta vede in essa uno svago, mostra Spesso, anche lodandola, di apprezzarla soprattutto per la funzione morale, o almeno spirituale che compie, in quanto libera dai terrori suscitati dall’ignoranza delle cause dei fenomeni naturali, ispira forza, fiducia e coraggio, fa che l’uomo riconosca la propria piccolezza, mostrandogli la grandezza del divino e della natura. 

Un’azione più largamente spirituale esercita, insegnando a disprezzare il corpo e le meschinità di questa vita, sollevando l’anima, indicando all'uomo la sua origine e la sua destinazione celeste, rappresentandogli la grandezza e la sublimità dell'universo. 

Del resto, il portico, che pone come norma etica suprema l’obbedienza alla legge razionale della natura, deve considerare la conoscenza di questa come il fondamento della morale, alla quale, però, in generale, se non sempre, è subordinata come mezzo e fine. 

Perciò Seneca può dire, mentre loda lo studio della natura -- la fisica --, che la filosofia deve insegnare ad agire, e chiedere che tutto ciò che si apprende venga riferito alla formazione morale.

Così nelle "Questioni naturali" interrompe spesso la trattazione scientifica con considerazioni e con applicazioni di carattere morale.

In altri casi, invece, affermando che la natura ci ha destinato sia all’azione che alla contemplazione, che è pure un’attività, rivendica l'autonomia della conoscenza teoretica della realtà, ed effettivamente richiede che la natura sia studiata per se stessa. 

Infine, nella prefazione alle "Questioni naturali," Seneca sostiene che la fisica è tanto superiore alla morale, quanto il suo oggetto, il divino, oltrepassa l’uomo e che non metterebbe conto di vivere se non si potessero conoscere le cose che essa studia. 

La virtù che la morale ci insegna a conseguire, che consiste essenzialmente nella vittoria sulle passioni, sui vizi, sul male, ha valore soltanto perchò prepara l’anima a conoscere le cose celesti e la reride degna di associarsi col divino. 

Queste diverse tesi si possono ridurre a una certa unità pensando che Seneca ritenesse il problema della fondazione morale dell’uomo il compito più immediatamente urgente della filosofia, pur riconoscendo alla scienza della natura e del divino maggior valore intrinseco, siechè la fisica è, in un primo momento, una preparazione alla morale, mentre in seguito, per l’uomo purificato dalle tendenze malvage, il rapporto s’inverte. 

Per quel che riguarda le teorie metafisiche e teologiche, Seneca, in complesso, non si allontana dal portico, di cui accetta il panteismo materialista.

Tutto ciò che agisce è un corpo, quindi è corporeo il divino, sia perchè è la causa attiva per eccellenza, sia per ciò che da esso provengono le anime umane, di cui è esplicitamente affermata la corporeità (al pari del bene o virtù, delle virtù particolari, delle passioni e dei vizi: altrimenti essi non potrebbero agire sul corpo). 

Il divino, che si apprende non con gli occhi, ma soltanto col pensiero, è in un certo senso uguale alla natura, al mondo, all'universo, in quanto è la totalità delle cose visibili e invisibili che tutte ne provengono. 

In un altro senso, però, si può dire che esistono due principi nella natura, il divino e la materia.

Il divino è la causa attiva, in quanto è lo spiritus, il fuoco intelligente che opera sulla seconda che è passiva e dalla quale produce tutte le cose. 

Ma anche la materia, al pari degl'esseri che ne provengono, che nel loro insieme costituiscono il mondo, in ultimo deriva dal divino, sicchè la differenza posta fra questo e quelli, è relativa. 

Il divino, che può chiamarsi Giove, in quanto distinto dall’universo, è identico alla mente o anima puramente razionale di questo, inclusa in esso e nelle sue parti.

Il divino è il fato o la necessità infrangibile di tutte le cose e di tutte le azioni, in quanto è la prima causa da cwi dipende tutto il nesso della serie causale in eni esso fato consiste. 

Può anche chiamarsi la fortuna o la Provvidenza divina che provvede affinchè il mondo segua la sua via. 

Per sua natura, il divino è benefico e non può nuocere.

Perciò l'universo, di cui è la custode e la moderatrice, la signora e l’artefice, è perfettamente bello e ordinato. 

Esso rivela in ogni cosa una struttura teleologica che è prova della mente divina che lo regge. 

Tutto nella natura segue le proprie leggi ed è errato pretendere che ogni cosa sia stata fatta per noi e giudicare sempre col criterio dei nostri vantaggi, invece di ammirare la maestà della natura.

Però il divino mirato anche, anzi soprattutto, al bene dell’uomo, che spesso, con la sua stoltezza e malvagità, ha rivolto a proprio danno quei benefici. 

Se così sono riprese le tesi tradizionali del panteismo stoico, il posto centrale assegnato alla bontà del divino offre lo spunto di una concezione personale di lui opposta alla precedente e affine a quella della coscienza religiosa contemporanea, che trova sviluppo quando Seneca afferma che fra il divino e l’uomo buono . esiste, più che amicizia, parentela e somiglianza, che il secondo è discepolo e figlio del primo (De prov., 1, 5 sg.). 

Il divino è il nostro padre (De ben., II, 29, 4), perciò deve essere amato, non temuto (ivi, IV, 19, 1).

Al divino si dovrebbe tributare un culto disinteressato.

Per propiziarseli occorre soltanto essere buoni, perchè così si imitano (Ep., 95, 50). 

Seneca segue invece completamente il panteismo stoico.

Tutti gl'esseri provengono periodicamente dal fuoco divino o Giove, e ritornano ad esso con una conflagrazione universale e che poi si forma un nuovo universo completamente simile al precedente di cui deve dividere la sorte. 

Seneca si interessa particolarmente dell’uomo e soprattutto della sua anima in cui vede uno spiritus o un pneuma. 

Allontanandosi dall’ortodossia stoica, e avvicinandosi a Posidonio e a Platone, Seneca distingue nell'anima dell'uomo una parte razionale e una irrazionale -- che è collegata col corpo e deve subordinarsi alla prima -- che suddivide in passionale o coraggiosa e in desiderativa dei piaceri.

Concilia questa tesi con quella del portico collocando tutte quelle parti nell’"hegemonikon."

 In tal modo, Seneca ritiene di poter dar ragione delle debolezze e dei vizi che presentano in ogni tempo gl'uomini, salvo in brevi periodi di innocenza che seguono la formazione di un nuovo universo.

Questo dualismo si ripresenta e si accentua nella contrapposizione dell'anima -- o, meglio, della sua parte razionale -- e del corpo (detto, con espressione sdegnosa, carne), che è un velame, un peso necessario, una punizione, un vincolo, un carcere per la prima che deve lottare con esso perchè spinge al vizio ed è causa di molti mali. 

A eiò si uniscono la svalutazione e la condanna della vita terrena e l'aspirazione a una superiore che ha inizio per l’anima liberata dal corpo, il giorno -- che seguirà il giudizio che verrà dato di tutta la vità di ciascuno: Ep., 26, 4 -- in cui nascerà all’immortalità -- "dies ista aeterni natalis est": Ep., 102, 26.

Di tale esistenza celeste, migliore di questa, Seneca esalta l’eterna pace, la libertà dalle passioni, la felicità. 

Allora l’anima, giunta dalle tenebre alla luce, puo godere della visione dell’universo e penetrare nei segreti della natura. 

Così, Seneca, mentre si collega alla corrente orfico-pitagorico-crotonesi-platonica, mediata da Posidonio, rispecchia le convinzioni della religiosità ascetico-mistica.

Alcune espressioni -- come "immortalis", "aeternus" -- è l’affermazione che le anime ritorneranno alla loro patria originaria, al cielo, dal quale sono discese in terra, non debbono però far pensare che Seneca ammette una immortalità illimitata nel passato e nel futuro, perchè non si allontanava dalla sua scuola, la quale accettava soltanto, con Crisippo, che le anime dei sapienti sarebbero sopravvissute alla morte fino alla conflagrazione universale per risolversi allora nella ragione divina. 

La discesa dal cielo e il ritorno ad esso ricevono il loro significato dalla tesi che le anime razionali sono parti di quella ragione dalla quale provengono, sono il divino che abita nell'uomo e perciò sono affini al divino. 

Il divino discende negli uomini, è presente ai loro pensieri e nessuna mente è buona senza del divino.

Non si tratta dunque di una immortalità personale illimitata, ma di una concezione pan-teistica che la esclude.

Talvolta, però, dicendo che l’anima, se non è pura e santa, non può ricevere il divino, Seneca stabilisce una distinzione fra essi.

Del resto, anche questa, più che immortalità, persistenza dell'anima, è per Seneca piuttosto l'oggetto di una credenza che di una certezza razionale, tanto è vero che ne parla come di un bellum sommnium e dice che vuole, più che fare ricerche sulla eternità delle anime, credere in essa. 

Non hanno questo significato i testi in cui Seneca ammette, per provare che non si deve temere la morte, che con questa tutto finisce.

Nella morale, di cui soprattutto si interessa, Seneca si sforza di attenersi ai principi direttori del portico, ma insieme ne mitiga il rigore e cerca di evitarne le conseguenze paradossali, non senza incoerenze e contraddizioni. 

Anche per Seneca, ogni animale è spinto dalla natura ad amare se stesso e a cercare la propria conservazione.

Ma l’uomo, essendo razionale, si ama e tende a conservarsi non come animale, ma in quanto fornito di ragione -- insieme teoretica e pratica -- e perciò mira a salvarla e a perfezionarla. 

La ragione retta e perfetta, quella del sapiente, possiede la visione delle cose divine e umane e perciò, nella sua funzioné teoretica riconosce la legge razionale dell’universo e in quella pratica, quale atteggiamento della volontà, si conforma ad essa e così segue la natura. 

Essa ragione coincide con la virtù o eccellenza umana, con l’honestum, il bello morale in senso ampio che si identificano. 

Essendo la ragione il bene proprio, anzi, unico dell’uomo, realizza la felicità umana.

Così si deve dire che il solo bene è la virtù che è sufficiente per la vita felice. 

E ciò si deve ripetere per l’honestum. 

Infatti, il sapiente sa che soltanto l'atteggiamento interiore della volontà è in suo potere, si rende conto che l'universo è governato dalla suprema legge razionale del fato, riconosce che esso coincide con la provvidenza e comprende che quanto avviene è necessario per il bene del tutto. 

Per questa ragione, il sapiente obbedisce di buon grado al volere divino e così è libero e, siccome ritiene che niente è male, che nulla gli nuoce, è esente da passioni e da sofferenze e vive felice. 

Seneca, che con Cleante ripete "ducunt volentem fata, nolentem trahunt", si avvicina alle posizioni di Democrito e di Epicuro, affermando che nell'anima tranquila consiste la beatitudine propria del sapiente.

Quindi, il sommo bene è l’anima che conosce la verità e regola le sue azioni secondo la visione dell'universo, è il condursi secondo la volontà della natura; per ciò nel conformarsi a questa consiste la vita felice. 

La virtù fondamentale, la sapienza -- che contiene un aspetto conoscitivo e uno attivo, al pari della ratio alla quale si identifica -- si divide nelle quattro virtù romani principali, secondo gl'oggetti ai quali si applica.

Ma la virtu [andreia], al pari del suo opposto, il vizio, il turpe, non ammette gradi. 

Tutte le virtù, tutti i beni, come i loro opposti, sono uguali in sè, sebbene ne muti la materia, e da un opposto all’altro non v'è passaggio.

Del pari sono uguali, da una parte, le azioni buone, le malvage dall’altra. 

La virtù [andreia] e il vizio risiedono nell'animo, nella volontà, nell’intenzione, dalla quale dipende il valore dell’azione esterna. 

Se l’unico bene e l’unico male risiedono nell'anima, tutto ciò che ne differisce, tutte le cose esterne (la vita, la salute, la ricchezza e i loro opposti) non sono nè beni, nè mali, ma una materia che può essere usata bene o male.

Soprattutto non si deve giudicare il piacere un bene e meno che mai, come fa la dottrina del giardino, il sommo bene. 

È vero che alla virtù del sapiente si collega un piacere che è l’unico perpetuo e sicuro, ma esso non deve ricercarsi come un fine, perchè soltanto la virtù, che ha in sè la propria ricompensa, è degna di essere perseguita per sè. 

Per il portico, che identifica il vero bene alla virtù che risiede nella ragione, tutte le altre cose sono indifferenti. 

Però il portico mitiga questa tesi (che era poi in contraddizione con la sua fede che tutto è governato da un fato provvidenziale e perciò è rivolto al bene) distinguendo le cose indifferenti in quelle che sono tali assolutamente e nelle altre che hanno un certo valore, positivo o negativo, pure non essendo nè beni, nò mali e perciò si debbono o desiderare o respingere, secondo che sono gli oggetti primi degli impulsi dell'anima (doti spirituali, come buone disposizioni, abilità artistiche; qualità fisiche, come vita, salute ; cose esterne, come ricchezze, fama) o i loro opposti. 

Seneca non si limita ad accettare questa tesi, ma la sostiene in modo tale da avvicinarsi alle posizioni del liceo.

Con il portico, Seneca ritiene che le passioni siano l’ostacolo che si oppone al conseguimento della virtù e della felicità, perchè sono movimenti dell'anima disordinati, improvvisi e violenti, che, se ripetuti e trascurati, si traformano in malattie, cioè in vizi inveterati e induriti e perciò si debbono estirpare completamente. 

Siccome la sede della virtù è l'intenzione e la passione dipende dalla volontà e richiede. l'assenso della mente -- sebbene provenga dalla parte irrazionale dell'anima -- Seneca può affermare che basta voler essere virtuosi per diventare tali.

Si tratta di sviluppare quei germi di virtu o di, scienza che la natura ha posto in tutti gli uomini. 

È quindi facilissimo condurre una vita conforme alla nostra natura razionale e vivere felicemente. 

D'altra parte, Seneca che con il portico, esalta i, l'assoluta libertà, la perfetta virtù, la suprema felicità del sapiente che soltanto per la durata è inferiore a quella di Giove -- lo stolto invece è completamente malvagio e infelice ed è schiavo delle sue passioni -- ritiene con gli stoici in generale che, all'infuori di rarissime eccezioni -- tra le quali pone CATONE il minore -- tutti gl'uomini siano pazzi e malvagi. 

Su questo punto, anzi, Seneca insiste più energicamente e più spesso degli altri stoici. 

Noi uomini siamo stati, siamo e saremo sempre stolti e malvagi.

Tutti abbiamo peccato e peccheremo fino alla fine della vita, pure rimproverando agl'altri le colpe di cui sono macchiati.

Soltanto ora predomina un vizio, ora un altro.

La vita degl'uomini è quella di un branco di helve feroci che sono più miti di loro, perchè mostrano mansuetudine con coloro che li nutrono, mentre essi li divorano.

Tutto è pieno di difetti e di vizi. 

Seneca talvolta ripone la causa della stoltezza e della malvagità universali nell’azione corruttrice che l’insania comune della massa esercita sul singolo con l'esempio. 

Erra chi ritiene che i vizi siano nati con noi, perchè la natura non ci ha inclinati verso di essi, ma ci ha generati puri e liberi. 

Altre volte, Seneca, invece, afferma che il sapiente non prova collera per chi pecca perchè conosce le condizioni della vita umana e nessun uomo di mente sana si adira con la natura, per vizi che essa scusa. 

Ciò significa che, in ultimo, dipende dalla natura l'impossibilità, da parte della quasi totalità degl'uomini, di svolgere i germi originari di virtù, la volontà di essere sapienti, ossia virtuosi e felici. 

Siamo di fronte al conflitto che si presenta in generale nel portico tra la fede nella libertà del volere e quella nel determinismo universale. 

Già gli stoici, riconosciuta la natura eccezionale del sapiente, parlano di colui che fa progressi nella virtù, e prevalentemente, se non soltanto di lui, si interessa Panezio. 

Seneca va anche più in là. 

Occorre seguire il divino nei limiti che ci sono concessi dalla debolezza umana. 

Per conto suo, Seneca confessa che non è un sapiente e che non lo sarà mai, non aspira a pareggiare gli ottimi.

Ma cerca essere migliore dei malvagi e si contenta di diminuire ogni giorno i suoi vizi. 

Raccomanda a sè e agl'altri di esaminarsi accuratamente, di rendersi conto tutte le sere della giornata trascorsa, di fare ogni sforzo per correggersi, ricorda che alla nostra coscienza nulla di noi rimane nascosto. 

Lo spettacolo della malvagità e della stoltezza universali degl;uomini, però, non ispira a Seneca l’aspra condanna pronunciata dal portico, ma un senso profondo di indulgenza e di compassione. 

Chi pecca è simile a un bambino, a un ammalato, a un pazzo, occorre considerarlo con l’occhio con cui il medico guarda i suoi pazienti, bisogna perdonare a tutti, concedere venia al genere umano (De ira, II, 9-10; III, 26-27). 

Più gravi delle incoerenze osservate fin qui sono altre, le quali mostrano che l’originarià intuizione pessimistica della vita non è stata eliminata dalla filosofia accettata da Seneca. 

Per questa, che identifica la fortuna a un fato provvidenziale, tutto ciò che accade è rivolto al bene, sicchè soltanto lo stolto può lagnarsi dei mali della vita. 

Il bene risiede nell'anima e tutte le altre cose, inclusa la morte, sono indifferenti.

Ora, Seneca, non soltanto chiede talvolta che cosa gl’importi che sia certo per la natura (fato) ciò che è incerto per lui (fortuna), ma abitualmente accetta l’irriducibilità della seconda al primo.

Ciò avviene anche quando, per giustificare i mali che colpiscono i buoni, sostiene che ad essi non può avvenire alcun male e che il divino li designa alla fortuna perchè si esercitino in quella lotta, in quanto lo spettacolo più degno di Dio, è il conflitto fra l’uomo forte e la sorte avversa, soprattutto se egli l’ha provocata. 

Più chiaramente ancora riconosce l’esistenza della fortuna, quando insegna con Posidonio che bisogna lottare contro di essa con le sue stesse armi, allorchè sostiene che i suoi colpi sono mali soltanto in apparenza e soprattutto nei testi numerosissimi in cui ricorda la potenza di essa e la sua azione inaspettata che tutto sconvolge, contro la quale presenta un solo rimedio.

Bisogna essere preparati a tutto, rimedio che, evidentemente, non è offerto da un sistema filosofico piuttosto che da un altro. 

Si è già ricordato come Seneca deplorasse continuamente i mali di cui è ricolma la vita. 

Per quello che riguarda il timore della morte, Seneca insegna che occorre fare ogni sforzo per vincerlo, perchè ci avvilisce, ci agita e rovina la vita stessa.

 Bisogna pensare alla morte perchè ciò significa pensare alla libertà.

Chi sa morire non sa servire, inquantochè è al di là, se non al di sopra di ogni potenza.

Ci tiene legati soltanto l’amore della vita, che bisogna almeno moderare. 

Effettivamente ci atterrisce soltanto la parola morte, con la quale occorre acquistare familiarità. 

Per vincere questo terrore, Seneca adopera vari argomenti che non sempre implicano che sia una cosa indifferente e ne ricorda anche alcuni usati da Epicuro o simili ad essi.

La morte non è nè un bene nè un male, perchè è un nulla che tutto annienta e chi non esiste non può essere infelice. 

Essa non deve ispirare timore perchè è o una fine o un passaggio.

Nel primo caso, la morte equivale alla condizione di chi non ha cominciato a vivere.

Nel secondo caso, l’uomo non sarà mai in un luogo tanto angusto come questo. 

Seneca si attiene più al portico quando presenta questa alternativa.

L'anima o sarà condotta a un'esistenza migliore per permanere fra le cose divine, o senza alcun danno si ricongiungerà alla natura e ritornerà nell'universo -- cioè, nella ragione divina.

È fondata sulla teoria eraclitea e stoica del perenne ritorno di tutte le cose, l'affermazione.

Se desiderate vivere, pensate che tutto finisce, ma nulla perisce perchè tutto rinasce. 

Però, anche in questo caso, l'argomento più forte, cioè il pensiero costante della inevitabilità della morte, legge della natura, tributo e obbligo dei mortali, non si fonda su alcun sistema filosofico particolare, 

Meglio si accordano con il portico quelle convinzioni originarie di Seneca che riguardano i rapporti fra gl'uomini. 

Il portico insegnato l'uguaglianza umana, la dignità della persona, il cosmopolitismo e Panezio e Posidonio  prescrive l’amore per tutti gli uomini.

Però nessuno di loro tratta questi argomenti con l’intima e profonda convinzione di Seneca, che supera in ciò anche i suoi contemporanei Epitteto e Marc'Aurelio Antonino.

Le parole di Seneca corrispondono ad un atteggiamento spirituale che deve avere assunto prima di accettare un credo filosofico determinato. 

La giustificazione teoretica di quelle credenze poggia sulla tesi -- panteistica per sè, ma conciliata nella mente di Seneca con una concezione personale del divino -- che le anime razionali umane sono parti della ragione divina, sono il divino che alberga nell'uomo, sicchè il carattere 'teologico' dell’etica, che nelle teorie precedenti era già chiaro, ora appare sotto una luce anche maggiore. 

L'universo, che include le cose divine e umane, è uno ed è il divino e noi siamo membra di questo grande corpo.

La natura ci ha creato tutti parenti. 

Siccome l'animo buono e retto è il divino che alberga in un corpo umano, può risiedere in un cavaliere romano come in un liberto o in uno schiavo, che differiscono soltanto per nomi originati dall'ambizione o dall’ingiustizia. 

Tutti gl'uomini, quindi, sono uguali e posseggono una propria dignità e un proprio valore e si distinguono tra loro esclusivamente per le doti dell’anima, che può essere libera anche nello schiavo. 

Servire nel consolare (Ep., 47, 15 sgg.; De ben., III, 28, 1 sgg.). 

La natura stessa ci ha creato socievoli.

Il divino ha dato all'uomo, che da solo è il più debole fra gl'esseri, la ragione e la vita sociale che l'hanno reso il più forte di tutti. 

La società non soltanto lo difende dai pericoli e dai mali, ma gli ha anche arrecato il dominio del mondo. 

Si vive in comune e nessuno può essere felice se rivolge tutto al proprio vantaggio. 

Occorre che tu viva per altri, se vuoi vivere per te » ("Alteri vivas oportet si vis tibi vivere" -- Epistulae, 48, 2). 

Ma non soltanto per il proprio vantaggio -- che del resto non è che una conseguenza di quello di tutti -- ma anche e soprattutto per affetto RECIPROCO gl'uomini debbono essere congiunti tra loro e aiutarsi.

L'uomo è cosa sacra per l’uomo. Homo res sacra homini. Epistulae, 95, 33.

La stessa natura ci ha ispirato amore reciproco.

Questo si esplica nei benefici.

Tale argomento molto interessa Seneca, che lo ha studiato in un trattato di sette libri. 

