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Thursday, February 1, 2024

STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA

LISTA ALFABETICA DALLA STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA

ANTONINO

BOEZIO

CICERONE

LUCREZIO




Sino da tempi antichissimi, le genti italiche del centro della penisola, e tra esse i Latini ei Romani, subirono diversi influssi sul temperamento auttotono, come risulta dalle tracce che ne sono rimaste nella lingua, nell'arte, e nella religione. 

Tale influsso, sì esercita sia per il tramite sia dell'Etruria, sia della Magna Grecia, e soprattutto di Cuma. 

In seguito, i rapporti fra l'urbe di Roma e la civiltà ellenica si rafforzarono grazie alla mediazione della cosi chiamata "Magna Grecia."

Appunto per ciò, già al tempo della Guerre contro i Sanniti, e innalzata a Roma una statua rifiggurante Pitagora di Crotone, ritenuto il più sapiente degl'uomini.

E probabile che dei crotonesi si co-noscessero piuttosto le credenze dell setta che l’attività filosofica o scientifica. 

Dell’azione esercitata dalla civiltà ellenica della Magna Grecia offre una conferma la raccolta di sentenze in versi saturni del console APPIO Claudio il Cieco, anche se effettivamente non presentavano quel carattere pitagorico che vi scorgeva Cicerone, il quale riferisce che Panezio di Rodi le lodava assai. 

Forse, dipendevano da greci contemporanei.

In ogni modo, nelle tre sentenze d'Appio che conosciamo -- fra le quali è rimasta celebre la proposizione "Fabrum esse suae quemque fortunae" -- si manifesta piuttosto la riflessione sulla vita di tutti i giorni, che una filosofia esplicita. 

Lo stato romano si espande nella Magna Grecia, conquista la Sicilia, forma relazioni dirette con la Grecia e coi centri ellenistici dell'Oriente, e così amplia e rafforza la sua conoscenza di quella civiltà che, dopo la morte di Alessandro Magno, assume il carattere proprio d'ellenismo. 

LIVIO ANDRONICO, di Taranto, prigioniero a Roma e schiavo di M. Livio Salinatore, inizia l’opera di imitatore della letteratura ellena, di cui i romani cominciano così al acquistare conoscenza. 

Ma soltanto si determina quel movimento che apre le porte di Roma alla cultura ellenica in tutta la sua ampiezza.

Quando trentamila tarantini sono condotti come schiavi, la credenza dei crotonesi puo diffondersi più largamente. 

Lo spirito romano, però, provò per lungo poca simpatia per questa speculazione straniera.

Così, quando so conosciuti il libro di filosofia del re Numa, il pretore ha ordine di bruciarlo.

Il libro e uno falso che ha lo scopo di fare apparire il re etrusco un discepolo dei crotonesi!

Le dottrine esposte nel saggio del re Numa hanno carattere teologico.

Ma non è certo che la dottrina deriva dai crotonesi o, peggio, come ha supposto lo Zeller, dalla stoa!

L’avversione dei romani alla filosofia si rafforza quando, per le relazioni sempre più ampie che si formavano con la provincia conquestata, l'ellenismo si diffuse in questa città e vi invia rappresentanti, filosofi, filologi, retori, letterati, artisti, suscitando una forte corrente nazionalistica ostile. 

Cosi, un Senato consulto vieta la residenza a Roma ai filosofi o retori elleni.

È incerto se e vietata tale residenza a due filosofi dall giardino d'Epicuro, Alcio e Filisco. 

Atene invia in Roma, come suoi ambasciatori, tre filosofi: Carneade degl'accademici, Diogene di Babilonia, della stoa, e Critolao, dal Liceo, per ottenere il condono di una multa che le era stata inflitta. 

I tre filosofi hanno conferenze pubbliche che suscitano molto entusiasmo.

Allora, M. PORCIO CATONE, il rappresentante nazionalista più autorevole dell'opposizione alla cultura ellenistica e al cosmopolitismo che include e implacabile svalutatore della gente greca, si lagna in Senato perchè gli ambasciatori di Atene da lungo tempo risiedevano a Roma.

CATONE ottenne che si decidesse al più presto della loro richiesta per far sì che i tre filosofi ritornassero alle loro scuole -- e far i romani, come prima, ascoltare la legge dai magistrati. 

Si può dire che la vita di Catone, nativo di Tuscolo, tutta dedicata alla difesa della "romanità", si chiuda con la lotta contro Cartagine da una parte, di cuì domanda insistentemente la distruzione, e contro l’ellenismo invadente dall’altra. 

Catone partecipa valorosamente alla guerra contro Annibale. 

Questore di P. Scipione, edile della plebe, pretore e console, si rese famoso con la sua censura per la quale fu chiamato "censorius."

Primo fra gl'annalisti, Catone usa la lingua latina negl'"Origines," che narrano le origines di Roma.

Nell'"Ad Marcum filium" riune in un tutto, costituendo così la prima enciclopedia in lingua latina raccolse, in forma apodittica, la conoscenza pratiche che potevano servire al figlio. 

Un capitolo riguarda l’agricoltura, forse uno la medicina, e uno l’eloquenza. 

È dubbio che il "Ad Marcum filium" di Catone includesse uno scritto sull'arte della guerra. 

Catone compose lavori speciali sulla guerra, sulla giurisprudenza, e sull’agricoltura.

"De agri cultura" (o "De re rustica") è stata conservata; degli altri saggi restano soltanto frammenti. 

Un'opera di morale popolare applicata di Catone e il "Carmen de moribus," di cui però è dubbia la forma poetica. 

Di Catone si ricordano anche le *Epistolae* ad filium e una raccolta d'apottegmi, motti e sentenze. 

Catone stesso però, che studia il greco per meglio conoscere il nemico da combattere, contribusce alla diffusione della filosofia conducendo Ennio con sè a Roma.

ENNIO, un messapio di Rugge assimila la cultura ellena.

A Roma Ennio insegna la lingua latina per vivere.

Fra le sue poesie occupano il primo posto gli "Annales," in XVIII libri, in cui si narra la storia tradizionale di Roma.

Inoltre, compose sei tragedie, prese da autori greci, commedie, satire e altre opere che si ricorderanno.

Questo gli attirano il favore e l’amicizia dell'aristocrazia, principalmente di Scipione l’Africano Maggiore, di Scipione Nasica e di M. FULVIO Nobiliore che conduce Ennio con sè nell’Etolia perchè celebrasse poi le sue imprese in quella terra. 

Il figlio di Fulvio, Quinto, dona ad Ennio un possesso nel Piceno, e con esso Ennio diviene cittadino romano

Nell’"Epicarmo," scritto in trimetri trocaici, Ennio probabilmente riduce un poema sulla natura, attribuito falsamente a quel poeta elleno.

Se la dottrina naturalista che v'e esposta ha o no impronta dei crotonesi, come si è affermato, non è possibile dire con certezza. 

Nell'"Evemero," Ennio traduce l'iscrizione d'Evemero, che spiega l’origine degli dei, insegnando che sono uomini insigni per saggezza. 

In complesso, si può riconoscere in Ennio interesse vivo per varii problemi.

Ma anche se conosce certe dottrine dei crotonesi, come la trasmigrazione delle anime, sembra troppo audace l'ipotesi che attribuisce una concezione generale pitagorico-empedoclea, esposta in tutte le opere, anche negl'"Annali" a chi dice: "Mi è necessario filosofare, ma limitatamente."

L'opposizione nazionalistico all’influsso della cultura e in particolare della filosofia ellena e vana, perchè per troppe vie penetra in Roma. 

Soltanto alcuni dei mille achei condotti in Italia e ivi trattenuti anni come ostaggi hanno dimora in Roma.

Fra essi, si trovano uomini che, come Polibio, sebbene non filosofo, e imbevuto di una cultura che ha ricevuto la sua forma dalla filosofia e che contribusce a diffondere la conoscenza del pensiero elleno. 

L. Emilio Paolo, dopo la sua vittoria su Perseo, la cui biblioteca destina all’uso dei propri figli, scelse fra gl'altri maestri di questi, Metrodoro. 

Il senato-consulto, l’effetto prodotto dai tre ambasciatori di Atene, mostrano quale interesse suscita in Roma il pensiero elleno. 

Questo movimento si accentua fortemente. 

La casa degl'Scipioni, che già con l’Africano Maggiore apre le porte all’ellenismo, con P. Cornelio Scipione Emiliano (l’Africano Minore) ospita Panezio di Rodi, cioè colui che è stato chiamato il fondatore della stoa romana e uno dei principali fondatori della filosofia di Roma e che con l’opera sua mira soprattutto ad agire sullo spirito dell’aristocrazia di questa città. 

Per mezzo degli insegnanti di letteratura, la filosofia entra a far parte della cultura generale.

Così tutti gli indirizzi della filosofia sono conosciuti e seguiti. 

Nel circolo degli Scipioni (al quale appartennero Panezio di Rodi, Polibio, Terenzio, Lucilio, C. Lelio, Q. Elio Tuberone, Sp. Mummio, Rutilio Rufo, M. Vigellio, L. Furio Filo, forse Valerio Sorano) si svolse il concetto di "humanitas" -- sintesi di valori culturali ed etico-sociali. 

Sia l’Africano Minore che i più insigni romani hanno come amici e consiglieri, filosofi e ne apprezzarono e seguirono le ricerche. 

Panezio di Rodi accompagna Emiliano nella sua ambasceria in Oriente.

L'accademico Clitomaco dedica a Lucio Censorino e a Lucilio due scritti sulla gnoseologia di Carneade.

Tiberio Gracco ha come amico e consigliere C. Blossio, di Cuma, e si dice che per impulso di lui, e del retore Diofane, difende la legge agraria. 

Lucullo e amico dell’accademico Antioco d'Ascalona, P. Pupio Pisone del peripatetico Staseas.

Pompeo ascolta l'insegnamento di Posidonio.

Lo stoico Diodoto e accolto nella famiglia di Cicerone, che segue gl’insegnamenti di diversi filosofi.

A Roma si recarono (oltre i tre ambasciatori ateniesi e Panezio) Staseas, Filone di Larissa, Posidonio, gli epicurei Fedro, Filodemo e Sirone.

Ascolta in Atene Carneade Q. Cecilio Metello, che, eletto console, dirige vittoriosamente la guerra contro Giugurta e che, sebbene sostituito da Mario, e dall'aristocrazia romana considerato il vero vincitore di essa, ha il soprannome di Numidico e ottenne gl'onore del trionfo.

Per sottrarsi all'esilio, al quale e condannato per l’inimicizia di Mario, abbandona volontariamente Roma e visse, da prima a Rodi, ove coltiva gli studi filosofici, poi a Tralle, ove ha notizia del suo richiamo. 

Le scuole che ebbero maggior numero di seguaci sono la stoa e il giardino d'Epicuro, che e il primo indirizzo filosofico a Roma. 

Alla stoa romana si collega Blossio di Cuma (il nome ha origine osca), che e scolaro dello stoico Antipatro di Tarso. 

Dopo la morte di Tiberio Gracco, Blossio dove difendersi davanti ai consoli.

Poi, Blossio fugge da Roma, e si reca in Asia presso Aristonico di Pergamo e, quando questo e sconfitto, si da la morte. 

Seguirono la stoa anche due Sanniti, Marcio e Nisio.

Del secondo, Nisio, si dice che da l’esempio di parodiare argomenti seri e e scolaro di Panezio di Rodi.

Al centro della più antica stoa romana si trova l’Africano Minore, console, distrugge Cartagine, ottenne la censura, dirige un’ambasciata in Oriente, e di nuovo console, distrugge Numanzia.

L'Africano Minore e un appassionato lettore della "Ciropedia" di Senofonte e ha tendenza della stoa.

Forse, anche per questo motivo, da alle sue orazioni contenuto morale e vi dipinta la corruzione.

Fra i più antichi stoici romani, membri del circolo alla casa degli Scipioni, si contano C. Lelio e i suoi due generi, C. Fannio e Mucio Scevola l’Augure, Q. Elio Tuberone, Spurio Mummio, Rutilio Rufo, L. Elio Stilone, M. Scevola Pontefice Massimo, M. Vigellio, e Sesto Pompeo. 

C. Lelio, ha fama soprattutto per l’intima amicizia che lo lega all’Africano Minore. 

C. Lelio conosce i tre filosofi ateniesi inviati a Roma, ma fu attirato principalmente dal stoico Diogene.

In seguito C. Lelio ha rapporto con Panezio di Rodi e ne diffuse la dottrina nell’aristocrazia romana.

Come legato di Scipione, C. Leliopartecipa alla guerra contro i punici e si distinse nell’assedio di Cartagine, ottenendo in premio la pretura.

Appartenne agli auguri è diviene console. 

Nelle lotte civili determinate dall'azione di Tiberio Gracco C. Lelio si schiera contro questo e i suoi fautori. 

C. Lelio e ammirato, se non come oratore come uomo politico, e forse dovette il soprannome di "sapiens," datogli dall’aristocrazia, al suo atteggiamento politico più che ad altro. 

Per mezzo di C. Lelio, C. Fannio conosce Panezio di Rodi e ne segue l’insegnamento. 

C. Fannio combattè contro Cartagine, e tribuno della plebe e si distingue contro Viriato.

C. Fannio e pretore e console.

C. Fannio oppose alla proposta di C. Gracco di concedere la piena cittadinanza romana ai meri latini e i diritti di questi ai meri italici, con una orazione famosa, di cui però, gli e contestata la paternità. 

C. Fannio scrive un saggio storico spesso ricordata da Cicerone ("Annales"), che forse comincia con le origini di Roma -- e orazioni. 

Q. Mucio Scevola l’Augure ascolta l'accademico Carneade, ma si avvicina alla stoicismo e soprattutto a Panezio di Rodi.

Con Q. Elio Tuberone e Rutilio Rufo, G. Mucio Scevola e lodato da Posidonio. 

Augure prima, Q. Mucio Scevola ha la pretura e il governo dell'Asia e il consolato.

Q. Mucio Scevola e un insigne giurista.

Q. Elio Tuberone, nipote di Emilio Paolo, come tribuno della plebe si oppone all’Africano Minore e a Caio Gracco.

Poi, Tuberone e pretore.

Poco lodato come oratore, Tuberone si distinse per la cultura giuridica. 

La semplicità della vita e la rigidezza del carattere di Tuberone lo portano verso la stoa, la cui dottrina applica nella condotta. 

Tuberone conosce Panezio di Rodi e ne segue l'insegnamento.

Da Tuberone e da Ecatone gli fuTono I: scritti.

La cosa è dubbia per Posidonio, 

Sp. Mummio, fratello del vincitore di Corinto, partecipa con Scipione Emiliano e con L. Metello Calvo a un’ambasciata politica in Oriente e così puo stringere più stretti rapporti con Panezio di Rodi.

Spurio Mummio scrive lettere in versi e orazioni.

Cicerone pone Spurio Mummio tra i quattro interlocutori del "De republica."

Spurio Mummio e scolaro di Panezio di Rodi, anche P. Rutilio Rufo, che combatte sotto Numanzia agli ordini di Scipione come "tribunus militum" ed e pretore urbano. 

Al pari di Mario, Spurio Mummio segue come legato Q. Metello nella guerra contro Giugurta.

Quando Mario, quale console, assunse il comando dell’esercito, Spurio Mummio ritorna a Roma. 

Console, Spurio Mummio segue l’amico M. Scevola l’Augure nel suo proconsolato d’Asia.

Condannato ingiustamente per accuse di nemici che si e procurato con la sua rigida onestà, Spurio Mummio visse da prima a Mitilene e poi a Smirne, e rifiuta l'invito di Silla di accompagnarlo a Roma.

Cicerone conosce Spurio Mummio a Smirne.

A Smirne, Spurio Mummio scrive un "De vita sua" e una storia di Roma. 

Spurio Mummio e oratore (e i suoi discorsi hanno per la loro aridità impronta stoica) e coltiva gli studi giuridici. 

Q. Elio Stilone, nato a a Lanuvio, appartenne all'ordine equestre. 

Q. Elio Stilone segue nell’esilio Q. Metello "Numidico."

A Roma, Q. Elio Stilone e maestro e scrive discorsi per altri. 

I suoi discepoli più insigni sono Cicerone e Varrone. 

Conoscitore sicuro della coltura latina, Q. Elio Stilone e il primo rappresentante notevole della scienza grammaticale. 

Opere sicuramente di Q. Elio Stilone sue sono: 

"Interpretatio carminum Saliorum"

"Index comoediarum Plautinarum"

"Commentarius de proloquiis" -- uno studio sulla sintassi di impronta stoica

Discorsi per altri. 

Inoltre, Q. Elio Stilone cura edizioni di scritti altrui. 

Gli è stata attribuita un’opera glossografica. 

Q. Mucio Scevola e pontefice, questore, tribuno della plebe, pretore, console, proconsole d’Asia e si attira, per la sua giustizia e il suo disinteresse, l'affetto dei provinciali e l’odio dei cavalieri romani, che accusarono il suo legato Rutilio Rufo, che egli difese. 

Pontefice Massimo, Q. Mucio Scevola cadde vittima delle lotte civili.

Giurista insigne, Q. Mucio Scevola compose libri XVIII juris civilis, in cui per la prima volta tenta una trattazione sistematica dell’argomento, e un’opera intitolata "Horoi," che contiene definizioni di concetti e di rapporti giuridici. 

E molto ricercato l'insegnamento di diritto di Q. Mucio Scevola.

M. Scevola insegnò, derivandola, pare, da Panezio di Rodi, la distinzione di tre teologie, ripresa da Varrone: teologia poetica (falsa), teologia ufficiale (falsa) e teologia naturale (vera). 

M. Vigellio, amico di Crasso, visse con Panezio di Rodi.

Sesto Pompeo, zio di Pompeo Magno, ha forte cultura giuridica e matematica e conoscee a fondo la stoa.

E ricordato come Stoico un Pisone, che si è identificato con L. Calpurnio Pisone Frugi, tribuno della plebe, pretore e console, combatte la rivolta degli schiavi in Sicilia e la doma. 

Pisone ottenne la censura.

Pisone lascia un’opera storica ("Annales") che si estende dalle origini al tempo suo.

In essa, Pisone combatte le tendenze che si introduceno in Roma e il rilassamento morale.

Altri seguaci della stoa sono L. Lucilio Balbo e Q. Lucilio Balbo, fratelli o cugini, M. Porcio Catone, M. Favonio e Cornificio Lungo. 

L. Lucilio Balbo, scolaro di Q. Mucio Scevola Pontefice, e soprattutto un giurista. 

Q. Lucilio Balbo è chiamato stoico da Cicerone, che nel "De natura Deorum," gli assegna l’esposizione delle dottrine teologiche stoiche. 

Ivi Q. Lucilio Balbo dichiara di avere familiarità con Posidonio. 

Antioco d'Ascalona dedica a Q. Lucilio Balco un’opera.

Secondo Cicerone, L. Lucilio Balbo e pari ai più insigni stoici. 

M. Porcio Catone il Giovane ha come maestri due stoici, Atenodoro Cordilione -- che si reca a visitare a Pergamo perchè lo seguisse a Roma ove lo tenne come ospite -- e Antipatro di Tiro. 

In Sicilia Catone Uticense conosce l’accademico Filostrato. 

Nei suoi ultimi giorni in Utica, Catone Uticense ha vicino a sè lo stoico Apollonide e il liceale Demetrio. 

Catone Uticense e questore e pretore.

Catone Uticense i oppose ai triumviri e nella guerra civile si schiera con Pompeo. 

Dopo Tapso, Catone Uticense si reca a presidiare Utica, ove si uccide.

Catone Uticense coltiva con molto successo l’eloquenza e si compiace di introdurre discussioni filosofiche nelle orazioni. 

Catone Uticense scrive anche giambi. 

Cicerone chiama Catone Uticense perfettissimo stoico e nel "De finibus" gli assegna l'esposizione delle dottrine etiche di quella scuola di cui aveva studiato intensamente le opere. 

Fu amico e ammiratore di Catone Uticense M. Favonio, pretore.

Aspro avversario dei triumviri, M. Favonio parteggia per Pompeo e lo segue nella fuga. 

Dopo l’uccisione di Cesare, M. Favonio si une ai congiurati.

Fatto prigioniero a Filippi, M. Favonio e subito giustiziato perchè e un proscritto. 

M. Favonio adere alla stoa.

Cornificio Lungo e autore di un’opera etimologica in tre libri, composta fra il tempo di Cicerone e Ottaviano.

Forse segue quella scuola Q. Valerio Sorano, che Cicerone fa chiamare da Crasso "litteratissimomnium togatorum."

Q. Valerio Sorano e in stretti rapporti con Cicerone e con Varrone. 

Q. Valerio Sorano partecipa attivamente alla vita politica ed e tribuno della plebe.

In seguito, Q. Valerio Sorano dove fuggire in Sicilia ove Pompeo lo fa giustiziare. 

Poco rimane di Q. Valerio Sorano, sicchè è difficile apprezzare la sua attività filosofica. 

Certamente Q. Valerio Sorano si occupa di storia letteraria e di grammatica. 

Q. Valerio Sorano dedica a Publio Scipione Nasica uno scritto che non si sa se e in prosa o in versi.

Q. Valerio Sorano sembra compone in prosa un’opera intitolata ‘Eronzidec, che contiene principalmente interpretazioni allegoriche di nomi.

Due esametri che sì ricordano di Q. Valerio Sorano hanno pensare al panteismo stoico e probabilmente sono inclusi in un poema naturalistico. 

Anche più numerosi seguaci ha il giardino di Epicuro.

Per primo, pare, Amafinio espone in lingua latina le dottrine della sua scuola.

Ne seguirono l'esempio Rabirio e Cazio, tutti criticati perchè cattivi espositori.

Sono incerti però i loro rapporti cronologici con Lucrezio. 

Essi trovarono molti seguaci che li superarono assai in facilità e semplicità. 

Nell’età di Cicerone si contano molti epicurei romani.

Ma in generale, salvo Luerezio, si conoscono soltanto per le notizie che egli ne dà.

I più importanti fra essi sono T. Albucio e C. Velleio. I

l primo, dottissimo nelle cose greche e satireggiato da Lucilio e Q. Mucio Scevola l'Augure per la sua grecomania, resse come propretore la provincia di Sardegna. 

Condannato per estorsioni, anda in esilio in Atene, sopportando con molta calma la sua sorte. 

Cicerone, che ricorda i suoi discorsi e lo chiama perfectus Epicureus, pare accennare a suoi scritti filosofici tra i quali forse si trovava un carme epicureo.

C. Velleio di Lanuvio fu senatore e tribuno della plebe nel 91 a. C. 

Nel "De natura Deorum" difende le teorie epieuree : stando a quel dialogo, l'oratore L. Crasso lo preferiva a tutti i romani e poteva confrontare con lui pochi epicurei greci. 

Altri seguaci della stessa scuola furono il già ricordato C. Cazio, della Gallia Insubria, autore di quattro libri De rerum natura et summo bono, un Gallo, L. Calpurnio Pisone, C. Cassio Longino, C. Vibio Pansa, i due L. Manlio Torquato, Statilio, L. Varo, amico di Cesare. 

L. Calpurnio Pisone Censorino fu questore, edile, pretore, console, coll’aiuto di Cesare che aveva sposato una sua figlia. 

Fu attaccato da Cicerone con l’orazione "In Pisonem" quando e governatore della Macedonia e ad essa rispose poi con un libello. 

Censore nel 50, cercò inutil mente d’impedire la guerra fra Cesare e Pompeo; © gli stessi vani sforzi ripetè nel 43 perchè non seoppiassero nuove lotte civili.

In seguito abbandona la vita politica. 

E molto amico di Filodemo.

Cicerone ne parla sempre come di un epicureo. 

C. Cassio Longino e questore con Crasso nella guerra contro i pirati.

Poi pro-questore ; tribuno della plebe nel 49, seguì Pompeo. 

Fu uno dei capi della congiura contro Cesare e uno degli uccisori di questo. 

A Filippi, prevedendo la sconfitta, si uccise. C. Vibio Pansa amico di Cicerone che ne loda l'ingegno, e lo chiama epieureo, fu nel 51 tribuno della plebe. Console con Fazio nel 43, morì col collega a Modena combattendo valorosamente contro Antonio. L. Manlio Torquato padre (n. 108?; m. poco dopo 55?), pretore nel 68, proconsole ti’Asia nel 67, console nel 65, proconsole della Macedonia nel 64, senatore, si avvicinò all’Epicureismo al pari del figlio dello stesso nome, che nel 66 aveva una ventina d’anni e che fu senatore (58 ?) e' pretore (49). 

Nella guerra civile combattè in Africa con i Pompeiani : dopo Tapso (46) cercò di salvarsi in Ispagna per mare, ma vedendo la sua nave circondata dai nemici, sì uecise. Cicerone, che lo loda, nel De finibus gli fa esporre dottrine epi- curee. 

Statilio, amico di Catone l’Uticense e di Bruto, era ancor giovane nel 46 quando trovandosi col primo ad Utica, dichiarò di voler seguire il suo esempio, ma Catone, deciso ad uccidersi, lo affidò allo stoico Apollonide e al peripatetico Demetrio perchè gl’impedissero di imitarlo. 

Poi seguì Bruto e morì a Filippi (42 a. C.). 

Forse fu epicureo e imitatore di Lucrezio, Egnazio, di cui è ricordato, un De rerum natura. Pro- babilmente seguì quell’indirizzo Aurelio Opilio, liberto di un epicureo, che dopo avere insegnato filosofia, poi retorica, infine grammatica, sciolse la sua scuola per seguire Rutilio Rufo a Smirne, ove compose varie opere, fra le quali Musarum libri IX. Più dubbia l'appartenenza all’Epicureismo di un amico di Cicerone, L. Papirio Peto. Si avvicinò a quella più che ad altre scuole, senza però seguirne alcuna, T. Pomponio Attico (n. 109 a. C. da stirpe nobilissima), condiscepolo prima, poi intimo amico di Cicerone, che gli dedicò il De amicitia e il De senectute e gli scrisse numerose lettere, raccolte in 16 libri. 

Per sfuggire i pericoli delle lotte interne di Roma, visse in Atene.

Nelle nuove guerre ci- vili rimase neutrale. Fu il primo grande editore di Roma. Per sottrarsi a una malattia incurabile si uecise per fame a 77 anni. Serisse un liber annalis, che includeva tutta la storia di Roma dalle origini al tempo suo : vi si ri- cordavano anche importanti riforme legislative e opere letterarie notevoli e vi si parlava degli eventi storici di altri popoli, particolarmente dei Greci. Pomponio At- tico compose anche monografie genealogiche, uno seritto greco. sul consolato di Cicerone, versi posti sotto i ri- tratti di personaggi famosi. 

Come il suo contemporaneo e amico Pomponio Attico, e al pari di lui cavaliere ro- mano e ricco uomo d’affari, si avvicinò all’Epicureismo più che ad altre scuole L. Saufeio (n. e. 110). Al pari di Attico visse lungamente in Atene per coltivarvi gli studi filosofici. Per le sue ricchezze i triumviri lo inelu- sero nelle proscrizioni, ma si salvò per l'interesse di Attico, Cicerone accenna a lui come ad un epicureo, e pare sì riferisca ad un suo libro. Si è voluto collocare tra gli epicurei Giulio Cesare perchè nell’orazione che secondo Sallustio avrebbe tenuto in senato per opporsi alla condanna a morte dei complici di Catilina, nega l'immortalità dell’anima e le pene dell’oltretomba. Però non sappiamo se e fino a qual punto rispecchi il suo pensiero quell’orazione, che, in ogni modo, mirava a impedire l'uccisione dei catiliniani. 

Peripatetico con mescolanze stoiche e accademiche (cioè eclettico) e M. Pupio Pisone Calpurniano che trionfa della Spagna, e console.

Fu detto eloquentissimo e dottissimo e serisse 5 libri mepì teX@v. Apparteneva all'antica Accademia (cioè effettivamente all’eclettismo con tendenze stoiche di Antioco d’Ascalona) M. Giunio Bruto (n. 85 a. C.), che appunto accettò dottrine derivate dallo Stoicismo. In Atene fece studi di rettorica e di filosofia, e in questa ebbe maestro Aristone. Nella guerra civile parteggiò per Pompeo e combattè a Farsaglia, ma ot- tenne di riconciliarsi con Cesare. Formò allora stretti rapporti con Cicerone che gli dedicò varie opere (Brutus, Paradoxa, Orator, De finibus, Tusculanae, De natura Deorum, e a lui egli dedicò il De virtute. Legato propretore nelle Gallie (47-45), pretore urbano, per il 44, partecipò alla congiura contro Cesare e fu uno dei suoi uccisori. 

Sconfitto a Filippi da Ottaviano, si uecise.

Fu uno dei maggiori rappresentanti dell’atticismo è oratore insigne. Serisse lettere (8 a Cicerone ci restano nella corrispondenza di questo), poesie e tre opere morali. Nel De virtute difese la teoria dell’auto-sufficienza della virtù; in uno scritto Sui doveri diede precetti ai genitori, ai figli, ai fratelli sulla loro condotta; nel De patientia, trattò di questa. Cicerone ricorda come udi- tori di Filone di Larissa, Publio e Caio Selio e Tetrilio Rogo, ma s’ignora se ne seguissero le dottrine. Seguace dello scetticismo neo-accademico fu L. Tuberone, al quale Enesidemo dedicò i suoi Discorsi Pir- roniani ; se, come si ritiene, è identico a L. Elio Tube- rone, amico intimo di Cicerone (che ne loda il carattere e la cultura), quello scritto dovrebbe porsi verso 0 dopo la morte dell’oratore, il quale pure molto attinse alla scepsi della Nuova Accademia. L. Elio Tuberone fu legato di Q. Cicerone (proconsole di Asia nel 61-58); nella guerra civile insieme col figlio combattè coi Pom- peiani : graziati ambedue da Cesare, vissero a Roma. Puberone si occupò di studi storici. 

Seguì la Nuova Ac- cademia anche M. Aurelio Cotta e verso di esso pare inclinasse C. Lutazio Catulo. Il primo (n. 120, m. e. 73 a. C.) fu tribuno della plebe nel 91, visse in esilio dal 91 all'82, ottenne il consolato nel 75 e fu anche pontefice massimo. Appartenne ai più notevoli oratori del tempo suo. Il secondo (n. ec. 150 a. C.) combattè a Numanzia (134-133) sotto Scipione Emiliano e così fu accolto nel suo circolo ; nel 102 fu console con Mario e l’anno seguente partecipò con lui alla vittoria di Ver- celli sui Cimbri. Sorse allora fra loro una mutua gelosia che provocò l’implacabile inimicizia di Mario la quale costrinse Catulo, che era stato dalla parte del Senato, a darsi la morte col veleno (87) per sottrarsi alla con- danna capitale che lo attendeva. Compose epigrammi latini, un liber de consulatu et de rebus gestis suis, che Cicerone loda al pari dei suoi discorsi. Forse seguì la Nuova Accademia anche L. Furio Filo. Questo, nel 155, udì i tre filosofi ; nel 136 conseguì il consolato e ottenne la Spagna come provincia. Nel De Republica di Cicerone ficura come uno dei principali oratori : si dice che avesse l'abitudine di discutere il pro e il contra delle questioni. 

Una personalità assai notevole di questo periodo è quella di P. Nigidio Figulo, senatore nel 63 a. C., pretore nel 58 e ascoltatissimo consigliere di Cicerone nel mo- mento critico della congiura di Catilina; nella guerra civile si schierò col partito di Pompeo e dopo la scon- fitta di questo visse in esilio e vi morì probabilmente nel 45. 

Nella vita politica occupò sempre posizioni se- condarie, ma ebbe fama notevole per l'ampiezza del suo sapere che lo fece ritenere il più dotto dei romani al pari di Varrone, che però lo superava per ampiezza di cultura. Cicerone afferma che ha fatto risorgere il Pi- tagorismo morto da lungo tempo come dottrina filo- sofica ; ma effettivamente era riapparso come Neo-Pita- gorismo in Alessandria, tanto è vero che ad esso appar- tenne Bolos di Mendes (o Bolos Democrito) nel 30 sec. a. C.; quindi l’affermazione di Cicerone va limitata al mondo romano. 

Nigidio Figulo aveva raccolto intorno à sè un circolo pitagorico, che permise ai suol nemici personali di parlare di una factio ; il suo sforzo di fon- dere l'insegnamento di Pitagora (nel quale vedeva un maestro di verità filosofico-religiose, di astronomia e di scienze occulte) con credenze, oltrechè romane, etru- sche e orientali, specialmente babilonesi, suscitò l'accusa di infedeltà alla religione dello stato. Sembra che col- tivasse l'astrologia e la magia e che predicesse al padre di Ottaviano che il figlio che allora gli era nato avrebbe dominato il mondo. Di lui si ricordano i seguenti scritti : Commentarii grammatici di almeno 29 libri; De gestu (una monografia retorica); De dis, di cui è citato il 1. 199, è il primo tentativo di rappresentare tutto il pan- theon romano e precede un’opera simile di Varrone, che ne offuscò il ricordo ; vi si notano intuizioni stoiche, ma è dubbio l'influsso di Posidonio, chiari invece quelli etruschi e astrologici; De ertis, che doveva diffondersi ‘sull'arte augurale etrusca; Augurium privatum, in al- meno 2 libri. È dubbia l'attribuzione a lui di un libro Sulla interpretazione dei sogni. Uno seritto De ventis comprendeva almeno 4 libri. 

Si cita il 4° libro di un'opera De animalibus e il 4° di un De hominum natura. È pro- babile abbia composto un De terris, che sembra fosse un’opera di geografia astrologica. 

La Sphaera era un’o- pera di astronomia e di astrologia che pare includesse una Sphaera graecanica (descriziene delle costellazioni greche) e una Sphaera barbarica (descrizione di quelle dei popoli non greci): probabilmente conteneva predizioni astrologiche. 

Le tendenze mistiche, religiose e superstiziose che lo dominavano dovevano conservarsi in tutto il Neo-Pitagorismo posteriore. 

L'indirizzo pitagorico trovò un fautore in Vatinio, al quale Cicerone (che poi si riconciliò con lui) rimproverò di coprire col nome di Pitagora mostruosità nefande ; e può darsi che a quella scuola aderisse anche lo storico C. Sallustio Crispo (n. ad Amiterno 86 a. C., m. e. 35). Tribuno della plebe nel 52, senatore, fu espulso dal se- nato nel 50 per motivi morali, e probabilmente perchè fautore di Cesare, che lo nominò questore (51), pretore nella guerra africana e proconsole della Numidia (45). Dopo la morte di Cesare abbandonò la vita pubblica per dedicarsi completamente agli studi storici (La con- giura di Catilina, La guerra giugurtina, Le Storie). 

Gli venne rivolta l’accusa di essere stato complice dei sa- crilegi di Nigidio Figulo ; certamente spesso insiste nei suoi scritti sulla opposizione di anima e corpo, parla di un nume divino che veglia sulla condotta dei mortali e accenna a sanzioni nell’oltretomba. È quindi proba- bile che allo storico debba essere identificato quel Sal- lustio che scrisse un Empedoclea per esporre le dottrine del filosofo d’Agrigento, tutte colorate di Pitagorismo. Sesto Clodio, siciliano, retore e maestro del triumviro Antonio, compose in greco un libro sugli Dei e verisimil- mente anche uno seritto contro i nemici dell’alimenta- zione carnea (i pitagorici); ma non si può dire quale indirizzo seguisse. 

Alcuni uomini insigni, senza essere filosofi, nutri- rono interesse vivo per i problemi della filosofia ; ciò si può dire di un membro del circolo degli Scipioni, Lu- cilio, nato (forse nel 180) a Sessa Aurunca da famiglia ricca e distinta. Ebbe un fratello che fu senatore e, per mezzo della figlia, nonno di Pompeo. Deve avere cono- sciuto la cultura greca (di cui si penetrò) nell’Italia meridionale e a Roma, ove passò la maggior parte della vita: forse soggiornò anche in Atene. Come cavaliere partecipò alla guerra contro Numanzia, agli ordini di Scipione Emiliano, con cui aveva già stretti rapporti ; in seguito ne appoggiò energicamente l'azione politica. 

Fece parte, oltrechè del circolo degli Scipioni, di uno più ampio. Deve essere stato amico del neo-accademico Clitomaco, che gli dedicò un libro. Morì a Napoli nel 102. Scrisse 30 libri di.satire, di cui restano frammenti, composte dal 132-131 fino all’epoca della morte. In esse rappresenta e critica la vita romana dell’età sua, interessandosi soprattutto di questioni politiche; ma dei vizi del tempo fu giudice severo. Si occupò molto di problemi grammaticali, retorici e letterari, ma si interessò anche di filosofia, alla quale deve avere dedicato una satira. Nei framm. del l. 28 la teoria epicurea è confutata verisimilmente da un accademico, anche perchè vi si trovano varie notizie sulla storia di tale scuola. La forma e il contenuto dei suoi seritti rivelano l’influsso della filosofia popolare del Cinismo di Bione e di Menippo. 

Un ampio frammento in cui è dipinta l'antica virtù romana, secondo alcuni proviene da Panezio, secondo altri da Cleante: però qualche storico pone Lucilio in relazione con l'Accademia. 

Non filosofi e nemmeno seguaci di un indirizzo determinato, ma persone colte e animate da interessi filosofici furono L. Licinio Crasso e L. Licinio Lucullo : il primo (n. 140, m. 91 a. C.), uno dei più famosi oratori dell'età sua, fu tribuno della plebe nel 107, console nel 95, proconsole della Gallia Cisalpina nel 94, censore nel 92. 

Secondo Cicerone ebbe stretti rapporti con filosofi e con uomini che si appassionavano per i problemi della filosofia, come il peripatetico Staseas, l’epicureo Velleio, lo stoico M. Vigellio scolaro di Panezio. 

Lucullo (n. e. 117?, m. 57?), che si distinse nella guerra sociale come tribunus militum, avendo avuto quale pro-questore sotto Silla nella guerra mitridatica (86) l’incarico di recarsi dalla Grecia in Cirenaica e in Egitto e di raccogliere una flotta, volle avere presso di sè Antioco d’Ascalona in quel pericoloso viaggio sul mare. Pretore nel 77, propretore in Africa nel 76, console nel 74 ottenne il governo proconsolare della Cilicia e il comando della guerra contro Mitridate e sconfisse prima questo, poi il suo alleato Tigrane re di Armenia. Nei sette anni (74-67) del suo comando, batiè con poche forze grossi eserciti nemici; ma per il malcontento dei soldati le cose peggiorarono, sicchè i suoi avversari lo fecero richiamare a Roma (66) ove soltanto dopo tre anni gli fu concesso il trionfo. Lucullo contribuì potentemente all'introduzione della cultura ellenistica in Roma; fu oratore, storico (scrisse in greco un’opera sulla guerra sociale) e si interessò. vivamente per la filosofia, tanto che volle compagno Antioco sia da proquestore che da proconsole e con gli studi filosofici si consolò degli in- successi politici. Forte interesse per la filosofia provò anche un’amica di Cicerone, Cerellia. 

Di Nigidio Figulo e di molti altri autori nominati restano soltanto testimonianze, e di alcuni, pochi fram- menti. Nel primo caso si trova P. Nigidio Figulo, la figura principale fra le minori. Possediamo invece le opere di Lucrezio, il poeta dell’Epicureismo, e di Cice- rone, rappresentante dell’eclettismo ; degli scritti di in- teresse filosofico di un altro eclettico, Terenzio Varrone, abbiamo frammenti abbastanza numerosi. Questo è una figura notevole, sebbene di secondo ordine. Incompara- bilmente superiori a tutti sono i due primi. 

Della vita di LUCREZIO CARO casi nulla sappiamo. 

Sono incerte le date di nascita e di morte, che oscillano dal 99 al 95 a. C. per la prima, dal 55 al 51 per la seconda, avvenuta quando il poeta aveva 44 anni. È incerto il luogo di nascita. 

Recentemente G. Della Valle ha sostenuto che era pompeiano, ma, sebbene abbia difeso con passione la sua tesi, non si può dire che l’abbia dimostrata. 

Secondo una notizia di S. Girolamo, che si suppone attinta a Svetonio, Lucrezio, impazzito per un filtro amoroso, dopo avere seritto in periodi di lucido intervallo alcuni libri (cioè il poema), si sarebbe tolta la vita; ma sul valore di questa testimonianza i pareri sono discordi. 

Si è affermato che Lucrezio era di umili origini, ma pare senza ragione perchè almeno un ramo della gens Lucrezia apparteneva all’aristocrazia di cui faceva parte un Memmio identificato di solito a quel C. Memmio di cui parla Catullo, al quale Lucrezio (che pare gli fosse amico oltrechè protetto) dedicò il suo poema. Secondo $. Girolamo, questo, dopo la morte dell’autore, fu corretto da Cicerone (deve trattarsi dell'edizione curata dall’oratore, che in una lettera al fratello Quinto, seritta nel 54, parla con lode dell’opera che certamente l’autore non aveva riveduto e corretto in modo definitivo). Comunque, siecome rimangono tracce di questo fatto (ad es., ripetizioni) si deve pensare che Cicerone, se pure corresse il poema, limitò fortemente l’opera sua. 

Lucrezio ha esposto dottrine epicuree, con una fedeltà che le ricerche recenti hanno messo sempre meglio in luce, nel De rerum matura, conservando notizie di aspetti degl’insegnamenti del maestro non testimoniati in altro modo. Però egli derivò pensieri anche da altre fonti. In Epicuro, Lucrezio vede ed esalta con en-/ tusiasmo colui che ha liberato gli nomini dall’influsso/ funesto della religione, perchè facendo conoscere la vera natura delle cose, ha disperso le opinioni superstiziosé che ne turbano la vita, cioè la convinzione che gli Dei intervengono ostilmente negli avvenimenti della loro esi- stenza e il terrore della morte, prodotto dalla rappresen- tazione paurosa del mondo d’oltre tomba. Lucrezio si interessa soprattutto di questo ufficio della filosofia epicurea, di assicurare tranquillità alla vita umana, e ciò si comprende meglio quando si ricorda che nell'età sua, alle feroci lotte politiche si unì una profonda crisi religiosa, per cui si diffusero le forme più varie della superstizione e trovarono seguaci culti di origine orientale, e discipline occultistiche, come l'astrologia e la magia. Invece, egli accenna soltanto fuggevolmente alla vera e propria etica del maestro, che ha abitualmente attirato l’attenzione sia dei seguaci che degli avversari. 

La passione severa, ma ardente, dicui Luerezio dà prova in questa polemica anti-religiosa, conferisce all'opera sua un vero e proprio carattere di religiosità sui generis. 

Ma insieme (questo punto è più accennato qua e là che espresso) egli si volgeva appassionatamente alla filosofia per evadere dalle lotte e dalle brutture della vita poli- tica dell’età sua, che però lo interessava in quanto non era affatto indifferente alle sorti del suo popolo. 

Il poema risulta di 6 libri ; nel I° parla dei principi di tutte le cose, gli atomi e il vuoto ; nel II° dei movimenti dei primi e dei composti percepibili che ne risultano ; nel III° e nel IV° dell'uomo (e propriamente nel III° dell'anima e della sua natura mortale, nel IV° dei sensi e dei loro oggetti); nel Vo dell'origine del mondo, della fondazione degli esseri viventi e della storia della ci- viltà; nel VI° di alcuni fenomeni naturali particolar- mente notevoli. Siccome ragioni estetiche giustificano l'ordinamento attuale del poema, non vi è motivo suf- ficente per ammettere che quello originario fosse diverso, ossia che considerasse prima la natura e poi l’uomo (I, TI, V, VI, III, IV o, come alcuno vuole, I, I_, V, VI, IV, Ill). Però l'esposizione del pensiero filosofico richiede che dell’uomo (III, IV) si parli in ultimo. 

Punto di partenza della costruzione sono queste due proposizioni : 1* Nessuna cosa nasce dal nulla (contro la credenza generale degli uomini che, vedendo che molte \cose avvengono di cui non sanno trovare le cause, le attribuiscono all’azione di una Divinità e così sono presi dal terrore davanti ad essa). 2* Nessuna cosa si dissolve nel nulla. Nessun essere perisce effettivamente, nessuno si crea, perchè la nascita di uno ha per condizione la morte di un altro. Occorre quindi ammettere che i corpi visibili risultano di elementi primi invisibili; 6 siccome la realtà presenta processi di movimento, è necessario che esista anche il vuoto in cui essi sono collocati, il quale ne costituisce la condizione. 

I corpi si distinguono nei principi primi delle cose e nei loro compiti. I primi sono indistruttibili ed eterni per la loro solidità, cioè perchè non includono vuoto ; perciò le parti omogenee di cui risultano sono indivisibili. Ossia sono atomi, e sono piccolissimi e quindi impercettibili. Infinito è il vuoto in cui i principi (0 atomi) si muovono eternamente, e illimitata pure è la somma di essi. L'ordinamento attuale delle cose è stato preceduto da processi di movimento e di combinazione di atomi di ogni specie, dai quali le condizioni presenti sono. risultate. 

Dello studio dei movimenti incessanti degli atomi, della forza che li determina, degli effetti che ne proven- gono basterà ricordare alcuni concetti. I principi delle cose sono trasportati o dal loro peso o dall’urto di altri. Un movimento di particolare importanza è il clinamen, cioè la declinazione degli atomi dal movimento in linea retta attraverso il vuoto che è determinato dal peso : in questo punto certamente Epicuro, seguito da Lucrezio, si oppose a Democrito, anzi a tutti i filosofi del- l’antichità. In un momento di tempo e in un punto dello spazio indeterminati gli atomi debbono scostarsi lievis- simamente dalla verticale, perchè altrimenti non po- trebbero urtarsi e la natura non avrebbe mai nulla generato e tutto sarebbe sottoposto alle leggi del fato, nè esisterebbe quella libertà che appartiene a tutti gli esseri animati, per cui la loro volontà dirige i movimenti che compiono. Siccome tale potere è insito in noi, oc- corre che derivi da una simile causa naturale nei semi delle cose, perchè nulla può nascere dal nulla. Per questa/ ragione sia la qualità totale della materia, che quella del movimento, restano eternamente identiche ; ma molti dei secondi sono invisibili per la piccolezza degli atomi! Questi presentano forme diverse e tale varietà e le differenze della loro piccolezza permettono di spiegare le proprietà sensibili delle cose. Però la varietà delle figure dei principi è finita, sebbene siano infiniti quelli che hanno forme simili. Per questa loro infinitezza esiste nell’eternità una lotta continua tra le forze vitali e quelle opposte, sicchè ora sono superiori le une, ora le altre e le morti e le nascite si mescolano. Ogni corpo risulta di più principi diversi; ma non tutte le combinazioni possono verificarsi, nè esse sono infinite in numero, altrimenti si genererebbero esseri mostruosi. Gli atomi non posseggono colori; questi derivano dalle loro diverse forme, dalle loro combinazioni, dalle loro posizioni e dai movimenti che s'imprimono reciprocamente; e la stessa cosa si «deve ripetere per il caldo, il freddo, i sapori, gli odori, i suoni. In generale, tutto ciò che è perituro (come le proprietà sensibili) non può essere attribuito ai principi se si vuole che le cose poggino su basi immortali. Gli esseri forniti di senso consistono di principi insensibili, come mostrano molteplici fatti ; ad esempio, dalle uova derivano pulcini. Se nello spazio infinito si aggirano in molteplici modi con movimento eterno innumerevoli semi delle cose, non si può pensare che siano stati creati soltanto questo cielo e questa terra, quindi debbono esi- stere altri raggruppamenti di materia simili al nostro mondo, e in altre parti dell'universo altre terre, e vivere genti umane e altre specie di fiere: ma ogni cosa avviene per l’azione libera e spontanea della natura senza l’inter- vento di forze divine. Ma il nostro mondo, come nasce e cresce, grazie ai corpi estremi che si aggiungono a quelli simili che vi si trovano, così invecchia e già nel- l'età nostra ha le forze indebolite, e noi assistiamo al progressivo isterilimento della terra che crea e produce sempre meno. Come ogni cosa, anche il nostro mondo si avvia verso la fine. 

Nel V libro Lucrezio, trattando dell’origine del no- stro mondo (la terra e i corpi celesti che la circondano) e degli esseri viventi, si occupa in modo particolare dell’uomo, della lingua, della religione e dello sviluppo della civiltà umana. Il mondo è perituro, la terra e i corpi celesti che l’attorniano non sono animati e perciò non sono guidati nei loro movimenti da una mente divina, bensì dalla natura. Gli Dei hanno corpi tenui e intangibili, le loro sedi hanno gli stessi caratteri e perciò si trovano fuori del nostro mondo [negli inter- mundia). Gli Dei non hanno formato il mondo per gli uomini : su tale punto Luerezio arreca molte prove e tra le altre questa : che troppi sono i difetti del mondo per ciò che riguarda i bisogni dell’uomo e troppo misera è la condizione umana perchè si possa pensare a una pro- duzione divina. Effettivamente il mondo non è perenne, ma è soltanto ai suoi inizi, come mostrano i progressi delle arti e delle scienze. Il mondo si è formato non per uno scopo dei principi delle cose, ma grazie al loro accozzamento fortuito determinato da movimenti di ogni genere prodotti dal loro peso ; la condizione attuale è stata preceduta da combinazioni e da movimenti di tutte le specie, a partire da uno stato in cui tutto era confuso e informe. In questo studio cosmologico Luerezio, seguendo il maestro, offre diverse ‘spiegazioni possibili degli stessi fatti, senza ricercare quale sia preferibile. Parlando della formazione degli esseri viventi, Lu- crezio, che riprende una teoria di origine empedoclea, afferma che la terra da prima produsse molti animali mostruosi che perirono o perchè non erano capaci di riprodursi o perchè non potevano difendersi nè otte- nere la tutela dell’uomo. Mai però si produssero mostri costituiti di membra di specie diverse, perchè tutte le cose sottostanno a leggi fisse della natura. 

La vita umana era da prima selvaggia e soltanto gra- datamente si è svolta la civiltà. Il linguaggio non deriva da convenzioni arbitrarie, ma si è formato partendo da | suoni naturali. La religione e il culto hanno avuto ori-/ gine da visioni che gli uomini hanno avuto, specialment nei sogni, di esseri più belli e più forti di loro, ai quali hanno attribuito vita perenne e felice : ad essi hannò assegnato l'ordinamento dei cieli di cui non potevano conoscere le cause. Perciò supposero che tutto dipen». desse dal volere degli Dei, dei quali collocarono le sedi nel cielo. Ma, attribuendo queste azioni agli Dei e inoltre acerbe ire, quanti mali si è procurato l’infelice genere umano! Così si è generato il terrore dell’intervento divino nel corso della natura. Gradatamente vennero fatte scoperte utili alla vita e si formarono e svolsero le istituzioni sociali, le arti utili e belle, le scienze, ma insieme si generarono cupidigie, ambizioni, guerre, sicchè l'umanità si affatica sempre invano perchè ignora quale sia il limite del possesso e fino a qual punto possa ere- scere il vero piacere. È qui palese una nota di pessimi- smo che, del resto, non manca in Epicuro. Nel libro VI Lucrezio vuol dare la spiegazione di fatti di difficile 

interpretazione che si presentano sulla terra e soprat- tutto in cielo : di essi, per ignoranza delle cause, gli uo- mini considerano autori gli Dei che così si rappresentano come padroni crudeli, mentre effettivamente conducono una vita senza cure e perciò non si occupano delle fae- cende umane ; per tale scopo parla dei fenomeni celesti, che ineludono quelli meteorologici (in questa parte si riconoscono derivazioni da Teofrasto e da Posidonio), dei terremoti, delle eruzioni vulcaniche, delle inonda- zioni del Nilo e di altre stranezze della natura, delle cause delle malattie e chiude il poema colla descrizione, che segue quella di Tucidide, della peste che desolò Atene nel tempo della guerra peloponnesiaca. Però, come si è detto, si è alterato l’ordine dell’esposizione per collegare le dottrine naturalistiche. 

La trattazione dell’uomo nel III libro comincia con lo studio dell’attività spirituale o mente (animus) e della forza vitale (anima), che mira a disperdere i terrori dell’Acheronte i quali perturbano e avvelenano l’esi- stenza. Dalla paura della morte provengono in gran parte le colpe degli uomini, che diventano criminali per il desiderio delle ricchezze e degli onori, in quanto senza di essi, ritengono la vita un soggiorno davanti alle porte del Tartaro. Il terrore della morte spinge gli uomini a tradire la patria, i parenti, gli amici, talvolta a odiare la vita e a privarsene. È quindi necessario disperdere questo terrore e queste tenebre dell'anima, con la visione e la interpretazione della natura. E da prima si deve stabilire che la mente o spirito che governa la vita, e l’anima, sono parti del corpo non meno della mano e del piede. L’uno e l’altra sono intimamente congiunti © formano una sostanza sola; però la mente, che ha sede nel petto (infatti ivi risiedono il timore e la gioia) tutto dirige, mentrel’anima, sparsa ovunque nel corpo, si muove secondo il suo impulso. La prima può conoscere e ralle- grarsi o soffrire soltanto per sè, e, movendo l’anima, agire sul corpo. Ma da ciò e dal fatto che la prima subisce le im- pressioni del corpo, risulta che ambedue hanno] natura corporea. Siccome la mente è rapidissima, deve essere costituita di semi (elementi) insieme sommamente ro- tondi e sommamente minuti. Però la sostanza della mente e dell’anima non è semplice, ma risulta di quattro principî : vapore, calore, aria e un quarto privo di nome, la sostanza più mobile e tenue che vi sia, composta de- gli elementi più piccoli e più lisci, che mette in moto gli altri tre. Questa sostanza, che inizia i movimenti della sensazione e li comunica agli altri elementi, si na- sconde profondamente nell’interno del nostro corpo, forma l’anima di tutta l’anima e governa l’intero organismo. La sostanza dell'anima è custodita da tutto il corpo che a sua volta essa custodisce e di cui determina la salute, perchè sono intimamente congiunti e non possono separarsi senza perire: hanno la stessa origine e vita comune. Senza l’a- nima il corpo non può persistere oltre la morte, e l’ani- ma senza di esso non può sentire perchè il senso dipende dalla congiunzione dei loro movimenti. Ma più dell’anima la mente domina la vita, perchè quando è assente, l’a- nima ne segue la fuga dal corpo, che è preso dalla morte, mentre essa si disperde nell’aria. In tutti gli esseri ani- mati, la mente e l’anima nascono e muoiono: e sulla loro mortalità Lucrezio insiste a lungo, sforzandosi di accu- mularne le prove, derivate soprattutto dalla loro con- nessione col corpo e con le sue condizioni. Del resto, se l’anima fosse immortale, dovrebbe ricordarsi della sua esistenza precedente e delle azioni che ha compiuto. 

Se l’anima passasse da un corpo all’altro, non si spie- gherebbe la trasmissione ereditaria dei caratteri propri dei diversi animali, come la violenza nei leoni, il timore nei cervi, e non si intenderebbe perchè certe doti si for- mino soltanto col passare del tempo. Come poi si può comprendere che un essere immortale e perenne possa unirsi a una natura mortale? Inoltre, possono restare eterni soltanto o corpi solidi e impenetrabili come gli atomi, o ciò che, come il vuoto, permane intangibile e non patisce urti, o che, come l’universo, non è incluso in un luogo in cui le cose si possano dissolvere, nè esi- stono corpi capaci di urtarlo e di disgregarlo, mentre l’anima non corrisponde a nessuna di queste condizioni. 

Da ciò segue che, essendo mortale la sostanza dell’anima, la morte non ci riguarda affatto; e come prima di na- scere non abbiamo provato dolore quando i Cartaginesi minacciavano di distruzione Roma, così, quando non saremo più, nulla potrà colpirei. Si deve dunque com- prendere che nulla si deve temere dalla morte, che chi non è non può diventare infelice. Quindi, chi si rattrista per ciò che subirà il suo cadavere dopo la morte e perchè pensa che non godrà più le gioie della vita, anche incon- sapevolmente ritiene che qualche cosa di lui esisterà ancora. D'altra parte, coloro che, per la brevità delle gioie nmane, spingono a cercare il godimento nel vino (cioè gli epicurei volgari) non considerano che dopo la morte la sete non li tormenterà più. Se la stessa Natura dicesse ad alcuno di noi : « Se hai potuto godere in pas- sato, perchè non ti ritiri dalla vita, come un convitato soddisfatto? Se invece la tua esistenza passata è stata piena di sofferenze, perchè vuoi prolungarla, mentre io non posso escogitare nulla di nuovo per compiacerti, e le cose restano sempre le stesse? », egli potrebbe ri- spondere soltanto che essa dice il vero. Le generazioni si succedono e si lasciano successivamente il posto : la vita non è data a nessuno come proprietà, ma è con- cessa a tutti perchè ne usino. La natura ci mostra nel periodo del tempo eterno che ha preceduto la nostra na- scita lo specchio di quello che sarà il futuro dopo la nostra morte : in ciò non vi è nulla di orribile, esso è anzi qualche cosa di più tranquillo di qualunque sonno, 

Del pari, gli orrori dell’Acheronte si presentano tutti nella nostra vita, perchè qui il vano terrore degli Dei, il timore dei colpi del destino torturano i mortali, qui l'amore, la gelosia li consumano : questi sono i tormenti di cui le pene d’oltretomba sono raffigurazioni. In questa vita esistono tremende punizioni per misfatti insigni, e anche senza di esse l’anima consapevole dei suoi delitti si flagella e teme che i suoi mali si aggravino nella morte. 

Infine, qui la vita degli stolti diventa un inferno. D'altra parte, tutti, anche i più potenti, anche i più sapienti come Epicuro, sono stati presi dalla morte; perchè 

deve indignarsi di ciò chi è tanto inferiore a loro? Se gli uomini potessero conoscere la cause del male che pesa sul loro cuore non vivrebbero, come fanno i più, igno- rando ciò che vogliono, e non cercherebbero sempre di mutare luogo e condizione per sfuggire se stessi, ma si sforzerebbero di conoscere la natura delle cose, perchè ciò che è in discussione è lo stato dell’eternità, in cui tutti i mortali debbono restare dopo la loro morte. Se poi il fine della vita è fissato per tutti, e vicino, e inevi- tabile, perchè tanto timore nei pericoli? Inoltre ei ag- giriamo sempre intorno allo stesso punto, nè possiamo, vivendo, procurarci aleun piacere nuovo. In ultimo, per lunga che sia la nostra vita, è sempre un nulla rispetto al tempo illimitato che seguirà la nostra morte. 

Il IV libro tratta da prima dei sensi e dei loro 0g- getti, poi delle conoscenze della mente, e comincia con lo studio dei fenomeni della vista, che, secondo una teoria di origine empedoclea, che però Epicuro ha de- rivato da Democrito e da Leucippo, li spiega per mezzo di immaginette (eldo2a, effigies, imagines, simulacra) costituite da atomi emananti dagli oggetti: un’imma- ginetta singola per la sua minutissima struttura non può essere vista dagli occhi, che avvertono soltanto una suc- cessione incredibilmente rapida di simulacri : e in modo simile egli dà ragione degli odori, dei sapori, dei suoni : si tratta di processi di contatto affini a quelli del tatto. 

Gli errorì che si attribuiscono ai sensi derivano dalla mente : così una torre quadrata vista da lontano appare rotonda perchè gli angoli delle sue immaginette sono logorati dall’aria nel loro percorso ; in questo e in altri casi simili non ingannano i sensi, ma la mente che ag- giunge ai loro dati le proprie opinioni. Il concetto della verità ha avuto la prima origine dai sensi, che non si possono respingere perchè occorrerebbe sostituirli con qualche altro [criterio] più degno di fede, capace di con- futare il falso col vero. Ma che cosa è più degno di fede dei sensi? Non certo il ragionamento che ne deriva e che perciò, se essi sono falsi, è pure falso ; nè un senso può confutare l’altro, perchò ciascuno ha il proprio ufficio e deve decidere di determinate proprietà delle cose. Essi non possono confutare sè stessi in momenti successivi, perchè meritano sempre la stessa fede e ciò che ogni volta è apparso loro vero, è vero. Se si nega fede ai sensi, non soltanto la ragione, ma la vita stessa rovina. Ma anche la mente ha conoscenze sue proprie. Molte imma- ginette si muovono in tutte le direzioni ed essendo te- nuissime, si combinano facilmente : esse, penetrando per gli interstizi del corpo, eccitano la sostanza della mente, sicchè noi vediamo mostri e immagini di morti. Le stesse cose accadono nel sogno; allora i sensi sono ostruiti e riposano e non possono confutare il falso col vero e langue anche la memoria, che è incapace di smentire quelle visioni ricordando che è morto colui che la mente erede di vedere vivente. I movimenti del corpo si spie- gano in questo modo: immaginette di movimento colpi- scono la mente e si forma la volontà di muovere il corpo. 

Allora la mente agisce sull’anima che muove il corpo. 

Il libro IV si chiude con la descrizione dell’amore che è determinata dall’impulso sessuale, furore che non si soddisfa mai e reca dolori, tormenti, gelosie. 

L’analisi del poema lucreziano mostra che lo studio dei problemi morali, che aveva tanta parte nell’opera di Epicuro, non è affrontato direttamente e in modo sistematico. In un passo del II libro (vv. 14 sgg.) si ripresenta la tesi fondamentale del maestro, che la natura esige soltanto per il corpo l'assenza di dolore e per lo spirito un senso di letizia privo di preoccupazioni e di timori e si afferma che il corpo esige poche cose che, mentre tolgono il dolore, possono arrecargli molte gioie ; con poco si soddisfano la fame e la sete. Altrove (III vv. 59 sgg.) si collegano al timore della morte, il desiderio delle riechezze e degli onori (che spinge gli uomini alla violazione del diritto e ai delitti), in quanto una vita povera e oscura sembra posta davanti alle porte della morte. Più oltre si afferma che le pene dell’Ade sono soltanto immagini dei desideri e delle passioni che torturano l’uomo in questa esistenza. Ma l’atteggia- mento che Lucrezio assume di fronte alla vita si rivela soprattutto nell’ultima parte dello stesso libro (vv. 1076 sgg.). Come ha osservato il Bréhier, Luerezio non si limita al pari di Epicuro a liberarci dal terrore del- l’oltre tomba, ma vuole proteggerei anche dall’orrore del nulla con la meditazione della « morte immortale ». 

Egli insiste sulla monotonia delle cose e così suggerisce più che l’intrepidità davanti alla morte, il disgusto della vita, valendosi di motivi delle diatribe dei cinici. In Epicuro, come in tutti gli edonisti, il pessimismo era implicito, perchè il piacere richiede un continuo supe- ramento del dolore; ma questo pessimismo nel grande di- scepolo si afferma imperiosamente e diventa, si può dire, il motivo ispiratore della visione della vita. In questo pensiero doloroso e nel pathos intenso che ispira la sua polemica contro la religione, concepita come fonte di terrori e di mali, risiede l’aspetto più originale del- l’opera di Lucrezio. 

Per le fonti, ha attinto certamente, oltre che a Epi- curo, a Empedocle, a Tucidide (per la descrizione della peste di Atene) ; inoltre si sono riconosciuti altri influssi (Eraclito, Senofane, Democrito, Aristotele, Teofrasto, Posidonio, Filodemo), ma in ogni caso hanno minore importanza. 

Ben presto l’arte di Lucrezio destò ammirazione, anche se non mancarono le riserve e le limitazioni e soltanto Ovidio mostrò di apprezzarlo degnamente; è . certo, però, che quasi tutti i poeti dell'età augustea, come Virgilio, Properzio.... aspirarono, anche momentaneamente, a gareggiare con lui. Egli agì pure su prosatori, come Seneca ; e Tacito attesta che alcuni lo preferirono a Virgilio. Nella prima età cristiana gli scrittori, anche se lo eriticarono, lo studiarono e lo imitarono ; ma dopo Rabano Mauro venne ignorato. Quando nel 1417 Poggio Bracciolini lo riscoprì, Lucrezio suscitò l’ammirazione e lo studio degli Umanisti e dei poeti (per es. del Poliziano e del Pontano) e ispirò anche all'arte del Botticelli la figura di Venere nella Primavera. È probabile che G. Bruno abbia derivato da lui la concezione dell’infinito. Verso il 1600 Lucrezio attirò l’interesse dei pensatori francesi e per suo mezzo il Gassendi ritornò ad Epicuro, determinando, come reazione, 1’ Antilucrezio del Polignac (edito postumo nel 1747). Nel 1700 e nel 1800 sì interessarono di lui anche i tedeschi (Kant, Winckelmann, Herder, Schlegel, soprattutto Goethe) e gli inglesi (Byron, De Quincey, Browning, Tennyson). In Italia lo ammirò assai il Foscolo. Lo studio filologico si iniziò nel 1845, quando il Lachmann cominciò ad occuparsi di lui, aprendo la via a numerose ricerche di studiosi di tutto il mondo. 

M. Terenzio Varrone (n., pare a Rieti, nel 116, m. nel 27 a. C.), fu triumviro capitale, questore (86 ?) legato, propretore di Pompeo, nella guerra contro Sertorio (76 8g.) tribuno della plebe, pretore (68?) legato di Pompeo nella guerra contro i pirati ed ebbe altri uffici impor- tanti. Da prima, nella guerra civile, fu legato di Pompeo in Ispagna e si trovò a Durazzo con Cicerone e Catone ; ma poi si astenne dal parteciparvi e si pacificò con Ce- sare che doveva avere già conosciuto. Il dittatore (al quale dedicò nel 57 le Antiquitates rerum divinarum) gli affidò l’incarico di organizzare una pubblica biblio- teca che però non venne attuata. Nel 43 fu prosceritto da Antonio ; potè sottrarsi alla morte, ma le sue biblioteche vennero saccheggiate. Negli anni che seguirono la guerra civile scrisse le opere più importanti. Ancora vivente, fu giudicato il più dotto dei romani ed effettivamente dominò tutto il sapere del tempo suo, greco e romano : per lui lo studio era un bisogno. Fu soprattutto uno stu- dioso delle antichità romane che volle rendere familiari ai suoi concittadini, valendosi dei procedimenti scien- tifici usati dai greci e insieme mirò a far conoscere in Roma le grandi opere della erudizione ellenica. Ma non voleva mentre teneva l’occhio fisso sulla vita pas- sata di Roma, rappresentarla soltanto, ma con quello studio, esercitare un’azione sul presente. Le sue opere hanno costituito il tesoro cui hanno attinto in seguito, per secoli e secoli, quanti si sono occupati di antichità romana, e hanno così esercitato un’azione fondamen- tale sulla cultura posteriore. Fino al 77° anno di età scrisse 490 libri, e non si può dire quanti ne abbiacom- posti poi. Opere in prosa: Libri tres rerum rusticarum, scritti a 80 anni. Scritti grammaticali : Principale il De lingua latina, in 25 libri, di cui restano soltanto sei. Scritti di storia letteraria : si possono ricordare: De poematis, in 3 libri: De poetis (storia di poeti romani), De se@e- nicis originibus, in 3 libri (sulle origini del teatro); De actionibus scaenicis, in 3 libri; Quaestionum Plautinarum libri V. Scritti archeologici e stoici : Antiquitates rerum humanarum et divinarum in 41 libri, l’opera più letta nell’antichità; Annalium libri III. Fra le opere politiche : De Pompeio in 3 libri; Legationum libri ITI. Scritti di geografia, di agraria, di retorica, di diritto (fra i quali De iure civili, in 15 libri). Il primo tentativo di un’enciclopedia includente le arti liberali. Discipli- narum libri IX (1. De gramatica. 2. De dialectica. 3. De rhetorica. 4. De geometria. 5. De arithmetica. 6. De astrologia. 7. De musica. 8. De medicina. 9. De architec- tura). Con lo studio delle humanae artes l’uomo doveva essere educato ed elevato dalle cose inferiori alle supe- riori. Scritti di oratoria : Orationes, in 22 libri, Swasio- nes, in 3 libri, De lectionibus, in 3 libri. Scritti filosofici : Liber de philosophia (sul fine della filosofia); De forma philosophiae libri III (principî di filosofia) ; De principiis numerorum libri TX (esposizione delle teorie pitagoriche sui numeri) ; i Logistorici in 76 libri: ogni trattazione portava due titoli, il nome di una persona e l'indicazione del contenuto (per es., Cato, de liberis educandis). Ne danno notizia scrittoposteriori. Secondo alcuni studiosi erano prose in cui dottrine filosofiche si univano a esemplificazioni stori- che, secondo altri, dialoghi (A6yot) che confermavano con l'esposizione storica tesi filosofiche. Riguardavano argo- menti d’interesse generale come il culto degli Dei, l’edu- cazione dei figli: Opere in poesia: Forse 4 libri di Saturae; 6 libri Pseudo-tragoediarum (tragedie da lettura); 10 libri di Poemata, o brevi carmi, È dubbio un poema didascalico. 

Miste di prosa e di versi erano le Saturae Menippeae in 150 libri in cui Varrone, a quanto si è pensato, avrebbe preso a modello Eraclide Pontico, Nelle Menippee, di cui restano frammenti, Varrone satireggiava i corrotti costumi dell’età sua, posti in contrasto con la vita sem- plice e sana del buon tempo antico. Gli argomenti trat- tati erano talvolta politici, ma soprattutto morali. Le Menippee parlavano anche ripetutamente di argomenti filosofici, come le differenze e i contrasti delle varie scuole. 