Anche nei benefici, Seneca considera due aspetti.

Da una parte, lo scambio di benefici è il vincolo più forte della società che è la difesa più valida della debolezza umana.

Dall’altra parti, i benefici ci sono imposti dalla stessa natura, che vuole che le mani siano pronte a soccorrere.

Ovunque è un uomo, anche se un ignoto, un nemico, vi è posto per il beneficio. 

Sempre dobbiamo avere nel cuore e sulle labbra il verso di Terenzio,

Homo sum, humani nihil a me alienum puto (Heauton., I, 1, 54). 

Per l’ordinamento della natura è peggio nuocere che essere offesi (De ira, I, 5, 2, e passim). 

Occorre beneficare senza stancarsi, senza scoraggiarsi, senza pentirsi e imitare il divino che giova ugualmente ai degni e agl’indegni, senza curarsi dell’ingratitudine umana.

La bontà pertinace vince i malvagi. 

È proprio dell'animo grande e buono cercare di beneficare, non di ottenere il frutto dei benefici, perdere e dare.

Nel dare consiste la virtù.

Bisogna imitare il divino che benefica senza ricompensa (De ben., I, 1, 12; IV, 24-25; VII,.31, fine). 

Molte volte occorre beneficare in segrete, anzi, ingannare chi riceve, perchè ignori chi lo ha soccorso. 

L'esigenza dell’amore universale si deve estendere anche ai più infelici, ai più umili: gli schiavi, i gladiatori. 

Seneca, che bolla con parole roventi i padroni erudeli, inumani e viziosi, che maltrattavano e torturavano i loro schiavi, che li condannavano ai servizi più abbietti, più vergognosi e più infami, afferma recisamente che essi sono uomini, anzi umili amici, conservi, perchè, come i padroni, sottoposti al dominio della fortuna (Ep.; 47, 1). 

Hanno la stessa natura dei padroni, sono uguali ad essi (De elem., I, 18, 2; De ben., III, 28, 1 sgg.).

Soltanto il corpo è proprietà di altri, ma l’anima è libera.

La virtù è accessibile a tutti, ai re e agli schiavi, si contenta dell'uomo nudo, tanto è vero che molte yolte i secondi hanno dato prova di una devozione illimitata ai loro padroni, sacrificando la propria vita per salvarli (De ben., III, 18-28; ef. Ep., 44). 

Seneca ammonisce il superbo.

Pensa che la fortuna può ridurti nella più umile condizione, vivi con gli inferiori come vorresti che chi ti è superiore vivesse con te, usa clemenza, anche affabilità con lo schiavo, consigliati con lui, ammettilo al tuo convito, così lo renderai degno di parteciparvi, se non è tale. 

Anche fra gli schiavi puoi trovare amici.

I padroni debbono cercare di essere piuttosto amati che temuti, come il divino si contenta dell'amore e del culto degli uomini (Ep., 47, 11 sgg.). 

Cicerone giudica ammirabile scuola di fortezza le lotte dei gladiatori se avvenivano tra colpevoli.

Seneca invece condanna le lotte dei gladiatori senza pietà anche in questo caso e a chi gl'obbietta che quegli uomini hanno commesso reati e meritano la loro sorte, risponde.

E tu, infelice, che cosa hai fatto per assistere a uno spettacolo simile? (Epistula, 7, 3 sgg.). 

Del pari, Seneca condanna nel modo più risoluto, riferendosi direttamente a Roma, le guerre e la gloria che si fonda sulle stragi (Zp., 95, 80-31).

E contro i costumi contemporanei propugna l'eguaglianza dei doveri dei due coniugi (Ep., 94, 26). 

All’insegnamento dell'uguaglianza di tutti gl'uomini e dell'amore universale Seneca collega la teoria del portico del cosmopolitismo. 

Per Seneca, la patria è il mondo.

Lo stato è la vera cosa pubblica che include il divino e gl'uomini, che ha i confini misurati dal corso del sole. 

Vi è un diritto comune a tutto il genere umano (Epistulae, 48, 3). 

Panezio e Posidonio avevano conciliato col cosmopolitismo la partecipazione attiva alla vita dello stato romano.

Seneca invece, ritornando, al pari degli stoici del tempo suo, alla posizione dei fondatori della scuola, mostra di interessarsene poco, e per gli stessi motivi. 

Quando ancora godeva del favore di Nerone, Seneca riconosce che la "pax romana", la salvezza di Roma, e ormai congiunta indissolubilmente con la sorte del PRINCIPE URBIS, e ciò implica che e svanito l'impulso più forte alla partecipazione del cittadino -- membro del partito repubblicano -- alla attività politica del Senato.

In seguito, quando nel "De otio" dove giustificare il suo ritiro dalla vita pubblica, ricorda che Zenone insegna che il sapiente partecipa ad essa se nulla ne lo impede e osserva che molte possono essere le cause di quella astensione. 

Infatti può darsi che lo stato romano sia troppo corrotto perchè un uomo puo giovargli.

O puo darsi che lo stato romano e dominato dai malvagi, nel qual caso l'uomo non si deve sacrificare inutilmente. 

Effettivamente non esiste mai uno stato romano al quale il sapiente puo accedere.

Tra i elleni, nè Zenone, nè Cleante, nè Crisippo amministrarono mai la cosa pubblica, e nemmeno spinsero altri a far ciò. 

Con Atenodoro, Seneca ritiene che il privato che educa gl'uomini alla virtù non è meno utile allo stato dell’uomo politico, del magistrato, o del soldato. 

Zenone e Cleante con l’opera loro hanno giovato a tutto il genere umano.

Se fossero stati statisti o generali avrebbero servito soltanto una città. 

Considerata con criteri puramente teoretici, la filosofia di Seneca non può essere molto valutata, perchè appare uno portico eclettico privo di originalità e ricco di incoerenze. 

Per di più, i problemi originari della fortuna, dei mali della vita, della morte, non trovano soluzione nel suo sistema, e i mezzi migliori che Seneca offre contro quei terrori sono indipendenti dal suo sistema. 

La fede nell’immortalità rimane sempre una fede e la credenza nel divino è in contrasto col panteismo della dottrina. 

Ma il significato e il valore vitale della filosofia di Seneca non risiedono nell’elaborazione o l'analisi di concetti, ma nella visione dolorosa della vita, nel senso amaro dell’universale debolezza e peccabilità degl'uomini, nella pietà e nell’amore per tutti, nell’aspirazione a un’esistenza migliore, nella tendenza verso una personalità divina provvidente, benefica, paterna, che si esprimono nelle pagine di Seneca con una convinzione, una sincerità, un’intensità che contrastano con l'enfasi rettorica che appare quando egli si limita a presentare le tesi della sua scuola. 

Certamente Seneca si collega al movimento, sorto nelle classi inferiori, e premeva sempre più sulle superiori.

Ma nessuno, forse, dei filosofi contemporanei vede così fortemente quelle sofferenze e provato così intensamente quelle esigenze. 

Soprattutto, l'insegnamento dell’amore universale e ri-presentato da Marc'Aurelio Antonino, e la difesa degl'umili e degl'infelici, che venivano a prendere il posto dell'ideale aristocratico della "humanitas" di Cicerone, segnano questo. 

***

GAIO MUSONIO RUFO 

GAIO Musonio Rufo esercita un forte influsso sui contemporanei. 

Di famiglia equestre, dell’etrusca Volsini, o Bolsena, Gaio Musonio Rufo suscita per la sua fama di filosofo l’invidia di Nerone

C. MUSONIO RUFO segue Rubellio Plauto nell'Asia Minore e lo incoraggia a togliersi la vita quando Nerone lo condanna a morte. 

Ritorna a Roma, dove e bandito, insieme con Cornuto, in occasione della congiura di Pisone e confinato nell’isola di Gyaros nelle Cicladi, ove per la sua rinomanza attira uditori da ogni parte.

Verosimilmente richiamato a Roma dal principe GALBA, negli ultimi giorni di Vitellio si une ad una ambasceria del senato presso Antonio Primo per perorare la causa della pace fra i suoi soldati, ma senza successo.

Quando VESPASIANO assunse il potere, C. Musonio Rufo accusa davanti al Senato P. Egnazio Celere, quale delatore e falso testimonio nel processo di Borea Sorano. 

Vespasiano lo esclude dalla prima espulsione dei filosofi da Roma.

Ma poi, Vespasiano lo esiliò.

Tito, che già lo aveva conosciuto, lo richiama dopo la sua assunzione al trono. 

In seguito mancano notizie su di lui, ma da una lettera di Plinio il Giovane sembra che non fosse più in vita. 

Non risulta che MUSONIO compone e pubblica scritti, anzi sembra che si sia servito soltanto dell’insegnamento orale, del quale, però, rimangono frammenti abbastanza numerosi. 

Essi comprendono 19 brevi apottegmi conservati da Plutarco, da Aulo Gellio e da Stobeo.

Altri apottegmi e trattazioni filosofiche relativamente ampie raccolti da Epitteto nel suo insegnamento e trasmessi i primi d'Arriano, le seconde da Stobeo.

Ssposizioni o lezioni che si trovano nello Stobeo o costituiscono la parte più estesa dei frammenti. 

È verosimile che provengano da uno scritto di Lucio che si deve ritenere la fonte più importante di Stobeo.

Un’altra fonte è Epitteto, cioè Arriano. 

Sembra che Valerio Pollione da Alessandria, sotto il principato d'Adriano, compone Memorabili di Musonio, ma non ne restano tracce. 

È giudicata falsa una lettera di Musonio a Paneratide. 

Le concordanze che si sono osservate tra i frammenti di Musonio e il Pedagogo di Clemente d'Alessandria hanno fatto pensare o alla dipendenza di questo da uno scritto di Lucio o alla derivazione di ambedue da una fonte più antica. 

Della forte azione di Musonio sui contemporanei sono prova i suoi numerosi scolari, tra i quali si ricordano, oltre al genero, Artemidoro -- amico e maestro di Plinio il Giovane -- 

Epitteto

Dione di Prusa

Eufrate di Tiro e il suo scolaro 

Timocerate di Eraclea, e insigni romani, come 

Rubellio Plauto, forse 

Borea Sorano e 

Minicio Fundano.


Musonio si avvicina ai cinici nell’assegnare alla filosofia finalità radicalmente etico-pratiche, accetta spunti dell’ascetismo neo-pitagorico, ma nel complesso dipende dallo Stoicismo con influssi posidoniani. Nel sno insegnamento non trascurò le esercitazioni logiche e i frammenti toccano argomenti di fisica, ma ciò che vi è detto degli Dei, designati con le denominazioni della religione tradizionale, non supera la sfera del pensiero comune e non ha carattere filosofico determinato : invece riporta allo Stoicismo l'affermazione della necessità universale, che equivale alla teoria del fato. Però l'interesse di Musonio si concentra sulla funzione pratica della filosofia, che è assolutamente necessaria in quanto (secondo la tesi introdotta dai cinici nel I secolo a. C. e poi generalmente accettata) gli uomini sono malati che richiedono una cura continua la quale dev'essere prestata dalla filosofia, che perciò è necessaria a tutti, alle donne non meno che agli uomini : essa però è identificata alla ricerca e alla realizzazione della virtù, per conseguire la quale non vi è necessità di molti discorsi, nè di molte teorie ; inoltre, in essa l'esercizio ha maggiore importanza dell’insegnamento (o del discorso). Siccome la natura ha posto in ogni uomo i germi della virtù, se il discepolo non è stato corrotto, una breve dimostrazione è sufficiente per fargli riconoscere i principi etici giusti. 

Ciò che soprattutto importa è che maestro e discepolo uniformino la loro condotta ai propri principi. Si comprende che Musonio si interessasse in primo luogo della formazione etica degli scolari. 

Nell’insieme, la morale di Musonio si conforma alle dottrine tradizionali della sua scuola. Occorre distinguere ciò che è e ciò che non è in nostro potere: ora da noi dipende soltanto l’uso delle rappresentazioni, cioè l'assenso dato alle opinioni sul bene e sul male, dalle quali è determinata la giusta valutazione delle cose e quindi l'intenzione quale atteggiamento interiore della volontà; in essa, se è retta, consiste la libertà, la virtù, la felicità. Tutto il resto non dipende da noi | e perciò rispetto ad esso, ossia alle cose esterne, dobbiamo rimetterci all’ordine necessario dell'universo e aecettare volentieri ciò che arreca. Soltanto la virtù è bene, soltanto la malvagità è male e ogni altra cosa è indifferente. Però, per rafforzare la volontà, Musonio ‘ riteneva necessario, oltre l'insegnamento e l’esercizio morale, anche l’indurimento fisico, perchè, essendo il corpo uno strumento indispensabile dell’anima, occorre rafforzare ambedue. In generale raccomanda, avvicinandosi al Cinismo, la vita semplice e conforme alla natura e accoglie dal Neo-Pitagorismo il divieto dei cibi carnei. Oltrepassando le opinioni di molti stoici antichi, esige una vita morale severissima, raccomanda il matrimonio, condanna la limitazione delle nascite e l’esposizione dei figli. Nell'insieme, i frammenti di Musonio rivelano un’anima nobile e retta, appassionata per il bene e guidata dal desiderio di educare gli spiriti, ma a queste doti non corrisponde il valore scientifico degli insegnamenti, perchè i suoi pensieri sono molto mediocri e privi di originalità ; inoltre non si può trovare nelle sue parole l’espressione di una visione della vita vi- brante di dolore e di amore simile a quella di Seneca. 


***

ANTONINO 


Importanza senza confronto maggiore ha l’opera dell’ultimo dei grandi stoici, il principe MARC'AURELIO ANTONINO, discepolo spirituale di Epitteto. 

MARC'AURELIO ANTONINO nacque a Roma sul Celio, da Marc'Annio Vero, che aveva coperto alti uffici, e da Domizia Lucilla, e ricevette i nomi dei due nonni, Marc'Annio Catilio Severo, non Antonino, che e un nome adottato.

A sei anni, Marc'Aurelio Antonino fu dal principe Adriano designato a far parte dell’ordine equestre, a otto del collegio dei Sali. 

Rimasto presto privo del padre, allora pretore, Marc'Aurelio Antonino e adottato dal nonno paterno che gli diede il nome (Marc'Annio Vero) e gli fa impartire una larga cultura

Per volontà del bisnonno materno Marc'Aurelio Antonino venne educato in casa.

Marc'Aurelio Antonino ha allora a casa, come maestro di filosofia, Diogneto

A 12 anni Marc'Aurelio Antonino riveste il costume dei filosofi e volle sottoporsi a privazioni e forme austere di vita che danneggiarono la sua salute, originariamente forte. 

Sembra però che verso quel tempo interrompesse gli studi, per riprenderli in seguito. 

Il principe Adriano, che lo apprezza assai e che una volta per ischerzo lo chiama Verissimo, lo fidanza il alla figlia di L. Ceionio COMMODO, che designa suo successore, e morto questo  adotta Antonino, zio di Marco, a condizione che adottasse a sua volta il nipote e il figlio di Ceionio. 

Alla morte del principe Adriano, Antonino Pio adotta entrambi e Marco, che prende il nome di MARC'ELIO AURELIO VERO ANTONINO, partecipa sempre più al potere del principato.

Presto il principe lo indica suo successore, dandogli il nome di "Cesare", lo nominò questore,  console, gli diede in isposa la figlia Faustina. 

In quel tempo Marc'Aurelio Antonino ritorna agli studi di filosofia, occupandosi da prima principalmente di rettorica, sotto FRONTONE per la parte latina e Erode Attico per quella greca

è dubbio se allora abbia avuto l’insegnamento filosofico dello stoico APOLLONIO, ma la cosa è sicura per quelli del accademico ALESSANDRO, del liceale CLAUDIO SEVERO, e per l’ammaestramento del giurista LUCIO VOLUSIO MESIANO. 

Marc'Aurelio Antoniono, che Frontone avrebbe voluto rivolgere in modo definitivo alla rettorica, si diede invece completamente alla filosofia per impulso di GIUNIO RUSTICO, il quale gli fa conoscere l'insegnamento di Epitteto, che lascia un'impronta incancellabile nel suo spirito. 

In quel tempo chiama presso di sè altri filosofi, gli stoici CLAUDIO MASSIMO e CINNA CATULO, e

SESTO DI CHERONEA

 il platonico Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco. 

Marc'Aurelio Antonino si sforzò di ap- plicare alla sua vita le norme severe della morale stoica. 

Negli ultimi anni del principato del padre adottivo im- parò a conoscere da vicino la vita pubblica e l’ordina- mento dello stato, formandosi un’esperienza che gli fu preziosa quando, salito al trono, dovette affrontare dif- ficoltà di ogni genere. 


MARCO AURELIO ANTONINO

Antonino, gravemente ammalato, nomina successore Marco, che salito al trono dopo la - sua morte (7 marzo 161) col nome di M. Aurelio Antonino, volle governare l'impero insieme al fratello adot- tivo, che prese i nomi di Lucio Annio Vero; ma questo non gli fu di aleuna utilità nel governo dello stato, anzi gli arrecò dispiaceri con la sua condotta leggera e dis. soluta, 

Il principato di'Antonino era stato uno dei più tran- quilli e prosperi dell'età imperiale; invece quello del suo successore, pieno di pericoli e di sventure, iniziò la decadenza dello stato romano. Subito la situazione. si presentò minacciosa : inondazioni in Italia, carestia a Roma, agitazioni nella Bretagna, ove i legionari vole- vano eleggere imperatore il proprio comandante, inizio di agitazioni dei Germani, vittoriose campagne militari dei Parti nell’Armenia. Marco Aurelio affrontò energi- camente quest’ultimo pericolo, e inviò rinforzi in Oriente, ove i romani, riconquistata l'Armenia, distrussero le due capitali dei Parti, Seleucia e Ctesifonte; ma una terribile pestilenza impedì che la loro vittoria fosse definitiva e li costrinse a ritirarsi; però poterono consoli- dare le loro posizioni orientali. 

Appena i due imperatori ebbero celebrato il loro trionfo, si presentò un pericolo anche più grave sul Da- nubio, varcato in più punti da genti germaniche e slave, dirette dai Marcomanni e dai Quadi ; esse poi, superate le Alpi, assediarono Aquileia e sconfissero le forze ro- mane inviate contro di loro : intanto altri barbari pene- travano nell’Acaia e nell’Asia Minore e la peste, venuta dall'Oriente, devastava l’Italia. Marco Aurelio, oppo- nendo serenità ed energia a questo cumulo di disastri, prese tutti i provvedimenti che la tragica situazione richiedeva : alla testa di un nuovo esercito i due impe- ratori mossero contro i barbari che, tolto l'assedio da Aquileia, ripassarono le Alpi. Nel 169 Lucio Vero morì di apoplessia mentre ritornava a Roma; Marco Aurelio proseguì per più di cinque anni una guerra asprissima, in cui sconfisse i Marcomanni (172), i Quadi (174), gli Iazigi (175). Avrebbe voluto formare due nuove pro- vince e portare la frontiera ai Carpazi, ma dovette concludere affrettatamente la pace per recarsi in Oriente ove si era proclamato imperatore il legato di Siria, Avi- dio Cassio; trovando fautori in molte province. Marco Aurelio, sebbene l’usurpatore fosse stato ucciso da un centurione prima del suo arrivo in Oriente (175), vi si trattenne per riordinare e pacificare quelle province ; nel viaggio di ritorno, Faustina, che l'aveva accompa- gnato, morì in un villaggio dell'Asia Minore. Egli si trattenne a lungo in Atene, ove fondò quattro pubbliche cattedre di filosofia, affidate ai rappresentanti delle scuole maggiori. Poco dopo il suo ritorno a Roma, do- vette di nuovo recarsi nella zona danubiana per la in- surrezione dei Quadi e dei Marcomanni ; morì il 17 mar- zo 180, a Sirmium, sulla Sava, forse colpito dalla peste, che di nuovo faceva strage, dopo avere designato come successore il figlio Commodo, sebbene ne conoscesse la natura grossolana e malvagia. Nei 19 anni di regno, Marco Aurelio fu pari al suo ufficio di sovrano non sol- tanto come generale, ma anche come legislatore e come amministratore. Egli perfezionò l’opera legislativa dei predecessori e con criteri di umanità mirò a proteggere più che in passato gli schiavi, a tutelare gli orfani, i poveri, le donne, i figli. Cercò di rendere ben determi- nato l'ordinamento amministrativo e fece ogni sforzo per superare le difficoltà delle finanze, senza ridurre le spese di pubblica utilità e di beneficenza. Esercitò con serupolo che fu ritenuto eccessivo il suo ufficio di giudice, tendendo verso l’indulgenza; ma quando lo ere- dette necessario, applicò rigidamente le leggi. Perciò, ritenendo che i cristiani fossero pericolosi per lo stato, prese provvedimenti contro di loro. 

Di Marco Aurelio rimangono in latino lettere a Fron- tone e a Erode Attico (sono apocrife quelle riprodotte dagli Scriptores Historiae Augustae) e frammenti di di- scorsi ; è scritta in greco invece la sua opera principale tà els gavrév, titolo che si traduce con Colloqui con se stesso o con Ricordi o con Pensieri o anche con Note personali; è divisa in 12 libri e contiene aforismi, non teorie organicamente connesse. Il libro I, seritto nella terra dei Quadi, si pone abitualmente dopo il 166 e prima del 176; il libro II, scritto in Carnuntum (Ham- burg, in Ungheria) fra il 170 e il 174; I'VIII, dopo la morte di Vero (169). Però vi è chi ritiene che il libro I sia stato composto per ultimo, che il libro II appartenga agli anni dell’ultima campagna contro i barbari (177- 180) e che gli altri libri ineludano elementi di età di- verse : molte parti proverrebbero dal periodo 170-180, mentre altre sarebbero più antiche o costituirebbero semplici note, sparse qua e là. Vi è chi pensa che i libri II, III e XII formino il nueleo originale dal quale si sarebbe svolta l’opera complessiva. 

1 Pensieri di Marco Aurelio rappresentano un ammonimento che l’imperatore rivolge continuamente a se stesso per affrontare con serenità e forza d’animo le contingenze della vita, per accogliere con spirito tranquillo, anzi lieto, tutto ciò che esse gli possono presentare e per compiere imperturbato tutti i suoi doveri. 

Ora questo appunto fa pensare che egli si sia rivolto alla filosofia, anzi a un determinato sistema, per risol- vere i problemi che la vita gli presentava e per giustifi- care quei valori che si imponevano alla sua coscienza. 