Varrone dichiara di accettare la filosofia accademica di Antioco di Ascalona, di cui era stato scolaro, ma effettivamente era un eclettico. Seguì lo Stoicismo, specialmente di Panezio, nello studio della mitologia, e di Posidonio in quello della scienza della natura. Dal Pitagorismo accolse la tendenza verso la concezione mistica dei numeri, dal Cinismo, l'esaltazione della vita semplice e la condanna del desiderio del lusso e del piacere regnante nell’età sua. Negli studi letterari accettò dottrine peripatetiche. S'interessò soprattutto per i problemi dell'etica. Per lui, movente della filosofia è la ricerca dell’eudemonia: le differenze importanti delle scuole filosofiche sono soltanto quelle che riguardano la concezione del fine della vita. Sotto questo rispetto, distingueva 288 indirizzi filosofici possibili, riducibili a 3 classi principali; infatti, il problema fondamentale è quello di determinare quale rapporto si debba porre fra la virtù e ciò che è primo secondo natura : sono la prima fine e il secondo mezzo, o viceversa, o ambedue sono fine per sè? Siccome si tratta del bene supremo dell’uomo, che risulta di anima e di corpo, esso deve includere i beni dell’una e dell’altro ; sia la virtù che il primo per natura, sono desiderabili per sè. Ma il supremo bene è la virtù che è l’arte di condurre la vita, acqui- stata con lo studio. Però, siccome inelude in sè anche ciò che è il primo oggetto dell'impulso naturale, desidera anche questo per sè stesso ; essa considera sè come il bene più alto, ma possiede anche gli altri e sa assegnare a ciascuno il posto che gli spetta. Il possesso della virtù e dei beni dell'anima e del corpo che ne sono le condi- zioni costituisce la vita beata ; se le si aggiungono quelli di cui la virtù può fare a meno, si ha la vita beatior ; se poi non manca aleun bene dell'anima e del corpo esiste la vita beatissima. La vita beata deve esplicarsi in rap- porti sociali sempre più vasti che vanno dalla famiglia all'universo e realizzarsi in una connessione di attività teoretica e pratica. I principî dei beni e dei mali però non debbono essere puramente verosimili, ma superiori a ogni dubbio. In tutte queste teorie Varrone si mantiene nelle linee direttive della filosofia di Antioco : e forse segue questo anche quando, avvicinandosi allo Stoi- cismo, materialisticamente vede nell'anima un pneuma. Aderiva allo Stoicismo nelle dottrine teologiche in cui identificava Dio all'anima del mondo, le eni parti (cioè le anime che reggono le divisioni dell'universo) sono gli Dei celesti, gli eroi, i lauri e i geni. Con Panezio e Mucio Scevola, Varrone distingueva i tre generi di teo- logia, di cui si è già parlato. Mentre criticava vivace- mente la mitologia dei poeti, osservava che le dottrine dei filosofi discordano fra loro e riteneva che avessero one coloro che ammettevano una sola Divinità, l’Anima del mondo. Quanto alla teologia politica (cioè l'insieme delle istituzioni religiose degli stati), pure ri- conoscendovi elementi eriticabili, riteneva che fosse ne- cessario conservarla per l’utilità della massa. Neanche in ciò si può trovare alcunchè che oltrepassi lo Stoicismo di Panezio, che si poteva conciliare benissimo coll’eclet- tismo di Antioco. 

M. Tullio Cicerone nacque in Arpino, la patria di Mario, il 3 gennaio 106 a. C., da una famiglia di possi- denti. Ricevette a Roma l'insegnamento di M. Antonio e L. Crasso nell’arte oratoria, dei due Mucio Scevola ‘ (l’augure e il pontefice) nella giurisprudenza, dell’epi- cureo Fedro e del neo-accademico Filone nella filosofia. 

Ma il fine era quello di diventare un oratore e ad esso erano subordinati gli altri studi, considerati mezzi necessari per conseguirlo. Verso venti anni, Cicerone iniziò la sua attività di scrittore e di avvocato ; però, per completare la sua cultura, al pari di molti altri giovani romani, si recò in Grecia e in Asia (79-77). In Atene ascoltò diversi maestri di filosofia e di eloquenza e altri ne udì in Asia e a Rodi. Ritornato a Roma, riprese la sua opera di patrono e nel 75, raggiunta l’età legale, ottenne la questura e l’amministrazione della Sicilia occidentale. 

Nel 70, per fare cosa grata ai siciliani che aveva cono- sciuto, sostenne l'accusa che essi rivolgevano a Verre, di avere come propretore dell’isola (dal 78 al 71) com- messo abusi di ogni sorta a loro danno. Sebbene Verre fosse difeso da uno dei più autorevoli rappresentanti del partito senatorio, Q. Ortensio, dovette spontanea- mente recarsi in esilio per sottrarsi a una condanna sicura. Nel 69 Cicerone fu edile curule, nel 66 pretore con la giurisdizione sui processi de repetundis, nel 63 console. In tale anno si formò la congiura di Catilina che Cicerone riuscì a soffocare ; ma se così toccò l’apice della sua carriera politica, si preparò una serie di sventure per il futuro. Fu considerato strumento dell’oligarchia se- natoria e accusato di aver fatto uccidere senza processo cittadini romani, sicchè i triumviri (Cesare, Pompeo, Crasso), per toglierlo di mezzo, si valsero del tribuno Clodio perchè proponesse che chi avesse agito così fosse esiliato. Cicerone spontaneamente abbandonò Roma e la condanna venne pronunciata contro lui assente. La sua lontananza dalla capitale (aprile 58 - agosto 57) ter- minò quando, per un decreto dei comizi centuriati, fu richiamato, ma ben poco potè fare, sicchè la sua attività politica venne interrotta. Ritornato a Roma dopo essere stato proconsole in Cilicia (51-50) si trovò involto nella guerra civile fra Cesare e Pompeo; per qualche tempo esitò, poi si decise a seguire Pompeo a Durazzo, quan- tunque comprendesse che il conflitto si sarebbe rivolto in ogni modo con la caduta della libertà. Dopo Farsaglia, si recò a Brindisi sperando di ritornare a Roma, ma là dovette attendere (ottobre 48-agosto 47) il ritorno di Cesare, che lo trattò molto bene e gli concesse di attuare il suo progetto. Però di nuovo Cicerone dovette tenersi lontano dalla vita pubblica, che (dopo diverse sventure domestiche, principalmente la perdita della dilettissima figlia Tullia, nel febbraio 45) gli si riaprì con la morte di Cesare (15 marzo 44). Ma ciò produsse la sua fine ; infatti, essendosi opposto con violenza ad Antonio, che assalì aspramente nelle Filippiche, venne ineluso dai triumviri (Ottaviano, Antonio, Lepido) nelle liste di pro- serizione e ucciso il 7 dicembre 43 nella sua villa di Formia dai sicari di Antonio. 

Si può dire che dalla prima giovinezza sino alla fine della vita, Cicerone abbia coltivato gli studi filosofici ; ma gli interessi che provò per essi non furono sempre gli stessi. Da prima, il desiderio di emergere nella vita politica di Roma per mezzo dell’eloquenza (la via più adatta per un Romo novus), bene lo aveva indotto a ricer- care in un’ampia cultura, che includeva una certa cono- scenza della filosofia, il mezzo migliore per conseguire il suo scopo. Si comprende quindi perchè il giovane Ci- cerone (il quale del resto aveva avuto come primo mae- stro il grammatico Elio Stilone, seguace dello Stoicismo e che, terminati gli studi, era stato dal padre affidato, nel suo tirocinio giuridico e politico, a due giureconsulti insigni che appartenevano alla stessa scuola e che aveva già avuto rapporti con l’epicureo Fedro) abbia seguito l'insegnamento del capo della Nuova-Accademia, Filone di Larissa, che si era recato allora a Roma (88 a. C.). 

Ma gradatamente, pure vedendo nelle discussioni filo- sofiche un esercizio utile alla sua attività di oratore (s0- prattutto l'abitudine dei neo-accademici di sostenere rispetto a una tesi il pro e il contra gli sembrava uno stru- mento prezioso per quello scopo) comincia a interessarsi direttamente per gli argomenti trattati e ad apprezzarne l'importanza. In quel tempo segue l’insegnamento di dialettica dello stoico Diodoto. Nove anni dopo, nel 79, riprende gli studi filosofici ascoltando le lezioni di An- tioco di Ascalona, l’antico discepolo di Filone di Larissa e poi suo avversario ; ciò non impedisce di seguire a Cicerone l'insegnamento di due maestri epicurei, Fedro e Zenone. A Rodi studia rettorica con Molone: ma è probabile che là conosca lo stoico Posidonio che dovrà poi ricordare fra i suoi maestri e che a Roma sarà un suo familiare. Ritornato nell’Urbe, rientra nella +vita pubblica e ad essa dedica le proprie attività migliori; ma i suoi discorsi, in cui sono abbastanza frequenti gli accenni a questioni filosofiche, mostrano che non tra- seura gli antichi studi ai quali lo riconducono le rela- zioni di amicizia che lo stringono a uomini che, come Attico, Varrone, Catone, Bruto, s’interessavano per esse. 

Quando, dopo il primo triumvirato, fu costretto a interrompere la sua attività politica, serisse di argomenti collegati con la filosofia, componendo opere retoriche e politiche, il De oratore (55); il De republica (54), il De legibus (52). (Egli incluse i suoi scritti retorici tra quelli filosofici, ed effettivamente cercò di mettere in evidenza la necessità di collegare l’eloquenza con la filosofia). 

Questi scritti però non avevano carattere essenzialmente filosofico. Dopo le vittorie di Cesare sui pompeiani, Cicerone deve astenersi dal prender parte alla vita pub. blica ed è rattristato, oltre che dalle sofferenze di cittadino per la perdita della libertà romana, da dolori familiari e da preoccupazioni economiche : si volge al- lora agli studi filosofici per trovarvi conforto, per espli- care in modo degno di lui le sue attività intellettuali. 

Ma principalmente voleva servire la sua patria, sia of- frendole quella letteratura e quel linguaggio filosofico che ancora le mancavano (perchè gli seritti degli epicurei romani erano secondo Cicerone, non soltanto errati nel contenuto, ma anche difettosi nella forma), sia ammae- strando i giovani, se non altro i migliori, a vincere in se stessi la decadenza morale del loro tempo e a prepa- rarsi così a esercitare un’azione benefica nello stato. 

I primi seritti di quest'epoca, però (le Partitiones oratoriae, il Brutus [46], i Paradowa stoicorum [46], con- siderati dall’autore un’esercitazione retorica, l’Orator [46], riguardavano la rettorica, pur collegandola con la filosofia; ma subito dopo l’ultima opera, se non anche prima, sembra che Cicerone abbia concepito il programma di presentare ai suoi concittadini in forma facilmente accessibile il contenuto complessivo della filosofia; ma l'attuazione di quel proponimento (iniziata con la com- posizione dell’Hortensius, probabilmente alla fine del 46) fu interrotta dalla morte della figlia Tullia (feb- braio 45). Affranto dal dolore, Cicerone allora si isola nella solitudine della sua villa di Astura presso Anzio e si immerge nella produzione filosofica, serive sia di giorno che di notte perchè il sonno lo sfugge, sicchè in quell’anno e nel seguente compone la Consolatio, gli Academica, il De finibus, le Tusculanae Disputationes, la traduzione di parti del Zimeo, il De natura Deorum, il Cato Maior de senectute, il De divinatione, il De fato, il De gloria, il Laelius de amicitia, i Topica e, infine, nel novenbre 44, il De officiis. Seguiva il De virtutibus, perduto. L’Hortensius costituiva un protrettico alla filosofia, gli Academica espongono la teoria della conoscenza, il De finibus, le Tusculanae, presentano l’etica generale. Il De senectute, il De amicitia, il De gloria, considerano argomenti etici speciali : il De officiis e il De wirtutibus trattano dell’etica applicata. Alla fisica, 0 filosofia della natura, che includeva la teologia, si ri- feriscono il De natura Deorum, il De divinatione, il De fato. Dell’opera principale, invece, restano soltanto fram- menti della introduzione a un dialogo e della traduzione di una parte del Zimeo. I Z'opica sono uno seritto di occasione.

Gli scritti filosofici di Cicerone non sono stati raccolti insieme | nell’antichità. Un corpus comprendeva: De natura Deorum, De divinatione, T'imaeus, De fato, Topica, Paradora, Lucullus, De legibus.

Che una produzione così rapida non potesse avere carattere originale è chiaro ; e questo fatto e soprattutto ciò che in una lettera ad Attico Cicerone stesso diceva di quei lavori (Ar6ypupe sunt; minore labore fiunt, verba tantum ajfero, quibus abundo : Ad Att. XII, 52,3) hanno fatto supporre che egli si limitasse a tradurre e a coor- dinare testi presi a vari scritti greci, che si è cercato di identificare facendo uso di ipotesi che si debbono giu- dicare sempre arrischiate quando l’autore stesso non nomina le fonti che adopera, perchè si sono perdute le opere filosofiche dell’età ellenistica, da Aristotele al tempo di Cicerone ; del resto, talvolta si ha ragione di non prendere alla lettera certe sue indicazioni in propo- sito. Ma v'è di più. Egli stesso più volte limita il signi- ficato della sua dichiarazione ad Attico, affermando che si serve delle fonti greche secondo il suo giudizio (per la scelta delle fonti. stesse) e l'ordinamento e ne espone il contenuto nel proprio stile (De off. I, 2,6; De fin. I, 2,6). 

Effettivamente vi sono cose che i modelli greci non pote- vano offrirgli: citazioni di antichi poeti latini, fatti, aned- doti, esempi presi alle tradizioni, alla storia, alla vita di Roma, e non soltanto si è servito di questo materiale in- digeno, ma ha dato impronta romana alle cose che espo- neva soprattutto in quanto sempre ha avuto presenti alla mente i modi di pensare e di sentire del suo popolo, e propriamente della aristocrazia che egli rappresentava nei suoi scritti e alla quale li destinava. Di più non man- cano casi che portano a ritenere che egli non si sia limi- tato a tradurre o a ridurre i pensieri degli autori greci. 


Ma anche se si ammette l’opera personale di Cicerone nella presentazione di determinate dottrine, occorre ri- cordare ciò che è stato già osservato sul carattere essenzialmente ipotetico delle ricerche fatte per scoprire le sue fonti, che del resto hanno condotto più volte a conclusioni assai diverse tra loro. È soltanto con tali riserve che si può parlare delle fonti ciceroniane. Quanto alla forma, gli scritti filosofici di Cicerone, con poche ecce- zioni (la Consolatio, l’Orator, i Paradoxa) (questi del resto, per il loro carattere di diatriba, si avvicinano al dialogo), hanno forma dialogica. Essa non era una novità per i romani, perchè l’avevano usata verso il 150 a. C. M. Giunio Bruto il giurista in un’opera De jure civili e più tardi, tra il 59 e il 52, C. Sceribonio Curione, in uno scritto che era un’invettiva contro Cesare. 

Però Cicerone modellò i suoi dialoghi filosofici su quelli dei greci, derivati nelle loro varie forme dalla conversa- zione socratica, di cui ci danno una rappresentazione soprattutto gli scritti platonici del cosidetto periodo so- cratico. Molti filosofi successivi, pure riprendendo il modello antico, lo atteggiarono in vari modi : Cicerone confermò l’opera sua a quei diversi esempi, ma in com- plesso, l'autore che esercitò l’influsso maggiore sulla forma artistica dei dialoghi ciceroniani è Platone. Quanto al contenuto, ben raramente, in generale, attinge per l'insieme in modo diretto alle opere dei maggiori pensa- tori, Platone, Aristotile, Crisippo, Epicuro, e si serve invece principalmente degli autori posteriori ed anche di compendi e di trattati popolari. Per eccezione, nei primi due libri del De officiis si attiene strettamente a Panezio che riassume. Si osserva infatti una progressiva attenuazione della libertà con cui Cicerone si era servito delle fonti degli scritti più antichi. 

Scritti filosofici e rettorici. Forse lo scritto più antico riguardante argomenti filosofici è la traduzione dell’ Eco- _ momico di Senofonte (85 a. C.), di cui rimangono fram- menti: però è un semplice esercizio stilistico. Nei he- toriei libri, o De inventione (ec. 80) appaiono influssi filosofici svariati : già Cicerone si dichiara seguace dello Scetticismo neo-accademico e mostra di aderire a Fi- lone di Larissa ; inoltre lo scritto rivela l’azione di pen- sieri platonici (probabilmente mediati da altri) e stoici. 

Come in opere retoriche posteriori, vi è affermata l’esi- genza che l'oratore possegga cultura filosofica; e la stessa tesi è sostenuta nel De oratore libri III, scritto nel 55 (quando infuriavano le lotte fra Milone e Clodio), che include dottrine neo-accademiche e stoffiche, spe- cialmente di Panezio e di Posidonio, ma rielaborate in modo personale. Per la forma e il contenuto, que- st'opera rivela influssi platonici. Contro i retori e l’in- segnamento delle scuole, che facevano consistere tutto nelle regole, Cicerone afferma che per parlar bene oe- corre pensare bene e conoscere gli argomenti di cui si parla. Per conseguenza il fondamento dell’arte oratoria dev'essere la cultura generale, cioè l'insieme di quelle conoscenze che sono degne di un uomo libero, tra le quali emergono il diritto civile e la storia, ma soprat- tutto la filosofia in quanto è la scienza dei concetti generali che si riferiscono a tutti i casi particolari di cui deve parlare l'oratore ; e tra le discipline filosofiche, Cicerone attribuisce importanza particolare all'etica, scienza dei costumi e della vita. Siccome il pensiero è inseparabile dall’espressione, è necessario ristabilire quel nesso di filosofia e di eloquenza che esisteva nella Grecia antica e che venne poi spezzato da Socrate e dai suoi continuatori. 

Il De republica, in 6 libri (ne doveva includere 9), menzionato la prima volta nel 54 venne finito nel 51, dopo vari mutamenti del piano e della composizione : è dedicato al fratello Quinto. Il dialogo, che si suppone avvenuto nel 129, ha diversi personaggi del circolo degli Scipioni, ha per principale interlocutore Scipione Emi- liano, ma vi interviene ripetutamente C. Lelio. Il tema è De optimo rei publicae statu, Rimangono una parte del, VI libro denominata Somnium Scipionis, citazioni 0 - riassunti di Lattanzio e di Sant'Agostino ei frammenti scoperti da A. Mai in un palinsesto vaticano. Nell’in- troduzione, in cui è notevole la preferenza data agli statisti ed ai legislatori sui filosofi, si mette in rilievo che è dovere occuparsi dello stato. Nel libro I, Scipione, dopo aver trattato dell’essenza e dell’origine di questo, distingue le tre forme pure degli ordinamenti politici, la monarchia, l’oligarchia e la democrazia, parla delle loro degenerazioni e stabilisce che il miglior regime è quello che sostanzialmente coincide con la costituzione ro- mana. Nel libro II, per mostrare come l’ideale si attua, segue lo svolgimento di questa fino al decemvirato. 

Il libro III prova che la giustizia deve essere il fonda- mento dello stato ; il IV tratta delle istituzioni, che, a cominciare dall’educazione, debbono assicurare ai cit- tadini una vita morale e felice; il V considera la for- mazione del rector rerum publicarum, e il VI continua il precedente. Nel Somnium, Scipione narra che in un sogno il suo avo, l’Africano Maggiore, gli ha rivelato come ritornino alla sede celeste da cui sono usciti e quali premi conseguano coloro che si sono resi benemeriti della patria. Fonte principale per la forma e per molti pensieri è Platone, di cui riappare nel Sogno la svalutazione della vita terrena. Da lui, da Aristotele e da Dicearco pro- viene, per mezzo di Panezio, la tesi che lo stato misto è il migliore; ma per il contenuto pare che l’opera (nei libri II e III) dipenda soprattutto dallo stoico di Rodi, ad eccezione del Sogno, che si ritiene derivato da Posidonio o da questo e da Platone : si è anche sostenuto che alcune parti debbono probabilmente collegarsi al Protrettico e al De philosophia di Aristotele che rispec- chiano il platonismo del edone. Riporta a Polibio (1. II) lo studio dello svolgimento dello stato romano, in cui Cicerone certamente si è servito di fonti patrie ; per il libro III si pensa anche a Carneade e a Crisippo. 

Il De legibus, forse cominciato alla fine del 53 e finito nel maggio 51 (è dubbio che seritti posteriori si riferi- scano a una nuova revisione di quell’opera), non fu pub- blicato, se pure lo fu, prima del 46. Ne rimangono tre libri che promettono il IV e un frammento del V, ma forse l’opera ne includeva anche altri. Il dialogo, che si pone in Arpino, nell’estate del 52, poi in un’isola del fiume Fibreno, poi presso il Liri, ha per interlocutori l’autore, il fratello Quinto e Attico. Argomento, le leggi migliori. Il libro I tratta del diritto naturale e del concetto di legge. Cicerone mostra che il diritto ha per fon- damento non l'opinione degli uomini, ma una legge insita alla natura e che esso diritto, e in generale ciò che è moralmente lodevole (Ronestum), deve essere ri. cercato per sè, non per fini interessati. Il libro II ci mostra che le leggi civili perfette debbono derivarsi dalla naturale e ne offre un piano stando al modello che è presentato da quelle romane che si avvicinano ad esse : poi si determinano le leggi religiose e nel libro III, quelle dei magistrati. Il libro IV doveva trattare De judiciis, il V, De educatione. Il modello sono le Leggi di Platone sia per la forma, sia, in varie cose, per il contenuto. Sono citati molti altri autori greci (1. III), ma forse secondo una fonte del platonismo recente (An- tioco d’Ascalona, a parere di alcuni). Per i libri I e III si considera fonte Panezio o Antioco o Crisippo; per il libro I, in particolare, secondo alcuni fonte principale è Posidonio, secondo altri Posidonio, Panezio e Antioco, o un manuale stoico rispecchiante la mentalità del tempo di Antipatro. Il libro II utilizzerebbe Posidonio e fonti romane usate anche per il libro III. L’Heinemann ri. tiene che le teorie fondamentali di filosofia del diritto del De republica e del De legibus, specialmente nel libro I (anche se riportano a pensieri dello Stoicismo Antico), derivino da Posidonio. 

Le Partitiones oratoriae (di data incerta) costituiscono un manuale di retorica, composto dietro domanda del figlio, nella forma di un dialogo tra questo e il padre, in cui l'autore pone alla base della eloquenza la conoscenza della filosofia : vi si notano influssi della Nuova Acca- demia e di Antioco. Il Brutus (46), che è un dialogo fra l’autore, Bruto e Attico, scritto dopo la vittoria di Ce- sagre a Farsaglia e poco prima di quella di Tapso e del suicidio di Catone, contiene una storia dell’eloquenza romana sotto la repubblica, che viene presentata come processo ascendente che culmina in Ortensio, che a suna volta deve considerarsi inferiore a Cicerone (di cui non è fatto il nome), appunto perchè questo possiede quella cul. tura generale e soprattutto filosofica che è condizione necessaria della vera eloquenza. Sono interessanti le no- tizie sul giudizio che le tre scuole filosofiche degli stoici, degli epicurei e dell’eclettismo accademico, davano sull’e- loquenza e sulla carriera di Cicerone come oratore e fi- losofo. I Paradora Stoicorum, dedicati a Bruto e scritti nella primavera del 46 prima della morte di Catone, pre- sentano in forma retorica tesi caratteristiche della morale stoica, valendosi di argomenti usati nella diatriba cinieo- stoica, ma corredati di esempi romani, Cicerone deve es- sersi servito di un trattato di filosofia popolare sull’argo- mento. L’Orator, pure dedicato a Bruto, fu scritto nella metà del settembre 46. Vi è tracciato il ritratto del. l'oratore ideale (che coincide con quello di Cicerone). 

Ribadisce la necessità di congiungere l’eloquenza con la filosofia e mette in luce il valore della conoscenza della logica, della fisica e dell’etica per l’oratore. 

Per consolarsi della morte della figlia, Cicerone scrisse prima del 6 marzo la Consolatio, ora perduta, sul tema De moerore minuendo. (Del genere letterario cui apparteneva si riparlerà a proposito di Seneca). Inelu- deva quella svalutazione della vita che appare nel Sogno e poi nelle Z'usculane. Le citazioni che ne restano pro- vengono principalmente dallo stesso Cicerone, poi da Lattanzio. Come fonti, si è servito. di Crantore (che egli stesso cita) e probabilmente di uno scritto conso- latorio popolare. 

Si è perduto anche l’Mortensius, di cui restano nu- merosi frammenti e testimonianze. Quest’opera, con cui Cicerone iniziava la attuazione del progetto di presen- tare ai romani tutta la filosofia, era cominciata prima della Consolatio e finita prima degli Academici priores. 

Era un dialogo fra Cicerone, Ortensio, Lucullo e Catulo e costituiva un’esortazione allo studio della filosofia, di cui prendeva le difese contro gli avversari. Fonte prin- cipale era il Protrettico di Aristotele. Vi è chi pensa anche a Posidonio e ritiene anzi possibile che da lui derivino gli elementi aristotelici dello scritto di cui sa- rebbe la fonte principale. In ogni modo, vi si incontrava lo scetticismo del pensiero ciceroniano. Quest'opera trovò gran favore in seguito e Sant’ Agostino testimonia che nel suo tempo era usata nelle scuole come introduzione alla filosofia. Si perdette dopo 1’°11° secolo. Alla fine del 46 o all’inizio del 45 Cicerone deve avere composto un Volumen prohoemiorum, non pubblicato, dal quale toglieva i prologhi da premettere ai suoi scritti. 

Degli Academici libri, Cicerone stese due redazioni, gli Academici priores in due libri (i cosidetti Ac. priora) e gli Academici libri quattuor (gli Ac. posteriora). Degli Ac. priores resta il II libro (Lucullus: il I, Catulus, si è perduto), degli Ae. libri IV, il I libro, frammenti e testimonianze. Gli Ac. priores furonopo rtati a termine nel maggio 45 ad Astura, gli Ac. libri IV, alla fine del giugno 45, in Arpino. Le due opere avevano forma dialogica, Negli Ac. priores figurano come interlocutori C. Lutazio Catulo, L. Licinio Lucullo, Ortensio e Cice- rone. Il dialogo del Catulus aveva per sede una villa di Cicerone sulla costa campana, quello del Lucullus, una di Ortensio presso Bauli: tempo presunto, dal 63 al 60. Probabilmente il Catulus conteneva un’esposi- zione, fatta da Ortensio, dello sviluppo delle scuole socratiche sino a Filone e ad Antioco ; poi Catulo doveva presentare, contro l’interpretazione filoniana, le teorie autentiche di Carneade. Nel Zueullo, questo sostiene le dottrine di Antioco contro quelle di Carneade, ma poi è confutato da Cicerone. Siccome Catulo e Lucullo non apparivano adatti per sostenere discussioni scientifiche, Cicerone pensò di sostituirli con Catone e Bruto, poi, per soddisfare il desiderio di Varrone che gli fosse dedicata quell’opera, ne mutò di nuovo il piano. Gli Ac. libri IV, hanno per interlocutori Cicerone, Varrone e Attico, per sede la villa del secondo presso Cuma, vicino a quella dell'autore, ove era posto il dialogo dei libri III e IV: > tempo presumibile, la fine del 46. Il contenuto doveva differire poco da quello dello scritto precedente. Varrone, invece di Ortensio, espone lo svolgimento delle scuole filosofiche fino a Carneade (è l’unica parte ri- masta) e sostituisce Lucullo nel difendere le teorie di Antioco ; contro di lui Cicerone, che ha preso il posto di Catulo nell’esporre le tesi di Carneade, difende lo scetticismo neo-accademico. Per le fonti del Catulo e del libro I degli Ae. libri IV, si suppone che l’esposi- zione storica delle teorie dei dogmatiei fino a Zenone fosse derivata dal Sosos di Antioco, quella della Nuova-Acca- demia da Filone. Nel Zucullo si pensa che Cicerone abbia usato il Sosos per l'esposizione luculliana ; mentre per la replica dell'autore alcuni si riferiscono a Clito- maco che aveva presentato le teorie di Carneade. Se- condo un’altra opinione, qui la fonte sarebbe un’opera di Filone (seritta per rispondere alle critiche dell’antico discepolo), dalla quale proverrebbe anche il richiamo & Clitomaco. 

Il 13 maggio 45 Cicerone finì di scrivere in forma di lettera un ovpfovievtixév a Cesare, in cui gli rivolgeva consigli e lodi; siccome gli amici del dittatore richiede- vano molte modificazioni, egli decise di non spedirlo e di distruggerlo. Il 28 maggio Cicerone progettava la stesura di un dialogo politico, sul genere di Dicearco ; ma non se ne occupò più. 

Il 16 marzo 45 egli accennava al De finibus bonorum et malorum (finis — estremum, ultimum, termine ultimo) che scrisse contemporaneamente agli Academici e portò a termine alla fine di giugno, dedicandolo a Bruto ; forse fu pubblicato definitivamente nell'agosto. Questo seritto mira all’esposizione sistematica di una teoria personale, perchè Cicerone vuole esporre quelle dei diversi filosofi e le critiche che hanno suscitato. In so- stanza si limitò alle dottrine dell’Epieureismo, dello Stoicismo e dell’eclettismo di Antioco di Ascalona. 

L’opera comprende tre dialoghi : il primo, elie include i libri I-II, avviene in una villa di Cicerone a Cuma nel 50 e ha per interlocutori C. L. Manlio Torquato, C. Tri. ‘cario e Cicerone. Torquato, nel libro I, espone la teoria epicurea che pone il bene nel piacere e Cicerone la con- futa nel libro II. Il secondo dialogo, che comprende i libri III e IV, ha per interlocutori M. Porcio Catone e l’autore ed ha luogo nel 52 in una villa Tusculana del giovane Lucullo. Catone sostiene la teoria stoica, se- condo la quale il sommo bene è l’Ronestum (la virtù) e tutte le altre cose sono indifferenti ; Cicerone la eritica e afferma che lo Stoicismo non ha fatto altro che ri- prendere le dottrine dei Platonici e degli Aristotelici, mutando soltanto i termini usati. Nel terzo dialogo (1. V) figurano come interlocutori l’autore, suo fratello Quinto, il loro giovane cugino Lucio Cicerone, Attico e M. Pupio Pisone Calpurniano. Il dialogo ha luogo in Atene, nell'Accademia, nel 79. Pisone espone e sostiene la teoria di Antioco, per cui la vita beatissima include i beni dello spirito e del corpo, ma anche senza i secondi può esistere la vita beata. Cicerone solleva brevi ob- biezioni. Secondo lo Schanz, unica fonte sicura è An- tioco per i libri IV-V. Altri parlano di Epicuro o di un epicureo recente (Zenone, o Fedro o Filodemo....) per il libro I, di Crisippo o di Panezio o di Antioco per il libro II, di una fonte stoica (Crisippo, o Diogene di Babilonia 0 un autore recente dipendente da questo o Antipatro 0 uno storico conosciuto da Cicerone) per il libro III. 

Si è pensato anche a Ecatone, ad-Antioco e a un’epitome di scritti di molti filosofi e qualcuno ha considerato An- tioco la fonte delle critiche dei libri II, IV e V. Tusculanae disputationes.in cinque libri, dedicate a Bruto, completano il De finibus, e forse lo seguirono immediatamente : furono composte dal 30 giugno al- l'agosto 45 e pubblicate probabilmente prima della morte di Cesare. Si suppone che il dialogo abbia luogo nella villa ciceroniana di Tuscolo nei giorni 16-21 giugno tra due interlocutori non nominati. L’opera tratta delle cose che sembrano soprattutto necessarie per vivere felicemente ed ha carattere popolare perchè si rivolge ad un pubblico più esteso di quello al quale erano rivolti gli scritti precedenti. Da prima (1, I) si prova che il saggio non ha paura della morte (riappare qui, ce. 34-36, quella intuizione pessimistica della vita che, accennata nel Sogno, è sviluppata nella Consolatio), che non teme i dolori del corpo (1. II); che è inaccessibile alla tristezza (1. III) e alle altre passioni (1. IV). Da ciò risulta già la tesi che viene più ampiamente provata nel l. V, che la virtù o la saggezza basta da sola o quasi a far conseguire la vita felice, perchè è l’unico bene (Stoicismo) ; anche se ve ne sono altri, è tanto superiore ad essi che chi la pos- siede è nella massima parte felice (Peripatetici, Antioco). 

Cicerone mostra di preferire la tesi stoica, ma non si decide in modo preciso. In complesso, sebbene anche nelle Z'usculanae Cicerone dichiari di seguire la Nuova Accademia, l’opera ha carattere stoico e si ispira s0- prattutto allo Stoicismo Medio, platonizzante. Con ra- gione lo Schanz ha affermato che la determinazione delle fonti è più difficile per le Tusculanae che per gli altri scritti ciceroniani; perciò si sono presentate in proposito ipotesi svariatissime. R. Hirzel è stato il solo che abbia parlato d’una fonte unica, un’opera ipotetica di Filone, perchè tutti gli altri critici ne ammettono varie. Libro I: Posidonio ; Posidonio e Crantore ; am- bedue e Dicearco ; Antioco; questo e anche in parte Crisippo. Secondo altri, per la prima parte (immorta- lità dell'anima) Platone per la disposizione, un trattato popolare, uno stoico contemporaneo e altri scritti (la Consolatio e le sue fonti); per la seconda parte princi- pale quella usata nella precedente e nella Consolatio (un ampliamento di Crantore forse usato in tutto il libro I). 

Si è detto che per certi punti Cicerone, come nel Somnium Scipionis, ha fatto uso del Protrettico e del De philo- sophia aristotelici. Per il libro IT: uno stoico recente (di solito si pensa a una lettera di Panezio a Q. Tuberone). Libri III-IV: Crisippo e Diogene di Babilonia molto rielaborati o Antioco 0 uno stoico recente che si è atte- nuto a Crisippo. Fonte parziale Posidonio. Per il libro III : Antioco o uno stoico (che secondo alcuni è Posi- donio) o entrambi. Per il libro IV: Crisippo. Per il libroV : Posidonio, Antioco e un epieureo (Zenone o Fedro); o Posidonio e Antioco ; o uno stoico recente e un epicu- reo ; 0 per la prima parte una fonte stoica recente, per 

la seconda Antioco, un epicureo e trattati senza una posizione filosofica precisa per la dossografia. 

Sono posteriori al De finibus le traduzioni di due opere platoniche, il Protagora (probabilmente com-pleta) e il Timeo. Di questa resta una parte ed è presu- mibile che Cicerone non volesse tradurre tutto il dialogo platonico. Egli voleva includerla in un dialogo che in- tendeva comporre sulla filosofia della natura in cui interlocutori dovevano essere egli stesso, il neo-pitago- rico Nigidio Figulo e il peripatetico Cratippo, da lui incontrati in Efeso nel 51, ai quali era affidato l’uf- ficio di esporre le teorie fisiche delle loro scuole. Ci- cerone intendeva, sull’esempio di Carneade, criticare i fisici, 

Il De natura Deorum libri tres, di cui Cicerone comin. ciò ad occuparsi nell'agosto 45, venne finito dopo la pubblicazione delle Tusculanae e prima della morte di Cesare : è dedicato a Bruto. Nelle ferie latine (77-75) Cicerone si reca da C. Aurelio Cotta l’accademico e vi incontra l’epicureo C. Velleio e lo stoico Q. Lucilio Balbo. Cicerone è ancora giovane ma segue già l’Ac- cademia; gli altri tre sono chiamati principes delle loro scuole. Queste persone discutono della natura de- gli Dei. Nel libro I Velleio, dopo avere polemizzato contro Platone e lo Stoicismo, delinea lo sviluppo delle teorie teologiche da Talete a Diogene di Babilonia e poi espone quella di Epieuro, che è confutata da Cotta. 