Si tratta quindi di riconoscere quell’atteggiamento spirituale che costituisce il presupposto della sua costruzione filosofica. Ben presto egli deve avere sentito l'esigenza, continuamente espressa nei Pensieri, di rendersi conto a fondo della natura e del valore delle cose con un’analisi implacabile che doveva arrestarsi soltanto davanti alla virtù (cioè ai valori morali). È probabile però che da prima egli non mirasse con quest’analisi a disprezzare i suoi oggetti, come afferma in un pensiero (XI, 2), ma che questo ne fosse un risultato e che soltanto in seguito ne diventasse lo scopo. A ciò si aggiunge che Marco Aurelio si appropria l’intuizione eracliteo-stoica del perenne fluire di tutte le cose, ma per intenderla come una destinazione alla distruzione, come un processo continuo di dissolvimento e di morte degli esseri individuali, risultante nella formazione di altri esseri e di altri avvenimenti uguali ai precedenti. Una simile visione della vita, necessariamente, doveva portare a una posizione simile a quella dell’Eeclesiaste (Vanità delle vanità, tutto è vanità. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole), alla stanchezza, al disgusto di un’esistenza monotona, spregevole, mutevole, inconsistente. Ogni cosa è effimera e spregevole, è fango, è putredine e fumo; ed è inoltre meschina quanto mai se confrontata con l’infinita estensione del tempo, dello spazio, del cielo. 

Da questo punto di vista, appare vuota e sciocca la ricerca della fama e della gloria e insignificante anche la stoltezza e la malvagità dei piccoli esseri umani che lottano e si torturano per nuocersi, senza pensare che fra un istante saranno dissolti in cenere. Questi pen- sieri, però, non sono cosa nuova, perchè si collegano in parte alla predicazione cinica, in parte, e soprattutto, alle intuizioni della religiosità popolare che aveva giu- dicato in modo simile il mondo sublunare e di esse si sono notati gli influssi in Cicerone e anche più in Se- neca. A quelle intuizioni (che ponevano l’anima, di ori- gine celeste, incomparabilmente al di sopra di tutto ciò che fa parte della sfera sotto la luna) riporta anche ciò che Marco Aurelio dice del daîmon interno, sebbene sia dubbio se originariamente l’identificasse alla ragione o al nous. Più propriamente personale, e del pari originaria, appare la sua posizione rispetto alla vita morale. 

Quanto egli racconta nel libro dei Pensieri della sua prima età e della sua educazione mostra che prestissimo deve avere ritenuto supremi i valori etici, e assoluti i suoi doveri di uomo, di romano, di futuro principe, doveri che gli imponevano di agire secondo giustizia e per il bene comune. Ora, fra la convinzione della vanità e della spregiabilità di ogni cosa e quella della imperiosità di quei doveri, esiste non il nesso che collega la visione pessimistica dei dolori della vita all’amore universale, ma un contrasto, o almeno una divergenza. Se non è animato da una fede morale inerollabile che prescinde da ogni giustificazione teoretica, l’uomo che ritiene tutto vano e meschino facilmente si disinteressa della vita e dell’azione, o, al più, si limita a non nuocere, ma difficilmente si induce ad agire energicamente per il bene comune. La filosofia, che per Marco Aurelio è l’unica nostra guida nel turbine della vita (II, 17, 3), doveva fondare l’amore e la cura degli uomini con la loro affinità essenziale ed eliminare lo sconforto e il disgusto suscitati dalla convinzione della vanità universale, mostrando che ogni cosa è governata da una Provvidenza divina saggia e benefica, che tutto destina al bene dell’universo. E questa certezza doveva dargli forza e calma specialmente quando, giunto all’impero, fu costretto ad affrontare le situazioni tragiche che minacciavano di portare alla rovina lo stato e la civiltà che egli aveva l'obbligo di difendere. Appunto per ciò insiste sulla necessità di scegliere fra due ipotesi: o tutto consiste in un cumulo di atomi, mescolati senza ordine e senza scopo, o una provvidenza suprema governa tutte le cose. (Talvolta egli ammette tre possibilità : o l'ordine inflessibile del fato, o una Provvi- denza accessibile alla pietà, o un caos privo di dire- zione, abbandonato al caso ; in altri termini, la neces- sità cieca del fato, la credenza della religione popolare, l’atomismo). Per conto suo si decide per la seconda alternativa, cioè per lo Stoicismo contro l’Epicureismo, mettendo in evidenza l'ordine e l'armonia che l’universo presenta in ogni suo aspetto. E lo Stoicismo, nella forma assunta con Posidonio, gli permette anche di fondare l’amore per tutti gli uomini con la partecipazione delle anime razionali alla ragione universale. 

Però, seguendo l’eclettismo contemporaneo, egli collega allo Stoicismo pensieri attinti ad altre fonti : per non parlare ora di certi spunti scettici e dei motivi cinici che appaiono nel suo disprezzo di tutte le cose umane, basterà ricordare l’influsso di alenne dottrine centrali dell’ Aristotelismo. 

Anche Marco Aurelio ammette la legittimità delle tre discipline filosofiche fondamentali, ma apprezza poco l’analisi dei sillogismi e gli studi meteorologici. Ciò però non significa che egli neghi valore alle ricerche teoretiche, perchè riconosce la necessità di non assentire a rappresentazioni dubbie o false, ritiene che è impossibile diventare esseri morali se non si parte dalle verità che riguardano la natura dell’universo e quella propria dell’uomo, cioè respinge soltanto le sottigliezze della logica e gli studi speciali della scienza della natura, non la teoria della conoscenza, che per lo Stoicismo fa parte | della dialettica, e la metafisica e la teologia incluse nella/ fisica, pur subordinandole a finalità etiche. 

Quanto alle ricerche gnoseologiche i Pensieri si limitano a pochi cenni, in cui risuona una nota scettica: le cose sono talmente velate che a molti filosofi, e non dei minori, sono apparse inafferrabili e agli stoici sembrano difficili da apprendere: ogni nostro assenso è mutevole, perchè non v'è aleun uomo che non muti, 

Ma questo scetticismo, che riguarda il continuo mutare del soggetto e degli oggetti, non impedisce & Marco Aurelio di presentare concezioni metafisiche ben determinate sulla natura dell’universo ; le incertezze si limitano alle ricerche particolari, non si estendono allo studio della realtà essenziale del tutto. In questa parte egli modifica profondamente le dottrine storiche, perchè, mentre ne conserva il panteismo, ne respinge il materialismo, ammettendo, forse per l’azione esercitata su di lui dal peripatetico Claudio Severo, la natura puramente spirituale dell’intelligenza divina e umana. È così portato alle ultime conseguenze il dualismo che Posidonio aveva, se non introdotto, accentuato entro lo Stoicismo. Questa distinzione coincide con l’altra, che appartiene a quella scuola in generale, di materia e di causa, in quanto la seconda è pensata come immateriale. L'universo è un essere vivente e unitario nel quale, come nell’uomo, si distinguono il corpo, la psiche o anima (soffio vitale) e l’intelletto. Quindi è uno il mondo che tutto include, una la Divinità che ovunque si espande, una la sostanza e una la legge, una la ragione comune a tutti gli esseri intelligenti. L'universo è una città di cui partecipano gli Dei e gli uomini. L’intelligenza divina e universale è il logos, la ragione che ovunque si diffonde e che nell’eternità governa il tutto secondo periodi determinati. Spesso Marco Aurelio usa l’espressione sostanza universale per designare la Divinità; ma propriamente si tratta della ragione di quella. 

Antonino parla sia del divino, che chiama anche 'Giove,' che degli dei, ma doveva pensarli, secondo la ‘dottrina stoica, come manifestazioni della prima, sebbene, nel linguaggio, si conformasse alle credenze della eligione tradizionale che onorava con ogni serupolo. ara credeva di avere ricevuto dagli Dei avvisi, comunicazioni, aiuti. La divinità è soprattutto la Prov- vìdenza che tutto dirige. 

Marco Aurelio talvolta lascia in\sospeso se essa agisca caso per caso a proposito del singolo o abbia deciso una volta per sempre su ciò che riguarda l'universo, sicchè quanto si riferisce all’indi- viduo consegue a quella deliberazione iniziale. Abitual- mente, però, ammette la seconda alternativa, perchè parla del fato come della grande causa che è costituita dal nesso di tutte le cause e che proviene dall’impulso primitivo della Provvidenza e della legge universale : anche le opere della fortuna non sono indipendenti dalla natura e fanno parte del tessuto governato dalla Provvidenza, perchè tutto fluisce di là. (Talvolta però la prima è contrapposta alla seconda). Appunto perchè tutto è guidato dalla Provvidenza divina l’universo è perfettamente ordinato e ogni cosa e ogni avvenimento contribuiscono all’armonia e alla perfezione di esso. 

Esiste negli avvenimenti un nesso che non è soltanto razionale, ma anche armonico, perchè ogni cosa coopera a un solo scopo, anche colui che cerca di distruggere ciò che accade, e tutto si attua giustamente, secondo il merito di ogni essere, perchè ciò che gli avviene gli era assegnato dal destino in conformità della sua na- tura. Non si può ammettere che esista alcun male in- giustificato nell’universo, perchè l'intelligenza univer- sale o Dio non ha alcuna ragione di nuocere a un essere qualunque. 

Essa (o gli Dei) si preoccupa del bene del- l'universo ; perciò quello che accade a ogni essere giova al bene del tutto; ma siccome ciò che è o non è utile a questo è pure di vantaggio o di danno a quello, giova a ciascuno ciò che gli arreca la natura universale. Oe- corre quindi comprendere che quelli che appaiono mali non sono tali se si considerano dal punto di vista del tutto : ciò che è turpe e nocivo è una concomitanza del bello e del bene, perchè proviene necessariamente dalla fonte di ogni cosa che opera teleologicamente. Anche ciò che della natura universale sembra guastarsi e ren dersi inutile, viene da essa trasformato in esseri nuovi. 

Tutte le parti dell'universo per necessità periscono, mà ciò non può essere un male per esse, perchè la natura ‘non può avere mirato a nuocere alle proprie parti e nemmeno non essersi resa conto di questo : effettivamente la natura che governa il tutto ama il cambia- mento e trasforma ogni cosa in una simile, affinchè il mondo sia sempre giovane, perchè con questa trasformazione il cosmo si conserva. 

E ciò si applica anche alla storia del cosmo considerato nell'insieme. È quindi con la visione essenzialmente estetica dell'armonia uni- versale, che vengono giustificati le imperfezioni e i mali della realtà fisica. Quanto al male morale (che pure non si può eliminare dal mondo), siecome gli Dei esi- stono e hanno cura delle cose umane, occorre ammet- tere che hanno dato all'uomo il potere di non cadere in quelli che sono veramente mali. L'ordinamento del- . l’umiverso determinato dall’intelligenza universale si ma- nifesta nel fatto che essa ha creato gli esseri superiori come fine di quelli inferiori, e i primi sono stati fatti gli uni per gli altri: ora, gli esseri razionali sono supe- riori agli irrazionali, sicchè gli uomini rappresentano lo scopo della gerarchia cosmica al disotto della Divinità. 

Fra gli esseri dell’universo, il più elevato dopo gli Dei è l’uomo, che riceve da quello i suoi tre costitutori, il corpo, l’anima, o soffio vitale e l’intelletto o hRegemoni- kén. (Talvolta Marco Aurelio distingue soltanto il corpo e l’anima, che è identificata all’intelletto). 

Le percezioni riguardano il corpo, gli impulsi, l’anima, i principi, l’in- telletto. Nella valutazione dei tre costituenti dell'essere umano Marco Aurelio collega alcuni aspetti della teoria aristotelica del vob, con intuizioni di origine posido- niane, forse derivate, almeno in parte, da Epitteto, di cui accentua fortemente il significato religioso e asce- tico. Il corpo e la psiche sono aspramente svalutati : il primo è un finme che continuamente fluisce, qualche cosa facile a imputridire, un cadavere, una cosa spre- .gevole ; il soffio muta continuamente, è un sogno e un vapore. Essi non dipendono da noi, sono nostri soltanto n quanto dobbiamo prendercene cura. È veramente ostro soltanto l’intelletto che è una particella, un ef- vio di quello divino ; esso è (come dice Marco Au- rélio usando un’espressione di Posidonio e di Epitteto) il nostro demone interno o il signore interiore, il Dio in noi, la ragione comune a tutti gli animali intelligenti e quindi a tutti gli uomini: si comprende perciò che Marco Aurelio possa affermare, valendosi di un’espres- sione che riporta al misticismo ascetico della religiosità ellenistico-romana, che la vita, per quel demone, è un esilio in terra straniera. 

Però ciò non significa che egli ammetta l'immortalità dell’anima intellettuale, perchè invece è inclinato a negarla completamente o, se non altro, a limitare assai quella sia pure temporanea so- pravvivenza che la sua scuola ammetteva e che Seneca aveva dipinto con i più smaglianti colori. Parleremo in seguito delle possibilità che egli ammette provvisoria- mente, per mostrare che nemmeno chi le accetta deve temere la morte: quando esprime il proprio pensiero, pensa che tutte le parti che costituiscono l’uomo ritor- neranno a ciò da cui sono uscite per trasformarsi in altre parti dell'universo, in un processo infinito. Non esclude la possibilità che con la morte l’uomo non si estingua subito, ma sia trasferito altrove, cioè che il suo dissolvimento non sia immediato. Ma quando si tratta di determinare meglio la seconda alternativa, Mareo Aurelio, che parla della psyche, non dell’intelletto immateriale, ammette che la sopravvivenza abbia breve durata, perchè le anime, dopo avere emigrato nell’aria, dovranno presto riassorbirsi per conflagrazioni, nel logos spermatikos (ragione seminale o forza generatrice) del- l’universo. Probabilmente pensava che anche il demone dell’uomo dovesse ritornare, o subito o dopo una breve sopravvivenza, alla Divinità da cui era emanato. 

Su questi concetti metafisici e teologici Marco Au- relio fonda la morale, che costituisce l'oggetto continuo delle sue meditazioni, ma è proprio in questa parte che è più difficile coordinare i suoi pensieri, perchè, anche se non presentano incoerenze, spesso offrono soltanto aspetti diversi di una stessa concezione, sicchè è necessario integrarli reciprocamente, Si deve notare però ch la determinazione dei valori etici appartiene a ciò e Marco Aurelio chiama la facoltà dell'opinione, ossia pl giudizio in quanto assenso volontario, che perciò di- ‘ pende da noi. 

Anche per lui, come per gli stoici in gene- rale, ogni essere tende al fine per il quale è stato costituito, in cui consiste il suo bene: così esso segue /sia la natura universale che la propria. Ciò vale anche per il bene, il fine o la felicità dell'uomo, che consistono nel seguire quelle due nature, che coincidono perchè dalla ragione, ingellisenza universale, cioè Dio, deriva quella umana. Quindi per un essere razionale quale è l’uomo seguire la natura o Dio equivale a conformarsi alla ragione (intesa insieme come pensiero e come vo- lontà) e preservarla da deformazioni contrarie alla pro- pria natura razionale. E siccome l’intelletto è il nostro Dio interiore, si può esprimere la stessa norma dicendo che occorre conservare puro il demone interno e seguirlo. 

Ma per un essere razionale quale è l’uomo il bene risiede nell'attività, sicchè seguire la natura o la ragione significa agire in accordo con essa. 

Ciò vuol dire che non vi è bene per l’uomo all’in- fuori della virtù, nè male salvo l’opposto. Nel deter- minare il contenuto dell’azione etica, Marco Aurelio si esprime in modi diversi; ma si tratta di presenta- zioni parziali delle stesse concezioni, che richiedono di essere integrate. In complesso, si può dire che l’ispira- zione religiosa, che appare fortissima nella teoria del demone interno, è lo spirito animatore della sua visione etica. Appunto perchè ciò che gli è proprio è il demone o l'intelletto, che è una particella della Divinità, l’uomo deve più di ogni cosa venerare, obbedire e temere gli Dei, cioè onorare quella totalità razionale di cui partecipa ; questo esige la sua stessa ragione. 

Ma ciò non implica soltanto, come talvolta Marco Aurelio afferma, che la pietà e la venerazione della Divinità siano supe- riori alle azioni giuste ; bensì significa anche che la vita etica puramente umana ha significato religioso, che Lr le colpe sono forme di empietà e quindi tutte le irtù sono aspetti del suo opposto, perchè Dio o la na- tura universale prescrive questa e quindi vieta quella. 

Operando eticamente, gli uomini si rendono simili agli Dei, come questi richiedono. Siceome sono stati generati gli uni per gli altri e partecipano della stessa ragione divina, tutti gli uomini sono esseri sociali, ossia hanno per fine la società, che perciò costituisce il loro bene ; essi sono parenti e affini e come membra di uno stesso corpo, debbono cooperare per il bene comune degli es- À seri. È quindi naturale che Marco Aurelio, che non con- sidera le virtù in modo sistematico, si occupi di preferenza di quelle propriamente sociali, la giustizia e la benevolenza, intesa sia come amore per gli uomini, sia come disposizione a far loro del bene, pure non parlandone sempre nello stesso modo. 

Talvolta, come del resto il pensiero antico tendeva a fare, identifica tutte le virtù alla giustizia, o fa di essa la fonte da cui le altre derivano. In altri casi, però, le distingue e soprattutto parla a parte e a lungo della benevolenza, nei suoi due aspetti. Dell'’amore universale per gli uomini parla con una convinzione e una frequenza che richiamano Seneca e, come in questo, fanno pensare all'insegnamento del Cristianesimo : « Ama il genere umano » è il suo comando (VII, 31, 2; ef. VIII, 26, 2). Ma l’uomo deve sentirsi non una parte, bensì un membro dell'organismo degli esseri razionali, deve amarli di cuore e compren- dere che beneficandoli, fa del bene a se stesso (VII, 13 ; cf. VI, 39). È simile a un membro reciso dal corpo dal quale riceve vita, chi fa qualehe cosa contro il bene comune, chi si separa dalla società numana, e si separa da questa chi si divide anche da un solo uomo. Non dobbiamo avere avversione per alcuno, nemmeno per chi, pure essendo stato per noi cagione di fatiche e do- lori, desidera la nostra morte, perchè ne spera qualche i sollievo (VIII, 43; X, 36, 6). Dobbiamo essere miti e benevoli verso chi ci odia (IX, 27; XI, 13). Anzi, è proprio dell’uomo amare chi l’offende, ricordando che è suo parente, che agisce male involontariamente, per- chè ignora che fra breve entrambi saranno morti, che effettivamente l’offensore non gli ha nociuto, non avendd reso peggiore la sua ragione dominante. 

Per la stessà ragione e perehè noi pure abbiamo errato e perchè l’uomo che agisce male opera necessariamente per la sua na- tura, dobbiamo amare e sopportare tutti gli uomini in generale, anche chi erra, cercando, se possibile, di ammaestrare questo amichevolmente e cortesemente, senza irritarci con lui. Chi agisce male lede se stesso, perchè sì rende malvagio. Ma dobbiamo, non soltanto amare e sopportare gli uomini, ma anche beneficarli ed essere soddisfatti dell’opera nostra, senza aspirare ad una ri- compensa (IV, 3; V, 20, 1; V, 33, 6; VII, 13; VII, 7,3; IX, 42, 5; XI, 4). Anzi, l’uomo dovrebbe benefi- care spontaneamente, come la vite produce i suoi grap- poli (V, 6). In ultimo, il godimento della vita si do- vrebbe porre nel formare un tessuto assolutamente inin- terrotto di azioni buone (XII, 29). 

Soltanto la condotta razionale, cioè sociale, ossia la virtù, costituisce il bene e il suo opposto, il male ; ora, essi sono espressioni della nostra attività, che è l’unica cosa che dipende da noi; infatti, niente può impedirci di essere buoni. La stessa cosa si può esprimere dicendo che nulla può costituire un ostacolo all’intelletto, alla virtù, che dipende da me non far nulla contro il mio Dio interno. Da ciò segue, da una parte, che dobbiamo considerare come un bene (e ricercare) o come un male (e sfuggire) esclusivamente quello che dipende da noi, e ogni altra cosa, ossia ciò che sta in mezzo tra la virtù e il vizio, come indifferente ; dall’altra, che nel nostro interno è la fonte del bene che scorrerà sempre, se sempre sarà scavata. Perciò occorre che l’uomo si ritiri in esso, perchè in nessun altro luogo troverà pace e tranquillità maggiori ; ivi la ragione, non disturbata dalle passioni, è una rocca inespugnabile (IV, 3; VI, 11; VII, 28; VIII, 48). 

La libertà, l'indipendenza, la serena pace del- l’anima svaniscono quando l’uomo accorda valore alle cose esterne che non sono in suo potere. Ora esse non toccano l’anima, ma ne rimangono fuori e possono tur- ‘barla soltanto grazie all'opinione che ce ne formiamo, in quanto riteniamo che siano beni o mali. Esse, come sì è visto, sono indifferenti, non sono nè beni nè mali, perchè possono accadere e appartenere sia ai buoni che ai malvagi e non nuocendo all’intelletto, non vanno contro la natura dell’uomo e non danneggiano la sua vita. Se ci asteniamo dal giudicarle beni o mali possiamo restare impassibili rispetto ad esse e così conseguire la felicità. Propriamente è in sè indifferente per l’anima ciò che non riguarda la sua attività presente : bisogna pensare soltanto a questo, che può essere sempre materia di bene, lasciare il passato a se stesso e affidare il futuro alla Provvidenza. 

Le cose esterne si possono distinguere in quelle ehe ci accadono e in quelle che abitualmente si chiamano così e che si ricereano o sfuggono. Ma se in un senso dobbiamo essere indifferenti rispetto a quello che ci avviene perchè non è nè un bene nè un male, in un altro dobbiamo esserne contenti, perchè ci è stato asse- gnato originariamente dal destino, è stato legato in modo indissolubile al tessuto della nostra esistenza dalla Provvidenza divina che così ha mirato al bene dell’uni- verso e al proprio. Inoltre, ogni cosa che avviene a un uomo si conforma a lui. Anche la morte si deve accet- tare serenamente e di buon grado, senza timore, perchè è un segreto della natura e un’opera sua, ed essendo conforme ad essa, non può essere un male; anzi è uno degli atti della vita e costituisce un riposo dalle agi- tazioni di questa, mentre è una cosa utile all’universo e alla natura. 

Se alcuno chiede come si accordino la giustizia degli Dei e il fatto che gli uomini buoni e pii mudiono per estinguersi completamente, Marco Au- relio risponde che quelli avrebbero ordinato diversa- mente le cose se ciò fosse stato giusto e razionale. Del resto, qualunque concezione filosofica si accetti, la morte non deve incutere timore. Se non esistono che gli atomessa è una disgregazione di questi; se esiste un solo tutto, è o una dispersione dell'essere umano nei suoi elementi, cioè una estinzione, o una emigrazione altrove :/ in generale, o è l’insensibilità, e allora libera l’anima/ dalla sua sottomissione al proprio involuero corporeo, 9 una sensibilità diversa, e in tal caso l’anima si reca ih un luogo che non è certamente privo di Dei. Mai, quindi, vi è ragione di temerla. Per rafforzare questa conclu- sione Marco Aurelio insiste sull’universalità della morte e sulla brevità infinitesima della vita rispetto al tempo illimitato che l’ha preceduta e che le succederà. 