Nel libro II Balbo presenta la teoria stoica sull'esistenza degli Dei, sulla loro natura, sul loro governo del mondo e sulle cure ehe hanno per gli uomini. Nel libro III Cotta segue questa ripartizione nella sua confutazione allo Stoicismo : in questo libro esiste una notevole la- cuna (mancano la fine della parte 2a, quasi tutta la 34 e parte della 4%). Alla fine, Cicerone, sebbene seguace della Accademia, dichiara di trovare più verosimile delle altre, l’opinione di Balbo. Per le parti storiche del libro I sarebbe fonte Filodemo, per quelle non storiche Ze- none l’Epicureo ; o per tutte Zenone o Fedro o Filodemo o una pluralità di autori. Per la critica dell’Epicureismo si è pensato a Carneade, mediato da Clitomaco o da Fi- lone, o a Clitomaco e a Posidonio. Per il libro II sarebbero fonte Panezio (in gran parte) o Posidonio; o Posidonio e uno seritto neo-accademico (Filone che attingeva a Car- neade); o Posidonio, Antioco e un manuale stoico (una raccolta di opinioni di filosofi, soprattutto in forma di sil- logismi) ; o Posidonio, Apollodoro, Panezio e altri ; 0 Cri. sippo, Panezio, Posidonio; o un ‘manuale stoico del- l'età di Cicerone e una fonte stoica antica. Fonte del libro III sarebbe in ultimo Carneade, mediato però da Clitomaco o da Filone. Il De natura Deorum fu molto usato dagli Apologeti cristiani contro il paganesimo. A quell’opera fanno seguito il De divinatione e il De fato. 1 De divinatione Il. duo, che però sono preceduti dal De senectute, futono cominciati prima della morte di Cesare e finiti e pubblicati poco dopo. Il dialogo si syolge tra Cicerone e il fratello Quinto, nella villa di Tuscolo, alla fine del dicembre 45. L'oggetto proprio dell’opera è combattere la superstizione collegata con la divinazione, senza danneggiare la religione. Nel libro I è da prima esposta la storia della mantica e della critica di essa; poi Quinto difende la teoria stoica e dichiara che occorre fondarsi sui fatti numerosi offerti. dall’espe- «rienza che la attestano, anche se non si riesce a darne ragione. Nel libro II Cicerone critica la teoria esposta dal fratello. Fonte principale del libro I si ritiene Po- Sidonio, una parte secondaria è data a Cratippo. Gran parte della. critica del libro II è derivata da Carneade, probabilmente per mezzo di Clitomaco ; la confutazione dell'astrologia caldea proviene da Panezio. Inoltre è chiaro l’uso di fonti romane. 

Anche il De fato, come il De divinatione, scritto dopo il De senectute, serve a completare il De natura Deorum. stato composto dopo la morte di Cesare (nel maggio- giugno 44), ma nelle linee generali può essere stato disegnato prima. L’opera, che ci è giunta con lacune, doveva consistere in un dialogo che sarebbe avvenuto il 21-23 aprile nel Puteolanum di Cicerone, tra questo e il console designato Irzio al quale lo seritto così era dedicato; ma siccome l’interlocutore non possedeva ; cultura filosofica, l’autore dovette esporre la teoria | Stoica fato omnia fiunt. Cicerone, che già da molto tempo \ sì era fortemente interessato del problema della libertà, rileva l'incertezza di Crisippo tra questa e la necessità e mostra di essere convinto dell’esistenza del libero vo- lere dell'uomo. Fonte principale si ritiene Carneade (0 Clitomaco) : aleunî parlano di Antioco. 

Il Cato maior de senectute fu scritto da Cicerone prima E di avere portato a termine il De natura Deorum e il De divinatione : è anteriore alla morte di Cesare, ma edito nel maggio 44. L’opera, dedicata ad Attico, contiene un dialogo che si suppone avvenuto tra Catone il Cen- sore, di 84 anni, Scipione Emiliano e C. Lelio nel 150. Il primo difende la vecchiaia dalle accuse che le sono rivolte. L’autore ricorda uno scritto sull’argomento di Aristone Chius (lo stoico di Ceo o il peripatetico di Chio?); ma si è pensato anche a Posidonio, a Teofrasto, a un trattato popolare derivato forse da una diatriba di Bione. 

La fonte primitiva si può considerare un testo della Repubblica platonica (I, 328 sgg.). Alcuni passi ven- gono collegati a Senofonte. L’opera, che si serve di molto materiale romano, ebbe in seguito numerosi - lettori, 

Pure dedicato ad Attico è il Laelius de amicitia, che segue il De senectute e precede il De officiis e fu scritto dal 15 marzo al 7 maggio 44. È un dialogo che si suppone avvenuto nella casa di Lelio, amico di Scipione il Minore, dopo la morte di questo, nel 129, e i suoi generi C. Fannio e Q. Mucio Scevola. Per la fonte principale si è pensato a peripatetici (Aristotele o Teofrasto o tutti e due) o a Panezio che si sarebbe servito di pensieri dei due filosofi ricordati, o a Panezio e Teofrasto. Fu molto conosciuto e apprezzato dalla tarda romanità e dal Medio-Evo e venne ricordato da Dante nel Convivio, II, 13. Si è perduto il De gloria, in due libri, seritto dopo il De amicitia. Fu iniziato il 27 giugno in Tusculo e ivi finito poco dopo. Ne restano pochi frammenti ; probabilmente Cicerone ha attinto al libro sui doveri di Pa- nezio. L’Herakleideion, al quale Cicerone accenna in lettere che vanno dal 4 maggio al 25 ottobre 44, doveva essere una difesa in forma dialogica dell’uccisione di Cesare; probabilmente l’opera non fn mai scritta. 

I Topica, composti in un viaggio pet mare da Velia a Rhegium, alla fine del luglio 44 e dedicati al giure- consulto Trebazio, sono essenzialmente un’opera retorica di carattere tecnico. Cicerone deve essersi servito della memoria, senza aiuto di libri,/valendosi delle sue letture precedenti e delle lezioni dei suoi maestri. È dubbio che abbia letto l’opera omonima di Aristotele, che egli cita. Molto più importante il. De officiis, in tre libri, composto dopo il Lelius e il De gloria. Menzionato espressamente il 25 ottobre 44, venne portato a termine dopo il ritorno dell'autore a Roma il 9 dicembre. È però difficile che quest'opera, dedicata al figlio, sia stata pub- blicata dall'autore, perchè vi manca l’ultima mano. Oggetto: i media officia (rà xadhxovta degli stoici). Nel libro I si considerano i doveri morali (l’hRonestum), nel libro II, quelli dell'utilità, che però non è separabile dai precedenti. Il libro III tratta dei possibili conflitti tra l’Ronestum e l'utile, cioè dei casi in cui, malgrado il principio generale che il primo deve anteporsi al secondo, può restare dubbia la decisione. L’opera, che ha carat- tere stoico, nei due primi libri segue II, toò xa9MMxovtos di Panezio, in tre libri, però con abbreviazioni da una parte, con ampliamenti dall’altra, in quanto l’autore si serve di materiale attinto alla vita e alla storia di Roma: si ammette che aleune parti di quei libri provengano da Posidonio o dai xep4Axtx di Atenodoro Calvo 0 Sando- nio. Si ritiene che nel libro III, in cui è trattato un argomento omesso da Panezio, Cicerone si sia servito di Atenodoro o di questo, di Posidonio e di Ecatone, forse di altri. Il De officiis è stato molto letto e am- mirato. 

Nell’età patristica è servito di modello a S. Ambro- gio per il De officiis clericorum ; nella moderna, la teoria del rpéroy ha esercitato un’azione sui moralisti inglesi, su Kant, sul giovane Schiller e sullo Herbart. Non senza esagerazione Voltaire e Federico il Grande l’hanno giu- dicato la migliore etica che conoscessero. 

Un’integrazione dell’opera precedente doveva es- sere il De virtutibus in un libro ora perduto, che si occupava delle quattro virtù cardinali : ne rimangono soltanto due frammenti." 

Le opere filosyfiche di Cicerone furono molto lette nell'età sua e trovarono diffusione nelle successive ; alcune furono usatè nelle scuole (ciò avvenne per 2’ Hortensius sino all’età li Sant’ Agostino), ma esercitarono un’azione piuttosto eon la forma artistica che col contenuto. Nel conflitto tra il paganesimo e il cristianesimo, le due parti, dal 3° secolo al 5°, studiarono con nuova intensità quelle opere, perchè l’aristocrazia romana vi ricercava una difesa delle credenze avite (si può ricordare il commento di Macrobio al Somnium Scipionis), mentre gli serittori cristiani di lingua latina se ne servivano per trovarvi argomenti contro il paganesimo. Minucio Felice nell’Ottavio (2° secolo), Lattanzio (39), S. Girolamo (4°) sono imitatori appassionati di Cicerone, il cui De officiis forma il modello del De officiis clericorum di Sant’ Ambrogio, destinato ad avere un’importanza fon- damentale per tutto il Medio-Evo. Sant’ Agostino, che ri. conosce che dall’Hortensius è stato spinto verso lo studio della filosofia e il cristianesimo, ha formato sugli Academvica la propria gnoseologia, che ha esercitato un'azione sino al Descartes ; però nella sua ultima fase egli si av- vicina a una corrente ostile alla letteratura pagana che, sorta nel 2° secolo, culmina nel 79. 

Per l’opera di Cassiodoro e dei monaci irlandesi che ne seguirono le direttive, i testi degli scrittori pagani sì sottrassero alla distruzione di cui erano minacciati, sicchè, dopo un periodo di trascuranza, la rinascenza carolingia potè ritornare ad essi e preparare nuovi ma- noseritti dai quali, in generale, derivano quelli che noi possediamo. Nell’età scolastica Aristotele. dominò il pensiero filosofico, mentre tra gli scrittori romani il più ammirato e studiato fu Virgilio sia come poeta, sia come l’annunciatore della nascita del Redentore (Eceloga IV), sia come colui che nell’Eneide aveva rappresentato 1 Oltre agli scritti retorici e filosofici, Cicerone compose orazioni, lavori storici e geografici, poesie e lettere, e vicende dell'anima nella via della r enzione ; però anche Cicerone trovò cultori e tra egli Dante che lo incontra tra gli abitanti del nobile stello del Limbo (Znf. IV, 141), lo menziona spesso,/ricorda vari suoi seritti e dichiara che dalla lettura/del De amicitia è Stato spinto allo studio della filosofia. All'alba del Ri- nascimento il Petrarca lo sceglie /come guida perchè vede in lui (e così dovevano fare gli Umanisti) l’esempio e il maestro della libera agita SE della personalità. 

Egli ne ammira ed esalta anche insegnamento filoso- fico, ma gli Umanisti in ciò si allontanano da lui, perchè all’Aristotele della scolastica contrappongono o l’Ari- Stotele autentico (quale essi l’intendono) o un Platone che però vedono spesso con gli occhi del Neo-Platoni- smo, mentre in Cicerone si interessano piuttosto all’arte dello serittore che al pensiero del filosofo ; però si ri- volgono a lui perchè nel De officiis vedono rappresen- tato quell’ideale dell'umanità che prediligono. Più tardi, quando il latino venne studiato come lingua dotta,seritti di Cicerone occuparono un posto d’onore negli istituti di tipo umanistico (le scuole dei Gesuiti fra i cattolici, le seuole latine tra i riformati) e agirono sulla cultura non soltanto con la forma, ma anche col contenuto, in quanto contribuivano fortemente a formare la co- scienza delle classi superiori. D’altra parte l’illuminismo inglese e francese derivò dalle opere di Cicerone sia di- verse teorie positive, e specialmente il concetto di reli- gione naturale, fondamento del deismo, sia la critica scettica della religione e della metafisica razionale ; il De officiis trovò nuovi ammiratori, tra i quali emergono il Voltaire e il Gran Federico. $i collegano all’insegnamento di quest'opera i moralisti inglesi dell’indirizzo sentimentalista quando pongono nel sentimento estetico le radici del giudizio morale e così aprono la via a teorie che dovevano essere sviluppate dal Kant, dallo Schiller e poi dallo Herbart. Il Neo-Umanesimo attinse a Cice- rone e quindi anche a Panezio il suo ideale dell'umanità. 

Una presentazione, sia pure schematica, delle idee filosofiche esposte da Cicerone presenta difficoltà per le numerose e fèrii incoerenze che includono, le quali di- pendono in partà dall’uso di fonti diverse, ma hanno per origine generale la mentalità dell'autore, che non sente il bisogno di connettere i suoi pensieri in modo organico, Egli, che si compiace di rimproverare agli altri fi- losofi e specialmente ad Epicuro, le incoerenze in eni cadono, si vanta quasi, come se ciò costituisse la prova della sua libertà intellettuale, di accettare in momenti diversi teorie contrastanti, se ora l'una, ora l’altra, gli sembra più probabile \e crede «che questo procedimento risulti dal suo atteggiamento gnoseologico. Ma effetti- vamente il probabilisnio che egli accetta esigerebbe che in tali casi, riconosciuto il conflitto delle diverse opinioni, si mettesse in luce che esse non possono accettarsi in- sieme e che perciò le une o le altre almeno non possono essere accolte. Secondo Cicerone occorre partire da un fatto indiscutibile, il nostro desiderio della felicità che ci spinge a filosofare. Così si coglie un quid che supera la sfera della probabilità, per la sua natura soggettiva chenonimplica aleuna dubbiezza; main tal modo si mette anche in luce la funzione essenzialmente pratica che Cice- rone attribuisce alla filosofia, sebbene riconosca che nel- l’uomo esiste un innato desiderio di sapere e affermi che nelle isole dei beati non vi sarebbe posto per le virtù mo- rali, ma ve ne resterebbe per la conoscenza della natura e per la scienza che sola fa lodare la vita degli dei. Per lui, che segue la tendenza generale del pensiero elleni- stico-romano, ma soprattutto esprime le proprie convin- zioni e le proprie preferenze personali di uomo d’azione, che nella filosofia ricerca una guida per la condotta e un rifugio dalle tempeste della vita, la conoscenza è preparazione all’azione e rimane monca se non si realizza in essa. L’azione è superiore alla conoscenza e perciò si debbono porre gli statisti e i legislatori più in alto dei filosofi : la parte più importante e più interessante della filosofia è l’etica. ‘ 

Il problema filosofico essenziale è quello del sommo bene o dell’ultimo fine che coincide con quello della fe- licità, dalla cui soluzione dipende tutto il resto. Talvolta Cicerone parla di un altro problema decisivo, perchè menziona anche quello del eriterio della verità, ma le due affermazioni si possono accordare, perchè si può vedere nella soluzione del secondo, Ja condizione delle costruzioni filosofiche da cui dipendé quella del primo. 

La ricerca filosofica deve chiedersi (all’inizio quale cer- tezza abbiano le conoscenze che superano quel dato soggettivo da cui essa riceve l'impulso. Ora, come si è visto, sino dalla giovinezza Cicerone si è dichiarato seguace dello scetticismo della Nuova Accademia e in particolare del probabilismo di Carneade, ma effettivamente ha subito in modo profondo l’azione di Filone di Larissa (che gli-era stato maestro), che aveva assai attenuato il pensiero del suo predecessore e soprattutto si è avvicinato al discepolo, poi avversario del Larisseo, Antioco di Ascalona, di cui ha accettato l’eclettismo, in modo da far sue numerose dottrine platoniche, peripatetiche e particolarmente stoiche. Del resto, anche per conto suo, Cicerone ha mitigato le andaci critiche di Carneade : così, se al pari di questo ritiene che è impos- sibile trovare un criterio che permetta di distinguere con sicurezza le rappresentazioni vere dalle false, cioè la verità dall’errore, e che perciò non si può pretendere di possedere alcuna conoscenza certa, fonda il suo dubbio soprattutto sui contrasti esistenti fra le dottrine altrui, mentre quel filosofo e gli scettici precedenti lo avevano giustificato essenzialmente con l’esame diretto dei problemi. Carneade, per respingere l’obbiezione degli avversari che il dubbio scettico rende impossibile l’azione, aveva sostenuto che questa può regolarsi secondo la probabilità (r19avév, probabile piuttosto che verosimile come traduce Cicerone) e distinto vari gradi di essa: così la teoria probabilista compiva un ufficio puramente pratico e aveva un posto subordinato di fronte allo scetticismo generale, In Cicerone la posizione si rovescia, perchè, discutendo il pro è il contra delle tesi sostenute ‘ dagli altri filosofi, cerca di determinare quale sia la più probabile e in tal modo, al pari di Filone, estende il concetto di 718xvév a tutta la sfera della conoscenza. 

Soprattutto pate che per lui la critica scettica costitui- sca, per così dite, l'introduzione a una teoria probabilistica che occupà il centro della ricerca e che a sua volta sta alla base di un eclettismo affine a quello di Antioco, che giustappone teorie derivate, ad eccezione dell’Epi- cureismo, dai diversi sistemi filosofici contemporanei e particolarmente dallo Stoicismo, che era stato l'oggetto preferito delle polemiche di Carneade. 

Lo scetticismo di Cicerone è temperato anche dalla fiducia che ripone nella natura che crea ogni cosa perfetta. Nella sfera teorica, sarebbe contro natura l’inesistenza di conoscenze probabili, tra le quali egli pone le testimonianze dei sensi, pure criticandole. Soprattutto egli accorda valore nella sfera etica a quei semina innata virtutum che la natura ha posto nelle anime di tutti gli uomini, e ciò spiega il suo apprezzamento del consensus gentium, specialmente rispetto ai problemi morali e religiosi. Si è discusso se Cicerone ammettesse vere e proprie idee innate (Zeller) o se, come sembra più probabile, designasse così disposizioni che si svolgono in connessione con l’esperienza, o pensasse ai risultati uguali in tutti gli nomini di un’esperienza naturale e primitiva. 

È certo però che non ha ribattuto gli argomenti che nel De natura Deorum Cotta (che probabilmente li deriva da Carneade) rivolge controla tesi stoica che la Provvidenza divina regge il mondo e che gli Dei tutto fanno per il bene degli uomini, tesi che coincide, sotto molti rispetti, con l'ottimismo naturalistico che egli propugna. 

Occupandosi delle tre parti in cui la tradizione dell'età ellenistica divideva la filosofia, dialettica (logica), fisica (filosofia della natura includente la teologia) ed etica, Cicerone rimane fedele alla sua convinzione che questa deve avere il primato su ogni altro aspetto del sapere, in quanto è necessario che esso abbia per difesa la logica, mentre la conoscenza di sè, raccomandata da Socrate, che è indispensabile per la soluzione del problema della felicità, esige una sicura fondazione naturalistica in quanto questa permette di rendersi conto del nostro vero io, della nostra origine e della nostra destinazione. (Nell'ultima tesi Cicerone segue Posidonio). Però, quando considera in particolare /le diverse parti della filosofia, Cicerone cade in alcune incoerenze. Da una parte accusa Epicuro di avere trascurato la dialettica, dall'altra rimprovera a questa di essere una diseiplina puramente formale. Quanto alla filosofia della natura, ritiene che in essa, in misura anche maggiore che in altri argomenti, è più facile dire quello che le cose non sono di ciò che sono e che non vi è aleuno che possa pretendere di possedere una conoscenza certa sui suoi oggetti, che sono impenetrabili per il pensiero umano ; ma questo non gl’impedisce di ritrovare in quella disci- plina teorie che gli sembrano base sicura per la sua etica, e quanto teologia in particolare, pur dichiarando di non voler superare i limiti del probabile, ne parla con una certezza assai maggiore di quella che le sue premesse gli consentirebbero. 

Nella sua rappresentazione totale dell’universo (che riporta ad Aristotele e soprattutto a Posidonio), Cicerone distingue in questo una parte super e una sublunare, sotto tutti i rispetti inferiore all'altra. La prima è costi- tuita di etere, include tutte le stelle che sono animate da menti divine, ed ha una grandezza immensamente più estesa della seconda : essa è la sfera in cui regnano in modo insuperabile bellezza, ordine, regolarità, eter- nità, incorruttibilità. La sfera sublunare, che dipende dall'altra, e principalmente la terra, è piccola cosa di fronte all'universo, con le sue bellezze presenta defi- cienze, come le regioni inabitabili, e soprattutto è il mondo della mutabilità e della corruzione. I caratteri di perfezione che presenta l’universo, a parere di Cicerone, offrono una base sicura all’affermazione che esso deve avere per causa non il caso o la necessità, ma un essere razionale, cioè la Divinità. 

È difficile però determinare esattamente il suo pen- siero su questi argomenti. Alla fine del De natura Deorum egli dichiara di trovare più probabile la teologia stoica dell’agnosticismo di Cotta seguace della Nuova Acca- demia, alla quale egli pure si collega, agnosticismo che si estende anche al passaggio dall’universo alla sua causa ; ma non è lecito prenderlo completamente in parola, sia perchè sono troppo numerose e stringenti le critiche che Cotta rivolge contro quella teologia, che non trovano ri- sposta, sia perchè in non poche cose Cicerone si allon- tana da essa. Comunque, egli ritiene che la fede nell'esistenza degli Dei sia l'opinione più probabile e quella a cui la stessa natura ci porta, che essa stessa ci insegna, come risulta dal consensus gentium su questo punto ; e se non sente il bisogno di respingere le ob- biezioni di fbtta, probabilmente ciò avviene perchè trova che quella convinzione è giustificata sufficiente- mente dal fatto che, eliminata la Provvidenza divina (che su di essa evidentemente si fonda), erollano la pietà, la religione, il culto, la società del genere umano, la giu- stizia e le altre virtù. Cicerone, come in generale i filo- sofi antichi, parla sia di Dio che degli Dei, ma non si preoccupa di conciliare l’unità del primo, che egli am- mette, con la molteplicità dei secondi ;. pensa la Divi- nità come un'intelligenza libera e separata da ogni conerezione mortale (7'use. I, 27, 66), ma non è sieuro che sia spiritualità pura, perchè ammette che possa consistere di aria o di fuoco, diversi però dai terrestri (ivi, 26, 65): in ciò probabilmente sta sotto l’influsso di Posidonio. Però la sua concezione della Divinità ae-centua più di quelle offerte dallo Stoicismo la natura personale di essa. Come si è detto, accorda grande valore alla tesi della provvidenza divina, pure non ribattendo le critiche di Dotta. Respinge le credenze nel fato e nella divinazione che in particolare erano state propugnate dagli stoici, e nella seconda trova un'espressione della superstizione che egli vuole totalmente sradicata. 

Per contro deve propugnarsi quella religione che è con- giunta con la conoscenza della natura e deve essere tutelato per motivi politico-sociali quell'insieme di opi- nioni sugli Dei, di eulti e di riti che è imposto dalla tradi- zione degli avi. Quanto alla mitologia, Cicerone vorrebbe che fosse purificata dalle invenzioni dei poeti che appaio- no indegne della natura degli Dei. 

Parlando della Divinità si è trattato già di un essere che è affine a ciò che vi è di superiore nell'uomo, e che ne costituisce l'essenza, l’anima razionale, la quale forma l'oggetto vero della nostra conoscenza, L'uomo risulta del corpo e dell'anima, ma il primo è senza confronto inferiore alla seconda che gli arreca vita e movimento. 

Essa include una parte irrazionale che appartiene anche agli animali, e che possiede l’attività vegetativa e quella sensitiva, la quale ultima compie le funzioni del senso, © del movimento e dell'appetito; ma ha in proprio una parte razionale (ratio), che assume gli aspetti di pensiero intuitivo (intelligentia), di conoscenza discorsiva (ratio in senso stretto) e di volontà : Cicerone è convinto che questa è libera in quanto è indipendente dai moventi esterni e per giustificare questa tesi si vale degli argomenti di Carneade. La ratio costituisce il vero essere dell’uomo ed è il divino in lui. Più volte Cicerone, collegandosi a Platone e forse a Posidonio, afferma che il corpo è un’appendice dannosa dell'anima che vi è incelusa ; la vera sede di questa non è la terra, ma il cielo, che al pari di essa è immortale e imperituro. L'anima umana è affine a quella divina dalla quale proviene e perciò la determinazione della sua natura suscita le stesse difficoltà che si presentano per quella della se- conda. Cicerone si interessa particolarmente della cre- denza dell'immortalità dell'anima, che cerca di giusti- ficare con argomenti presi a Platone, specialmente con quello che si fonda sul suo carattere di principio auto- motore, e col consensus gentium; ammette la  pos- sibilità dell'opposto, ma per mostrare che nemmeno in questo caso è giustificabile il timore della morte. 

Le teorie esposte da Cicerone sulla natura dell'uomo, identificato nella parte divina e razionale dell’anima per cui ilcorpo è un ostacolo e le parti inferiori possono essere causa di colpe e di infelicità, sulla sua affinità con la Divinità, sulla sua origine e sulla sua destinazione celeste, sulla posizione che l’uomo stesso occupa nel mondo, concordano col dualismo e col misticismo di Posidonio. Invece non a questo, ma al Platone del 

Fedone riporta un passo delle Tusculane (I, 74-75) che afferma non essere altro* tutta la vita dei filosofi che una meditazione della morte, perchè quando ci sforzia- mo di allontanare l’animo dal piacere, cioè dal corpo, dalle sostanze, dalla vita politica (a republica), da ogni attività pratica, non facciamo altro che questo. Abbiamo in ciò l'affermazione di un pessimismo e di un asceti- smo che, per quanto riguarda l'allontanamento dello stato, sono in insanabile contraddizione con le convin- zioni e con la vita reale di Cicerone, il quale, del resto, insegna continuamente che i più urgenti doveri riguardano la vita sociale e politica e soprattutto quelli che si riferiscono alla patria. Anche nel Sogno (in cui pure è svalutata l'esistenza terrena di fronte alla celeste) si dichiara che la via per salire al cielo risiede nelle bene-'merenze verso la patria, affermazione questa che non s'accorda col cosmopolitismo propugnato altrove in ac- cordo con Panezio e con Posidonio. Il testo citato sopra delle Tusculane è seguito da un altro (ivi, 82 agg.) anche più radicalmente pessimista, che, sfruttando motivi di pensiero usati di solito nelle Consolazioni e nelle dia- tribe cinico-storiche (e presenti, del resto, anche in Lucrezio), dipinge coi più foschi colori le miserie e i dolori della vita per mostrare che non vi sarebbe ragione di temere la morte anche se l’anima non fosse immortale. 

In complesso, si può pensare che in ambedue quei testi delle T'usculane Cicerone si sia lasciato dominare sia dal desiderio di provare che la morte non deve in alcun caso incutere terrore, sia da motivi più retorici che filosofici. à Comunque, se si fa eccezione del secondo testo, ultra-pessimista, le teorie esposte implicano già la soluzione generale del problema del sommo bene, della felicità e dell'ultimo fine. Cicerone però, se respinge senza altro l’Epicureismo, che identificava il bene al piacere, non riesce a prendere una posizione sicura tra lo stoicismo, che riteneva unico bene la virtù (l’Ronestum), e l’eclettismo accademico-peripatetico di Antioeo di Ascalona, il quale, pure riponendo in essa il sommo bene e affermando che basta a rendere la vita felice, soste- neva però che esistono altri beni, esterni al soggetto, che sono elementi della vita felicissima. Talvolta trova che lo stoicismo ha soltanto espresso con diverso linguaggio Je tesi della Antica-Accademia e della scuola peripatetica, talvolta riconosce e accentua le loro differenze. E oscilla pure nella soluzione: ora propende per quella stoica che lo attira con la sublimità e la coerenza delle proprie dottrine, ora critica quella eclettica (De fin. TV) verso la quale lo portava la considerazione della debolezza umana, sua e altrui, ora si rimprovera di giudicare della funzione della virtù tenendo conto non della natura di questa, ma della mollezza umana. Cicerone, che riconosce questa sua oscillazione, crede di potersi contentare con l’affermazione che l’honestum (o la virtù), se non l’unico bene, è quello che supera tutti gli altri, che al confronto appaiono privi di ogni significato. In complesso, però, come mostrano i suoi ultimi seritti (’usculanae, De officiis), egli ha subito sempre più fortemente l'influsso dell’etica stoica. Particolarmente si accorda con lo Stoicismo nell’affermare che ie passioni (748) debbono essere sradicate, non, come volevano gli aristotelici, ridotte alla giusta misura nell’anteporre la virtù pratica (o etica) a quella dianoetica o intellettuale. 

Mentre Cicerone ritiene che anche nella questione fondamentale del sommo bene occorre ricercare soltanto la soluzione più probabile, con nuova incoerenza chiede alla Nuova Accademia, perturbatrice di ogni cosa, di tacere in ciò che riguarda la filosofia pratica (etica, giuridica, politica), per non produrre troppe rovine (De leg. I, 13, 39 : Perturbatricem harum omnium rerum Academiam, hane ab Arcesila et Carneade recentem, exoremus ut sileat. Nam si invaserit in haec, nimias edat ruinas). Se ciò si accorda con l’intonazione con cui Cicerone presenta molte teorie di morale applicata è in contrasto con l'incertezza del loro fondamento generale. 

La soluzione del problema della felicità o del sommo bene riguarda propriamente il sapiente ideale, che compie scientificamente doveri perfetti, per lui soltanto si può dire che la virtù è recta ratio, perfecta ratio, perchè è appunto la ragione che rende perfetta l’attività. (Lo stesso significato hanno altre espressioni: Bonum mentis, perfectio rationis). Cicerone però si occupa anche del- l'uomo buono e onesto che non realizza la perfezione e perciò nei primi due libri del De officiis prende per guida Panezio che si era interessato particolarmente del secondo. Sebbene sia difficile determinare con preci- sione ciò che appartiene all’uno e all’altro, perchè cono- sciamo in questa parte la fonte greca soltanto attraverso la sua derivazione romana, si può ritenere che le linee generali della trattazione risalgono a quella. L'uomo, in quanto essere ragionevole, possiede quattro impulsi fondamentali, che mancano agli altri animali: verso la conoscenza, verso la vita sociale in cui gli uomini sono uniti per mezzo della ragione e del linguaggio, verso il dominio e l'indipendenza, verso la bellezza, che consiste in un ordine e in un'armonia, Questo impulso si riferisce da prima a oggetti naturali ; ma poi l’uomo cerca di realizzare tale ordine e armonia nella propria vita, nel pensiero e nell’azione. Questi impulsi, se rego- lati dalla ragione, si esplicano nelle virtù, che sono le condizioni perfette delle attività spirituali, Si tratta però sempre di virtù che non provengono dalla vera scienza e che perciò si fondano su una ragione che si limita al probabile. La virtù che si riferisce alla conoscenza, è teoretica, le altre tre sono pratiche. Propriamente, la prima può avere per oggetto sia la pura contemplazione, . ed è la sapienza, sia le decisioni che si debbono prendere sulle cose che riguardano la vita buona e felice, ed è la prudenza ; quella riguardante la vita sociale si divide nella giustizia, in cui è lo splendore massimo della virtù, e nella beneficenza o benignità o liberalità. La virtù che riguarda il predominio e l'indipendenza dalle cose esterne si esplica nella magnanimità, che è vera- mente tale se non si lascia dominare dall’egoismo, ma si rivolge verso il bene della società, soprattutto nella partecipazione e nella direzione della vita pubblica. La virtù che ha per oggetto la bellezza è la moderazione 0) la temperanza, che del resto, non si esplica soltanto nella sfera propria come dominio delle tendenze inferiori, ma anche in quella delle altre virtà (che sono forme del bello morale, Ronestum), perchè occorre portare ordine e misura nella esplicazione di tutte le singole attività e nella totalità della vita dello spirito che deve presen- tare armonia e quindi costanza e unità. 

Le virtù come condizioni e le loro esplicazioni costitui- scono l’Ronestum (xaX6v) il bello morale, che come la virtù e le virtù si deve ricercare per sè, non per conside- razioni utilitarie. L’honestum si manifesta all’esterno come il conveniente (decorum, mpérov), che suscita nelle per- sone colle quali si vive e di cui è doveroso considerare il giudizio, un senso (estetico) di approvazione. Ma questa convenienza 0 adeguatezza a un modello armonico e unitario riguarda non soltanto la natura razionale del- l'uomo in generale, ma anche quella dell'individuo, se essa non è in contrasto con la prima, eltrimenti non darà mai alla vita, costanza, coerenza, unità. Cicerone insiste sulla giustificazione dell'esigenza che ciascuno, pure comportandosi in conformità con la natura umana, sia fedele a quella sua individuale. La formazione della nostra personalità dipende sia da condizioni che sono in balia del caso, sia dalle nostre decisioni volontarie ; occorre che le seconde si conformino soprattutto alle disposizioni proprie alla nostra natura. L’uomo deve poi conformare la propria condotta alla sua età, alla sua condizione sociale, deve ricercare il conveniente (de- corum) nel contegno e nei movimenti del corpo, nel modo di parlare, di vestire, nell'abitazione. 

Siccome gli individui umani sono stati fatti gli uni per gli altri, l’uomo è l'essere più utile o dannoso all’altro uomo e anche i più potenti non possono prescindere dal- l’aiuto degli inferiori, sicchè la vera utilità del singolo è inseparabile da quella della totalità sociale di cui fa parte; perciò l’utile e l’onesto sono indissolubilmente connessi, anzi coincidono. Così il magnanimo (che Cicerone si rappresenta come il modello più alto di umanità), contribuendo al bene di tutti, consegue anche il proprio, in quanto può esplicare liberamente e armonicamente le proprie attività. L'ideale della humanitas consiste dunque per Cicerone come per Panezio nel libero e armonico sviluppo delle attività spirituali che dominano le tendenze inferiori e arrecano ordine e misura anche al comportamento esteriore. Però, questa rappresenta- zione include elementi propriamente romani che Cice- rone deve avere aggiunto a quelli del suo modello : come tali si possono considerare il valore dato alla mitezza, alla benignità, alla clemenza verso i nemici, cioè a doti che l'aristocrazia di Roma riteneva proprie degli ante- nati e l'affermazione che nessuna società è più impor- tante e più cara dello Stato, che fra i doveri umani i primi e i più urgenti sono quelli che riguardano la patria, affermazione che però è in contrasto col cosmo- politismo propugnato altrove dallo stesso Cicerone, che del resto insiste spesso sul concetto della societas humani generis (v. ad es. De fin., V, 65; De off., I, 50 sg. ; 149; 153 e passim). Si fa derivare da Posidonio, ma potrebbe essere l’espressione della mentalità romana, l’afferma- zione che i primi doveri riguardano gli Dei, che rimane isolata e senza giustificazione ed è in contrasto col pen- siero di Panezio che non li ammetteva. Cosa molto più importante, Cicerone omette completamente i concetti ‘metafisici sui quali il Rodiense aveva fondato il suo idea- le insieme individualistico e universalistico. 

L'ideale della humanitas propugnato da Cicerone ha indiscutibilmente ‘carattere aristocratico, come risulta dal rilievo dato alle qualità estetiche, dal fatto che soltanto pochi uomini in Roma potevano conseguire il libero e armonico sviluppo di tutte le attività spirituali poggiante sulla cultura, dall’apprezzamento del comportamento esterno, dall’accentuazione della libertà, soprattutto dalla convinzione che il magnanimo rappresenta il modello più perfetto dell’uomo. Aspetti simili doveva avere, almeno in gran parte, l’ideale umano di Panezio e di Posidonio (che però differivano tra loro per il forte carattere religioso presente nel secondo, assente nel primo), ma, sebbene si sia affermato — che quello dello stoico di Rodi non era meno aristocratico ed esaltatore della devozione allo stato, della humammitas ciceroniana, sembra giusto ritenere che includesse il cosmopolitismo e i principi dell'uguaglianza di tutti gli uomini e dell'amore universale che si trovano in due suoi discepoli, Posidonio e Antioco. (Antecedenti diga questi pensieri offriva la scuola. aristotelica con Teo-% frasto e Dicearco). Come i due rappresentanti dello Stoicismo Medio conciliassero il loro ideale aristoeratico di rardetx con l’universalismo e il principio dell’a- more (che, anche se non sviluppato, era presente alla loro mente), è difficile determinare, ma che in essi l’Rumanitas includesse tutti quei fattori sembra certo. 

In Cicerone la cosa è diversa. La valutazione che — egli dà dello stato romano potrebbe apparire superiore per concretezza al cosmopolitismo difeso dai due filoSofi greci, ma con essa si collega l'assenza del riconoseimento dell’uguaglianza umana e del dovere dell'amore. 

Infatti, Cicerone, che talvolta, ispirandosi ad Antioco (e così quasi certamente a Panezio), parla della caritas humani generis (De fin. V, 65, 66 e 67 ; II, 45) ed esprime l'esigenza dell'amore universale seguendo Posidonio (De leg. I, 60), nel De officiis (I, 41) non soltanto non svolge questi cenni, ma quando parla degli schiavi si limita a chiedere che siano trattati con giustizia e ad appro- vare l’affermazione di Crisippo che essi si debbono con- siderare mercenari perpetui, di cui si deve pretendere l’opera e ai quali è doveroso dare il giusto, e non ricorda che per lo stoico antico (che era stato preceduto da: al- cuni sofisti, da ‘Sofocle e da Euripide) nessun uomo è schiavo per natura ; così, quando afferma che la ragione comanda alle passioni come il padrone agli schiavi, che li affatica per domarne la malvagità, ammette che questi .erano giustamente trattati con durezza. Quando ‘ parla delle lotte dei gladiatori, Cicerone dichiara che, se avvengono tra malfattori, sono la più forte scuola che si possa offrire agli occhi contro il timore del dolore e della morte (use. II, 41). Si ha l'impressione che i principî di uguaglianza umana e di amore universale rimangano in Cicerone formule fredde di scuola e non siano l’espressione di convinzioni intimamente vissute. 

In complesso, il suo ideale di humanitas, che designa soprattutto ciò che si è chiamato cultura dello spirito, coordina in una sintesi armonica elementi che proba- bilmente erano rimasti privi di ordinamento sistema- tico nello Stoicismo Medio, ma eselude alcuni dei va- lori fondamentali che esso aveva riconosciuto e che in seguito dovevano costituirne l’essenza. D'altra parte oe- corre riconoscere che Cicerone così dava impronta nuova a elementi presi al pensiero greco, in quanto li collegava in un ideale corrispondente alle esigenze dell’aristocrazia romana. Dall’ideale dell’Rumanitas si passa naturalmente a quelli del diritto e dello stato. Fondamento della filosofia giuridica di Cicerone dovrebbe essere il concetto di legge, la quale nella sua essenza si identifica alla ragione retta e suprema che proviene dalla volontà divina ed è insita alla natura. Essa tutto regge in cielo e in terra e unisce in una società e in uno stato gli Dei e gli uomini. Quella ragione, che diviene legge quando risiede nella mente umana, è stata data dagli Dei agli uomini, ai quali prescrive ciò che si deve fare e proibisce l’opposto. È eterna, immutabile, universale, “e precede nel tempo tutte le legislazioni scritte che pos- sono chiamarsi leggi soltanto in quanto sono giuste, conformandosi ad essa. L’obbedienza che le prestano gli uomini non è deteminata dal timore della pena o da motivi utilitari, ma dal fatto che trova un’eco nell’a- nima del giusto e dai tormenti della coscienza di chi la viola. Queste tesi riportano sostanzialmente allo Stoi- cismo Antico, ma forse per mezzo di Posidonio ; în ogni modo, il panteismo trova qui un’espressione che abitualmente manca in Cicerone. Questo si accorda con Posidonio quando respinge ogni motivazione utilitaria della legge e del diritto, ma se ciò è in armonia coi testi che parlano nello stesso modo dell’honestum. e delle virtù in generale e del jus in particolare, è in insanabile contrasto con quello in cui Cicerone, seguendo Panezio, afferma che se il diritto ha per fondamento un impulso naturale delluomo verso la società, ha l’ufficio di ga- rantire la proprietà privata. Più propriamente, fon- damento del diritto è la tendenza naturale che porta ad amare gli uomini (ad diligendos homines), dalla quale nascono le virtù. Ciò significa che quella tendenza li spinge ad associarsi tra loro e a regolare tale comunione con le norme del diritto, in quanto la legge civile (che deve rispecchiare quella naturale) è il vincolo della società. 

Ma anche a proposito dello stato (societas juris, associazione di uomini governati da leggi) si ripresen- tano le incoerenze incontrate a proposito del diritto. 

Talvolta Cicerone, seguendo Posidonio, ritiene che la consociazione umana non è stata determinata dai bisogni della vita, ma da un impulso naturale e afferma che lo stato ha l’ufficio di assicurare ai cittadini una vita felice e morale (la felicità effettivamente coincide con la virtù); in altri casi, invece, accordandosi con Panezio, sostiene che la società e lo stato debbono le loro origini ad ambedue quei motivi, mettendo in ri- lievo l’importanza della tutela della proprietà privata e talvolta definisce lo stato per mezzo della comunione dell’utilità. In ogni modo, Cicerone è convinto che alla causa o alle cause dell’origine dello stato debbano cor- rispondere le sue finalità e che esso deve fondarsi sulla giustizia che si identifica alla ragione. Si è già ricordato che Cicerone, riprendendo una dottrina derivata in ultimo da Platone e dalla seuola aristotelica, ritiene che la forma più perfetta dello stato sia quella mista, che egli vede realizzata negli ordinamenti romani. Ba- Sterà poi richiamare l'osservazione precedente, che in Cicerone e nei suoi contemporanei, salvo Lucrezio, le finalità etico-pratiche (che sono al centro degli interessi spirituali) non sono quelle dell'individuo, perchè ri- guardano la collettività politico-sociale che ha nome Roma, alla quale il singolo sente legata la propria sorte in modo indissolubile.

In complesso, non è troppo severo il giudizio del Philippson che non esiste una filosofia di Cicerone; ciò si può dire non perchè abbia preso ad altri tutti i suoi concetti filosofici (anche procedendo così, avrebbe po- tuto connetterli organicamente), ma per la ragione che, pure interessandosi in modo vivo e intenso per i problemi che trattava, non ha mostrato di avvertire quelle esigenze di rigore, di profondità, soprattutto di coerenza, che sono la condizione imprescindibile di serie ricerche di tal genere. Infatti egli deve cadere in continue incoerenze perchè giustappone pensieri presi a indirizzi opposti e contrastanti : allo scetticismo della Nuova Accademia e al dogmatismo eclettico di Antioco di Ascalona ; al dualismo spiritualistico di Platone e al panteismo materialistico degli stoici e entro questo al vitalismo puramente monistico di Panezio e alla concezione religiosa e mistica del Logos-demone universale di Posidonio con tendenze dualistiche ; all’ascetismo di certi aspetti del Platonismo, alla intransigente etica razionalistica dello Stoicismo Antico, all’etica più mite dell’ Aristotelismo e dello Stoicismo Medio; all’universalismo , umano di origine stoica e all’esaltazione romana dello stato nazio- nale.... Per attenuare i contrasti e spesso anche per espri- mere le sue predilezioni per una Divinità separata dal “mondo che governa, egli cerca di mitigare il significato dei pensieri che fa suoi, soprattutto in quanto li scioglie dalle connessioni che formavano nei sistemi originari, ma in tal modo riesce soltanto a impoverirli del loro contenuto filosofico più importante, non a eliminare le incoerenze che si presentano ovunque. Però Cicerone merita di occupare un posto nella storia della filosofia. 

A lui Roma deve un notevole ampliamento e arriechi- mento della propria cultura, perchè le ha arrecato un linguaggio filosofico che ancora non possedeva e la co- noscenza diffusa del pensiero greco, limitata sino al tempo suo entro ambienti ristretti di lettori. Egli ha conservato all’età moderna notizie, ora più, ora meno estese di teorie della filosofia ellenistica, che altrimenti, per la scomparsa delle opere originali, sarebbero rimaste ignote o molto meno note. Sotto questo rispetto, egli, occupan- dosi in generale di filosofi di secondaria importanza, ha reso un maggior servizio alla conoscenza del pensiero 

È ‘ antico di quel che avrebbe fatto se si fosse interessato “pi principalmente delle grandissime figure dell'età pre- NE cedente: Platone e Aristotele, Cicerone ha diffuso e reso familiari quei principi dell'uguaglianza umana e di una legge razionale e naturale, criterio di valutazione del diritto positivo, che doveva, collegandosi col pensiero cristiano, esercitare un’azione fortissima sullo spi- rito delle età successive; di più, come si è ricordato, | 

La ha dato espressione a quel concetto ellenistico-romano, y ‘di humanîtas, che era destinato ad esercitare un'azione vastissima sull’ideale della vita di certi periodi dell’età moderna. Così Cicerone ha agito fortemente su questa, perchè, dopo il Rinascimento, molti uomini colti, formati nelle scuole umanistiche, hanno assimilato quei ’’—’ Suoi concetti etici che si potevano conciliare coi principi |. religiosi del cristianesimo (al quale rimaneva affidato e l'insegnamento dell'amore universale) e ne hanno fatto . i criteri direttori della loro condotta : la sua interpreta- Ì zione della vita morale è divenuta, per molto tempo, n) quella dell’Ronnéte Romme, che senza studiare, come i tecnici della filosofia, i testi di Platone e di Aristotele, cercava nel pensiero antico, non solo una fonte di cultura, l ma anche un ideale di vita. Ad un certo punto, però, î quell’ideale è sembrato troppo ristretto ed è apparsa la necessità di ridargli, anche prescindendo da ogni presupposto religioso, quel significato universalistieo che aveva posseduto nello Stoicismo Medio. 

Il crollo della repubblica e la fondazione dell'Impero determinano nel mondo romano effetti simili a quelli che si erano prodotti in Grecia quando, per opera di Alessandro e dei suoi successori, si era chiusa l’età delle libere città-stati. Gli uomini, che avevano posto nel centro dei propri scopi il servizio dello stato, ora, non dovendosi più interessare del governo della vita pubblica, diretta dal principe e dai suoi rappresentanti, si concen-' trano in se stessi e si chiedono come debbano orientare e dirigere la propria esistenza, come svolgere le proprie attività, e per conseguenza si volgono alla filosofia che, specialmente per il prevalere delle esigenze etico-prati- che del periodo ellenistico-romano, appariva la vera guida della condotta: ad essa ricorrono soprattutto i discendenti di quella vecchia nobiltà che si sentiva più fortemente colpita dalla perdita della libertà, perchè la direzione dello stato repubblicano aveva costituito un suo privilegio. Ma questa tendenza è così viva e dif- fusa che anche l’imperatore e gli uomini che lo cireondano la dividono. Augusto, che tenne vicino a sè due stoici (Ario Didimo, che fuil suo filosofo personale, e Atenodoro di Sandone, di Tarso), compose, secondo riferisce Svetonio, Hortationes ad philosophiam, cioè un protrettico, . forse di contenuto stoico. Livia, sua moglie, dopo la morte di Druso, ricorse agl’insegnamenti di Ario Didimo e dichiarò di averne tratto molto conforto. Atenodoro dedicò uno seritto a Ottavia, sorella dell’imperatore. 

L'interesse che le donne romane provavano per la filo- sofia, risulta dal fatto stesso che Orazio satireggiava una vecchia sensuale che teneva sul suo capezzale trat- tati stoici; seriamente era appassionata per tali studi Elvia, la madre di Seneca, di cui si riparlerà. Interessi. filosofici provò C. Cilnio Mecenate (n. il 13 aprile di un anno indeterminato), il potentissimo consigliere di Augu. sto. Di origine etrusca, e probabilmente aretina, discen- deva da stirpe regia ; ma volle restare semplice cavaliere romano. Combattèò a Filippi per i triumviri e nel 40 era intimo di Ottaviano che egli cercò di conciliare con Antonio, siechè ebbe luogo l’incontro di Brindisi. Nel | 38 per conto di Ottaviano si recò presso Antonio affin- | chè partecipasse alla guerra contro Sesto Pompeo. Dal 36 al 29 fu il rappresentante di Ottaviano a Roma e in Italia con poteri illimitati. Augusto si servì di Mecenate in pace e in guerra e trovò sia in lui che in Agrippa il so- stegno più sicuro del suo principato ; ma egli deve la sua fama imperitura alla protezione che concesse ai mag- giori poeti del tempo suo. Restano pochi frammenti dei suoi scritti in versi e in prosa, nei quali, e specialmente nel Simposio (opera che introduceva in Roma un genere letterario molto coltivato in Grecia), mostrò di subire l’influsso di Epicuro. 

Interessi filosofici e influssi epicurei si manifestano negli seritti dei maggiori poeti del suo circolo letterario, L. Vario Rufo, Virgilio, Orazio, Properzio; siccome poi in due grandi scuole dell’età ellenistica, lo Stoicismo e l’Epi- eureismo, la filosofia della natura era stata posta alla base dell’etica, non deve sorprendere il fatto che spesso quegli scrittori si occupino di problemi naturalistici. L. Vario Rufo (n. 74, m. 14 a. C.), che fu amico di Virgilio e di Orazio, curò per ordine di Augusto la pubblicazione del. l’Eneide, fa poeta elegiaco, epico e tragico e serisse un poema in onore dell’imperatore. Compose un altro poema sulla morte in cui cercò, ponendosi nella posizione epi- — curea di Luerezio, di combattere il terrore che ispira agli uomini e l’infelicità che ne proviene : ciò ha fatto sup- porre che appartenesse al circolo epicureo di Sirone come Virgilio. Influssi luereziani e quindi epicurei ap- paiono infatti anche in P. Virgilio Marone (n. a Andes presso Mantova il 70, m. a Brindisi il 19 a. C.) che certa- mente fu scolaro di Sirone. In una poesia (Catal. 5) prende congedo dalle Muse per volgersi verso la scuola sironiana affinchè la filosofia gl’insegni a liberare la vita dalle passioni ed esprime il proponimento di de- dicare ad essa il resto dell’esistenza, e nel Ciris (1-12) (che ormiai quasi concordemente è ritenuto suo) esaltando di nuovo l'insegnamento epieureo, manifesta l'intenzione di comporre un carme sui fenomeni celesti. L’influsso dell’Epicureismo è esplicito nelle Georgiche (II, 490 sgg.) ; ma l’Eneide, nella escatologia del libro VI (724 sgg.), dipende invece dalla corrente orfico-pitagorica, mediata, si erede, da Posidonio, dal quale si fanno derivare le rappresentazioni dell’età dell'oro e dello sviluppo della civiltà umana e alcune teorie d’impronta stoica. Agli interessi filosofici si collegano quelli naturalistici. Nel. l'Ecloga VI (31 sgg.) Sileno espone ùna cosmogonia ; nelle Georgiche(II,475sgg.) il poeta prega le Muse d’inter- pretargli una serie di fenomeni naturali; nell’ Eneide (1, 740 sgg.) Iopas tratta di problemi naturalistici. Fa parte dell’Appendix Vergiliana il poemetto Aetna sullo cause e gli effetti delle eruzioni vulcaniche, del quale sono incerte la paternità e la data. Questa ha per limite, da una parte la metà del 1° secolo a. C., dall’altra il 79 d. C. ; fra gli autori ai quali è stato attribuito il poemetto, trovano adesioni soprattutto Virgilio e Lucilio il Giovane; l’amico di Seneca. Per le teorie scientifiche particolari l’autore si serve principalmente di Posidonio e ciò spiega l’affinità dell’'Aetna con le Questioni Natu- rali di Seneca che provengono dalla stessa fonte. Per la filosofia egli mescola ecletticamente elementi sva- riati e non fusi, perchè espone dottrine stoiche, epicureo- lucreziane e inoltre pensieri eraclitei, democritei ecc.... 

Fu attirato dai problemi morali ed estetici Q. Orazio Flacco (n. a Venosa il 65, m. a Roma l’8 a. C.). Soltanto nelle Epistole, cioè nella sua opera più tarda, egli, che si vede già avanti negli anni, dichiara di sentirsi atti- rato dalla filosofia morale per la quale vuole abban- donare la lirica (I, 1, 10-23; II, 2, 141-144: si è notato che dal v, 145 alla fine questa epistola è un protrettico) ; ma anche negli scritti precedenti tocca spesso argomenti filosofici. Scherzosamente Orazio si chiama Epicuri de grege poreus (Epist. I, 4, 16), ma effettivamente egli, che dichiara di non voler giurare sulle parole di nessun maestro, non appartiene ad alcun indirizzo determinato, 

Il poeta, che nei suoi studi giovanili in Atene aveva conosciuto dottrine di scuole diverse, vede nella filo- sofia in generale una forma di cultura che non deve essere ignorata, ma s’interessa soprattutto per la mo- rale applicata ai casi della vita. La sua indole, amante dell’equilibrio, della tranquillità, della serenità, gli fa considerare con simpatia l’etica epicurea, di cui si scorge. l’influsso nella 2* satira del primo libro ; e nella 3% di |. questo, in versi che abbondano di reminiscenze lucreziane, riassume la teoria dell’Epieureismo sull’origine del diritto e delle leggi. Più volte satireggia paradossi stoici (tutte le colpe sono uguali, il sapiente è re e conosce ogni cosa) e disegna la caricatura degli stoici capelluti e barbuti che, predicatori ambulanti, espongono pre- cetti ai quali non sempre fanno corrispondere la vita ; ma coll’andare del tempo, mostra di apprezzare maggiormente la severa nobiltà degli ideali di quella scuola. 

Si avvicina sia all’Epicureismo che allo Stoicismo quando loda la vita semplice e sana della campagna ; ma quando sferza la caccia ‘alle riechezze e al lusso si collega al Cinismo, delle cui diatribe si avverte l'influsso nelle sue satire. Nell'insieme, la morale di Orazio è utilitaria ed è diretta dall’esigenza dell’equilibrio e della misura, ma non è una teoria filosoficamente fondata e perciò non manca di incoerenze. Nell’ Arte Poetica si riconoscono abitualmente riflessi di teorie peripatetiche e partico- larmente di Neottolemo di Pario che assegnava alla poesia il duplice ufficio di dilettare e di giovare, mentre da Panezio si fa provenire il concetto del decorum, che ha un posto centrale nella dottrina estetica che egli propugna. In complesso, questa (che corrisponde non. soltanto alle direttive di Augusto, ma anche alle esigenze della coscienza del tempo, desiderosa di una completa restaurazione degli antichi ideali della virtus romana) si contrappone all'autonomia dell’arte propugnata da Filodemo e assegna a questa un ufficio morale e 3 Sesto Properzio (n. nell’Umbria verso il 49, m. verso il 15 a. C.) si propose di studiare nella vec. chiaia problemi naturali collegati con la filosofia. 

Publio Ovidio Nasone (n. a Sulmona il 43 a. Cc. m. a Tomi il 17 d. C.) rivela influssi assai svariati. A Posidonio, mediato da Varrone, si fa risalire la sua rappresenta- zione dell'età dell'oro e dello sviluppo della cultura (Met. XV, 96 5898. ; Fasti I, 335 sgg; IV, 395 sge.). 

Dal Pitagorismo deriva in larga misura il libro XV delle Metamorfosi (69-478), in cui Pitagora (di cui si dice che si innalzò sino agli Dei col pensiero e scorse con l’a- nimo ciò che la natura nega agli sguardi umani) espone ai discepoli un ampio insegnamento “sulla natura, la Divinità, numerosi problemi naturali oscuri e condanna l’uso delle carni animali, giustificando questa proibi- zione con la teoria della metempsicosi. Nella tesi che nulla è stabile nella natura e nell’uomo, che anche gli elementi si trasformano gli uni negli altri, si notano invece influssi eraclitei e empedoclei. La formazione del mondo dal caos (Met. I, 1, sgg.), in complesso, riecheggia lo Stoicismo, ma include anche elementi che fanno pensare a Empedocle, ad Anassagora e a Lucrezio, 

Era imbevuto di discorsi socratici M. Valerio Messalla Corvino (n. 64 a. C., m. 8 d. C.), insigne per le sue atti- vità politiche e militari, scrittore e protettore di poeti. 

Studiò in Atene con Orazio e poi coltivò l’eloquenza, la grammatica, la poesia. Fu incluso nelle liste di proserizione perchè avversario di Cesare, ma salvò la vita. 

Combattò con Bruto e Cassio a Filippi, poi si unì ad Antonio ; in seguito strinse rapporti con Ottaviano. Fu console nel 31, combattè ad Azio ed ebbe comandi in Oriente. Per una vittoria sugli Aquitani, conseguì il trionfo nel 27 a. C. Rimase però sempre fedele alle antiche convinzioni politiche, e perciò nel 26, dopo sei giorni dalla nomina, abbandonò l’ufficio di praefectus urbis. Nell'11 fu curator aquarum. Nel 2. a. C. a nome del Senato salutò Augusto pater patriae. Fu centro di un circolo letterario al quale appartennero Tibullo, Ligs damo, la poetessa Sulpicia. Probabilmente in giovinezza serisse in greco carmi bucolici e tradusse in latino orazioni greche. Come oratore fu molto lodato (per es. da Tacito, da Quintiliano). Compose un’opera storica, probabilmente di memorie. Alcuni hanno rilevato influssi dell’Epicureismo, altri di Posidonio, nel lungo frammento che ci rimane di un poema sulla caccia (Cynegetica) composto da Grattio, vissuto al tempo di Augusto ; ma abbiamo elementi troppo scarsi per determinare le direttive del suo pensiero. Del poeta Linceo (probabil- mente questo era uno pseudonimo), Properzio, suo amico e rivale in amore, dice che attingeva la sua sapienza ai libri socratici e che avrebbe potuto trattare del corso delle cose, del sistema del mondo e di problemi, escato- logici e naturali. 

Tito Livio (n. a Padova nel 59 a. C., m. il 17 d.C.) serisse opere su argomenti tilosofici e dialoghi che riguardavano sia la filosofia che la storia, Si è affermato (ma la cosa è dubbia) che fosse derivata dallo Stoicismo la concezione deterministica della storia esposta nella sua opera sulle guerre civili (dal primo triumvirato a Filippi) da Asinio Pollione (n. 76 a. C., m. 5 d. C.), al quale Virgilio dedicò la IV Ecloga. Ostile al primo triumvirato e soprat tutto a Pompeo, si ‘schierò poi con Cesare che servì in Africa e in Sicilia ; fu presente a Farsaglia, e a Tapso e a Munda seguì il vincitore. Dopo la morte di Cesare si unì ad Antonio di cui fu legato nella Gallia Transpadana. 

Nel 40 ebbe il consolato ; dopo il 39 si allontanò da Antonio e strinse rapporti con Ottaviano, ma si rifiutò di seguirlo ad Azio, e da allora in poi si occupò di studi storici. Si interessò anche intensamente di poesia e di eloquenza e si distinse come acuto critico letterario. 

T. Alfeno Varo (verosimilmente identico a l’Alfeno di Orazio e forse a quello al quale Catullo dedicò il e. 30), che come legato di Ottaviano diresse la divisione delle terre ai veterani nella Gallia Transpadana (41) e pro- tesse i beni di Virgilio dal quale fu ricordato più volte nelle Ecloghe, e nel 39 fu consul suffectus, si interessò soprattutto di studi giuridici e compose opere di diritto (Digesti in 40 libri ; dubbia l’opera Coniectanea) ; ma in un frammento di esse menziona la teoria atomistica democrito-epicurea. Si dice che con Virgilio fu discepolo di Sirone, ma la cosa è apparsa dubbia, perchè era più vecchio del poeta. In tal caso, il condiscepolo di Virgilio sarebbe probabilmente Quintilio Varo, cre- monese, amico di Catullo. È molto dubbio che si debbano prendere alla lettera certe espressioni di Cicerone che accennano all’epieureismo di C. Trebazio Testa (n. e. 84 a. C.; m. e. 4 d. C.). Proveniva da famiglia agiata di Velia nella Lucania e pare che da giovane si sia recato a Roma per darsi agli studi giuridici. Per raccomandazione di Cicerone, Cesare lo condusse nelle Gallie e si servì di lui per pareri giuridici. Ritornato a Roma nel 50, all’inizio della guerra civile agì da mediatore tra Cesare e Cicerone. Nel conflitto fra Cesare e Pompeo, si schierò col primo al quale rimase sempre fedele. Dopo la morte di Cesare si recò spesso alla villa Tuscolana di Cicerone, ove gli caddero in mano i Topica di Aristo- tele ; per contentare il suo desiderio di avere chiarimenti di quella trattazione, Cicerone scrisse l’opera omonima che gli dedicò e gli inviò nel luglio 44, In seguito Trebazio seguì Ottaviano. Nel 30 Orazio gli dedicò la 1 satira del libro ILL, in cui lo presentò come un insigne giurista. 

Venne nominato cavaliere o da Cesare o da Augusto. Fu il maggiore giurista del tempo suo ed ebbe come scolaro Antistio Labeone. Scrisse sul diritto civile e sulle religiones, ma ci restano soltanto citazioni di autori posteriori. Probabilmente aderì a un eclettismo simile in parte a quello di Cicerone con forti caratteri accade- mici e stoici, ma non si può dire se abbia accettato lo scetticismo probabilista della Nuova Accademia. Ebbe larga cultura filosofica uno dei maggiori giuristi dell'età augustea, il già menzionato M. Antistio Labeone (n. c. 50 a, C.; m. prima del 22 d. C.), ma si ignora se se- guisse un indirizzo determinato. Giunse fino alla pretura, ma rifiutò il consolato offertogli da Augusto perchè conseguito prima di lui da persona meno anziana. Ap- partenne al partito repubblicano. Si dice che abbia scritto 400 libri di cui restano frammenti. Si ricordano fra gli altri: De iure pontificio-in almeno 15 libri, diversi Commentarii giuridici, 7davd, Responsae, in almeno 15 libri, Librì posteriores, in almeno 40 libri. Si interessò anche di studi grammaticali. Vitruvio Pollione (archi- tetto di professione, architetto militare di Cesare e di Augusto) compose in tarda età l’opera De architectura in 10 libri (25-23 a, C.), che dedicò ad, Augusto. Egli riteneva necessario lo studio della morale per la vita e quello della filosofia della natura per la professione dell’architetto. Iccio, che nel 20 a. C. era procuratore dei beni di Agrippa in Sicilia, aveva comprato ovunque opere di Panezio. 

In complesso, in questi scrittori, in generale, manca una concezione filosofica organica e coerente e perciò il loro interesse per i problemi filosofici, specialmente per quelli morali, anche se vivo, li porta verso quell’eclet- tismo che, del resto, è una caratteristica di tutta l’età ellenistico-romana. Precetti filosofici, e soprattutto mo- rali, erano luoghi comuni nel mondo delle persone colte e venivano largamente usati dai poeti ; insomma, in questo periodo la filosofia, di cui gli spiriti migliori sentivano viva e profonda l'esigenza, era diventata un argomento alla moda nelle classi superiori. 

Oltre questi uomini che si interessano per la filosofia, l’età di Augusto presenta veri e propri filosofi. Plu- tarco ricorda come tale, senza indicare la sua scuola, Volumnio, autore di una vita di M. Bruto. Erano stoici Sergio Plauto, e tre persone ricordate da Orazio nelle !. sue opere di cui ci danno alcune notizie i suoi commentatori. P. Fabio Massimo di Narbona, di famiglia equestre, seguace del partito pompeiano, scrisse alcuni trattati di contenuto stoico ; Stertinio, in 220 libri, trattò di problemi stoici, rendendo coi suoi versi anche più oscura la filosofia studiata; Plozio Crispino, studioso di filosofia e poeta, scrisse in versi sulle dottrine di quella scuola. 

Dipende essenzialmente dallo Stoicismo la scuola dei Sesti, sorta con vigorosi inizi nell’età di Augusto ed estintasi rapidamente dopo pochi decenni di vita. Venne fondata da Q. Sestio (n. c. 70 a. C.), uomo di anima forte, che per consacrarsi pienamente alla filosofia che amava profondamente trascurò gli onori e gli uffici politici ai uali lo destinavano la sua nascita e rifiutò il laticlavio offertogli da Cesare. Gli succedette, pare, nella direzione della scuola, il figlio Sesto ‘che viene identificato al Sextius Niger, che Plinio indica come fonte dei libri 12- 13, 21-30, 32-34 della sua storia naturale: si tratta di un’opera di medicina scritta in greco, presumibilmente fra il 10 e il 40 d. C. Aderirono alla scuola dei Sesti anche Sozione d’Alessandria, di tendenze neopitagoriche, che nel 18-20 d. C. fu maestro di Seneca; Cornelio Celso, l’enciclopedista, di cui riparleremo; L. Crassicio, di Taranto, che per seguire la filosofia dei Sesti abbandonò l'insegnamento in cui aveva acquistato fama; Fabiano Papirio, passato dalla retorica agli studi filosofici. 

Anche Fabiano fu maestro di Seneca, il quale testimonia che non era un filosofo ex his cathedraris, sed ex veris et antiquis (non un professore, ma un vero filosofo di stampo antico). Seneca ricorda la sue doti di conferenziere (le declamazioni, le pubbliche letture erano alla moda nel I secolo d. C.), ne loda il nobile carattere e le doti di serittore : egli riferisee che la produzione filosofica di Fa- biano non era meno ampia di quella di Cicerone. Di lui si ricordano Libri causarum maturalium (almeno tre), De amimalibus, Libri civilium. Quinto Sesto e Sozione scrissero in greco : delle opere di questa scuola rimangono poche sentenze di ambedue e di Fabiano, conservate da Seneca e dallo Stobeo, che confermano il giudizio di Seneca, che le dottrine di quell’indirizzo erano|, caratterizzate dal vigore romano, ma avevano’ carattere stoico, sebbene il fondatore negasse di appartenere alla Stoa. Però si allontanano dallo Stoicismo Antico, quando limitano le loro ricerche all'etica e in questa trascurano la parte teorica ; ma così si avvicinavano alla posizione dei cinici e degli stoici più recenti, e insieme alle preferenze dello spirito romano per ciò che serve all’azione. 

Essi miravano non a sviluppare teorie, ma a esercitare un influsso personale sulla condotta degli nomini e con- dannavano le dottrine che non miravano a un’azione etica. Puramente stoica è la tesi di Sesto, che Giove non ha maggior potere dell’uomo virtuoso. Alcuni loro precetti, invece, non hanno le caratteristiche di una filosofia particolare ; inoltre, anche in questa scuola si manifesta l’eclettismo contemporaneo, perchè accoglie anche teorie pitagoriche (la norma di rendersi conto ogni giorno della propria condotta, l'astinenza da cibi carnei, in Sozione la teorìa della trasmigrazione delle anime) e, platonico-aristoteliche (la natura incorporea e non spaziale dell'anima). Nulla di filosoficamente im- portante può trovarsi in questi autori, che però sono interessanti in quanto mostrano come Stoicismo e roma- nità si potessero collegare e fondere in alcune anime nobili e vigorose. 

A. Cornelio Celso (vissuto sotto Tiberio), secondo Quintiliano, aderiva alla scuola dei Sesti, ma le opere in cui si esprimono quelle sue convinzioni dovevano essere diverse dai sei libri che costituivano la parte filosofica della sua enciclopedia (intitolata Artes secondo i ms.), che includeva sei sezioni: Agricoltura, Medicina, Arte della guerra, Retorica, Filosofia, Giurisprudenza. Si è conservata soltanto la parte riguardante la Medicina, fondamentale per la conoscenza di quella disciplina nell’età alessandrina sino ad Asclepiade e degli inizi della scuola metodica. In quella filosofica Sant’ Agostino afferma che Celso si limitava a esporre e a criticare le opinioni di tutti i filosofi che sino al tempo suo avevano fondato scuole, nominando anche quelli che avevano seguito altri. Così avrebbe menzionato un centinaio di filosofi. 

Sebbene la filosofia trovasse larga diffusione, per- sisteva ancora, in romani di stampo antico, l’ostilità per essa. Seneca ci assicura che suo padre l’odiava, Quintiliano era ostile ad una disciplina che allontanava i suoi cultori dall’esercizio dell’eloquenza e dalla parte- cipazione alla vita pubblica : anche Tacito mostrò per essa sentimenti simili. Particolarmente nel I secolo d. C. i successori di Augusto provarono diffidenza e av- versione per i filosofi stoici soprattutto, ma anche per i cultori della filosofia in generale, e in vari casi li per- seguitarono. Sotto Tiberio fu bandito da Roma lo stoico Attalo, Caligola mandò a morte Giulio Cano, Claudio esiliò in Corsica Seneca. Sotto Nerone, alcuni filosofi stoici e alcuni seguaci di questa filosofia, furono uccisi (Trasea Peto, Seneca, Lucano, Rubellio Plauto) o esi- liati da Roma (Musonio Rufo, Cornuto, Paconio Agrip- pino), e fra le accuse sollevate da Tigellino contro Ru- bellib Plauto era quella di seguire «la setta arrogante degli stoici, che rende turbolenti e desiderosi di disor- dini » (Tacito, Ann. XIV, 57). Sotto Vespasiano, Elvidio Prisco, il genero di Trasea, fu mandato a morte; nel 71 tutti i filosofi vennero cacciati da Roma ad ecce- zione di Musonio Rufo che vi era rientrato sotto Galba : in quel tempo Dione Crisostomo, che non aveva ancora abbandonato la retorica per la filosofia cinica, componeva il discorso Contro i filosofi, peste delle città e dei governi, Nell’85 Domiziano, irritato per l’elogio che di Trasea e di Elvidio Prisco aveva composto Giunio Ru- stico, fece uccidere questo e il figlio di Elvidio e cacciò da Roma tutti i filosofi. Queste persecuzioni, però, erano determinate o da motivi personali o da ragioni politiche ed estendevano a tutti i filosofi la diffidenza e l’avversione che erano suscitate principalmente dai seguaci dello Stoicismo. Effettivamente, la filosofia non era soltanto l'oggetto di un interesse culturale generale (e a tal punto che, secondo Marziale, una donna, la moglie di Canio Rufo, si era appassionata per le dot- trine dello Stoicismo e dell’Epicureismo): in tutte le scuole di quel tempo agitato e pieno di pericoli predo- minavano gli interessi morali e religiosi e la filosofia appariva una fonte di pace interiore, di auto-dominio, di sicurezza e di forza davanti alle tempeste della vita e i suoi cultori erano considerati consiglieri, guide della condotta, direttori di anime, Ma soprattutto lo Stoicismo, che con la sua morale severa si era diffuso fra gli spiriti migliori, ai quali arrecava, più che le altre scuole, quel conforto e quell’energia interiore che erano necessari per non cedere alla marea dei tempi o alla disperazione, attirava i discendenti dell’antica aristocrazia, ostili per principio al nuovo governo, sicchè sebbene nemmeno allora costituisse un partito politico, contava tra i pro- pri seguaci non pochi membri dell’opposizione all’autorità degli imperatori. In seguito, però, le cose mutarono. 

Sotto Adriano furono istituiti insegnamenti pubblici di . filosofia con onori e stipendi e Antonino Pio estese questa misura alle province. M. Aurelio stabilì che in Atene (ritornata il centro degli studi filosofici) vi fossero in- segnanti pubblici, pagati dallo stato, delle quattro scuole filosofiche principali : la stoica, la platonica, la peripa- tetica, l’epicurea. Questo fatto si collega all’interesse che, come si è detto, i diversi indirizzi provavano allora per le proprig origini e che li induceva a occuparsi della vita, delle opere e dell’insegnamento dei propri fondatori. Questa attività erudita, particolarmente in- tensa in prima linea nella seuola peripatetica e poi in quella platonica, nelle quali persistette senza interru- zioni sino alla fine dell’età antica, ebbe cultori anche negli altri indirizzi filosofici. 

Parlando di questo periodo, non è possibile conside- rare a parte le maggiori personalità filosofiche come si ò fatto per l’età della Repubblica, perchè non si presenta più il fatto che soltanto di esse rimangano opere complete o almeno frammenti importanti. Inoltre, alcune delle scuole di cui si deve parlare (lo Stoicismo, il Neo- Pitagorismo, il Platonismo-Medio) costituiscono il pre- cedente necessario della filosofia che ha il predominio assoluto nei secoli successivi, cioè il Neo-Platonismo. 