Occorre abbandonare la vita come l’oliva matura cade lodando la terra che l’ha sostenuta e ringraziando l'albero che l’ha sviluppata. 

In conclusione, l’uomo deve conformarsi alla natura dell’universo. « Tutto ciò che è in armonia con te, 0 universo, è in armonia anche con me » (IV, 23). Infatti, è dovere di pietà amare tutto ciò che avviene. Ma anche se non esistesse la Provvidenza l’uomo dovrebbe acco- gliere senza irritazione e senza lamento gli avvenimenti. 

Se tutto si riducesse ad aggruppamenti di atomi veri- ficantisi a caso, sarebbe follia biasimare o i primi o il secondo : e anche se le cose stanno così, io almeno, non voglio procedere a caso e debbo esser lieto se ho in me una ragione direttrice. Se esiste un fato predestinato e ineluttabile, ma non la Provvidenza, è stolto ribellarsi ad esso. 

Quanto a quelle cose che più propriamente si dicono esterne, è ingiusto ed empio ricercarle, perchè sono indifferenti; e Mareo Aurelio applica ottimamente ad esse l’analisi per mostrare che sono, più che indifferenti, meschine, vane e spregevoli e conclude che le cose umane sono fumo e nulla; e di fronte a una vita vuota, senza valore e sempre uguale, si domanda: sino a quando? 

Pure, più forte della stanchezza e del disgusto è la coscienza del dovere che dev'essere compiuto senza preoccupazione di altro (VI, 2 ; VI, 22). E questo dovere è quello, sia dell’uomo, cittadino del mondo (Marco Aurelio ritiene che tutti gli esseri umani, che parteci- pano della stessa ragione e abitano la stessa città, governata da una sola legge, sono concittadini), sia di Antonino, cittadino &i Roma (VI, 44). 

Si può ripetere per Marco Aurelio ciò che s°è detto per Seneca : il suo pensiero, privo di originalità e lacerato da incoerenze in quanto teoria filosofica, appare invece vivo e significativo se è considerato un atteggiamento spirituale di fronte ai problemi della vita. 

Egli cercò nella filosofia stoica una fonte di fiducia, di serenità, di forza, innanzi alle avversità e soprat- tutto all’irrimediabile vanità dell’esistenza, e perciò ri- petè ostinatamente che la Provvidenza divina, sorgente del destino, tutto guida e tutto rivolge al bene dell’universo e del singolo e così espresse l’esigenza profondamente religiosa della sua anima; ma in tal modo, senza riuscire a superare il disgusto e la stanchezza della vita, cioè a raggiungere il suo scopo principale, rese più grave una contraddizione implicita nelle dottrine stoiche. 

Infatti, per queste le cose e gli avvenimenti esterni, indifferenti perchè per sè presi non sono nè veri beni, nè veri mali, appaiono benefici e pregevoli in quanto voluti dal fato divino e provvidenziale; Marco Aurelio aggrava questa contraddizione in senso diverso da Seneca, perchè con la sua analisi spietata li mostra meschini, vani, monotoni, sicchè alla fine conclude che tutta la vita è fumo e nulla e si domanda : fino a quando vivrò? 

D'altra parte, mentre il suo spirito religioso si sforza di rintracciare ovunque la manifestazione di una Divinità provvidenziale non riesce a calmare il sospetto che l’universo sia governato da una necessità inesorabile, sicchè la lieta e pia sottomissione al volere divino si discolora nell’accettazione dell’inevitabile legge del de- stino. 

Pure, questo stato d’animo lacerato e doloroso, che si nasconde sotto l'apparente calma e serenità dei Pensieri, non intacca la profonda, invincibile fede etica che all'uomo si impone incondizionatamente la legge del dovere : essa gli comanda (e tutta la vita di Marco Aurelio prova che egli ha obbedito sempre a questa norma) di lottare per il bene anche contro il destino : soltanto quando tale conflitto è riuscito vano, l’uomo si piega senza un lamento, non passivamente rassegnato, ma dignitosamente silenzioso, davanti a una forza che lo supera. 

Ed è notevole il fatto, che mentre le dottrine che insistono sul carattere assoluto del dovere, tendono ad attenuare il valore dell'amore, Marco Aurelio li collega indissolubilmente e parla dell'amore per tutti gli uomini, anche per coloro che ci odiano ; dell’obbligo di far del bene ad ognuno senza eccezione.

Se, come è molto probabile, la basilica di Porta Maggiore apparteneva a una setta religiosa di neo-pitagorici, si deve riconoscere in questo fatto la prova che il movimento iniziato alla fine della Repubblica da Nigidio Figulo aveva trovato continuatori sotto l'Impero ; però non si possono determinare in Roma seguaci di esso. Proveniva invece dall’Iberia il neo-pitagorico.

MODERATO DI CADICE

Moderato di Cadice, parente di Giunio Moderato Columella, l’autore del De re rustica, e vissuto, al pari di lui, nella seconda metà del I secolo d. C. 

Compose in greco un’opera in undici libri intitolata IIvdayoprxal cyoXxt, di cui rimangono frammenti in Simplicio, in Porfirio e nello Stobeo. 

Egli affermava che Platone aveva preso dai pitagorici la teoria della materia e ciò ha fatto pensare che mirasse a ridurre alla filosofia dei secondi i fondamenti della metafisica del primo, ma effettiva- mente interpretava nel senso di un platonismo conce- pito in modo monistico le teorie matematiche del Pitagorismo antico. 

In questo monismo, che va contro alle direttive dualistiche del vero pensiero platonico, si può con lo Zeller riconoscere l’influsso dello Stoicismo. 

Infatti, Moderato vede in quelle dottrine matematiche soltanto un simbolismo destinato a rendere accessibili i primi principi della realtà che non si possono afferrare facilmente col pensiero ed esprimere col discorso, per cui si chiamava uno l’unità, l'identità, l'uguaglianza, la causa dell'armonia e della permanenza di tutte le cose, due l’alterità, la differenza, la divisibilità, il cambiamento.

In tal modo i concetti matematici, perduto il loro carattere scientifico, si riducevano a simboli di entità metafisiche. Per Moderato, al vertice di esse sta l’Uno primitivo, al di là dell’essere o dell’essenza, dal quale proviene ogni grado della realtà. 

Sotto la prima Unità, o Monade, ve ne è una seconda, l’essere reale o intelligibile, ossia il mondo delle Idee, al quale segue una terza Unità, l’anima, che partecipa del primo Uno e delle Idee. All'ultimo posto, al disotto di questa, è la natura delle cose sensibili, che non partecipa delle realtà ideali, ma è ordinata sul loro modello. 

La ragione originaria (ò Svitog A6yoc), che vuole procedere alla generazione delle cose sensibili, separa da sè la quan- tità privandola di tutte le forme : essa proietta un’ombra che è la materia di tali cose, che viene formata sul mo- dello delle Idee. In questo passaggio graduale dall’ Unità primitiva al mondo materiale degli oggetti sensibili si presenta già il tema fondamentale del Neo-Platonismo ; ma anche in Moderato si rivela quella tendenza eclet- tica che caratterizza tutte le filosofie di questo periodo. 

Come suo scolaro Plutarco ricorda un Lucio Tirreno, cioè etrusco, ma lo fa parlare soltanto di precetti pitagorici, non di teorie religiose o filosofiche. 

QUINTO SOSSIO SENECIONE

Q. Sossio Senecione visse molto tempo in Grecia ove conobbe Plutarco poco prima di conseguire il consolato. 

Per la parte avuta nella vittoria di Traiano sui Daci, ottenne le insegne del trionfo e il secondo consolato.

Mentre era intimo amico dell’imperatore aveva relazioni con i più importanti gruppi culturali del tempo suo ed era unito da stretti rapporti con Plinio e anche più con Plutarco, che gli dedicò diverse opere (il De profectibus in virtute, le Quaestiones Convi-. viales e le Vite parallele). 

Da ciò risulta che, senza essere un pensatore originale, era uomo di non superfigiale cultura filosofica.

Altre indicazioni di Plutarco fanno ritenere che, come lui, Sossio Senecione fosse un seguace del Platonismo Medio. 

Sebbene avesse avuto per maestro Musonio Rufo e conservasse sempre simpatie per lo Stoicismo è verosimile che si avvicinasse al Platonismo Medio, al pari del suo amico Plutarco, anche C. Minicio Fundano, senatore, console, poi proconsole d’Asia sotto Adriano, che indirizzò a lui il reseritto sui processi dei galilei.

Persona molto colta, Sossio Seneccione conta numerosi amici ira le più insigni personalità del tempo suo, come Plinio, Tacito, e Plutarco. 

Questo ne fece uno degli interlocutori e il principale espositore del De cohibenda ira ed è probabile che gli attribuisse pensieri che, in sostanza, corrispondono alle sue convinzioni. 

Lo Zeller, dalle lodi che M. Fundano rivolgeva a certi precetti di Girgenti, inferisce che tendesse verso qualche specie di Neo-Pitagorismo.

GAIO GIULIO SABINO 

Gaio Giulio Sabino, chiamato da un'iscrizione filosofo platonico. 

Aderirono al Platonismo Medio nel II secolo Apuleio, Nigrino, Severo, un Lucio, un Censorino.

APULEIO

Apuleio, di cui non è sicuro il prenome Lucio, nato quasi certamente a Madaura, ora Mdauruch nel dipartimento di Costantina, presumibilmente verso il 125 d. C., apparteneva a una famiglia ricca e distinta. 

Suo padre era stato uno dei decemviri jure dicendo della sua città. 

Ricevuto il primo insegnamento a Madaura, si recò a Cartagine per com- piervi studi grammaticali e retorici; e questi ultimi predilesse sempre in seguito. 

Poi partì per Atene, ove coltivò particolarmente la filosofia ; è probabile che là sia stato scolaro del platonico Gaio, perchè le dottrine che espone nel De Platone eiusque dogmate concordano - tanto con quelle del Didaskalikos di Albino (un discepolo di quel maestro) da far pensare all'insegnamento di questo come fonte comune. 

Apuleio dopo di allora sì professò sempre platonico, ma il suo platonismo era, come quello della sua età in generale, piuttosto eclettico e dominato da interessi mistico-religiosi i quali lo indussero, nel suo soggiorno in Grecia (in cui era dive? nuto padrone della lingua ellenica), a farsi iniziare in numerose religioni dei misteri. 

Inoltre studiò retorica, poesia, musica, geometria, astronomia e coltivò le scienze naturali, specialmente la storia naturale, e rielaborò in latino le opere di Aristotele e della sua scuola su questi argomenti. Fece lunghi viaggi, specialmente nell'Asia greca, spendendovi larga parte del suo patrimonio. Poi si trattenne a Roma, ove con successo difese cause. 

Dopo il suo ritorno in patria, in un viaggio da Madaura ad Alessandria, si ammalò a Oca (Tripoli) e perciò do- vette trattenervisi : in quel tempo tenne conferenze che ebbero successo e così stabili buoni rapporti con Lolliano Avito allora proconsole d’Africa. In Oca abitava un giovane che Apuleio aveva conosciuto in Atene, Sicinio Ponziano, il figlio maggiore di Pudentilla vedova da quattordici anni di Sicinio Amico, dal quale aveva avuto anche un altro figlio, Sicinio Pudente. Secondo Apuleio, Ponziano lo indusse a sposare la madre, che allora desiderava di rimaritarsi, donna ricca, ma non bella e quarantenne, cioè più anziana di una diecina d’anni del nuovo coniuge. Sebbene Apuleio trattasse i figliastri con molta larghezza, i parenti del primo marito per motivi d’interesse insorsero contro di lui e da prima lo incolparono della morte di Ponziano, avvenuta a Cartagine, ma dovettero abbandonare l'accusa; poi eccitarono il giovanetto Pudente contro il patrigno e insieme lo accusarono di avere con arti magiche indotto Pudentilla a sposarlo. 

Il processo avvenne a Sabratha, al tempo di Antonino Pio, davanti al nuovo proconsole d’Africa, Claudio Massimo, uno dei maestri di Marco Aurelio e si chiuse con l’assoluzione o almeno col proscioglimento (per non provata reità) di Apuleio, che però dovette lasciare Oca perchè i suoi nemici non disarmavano. In seguito pare che risiedesse a Cartagine o almeno che vi soggiornasse abitualmente : ivi si era acquistato il favore del pubblico che ascoltava le sue conferenze ; era l’oratore ufficiale della città che gli aveva eretto statue e lo aveva nominato sacer- dote della provincia per il culto imperiale. Presumibilmente per la sua volontà, non coprì uffici pubblici. È ignota la data della sua morte (180?). 

Apuleio compose opere assai numerose e svariate, ma molte sì sono perdute. 

Rimangono due opere retoriche, il De magia 0 Pro se de magia e i Florida; un romanzo, le Metamorphoses ; due trattati filosofici sicuri, il De deo Socratis, e il De Platone eiusque dogmate, e due discussi, il Ilepl Epunvetac e il De mundo. De magia è il titolo dell’Apologia, o auto-difesa contro l’aceusa di magia. I Florida sono una specie di antologia di discorsi di Apuleio (composti, pare, sotto M. Aurelio e L. Vero) e contengono ventitrè estratti di lunghezza diversa. Siccome son divisi in quattro libri, seguono il piano di una raccolta di orazioni complete, ripartite ugualmente, fatta dall'autore. 

Non si possono determinare nè il criterio della scelta, nè lo scopo di essa; si ritiene sia l’opera di uno scolaro. Le Metamorphoses, l’opera maggiore di Apuleio, narrano le avventure di un giovane greco, Lucio, che, trasformato in asino per effetto di magia, ridiventa uomo con l’aiuto di Iside, dopo aver man- giato una corona di rose, portata da un sacerdote della dea in una cerimonia in onore di essa. Il romanzo si accorda, nella narrazione principale, con un breve scritto greco, Lucio o l’Asino, attribuito a Luciano : lo stesso argomento poi era trattato nelle perdute Metamorfosi di Lucio di Patre. Però, siccome nello seritto lucianeo il protagonista è chiamato Lucio, alcuni ritengono che lo studio perduto fosse anonimo o portasse un nome falso : sui rapporti fra queste tre composizioni sono state presentate ipotesi assai diverse. Il De deo Socratis, svolgendo cenni platonici, tratta dei demoni, esseri intermediari, fra i quali è posto quello di Socrate. Il De Platone eiusque dogmate è un’introduzione allo studio di Platone che riguarda tutta la fisica, cioè la metafisica e la filosofia della natura (1. I) e l’etica [e la politica] (1. II): manca il terzo libro sulla dialettica, mentre esiste un trattatello di logica formale, il Iepì èpunvetag, che però costituisce un lavoro a sè. Viene attribuito ad Apuleio, ma l’autenticità n'è stata contestata, sebbene in modo non decisivo ; il carattere non platonico, ma aristotelico di esso, si può spiegare con l’eclettismo dell’epoca. 

Del pari non è dimostrato il carattere apocrifo del De mundo, che è una rielaborazione dello scritto pseudo-aristotelico che porta lo stesso titolo, composto probabilmente alla fine del I o all’inizio del II secolo a. C. Apuleio compose molte altre opere ora perdute, che sono menzionate da lui nell’Apologia o da autori posteriori. La prima ricorda seritti naturalistici in greco e in latino, che riguardano soprattutto la zoologia e in modo particolare i pesci. Sono ricordati anche altri scritti scientifici (De arboribus, De re rustica, Medicinalia, Astronomica, De arithmetica, De musica). Apuleio ha composto inoltre discorsi diversi, una traduzione del Fedone, il romanzo Hermagoras di cui rimangono due frammenti, poesie in tutti i generi, Quaestiones conviviales, un De republica : esistono allusioni a un’Epitome historiarum e a un ’Eporixéc, che pare fosse una raccolta di aneddoti amorosi. Si giudicano apocrifi il trattato Asclepius (che fa parte della collezione ermetica) e gli seritti De herbarum virtute, De remediis salutaribus, Physiognomonica. 

È chiaro che Apuleio, che si professava filosofo, in- tendeva per filosofia sia l’attività letteraria e retorica, sia il sapere in generale (umanistico, matematico, na- turalistico, speculativo e religioso) di cui la vera e propria filosofia costituiva soltanto una piecola parte. Certa- mente, per i suoi gusti, le sue consuetudini letterarie e stilistiche, le sue attività di oratore e di maestro di eloquenza, egli fu essenzialmente un retore che si può avvicinare ad altri retori contemporanei, i rappresen- tanti della seconda sofistica greca e autori come Fron- tone nel mondo latino ; ma, come è stato più volte no- tato, si distingue da loro, che erano completamente indifferenti al contenuto della loro virtuosità formale o almeno lo subordinavano completamente ad essa, perchè era animato da un desiderio vivo e sincero di dominare tutto il sapere contemporaneo, sebbene si contentasse di un encielopedismo superficiale, in quanto non approfondiva le questioni trattate e si limitava a giustap- porre, senza rielaborazione personale, ciò che aveva ap‘ scienza contemporanea, che costringe sempre più la preso da altri. 

Non si riconosce però abbastanza che se in Apuleio non esiste un interesse che sia la radice degli altri, vi è però una preoccupazione più forte di © — tutte, quella religiosa, che si colora di misticismo da una parte, di occultismo e di superstizione dall’altra @ che concorda con la tendenza predominante della co- speculazione filosofica ad assumere l'aspetto teologico di una teoria della redenzione e della salvezza. Alla preoccupazione religiosa si subordinano in Apuleio sia le speculazioni filosofiche, sia gli studi scientifici, che allora male si distinguevano dalle discipline occulte e dalla magìa in particolare. Sotto questi aspetti egli si muove, su un piano senza confronto interiore, lungo le direttive di Posidonio (che egli però non mostra di cono- scere), di cui da una parte diluisce le svariate ricerche scientifiche personali in compilazioni enciclopedistiche e, dall’altra sviluppa ed esaspera i germi di misticismo di occultismo e di superstizione. 

Perciò, certi padri della Chiesa Galilea come Lattanzio, Girolamo, e Agostino, lo avvicinarono ad un taumaturgo come Apollonio di Tiana e contrapposero l’uno e l’altro a Gesù, e più tardi, l'età medioevale vide in Apuleio un mago. 

Come si è già accennato, il suo platonismo ha carattere eclettico, perchè avvicina all'insegnamento della scuola platonica teorie di altre fonti (pitagoriche, aristoteliche) e delle religioni dei misteri. Con Platone, Apuleio distingue due sostanze o essenze, che unite generano ogni cosa e lo stesso universo : l’una, che è afferrabile soltanto col pensiero, è sempre uguale a se stessa, eterna e vera- mente è; l’altra che può cadere sotto i sensi si deve valutare con l'opinione sensibile e irrazionale, nasce e muore e (si può dire) non esiste veramente. In un testo, la prima essenza include Dio, la materia, le forme delle cose (o Idee) e l’anima, in un altro, che più si conforma a Platone, l’anima non è annoverata fra i primi prin- cipi. 

Dio è incorporeo, uno, immisurabile, è il generatore delle cose, è felice e rende felici, è ottimo, è libero dai vincoli della passività e dell’attività. È ineffabile e a stento può balenare talvolta per un istante ai sapienti, quando sono giunti, nei limiti della possibilità, a separarsi dal corpo. Al disotto della suprema Divi- nità stanno gli altri Dei; quelli visibili (o i corpi ce- lesti) e quelli invisibili, come i dodici dell'Olimpo, esseri animati, incorporei, superiori'a ogni contatto col corpo, senza principio nè fine, buoni per se stessi. 

Non è chiaro il rapporto di questi Dei con l’Iside esaltata nelle Metamorfosi, che chiama se stessa « madre della natura delle cose, signora di tutti gli elementi, progenie iniziale dei secoli, superna dei numi, regina dei mani, prima dei celesti, uniforme aspetto di tutti gli Dei e le Dee», ma che si identifica soltanto con svariate divinità femminili (XI, 5). Come nelle religioni dei misteri in generale, si nota qui la tendenza a ridurre tutto il pantheon pagano a una sola Divinità, pur non negando l’esistenza indipendente di altre personalità divine. Inoltre è oscuro il rapporto tra questa Divinità, che personifica la potenza della natura, e quella suprema e ineffabile. La speculazione filosofica derivata da Platone e l’intuizione religiosa dei misteri, così giustapposte, rimangono divergenti. Delle Idee Apuleio molto inesattamente afferma una volta che sono «non circoseritte, prive di forma, non distinte per aspetto o qualità » (inabsolutae, informes, nulla specie nec qualitatis significatione distinetae : De Plat. ciusque dogm., I, 5); meglio altrove le presenta come forme semplici, eterne, incorporee di tutte le cose (ivi, 6). La materia è increabile e incorruttibile ; essendo grandezza illimitata è infinita. Originariamente informe, ha la capacità di ricevere figure e divisioni e non è nè corporea, nè incorporea. Essa è il principio di tutti i corpi, in quanto Dio, imprimendovi le immagini delle Idee (forme o modelli delle cose), ne ha fatto uscire i quattro elementi, che poi, combinandosi, hanno generato tutti gli altri esseri, animati e inanimati, del mondo. 

Questo ha avuto origine; ma siccome ha per causa Dio, la sua durata è senza termine. Sebbene parli, non dell'anima cosmica, ma di quella celeste, è chiaro che Apuleio ammette con Platone, che essa, che è la fonte di tutte le altre anime (che senza eccezioni sono incor- poree e imperiture), è inclusa nell'universo. Egli la chiama una mente, la dice sapientissima, indicando così che è una sostanza razionale ; e insieme la denomina una virtù (o potenza) generatrice. Tutto ciò che avviene naturalmente, e perciò in modo retto, è governato dalla Provvidenza, che è un pensiero divino che tutela la prosperità di ciò cui si riferisce ; essa si attua per mezzo di quella divina legge che è il fato, col quale coincide, 

Ma non tutto è governato dal fato, perchè vi sono cose che dipendono da noi o dalla fortuna. Degli esseri terrestri il più elevato è l’uomo in cui l’anima è la signora del corpo. Con Platone, vi distingue tre parti : la razionale, l’irascibile e la desiderativa o appetitiva. Non è chiaro se limiti l'immortalità alla prima o la estenda a tutte e tre. Gli Dei e gli uomini sono del pari esseri ani- mati, ma i primi differiscono fortemente dai secondi soprattutto perchè risiedono in un luogo sublime : in- fatti, lontano da noi, conducono una vita perenne e beata, hanno una natura perfetta, mentre gli esseri umani, pure avendo un'anima immortale, sono mortali rispetto al corpo e sono immersi nelle miserie, sicchè la loto vita è tutta un lamento. Siccome gli Dei non possono entrare in rapporto con gli uomini, debbono esistere certe potenze divine intermedie, che risiedono nell’aria, che sta fra l’etere superiore e la nostra infima terra, i quali hanno l’ufficio di rendere noti agli Dei i nostri desideri e i nostri meriti. Chiamati demoni dai Greci, arrecano agli abitanti del cielo preghiere e ri- chieste, a quelli della terra doni e soccorsi. 

I demoni sono come gli uomini, esseri animati, ragionevoli, ma capaci di provare passioni; posseggono la qualità propria di vivere nell’aria e hanno in comune con gli Dei l'immortalità dell’esistenza. Apuleio, nella demonologia largamente sviluppata del De Deo Socratis (che muove da alcuni cenni del Simposio platonico, ma segue le direttive del pensiero di Posidonio) attribuisce ai demoni i miracoli della magia, tutto ciò che fa conoscere il futuro e dalle differenze delle loro predilezioni fa derivare quelle delle istituzioni e delle pratiche religiose. 

Fra i demoni più elevati, che sono liberi da vineoli cor- porei, si trovano quelli che sono testimoni e custodi della vita di ogni uomo, di cui conoscono non soltanto le azioni, ma anche i pensieri: dopo la morte, portano le anime davanti al tribunale che le deve giudicare e con la loro testimonianza ne determinano le sentenze. 

Le anime umane in un certo senso sono chiamate de- moni anche quando sono ineluse nel corpo, in un altro uando ne sono uscite (i Lemwures). 

Meno importante è lo studio dell’etica, del libro II del De Platone, di cui basta ricordare alcuni concetti. 

Ufficio della filosofia morale è insegnare come si possa giungere alla vita beata, cioè al sommo bene (le espressioni sono prese non a Platone, ma alle filosofie ellenistiche). I primi e più elevati beni esistono per sè, mentre gli altri sono tali grazie al sapere di chi ne usa. 

I beni primi sono Dio e quella intelligenza che Platone chiàma vods, di cui però Apuleio nulla dice in seguito ; inoltre, quelli che ne derivano, cioè le virtù dell’anima : la prudenza, la giustizia, la pudicizia (che qui è sosti- tuita alla temperanza), il coraggio. Mentre questi beni sono divini, sono umani quelli che riguardano le comodità del corpo e quelli che si chiamano esterni. I secondi sono beni per i sapienti che usano misura e ragione, mali invece per gli stolti e per coloro che ne ignorano l’uso. A ciò segue l’esame (piuttosto sconnesso) delle virtù e dei vizi che si può omettere, per ricordare che, secondo Apuleio, fine della sapienza è far sì che chi la possiede segua e imiti Dio ; ma per far ciò deve unire l’azione alla conoscenza teoretica, perchè la somma Divinità non si limita a considerare la totalità delle cose, ma anche regge queste con la sua provvidenza. 

Trascorsa piamente la vita, l’anima del sapiente risiederà con i beati e si unirà ai cori degli Dei, dei semidei. Lo studio della morale individuale è seguito da quello della politica, in cui Apuleio segue da vicino la Repubblica e le Leggi di Platone. Anche rispetto alla suprema finalità della vita si incontra la divergenza tra la specnlazione filosofica e l’intuizione religiosa dei culti dei mi- steri che si è già osservata sopra. Infatti, mentre nel De Platone... la felicità dovrebbe consistere nel pos- sesso del sommo bene, cioè nella conoscenza di Dio e nella imitazione della sua opera (per quanto è difficile che ciò possa ammettersi quando si ritiene che soltanto in rari istanti può lampeggiare alla mente la visione della più alta Divinità), le cose appaiono completamente diverse nelle Metamorfosi. Qui Iside, che è chiamata la santa e perpetua salvatrice del genere umano, che con- cede un dolce affetto di madre alle sventure dei miseri (e che perciò ocenpandosi delle cose umane, dovrebbe essere soltanto un demone, non una Divinità, anzi quella in cui tutte tendono a risolversi) non soltanto offre a Lucio un porto di riposo al sicuro dai colpi della fortuna, ma fa sì che egli, nel rito iniziatorio, oltrepassato il limite di Proserpina, attraversi le sfere di tutti gli elementi e veda da vicino gli Dei inferi e superi. 

Così egli, superata la morte, nato a nuova vita, diventa l’immagine vivente della divinità solare Osiride. Siccome si dice che a Iside prestano culto i superi, è difficile ammettere che debba condurre verso la Divinità suprema e ineffabile alla quale le Metamorfosi non accennano affatto. Per complicare le cose, la storia di Amore e Psiche inclusa nel romanzo quasi certamente raffigura le sorti dell'anima che dopo prove dolorose riesce, col favore divino, a conseguire l'immortalità beata: ora, non soltanto vi è incerto il significato di Eros, ma anche vi si attribuisce la salvazione della sua amante all'aiuto di Giove. 

In complesso, le preoccupazioni religiose rimangono sempre predominanti in Apuleio, ma per la loro natura svariata ed eterogenea, non riescono ad organizzarsi in modo coerente, anzi, si ha l'impressione che l'accento posi piuttosto sulle credenze dei culti dei misteri che sulle speculazioni filosofico- teologiche. Spetterà al Neo-Platonismo compiere ciò .che nei suoi predecessori è soltanto abbozzato. 

NIGRINO

Filosofo platonico, che Luciano dice di aver visitato a Roma nel dialogo omonimo che gli inviò con una dedica. 

Le affermazioni che gli attribuisce non includono nulla che porti l'impronta di una scuola determinata, ma ciò può dipendere dalla natura dell’argomento trattato, le lodi di Atene, messa in contrasto con Roma, che permetteva di condannare la ricerca delle ricchezze e del lusso, ma poco si prestava alla determinazione di una posizione filosofica piuttosto che di un’altra. 

SEVERO

Al Platonismo Medio appartenne anche Severo, vissuto probabilmente verso la metà del II secolo d. C.: sulla sua vita mancano notizie. Di lui Proclo ricorda un commento al Timeo, ed Eusebio riproduce un lungo frammento Sull’anima, che però poteva far parte sia di quell’opera che di un trattato particolare. Da studi psicologici provengono anche le notizie che di lui ci dà lo Stobeo. 

Le informazioni che si hanno sulla sua filo- sofia, se non permettono di ricostruirla in modo orga- nico, mostrano che aveva carattere eclettico perchè in- cludeva, con le platoniche, teorie stoiche, peripatetiche e neo-pitagoriche ; ma le seconde imprimevano a quel pensiero una tendenza monistica contrastante col dua- lismo di Platone. Infatti, conformandosi alla teoria stoica delle categorie, Severo considerava come genere sommo, posto sopra l’essere e il divenire, il +{ (qualche cosa), inteso come cò mèv (il tutto). 

Si collega all’iniziativa di Posidonio, seguita poi da continuatori sempre più numerosi, lo sforzo di porre fra opposti, termini intermedi. 

Così, interpretando la teoria platonica del Timeo sulla composizione dell'Anima Cosmica, Severo concepiva questa come una realtà geometrica costituita dal punto indivisibile e dalla estensione divisibile. In tal modo tra la realtà indivisibile'e sempre identica (l'ideale) e quella divisibile che diviene nei corpi (o sensibile) di cui parla il Timeo erano interposte due realtà matematiche, l'una indivisibile, l’altra divisibile. 

Questo matematismo ha fatto pensare a influssi neo- pitagorici, ma potrebbe derivare dall'ultima filosofia di Platone. 

La stessa tendenza a cercare intermediari si manifesta nella critica rivolta alla distinzione fatta da Platone di due parti dell'anima, l’una impassibile e l’altra no (veramente egli distingueva la parte razionale e immortale da quella irrazionale e mortale); secondo in tal modo essa anima non sarebbe imperitura, perchè i due elementi opposti si dividerebbero se un terzo non li congiungesse. 

Ritenendo quella teoria un adattamento alla mentalità comune, sostituì (come prima di lui aveva fatto Posidonio) la dottrina platonica delle parti dell'anima con quella aristotelica delle facoltà o potenze di essa. 

Come fondamento di tutte le funzioni conoscitive pose il logos. Sulla questione se Platone avesse ammesso o no la perennità del mondo, che era stata risolta in modi opposti, Severo presentò la tesi che esso in senso proprio non ha avuto origine, ma che quello attuale è stato generato : così riprendeva la teoria di un mondo perenne ‘in sè, che però si forma e si di- strugge periodicamente. In complesso, si nota in Se- vero un antecedente significativo del Neo-Platonismo. 

LUCIO 

Sembra che appartenesse al Platonismo Medio un Lucio, di cui si sa soltanto che compose un’ampia eri- tica delle categorie aristoteliche

NICOSTRATO

Seguita da Nicostrato (suo contemporaneo, a quanto sembra, fiorito e. 160- 170 d. C.): dall'opera del secondo ha tratto numerosi | frammenti Simplicio. 

Si ritiene che lo seritto di Nicostrato, e quindi di Lucio, rappresentasse la corrente ortodossa del Platonismo : la critica più importante ri- volta ad Aristotele era che la sua teoria unitaria delle categorie non rispettava il contrasto della sfera intelli- gibile e di quella sensibile. 

Le critiche di Nicostrato e. quindi anche di Lucio, occuparono un posto centrale nelle discussioni sulla dottrina aristotelica delle cate- gorie che si svolsero entro il Neo-Platonismo. di Di Censorino, Alessandro d’Afrodisia ricorda e di. seute una teoria dei colori. 

Non si può dire a quale scuola appartenessero Giulio Grecino, dell’ordine senatorio, padre di Agricola, chiamato da Seneca vir egregius, e Marciano, che Marc'Aurelio Antonino ricorda fra i suoi maestri. 

Giulio Grecino e mandato a morte da Caligola, al quale, a quanto narra Tacito, era venuto in odio perchè emergeva per eloquenza e sapienza (filosofia).

Scrive un’opera di viticultura che servì di fonte a Celso. 

GELLIO

Contiene notizie che riguardano la storia della filosofia l’opera di AULO GELLIO, nato a Roma, che ebbe da prima per maestri principali Frontone e Favorino e anche più in Atene il platonico Calvisio Tauro. Conobbe il cinico Peregrino Proteo ed Erode Attico. Ritornato a Roma ebbe l'uffi- cio di giudice nei judicia privati: poi seguì liberamente le sue tendenze letterarie. 

Gellio cerca di raccogliere le cose più importanti e più interessanti che aveva letto e mentre soggiornava nell’ Attica incominciò ad attuare il suo progetto nell’opera intitolata Noctes Atticae in 20 libri, che, ad eccezione dell'VIII e di varie lacune, ci sono giunti. 

È una miscellanea che parla di ogni sorta di argomenti e discute questioni di tutti i generi, inclusa la filosofia. 

Aulo Gellio si occupa della vita degli scrittori, cita passi di opere, spesso perdute, tratta di questioni di imitazione, di autenticità, di critica del testo.

Piuttosto che presentare le questioni in modo sistematico, si compiace di farle trattare da persone che conversano o diseutono. 

CENSORINO

Un Censorino grammatico, autore di un libro "De accentibus" di cui rimangono due frammenti, compose lo scritto De die natali, di svariato contenuto, che include un elenco delle opinioni dei filosofi greci sulla generazione umana e su argomenti affini derivato da Varrone. 

CORNELIO LABEONE

CORNELIO LABEONE, piuttosto che la filosofia, coltivò gli studi teologici e le antichità religiose, che cerca di far rivivere le antiche credenze del paganesimo interpre- tandole allegoricamente. 

È incerta la sua cronologia, ma siccome sembra che Arnobio, pure non nominandolo, polemizzi contro di lui e lo consideri come un autore ancora attuale, lo si può collocare nel III secolo. 

Sa-rebbe stato un contemporaneo di Plotino, ma (sebbene annoverasse Platone tra i semidei) non vi è ragione di considerarlo un neo-platonico, come è avvenuto, perchè in ciò che altri autori hanno conservato dei suoi scritti non si incontrano le teorie caratteristiche di quella scuola. 

Scrive certamente due opere, De oraculo Apollinis Qlarii, De dis animalibus. 

Sono incerte altre tre : De dis penatibus, Fasti, Disciplina etrusca. Probabilmente il De oraculo esponeva un sistema teologico in cui si affermava la tendenza a identificare diverse grandi divinità e a interpretarle in senso fisico, come realtà naturali fondamentali (sole, luna, terra). 

Sotto queste divinità maggiori (di selecti) pare stessero esseri divini inferiori (numina), suddivisi in buoni e malvagi, in un grado più basso di essi stavano i semidei e gli eroi. Fra questi e gli uomini si trovano i demoni, pure distinti in buoni e cattivi. 

Questa distinzione si trova già in Senocrate, sicchè non vi è ragione di considerarla neo-pla- tonica. Più verosimile è che la teoria di esseri divini buoni e malvagi riveli in Labeone influssi etruschi. 

Nel De dis animalibus faceva provenire certe figure divine (come i Penati, i Lari) dalle anime umane; forse le collegava ai demoni. 

Gli seritti di C. Labeone sono importanti soprattutto perchè fondati sullo studio ampio e profondo delle opinioni di autori più antichi, come Gaio Varrone e Nigidio Figulo, di cui hanno trasmesso la conoscenza agli scrittori cristiani, 

AMMONIO SACCA

Il Neo-Platonismo, verso il quale confluivano le magggiori correnti filosofiche e religiose dei primi secoli dell'era cristiana, iniziato in Alessandria da Ammonio Sacca, venne fondato come sistema dal suo discepolo Plotino (n. a Licopoli in Egitto), che già quarantenne si recò a Roma, ove per ventisei anni insegnò con molto successo e poi, gravemente ammalato, si trasferì nella Campania, ove chiuse la vita. 

Questo indirizzo, che per secoli costituì la filosofia del paganesimo declinante, assunse aspetti diversi nelle scuole che si costituirono in vari centriz Porfirio di Tiro, il maggiore degli scolari di Plotino, vissuto lungamente in Roma e in Sicilia, fu maestro di Giamblico, fondatore della scuola siriaca essenzialmente teosofica e teurgica, alla quale si collegò strettamente quella di Pergamo, cui appartennero Giuliano l’ Apostata e Sallustio. 

Giamblico, sotto diversi rispetti, fu seguito anche dalla scuola di Atene, che però diede maggior posto alla speculazione metafisica e commentò intensa- mente le opere platoniche e soprattutto aristoteliche. 

PROCLO

Questa scuola, che ha il maggior rappresentante in Proclo, venne chiusa al tempo di Damascio e Simplicio da Giustiniano che vieta che in Atene si insegne filosofia. 

Collegata con quella di Atene era la scuola di Alessandria, che prediligeva l’esegesi platonica e aristotelica, ma coltivava, invece delle speculazioni metafisiche e del misticismo religioso, le ricerche matematiche e naturalistiche. 

Sotto questi rispetti le sì avvicinano i neo-platonici occidentali. 

Il Neo-Platonismo trovò i suoi seguaci più significativi e più numerosi.

ANTONINO

Scolaro di Ammonio Sacca, Antonino al pari del suo condiscepolo Longino, sostenne contro Plotino che le Idee esistono fuori dell’Intelletto (universale). 

AMELIO GENTILIANO

Amelio Gentiliano, nato in Etruria, e discepolo di Lisimaco (probabilmente lo stoico).

Ma in seguito si recò da Plotino, di cui seguì l’ine segnamento sino al 269, nel quale anno si trasferì in Apamea, ove dovette risiedere a lungo, perchè fu denominato Apameo. 

Con Porfirio, AMELIO GENTILIANO è l’unico discepolo di Plotino di cui risulti la produzione scientifica. 

Pubblica opere numerose e prolisse, scritte con esposizione ornata. 

Raccolse le lezioni di Plotino in 100 libri, lo difese dall'accusa di essere stato un plagiatore di Numenio (un neo-pitagorico) in un’opera dedicata a Porfirio sulle differenze tra l’uno e l’altro, e in due seritti ribattò le eritiche che questo aveva rivolto al maestro ; trattò del carattere della filo» sofia di esso in una lettera indirizzata a Longino. 

Inoltre compose un’opera in quaranta libri contro un oracolo attribuito da autori cristiani allo pseudo-Zostriano e diede forma scritta a quasi tutti gl’insegnamenti di Numenio che, inoltre, riassunse e imparò a memoria : si discute se abbia composto commenti al Timeo e alla Repubblica di Platone. 

In complesso, era uno serittore privo di originalità, che seguiva da vicino le orme di Plotino, ma non penetrava nel suo pensiero più profondo: e ne collegava gl’insesnamenti con la mistica numerica del Neo-Pitagorismo e con dottrine di Numenio. 

Da questo deve aver preso la partizione dell’Intelletto in tre Demiurghi.

Per contro, si opponeva alla distinzione fatta da Plotino fra le anime particolari e l’universale e considerava le prime come diversi modi di presentarsi della seconda. Anche nella sua mistica numerica e nelle accentuate tendenze superstiziose si allontanava assai da Plotino. 

Secondo Porfirio, ascoltarono questo molti senatori e fra essi si occuparono di filosofia principal- mente Marcello Oronzio, Sabinillo (console) e Rogaziano. 

Quest'ultimo, meritandosi i più vivi elogi del maestro, abbandonò l’ufficio di pretore, rinunciò ai suoi averi, mandò liberi i suoi schiavi e si recò ad abitare presso amici, digiunando un giorno su due. 

Particolare riverenza per Plotino, sebbene seguisse la carriera pubblica, provava Castricio Firmo, che si era affezionato a Porfirio come un fratello: questo gl’indirizzò il trattato Sull’astinenza quando, dopo la morte del maestro, Castricio abbandonò il regime vegetariano. 

Assai devote a Plotino e affezionate alla filosofia erano anche alcune donne, fra le quali Gemina nella cui casa abitava, e la figlia di lei che portava lo stesso nome. 

L'imperatore Gallieno onora assai il filosofo che, se non fosse intervenuta l’azione ostile di persone malevole della corte, avrebbe ottenuto che venisse restaurata una città distrutta della Campania che avrebbe ricevuto il nome di Platonopoli e sarebbe stata abitata da filosofi che avessero obbedito alle leggi di Platone. 

CRISAORIO

Fra i discepoli di Pltoni di Porfirio (che gli dedicò la Zntroduzione alle Categorie e altri scritti) è ricordato il romano Crisaorio, che secondo alcune testimonianze era senatore. 

IL PRINCIPE GIULIANO

La personalità più notevole dei neo-platonici romani è quella dell’imperatore Giuliano (Flavio Claudio), che però interessa la storia politica e della religione più di quella della filosofia. 

Nato a Costantinopoli da Giulio Costanzo, figlio di Costanzo Cloro, rimase pre- stissimo orfano della madre Basilissa, poi, nei massacri che, all’ascesa al trono dei figli di Costantino, spensero tutti i discendenti di Costanzo Cloro ad eccezione di lui e del fratello maggiore Gallo, perdette il padre e un fratellastro, Giuliano da prima fu inviato a Nicomedia, poi, col fratello Gallo, venne relegato per sei anni nella villa di Macellum, in Cappadocia. 

In questo tempo coltivò lo studio della letteratura classica e della religione. Co- stanzo II, che non aveva eredi ed era in contrasto col fratello Costante, nel 347 chiamò a Costantinopoli Gallo per prepararlo alla successione e dopo avergli af- fidato il governo dell’Oriente, nel 351, rimasto unico capo di tutto l'impero, gli conferì il titolo di Cesare e gli diede in moglie la sorella Costanza. Giuliano proseguì i suoi studi a Costantinopoli e a Nicomedia e, ottenuto il permesso di viaggiare, potè conoscere i maggiori di- scepoli di Giamblico, subendo soprattutto l’influsso di Massimo di Efeso, che era essenzialmente un teurgo. 

Così, a vent’anni, Giuliano, educato nel Cristianesimo, se ne allontanò per abbracciare una dottrina filosofica religiosa che fondava e giustificava il politeismo pagano. Nel 354, Costanzo II fece uecidere Gallo, che aveva eccitato sempre più i suoi sospetti e fece trattenere a Milano Giuliano, che, grazie alla protezione del. l'imperatrice Eusebia, ebbe il permesso di recarsi a Costantinopoli, ove però era sospettato dal sovrano e insidiato da cortigiani ostili. 

Per un nuovo intervento di Eusebia gli giunse l'ordine di dimorare in Atene (354), ove si immerse negli studi filosofici. Alla fine del 356, l’imperatore, che non aveva eredi, lo richiamò a eorte, lo nominò Cesare, lo sposò alla sorella Elena e gli affidò l’incarico di ristabilire l'ordine nelle Gallie, minacciate dai Germani e presidiate da truppe infide. Giuliano (che aveva ricevuto le insegne consolari il 19 gennaio 356) riuscì ad assicurarsi l'affetto dei soldati e a riportare importanti successi sui Franchi e gli Ale- manni (356-358). Costanzo II, che lo temeva, gli ordinò di inviare in Oriente, contro la Persia, le migliori le- gioni galliche, ma queste si ribellarono e proclamarono imperatore Giuliano, che finì per accettare la nomina (359). 

Dopo inutili trattative, si difese dalle accuse ri- voltegli dall'imperatore con lettere indirizzate al Se- nato di Roma, agli Ateniesi, agli Spartani e ai Corinzi e mosse contro il cugino, che, mentre cercava di chin- dergli la strada dell'Oriente, morì improvvisamente de- signandolo suo suecessore. Giuliano, entrato trionfal- mente a Costantinopoli alla fine del 361, gli rese solenni ‘ onori e l’apoteosi; ma se ne rispettò la memoria, cercò di colpire i suoi cortigiani e consiglieri. 

Nello stesso tempo (mentre sul modello di Marco Aurelio, conduceva vita severa e rigida e lavorava in modo assiduo per lo stato e per gli studi) riduceva il numero dei funzionari della corte, la liberava dal lusso e dalle mollezze che vi dominavano, affidava gli uffici a uomini insigni per valore intellettuale e morale, intraprendeva riforme am- ministrative, giudiziarie e finanziarie. Appena salito al trono stabilì la restaurazione della religione e del culto del paganesimo al quale in segreto era stato devoto da molti anni, sperando così di far risorgere la grandezza dell'antichità greca e romana. Quando ancora sì trovava in Gallia, aveva proclamato la tolleranza verso i cristia- ni, ma la lotta in difesa del paganesimo mise capo alla persecuzione. 

Se alcuni incidenti di violenza pagana, che l’imperatore non seppe reprimere, mon corrispon- devano alle sue volontà, la posizione privilegiata che egli riservava alla religione pagana (nei suoi miti ve- deva verità rivelate dagli Dei), la riorganizzazione del suo culto, sul modello cristiano, implicavano la sua vit- toria sul Cristianesimo, che Giuliano si sforzò di indebo- lire, escludendo i suoi seguaci dai pubblici uffici e, s0- prattutto, dall’insegnamento. 