Occorre dunque considerare in ultimo tali indirizzi, ai quali, del resto, appartengono i pensatori più notevoli di questi secoli. 

Oltre alle quattro scuole ricordate sopra, altre sono attive nei primi secoli dell'impero : il Cinismo, che ac- quista nuova vita e trova larga diffusione, il Neo-Pita- gorismo, la Scuola platonica del tempo (Platonismo Medio), lo Scetticismo Nuovo: di tutte sono ricordati seguaci romani, ma soltanto di aleune si menzionano aderenti notevoli in Roma. Lo Stoicismo, la scuola più importante del periodo, deve all’Urbe due tra le figure filosofiche più insigni di questi secoli, Seneca e M. Aure- lio, e inoltre altri numerosi rappresentanti. 

Appartenne ai peripatetici Claudio Severo (identi- ficato a Cl. Severo Arabieno, console nel 146), maestro di M. Aurelio che lo ricorda con affetto e ammirazione assai forti e dichiara di dovere a lui il culto costante della filosofia, l’amore del vero e del bene, il chiaro concetto di uno stato democratico fondato sull’uguaglianza dei cittadini, di un impero rispettoso soprattutto della libertà dei sudditi. Nel II secolo seguirono la stessa scuola Paolo, praefectus urbis, e Flaviof Boeto, conso» lare, cultore di medicina e di filosofia, menzionato da Galeno, che gli dedicò vari scritti ; Virginio Rufo, pure peripatetico, deve essere vissuto in unò dei due primi secoli d. C. I 

Il Cinismo contava certamente molti seguaci in Ro- ma, ma si ricordano soltanto pochi snoi rappresentanti col nome romano : Ostilio, dell'età di Vespasiano; Cre- scente, l’accusatore di Giustino Martire, dell'età degli Antonini, e Onorato, vissuto nel II secolo, che si ve- stiva con pelli di orso. Ì Seguirono l’Epicureismo due filosofi dal nome di Celso, vissuti, l’uno nel tempo di Nerone, l’altro, in . quello di Adriano : Luciano, che ha dedicato al secondo l’Alessandro, ricorda una sua opera Contro i Magi. Furono pure epigurei il senatore Pompedio, del tempo di Caligola, lo stolos Aufidio Basso (che Seneca ricorda come già vecchio in una lettera scritta tra il 57 e il 65), autore di un’opera che si ritiene andasse dall’inizio delle guerre civili alla morte di Tiberio, almeno; Pollio Felice (Pollius Felix) di Pozzuoli, del tempo di Domiziano, oratore e poeta, amico di Stazio che gli dedicò il libro III delle Selve. È dubbia l'appartenenza all'Epicureismo di un Prisco, di cui Marziale ricorda un’opera sui piaceri della tavola. Un periodo di risveglio ebbe quell’indirizzo nel 

II secolo in opposizione al diffondersi delle correnti religiose e contò fra i suoi seguaci una imperatrice, Plotina, moglie di Traiano e madre di Adriano, che si interessò presso il figlio per il riordinamento di tale scuola, di cui furono seguaci Antonio, amico di Galeno, che criticò le teorie che aveva esposto in un libro (sulla difesa dalle proprie passioni: rep rig ènì roîs Idlors nddeor tpedpelac). Forse appartenne a questa epoca anche l’epieureo Pudenziano, menzionato pure da Galeno in uno dei suoi seritti (Ez:oroA) Iovdevria- vo ’Erixovpetov). Dell'Epicureismo furono seguaci an- che P. Ottavio Secondo e-C. Stallio Auranio (Haura- nius) di Napoli, ma non se ne conosce la cronologia. 

Diversi rappresentanti romani trova il Nuovo Scetticismo iniziato da Enesidemo ; e forse tra essi può collocarsi anche\ uno «dei più notevoli pensatori di quel. l'indirizzo, quéll’Agrippa, di cui, per la vita e la cronologia, può dirsi soltanto che è vissuto tra Enesidemo e Sesto Empirigo, ossia in uno dei due primi secoli d. C. I dieci tropi 0 argomenti di Enesidemo in favore della sospensione del giudizio, riguardavano la conoscenza sensibile e la valutazione morale e si potevano ridurre ai- due della divergenza fra le credenze degli uomini e fra le opinioni dei filosofi e alla relatività delle cono- scenze. Agrippa ne presentò cinque che avevano un ca- rattere più generale, perchè si riferivano a ogni forma del conoscere, sensibile e intelligibile, e includevano, oltre i due ora ricordati (il 10 e il 3°),*altri tre riguardanti, piuttosto che il contenuto, la forma della cono- scenza. Propriamente, essi hanno per oggetto il tenta- tivo di giustificare qualche tesi. Questi argomenti sono : 20 del processo all'infinito, perchè ciò che è in questione deve essere provato con altro e così via illimitata- mente; 4° delle premesse ingiustificate : se si vuole sfuggire al 2° argomento occorre partire da ipotesi che non si impongono più delle conseguenze ; 5° del circolo, perchò a deve provarsi con d e è con a, altrimenti si ricade nei due casi precedenti. 

Viene ricordato come scettico un certo Cassio che aveva rivolto critiche a diverse tesi di Zenone i sì erede sia identico al filosofo omonimo (I o II secolo d. C.) che secondo Galeno condannava l’uso di quel ragionamento che era stato denominato il passaggio dal simile al simile, cioè l'analogico. Potrebbe però trattarsi di due scettici diversi e sarebbe possibile in tal caso che il critico di Zenone fosse più antico dell’altro. Seguace di Sesto Empirico (e. 150 d. C.) e perciò vissuto alla fine del II secolo d. C. o al prineipoi del III, fu Saturnino, scettico pirroniano e medico :! non si ricordano sue dottrine particolari, ma si può supporre che accettasse ! Diogene Laerzio dice che era soprannominato Kvnvag : la parola è incomprensibile, ma forse indicava un’origine greca, quelle fondamentali del maestro che, negando la possibilità di una scienza razionale che pretendesse di cogliere le cause nascoste delle cose, ammetteva la legittimità di arti (prima fra esse la medicina) che si limitassero a constatare empiricamente coincidenze e successioni di fenomeni per fondare così previsioni probabili per il futuro. 

Si collega da una parte allo Scettieismo pirroniano, dall’altra a quello della Nuova Accademia, ma è soprattutto un eclettico, Favorino di Arelate (Arles: n. c. 80-90, m. fra 143-176 d. C.), piuttosto retore ed enciclopedico che filosofo, sebbene volesse essere chiamato con questo nome. Può essere stato discepolo di Dione Crisostomo a Roma, forse all’inizio del II secolo, ma non è provato che abbia avuto per maestro Epitteto. 

Già al tempo delle guerre daciche di Traiano deve avere conosciuto Plutarco che gli dedicò il De primo Frigido e ne fece un interlocutore delle Quaestiones Conviviales ; inoltre fu maestro di Erode Attico che conservò sempre per lui affetto e ammirazione. Visse soprattutto a Roma (ove fu ascritto all'ordine equestre, mentre in patria conseguì un ufficio sacerdotale) sotto Traiano, Adriano e Antonino; ma si recò a tener discorsi e conferenze ad Atene e a Corinto, che lo onorarono ciascuna con una statua-ritratto, e nell'Asia Minore, riportando successi specialmente a Efeso. In quel tempo si svolse fra lui e il suo concorrente Polemone un'aspra polemica che venne ripresa a Roma ove i due sofisti si disputavano il favore di Adriano; Favorino, dopo averlo goduto, lo perdette, e probabilmente per ciò deve essere stato esiliato a Chio (c. 131). Ritornò a Roma presumibilmente quando salì al trono Antonino (138) e stabilì la sua residenza in quella città, ove il pubblico lo ammi. rava assai. Era in relazione con le persone più colte del tempo suo, come Frontone e Aulo Gellio ; era uomo di vasta cultura, dominava sia la letteratura greca che quella romana e si distingueva per l’acume della dialet- tica e per la leggiadria dell’espressione. 

Scrisse in greco, trattando argomenti svariati; ma delle sue opére rimangono soltanto alcuni discorsi e dia- tribe e pochi.frammenti. Un gruppo di scritti era costi- tuito da discorsi epidittici e da diatribe : nei primi, secondo il gusto retorico del tempo, sono contenute lodi di esseri dannosi o spregevoli (Tersite, per es.). 

Fra gli scritti di erudizione storica e più importanti sono i Memorabili, in almeno 5 libri, e la Storia svariata, in 24 libri che interessano la storia della filosofia, I primi, che conosciamo per ciò che ne riferisce Diogene Laerzio, erano principalmente una raccolta di aneddoti sui filosofi dei secoli VI-IV a. C. La seconda aveva un contenuto molto vario ; nei frammenti che sono con- servati emergono i capitoli che riguardavano I filosofi che hanno fatto qualche scoperta importante per la storia della cultura; Gli accusatori dei filosofi. Un Compendio di Pamfile era un estratto di un’opera di questa serit- trice (una grammatica). Più numerosi gli seritti di filo- sofia scientifica o popolare: Sulle idee; Sulla filosofia di Omero ; Su Platone; Su Socrate e sulla sua arte ero- tica; Sul modo di vivere dei filosofi ; Plutarco, o dello stato d'animo dell’ Accademico ; Contro Epitteto (dialogo) ; «Alcibiade; 3 libri rep. is xaradngetIXiio pavraolag (contro la gnoseologia stoica : in un libro intero mostrava che nemmeno il sole è comprensibile: xateAnmemdv). 

L’opera sua più importante era giudicata uno seritto in 10 libri, / tropî pirroniani, in cui disponeva in modo diverso dal solito gli argomenti di Enesidemo. È dubbia una raccolta di sentenze (G@nomologia). Agli scritti filo- sofici si può aggiungere un esteso frammento, recente- mente scoperto, di un discorso Sull’esilio, rivolto agli abitanti di Chio : ciò che resta sembra costituisse l’in- troduzione a una diatriba d’intonazione cinico-stoica sul- l’esilio che, giudicato un male dai più, non può nuocere al filosofo. Ritenuto al tempo suo uno dei primi serit- tori, fu criticato da Galeno in varie opere e trovò let- tori anche nel III secolo. 

Poca importanza hanno le sue opinioni nella sfera della morale (in cui, in generale, non superò i limiti dei luoghi comuni abituali) e alcune sue tesi naturalistiche, che mostrano influssi aristotelici é stoici. Più interessante è il suo atteggiamento filosofico generale. Favorino si collegava alla Nuova Accademia, di cui accettava il principio fondamentale inquirere potius quam decernere, e riteneva l'insegnamento migliore quello che argomentava pro e contra; d’altra parte, la sua opera principale mostra che accettava lo Scetticismo pirro- niano. Ma effettivamente non si fermava al puro e sem- plice dubbio, perchè accettava la tesi neo-accademica della probabilità, sicchè, dopo avere difese successiva- mente due proposizioni opposte, lasciava che i disce- a ‘poli scegliessero la più vera (cioè la più probabile). Così, al pari di Cicerone, estendeva il probabilismo oltre i limiti della vita pratica assegnatagli da Carneade e, __‘—col suo predecessore romano, faceva di esso il fonda- mento dell’eclettismo ; infatti, è verosimile che in questo modo giustificasse l'affermazione che l'insegnamento del Peripato conteneva la maggiore probabilità. Deve avere seguito l'indirizzo di Favorino il suo discepolo Qua- drato, che viene identificato a L. Stazio Quadrato (cons. 142, poi proconsole d’Asia). 

Si può collegare allo Scetticismo neo-accademico L. i Licinio Sura (n. in Ispagna e. 56, m. poco dopo 110), Ri corregionale e amico di Marziale. Fu tre volte console e contribuì notevolmente alle vittorie di Traiano sui e Daci. Amico dell’imperatore che se ne serviva per la composizione dei suoi discorsi, era, dopo di lui, l’uomo più autorevole dello stato. Persona molto colta, si in-teressava di problemi naturalistici e partecipava attivamente ai movimenti spirituali del tempo suo.

Plinio Ss il Giovane, che gli ha indirizzato due lettere, dice che i aveva l'abitudine di discutere su problemi scientifici il pro e il contra. 

In questi secoli la scuola stoica, valendosi di tutti i mezzi orali e scritti, soprattutto di quelli più popolari, che favorissero la diffusione del suo insegnamento, esercitò una forte azione non soltanto sulle classi superiori, (di queste si. è parlato precedentemente), ma anche su quelle più modeste della società romana per mezzo di vere e proprie predicazioni, determinando un gran numero di adesioni e di conversioni, Segnaci dello Stoi- cismo furono infatti uno schiavo come Epitteto e un imperatore come Marco Aurelio. Siccome, però, soltanto alcuni di essi, soprattutto questo, e più di lui Seneca e anche Musonio Rufo, meritano di essere considerati particolarmente, è opportuno ricordare da prima i no- mi degli stoici dell’epoca e poi parlare separatamente dei principali. 

Non tutti i seguaci dello Stoicismo vissuti in questi secoli rappresentavano degnamente quella scuola, anzi alcuni erano la negazione vivente della morale che in- segnavano ; così sotto Nerone P. Egnazio Celere de- nunciò un altro stoico, Borea Sorano e sua figlia, e Giovenale ricorda a titolo d’infamia Palfurio Sura, pure - stoico ; masi trattava di casi isolati. Alla scuola di cui si parla (e probabilmente in modo particolare a Posi- donio) si può collegare M. Manilio, vissuto nell’età di Augusto e di Tiberio. Nel suo poema astrologico ( Astro- nomica), composto, sembra, parte sotto il primo e parte sotto il secondo imperatore, propugna con entusiasmo una visione del mondo che ha per centro il principio dell'unità di tutte le cose, che sono sottoposte a una legge fissa e ineluttabile, Dio, che penetra e vivifica l'universo. La Divinità risiede nel mondo celeste, del quale quello terrestre è un’immagine. Le stelle determinano la sorte degli uomini ai quali non resta che rivolgersi ad esse per interrogarle : questa conoscenza rende l’uomo simile a Dio. È Si occupò di argomenti astronomiei anche ©. Giulio Cesare Germanico, n. il 24 maggio del 15 a. C. da Nerone Claudio Druso Germanico e da Antonia Minore, Nel 4 d. C. venne adottato da Tiberio, che contemporanea- mente era adottato da Augusto e in tal modo fece parte della famiglia Giulia. Nel 14, dopo la morte di Augusto, dovette reprimere le gravi rivolte che erano scoppiate nella regione renana fra le legioni; poi passato il Reno, intraprese una spedizione in Germania (14-15), sconfisse Arminio, ne fece prigioniera la moglie Tusnelda, vendi- cando la sconfitta delle legioni di Varo. Richiamato da Tiberio il 16, venne inviato in Oriente con poteri straor- . dinari. Là venne in conflitto col proconsole della Siria, Calpurnio Pisone : intanto si ammalò improvvisamente in Antiochia e vi morì il 10 ottobre. Si diffuse la voce che fosse stato avvelenato da Pisone e dalla moglie di questo Plancina, ma tale accusa venne smentita nel processo che si fece in seguito. Ebbe larga cultura. Scris- se commedie in greco e gli si attribuiscono epigrammi in greco e in latino ; fu anche un valente oratore. Rie- laborò liberamente, servendosi dei progressi compiuti dalla scienza astronomica, i Fenomeni di Arato, già tradotti da Cicerone. Di quest'opera restano 700 versi. 

Possediamo pure frammenti di contenuto astronomico (c. 200 versi), che precedentemente si consideravano avanzi di Prognostica, ma che dovevano essere inclusi nella seconda parte dei Fenomeni con cui Germanico voleva completare l’opera di Arato. Si è affermato che seguiva fedelmente lo Stoicismo, ma le affinità che vi sono indicate, rispetto ad argomenti particolari, tra .certe tesi sue e le dottrine di quella scuola non riguardano le teorie centrali di essa. 

Sotto Claudio e Caligola visse Giulio Cano ucciso dal secondo : stando a Seneca, davanti alla morte mo- strò una rara imperturbabilità. L'interesse da lui mo- strato per l'immortalità dell'anima ha fatto pensare a influssi neo-pitagorici sul suo stoicismo. Nell’età di Ne- rone (che ebbe per maestri due stoici, Cheremone e Se- neca) seguirono lo Stoicismo Clarano, condiscepolo e coetaneo di Seneca, e Anneo Sereno amico e parente o liberto di questo (che gli dedicò vari seritti) e morto, a breve distanza dalla nomina a praefectus vigilum, poco prima di lui (62 o 63). Stoici della stessa epoca fu- rono un altro amico di Seneca, C. Crispo Passieno, marito di Agrippina, e L. Anneo Cornuto di Leptis. 

Il primo, oratore insigne, fu due volte console (la seconda nel 44 d, C.). Sposò Aria Domizia, zia di Nerone, poi Agrippina, che con frode, gli tolse la vita (37). Cor- nuto, confinato da Nerone in un’isola per la. libertà delle sue critiche (66 o 68), scrisse in greco su argomenti retorici e filosofici. Compose in latino De figuris senten- , tiarum, un commento a Virgilio e un lavoro De enun- tiatione vel de ortographia. La sua opera ‘principale è Ertdpopà tov xatà Thv ’EXXgvix}y deoXbylay rapadedo- pévoy (che ancora ci rimane) che, valendosi di opere pre- cedenti più estese sull'argomento, presenta l’interpre- tazione stoica dei miti greci considerati come allegorie della fisica stoica. Origene, che lo studiò, applicò quel procedimento all’interpretazione dei testi biblici. Sco- lari di Cornuto furono due poeti, A. Persio Flacco (34» 62), le cui satire sviluppano in versi vigorosi, ma spesso oscuri, dottrine stoiche, e M. Anneo Lucano (39-65), ni- pote di Seneca (mandato a morte da Nerone per la sua partecipazione alla congiura di Pisone), che nella Far- salia spesso manifesta la sua adesione allo Stoicismo. 

Influssi di uno Stoicismo eclettico si sono rilevati negli scritti di Giunio Moderato Columella, di Gades (Cadice), contemporaneo di Seneca, che fu tribuno militare della 6 legione ferrata, che risiedeva nella Siria. Possedeva terre in Italia, che riteneva il paese più adatto per l'agricoltura, di cui si interessò in modo particolare. 

Compose due redazioni di un’opera sulla agricoltura, una più breve (di cui resta un libro De arboribus), che doveva includere tre o quattro libri, e una più ampia in dodici (De re rustica), scritta probabilmente tra il 61 e il 65 d. C. Di lui rimane anche sugli stessi argo- menti un liber singularis. Quando redigeva l’opera mag- giore ne aveva già scritta una contro gli astrologi, ora perduta, e ne disegnava un’altra, riguardante lustra- tiones ceteraque sacrificia quae pro frugibus sunt, che, se pure è stata composta, non ci è giunta. 

Appartengono all’età di Nerone e dei suoi successori, oltre i già ricordati Borea Sorano e P. Egnazio Celere, anche altri stoici. Il primo, consul designatus (veramente consul suffectus) per il 52, fu avanti il 63 proconsole di Asia: venne accusato presso Nerone perchè era amico di Rubellio Plauto e perchè aveva cercato di acquistarsi il favore dei propri amministrati, nei quali aveva fo- mentato lo spirito di rivolta; sua figlia Servilia fu incolpata di pratiche magiche. Corrotto dagli accusatori, testimoniò falsamente contro ambedue l’antico cliente e amico e attuale insegnante di filosofia stoica di So- rano, P. Egnazio Celere (di Berito ?). Padre e figlia fu- rono condannati a morte, ma nel 69, sotto Vespasiano, Egnazio Celere fu accusato davanti al Senato da Musonio Rufo e, sebbene difeso dal cinico Demetrio, fu a sua volta condannato alla pena capitale. Palfurio Sura visse da prima sotto Nerone; allontanato dal Senato da Vespasiano, divenne stoico e acquistò fama come oratore e poeta. Fu delatore al tempo di Domiziano ; morto questo, venne accusato davanti al Senato e con- dannato. 

Rubellio Plauto (n. dopo il 33 d. C., m. nel 62), per parte della madre nipote di Augusto allo stesso grado di Nerone, aderì allo Stoicismo, seguendo la tradizione della propria famiglia. Confinato da Nerone nell'Asia Minore (60), strinse amicizia con Borea Sorano, allora procon- sole d’Asia, ed ebbe rapporti con Musonio Rufo e Ce- rano. Nel 62 Tigellino decise Nerone a liberarsi di lui ; fra le accuse che gli erano rivolte v'era quella di apparte- nere alla‘“scuola stoica. Condannato a morte senza pro- cesso, seguì il consiglio di Musonio Rufo e di Cerano e si lasciò uccidere da un centurione senza opporre resi- stenza. Paconio Agrippino, il figlio di M. Paconio, man- dato a morte da Tiberio, dopo essere stato al tempo di Claudio questore in Creta e in Cirenaica, fu da Nerone esiliato dall’Italia. Morto quell’imperatore ritornò in Cirenaica come legato di Vespasiano (71 e 72 d; C.). 

Nella stessa epoca vissero due audaci assertori de- gli antichi ideali repubblicani, Trasea Peto e suo genero Elvidio Prisco. Il primo, nato a Padova da famiglia distinta e ricca, nel 42 risiedeva a Roma. Sebbene ap- partenesse all'opposizione all'impero, fu consul suffectus (56-57); sino al 63 partecipò attivamente alle adunanze del Senato opponendosi a Nerone ; ne stette lontano dal 63 al 66. L'imperatore gli era ostile sia perchè aveva composto uno seritto in lode di Catone, sia per l’azione personale che svolgeva. Processato davanti al Senato e condannato a morte, si fece segare le vene dopo aver detto al questore che gli aveva comunicato la sentenza : Libiamo a Giove Liberatore. Lo assistette negli ultimi momenti il cinico Demetrio col quale precedentemente aveva discusso della natura dell'anima e della sua divisione dal corpo. Elvidio Prisco, nato nel Sannio, si de- dicò da giovane alla filosofia ed ebbe maestri stoici. 

Sebbene rigido repubblicano, partecipò attivamente alla vita pubblica; fu quaestor Achaiae nel 51, come quaestorius comandò una legione e fu tribuno della plebe nel 56. Nel 66 fu involto nel processo del suocero e bandito da Roma ; richiamato da Galba, aceusò il dela- tore di Trasea Peto ; nel 70 ottenne la pretura. Energico oppositore dell’imperatore si attirò l’avversione perso- nale di Vespasiano e perciò fu relegato per la seconda volta, poi condannato a morte (70). Il filosofo Ostiliano, bandito da Vespasiano verso il 74, è forse identico allo stoico C. Tutilio Ostiliano da Cortona. 

Nell’età di Domiziano vissero C. Vibio Massimo, Giunio Aruleno Rustico, Erennio Senecione e inoltre un ‘Frontone e un Deciano di Emerita nella Lusitania, ri- cordati da Marziale : forse il secondo dei due ultimi si deve identificare a L. Silio Deciano, console nel 93. C. Vibio Massimo nel 93 era prefetto della 3% coorte Alpina nella Dalmazia, nel 104, prefetto dell'Egitto ; fu amico di Stazio e di Plinio il Giovane. Aruleno Rustico, tribuno della plebe nel 66, pretore nel 69, venne fatto uccidere da Domiziano (non prima del 93) perchè filosofava e considerava Trasea un santo. Ebbe uguale sorte, poco dopo l’agosto 93, per avere scritto la vita di Elvidio Prisco, Senecione, nato nella Spagna Betica ove fu questore: deve aver seguito lo Stoicismo. Alla stessa epoca appartenne Silio Italico, l’autore dei Pu- nica (un poema sulla 28 guerra punica); nato nel 25 a Italica (in Italia). Accusato di essere stato un delatore sotto Nerone, ottenne il consolato nel 68, l’ultimo anno del principato di quell’imperatore, poi partecipò attiva- mente alle lotte per la successione all'impero, che av- vennero negli anni seguenti e ottenne bella fama come proconsole d’Asia. Ritiratosi a vita privata, impiegò il suo tempo negli studi, passando gli ultimi anni nella Campania. Nel 101, per sottrarsi a una malattia incura- bile, si diede la morte con la fame. 

I due Plinii (23-79; 62-113) non si possono conside- rare stoici, sebbene nei loro scritti si trovino pensieri che dipendono da quella scuola, di cui Plinio il Vecchio era un ammiratore. Quanto a Plinio il Giovane, conobbe in Siria, quando vi prestava servizio, due filosofi, Arte- midoro e Eufrate, coi quali più tardi ebbe stretti rapporti in Roma. 

Giovenale (n. 55, m. 130 a 140), anche se si collega allo Stoicismo, si ferma alla morale delle diatribe senza imprimervi carattere propriamente filosofico. Si è vo- luto far dipendere dalla stessa scuola anche Tacito (n. 54 o 55, m. 117 a 120), che effettivamente provava simpatia per la rigida morale di esso; ma è certo che nella sua concezione della storia, e quindi nella sua vi- sione della realtà, egli (che in generale non apprezza troppo la filosofia e i suoi cultori) mostra un pensiero poco coerente e poco organico, tanto è vero che spiega gli stessi avvenimenti sia con cause naturali, sia con forze che le trascendono, come il favore degli Dei e il destino, e anche, rispetto alle seconde, oscilla fra il caso e il fato. Nell’età di Adriano e nella seguente visse un certo Lucio, discepolo di Musonio Rufo. Marco Aure- lio ricorda con affetto e lode tre seguaci di quell’indi- rizzo, vissuti nello stesso periodo: Giunio Rustico (fi- glio o nipote di G. Rustico Aruleno), due volte console (nel 119 fu collega di Adriano nel suo terzo consolato). e una volta praefectus urbis ; Claudio Massimo, console e poi legato e procuratore imperiale; Cinna Catulo, tutti e tre suoi maestri. Era seguace dello stesso indirizzo anche l’imperatore. 

Dopo Marc'Aurelio Antonino, lo Stoicismo va perdendo im- portanza e gradatamente si estingue. Nel III secolo vengono ricordati due suoi rappresentanti romani con- temporanei della formazione del Neo-Platonismo : An- nio e Medio : una discussione che il secondo ebbe con Longino può essere avvenuta tra il 258 e il 262. Secondo Longino, ambedue sarebbero stati privi di originalità e si sarebbero limitati a riprodurre il pensiero degli antichi. Forse era romano lo stoieo Musonio che inse- gnava in Atene quando vi studiava Longino, ma non pubblicò scritti. Non è nota la cronologia di un altro stoico, T. Claudio Alessandro (romano ?). In ogni modo lo Stoicismo esercitò un’azione profonda ed estesa sullo svolgimento posteriore dell’etica come scienza e come norma pratica di vita, aprendo la via agli sviluppi del Cristianesimo, e, dopo avere esercitato una forte azione sul Neo-Platonismo, influì notevolmente sulle dottrine dei Padri della Chiesa. 

L. Anneo Seneca nacque a Corduba verso il 4 a, C. 

Il padre chiamato poco esattamente il Retore, cultore degli studi letterari e, soprattutto, dell’eloquenza, serisre una storia romana dalle guerre civili in poi, che si è perduta, dieci libri di Controversiae e uno di Suasoriae, in cui, servendosi dei suoi ricordi, raccoglieva parti di declamazioni di retori che aveva ascoltato. La madre di Seneca, Elvia, affezionatissima ai figli, seppe agire fortemente sul loro spirito : era appassionata per gli studi e anche per la filosofia e da lei probabilmente Lucio derivò l’amore per quella disciplina, poco apprez- zata dal padre. Il fratello maggiore di Seneca, Marco Anneo Novato (al quale sono dedicati il De ira, il De . vita beata e il De remediis fortuitorum) venne adottato dal retore Giunio Gallione amieo di suo padre, di cui prese il nome. Coprì uffici molto elevati perchè fu con- sole e proconsole dell’Acaia, ma dopo qualche tempo dalla morte del fratello; si tolse la vita, forse perchè fatto oggetto degli attacchi, da prima inutili, dei suoi nemici. Di lui Seneca parla spesso con affetto e stima, mentre raramente accenna al fratello minore, Mela, che ebbe per figlio il poeta Lucano. Anneo fu condotto a Roma ancora fanciullo da una zia materna (moglie di Vitrasio Pollione che fu poi per sedici anni prefetto dell'Egitto) ed essa dovette occuparsi soprattutto della salute delicata del nipote indebolita anche per l'intensità con cui si dava agli studi. La filosofia lo attirò ben presto, sicchè si interessò degli insegnamenti dei più notevoli rappresentanti di essa in Roma : fanciullo, ebbe per maestri Sozione d’Alessandria e Sestio il giovane ; giovanetto, Attalo, Papirio Fabiano e il cinico Demetrio, che ricordò spesso con viva ammirazione. Egli aderì allo Stoicismo, di cui volle applicare le norme severe alla vita di tutti i giorni, ma per consiglio del padre (che temeva sia che le rinuncie che si imponeva mettes- sero in pericolo la sua salute già debole, sia che incor- resse nell’avversione di Tiberio, ostile ai filosofi), si volse all’eloquenza forense e alle cariche pubbliche. 

Conseguì la questura (pare nel 31 o nel 32) per l’opera della zia, entrò in Senato e come oratore conseguì tali trionfi da suscitare l'invidia e l’avversione di Caligola che avrebbe voluto mandarlo a morte, ma che mutò parere perchè venne convinto che Seneca aveva ben poco tempo da vivere. Allora abbandonò l'avvocatura, poi rimasto libero per la morte del padre (verso il 39), ritornò agli studi filosofici ; appartengono forse a questa epoca le sue prime opere di filosofia, la Consolatio ad Marciam e i libri del De ira. Ma una nuova tempesta lo colse perchè, per l’inimicizia di Messalina, venne aceusato di adulterio con Giulia Livilla, sorella di Caligola, sicchè Claudio lo esiliò in Corsica. Rimesso dal grave colpo tentò di trovar conforto e forza nell’insegnamento stoico e cercò di calmare il dolore della madre con la Consolatio ad Helviam (42 o 43), ma poi si abbattè a tal punto da scrivere una Consolatio ad Polybium (liberto e segretario di Claudio), piena di adulazioni per lui e per l’imperatore, Nel 49, Agrippina, che aveva sposato Claudio, richiamò Seneca dall’esilio, lo fece nominare pretore e gli affidò l'educazione del figlio Nerone adottato dall’imperatore : siccome Nerone aveva altri due precettori di filosofia, è probabile che Seneca si occupasse piuttosto degli insegnamenti del- l’eloquenza e della poesia e della formazione morale del discepolo. Collega di Seneca era Afranio Burro, prefetto del pretorio, uomo di nobile tempra morale. 

Agrippina riuscì ad assicurare l'impero a Nerone ai danni di Britannico e quando morì Claudio avvelenato da lei (54), fece proclamare imperatore il figlio che non aveva ancora 17 anni, Allora Seneca (che per la morte di Claudio aveva seritto una satira feroce contro di lui) vide rafforzato il suo potere e pare che ottenesse | il consolato. Per il 180 anno di Nerone serisse il De elementia, ma in questo periodo la sua attività letteraria si rallentò ; infatti egli e Burro, divenuti ministri, erano i veri dominatori dell'impero che, nei primi cinque anni del principato neroniano, fu guidato con saggezza. Ma: ben presto il loro potere scemò, perchè l’imperatore ascoltava cattivi consiglieri e si mostrava sempre più malvagio e crudele, tanto che, malgrado i tentativi dei suoi maestri per dissuaderlo dal suo insano proposito, fece uccidere la madre (59?): però Seneca serisse il messaggio inviato da Nerone al Senato per giustificare il matricidio. Poco prima, nel 58, Seneca era stato. fortemente attaccato dai suoi nemici e specialmente da Suillio che lo aveva accusato di essere riuscito in quattro ‘- anni ad accumulare immense ricchezze, di andare a caccia di testamenti, di captare la benevolenza di vec- chi senza eredi, di opprimere l’Italia e le province con usure formidabili. Seneca ottenne che Suillio fosse confinato nelle isole Baleari, ma non riuscì a fare esiliare anche il di lui figlio : cercò poi nel De vita beata di rispondere alle critiche che gli erano state rivolte, ma la difesa è poco convincente. 

Morto Burro (62), decadde sempre più l'autorità di Seneca che, denigrato presso l'imperatore, per sfuggire ai pericoli che lo minacciavano, gli offrì le sue ricchezze e gli chiese il permesso di abbandonare la corte. Nerone respinse ambedue le proposte, ma Seneca approfittò delle costruzioni intraprese dall'imperatore per render- gli in parte i suoi doni, e, deposto ogni lusso e ogni fasto, condusse vita solitaria occupandosi esclusivamente di studi filosofici. A questo tempo appartengono il De beneficiis, le Lettere a Lucilio, le Questioni naturali. Ne- rone, che aveva inutilmente cercato di farlo avvelenare, si valse dell'accusa che gli fu rivolta di partecipare alla congiura di G. Calpurnio Pisone per ordinargli di uce- cidersi. Seneca domandò di far testamento, e avuto un rifiuto, disse agli amici che legava loro l’unico bene che gli era rimasto, l'esempio della sua vita, e li esortò a vincere il dolore che li invadeva. La sua giovane moglie Paolina (la seconda perchè la prima pare gli fosse morta avanti l’esilio) chiese di morire con lui e ambedue si fecero contemporaneamente segare le vene; siccome la morte tardava a venire, Seneca indusse la consorte a farsi portare in un’altra stanza, ma Nerone, per non accrescersi odio, mandò soldati perchè le impedissero di attuare il suo proposito. Seneca dettò ai suoi segretari parole che Tacito non ci ha trasmesso perchè tutti i suoi contemporanei le conoscevano ; per affrettare la morte bevette cicuta, ma inutilmente, per le condizioni del suo organismo. Allora si fece portare in un bagno caldo e, aspersi con quell'acqua gli schiavi che gli erano vicini, disse : consacro questo liquore a Giove liberatore. 

Portato in una stufa spirò fra quei vapori (65). 

Le opere che ei restano di lui sono molto numerose, e diverse non ci sono giunte. Quintiliano divide quegli scritti in orationes, poèmata, epistulae, dialogi. Quanto alle orazioni si conservano frammenti o notizie di quelle fatte in lode di Messalina e per Plauzio Laterano e dei discorsi composti per Nerone in onore di Claudio, ai pretoriani, al Senato e a questo, per giustificare la morte di Agrippina. Si può menzionare anche il discorso che secondo Tacito avrebbe rivolto a Nerone per of- frirgli le sue ricchezze e per ritirarsi dalla corte. Le poesie più brevi dovevano comprendere almeno 4 libri, 

Si discute sull’autenticità degli epigrammi che portano il nome di Seneca, ma almeno alcuni sembrano suoi ; alle poesie appertengono le tragedie di cui riparleremoz L’Apokolokyntosis (l’inzuccamento di Claudio) è una sa- tira menippea mista di prosa e di versi. Rientrano nelle opere filosofiche le lettere a Lucilio in 20 libri, Si è perduta una Vita patris che non rientra nella divisione di Quintiliano. Questo designava con Dialogi tutte le opere filosofiche salvo le lettere a Lucilio, dando a quella parola il significato di diatribe. 