Se così suscitò l’opposizione dei cristiani, non riuscì a infondere nuova vita al pagane- simo, i cui fautori diedero prova di fiacchezza e di man- canza di entusiasmo. Mentre svolgeva la sua lotta antieri- stiana, Giuliano preparava, prima a Costantinopoli, poi ad Antiochia la campagna (362-363) contro il re di Persia Sapore II. 

Ottenne alcuni successi, ma per le difficoltà del terreno fu costretto a ritirarsi e in uno scontro vit- torioso col nemico venne mortalmente colpito con una freccia. 

Impassibile davanti alla morte, spirò poco dopo, a trentadue anni (26 giugno 363). Soltanto in uno serit- tore cristiano del V secolo, Teodoreto, appare ‘per la prima volta la leggenda che spirando esclamasse : « Hai vinto, o Galileo!». Il suo cadavere fu riportato a Tarso. Giuliano serisse in greco opere in gran parte conser- vate. Ci restano Orazioni (I-VIII), la Lettera agli Ate- niesi, la Lettera al filosofo Temistio, I Cesari o La festa dei Saturnali o il Banchetto, il Misopogon, numerose lettere e aleune leggi : inoltre, numerosi frammenti, tra i quali sono particolarmente importanti quelli di una opera "Contro i Cristiani" (conservati nella confutazione fattane da $. Cirillo d’Alessadria) e un frammento di un’epistola a un sacerdote, Si sono perduti un libro Sulla battaglia di Strasburgo e le Lettere ai Corinti, ai Lacedemoni e al Senato di Roma. 

Sono infondate le sup- posizioni rispetto ad altri scritti perduti. L'ordinamento eronologico che appare preferibile, in complesso, è (un po modificato) quello del Bidez. Orazioni I, III, Ik; Libro sulla battaglia di Strasburgo ; Or. VIII (seritti nelle Gallie) ; Lettere agli Ateniesi, ai Corinti, ai Lace- demoni, al Senato di Roma, al filosofo Temistio (seritte prima dell'entrata a Costantinopoli); Or. VII, V, VI (o VII, VI, V, scritte a Costantinopoli) ; Or. IV; I Cesari, Misopogon; Frammenti da un’epistola ; Contro î Cristiani (scritti in Antiochia). Secondo alcuni, I Ce- sari furono composti a Costantinopoli. Le Or. I e III (Panegirici di Costanzo II e di Eusebia) debbono essere State composte nelle Gallie (dicembre 355-giugno 356). L’Or. II (sulle imprese di Costanzo o sulla monarchia, scritta per dissipare presumibili sospetti di questo, nel. l'inverno 358-359) ha per vero oggetto la rappresenta zione e l’esaltazione del sovrano ideale; vi appaiono già alcuni pensieri centrali della dottrina di Giuliano. 

Il libro Sulla battaglia di Strasburgo narrava anche gli antecedenti di essa. L’Or. VIII, seritta da Giuliano per consolarsi della partenza del suo questore e amico Sallustio (Saturnino Secondo Saluzio 0 Salustio) è anche un protrettico al partente, che egli poi nominò prae- fectus praetorio Orientis, alla fine del 361. Giuliano lo dice greco. È stato identificato con l’autore dello scritto Sugli Dei e sul mondo (forse l'estratto di un’opera più ampia), che è stato chiamato un catechismo della reli- gione pagana nell’interpretazione del Neo-Platonismo ; probabilmente mirava a favorire e a diffondere l’azione religiosa di Giuliano. Nell’Or. VIII si è rilevato l’in- flusso di Dione Crisostomo. Le quattro Lettere agli Ate- niesi ecc. appartengono all'autunno 361. 

La Lettera al filosofo Temistio presenta di nuovo le teorie politiche di Giuliano che ora, imperatore, cercò di attuare. 

Le Or. VII e VI (Al cinico Eraclio [dicembre 361-giugno 362] e Contro i Cinici ignoranti) (maggio-giugno 362) sono una polemica contro i neo-cinici, affini ai cristiani, ai quali vengono contrapposti gli antichi rappresentanti del cinismo autentico. L’Or. VII è rivolta contro Era- clio che in una pubblica lettera aveva satireggiato Giu- liano (almeno così egli riteneva) e in un mito aveva parlato irriverentemente degli Dei; vi si tratta pure del modo in cui i miti debbono essere presentati. Anche in questo scritto si è riconosciuto l’intlusso di Dione Crisostomo. La polemica contro i nuovi cinici è prose- guita nell’Or. VI, in cui è difeso Diogene contro uno di loro che lo aveva diffamato. L’Or. V (AWla Dea Madre), che si collega strettamente alla IV (al Re Elios), in quanto insieme includono il nueleo della teologia di Giuliano, fu scritta nel 362 (principio del giugno) e contiene prin- cipalmente l’interpretazione, piuttosto confusa e oscura, del mito di Cibele e di Attis. La IV, scritta per il natale del Dio (25 dicembre, verso la fine del 362) che è l’opera filosoficamente più importante di Giuliano, è però as- sai oscura e difficile. 7 Cesari (scritti alla fine di dicem- bre 362, tra le due Or. precedenti) trattano di un ban- chetto che Romolo Quirino offre agli Dei e agli impera- tori divinizzati'; ma prima sono sottoposti a un giudizio. 

Il primo posto spetta a Marc'Aurelio Antonino.

Dopo di lui vengono Alessandro e Traiano. 

In complesso, l’autore giudica poco favorevolmente i suoi predecessori. 

Il Misopogon, che riprende certi motivi tradizionali, è in apparenza un’autosatira di Giuliano, ma nel fatto è rivolta contro la popolazione di Antiochia (da tempo famosa per la sua frivolezza) che lo aveva schernito per i suoi costumi austeri ed aveva accolto freddamente la sua restaurazione religiosa. Allo stesso periodo appartiene il Frammento di un’epistola, rivolto a un sacerdote, in cui è esposto il programma della con- dotta del clero pagano, secondo criteri derivati dal Cristianesimo. L’ultima opera di Giuliano (giugno 362- marzo 363) è lo scritto Contro è Cristiani. ID 1. I trattava dell'origine dell'idea di Dio, delle concezioni della Di- vinità dei greci, degli Ebrei e dei Cristiani ; il II con- teneva una critica dei Vangeli: del III quasi nulla è rimasto. Pure valendosi della polemica antieristiana dei ‘al Milite F, «è rosati Pr Tn been Len (SR e ili atte predecessori (Celso, Porfirio), Giuliano, per l’avversione che provava per il Cristianesimo, impresse carattere per- sonale allo seritto, in cui organizzò sinteticamente i motivi che lo allontanavano da esso: sono notevoli la conoscenza della Bibbia e delle discussioni teologiche contemporanee e l'abilità della critica. Egli da una parte insiste sul concetto che nella Bibbia manca ogni nesso con l’insegnamento cristiano, dall'altra sulla tesi che i cristiani, che riconoscono e adorano la Divinità parti- colaristica di un piccolo popolo, non possono pretendere di fondare una religione universale. Gli scritti filosofi- camente più importanti sono le Orazioni IV e V e poi quelle VI e VII; le teorie politiche di Giuliano sono esposte nell’Or. II e nella Lettera a T'emistio. 

Ma in com- plesso il suo pensiero ha carattere ben più teologico che filosofico ; in ciò egli segue e accentua l’indirizzo di Giamblico. 

Egli espone i dogmi di una religione che gli Dei, o i demoni, o spiriti superiori ispirati da loro (i maggiori poeti e filosofi) hanno insegnato agli uomini nella forma del mito, che include verità supreme che debbono essere spogliate dal loro involuero figurativo per mezzo di un’interpretazione allegorica, di cui egli dà un esempio particolare nel Discorso alla Dea: Madre.‘ Gli aspetti irrazionali o immorali dei miti servono a ecci- tare l’intelligenza a non fermarsi, ma a ricercare il loro . significato segreto, mentre gli uomini comuni traggono sufficiente vantaggio dai loro simboli. 

Il primo principio è chiamato da Giuliano l’Uno, il Sovraintelligibile, l’Idea degli esseri, il Bene. Seguendo Giamblico, che nell’Intelletto di Plotino aveva distinto il mondo intelligibile da quello intellettuale (cioè le Idee dalle attività pensanti), Giuliano fa provenire dall’Uno gli Dei intelligibili (e da prima Elios), che stanno al disopra di quelli intellettuali ; sotto a questi è il mondo sensibile che include le Divinità visibili, gli astri. In tutte e tre queste sfere il posto centrale è assegnato a Elios, che compie l'ufficio di mediatore, ossia è prin- cipio di unità, di ordine e di armonia, poichè collega il mondo intelligibile col sensibile, nel quale è principio di generazione e di vita, come è fonte di ogni per- fezione in quello intellettuale. È così sviluppato un tema posidoniano, che era stato ripreso dal pensiero poste- riore, specialmente dal Platonismo Medio e dal Neo- Platonismo. Giuliano collega poi questo col culto so- lare e specialmente con la religione di Mitra, allora dif- fusissima, ai cui misteri era stato iniziato, in quanto presenta Elios soprattutto sotto l’aspetto del Dio per- siano. 

Egli cerca di conciliare il monoteismo del culto solare col politeismo pagano valendosi del sineretismo caro ai suoi contemporanei ; in quanto pensa le Divi- nità di questo come forze o manifestazioni di Elios- Mitra, che si rivela anche in esseri posti sotto di esse, gli angeli del sole, i demoni e gli eroi. Come in Posidonio e nelle dottrine religiose e filosofiche posteriori, nel- l’uomo l’anima divina e immortale, che proviene dal cielo, è legata al corpo perituro e oscuro, col quale è continuamente in lotta. Essa deve prepararsi con la continua purificazione a liberarsi dai vincoli del senso per risalire alla sua antica sede, senza essere costretta a subire nuove incarnazioni. 

Ad aspirazioni ideali elevate si mescola, come nel Neo-Platonismo, anzi nelle opi- nioni filosofiche e religiose di quell’età in generale, la tendenza verso la magia e le scienze occulte, che fa ac- cogliere senza esitazione la credenza nei più strani pro- digi e in tutti i miracoli possibili. Per ciò che riguarda la condotta nella vita comune è notevole la simpatia per il Cinismo antico e autentico, che, se purificato dai suoi caratteri irreligiosi, può, secondo Giuliano, essere accettato da tutti gl’indirizzi filosofici degni di questo nome ; per lui la filosofia è essenzialmente una, e le dottrine delle diverse scuole, se rettamente intese, coincidono nei loro concetti centrali e nei loro scopi. 

Ma in Giuliano non appare più lo sforzo della contemplazione. profonda che culmina nell’unione estatica col primo principio (che era il vero fine della filosofia di Plotino).

In Giuliano predomina l’aspirazione al ritorno del. l’anima al cielo e al mondo intelligibile, che ha per condizione la conoscenza di verità divinamente rivelate. 

Si denominano neo-platonici dell'Occidente romano, pur riconoscendo che almeno alcuni di essi sono piut- tosto platonici che altro, diversi scrittori degli ultimi secoli dell'Impero e dell'inizio del Medio Evo, che effet- tivamente hanno in comune soltanto il carattere eru- dito delle loro ricerche e che, ad eccezione di Boezio, sono ben più traduttori e compilatori che filosofi. È certo però che in quel gruppo si trovano anche alcuni _neo-pitagorici; perciò occorre considerarli separata- "mente menzionando in seguito sia i rappresentanti di scuole diverse dalle ricordate, sia uomini di cui si ignora l'indirizzo seguito. Quanto a Boezio, occupa un posto & sè. 

GAIO MARIO VITTORINO 

GAIO MARIO VITTORINO adere al Neo-Platonismo. Di origine africana, al tempo di Costanzo, quando nell’ Urbe, come attesta Sant’ Agostino, la scuola di Plotino fioriva e contava numerosi e valenti discepoli, insegna retorica a Roma con grande suc- cesso : infatti trovò molti discepoli nelle classi su- periori della cittadinanza e fu onorato con l'erezione di una statua nel Foro Traiano. 

Compose seritti retorici, grammaticali, metrici (l'Ars grammatica, salvo pochi preliminari grammaticali) e un trattato di metrica.

Non sono suoi due brevi scritti scolastici, "De ratione metrorum," "De finalibus metrorum," commenta il "De inventione" di Cicerone, diffondendosi in digressioni di carattere filosofico, i Topica e gli scritti filosofici dello stesso autore. 

Di Aristotele traduce e commentò le "Categorie", e traduce il II. #punvelac; scrisse anche una versione dell’Isagoge di Porfirio e di altre opere neo-platoniche. 

Inoltre compose due seritti logici (De definitionibus, De syllogismis hypotheticis). 

Ci restano soltanto l'"Ars grammatica", il commento al De inventione e il De definitionibus.

La traduzione dell’Isagoge può ricostruirsi in larga misura per mezzo del commento che Boezio scrive a quell’epoca, seguendo la versione di Vittorino. 

Per motivi piuttosto intellettuali  egli (in cui le preoccupazioni filosofiche, che appaiono anche nel commento al De ‘inventione, furono sempre il motivo direttore del pensiero) e obbligato dalla legge di Giuliano a chiudere la sua scuola.

Allora approfondì i suoi studi  e compose numerose opere teologiche, riguardanti principalmente la que- stione della Trinità divina, e commenti alle lettere di S. Paolo ; ma in questi seritti, di cui è criticata l'oscurità, è difficile scorgere un pensiero unitario e organico. 

Sebbene includano dottrine neo-platoniche, appartengono propriamente alla storia della filosofia cristiana. Mario Vittorino agì sul pensiero del suo discepolo Sant'Agostino facendogli conoscere le dottrine del Neo-Platonismo © con la versione dell'Isagoge di Porfirio fece sì che l’at- tenzione degli scolastici fosse attirata dal problema; degli universali. 

NETTIO AGORIO PRETESTATO

NETTIO AGORIO PRETESTATO adere al Neo-Platonismo. 

Copre diversi uffici importanti.

E senatore, questore, pretore, corrector (governatore) della Tuscia e dell'Umbria, consolare della Lusitania, pro- console dell’Acaia (sotto Giuliano), prefetto della capitale, due volte praefectus praetorio dell’Italia e dell’Illirico, designato console, però morì. 

Amico dell’oratore Simmaco ha cariche sacerdotali in numerosi culti.

Questo fatto e il favore di cui gode presso Giuliano, fanno pensare che gli appartenga la teologia monoteistica derivata da Giamblico che gli è attribuita da Macrobio nei Saturnalia, in cui tutte le Divinità sono intese come nomi dati alle diverse potenze e ai diversi effetti del sole, il quale è anche la forza che, dominando la materia dell'universo, forma tutti i corpi; è anche probabile che, come il suo imperatore, fondasse tale dottrina sui principi neo-platonici. 

Traduce in latino la parafrasi degli Analitici aristotelici composta da Temistio.

Redacta il saggio "De decem categoriis" che porta il nome di Agostino. 

Si occupa della correzione di filosofi e scrive discorsi.

Ma dell’opera sua restano soltanto frammenti, di cui, del resto, è dubbia l'appartenenza. 


MACROBIO 

AMBROSIO MACROBIO TEODOSIO adere al Platonismo. E praefectus praetorio Hispaniarum, proconsole d’Africa, praepositus sacri cubiculi, gran ciambellano. 

È ignota la patria di Macrobio. 

Certamente Macrobio dove essere legato da stretti rapporti alla famiglia dell’oratore Simmaco, a un figlio o nipote del quale dedica un saggio. 

Scrive un commento al Sogno di Scipione di CICERONE, che ci è giunto intero, e i Saturnalia, lacunosi. 

Dal saggio "De differentiis et societatibus graeci latinique verbi", Delle differenze e concordanze del verbo greco e del latino," restano soltanto estratti, nulla può risultare sull’argomento. 

Nel "Commento", dedicato al figlio Eustachio, cerca d’interpretare in senso platonico il saggio di Cicerone, accumula molta erudizione e perciò spesso si occupa di argomenti che poco hanno da fare col suo oggetto. 

I frequenti riferimenti al "Timeo" e le lodi del Platonismo -- Platone e Plotino sono chiamati, i principi della filosofia -- fa supporre che Macrobio si sia servito di un commento platonico a quel dialogo, probabilmente di quello di Porfirio, derivato in ultimo dal commento di Posidonio.

Si è anche pensato a una fonte latina intermedia e sulla questione sono state presentate svariate ipotesi.

In ogni caso, anche se non si giunge a considerare Macrobio come un semplice trascrittore di una o due opere altrui, che non mette nulla di suo, si può sospettare che non abbia letto i numerosi autori che cita, 

Posteriori al Commento sembrano i Saturnali in 7 libri, scritti prima della pubblicazione del commento virgiliano di Servio, pure dedicati al figlio Eustachio, al quale volle presentare i risultati dei suoi studi di autori di cui generalmente riprodusse le parole. 

Però cerca di organizzare tali temi fingendo di riprodurre le conversazioni che, durante banchetti fatti in occasione delle feste dei Saturnali, avevano tenuto persone insigni per cultura su argomenti svariatissimi. 

Quest'opera, che e espressione del genere letterario dei simposio o convito iniziato da Platone, contiene materiali molto diversi, sia per il significato delle questioni trattate, che per l’importanza delle notizie riferite. 

Macrobio cita numerose fonti, ma non è sicuro che le conosca direttamente tutte, tanto più che non nomina quelle di cui deve essersi servito più largamente, Plutarco ("Questioni conviviali") e Aulo Gellio. 

I libri più significativi sono quelli IV-VI, che riguardano VIRGILIO, di cui si esalta la universale e profonda sapienza su ogni argomento. 

Le dottrine filosofiche che Macrobio espone nel commento al Scipione di Cicerone si conformano al Platonismo di Plotino. 

Il divino o il buono, causa prima e origine di tutti gl'esseri, che trascende il pensiero e il linguaggio umano, e l’intelletto (nous o mens) che include in sè la idea o il modello originali della cosa.

L’intelletto è poi identificato alla monade o unità prima pensata col neo-Pitagorismo, non come numero, ma come la sorgente e l’origine dei numeri. 

L’intelletto, a sua volta, genera l’anima cosmica, identificata a GIOVE, che è principio di vita per tutte le cose corporee che essa forma imprimendo nella materia l’immagine dell'idea.

Così una sola luce divina illumina tutte le cose, connesse tra loro da vincoli reciproci e ininterrotti. 

Nei corpi del cielo e delle stelle il principio animatore è una pura attività razionale.

Nella filosofia psicologico, Macrobio dice che nell’uomo ad essa anima si uniscono l'anima sensitiva e l'anima vegetativa, che sole si trovano negl'esseri inferiori. 

Rispetto alla esistenza dell'anima, prima e dopo la sua unione col corpo, alla sua discesa dal cielo e alla ascesa ad esso, È pp alla reminiscenza, alla sorte che l’attende dopo la morte.

Macrobio si conforma alle dottrine che il Neo-Platonismo deriva dalla tradizione pitagorico-platonica e che appartenevano al patrimonio comune della coscienza dell’età sua. 

Anche per Macrobio il corpo è un sepolcro dell'anima (soma sema), sicchè la filosofia deve insegnare all'uomo a liberare l’una dai vincoli dell’altro.

Perciò, riprendendo la teoria plotiniana delle virtù, Macrobio pone su quelle politiche (dell’uomo nella vita sociale) la virtu purgativa, che lo purificano dal contagio del corpo, che sono proprie di chi vuole immergersi nella contemplazione filosofica, quelle di chi ha raggiunto tale scopo, liberandosi completamente dalle passioni e al di sopra di tutte, la virtù contemplativa dell’intelletto. 

Il commento ha così trasmesso al pensiero medioevale la conoscenza di numerose teorie platoniche e neo-platoniche, fra le quali ha particolare importanza l’identificazione dell'idea a un pensiero divino. 

EUTROPIO 

Neo-platonico e pure Eutropio, discendente dalla famiglia dei Sabini, che ha contato tra i suoi membri molti senatori, un gallo che ha l’ufficio di praefectus praetorio. 

TEODORO

Forse fu platonico Flavio Manlio Teodoro, nato da ignota famiglia ligure: Sant’ Agostino, che nel 386 gli de- dicò il De beata vita, dice che conosceva bene Platone, Dopo essere stato per qualche tempo avvocato, poi go- o vernatore in Africa e consolare della Macedonia e aver coperto vari uffici a corte, fu praefectus praetorio delle Gallie (382-383). 

Negli anni successivi si occupò dell’amministrazione dei propri beni e di studi filosofici e astronomici e scrive dialoghi su questi argomenti, Stilieone lo nominò praefectus praetorio per l’Italia, l’Illirico e l'Africa (397 sgg.); mentre conferiva questo ufficio ebbe il consolato (399) e in quell'occasione Claudiano gli dedicò un panegirico. Dal 13 settembre 408 al 15 gennaio 409 fu praefectus praetorio d’Italia. 

Di lui resta un breve scritto De metris, mentre si sono perduti altri lavori, tra i quali un De natura rerum.

CALCIDIO 

Calcidio (Calcidius o Chalcidius) commenta il "Timeo" di Platone. 

Per impulso di un OSIO al quale con una lettera CALCIDIO dedica l’opera sua, è un platonico con forti tendenze eclettiche o dilettanti.

Secondo la tradizione manoscritta, CALCIDIO si dove identificare il dedicatorio del lavoro a quell’Osius o Hosius di Cordova che prende parte ai concili di Nicea e di Sardica.

Nella stessa epoca e vissuto CALCIDIO, che viene detto diacono o arcidiacono della stessa diocesi. 

In ogni modo, nel Commento del Timeo, Calcidio mostra di conoscere bene il Testameno ebreo, che ritiene ispirata da Dio, cita Origene e accenna a credenze dei galilei.

Il Commento al Timeo di Calcidio deriva in ultimo da quello di Posidonio, mediato però da uno del liceale Adrasto d’Afrodisia per la parte matematica, astronomica e musicale e da uno di seguace del Platonismo dal quale sembra provenire anche lo pseudo-plutarcheo "De fato."

Non è escluso, anzi, che il secondo commento sia stato l’unica fonte di Calcidio.

Calcidio sopra tutti i filosofi ammira Platone, di cui cita passi di diversi dialoghi.

Inoltre, Calcidio menziona molti altri autori (stoici, neo-pitagorici, Filone d'Alessandria, Numenio), che probabilmente conosce soltanto indirettamente. 

Queste citazioni svariate sono l’espressione estrema del suo eclettismo o dilettantesimo a base platonica. 

Con Platone, Calcidio parla di tre principi delle cose, Dio, il modello (cioè la idea) e la materia.

In ciò si accorda con Albino, col quale riduce la idea a un pensiero divino.

Con lo Stoicismo, Calcidio identifica il divino al principio attivo, la materia al principio passivo. 

Però, mentre fa della materia un principio originario e sostiene che il mondo non è stato creato nel tempo, Calcidio si sforza di affermare che in questi argomenti l'origine di cui si parla non ha carattere cronologico, ma designa una dipendenza. 

Calcidio si esprime quindi in modo improprio quando ammette l'eternità dell’origine delle cose e della materia. 

Dalla materia, in cui Dio impone le immagini dell'idea, e provenuto il corpo. 

Mentre in questa parte, in complesso, predomina il pensiero di Platone, nello studio delle potenze divine si presentano dottrine del Platonismo, che preparano quelle neo-platoniche, ma in alcuni punti essenziali ne differiscono fortemente. 

Al vertice sta il divino supremo o il sommo bene, che, con Platone, è posto sopra ogni sostanza e dichiarato superiore all’intelletto e ineffabile. 

Al disotto di esso sta un secondo divino, la provvidenza, identificata al vobis, che è la volontà e insieme l'eterno atto della mente divina. 

Le cose divine intelligibili e quelle prossime ad esse, sottostanno soltanto alla provvidenza, le naturali e corporee sono soggette al fato, o serie delle cause, che deriva dalla prima ed è una legge divina promulgata per reggere ogni cosa. 

Di questa legge è custode un terzo divinito, l'anima cosmica, che Calcidio chiama la seconda mente o il secondo intelletto. 

Questa tri-partizione del divino riprende uno schema di Albino e si allontana dal neo-Platonismo perchè non denomina Uno il primo principio, gli attribuisce la volontà che Plotino gli nega e non parla della derivazione della materia nei termini caratteristici di quel sistema. 

La teoria della provvidenza e del fato (affine a quella dell’opera pseudo-plutarchea) sembra pure attinta a una fonte platonica. 

Le teorie sui demoni e sul destino delle anime dopo la morte concordano con quelle della scuola platonica e di Posidonio. 

In complesso Calcidio giustappone teorie svariate senza ri-organizzarle.

La filosofia di Calcidio, però, sebbene priva di ogni originalità, e l’unica via di accesso alla filosofia platonica di cui sino al secolo 12° potè disporre la civilizazione occidentale e costituì per esso una delle fonti maggiori della storia del pensiero romano antico.  

POLEMIO 

Polemio e un filosofo buon conoscitore delle scienze matematiche e astronomiche. 

Discendeva da famiglia insigne e contava fra gli antenati i Corneli e lo storico Tacito.

E praefectus praetorio delle Gallie. 


FAVONIO EULOGIO 

Faviano Eulogio si collega al neo-pitagorismo.

Cartaginese, ha come maestro di retorica Agostino, dal quale risulta che esercita quell’arte in Africa,

Dedicò la sua "Disputatio de sommio Scipionis" a Superio, consolare della provincia di Bizacena. 

Questa disputazione in ultimo deve derivare dal commento posidoniano al "Timeo," mediato da VARRONE, al quale si ritengono attinte le fonti citate.

La prima parte della disputazione presenta la teoria dei numeri, essenza delle cose e tratta del significato simbolico di essi, dall’1 al 9.

La seconda parte della disputazione si occupa dell’armonia delle sfere. 

Queste teorie sono pitagoriche in generale.

Ma il Neo-Pitagorismo appare in ciò che Favonio Eulogio dice della monade, in cui espone in modo poco chiaro una teoria monistica che deriva da essa ogni realtà. 

Il numero è eterno, intelligibile, incorruttibile, e include con la potenza tutto ciò che è.

Ma inteso in senso proprio è una pluralità unificata e divisibile e perciò comincia con la diade.

Invece la monade, l’unità assoluta e indivisibile e identica al divino, è il seme e l’inizio dei numeri. 

I numeri poi sì distinguono dalle cose corporee numerabili che sono accidenti e sostrati dei primi, che sono riducibili alla monade. 

Però le cose numerabili non sono altro che tale unità assoluta, che è prima, entro e dopo tutte le cose. 

Infatti, ogni quantità proviene dall’uno e in esso mette capo ed esso permane immutabile quando periscono le altre cose che possono accoglierlo in sè. 

CAPELLA

MARZIANO MINNEO FELICE CAPELLA si collega al neo-pitagorismo. 

Africano di Cartagine, scrive il "De nuptiis Philologiae et Mercurii" in nove libri. 

Il titolo dell’opera, che è una mescolanza di prosa e di versi e perciò è simile a una satira menippea, si applica propriamente ai due primi libri introduttivi, in cui si parla delle nozze del dio dell'attività intellettuale (Mercurio = Hermes) con la personificazione della erudizione enciclopedica. 

Principale fonte di questi libri si ritengono gli scritti teologici di VARRONE, mediati probabilmente da | CORNELIO LABEONE

Il contenuto vero dell’opera, che è un'enciclopedia, è costituito dai libri III-IX, in cui, sono trattate le sette arti liberali considerate dall'autore (grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica, astronomia e musica), presentate come donne che accompagnano la Filologia. 

CAPELA ricorda altre due discipline incluse da VARRONE nella sua enciclopedia -- medicina è architettura -- ma non vuole considerarle.

Può darsi non sia stato il primo a procedere così, ma è probabile che da Capela il Medio-Evo prende la distinzione delle arti del trivium e del quadrivium. 

Marziano deve avere preso a modello l'enciclopedia di VARRONE, che gli è anche servita sino a un certo punto come fonte.

Ma è probabile che ha attinto principalmente a lavori speciali più tardi. 

Sebbene sia una compilazione priva di valore intrinseco e piena di cose male intese e anche di contraddizioni, l’opera di Capela e studiata appassionatamente nel Medio-Evo che l’usò anche come testo scolastico e la commenta.

Per la storia della filosofia hanno importanza, più della trattazione della dialettica (1. IV), ciò che dice il libro VII (De arithmetica) sulla sacra monade, identificata a Giove e qualificata altrove pater ultra mundaniis. 

Essa è il padre di ogni essere, è il seme degli altri numeri e da essa sono.procreate tutte le altre cose. La monade è prima che siano le cose esistenti e permane quando esse si distruggono, perciò deve essere eterna. 

È così presentato un monismo che dalla forza causatrice di quella realtà ideale e intelligibile, fa provenire sia i puri numeri che gli esseri numerabili che si collegano a quelli. 

In tal modo dall’unità prima sono generate la diade, che è riferita alla materia procreante, e la triade che conviene alle forme ideali e all'anima (in quanto, secondo Platone, include tre parti).

Dalla diade provengono gli elementi che insieme costituiscono il mondo, che come tale ha per numero il cinque. 

Questa derivazione dall'unità è molto confusa, ma si collega evidentemente alle teorie del- Neo-Pitagorismo. 

Di altri filosofi si hanno, in generale, scarse notizie. 

SERENIANO

Cinico, riicordato da Giuliano come suo contemporaneo. 

EUSTAZIO

Eustazio e tra gli interlocutori dei Saturnali di Macrobio -- in cui parla delle conoscenze filosofiche di Virgilio. 

Secondo Macrobio univa in sè il sapere di Carneade (neo-accademico), di Diogene (stoico) e di Critolao (peripatetico) ; aveva conosciuto tutte le scuole, ma seguiva la più credibile : ciò fa pensare che aderisse al probabilismo di Carneade. 

Di altri filosofi si ignora la scuola. 

ALBINO

Un ALBINO, di cui Boezio menziona seritti di geometria e di dialettica, forse è identico a quel Ceionio Rufio Albino, console  e prefetto della capitale.

BARACO

Filosofo era Baraco (Barachus), che si reca da Roma nelle Gallie. 

FLAVIANO

Virio Nicomaco Flaviano, figlio di un canosino, e questore, pretore, venne accolto nel collegio dei pontefici e nominato consolare della Sicilia. 

Forse perchè pagano, soltanto FLAVIANO consegue il vicariato d'Africa. 

FLAVIANO cadde in disgrazia presso Graziano.

La sua ampia erudizione, pero, arrecò a Flaviano il favore di Teodosio, che dopo avergli concesso importanti uffici a corte, lo nomina praefectus praetorio dell’Italia, dell’Ilirico e dell’Africa, poi, dopo un periodo di eclissi, ha di nuovo quella prefettura.

Tale ufficio fu conferito a FLAVIANO per la terza volta d'Eugenio, che lo nomina console.

Flaviano spera di potere abbattere i galilei con la vittoria d'Eugenio.

Flaviano si uccise quando Eugenio e sconfitto da Teodosio che, in considerazione della sua fama letteraria, ne deplora la morte di Flaviano in Senato. 

Flaviano gode autorità soprattutto nella scienza augurale e nell'arte mantica in generale.

Macrobio nei "Saturnali" assegna a Flaviano l’ufficio di interprete della escatologia nell'Eneide di VIRGILIO. 

Studioso di filosofia e amico di Eustazio, FLAVIANO pubblica un saggio, "De dogmatibus philosophorum."

Flaviano scrive una vita di Apollonio di Tiana.

Flaviano compose uno scritto grammaticale, "De consensu nominum et verborum."

Flaviano ottenne fama soprattutto con una grande opera storica, gli "Annales", dedicata a Teodosio.

EUSEBIO

Eusebio, maestro di Sidonio Apollinare, che parla ai suoi scolari di Platone e di Aristotele, forse è identico a un Eusebio che vive nelle Gallie.

PROBO

Altro suo scolaro fu Probo, figlio di Magno (console), che secondo il suo condiscepolo Sidonio si occupa intensamente di filosofia e principalmente della logica aristotelica.

Anche in seguito continua a coltivare gli studi. 

TULLIO MARCELLO DI CARTAGINE

Tullio Marcello di Cartagine scrive sette libri sui sillogismi categorici e ipotetici.

FIRMICO

Alcuni scrittori che non si occuparono in modo particolare di filosofia, mostrarono di interessarsene.

Così fece GIULIO FIRMICO MATERNO, siciliano, senatore, vir consularis, che, stancatosi presto dell'avvocatura, si dedica agli studi. 

Per le insistenze di Lalliano Mavorzio, che lo accolta molto amichevolmente quando era governatore della Campania, pubblica, per mantenere la promessa che aveva fatto in quell'occasione, un’opera di astrologia, "Mathesis", in otto libri, dedicata al suo protettore, allora proconsole d’Africa.

E il più ampio trattato di quella materia che l’antichità abbia trasmesso. 

Il libro I è un’introduzione in cui l'astrologia è difesa dalle critiche degl'accademici e principalmente di Carneade. 

FIRMICO riconosce la difficoltà delle predizioni astrologiche, che spiega platonicamente con la debolezza della natura umana in cui lo spirito è legato al corpo terreno, ma se esso si libera dai vincoli di questo ed è consapevole della sua origine celeste, facilmente, con la divina ricerca della mente, consegue risultati difficili ed ardui. 

FIRMICO esalta la grandezza dello spirito, parla dell'affinità dello spirito con l’anima e l’intelletto delle stelle e accenna alla teoria della reminiscenza. 

Fonti di questa filosofia naturale si considerano Posidonio e CICERONE. 

Da POSIDONIO, e forse anche da Porfirio, può derivare altresì la discesa e l’ascesa dell'anima. 

Considerando i rapporti fra l’azione del cielo e la volontà dell'uomo, Firmico afferma che le stelle sono LA CAUSA delle passioni e dei impulsi malvagi dell'uomo.

Lo spirito dell'uomo, per la sua origine divina, può sottrarsi al potere delle stelle.

Anche queste tesi concordano, oltre che con il Platonismo, con lo Stoicismo posidoniano. 

I libri II-VIII trattano dell’astrologia propriamente detta. 

Firmico esige dai cultori dell'astrologia una condotta morale retta e pura e vieta loro di occuparsi di ciò che riguarda il principe, perchè, essendo divino, non è sottoposto alle stelle. 

In quest'opera, che offre una testimonianza importante del timore che nell’età dell’autore il potere dei cieli incute anche alle classi superiori, appaiono influssi stoici, in generale ma non sempre posidoniani, piuttosto che specificamente neo-platonici e se in certi punti l’intonazione religiosa e mistica concorda con lo spirito di questa scuola, si deve anche pensare al carattere generale della filosofia contemporanea. 

Nell'insieme, Firmico non può considerarsi il seguace di alcun indirizzo determinato. 

Scrive "il De errore profanarum religionum", che è una violenta polemica contro il paganesimo di cui chiede la distruzione dagli principi Costazio e Costante. 

SERVIO 

Servio nei "Saturnali" di Macrobio, rivolti alla glorificazione di VIRGILIO, appare uno degli interlocutori.

S'ignora la patria di Servio, ma è certo che la sua attività letteraria e didattica ha per sede Roma. 

Predilesse VIRGILIO, che esalta come il maestro di ogni sapere e che commentò in un’opera di cui rimangono due redazioni. 

La più breve sembra tramandare lo scritto autentico di SERVIO, mentre la più ampia ("Servius auctus o plenior o Scholia Danielis", dal Daniel, che la pubblica) pare derivata dalla prima e da una riduzione del commento di ELIO DONATO. 

Si discute se gli appartengano l’Expla- natio dell'Arte Grammaticale dello stesso Donato e tre scritti di metrica. 

SERVIO

Il Commento include non poche dottrine di carattere filosofico, che però provengono dalle fonti usate da Servio. 

Si è voluto fare di SERVIO un seguace del platonismo.

Ma, da una parte, non è lecito attribuirgli una teoria filosofica organica, e, dall’altra, le proposizioni che dovrebbero provenire da quella scuola non sono proprie di essa, perchè appartengono al Platonismo in generale, a Posidonio, o anche alle credenze mistico-religiose di quell’età: natura divina dell'anima, immortalità di essa quale principio di movimento, sue trasmigrazioni, suoi destini dopo la morte, teoria delle sfere. 

Quando, oltre alle tre parti dell'anima, l'anima vegetativa, l'anima sensitiva e l'anima razionale, ne ammette anche una quarta anima, l'anima vitale, principio di movimento, si allontana dalle teorie tradizionali inclusa la platonica. 

Quando SERVIO afferma che nulla esiste salvo I QUATTRO ELEMENTI (acqua, aria, fuoco, terra) e il divino, che è uno spirito (o una mente, o un'anima) il quale, infuso in essa, genera ogni cosa, sicchè uguale è la natura di tutte, accetta in complesso la cosmologia stoica esposta da VIRGILIO, che però cerca di liberare dal suo materialismo originario. 

Del resto, esplicitamente SERVIO loda gli stoici ("et nimiae virtutis sunt, et cultores deorum"), che contrappone agli epieurei che critica spesso. 

In SERVIO mancano un pensiero coerente e un indirizzo preciso, sebbene si affermino in lui le tendenze religiose e mistiche dell’età sua. 

TEODATO

Si può ricordare, infine, che si occupa di letteratura antica e di filosofi platonica Teodato, figlio della sorella di Teodorico, che fu re degli ostrogoti in Italia.

Così la filosofia, nella sua veste latina, entra da dominatore nella mente dei sovrani barbari. 

*ANICIO MANLIO SEVERINO BOEZIO *

Sebbene appartenga cronologicamente al Medio Evo, Anicio Manlio Severino Boezio si collega sotto importanti rispetti al pensiero antico, di cui appare l’ultimo rappresentante. 

Nacque dalla famiglia degli Anici, ricca e distinta. 

Perdette presto il padre, Flavio Anicio Manlio Boezio, ma nella sua prima età fu curato da uomini insigni, particolarmente da Q. Amelio Memmio Simmaco, suo cognato, discendente dall’oratore e console, prefetto di Roma, sotto Teodorico, re degli ostrogoti, princeps senatus), che lo fidanza alla figlia Rusticiana. 

Boezio si acquista fama col suo sapere che attirò su di lui l’attenzione di Teodorico, che gli conferì incarichi e uffici importanti.

E console senza collega.

I suoi figli ancora fanciulli conseguirono il consolato.

E magister officiorum.

Però, come in generale il senato romano al quale apparteneva, e i romani, e ostile al governo goto. 

Boezio, per mezzo di false testimonianze, e involto in un processo di alto tradimento contro il sovrano, per intese con l’imperatore d’Oriente e accusato anche di sacrilegio. 

Venne dapprima rinchiuso in agro Calventiano, vicino a Pavia, ove scrisse il "De consolatione philosophiae".

Poi, probabilmente, incarcerato nella torre del Battistero di Pavia. 

Condannato a morte senza essere stato ascoltato, e, secondo una tradizione, torturato e giustiziato nel suo carcere.

Secondo un’altra a Calvenzano. 

Il suo corpo, sepolto da prima nell'antica cattedrale pavese, venne poi trasportato in S. Pietro in Ciel d’oro ove ancora riposa. 

La leggenda popolare rappresenta a Boezio come un martire, vittima dell’arianesimo goto. 

Il non-paganesimo di Boezio si è dubitato lungamente, anche perchè si è messa in dubbio l'autenticità dei suoi scritti teologici.

Quanto ai contrasti che si sono voluti porre tra certe sue teorie filosofiche e il non-paganesimo non hanno il significato che è stato loro attribuito, ® in vari casi, si incontrano in altri serittori del periodo patristico. 

Boezio si assegnò il compito di far conoscere ai suoi connazionali le opere di Platone e di Aristotele, di cui vuole mostrare (al pari dei neo-platonici) l'accordo rispetto ai problemi filosofici fondamentali, ma riuscì a realizzare il suo progetto soltanto per l'organo aristotelico. 

Però si occupò anche di alcune opere di Cicerone e di Porfirio e di scienze matematiche, che considerava UN presupposto necessario della ricerca filosofica. 

Rimangono i due manuali, "De Institutione Arithmetica libri duo", elaborazione abbreviata di Nicomaco di Gerasa, e "De Institutione Musica libri quinque" (1acunoso), in cui Boezio si vale di fonti greche, soprattutto di Nicomaco, di Euclide e di Claudio Tolomeo. 

Restano frammenti della sua geometria (versione di Euclide).

Quella in due libri che porta il suo nome è apocrifa. 

Una antica testimonianza afferma che serisse di astronomia e di meccanica, ma queste opere si sono pertdute. 

Gli scritti, molto più numerosi, che riguardamo la logica si dividono in traduzioni, commenti e opere originali. 

Boezio traduce l'Isagoge (Introduzione) di Porfirio alle Categorie di Aristotele e diversi seritti logici di questo: le Categorie, il De interpretatione, i due Analitici, i Topici, probabilmente gl'Elenchi sofistici.

Boezio stesso ricorda le versioni dei Primi Analitici e dei Topici. 

Però studi recenti fanno ritenere che la versione delle "Categorie" che porta il suo nome appartenga a uno scolastico e che quella originaria si dove riconoscere in una anonima nei manoscritti. 

Certamente non gli appartengono le traduzioni dei due analita0, dei Topici e degli Elenchi sofistici che gli sono attribuite e che sono invece di JACOPO DA VENEZIA.

Si ricordano altre versioni boeziane di Aristotele -- del "De anima", della "Fisica", della "Metafisica" -- ma si ignora se fossero sue.

Boezio compose due commenti per l’Isagoge di Porfirio ; uno, in due libri, più elementare, serittoin forma dialogica è condotto sulla versione di Mario Vittorino.

L'altro, più approfondito in cinque libri, in forma sistematica, include la traduzione dell'autore. 

In questi due commenti Boezio si servì di quelli di autori neo-platonici. 

Il commento alle Categorie in quattro libri fu scritto nell’anno del consolato. 

Anche per il "De interpretatione" Boezio scrive due commenti.

Il primo, in due libri, è destinato ai principianti.

Il secondo in sei, è molto più esteso e costituisce l’opera logica più importante dell'autore, che si è servito principalmente di Siriano e di Porfirio. 

Boezio compose anche un commento ai "TOPICI" di CICERONE, che però manca dell’ultima parte. 

Scritti logici originali sono i seguenti: 

"Introductio ad categoricos syllogismos"

"De syllogismo categorico"

"De syllogismo hypothetico"

"De divisione"

"De differentiis topicis"

BOEZIO lavora di suo specialmente nel "De sillogismo hypothetico," in due libri, perchè le fonti precedenti gli davano ben poco aiuto. 

Il "De definitione" che gli è attribuito spetta al affricano MARIO VITTORINO. 

Il "De unitate," che pure portava il suo nome, è di DOMENICO GUNDISALVI.

Alcuni scritti che pare abbia composto si sono perduti ("Sulla fisica," "Categorica institutio," "De ordine peripateticae disciplinae," "Questioni sulle categorie," un compendio del "De interpretatione."

Oltre alle versioni perdute di seritti aristotelici già ricordate, sembra perduto anche un Commento agli analitici. 

Si è molto contestata l’autenticità di alcuni trattati teologici che portano il nome di Boezio -- "De sancta Trinitate", "De persona et duabus ‘naturis in Christo contra Eutychen et Nestorium, "Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur"; "Quomodo substantiae in se quod sint bonae sint, cum non sint substantialia bona [o Liber de Hebdomadibus], "De fide christiana").

Ma ormai per i primi quattro sono cessati i dubbi. 

Generalmente si ritiene apocrifo il "De fide catholica", che però trova difensori. 

Questi scritti si assegnano agli ultimi anni di Boezio e la loro autenticità è prova del suo eristianesimo. 

Mentre negli scritti ricordati è usato uno stile tecnico, carattere letterario ha quello dell’ultima opera boeziana, il De consolatione philosophiae, in cinque libri, composta da BOEZIO mentre era tenuto in custodia a Calvenzano. 

In questo scritto, misto di prosa e di versi sul genere delle Menippee, la filosofia appare a Boezio e, «dopo averlo indotto a narrare la storia delle sue sventure, cerca di confortarlo coi luoghi comuni dei protrettici ; poi gli mostra che ogni cosa è governata dalla Provvidenza a fini buoni, sicchè l’uomo deve sperare in Dio e rivolgergli preghiere, perchè conduce tutta la sua vita sotto i suoi occhi. 

Sebbene il De consolatione non contenga teorie effettivamente inconciliabili con la fede cristiana, anzi si possa accordare completamente con essa, non accenna all'insegnamento del Vangelo dei galileo.

Ma ciò non prova che Boezio non fosse sinceramente un 'galileo., perchè in quello scritto voleva trattare le que- stioni coi soli mezzi offerti dalla filosofia. 

La "Consolatione" appartiene al genere consolatorio iniziato da Aristotele col "Protrettico" e introdotto nella letteratura romana da CICERONE con l’"ORTENSIO" composto dopo la morte della figlia.

In parte dipende dall'opera aristotelica e inoltre da Posidonio ; questi influssi si ritengono mediati da qualche fonte più recente, che' però non si dovrebbe ricercare, come si era pensato, nello seritto di CICERONE. 

Il pensiero di Boezio presenta due aspetti, filosofico l’uno, teologico l’altro (per brevità si denomina teologia quella che parte dalla rivelazione) ; per l’una appartiene al mondo antico, per l’altra al cristiano, perciò è stato chiamato sia l’ultimo dei filosofi romani, sia il precur- sore degli scolastici. 