Fra le opere di Seneca ci interessano, oltre gli seritti filosofici, le tragedie per l’affinità che presentano nel loro contenuto con le dottrine morali dell’autore: è questo uno dei più forti argomenti che si possono por- tare per rivendicarne al filosofo la paternità, che è stata a lungo discussa, ma che ora è accettata general. mente. Come mostrano gli stessi titoli (Hercules [furens], Troades [o Hecuba], Phoenissae [o Thebais], Medea, Phaedra [o Hippolytus], Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Ocetaeus), gli argomenti sono presi dal mondo delle leggende greche, ma l’autore vi ha messo l'impronta della romanità. È più dubbia la paternità della Octavia (l’unica tragedia praetexta che sia rimasta), ma trova ancora difensori. È discussa la cronologia delle trage- die ; la tesi più accettata in passato ne poneva la com- posizione nel tempo dell’esilio in Corsica, ma ora si propende a credere che siano state scritte quando Seneca viveva a corte; anzi, vi è chi pensa che il T'hyestes appartenga ad anni posteriori. Importanza molto mag- giore hanno gli seritti filosofici in prosa : come si è detto, Quintiliano li chiamava tutti dialoghi, ma la tradi- zione manoseritta denomina così dieci lavori: De pro- videntia, De constantia sapientis, De ira libri tres, Ad Mareiam de consolatione, De vita beata, De otio, De tranquillitate animi, De brevitate vitae, Ad Polybium de consolatione, Ad Helviam matrem de consolatione. Sono però dialoghi apparenti, perchè effettivamente pre- sentano esposizioni continuate, interrotte talvolta da interrogazioni o da obbiezioni presentate o dalla persona cui l’opera è dedicata o da altri. Scritti non inclusi in questa raccolta sono: De clementia libri tres, De bene- ficiis libri septem, Naturalium quaestionum libri octo, Epistulae morales ad Lucilium (ne restano 20 libri, ma non sono complete, perchè Aulo Gellio ne ricorda il libro 22°). È incerta la cronologia di questi scritti che rappresentano soltanto una parte della produzione filosofica e scientifica di Seneca, perchè diversi sono perduti: di aleuni rimangono soltanto frammenti citazioni, di altri rielaborazioni o florilegi medioevali. 

Rientrano nel primo gruppo seritti filosofici, soprat- tutto morali (Exhortationes, De officiis, De immatura morte, Quomodo amicitia continenda sit, De superstitione dialogus : i Moralis philosophiae libri, in generale, si ritengono un’opera a sè, ma aleuno erede che con quel titolo Seneca designasse un gruppo di lavori affini, fra i quali De clementia, De beneficiis, De providentia, De officiis) e naturalistiche (De motu terrarum, De la- pidum natura [estratto dalle Naturales Quaestiones come lo scritto seguente?], De piscium natura, De situ Indiae, - De situ et sacris Aegyptiorum, De forma mundi). Come si è detto, si è perduta una Vita patris ; inoltre, non ci sono giunte lettere a Marullo, a Cesonio Massimo e secondo alcuni a Novato. 

Dello scritto Ad Gallionem fratrem de remediis fortwitorum (composto al tempo di Nerone), ricordato da Tertulliano, venne composta, probabilmente all’inizio del Medio evo, una rielaborazione con lo stesso titolo. 

Il De matrimonio, pure perduto, servì a S. Girolamo per comporre la sua epistola Ad Jovinianum. Nell’età medioevale si composero estratti e florilegi di opere sue, soprattutto di aleune perdute. Martino di Brancara (m. 580) trasse dal De ira uno scritto con lo stesso titolo, e nella Formula honestae vitae o De quattuor virtutibus rielaborò materiali tolti, pare, alle Exhortationes o al De officiis. Dallo scritto precedente e dalle Lettere a Lucilio fu ricavato il De copia verborum. (Alcuni però ritengono che nel Medio Evo esistessero tre seritti asse- gnati a Seneca con quei titoli, altri, che dal primo siano stati derivati il secondo e il terzo). Con De paupertate, furono intitolati estratti dalle lettere a Lucilio. Appartiene ai florilegi il Ziber de moribus, una serie di 145 sentenze morali che pare fosse conosciuta come opera di Seneca nel 567: sembra un estratto da una raccolta più ampia, dalla quale deriverebbero anche i Monita Senecae. Dal Liber de moribus provengono in gran parte i Proverbia o Sententiae Senecae, 149 sentenze in prosa, disposte in ordine alfabetico da N a Q e destinate a integrare quelle di Publié Siro nella redazione che giungeva soltanto sino a N. Può darsi che altri scritti di Seneca siano spariti senza lasciare traccia. È apocrifa la corrispondenza fra Seneca e $. Paolo, composta da un autore cristiano e conosciuta già da S. Girolamo e da S. Agostino ; apoerife sono anche le Notae Senecae, sei elenchi di abbreviazioni tironiane con le spiegazioni relative. 

È difficile stabilire la eronologia delle opere filosofiche di Seneca, ma sembra, come si è indicato, che le tre Consolazioni (a Marcia, a Polibio, a Elvia) stiano tra le più antiche. Esse rientrano in un genere particolare, molto coltivato dai filosofi dell’età ellenistico-romana, specialmente dagli Stoici. (Come si è visto, anche Cicerone ne scrisse una). Essi cercavano di dare conforto e coraggio alle persone più legate a loro quando le vedevano colpite a fondo dalla sventura; e partendo dalle loro condizioni particolari si elevavano a consi- derazioni filosofiche generali e portavano esempi di casi della stessa natura avvenuti a persone insigni e (questa parte era in complesso simile in tutti gli scritti del ge- nere) per convincere il destinatario che doveva farsi forza e rimanere al suo posto nelle lotte della vita. 

Queste esortazioni e questi insegnamenti morali dove- vano servire non soltanto al destinatario, ma a tutti gli uomini colpiti da dolori e da sventure simili. 

Forse la Consolatio più antica è quella rivolta a Marcia, figlia dello storico Cremuzio Cordo, che per il suo libero linguaggio venne preso in odio da Seiano il quale, valendosi dell’audacia con cui aveva seritto i suoi annali, lo fece accusare di lesa maestà. Dopo esserti alteramente difeso davanti al Senato, si tolse la vita con la fame per sottrarsi a una sicura condanna. La fi glia, che aveva conservato in segreto le opere paterne, fatte ardere dal Senato, ottenne da Caligola il permesso di pubblicarle, dopo averne tolto la parti pericolose, Marcia, madre di due figlie e di due figli, si vide rapire dalla morte questi ultimi : le riuscì particolarmente dolorosa la perdita del secondo, Metilio. Per darle conforto, Seneca scrisse una consolatio, che certamente è posteriore all'avvento al trono di Caligola, ma la data precisa resta incerta. Generalmente si pone tra il 37 e il 41 d. C., ma alcuni studiosi la collocano nel 49 o nel 50. Può darsi che la menzione di Fabiano accenni a lui come fonte, ma è possibile che abbia attinto anche ai conforti dati da Ario Didimo a Livia. Abitualmente si pensa a rapporti con la Consolatio di Cicerone e ai passi delle sue Tusculane che si riferiscono ad argomenti simili. ; 

Nel 42 o nel 43 Seneca scrisse la Consolatio ad Hel-, viam per confortare la madre, rimasta vedova, del dolore che le aveva arrecato l’esilio suo in Corsica, Egli, che non soffre nulla per cui possa essere chiamato infelice e non può diventarlo, perchè quelli che abitual. mente si chiamano mali (lontananza dalla patria, po- vertà....) non sono tali, esorta la. madre a darsi agli studi liberali, il solo rifugio che si apre a coloro che fug- gono i colpi della fortuna. Seneca chiude questo scritto assicurando la madre che è lieto e alacre, come chi si trovi nelle condizioni più fortunate ; ed effettivamente è in tale situazione perchè l’anima sua, libera da ogni occupazione, attende agli uffici propri e ora si allieta con studi più leggeri, ora si eleva a considerare la natura propria e quella dell'universo, finchè sale alle somme altezze e contempla lo spettacolo delle cose divine : e, memore della propria eternità, percorre tutto il pas- sato e tutto il futuro. Come fonti, Seneca accenna Varrone e a M. Bruto. 

Però l’esilio divenne tanto grave che prima del 44 scrisse una Consolatio ad Polybium (di cui si è perduto il principio), apparentemente per confortarlo per la morte di un fratello, ma effettivamente per ottenere la revoca della condanna : e per raggiungere lo scopo, esaltò con adulazioni indecorose il destinatario e l’imperatore, senza però che la grazia gli fosse concessa. 

Probabilmente fa parte delle più antiche opere di Seneca anche il De ira (composto, a quanto sembra, sotto Caligola, ma pubblicato poco dopo la morte di questo). L'opera in tre libri, mutila all’inizio del primo, è dedicata al fratello Novato (Gallione) che gli aveva chiesto di indicargli come sia possibile calmare l'ira. 

Tale passione era stata spesso trattata dai filosofi greci, ma non dai romani. Seneca, nel libro I, per mostrare che chi ne è posseduto è in uno stato di pazzia, ne de- serive le manifestazioni esterne, odiose e deformi, ne indica gli effetti funesti, ne dà una definizione (che nel testo manca, ma doveva essere quella tramandata da Lattanzio nel De ira Dei (ira est incitatio animi ad no- cendum ei qui nocuit aut nocere voluit), mette in luce che appartiene soltanto all'uomo, la distingue dall’iracondia, critica a lungo la $tbria peripatetica la quale afferma che l'ira deve esserè non estirpata, ma moderata, perchè è data dalla natura ed è utile, e mostra che produce sempre effetti funesti, per concludere, dichiara che essa  nonè mai nè grande, nè nobile; che, al pari delle altre passioni, è miserabile a bassa. Nel libro II comincia coll’affermare che lira non nasce entro di noi involon- tiuriamente (insedis nobis), ma dipende dal concorso della volontà, cioè dal consenso dell'anima e perciò può es- sere vinta dalla ragione; poi, dopo avere criticato gli argomenti che sono stati portati per difendere quella passione, passa a trattare sui suoi rimedi. L'educazione si può usare per i fanciulli ; negli adulti, occorre com- battere da prima la causa fondamentale dell’ira, e sic- come essa risiede nell’opinione che altri ha voluto re- carci ingiuria, non bisogna prestarle fede facilmente. 

Nel libro III Seneca ricerca come l’ira possa essere sradicata o almeno frenata. Egli eritica di nuovo la teoria peripatetica (che attribuisce ad Aristotele) che non vuole estirparla dall'anima; poi ricerca come sia possibile non cadere in essa o liberarcene se ci ha vinto, infine, come possiamo calmare e ridurre alla ragione un uomo irato. In ultimo osserva che l’aiuto migliore è il pensiero della nostra mortalità. Non abbiamo tempo da perdere: cerchiamo di rendere questa nostra breve vita placida (pacifica) per noi e per gli altri, di far sì che altri ci ami in vita e ci desideri dopo la morte. Finchè restiamo fra gli uomini, esercitiamo l'umanità, non siamo causa di pericolo o di ti- more per alcuno. 

È chiaro che quest'opera non segue un piano organico e unitario ed è priva di ordine e di coerenza. Sic- come il libro III è difettoso, soprattutto perchè ritorna su argomenti studiati precedentemente, alcuni l’hanno considerato un trattato a sè, o come una redazione diversa del II, che forse lo stesso autore o altri avrebbe aggiunto ai precedenti; ma anche i libri precedenti sono difettosi e la mancanza d’ordine e di nesso si incontra pure in altri scritti di Seneca, sebbene in misura minore sicchè non è necessario ricorrere a quelle ipotesi. È naturale che difetti simili appaiano più accentuati in uno dei prîmi scritti di questo autore. In ogni modo è note- vole la conelusione, in cui si rivela uno dei motivi domi. nanti del suo pensiero, cioè la convinzione che la con- sapevolezza della brevità della nostra vita deve ren- derei miti e umani verso tutti. Quanto alle fonti, si è molto disensso. I nomi che si presentano abitualmente |, sono quelli di Crisippo, Posidonio e Sozione e alcuni / parlano anche di Antioco e vi è chi ritiene la questione insolubile. I 

Il De brevitate vitae, che probabilmente è stato com- posto nel 49 dopo il ritorno dall’esilio in Corsica, è de- dicato a un Paolino, prefetto dell’annona, che secondo alcuni sarebbe stato il padre di quella Pomponia Pao- lina che poi Seneca doveva sposare. Il tema principale - dello scritto è la tesi (che contrasta coi lamenti sulla limitazione della esistenza umana che è un motivo fon- damentale delle Consolationes) che a torto gli uomini si lagnano della brevità della loro vita, perchè sono essi che la rendono tale sciupandola con una prodigalità insensata in occupazioni vuote e inutili (nelle quali Seneca inelude le ricerche di erudizione) e nel com- piacere alle loro passioni e ai loro vizi. La vita è abba- stanza lunga se è consacrata allo studio della sapienza (che è essenzialmente la filosofia morale); vivono davvero coloro che si dedicano a questa, che non soltanto occupano bene la loro esistenza, ma aggiungono ad essa tutti i secoli passati. In loro dobbiamo vedere le guide della nostra vita; tutti ci insegnano a morire, I grandi filosofi ci aprono la strada dell'eternità dalla quale nes- suno è precipitato : è questo l’unico modo di trasfor- mare la nostra mortalità in immortalità. Quindi la vita del sapiente è molto estesa, perchè egli solo è libero dalle leggi del genere umano, in quanto tutti i secoli gli sono sottoposti come a Dio: col pensiero, infatti, domina il presente, il passato e il futuro. Seneca conclude lo seritto esortando Paolino a rinunciare alla vita pubblica per consacrare le sue attività agli studi filosofici : ricerchi quale sia la natura della Divinità, quale la sorte dell'anima dopo la morte, quale la struttura dell’universo. Però se certi concetti principali si possono facilmente indicare, è difficile analizzare par- ticolarmente l’opera, perchè contiene digressioni che la rendono priva di coerenza. 

Il De clementia, indirizzata a Nerone da poco imperatore, deve essere stato seritto dal dicembre 55 al di-cembre 56, se si sta alla lezione comune per cui si dice che l’imperiale discepolo aveva oltrepassato il 18° anno ; il Prèchac, invece, correggendo il testo, lo vuole com- posto nel 54-55. Il sommario divide la trattazione in tre parti: generalmente si ritiene che si possegga sol- tanto la prima (I libro) e l’inizio della seconda (II libro), sicchè mancherebbero la parte maggiore del II e la tota- lità del III. Il Préchac invece erede che possediamo l’opera completa, in un libro solo, perchè corregge a suo modo il testo (corrotto) che indica la 1% parte e pone tutto il I libro, a partire dal sommario, dopo ciò che possediamo del II; ma questa audacissima trasposizione non soddisfa, se non altro perchè non corrisponde alle indicazioni del sommario stesso. Secondo l’interpre- tazione abituale, la 1% parte introduttiva tratta in generale della clemenza e mostra che è in modo par- ticolare doverosa e utile per il sovrano ; la 2% doveva definirla e indicare quali, siano i caratteri che la distin- guono dai vizi che la imitano ; nella 38 si ricercava come l’anima possa essere portata a quella virtù, come la rafforziamo e come con l’uso essa diventi nostra. Della 2a parte rimangono la definizione della clemenza che è contrapposta alla crudeltà, e la distinzione della prima dalla misericordia (compassione) e dalla venia (perdono). 

Sorprendono le lodi illimitate della clemenza di Nerone, che poco prima aveva fatto uccidere Britannico, ma può darsi che così Seneca volesse costringerlo a frenare le tenderize brutali che cominciava a manifestare e obbligarlo a non contraddire le dichiarazioni che aveva fatto all’inizio del suo principato. È presumibile che l'opera abbia usato fonti greche, soprattutto stoiche, ma non è possibile determinarle esattamente. Il De clementia, nella letteratura francese, ha ispirato al Mon- taigne pagine interessanti, al Corneille il Cinna, a Ra- cine versi eloquenti del Britannicus nella parte di Burro, Ml De constantia sapientis è dedicato a Anneo Se- reno (che successe a Tigellino come praefectus vigilum), morto prima di Seneca; probabilmente è stato seritto all’inizio dell'ascesa al trono di Nerone, ma qualcuno lo ha collocato dopo la condanna di Suillio. Vuole di- mostrare il paradosso stoico che il sapiente non può ricevere nè ingiuria (injuria) nè offesa’ (contumelia). 

Seneca osserva che egli è impenetrabile ai colpi della prima e che effettivamente essa non può raggiungere il suo scopo di fare del male, perchè la sapienza non lascia posto a questo : chi la possiede si contenta della virtù che non gli può essere tolta dalla fortuna e per conseguenza non può ricevere ingiuria. Quanto all’offesa, implica disprezzo: ma non possiamo disprezzare, chi ci è superiore : come i genitori non sono offesi dalla condotta dei loro bambini che non possono disprezzarli, così si comporta il sapiente con tutti gli uomini che, anche se canuti, permangono bambini. 

Si può collocare nel 58 il De beata vita (mutilo nel- l’ultima parte), perchè la discussione della critica rivolta ai filosofi di non conformare la vita alle teorie sostenute, : fa supporre che Seneca l’abbia composto per difendersi dalle accuse di Suillio. L'autore da prima osserva che tutti desiderano vivere felicemente, ma che è difficile raggiungere questo scopo: occorre non seguire come . pecore il gregge della massa dél volgo che preferisce . credere a giudicare e conduce nell’errore, ma rivolgersi alla ragione. Seneea da prima determina che cosa sia la vita felice; in ciò egli segue il parere degli stoici, per i quali è tale quella che si accorda con la natura. 

Del resto, il bene può definirsi anche diversamente :, in ogni modo, occorre farlo consistere nella virtù che si fonda sull’esercizio della ragione ed è necessario da prima distinguerlo dalla voluttà colla quale è incom- patibile. Perciò Seneca critica largamente l’Epicureismo che collega inseparabilmente termini inconciliabili e, pur ammirando la vita e i precetti del suo fondatore, ritiene che con le sue teorie abbia offerto una giustifi- cazione ai viziosi. E non si può nemmeno dire (e così si passa alla critica delle dottrine di Antioco di Asca- lona) che virtù e voluttà insieme costituiscano il sommo bene, perchè chi le collega toglie alla prima ogni solida base, pone l’uomo nella più grave delle servitù, quella della fortuna, Però, se la virtù è il fondamento della vera felicità, perchè basta a far sì che la vita sia felice, chi tende verso di essa dipende ancora in qualche mi- sura dai favori della fortuna. Non vi è quindi ragione di rimproverare ai filosofi perchè non uniformano la vita ai precetti, valendosi di accuse che si sono rivolte ai maggiori (Socrate, Platone, Aristotele), i quali dice- vano non come essi vivevano, ma come avrebbero do- vuto vivere, e di rinfacciare loro che trascorrevano l’esi- stenza nel lusso e nelle ricchezze. Invece di disprezzare gli uomini che tentano ascensioni ardue se non raggiun- gono la cima, occorre ammirarne la difficile impresa anche se non condotta a termine. D'altra parte, non è necessario che il sapiente faccia getto dei beni esterni offerti dalla fortuna, come le ricchezze, basta che non se ne renda schiavo. Egli non le ama, ma le ritiene cose preferibili alle opposte (così Seneca si vale della teoria stoica che fra le cose indifferenti alcune sono da pre- ferire, altre da respingere); basta che le acquisti one- stamente, che se ne serva bene e in modo generoso, e che non si lamenti quando lo abbandonano. Le rie- chezze servono al sapiente, comandano allo stolto. 

Il De otio (che in un certo senso si collega al De vita beata, nella parte in cui questo seritto ricorda il ritiro dalle cose pubbliche), mutilo all’inizio e alla fine, pro- babilmente è stato scritto dopo il 62, cioè quando l’au- tore si era ritirato dalla vita politica; infatti cerca di difendersi dall’accusa di disertare la causa dello stoi- cismo cui aderiva. Egli ricorda che, secondo Zenone, il sapiente si occuperà delle cose pubbliche, se qualche causa non lo vieta, ma questa causa ha estensione molto ampia, perchè include i casi in cui lo stato è troppo corrotto perchè sia possibile soccorrerlo e quelli in cui la salvezza del sapiente costituisce un ostacolo all’opera sua. Chi non può giovare ad altri (a molti, e se non altro a pochi) deve cercare di essere utile a se stesso, perchè così prepara del bene ad altri. Seneca cerca di provare due tesi: 1° che aleuno può, sino dalla prima età, darsi completamente alla contemplazione della ve- rità, cereare una norma di vita e tradurla in pratica, nella esistenza privata; 2° che alcuno può fare ciò col maggiore diritto quando è già avanti negli anni e ha lungamente servito la cosa pubblica. Ma effettivamente ciò che resta del trattato ha per oggetto di mostrare in generale che è lecito consacrare le proprie attività alla contemplazione. Se consideriamo quel grande stato (res publica) che include gli Dei e gli uomini, vediamo che possiamo servirlo soprattutto nel riposo, meditando sui grandi problemi che riguardano Dio, la natura, la condotta umana, Così serviamo Dio, in quanto facciamo sì che le sue grandi opere non restino prive di testimoni 

Del resto, si dice che il sommo bene consiste nel vivere secondo la natura ; ora questa ci ha generati sia per la contemplazione che per l’azione : infatti un impulso na- turale spinge gli uomini alla ricerca. La natura stessa ci porta allo studio dell'universo, per il quale è troppo breve l’intera vita umana ; quindi l’uomo vive secondo la natura, se si dà completamente ad essa. Ma in tal modo egli non soltanto contempla, ma anche agisce, perchè la speculazione deve tradursi nell’azione. Se poi il sapiente non ha modo di comportarsi così, può, anche restando solo con se stesso, agire in maniera tale da essere utile alla posterità. I grandi filosofi stoici hanno compiuto cose maggiori dei capitani e dei legislatori, perchè hanno operato per tutto il genere umano, pre- sente e futuro. Del resto, se, come la realtà mostra, non si trova stato alcuno che il sapiente possa soppor- tare 0 che possa sopportarlo, se non se ne trova uno uguale a quello che ci immaginiamo, il riposo appare una necessità per tutti, perchè non esiste l’unica cosa che gli poteva essere preferita. 

Il De tranquillitate animi, dedicato a Sereno, che si può ritenere scritto nel 62 o nel 63, non molto dopo il De otio, ha una singolare introduzione, in cui Seneca, parlando a se stesso, riconosce che l’esame della sua anima gli mostra che inelude vizi di cui non sa libe- rarsi, pure non essendone schiavo, sicchè si trova nello stato penoso di chi non è nè sano nè malato ; così non tende fortemente nè verso ciò che è retto, nè verso l’op- posto. A. questa dichiarazione segue una specie di esame di coscienza, in cui Seneca indica le forze che lo spin- gono in direzioni opposte, le tentazioni, si potrebbe dire, che agiscono su di lui; egli prega Sereno di indicargli, se lo conosce, qualche rimedio per quei suoi ondeggia- menti. 

Desidererebbe di conseguire quella eòdupia di cui ha trattato Democrito, cioè la tranquillità dell'anima per cui essa è in accordo con se stessa: a questo stato si oppone quello in cui l’anima dispiace a sè e perciò sì agita e detesta il riposo ; si irrita contro la sorte, si lamenta del secolo, si rincantuccia e si concentra nella sua sofferenza, ha disgusto di sè. Per uscire da questo stato cerca continuamente di mutare sedi, occupazioni. 

Secondo Atenodoro il rimedio migliore sarebbe l’occu- parsi degli uffici pubblici; ma per i vizi degli uomini, la simplicitas è poco sicura e perciò occorre allontanar- sene. Però, anche nella solitudine si può essere utili a tutti, educando le anime alla virtù. Seneca pensa che la cosa migliore è il mescolare il riposo all'attività, perchè vi è sempre posto per un’azione virtuosa, anche nelle condizioni politiche più infelici... se non altro nei rap- porti privati; a seconda della situazione dello stato ‘e di ciò che la fortuna permette, occorre ora esplicare se stessi, ora rinchiudersi in sè, senza mai intorpidire per timore. Quando si vive in una età difficile, bisogna consacrare maggior tempo al riposo e agli studi. A que- Ste considerazioni generali si aggiungono norme parti- colari per conseguire la tranquillità dell'anima. 

Il De providentia, al pari delle Naturales Quaestiones, è dedicato all'amico Lucilio (che è pure il destinatario delle Epistulae morales). Questo, nato nella Campania, fu procuratore nelle Alpi Cozie, poi in Epiro, in Macedonia e in Africa e nel 63-64 in Sicilia. Scrittore e poeta, forse fu l’autore del poemetto Aetna. Il De providentia deve collocarsi fra le ultime opere di Seneca. Alcuni lo ritengono anteriore alle lettere a Lucilio in cui è an- nunciata una grande opera, moralis philosophiae libri, che abitualmente si considera un lavoro a sè; ma sie- come egli poteva designare così un gruppo di scritti affini, contrapposti a quelli riguardanti la filosofia natu- rale, di cui il De providentia farebbe parte, quella col- locazione non è sicura. Lucilio gli aveva chiesto perchè, se il mondo è guidato dalla Provvidenza, tanti mali avvengono agli uomini buoni. Seneca rimanda ad un’altra opera la dimostrazione della tesi che l'universo non sottostà al caso e che la Provvidenza governa e dirige ogni cosa ; che il corso della natura è governato da una legge eterna: per mezzo di quel principio meglio si potrà risolvere la difficoltà presentata, perchè da ciò, segue che le avversità che colpiscono i buoni debbono provenire da quella Provvidenza. Per il momento, egli afferma che Dio e l’uomo buono si assomigliano e dif- feriscono soltanto per la durata della vita ; il primo è un padre per il secondo, ma un padre severo, che educa duramente, che pet mettere alla prova i buoni e per renderli migliori, li sottopone ai colpi della ‘fortuna. 

Anzi, lo spettacolo che merita lo sguardo della Divi- nità si presenta quando l’uomo forte lotta con la for- tuna avversa, soprattutto quando l’ha provocata. Del resto (è questa la tesi che riceve più ampio svolgimento), quelle che si chiamano avversità, cose abbominevoli, riescono utili da prima a coloro che le soffrono, perchè la sventura è un’occasione per la virtù (e questa affer- mazione coincide con una precedente), e poi alla uni- versalità degli uomini, di cui gli Dei più si curano che dei singoli ; infatti, in questo modo appare che ciò che il volgo appetisce, non è un bene, come non è un male quello che esso teme. I buoni sopportano volontaria- mente queste cose che avvengono per l’azione del fato e per la stessa legge che li rende buoni. In fine, non bisogna provare compassione per i buoni, che si possono chiamare infelici, ma non possono essere tali. Anche l’ultima tesi è trattata e perciò non si può ritenere, come alcuno ha fatto, che l’opera non sia completa ; però, come gli seritti di Seneca in generale, pecca nell’ordine e nel nesso dei pensieri e ha una forte impronta retorica. In questo scritto Seneca ricorda e riproduce abbastanza a lungo dottrine del cinico Demetrio al quale s’ispira. 

Il De beneficiis, in sette libri, è dedicato a Ebuzio Liberale che può identificarsi all'amico Liberale che in una lettera a Lucilio si dice molto afflitto per l'incendio della sua città, Lione, alla quale era assai affezionato, sebbene vivesse a Roma. Sembra che fosse cavaliere e molto ricco, e certamente possedeva cultura letteraria. 

Il De beneficiis, senza dubbio posteriore alla morte di Claudio, è generalmente posto nell’ultimo periodo della vita di Seneca. I sette libri non furono composti in- sieme : al principio del V si dice che nei quattro pre» cedenti si è realizzato il piano dell’opera, sicchè i ll. V- VI formano un gruppo nuovo e il 1. VII è chiaramente un complemento, di modo che il problema cronologico si complica. Sembra che l’opera si possa assegnare al 62-64, anche perchè, dopo la sua caduta, Seneca, venuto in odio al suo antico discepolo che precedentemente lo aveva colmato di doni e di favori, doveva ritenere che effettivamente il vero beneficato era stato l’imperatore che ora gli si mostrava ingrato e perciò non poteva non interessarsi personalmente ai problemi discussi in quello scritto ; però è molto dubbio che questo includa numerose allusioni ostili a Nerone come alcuno ha sup- posto. Nel l. I Seneca comincia con l’osservare che nessun vizio è più frequente dell’ingratitudine, della quale, però, sono spesso causa coloro che beneficano per il modo in cui si comportano ; ma essa non deve distogliere dalla beneficenza, che Seneca fa consistere nell’intenzione benevola di arrecare gioia con un'azione o con un dono. Poi ricerca quali benefici si debbano impartire, a quali persone e in qual modo: l’ultimo punto è trattato nel l. II, in cui si parla del modo di ricevere i benefici, della intenzione ingrata, delle cause della ingratitudine e si definisce la riconoscenza. Il 1. III definita l’ingratitudine ed esaminati i suoi aspetti, discute diversi problemi, tra i quali è interessante la questione se uno schiavo possa beneficare il padrone ; Seneca la risolve affermativamente, portando numerosi esempi di azioni generose compiute da schiavi. Il 1. IV ricerca se beneficare e dimostrare gratitudine sono cose desiderabili per sè e risponde in modo affermativo, dopo avere criticato la loro giustificazione utilitaristica e trat- tato ampiamente dei benefici che gli Dei concedono agli uomini e del concetto della Divinità. Poi si chiede se l’uomo buono debba beneficare anche l’ingrato che conosce come tale e nello stesso modo che all’inizio del 1. I, risponde di sì per ciò che riguarda chi è inclinato per natura all’ingratitudine. I tre libri successivi, di- stinti dai precedenti, trattano problemi particolari e in complesso costituiseono una casistica dell'argomento. Il VIT; che spesso riprende in esame questioni studiate precedehtemente, finisce insegnando come ci si deve comportàre con gli ingrati, L'organizzazione della materia è difettosa, perchè abbondano le digressioni e manca un nesso unitario ; negli ultimi libri la casistica conduce a sottigliezze, ma l’opera contiene acute osservazioni della vita. È certa una lacuna (prima di VII, 13). Aleuni né ammettono altre tre (alla fine di I, 9, 1; di I, 9, 2; di III, 18, 1), ma il Préchac nega almeno la prima e la terza. Fonti principali sono Panezio e soprattutto Ecatone; inoltre, al principio del 1. VII, si ricordano il cinieo Demetrio (che è molto lodato) e Bione. 

Seneca mette di suo aneddoti di storia romana e digressioni filosofiche che riguardano specialmente argomenti politici, sociali e religiosi : la parte più originale riguarda gli schiavi e la loro difesa. A 

Le Naturales Quaestiones constano ora di sette libri, ma dovevano contenerne otto, perchè occorre dividere il IV in due, sicchè il titolo era presumibilmente Naturalium Quaestionum libri VIII. Quest'opera, dedicata a Lueilio, è”senza dubbio una delle ultime di Seneca (62-63 o 62-64), cioè è stata composta insieme al De providentia (probabilmente), al De beneficiis e a molte delle Epistulae ad°Lucilium, e forse ad altri scritti ancora. 

Questairapidità”si spiega in parte ricordando che Seneca si era occupato fin dalla giovinezza di problemi naturalistici. I diversi libri devono essere stati composti e inviati a Lucilio separatamente e soltanto più tardi raccolti insieme, ma è probabile che la successione eronologica differisse dall'ordinamento attuale (IVb - VII ; I-IV a). L’opera presenta una grave lacuna perchè manca la fine del 1. IVa e il principio del 1. IV db. Il 1. I comincia col distinguere la filosofia morale da quella della natura che viene esaltata : poi Seneca passa bruscamente a trattare dell'oggetto del libro, costituito effettivamente dalle meteore luminose (i fuochi e le luci che esistono nell’aria) e soprattutto dall’arcobaleno e dall’alone. Il 1. IT si apre con la tripartizione della scienza della natura in Astronomia, Meteorologia « grafia, secondo che considera la regione celeste, quella che sta fra il cielo e la terra o la terra ; poi studia i fulmini e i tuoni. Nel 1. III Seneca si duole di avére preso a trattare nella vecchiaia un argomento tarto vasto, al quale vuole consacrare tutto il tempo/che potrà. 

Dopo essersi lagnato degli scrittori che si occupano delle storie di Filippo, di Alessandro, di Annibale, invece di insegnare agli uomini a vivere bene, parla delle acque terrestri e infine rappresenta il diluvio universale e la fine dell'umanità. Il 1. IV da prima esorta Lucilio a guardarsi dalle adulazioni, poi tratta delle inondazioni .del Nilo; ma questa parte è mutila, La lacuna involge gran parte del 1, IV b (che aveva per oggetto le nubi), di cui restano soltanto gli ultimi capitoli, che considerano la grandine e la neve. Il 1. V muove dalla definizione del vento e studia gli argomenti che si collegano ad esso. Il 1. VI ha per oggetto i terremoti. Nella prefa- zione Seneca ricorda quello che aveva devastato Pompei nel 63 e il terrore che ne era derivato e cerca di libe- rare gli uomini da esso. Dopo avere cercato la spiega- zione del fenomeno, si sforza di indurre gli spiriti a vin- cere il timore della morte. Il 1. VII considera le comete. 

È chiaro che non è attuato il piano indicato al. prin» cipio del l. II, di studiare tutto l'universo fisico ; e ciò ha fatto pensare che si ha da fare non con una tratta- zione sintetica, ma con monografie particolari, indipen- denti l'una dall’altra: si è supposto da qualcuno che il piano indicato mostra che l’autore ha in un certo momento concepito, ma non attuato, il progetto di rielaborare ed ampliare l’opera sua. I ll. I-IVa sono preceduti da prefazioni generali abbastanza collegate tra loro, ma non coi libri stessi. L’autore usa sia la trattazione sistematica, sia l'esposizione delle opinioni altrui, ma in modo diverso nei vari libri : talvolta, come nel II, i due procedimenti si alternano, nel VI e VII predomina la dossografia, nel III e V l’esposizione delle teorie accettate. Seneca non si limita a descrivere i fenomeni naturali, ma cerea di scoprirne le cause; però troppo spess nella descrizione accetta senza discriminazione le affermazioni degli autori che segue anche se inesatte e presenta come spiegazione le opinioni altrui che pre- ferisce, dopo avere discusso le diverse ipotesi con pro- cedimentì essenzialmente dialettici ; ma le sue finalità sono quellè di un moralista che coglie tutte le occasioni per dare atmaestramenti e si vale dei mezzi che gli offre la retorica, sicchè le Naturales Quaestiones si avvicinano alle altre opere dell’autore e differiscono profondamente dai veri trattati scientifici. Siccome l’opera, quale noi la possediamo, non ha carattere unitario, si è cercato di ricostruirla, giungendo a risultati svariatissimi e non si è in aleun modo raggiunto lo scopo. 

Effettivamente, essa, per la sua natura moralistica e retorica, è, al pari degli altri scritti di Seneca, e anche più di essi, in generale, priva di organicità e ricca di digressioni che turbano “lo sviluppo degli argomenti. 

Egli cita molti autori, ma di solito deve ricordarli di seconda mano. La fonte principale dell’opera è senza dubbio Posidonio ; si ritiene che Seneca si sia servito di Aselepiadoto quando se ne allontana, ma ciò è stato messo in dubbio. Si è anche pensato alle guar v dbÉat di Teofrasto ; sono state poco sfruttate le fonti scientifiche latine. Le Naturales Quaestiones hanno eserci- tato una forte azione sulla Farsaglia di Lucano. Plinio però si è servito come fonte degli studi naturalistici speciali di Seneca, non dell’opera generale. Passata una lunga eclissi, la Scolastica, dopo il XII secolo, le ha concesso una immensa autorità; Ruggero Bacone specialmente l’ha citata con molta ampiezza. 