Occorre però non dimenticare che le concezioni filosofiche di Boezio si debbono ricercare, oltrechè nella Consolazione, anche negli seritti teologici, 

In ogni modo è certo che, precorrendo la scolastica, egli distingue recisamente le sfere della conoscenza na- turale, cioè della filosofia, da quella della fede ossia dalla teologia, pure assegnando alla prima l’ufficio di inter- pretare il dogma (che essa deve accogliere dalla seconda) e di mostrare che è in accordo con le esigenze della ragione. 

Nella sfera propriamente filosofica, Boezio si dichiara platonico, ma in realtà egli dipende da Aristotele anche più che da Platone e accetta dottrine medio e neo-platoniche e stoiche, sicchè espone una dottrina aristotelico-platonica (del resto mirava a dimostral'accordo sostanziale delle die filosofie) con carattere eclettico. 

Occorre osservare che l’interpretazione ne è resa difficile dal diverso significato che egli attribuisce alle stesse parole anche se designano concetti fonda- mentali. 

Nella divisione delle discipline filosofiche di carattere teoretico (che distingue da quella pratica), Boezio riprende l'insegnamento di Aristotele e lo tra- smette alla Scolastica. 

La fisica ha per oggetto esseri individuali risultanti di forma e di materia e in movimento.

La matematica fa astrazione dalla materia di talî esseri e ne considera soltanto le forme, che sono immobili ; la teologia (modernamente la metafisica) riguarda l’Essere Divino, pura forma separata da ogni materia e immobile. 

Questa divisione include alcune delle dottrine più importanti di Boezio, soprattutto le concezioni aristoteliche di forma e di materia, che egli accetta senza discussione; del resto, spesso procede nello stesso modo anche perchè accoglie come nozioni comuni (o assiomi) le proposizioni che, a suo parere, sono ammesse e principalmente dai docti. 

L'interesse di Boezio si concentra sulla metafisica, perchè il cuore della sna dottrina è il concetto di Dio. Stando, come egli afferma, alla concezione comune degli uomini (secondo la quale nulla si può pensare che sia migliore di Dio), Boezio identifica questo al Sommo Bene, o alla per- fezione, o alla felicità. 

Tale identificazione era stata fatta, prima che dal Neo-Platonismo, da TEOFRASTO, che vo e ‘ afferma che ogni altro essere (essenza) proviene dalla aveva inteso l’idea del bene come il divino, il sommo bene è poi identificato all’uno. 

È così ripresa una teoria dell'ultima filosofia di Platone e del Neo-Platonismo.

Ma Boezio cerca di giustificarla a modo suo. In ogni modo egli intende Dio non come il primo principio impersonale del Neo-Platonismo, ma come una perso- nalità attiva, che si avvicina al Demiurgo del “'imeo (altre affinità si vedranno poi), dal quale però differisce perchè ha le Idee non sopra di sè, ma nella propria mentè. Platonica è pure l'affermazione che l'eternità propria di Dio è un presente immutabile.

In esso il divino contempla con una visione semplice e indivisibile tutto ciò che fu, è e sarà. 

Per provare l’esistenza del divino, BOEZIO adopera vari argomenti, che derivati da fonti più antiche, dovevano essere ripresi anche in seguito, specialmente dagli scolastici. 

Uno, derivato essenzialmente dal "Sulla filosofia" di Aristotele afferma che se esistono gradi di bontà nelle cose, deve esistere un bene sommo, cioè il divino. 

Un altro, che pure si trova nello stesso seritto aristotelico e che è stato spesso ripreso in seguito, prova la esistenza di esso per mezzo dell’ordine unitario dell'universo. 

Egli accenna anche all'argomento, di ori- gine aristotelica, che stabilisce la necessità di porre la prima sorgente di ogni mutazione e di ogni movimento in un motore immobile. 

Sotto questo aspetto il divino di BOEZIO ha caratteri aristotelici, Dio è pura forma senza materia, ossia è il puro essere in quanto essenza (infatti, esse, salvo nel secondo Commento a Porfirio, in cui designa l’ESISTENZA, equivale all'ESSENZA). te è l’unica vera forma e non è un’immagine di essa. 

È chiaro che così è ripresa la teoria platonica che vede nelle cose soltanto le immagini delle Idee.

Quindi quando Boezio forma o essenza divina, vuol dire che nelle cose diverse dal divino si trovano i riflessi di quelle essenze che si raccolgono in unità semplice e indivisibile nel loro principio. 

Perciò BOEZIO può parlare del fluire di ogni altro essere da Dio e della partecipazione di questo da parte di quello, senza intendere tali espressioni nel senso di quel pan-teismo che esplicitamente condanna. 

BOEZIO può infatti sostenere che il divino non può espandersi nelle cose esterne nè accogliere in sè alcuna di esse, perchè la essenza o forma di queste sono soltanto immagini di quelle che costituiseono la prima. 

La cosidetta forma di cui parla BOEZIO e l'universale -- il genero e la specie -- di cui si occupa nei due Commenti a Porfirio. 

Nel secondo, che è molto più importante, non si pronuncia tra PLATONE, che aveva ammesso l’esistenza di universali o idee fuori delle cose e d'ARISTOTELE, che insegna che essi esistono soltanto in queste, sebbene in complesso mostra di preferire la soluzione aristotelica, che espone anche nelle opere posteriori. 

Però nell'essere individuale egli ritiene esistere non la forma vera e propria (come ARISTOTELE), bensì una imitazione di essa. 

Le differenze degli esseri individuali diversi da Dio dipendono dai loro accidenti, determinati dalla materia, che in essi è sempre unita alla forma. 

Ma, come si è visto, Boezio parla di tale unione per gli esseri corporei : inol- tre egli afferma che quelli incorporei non hanno un fon- damento nella materia. 

Non si vede quindi come possa ammetterne altri oltre Dio, e ritenere che sono incorporei Dio e l’anima e, come si vedrà, altri esseri. 

L’azione creatrice di Dio, padre di tutte le cose, consiste dunque nell’imprimere le immagini delle forme nella materia, portando così all'esistenza gli esseri individuali. 

Siccome Boezio non dice che abbia creato la materia dal nulla, pare che la consideri inereata ; e con ciò si accorda il fatto che sembra ammettere che il mondo non abbia avuto un principio nel tempo, ossia che, pure non es- sendo eterno, sia perpetuo. 

Quanto agli esseri spirituali di cui Boezio parla (l’anima cosmica, la natura, gli spiriti motori delle stelle, gli angeli, i demoni, le anime umane), presenta difficoltà l’esistenza di quelli che, come gli angeli, probabilmente i demoni, certamente . le anime degli uomini che sono immortali, nella vita che precedeva questa e in quella che la seguirà, sono pensati privi di corpo e quindi di materia. In ogni modo, queste concezioni di Boezio si conformano alle opinioni dominanti nell'età sua e ad esse e a quelle di Platone, corrisponde il cenno che riguarda le pene dei malvagi dopo la morte. 

Come il demiurgo di PLATONE, il divino di BOEZIO ha per la sua bontà creato il mondo e ha cercato di renderlo bello come il modello che ne aveva in mente ; egli governa con la bontà tutte le cose che volentieri gli obbediscono e sono rivolte al bene, perchè, essendo ereate da Lui, sono buone. 

Il divino, sebbene onnipotente, non può fare il male, che perciò è un nulla (nihil est quod ille [Deus] non possit... malum igitur nihil est, cum id facere ille non possit). Dio tutto governa con una legge perpetua e immutabile che è, secondo il modo in cui viene considerata, la Provvidenza o il fato. 

La prima, che si identifica con la ragione divina, è l’ordinamento delle cose nella sua unità semplice.

Il secondo è l’esplicazione nel tempo di quell’ordinamento (in quanto inerente alle cose particolari in mutamento e in successione) nella molteplicità delle sue determinazioni.

Per- ciò il fato non può mai venire in contrasto con la provvidenza, da cui dipende ; e mentre tutto ciò che sottostà al fato obbedisce alla provvidenza, aleune cose che sono rette da questa (quelle cioè che più si avvicinano alla semplicità e alla immutabilità divina) superano il dominio di quello, che però tutto governa nei cieli e in terra e costringe nel nesso indissolubile delle cause anche le azioni e le fortune degli uomini. 

Non esiste il caso, che questi, nella loro ignoranza delle cose, ritengono gover- nare il mondo. 

L’accentuazione della provvidenza e del fato rivela influssi stoici, la loro distinzione riporta a teorie del Platonismo Medio (PSEUDO-PLUTARCO, De Fato) e ai loro sviluppi neo-platonici. 

La provvidenza divina, che è prescienza del futuro, non esclude la libertà del volere che appartiene necessariamente a ogni natura razionale e che è tanto maggiore quanto più l’anima s'immerge nella contemplazione di Dio, tanto minore quanto più si lega al corpo e si annulla quando sì abbandoni ai vizi. 

Per la sua debolezza, la nostra mente non riesce a comprendere che quella di Dio, che “ per la sua eternità immutabile contempla ogni cosa in un presente indivisibile, possa conoscere in modo neces- sario (come è tutto ciò che avviene quando avviene) anche ciò che è contingente e abbracciare con una sola visione quanto per noi si svolge nel tempo sénza privare della loro libertà le azioni umane, nello stesso modo che un uomo, che vede altri agire, non rende così necessari i suoi atti. 

Questa teoria, che riprende pensieri di PROCLO e che ha avuto lunghi sviluppi fra gli scolastici, trascura il punto decisivo che per BOEZIO la Provvidenza è essenzialmente l’ordine necessario e immutabile delle cose tutte, e quindi anche delle azioni umane, 

Si pensa che la vita degli uomini sia governata dal caso, perchè l’esperienza mostra che spesso i buoni sono infelici e i malvagi felici e ciò non sarebbe possibile se la Provvidenza governasse il mondo ; ma questa convinzione proviene da una errata visione delle cose. 

Per desiderio naturale, tutti gli uomini aspirano alla felicità, ossia al sommo bene, che include tutti gli altri, quel bene oltre il quale nulla si può ricercare.

Ma esso si identifica al divino, in cui risiede la felicità, perciò gl'uomini la conseguono partecipando del divino e così assomigliandogli. 

Ora, conseguendo il bene che desiderano, gli uomini diventano buoni, quindi sono felici e la stessa bontà è il loro premio, siechè sono sempre ricompensati, mentre i malvagi, che non conseguono il bene cui aspirano, sono infelici e sono sempre puniti, perchè la pravità costituisce la loro pena. Non sono uomini, ma bestie e, avendo perduto la loro natura essen- ziale, non sono affatto. 

Riprendendo motivi del Gorgia platonico, BOEZIO sostiene che i malvagi non sono potenti, ma deboli, perchè la capacità di fare il male è impotenza, che tanto più sono infelici quanto più conseguono ciò che desiderano e che infelicissimi sono coloro che rimangono impuniti delle loro colpe. 

Occorre non odiarli, ma compiangerli, perchè la loro mente è colpita dalla peggiore delle malattie, la malvagità. 

Per convincersi che i lamenti che si fanno sull’immeritata sorte degli uomini, sono ingiu- stificati, occorre anche ricordare ehe la fortuna è instabile per natura, sicchè bisogna diffidare di essa, com- prendere che i suoi doni non rendono buoni gli uomini e che le cose esterne non sono veri beni e non rendono l’uomo felice.

Boezio si diffonde molto su questa tesi, resa popolare dallo Stoicismo.

Si aggiunga che la fortuna avversa è utile all'uomo, perchè la rivela nella sua natura instabile e gli fa distinguere i veri amici, che per la debolezza della nostra mente male possiamo giudicare chi sia buono, chi malvagio, che il divino sapientemente assegna all’uno e all’altro ciò che più gli conviene, che quelle che riteniamo ingiustizie del fato sono condizioni necessarie del bene di ciascuno, che Dio può valersi del male per il bene. 

In conclusione, ogni fortuna è buona.

Tutto è bene per i buoni, è male per i malvagi. 

L'uomo quindi deve confidare nel dividno e rivolgersi a lui con preghiere, combattere i vizi ed esercitare le virtù. In questa teodicea boeziana abbiamo ricordato rapporti con Platone e con il portico. 

Nell’insieme, si avvicina fortemente a quello di PROCLO. 

L’influsso esercitato da BOEZIO sulla civilizazione occidentale e vastissimo e profondissimo, tanto che si è potuto dire che la sua autorità è stata pari a quella di Aristotele e d'AGOSTINO. 

A Boezio principalmente la scolastica si rivolge per conoscere le scienze matematiche. 

Ha attinto alle traduzioni di BOEZIO e ai suoi commenti la conoscenza della logica e agli altri suoi scritti quella di alcune tesi essenziali del Liceo, tesi che talvolta determinano importanti sviluppi da parte dei maggiori scolastici, non tutti interpreti fedeli della filosofia di BOEZIO. 

Inoltre Boezio fa conoscere dottrine significative degl'academici e dei filosofi del portico. 

Come traduttore e come commentatore BOEZIO offre agli scolastici modelli che sono stati imitati.

Come scrittore, BOEZIO continua con CICERONE la formazione della terminologia filosofica in lingua latina. 

Il Commento alla Introduzione di PORFIRIO da lo spunto alle discussioni sugl'universali. 

Numerosi scolastici -- e fra essi alcuni dei maggiori, come Giovanni Eurigena e Tommaso d'Aquino --  commentano i trattati teologici di Boezio, e, anche più numerosi commentatori ha avuto il De consolatione -- Giovanni Eriugena, Guglielmo di Conches, Pietro di Ailly). 

La Consolazione della Filosofia di Boezio e tradotta nelle lingue di quasi tutti i popoli civili. 

ALFREDO d'Inghilterra ne scrive una versione in anglosassone della Consolazione della Filosofia di Boezio, Notker Labeone di S. Gallo, in tedesco, Giovanni di Meung in francese, Massimo di Planudes in greco. 

Un ignoto pisano e ALBERTO DELLA PIAGENTINA, detto Alberto Fiorentino, volsero "La Consolazione della Filosofia" in 'volgare' -- seguiti poi da A. Tanzo e da B. Varchi e da altri. 

LEIBNIZ para-frasea "La Consolazione della Filosofia" di BOEZIO brevemente in francese. 

La filosofia di BOEZIO trova nel Medio Evo numerosi imitatori’ -- Pietro da Campostella, Arrigo da Settimello, ALBERTANO DA BRESCIA, Giovanni da Tambach, Matteo di Cracovia, Giovanni Gersonl

Per secoli, molte anime afflitte si rivolsero per conforto allo scritto di BOEZIO

Basta ricordare il Convivio d'ALIGHIERI (II, 12 [13], 2). 

In seguito però la produzione complessiva di BOEZIO perde importanza e conserva soltanto valore storico. 

Non occorre più volgersi ai suoi scritti per conoscere ARISTOTELE.

E per non parlare delle opere teologiche, dominate più da interessi dialettici che da altro, la stessa "Consolazione della filosofia" e troppo ricca di rettorica e di luoghi comuni per attirare un interesse vivo. 

Effettivamente mancano a BOEZIO il senso intenso del dolore e della miseria degli uomini e l’esigenza viva dell’amore universale che caratterizzano i maggiori stoici dell’età imperiale.

Soprattutto non è traccia in lui della consapevolezza tragica del male e del peccato e della rovente passione religiosa d'AGOSTINO, che nelle condizioni in cui era BOEZIO quando scrive "La Consolazione della Filosofia" non avrebbe nemmeno un istante pensato a cercare conforto nelle fredde dottrine filosofiche dell’antichità. 

La filosofia di BOEZIO, priva di esigenze critiche e di pensieri originali, cerca di collegare motivi attinti a fonti diverse in un insieme che possa accordarsi con la rivelazione galilea.

Ma BOEZIO non riesce a fondere davvero gli elementi che adopera e ad animarli di vita nuova. 

È innegabile però che a differenza dei suoi predecessori, BOEZIO si è interessato soprattutto dei maggiori pensatori del passato, PLATONE e ARISTOTELE, e ha sentito il bisogno di affrontare alcuni dei più importanti e ardui problemi della filosofia che prima di lui non erano stati trattati nel mondo latino. 


***** FINE DI BOEZIO ****

Chi, occupandosi della filosofia di ROMA, si limiti, come di solito avviene, a considerarne i rappresentanti maggiori, è portato a giudicarla una semplice deriva- zione della greca o al più, quasi un innesto di un germe di questa sul tronco latino che vi ha impresso il carattere proprio di una accentuata praticità. 

La mentalità di ROMA, si afferma, non possedeva vere attitudini filosofiche ; perciò a ROMA e nel mondo latino la filosofia rimase sempre una pianta esotica, un oggetto di lusso, che poteva attirare la curiosità di alcuni individui e anche di ristretti circoli intellettuali, ma non doveva mai penetrare molto a fondo nella cultura e nella vita. 

Però questo giudizio non appare più giustificato, quando da una parte si osservano da vicino le condizioni storiche dello svolgimento della filosofia di ROMA e dall'altra tutti i cultori delle ricerche filosofiche del mondo latino. 

Come si è osservato, lo spirito di ROMA da prima si è rivolto alla speculazione greca perchè questa corrispondeva alle sue intime esigenze e in seguito si è venuto svolgendo parallelamente ad essa, perchè era dominato dalle stesse preoccupazioni che si imponevano a questa. 

Se poi si tiene conto di tutti coloro che nel mondo romano si sono oceupati di filosofia.

I veri e propri filosofi, maggiori e minori, gli studiosi di discipline diverse che nelle loro opere mostrano di aver subito l'influsso di essa, gli uomini che, pur non avendo esplicato attività letteraria, hanno provato interesse per tali ricerche, si deve riconoscere (se arbitrariamente non si nega carattere filosofico a tutte le ricerche che oltrepassano i limiti della gnoseologia e della metafisica) che a ROMA, la filosofia trovato cultori tanto numerosi da infirmare la validità delle opinioni correnti. 

Si può dire che in pochi periodi storici ha suscitato un interesse così vasto e così vivo.

Ora, ciò non sarebbe stato possibile se non avesse risposto a esigenze profonde e sinceramente sentite. 

E questo non è tutto. 

ROMA presenta un fatto unico nella storia della civilizazione occidentale, cioè, che salvo rarissime eccezioni, i cultori della filosofia sono stati uomini d’azione che hanno partecipato come militari, statisti, amministratori (senatori, questori, pretori, consoli, più tardi funzionari e consìglieri degli imperatori) alla vita dello stato, e a tale fatto se ne collega un altro, che coloro che hanno composto scritti filosofici, hanno quasi sempre coltivato altre discipline, letterarie, scientifiche, tecniche. 

Da tutto ciò risulta che la filosofia, da una parte ha permeato di sè tutta la cultura romana, dall’altra che è penetrata bene addentro nella vita, alla quale si è strettamente congiunta. 

Queste osservazioni permettono di valutare equamente l'ufficio compiuto dalla filosofia romana nella storia dell'umanità. 

Considerata sotto l’aspetto rigorosamente teoretico, la filosofia romana non presenta nè grandiosi sistemi concettuali, nè pensieri nuovi e originali.

Ma le stesse cose debbono ripetersi per quella ellena, dall’inizio dell’età ellenistica sino alla fine dell'antichita, con due eccezioni: da una parte la costruzione di PLOTINO -- che del resto rimane eclettica e deve il segreto del suo fascino soprattutto all’intensa vita spirituale che la pervade -- dall'altra, la eritica gnoseologica della scepsi.

E ingiusto limitarsi a giudizi di tal genere e non considerare che la filosofia romana possede altri significati e ha compiuto altre e importantissime funzioni e, prima di tutto, una grandiosa funzione culturale. 

Esso infatti fa penetrare nel mondo nell'occidente la conoscenza della filosofia e fa sì che tutti gli spiriti non volgari senteno forte e viva l’esigenza di non rimanere chiusi alla sua voce.

Si può dire che, più o meno, tutti romani colti si occupano di studi filosofici. 

Più tardi, nell’età medio-evale la filosofia e conosciuta in lingua latina che rimane la principale fonte anche quando i testi aristotelici furono noti in versioni dirette.

Basta ricordare l’interesse provato dagli uomini del Rinascimento, dal PETRARCA in poi, per CICERONE

Si può aggiungere che nell’età moderna numerosi uomini colti, ma non dotti di professione, hanno notizia della filosofia soltanto attraverso i romani. 

Inoltre, questi ci fanno conoscere non poche dottrine di cui sono sparite le esposizioni originali. 

E non si deve tacere che dalle dottrine filosofiche che i romani hanno attinto al Portico, i giuristi romani derivano la concezione di un diritto naturale e razionale, ugualmente valido per tutti gl'uomini.

Ma anche più importante è un’altra funzione compiuta dai filosofi romani: quella di avere elaborato due visioni della vita e dei suoi ideali che hanno esercitato attraverso i secoli un’azione che ancora non è finita. 

Per i romani, la filosofia e soprattutto guida e maestra di condotta, ciò spiega perchè la determinazione dell’ideale della vita dovesse interessarli tanto fortemente. 

CICERONE costrusce l’ideale aristocratico dell’"humanitas," intesa come libera e armonica formazione di una personalità superiore. 

Ma, di fronte agli sconvolgimenti e alle crisi dell'età successive, l'ideale dell'"humanitas" cede il posto all’altro, dell'amore (caritas) universale per tutti gl'uomini, tutti uguali per natura, tutti *infelici* e destinati a un inevitabile dissolvimento.

Nel Rinascimento, l’ideale dell’"humanitas" risorse e domina di nuovo gli spiriti superiori.

Però, sul piano puramente umano, fra i due ideali di "humanitas" e "caritas" sorge un conflitto tra individualismo e universalismo, contrasto che cessare soltanto quando si affermerà che l’amore per tutti gl'uomini implica l’esigenza che a ciascuno di loro siano dati i mezzi per svolgersi liberamente come personalità autonoma. 

Una filosofia come la romana, che ha elaborato tali due ideali di vita della "humanitas" e della "caritas" universale, ha scritto nella storia dell'umanità pagine che e leggerezza o peggio non apprezzare degnamente. 


LISTA ALFABETICA DALLA STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA

*****

ANTONINO 

APPIO

BOEZIO

CATONE 

CATONE

CICERONE

CORNIFICIO LUNGO 

ENNIO

FAVONIO 

LUCREZIO

NUMA

OTTAVIANO

OVIDIO 

SCIPIONE

SORANO

VARRONE

VIRGILIO




INDICE ALFABETICO


NOME PERSONA

A

ADRIANO, princeps

ANTONINO -- MARC'AURELIO ANTONINO

APPIO

B

BALBO 

BALBO

C

CATONE MAGGIORE

CATONE MINORE

CESARE

D

E

F

FAVORINO

G

GALLO

GIULIANO, princeps

H

L

LUCANO

LUCREZIO

M

MUSONIO

N

NUMA

O

ORAZIO

P

Q

QUINTILIANO

R

S

SENECA -- provinciae, nato in Spagna.

SOLANO

T

TACITO

U

V


VIRGILIO


***

 NOME LUOGO


ROMA

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