Le Epistulae Morales ad Lucilium (144), ora divise in 20 libri, appartengono all'ultima età di Seneca (60 o 63 al 65 o 63-64). I primi tre libri si possono raggrup- pare insieme : il I presenta diverse regole per la vita, il II insiste sulla tesi che l’unica guida alla felicità è la filosofia e insegna a non allontanarsi da essa per cose senza valore, il III, come sia facile superare ostacoli di tal genere. Debbono essere stati pubblicati insieme ; ma è dubbio che ciò sia avvenuto per i libri seguenti, e che l’autore volesse raggrupparli in altre uni certo che Seneca destinava quelle lettere alla educazione e che, pure indirizzandole a Lucilio, geva al pubblico; ma si è esagerato parandy di una corrispondenza artificiale e di pseudo-lettere/ Sembra però verosimile che, raccogliendo le lettere ifsieme, se- condo l’ordine cronologico, l’autore vi abbia inserito trattazioni morali, che diventano più numerose negli ultimi libri, alle quali ha dato la forma epistolare. Queste lettere hanno per oggetto la morale pratica e vorreh- bero guidare alla felicità, ma offrono l’aspetto non di una trattazione sistematica, bensì di una serie di saggi. 

La corrispondenza, che è l’opera più importante di Seneca, mentre raccoglie i frutti di una lunga esperienza della vita, tratta argomenti svariati, richiama e discute teorie filosofiche precedenti, specialmente morali, occupandosi in modo particolare dei diversi indirizzi dello stoicismo. Se l’eccesso della predicazione morale e talvolta l’abuso di sottigliezze alla lunga stancano il lettore, l’opera sviluppa molti pensieri elevati, e spesso audaci, come il dovere dell'amore verso tutti gli nomini, la dura condanna del trattamento inumano degli schiavi e dei gladiatori, l'uguaglianza dei sessi e l'obbligo della fedeltà coniugale, l'amore della natura. Modello per la’ forma sono le lettere di Epicuro e dei suoi SUCCEsSOTÌ ; pensieri del primo sono spesso citati e svolti nelle 31 lettere che aprono la corrispondenza, poi Seneca lo ricorda assai più raramente e pare attinga molto a Posidonio. 

Un forte influsso ha esercitato su quest’opera l’insegnamento orale di Attalo e del cinico Demetrio, e si è parlato anche dell’influsso di Antioco, ma nell'insieme essa costituisce un’interpretazione dello Stoicismo, soprattutto di quello posidoniano. 

L’antichità pagana, se si interessò dell’opera letteraria di Seneca per lodarla o per criticarla, poco si ocenpò del suo pensiero, che invece attirò le simpatie di serittori cristiani, che lo sentirono, almeno in parte, affine al proprio : così Tertulliano e Lattanzio lo citarono con lode. Soprattutto furono attirati a lui dalla apochifa corrispondenza con S. Paolo, che lo presentava come ‘un cristiano. Così egli venne chiamato il « venerabile Seneca » e fu da S. Girolamo, che lo citò largamente, posto fra i santi, La miglior prova dell’influsso esercitato\da lui in tutto il Medio Evo è offerta dalle rielaborazioni, dai florilegi e dagli estratti delle sue opere che si fecero in quel periodo. I suoi scritti, spesso ricopiati, molto letti e studiati, erano inclusi nei cataloghi di quasi tutte le biblioteche dell’età scolastica, alla quale apparve uno dei più insigni rappresentanti della filosofia morale (Seneca morale, lo chiama Dante). Nel Rinascimento, Giusto Lipsio si ispirò principalmente al suo pensiero quando iniziò un ritorno alle dottrine stoiche ; ma in complesso la sua fama di moralista si oscurò, mentre si affermò la sua azione sulla formazione della tragedia classicheggiante italiana e sullo sviluppo di quella francese che col Corneille e col Racine lo prese a modello. Nella penisola iberica influì sul Cervantes e sul Camoens ed esercitò un’azione anche in Inghilterra. Nel campo delle ricerche filologiche si interessarono delle opere sue studiosi come Erasmo, che ne curò un'edizione, Giusto Lipsio, R. Bentley. Il suo pensiero, invece, non suscitò molto interesse. In Francia, ebbe simpatie per lui nel ’700 il Diderot : in Germania (ove in complesso non suscitò molto favore), nello stesso secolo il Goethe e il Lessing si appropriarono aleuni suoi concetti e nel XIX lo Schopenhauer lo studiò intensamente. Però il suo pensiero non è apprezzato come meriterebbe. 

La filosofia di Seneca (e la stessa cosa si deve ripetere per Marco Aurelio), anche più di quella di altri pensatori di quell’età, produce l'impressione di essere rivolta allo scopo di risolvere il problema della vita nell'aspetto che assumeva agli occhi del suo costruttore e di giustificare aleune credenze accettate sino dall'inizio senza discussione. Si tratta di presupposti che, considerati con criteri esclusivamente teoretici, possono apparire poco coerenti, mentre si fondono in uno stato d’animo complessivo di cui sono i momenti. A Seneca la vita si presenta, nell’insieme, sotto gli aspetti che avevé as- sunto nell’età ellenistico-romana, quelli che avevafio of-. ferto alla letteratura consolatoria alcuni dei sudi temi preferiti. I beni umani sono pieni di fragilità, ogni cosa» _ è incerta perchè su tutte domina, dura, mutevole, ine- sorabile, la fortuna che sconvolge ogni nostrò progetto. 

L’uomo è un essere debole, che un nulla infrange ; tutta la sua vita è una meschinità, un tormento, una causa di pianto, sicchè l’unico rifugio in questo mare tempe- stoso è il porto della morte. E questo pensiero è raf- forzato dalla convinzione, dominante in quell'età, che l’anima, che proviene dal cielo al quale deve risalire, è prigioniera nella carne miserabile in cui è inclusa; che costituisce per essa un peso e una pena, che la sua vera vita è altrove, non in questa terra. Ma alla speranza in una immortalità beata e al desiderio di sottrarsi ai dolori di questa vita, si contrappone il terrore della morte, che per Seneca deve essere stato una vera ossessione, perchè continuamente ha cercato di liberarsene, valendosi di argomenti svariati; e la causa maggiore di tale ossessione probabilmente consisteva nel timore dell’ignoto e delle tenebre del mondo infero. 

Però, la visione delle incertezze e dei dolori della vita, e la preoccupazione del mistero della morte si collegano in Seneca (e lo stesso fatto è avvenuto altre volte in seguito) coll’esigenza dell'amore universale per gli uomini, tutti infelici e tutti mortali, che è forse l'aspetto più significativo dell’opera sua, esigenza che ha cercato poi di giustificare filosoficamente. Come prima di lui Antifonte e come in seguito il Leopardi, talvolta Seneca fonda quell’esigenza con una motivazione utilitaristica. Lo scambio dei benefici (in cui si esprime l’amore) è la cosa che costituisce il maggior vincolo della società umana (De ben. I, 4, 1), la quale è la migliore e più salda, anzi l’unica difesa contro i mali e i pericoli della vita, contro i colpi della fortuna. Ma ciò non si accorda con la convinzione costante di Seneca, che il bene si deve compiere disinteressatamente, che la virtù spesso consiste in sacrifici spontanei. Meglio corrisponde alle sue donvinzioni intime l'affermazione (che riapparirà nel Pascoli) che il pensiero della brevità della vita, della imminenza della morte che ci rende tutti uguali, deve estinguere i nostri odi, ispirarei mitezza, umanità, suscitare il desiderio di farci amare. Qui, la visione della morte determina il concetto della essenziale uguaglianza umana, che, come si vedrà, Seneca cerca di giustificare filosoficamente. Forse, anche prima di costruire una filosofia, egli aveva attinto alla religiosità contemporanea quella intuizione di una-divinità personale, di cui gli uomini sono figli, che male si accorda coi principi speculativi da lui propugnati. Queste profonde esigenze imprimono al pensiero di Seneca i caratteri più significativi e ne fanno una teoria della purificazione e della liberazione, dominata da finalità etico-religiose. 

Per risolvere i problemi della fortuna, del dolore, della morte, per giustificare la sua fiducia nell’immortalità dell'anima e in un Dio benefico e provvidente, Seneca si rivolge alla filosofia stoica, che nella forma che le aveva arrecato Posidonio, dava appagamento alle esigenze della coscienza religiosa. Egli, però, non si crede legato dall’ortodossia stoica e afferma il suo diritto al libero esercizio del proprio pensiero, ma in tal modo rende ancora più eclettica una filosofia che con Posidonio aveva assimilato elementi di altre dot- trine. Sotto l’influsso del Cinismo e specialmente di Demetrio, la cui azione è fortissima sulle lettere a Lucilio, Seneca accentua l’ufficio etico-pratieo della filosofia e condanna sia le sottigliezze dialettiche di eni si era compiaciuta la sua scuola, sia le critiche nega- tive e distruttrici dell'’Eleatismo e dello Scetticismo, e inoltre mostra di apprezzare poco le cosidette arti liberali, gli studi storici, archeologici, letterari, cioè discipline che Posidonio aveva coltivato con amore. Inoltre, assai più degli altri stoici mostra di apprezzare Epicuro, di cui nelle Lettere ricorda, per accettarli, molti pensieri. Qualche volta giunge a dire scetticamente : 

Vi sono molte cose di cui ammettiamo l’esistenza, ma ignoriamo la natura e fra queste è l’anima ; ma se essa non è sicura intorno a se stessa, non può arrecare certezza sugli altri esseri. 

Sull’oggetto della filosofia, le sue parti e il valore di esse, Seneca, al pari della sua scuola, sì esprime in modi diversi, senza indicare come sia possibile conciliare i suoi pensieri. Talvolta definisce la filosofia, 0 meglio la sapienza (che è la meta alla quale essa tende), come la scienza delle cose divine e umane: nel suo primo aspetto è contemplativa e mostra ciò che avviene nel cielo o, in generale, studia tutto l'universo e conduce a teorie (decreta): nel secondo è attiva; insegna ciò che si deve fare sulla terra e impartisce norme (prae- cepta). Il secondo studio deve fondarsi sul primo. Tale definizione coincide con l’altra : la filosofia è lo studio della virtù, perchè con questa, nel senso più generale, è designata appunto la sapienza. Così, però, è omessa la parte razionale della filosofia, suddivisa in rettorica e in dialettica o logica, che lo stesso Seneca ricorda in seguito insieme con la fisica, che coincide con lo studio delle cose divine o naturali, e con la morale che ha per oggetto quelle umane. Talvolta, invece, Seneca fa coincidere la filosofia con la morale, perchè la definisce la scienza o l’arte della vita retta, l’arte o la legge della vita. Con questa concezione si collega il primato che qualche volta concede all'etica sulle altre parti della filosofia. Lo scarso valore riconosciuto alla logica risulta sia dal fatto che quasi Seneca non ne tratta, sia dalla già ricordata condanna delle sottigliezze dialettiche. 

Quanto alla fisica (filosofia della natura e teologia), egli, che talvolta vede in essa uno svago, mostra Spesso, anche lodandola, di apprezzarla soprattutto per la funzione etica, o almeno spirituale che compie, in quanto libera dai terrori suscitati dall’ignoranza delle cause dei fenomeni naturali, ispira forza, fiducia e coraggio, fa che l’uomo riconosca la propria piccolezza, mostrandogli la grandezza di Dio e della natura. Un’azione più largamente spirituale esercita, insegnando a disprezzare il corpo e le meschinità di questa vita, sollevando l’anima, indicando all'uomo la sua origine e la sua destinazione celeste, rappresentandogli la grandezza e la sublimità dell'universo. Del resto, lo Stoicismo, che pone come norma etica suprema l’obbedienza alla legge razionale della natura, deve considerare la conoscenza di questa come il fondamento della morale, alla quale, però, in generale, se non sempre, è subordinata come mezzo e fine. Perciò Seneca può dire, mentre loda lo studio della natura, che la filosofia deve insegnare ad agire, e chiedere che tutto ciò che si apprende venga riferito alla formazione morale : così nelle Questioni naturali interrompe spesso la trattazione scientifica con considerazioni e con applicazioni di carattere etico. In altri casi, invece, affermando che la natura ci ha destinato sia all’azione che alla contemplazione, che è pure un’attività, rivendica l'autonomia della conoscenza teoretica della realtà, ed effettivamente richiede che la natura sia studiata per se stessa. Infine, nella prefazione alle Questioni naturali, egli sostiene che la fisica è tanto superiore alla morale, quanto il suo oggetto, la Divinità, oltrepassa l’uomo e che non metterebbe conto di vivere se non si potessero conoscere le cose che essa studia. La virtù che la morale ci insegna a conseguire, che consiste essenzialmente nella vittoria sulle passioni, sui vizi, sul male, ha valore soltanto perchò prepara l’anima a conoscere le cose celesti e la reride degna di associarsi con la Divinità. Queste diverse tesi si possono ridurre a una certa unità pensando che Seneca ritenesse il problema della fondazione etica del: l’uomo il compito più immediatamente urgente della filosofia, pur riconoscendo alla scienza della natura ‘e della Divinità maggior valore intrinseco, siechè la fisica è, in un primo momento, una preparazione all'etica, mentre in seguito, per l’uomo purificato dalle tendenze malvage, il rapporto s’inverte. 

Per quel che riguarda le teorie metafisiche e teologiche, Seneca, in complesso, non si allontana dalla scuola stoica, di cui accetta il panteismo materialista, Tutto ciò che agisce è un corpo, quindi è corporeo Dio, sia perchè, come si vedrà, è la causa attiva per eccellenza, sia per ciò che da esso provengono le anime umane, di cui è esplicitamente affermata la corporeità (al pari del bene o virtù, delle virtù particolari, delle passioni e dei vizi: altrimenti essi non potrebbero agire sul corpo). Giove (che si apprende non con gli occhi, ma soltanto col pensiero) è in un certo senso uguale alla natura, al mondo, all'universo, in quanto è la totalità delle cose visibili e invisibili che tutte ne provengono. 

In un altro senso, però, si può dire che esistono due principi nella natura, Dio e la materia; il primo è la causa attiva, in quanto è lo spiritus, il fuoco intelligente che opera sulla seconda che è passiva e dalla quale produce tutte le cose. Ma anche la materia, al pari degli esseri che ne provengono, che nel loro insieme costituiscono il mondo, in ultimo deriva da Dio, sicchè la differenza posta fra questo e quelli, è relativa. Dio, che può chiamarsi Jupiter (Giove), in quanto distinto dall’universo, è identico alla mente o anima puramente razionale di questo, inclusa in esso e nelle sue parti, è il fato o la necessità infrangibile di tutte le cose e di tutte le azioni, in quanto è la prima causa da cwi dipende tutto il nesso della serie causale in eni esso fato con- siste. Può anche chiamarsi la fortuna ola Provvidenza divina che provvede affinchè il mondo segua la sua via. 

Per sua natura, la Divinità è benefica e non può nuocere ; perciò l'universo, di cui è la custode e la moderatrice, la signora e l’artefice, è perfettamente bello e ordinato. Esso rivela in ogni cosa una struttura teleologica che è prova della mente divina che lo regge. Tutto nella natura segue le proprie leggi ed è errato pretendere che ogni cosa sia stata fatta per noi e giudicare sempre col criterio dei nostri vantaggi, invece di ammi. rare la maestà della natura ; però la Divinità ha mirato anche, anzi soprattutto, al bene dell’uomo, che spesso, con la sua stoltezza e malvagità, ha rivolto a proprio danno quei benefici. Se così sono riprese le tesi tradizionali del panteismo stoico, il posto centrale assegnato alla bontà di Dio offre lo spunto di una concezione personale di lui opposta alla precedente e affine a quella della coscienza religiosa contemporanea, che trova sviluppo quando Seneca afferma che fra Dio e l’uomo buono . esiste, più che amicizia, parentela e somiglianza, che il secondo è discepolo e figlio del primo (De prov., 1, 5 sg.). 

Dio è il nostro padre (De ben., II, 29, 4), perciò deve essere amato, non temuto (ivi, IV, 19, 1): agli Dei si dovrebbe tributare un culto disinteressato ; per propi- ziarseli occorre soltanto essere buoni, perchè così si imitano (Ep., 95, 50). Seneca segue invece completamente il panteismo stoico, affermando che tutti gli esseri provengono periodicamente dal fuoco divino o Giove, e ritornano ad esso con una conflagrazione universale e che poi si forma un nuovo universo completamente simile al precedente di cui deve dividere la sorte. 

Egli si interessa particolarmente dell’uomo e soprattutto della sua anima in cui vede uno spiritus o un pneuma. Allontanandosi dall’ortodossia stoica, e avvicinandosi a Posidonio e a Platone, distingue in essa una parte razionale e una irrazionale (che è collegata col corpo e deve subordinarsi alla prima), che suddivide in passionale o coraggiosa e in desiderativa dei piaceri, ma concilia questa tesi con quella della sua scuola col. locando tutte quelle parti nell’ yepovix6v. In tal modo egli ritiene di poter dar ragione delle debolezze e dei vizi che presentano in ogni tempo gli uomini, salvo in brevi periodi di innocenza che seguono la formazione di un nuovo universo, Questo dualismo si ripresenta e si accentua nella contrapposizione dell'anima 0 meglio della sua parte razionale, e del corpo (detto, con espressione sdegnosa, carne), che è un velame, un peso necessario, una punizione, un vincolo, un carcere per la prima che deve lottare con esso perchè spinge al vizio ed è causa di molti mali. A eiò si uniscono la svalutazione e la condanna della vita terrena e l'aspirazione a una superiore che avrà inizio per l’anima liberata dal corpo, il giorno (che seguirà il giudizio che verrà dato di tutta la vità di ciascuno: Ep., 26, 4) in cui nascerà all’immortalità (dies ista... aeterni natalis est : Ep., 102, 26). Di tale esistenza celeste, migliore di questa, Seneca esalta l’eterna pace, la libertà dalle passioni, la felicità. 

Allora l’anima, giunta dalle tenebre alla luce, potrà godere della visione dell’universo e penetrare nei segreti della natura. Così Seneca, mentre si collega alla corrente orfico-pitagorico-platonica, mediata da Posidonio, rispecchia le convinzioni della religiosità ascetico-mistica dell’età sua e in tal modo si avvicina a certi insegnamenti del Cristianesimo. Alcune espressioni, come immortalis, aeternus, è l’affermazione che le anime ritorneranno alla loro patria originaria, al cielo, dal quale sono discese in terra, non debbono però far pensare che egli ammettesse una immortalità illimitata nel passato e nel futuro, perchè non si allontanava dalla sua scuola, la quale accettava soltanto, con Crisippo, che le anime dei sapienti sarebbero sopravvissute alla morte fino alla conflagrazione universale per risolversi allora nella ragione divina. La discesa dal cielo e il ritorno ad esso ricevono il loro significato dalla tesi che le anime razionali sono parti di quella ragione dalla quale provengono, sono Dio che abita nell'uomo e perciò sono affini a Lui. Egli discende negli uomini, è presente ai loro pensieri e nessuna mente è buona senza di Lui. Non si tratta dunque di una immortalità personale illimitata, ma di una concezione panteistica che la esclude. (Talvolta, però, dicendo che l’anima, se non è pura e santa, non può ricevere Dio, stabilisce una distinzione fra essi). Del resto, anche questa, più che immortalità, persistenza dell'anima, è per Seneca piuttosto l'oggetto di una credenza che di una certezza razionale, tanto è vero che ne parla come di un bellum sommnium e dice che vuole, più che fare ricerche sulla eternità delle anime, eredere in essa. (Non hanno questo significato i testi in cui ammette, per provare che non si deve temere la morte, che con questa tutto finisce). | 

Nella morale, di cui soprattutto si interessa, Seneca si sforza di attenersi ai principi direttori della sua scuola, ma insieme ne mitiga il rigore e cerca di evitarne le conseguenze paradossali, non senza incoerenze e contraddizioni. Anche per lui ogni animale è spinto dalla natura ad amare se stesso e a cercare la propria conservazione; ma l’uomo, essendo razionale, si ama e tende a conservarsi non come animale, ma in quanto fornito di ragione (insieme teoretica e pratica) e perciò mira a salvarla e a perfezionarla. La ragione retta e perfetta, quella del sapiente, possiede la visione delle cose divine e umane e perciò, nella sua funzioné teoretica riconosce la legge razionale dell’universo e in quella pratica, quale atteggiamento della volontà, si conforma ad essa e così segue la natura. Essa ragione coincide con la virtù o eccellenza [umana], con l’Aonestum, il bello morale in senso ampio che si identificano. Essendo la ragione il bene proprio, anzi, unico dell’uomo, realizza la felicità umana ; così si deve dire che il solo bene è la virtù che è sufficiente per la vita felice. E ciò si deve ripetere per l’Ronestum. Infatti, il sapiente sa che soltanto l'atteggiamento interiore della volontà è in suo potere, si rende conto che l'universo è governato dalla suprema legge razionale del fato, riconosce che essocoincide con la Provvidenza e comprende che quanto avviene è necessario per il bene del tutto. Per questa ragione obbedisce di buon grado al volere divino e così è libero e, siccome ritiene che niente è male, che nulla gli nuoce, è esente da passioni e da sofferenze e vive felice. Seneca, che con Cleante ripete ducunt volentem fata, nolentem trahunt, si avvicina alle posizioni di Democrito e di Epicuro, affermando che nella tranquillità dell'anima consiste la beatitudine propria del sapiente. Quindi, il sommo bene è l’anima che conosce la verità e regola le sue azioni secondo la visione dell'universo, è il condursi secondo la volontà della natura; per ciò nel conformarsi a questa consiste la vita felice. 

La virtù fondamentale, la sapienza (che contiene un aspetto conoscitivo e uno attivo, al pari della ratio alla quale si identifica) si divide nelle quattro virtù principali, secondo gli oggetti ai quali si applica; ma essa, al pari del suo opposto, il vizio, il turpe, non ammette gradi. Tutte le virtù, tutti i beni, come i loro opposti, sono uguali in sè, sebbene ne muti la materia, e da un opposto all’altro non v'è passaggio : del pari sono uguali, da una parte, le azioni buone, le malvage dal- l’altra. La virtù e il vizio risiedono nell'animo, nella volontà, nell’intenzione, dalla quale dipende il valore dell’azione esterna. Se l’unico bene e l’unico male risie- dono nell'anima, tutto ciò che ne differisce, tutte le cose esterne (la vita, la salute, la ricchezza e i loro op- posti) non sono nè beni, nè mali, ma una materia che può essere usata bene o male ; soprattutto non si deve giudicare il piacere un bene e meno che mai, come fa- ceva Epicuro, il sommo bene. È vero che alla virtù del sapiente si collega un piacere che è l’unico perpetuo e sicuro, ma esso non deve ricercarsi come un fine, perchè soltanto la virtù, che ha in sè la propria ricompensa, è degna di essere perseguita per sè. Per lo Stoicismo, che identifica il vero bene alla virtù che risiede nella ragione, tutte le altre cose sono indifferenti. Però esso aveva mitigato questa tesi (che era poi in contraddizione con la sua fede che tutto è governato da un fato provvidenziale e perciò è rivolto al bene) distinguendo le cose indifferenti in quelle che sono tali assolutamente e nelle altre che hanno un certo valore, positivo o negativo, pure non essendo nè beni, nò mali e perciò si debbono o desiderare o respingere, secondo che sono gli oggetti primi degli impulsi dell'anima (doti spirituali, come buone disposizioni, abilità artistiche ; qualità fisiche, come vita, salute ; cose esterne, come ricchezze, fama) o i loro opposti. Seneca non si limita ad accettare questa tesi, ma la sostiene in modo tale da avvicinarsi alle posizioni della scuola peripatetica. Con lo Stoicismo, egli ritiene che le passioni siano l’ostacolo che si oppone al conseguimento della virtù e della felicità, perchè sono movimenti dell'anima disordinati, im» provvisi e violenti, che, se ripetuti e trascurati, si tra«formano in malattie, cioè in vizi inveterati e induriti e perciò si debbono estirpare completamente. Siccome la sede della virtù è l'intenzione e la passione dipende dalla volontà e richiede. l'assenso della mente (sebbene provenga dalla parte irrazionale dell'anima), Seneca può affermare che basta voler essere virtuosi per diventare tali : si tratta di sviluppare quei germi di virtà o di, scienza che la natura ha posto in tutti gli uomini. È quindi facilissimo condurre una vita conforme alla nostra natura razionale e vivere felicemente. D'altra parte, egli, che con la sua scuola esalta l’infallibilità, l'assoluta libertà, la perfetta virtù, la suprema felicità del sapiente che soltanto per la durata è inferiore a quella di Giove (lo stolto invece è completamente malvagio e infelice ed è schiavo delle sue passioni), ritiene con gli stoici in generale che, all'infuori di rarissime eccezioni, tra le quali pone Catone, tutti gli uomini siano pazzi e malvagi. Su questo punto, anzi, egli insiste più energicamente e più spesso degli altri stoici. Noi nomini siamo stati, siamo e saremo sempre stolti e malvagi ; tutti abbiamo peccato e peccheremo fino alla fine della vita, pure rimproverando agli altri Je colpe di cui sono macchiati ; soltanto ora predomina un vizio, ora un altro. £ vita degli uomini è quella di un branco di helve feroci che sono più miti di loro, perchè mostrano mansuetudine con coloro che li nutrono, mentre essi li divorano : tutto è pieno di difetti e di vizi. Egli talvolta ripone la causa della stoltezza e della malvagità | universali nell’azione corruttrice che l’insania comune della massa esercita sul singolo con l'esempio. Erra chi ritiene che i vizi siano nati con noi, perchè la natura non ci ha inclinati verso di essi, ma ci ha generati puri e liberi. Altre volte invece afferma che il sapiente non prova collera per chi pecca perchè conosce le condizioni della vita umana e nessun uomo di mente sana si adira con la natura, per vizi che essa scusa. Ciò significa che, in ultimo, dipende dalla natura l'impossibilità, da parte della quasi totalità degli uomini, di svolgere i germi originari di virtù, la volontà di essere sapienti, ossia virtuosi e felici. Siamo di fronte al conflitto che si presenta in generale nello Stoicismo tra la fede nella libertà del volere e quella nel determinismo universale. Già gli stoici, riconosciuta la natura eccezionale del sapiente, avevano parlato di colui che fa progressi nella virtù, e prevalentemente, se non soltanto di lui, si era interessato Panezio. Seneca va anche più in là. Occorre seguire gli Dei nei limiti che ci sono concessi dalla debolezza umana. Per conto suo, egli confessa che non è un sapiente e che non lo sarà mai, non aspira a pareggiare gli ottimi, ma cerca essere migliore dei malvagi e si contenta di diminuire ogni giorno i suoi vizi. Raccomanda a sè e agli altri di esaminarsi accuratamente, di rendersi conto tutte le sere della giornata trascorsa, di fare ogni sforzo per correggersi, ricorda che alla nostra coscienza nulla di noi rimane nascosto. 

Lo spettacolo della malvagità e della stoltezza universali degli uomini, però, non ispira a Seneca l’aspra condanna pronunciata dallo Stoicismo precedente, ma un senso profondo di indulgenza e di compassione. Chi pecca è simile a un bambino, a un ammalato, a un pazzo, occorre considerarlo con l’oechio con cui il medico guarda i suoi pazienti, bisogna perdonare a tutti, concedere venia al genere umano (De ira, II, 9-10; III, 26-27). 

Più gravi delle incoerenze osservate fin qui sono altre, le quali mostrano che l’originarià intuizione pes- simistica della vita non è stata eliminata dalla filosofia accettata da Seneca. Per questa, che identifica la fortuna a un fato provvidenziale, tutto ciò che accade è rivolto al bene, sicchè soltanto lo stolto può lagnarsi dei mali della vita. Il bene risiede nell'anima e tutte le altre cose, inclusa la morte, sono indifferenti; ora Seneca, non soltanto chiede talvolta che cosa gl’importi che sia certo per la natura (fato) ciò che è incerto per lui (fortuna), ma abitualmente accetta l’irriducibilità della seconda al primo : ciò avviene anche quando, per giustificare i mali che colpiscono i buoni, sostiene che ad essi non può avvenire alcun male e che la Divinità li designa alla fortuna perchè si esercitino in quella lotta, in quanto lo spettacolo più degno di Dio, è il conflitto fra l’uomo forte e la sorte avversa, soprattutto se egli l’ha provocata. Più chiaramente ancora riconosce l’esistenza della fortuna, quando insegna con Posidonio che bisogna lottare contro di essa con le sue stesse armi, allorchè sostiene che i suoi colpi sono mali soltanto in apparenza e soprattutto nei testi numerosissimi in cui ricorda la potenza di essa e la sua azione inaspettata che tutto sconvolge, contro la quale presenta un solo rimedio : bisogna essere preparati a tutto, rimedio che, evidentemente, non è offerto da un sistema filosofico piuttosto che da un altro. Si è già ricordato come egli deplorasse continuamente i mali di cui è ricolma la vita. Per quello che riguarda il timore della morte, insegna che occorre fare ogni sforzo per vincerlo, perchè ci avvilisce, ci agita e rovina la vita stessa. Bisogna pensare alla morte perchè ciò significa pensare alla libertà ; chi sa morire non sa servire, inquantochè è al di là, se non al di sopra di ogni potenza : ci tiene legati soltanto l’amore della vita, che bisogna almeno moderare. Effettivamente ci atterrisce soltanto la parola morte, con la quale occorre acquistare familiarità. Per vincere questo terrore, Seneca adopera vari argomenti che non sempre implicano che sia una cosa indifferente e ne ricorda anche alcuni usati da Epicuro o simili ad essi: la morte non è nè un bene nè un male, perchè è un nulla che tutto annienta e chi non esiste non può essere infelice. Essa non deve ispirare timore perchè è o una fine o un passaggio : nel primo caso equivale alla condizione di chi non ha cominciato a vivere; e nel secondo l’uomo non sarà mai in un luogo tanto angusto come questo. Seneca si attiene più allo Stoicismo quando presenta questa alternativa: l’anima o sarà condotta a un'esistenza migliore per permanere fra le cose divine, o senza alcun danno si ricongiungerà alla natura e ritornerà nell'universo [cioè nella ragione divina]. È fondata sulla teoria eraclitea e stoica del perenne ritorno di tutte le cose, l'affermazione : se desiderate vivere, pensate che tutto finisce, ma nulla. perisce perchè tutto rinasce. Però, anche in questo caso, l'argomento più forte, cioè il pensiero costante «della inevitabilità della morte, legge della natura, tributo e obbligo dei mortali, non si fonda su alcun sistema filosofico particolare, 

Meglio si accordano con lo Stoicismo quelle convinzioni originarie di Seneca che riguardano i rapporti fra gli uomini. Già gli stoici antichi avevano insegnato A l'uguaglianza umana, la dignità della persona, il cosmopolitismo e Panezio e Posidonio avevano prescritto l’amore per tutti gli uomini ; però nessuno di loro aveva trattato questi argomenti con l’intima e profonda convinzione di Seneca, che supera in ciò anche i suoi contemporanei Epitteto e Marco Aurelio : le sue parole corrispondono ad un atteggiamento spirituale che deve avere assunto prima di accettare un credo filosofico determinato. La giustificazione teoretica di quelle credenze poggia sulla tesi (panteistica per sè, ma conciliata nella mente di Seneca con una concezione personale della Divinità) che le anime razionali umane sono parti della ragione divina, sono Dio che alberga nell'uomo, sicchè il carattere religioso dell’etica, che nelle teorie precedenti era già chiaro, ora appare sotto una luce anche maggiore. L'universo, che include le cose divine e umane, è uno ed è Dio e noi siamo membra di questo grande corpo: la natura ci ha creato tutti parenti. Siccome l'animo buono e retto è Dio che alberga in un corpo umano, può risiedere in un cavaliere romano come in un liberto o in uno schiavo, che differiscono soltanto per nomi originati dall'ambizione o dall’ingiustizia. Tutti gli uomini, quindi, sono uguali e posseggono una propria dignità e un proprio valore e si distinguono tra loro esclusivamente per le doti dell’anima, che può essere libera anche nello schiavo. 

Servire nel consolare (Ep., 47, 15 sgg.; De ben., III, 28, 1 sgg.). La natura stessa ci ha creato socievoli ; Dio ‘ha dato all'uomo, che da solo è il più debole fra gli esseri, la ragione e la vita sociale che l'hanno reso il più forte di tutti. La società non soltanto lo difende dai pericoli e dai mali, ma gli ha anche arrecato il dominio del mondo. Si vive in comune e nessuno può essere felice se rivolge tutto al proprio vantaggio. « Oecorre che tu viva per altri, se vuoi vivere per te » (Alteri vivas oportet, . si vis tibi vivere : Ep., 48, 2). 

Ma non soltanto per il proprio vantaggio (che del resto non è che una conseguenza di quello di tutti), ma anche e soprattutto per affetto reciproco, gli uomini debbono essere congiunti tra loro e aiutarsi: « L'uomo è cosa sacra per l’uomo » (Homo res sacra homini : Ep., 95, 33), perchè la stessa natura cei ha ispirato amore reciproco, Questo si esplica nei benefici : tale argomento ha molto interessato Seneca, che lo ha studiato in un trattato di sette libri. Anche nei benefici egli considera due aspetti: da una parte lo scambio di essi è il vincolo più forte della società che è la difesa più valida della debolezza umana; dall’altra essi ci sono imposti dalla stessa natura, che vuole che le mani siano pronte a soccorrere : ovunque è un uomo, anche se un ignoto, un nemico, vi è posto per il beneficio. Sempre dobbiamo avere nel cuore e sulle labbra il verso di Terenzio : Homo sum, humani nihil a me alienum puto (Heauton., I, 1, 54). Per l’ordinamento della natura è peggio nuocere che essere offesi (De ira, I, 5, 2, e passim). 

Occorre beneficare senza stancarsi, senza scoraggiarsi, senza pentirsi e imitare gli Dei che giovano ugualmente ai degni e agl’indegni, senza curarsi dell’ingratitudine umana : la bontà pertinace vince i malvagi. È proprio dell'animo grande e buono cercare di beneficare, non di ottenere il frutto dei benefici, perdere e dare, perchè nel dare consiste la virtù: bisogna imitare gli Dei, che beneficano senza ricompensa (De ben., I, 1, 12; IV, 24-25; VII,.31, fine). 

Molte volte occorre beneficare in segrete, anzi, ingannare chi riceve, perchè ignori chi lo ha soccorso. 

L'esigenza dell’amore universale si deve estendere anche ai più infelici, ai più umili: gli schiavi, i gladiatori. Seneca, che bolla con parole roventi i padroni erudeli, inumani e viziosi, che maltrattavano e torturavano i loro schiavi, che li condannavano ai servizi più abbietti, più vergognosi e più infami, afferma recisamente che essi sono uomini, anzi umili amici, conservi, perchè, come i padroni, sottoposti al dominio della fortuna (Ep.; 47, 1). Hanno la stessa natura dei padroni, sono uguali ad essi (De elem., I, 18, 2; De ben., III, 28, 1 sgg.); soltanto il corpo è proprietà di altri, ma l’anima è libera, 

La virtù è accessibile a tutti, ai re e agli schiavi, si con- tenta dell'uomo nudo, tanto è vero che molte yolte i secondi hanno dato prova di una devozione illimitata ai loro padroni, sacrificando la propria vita per salvarli (De ben., III, 18-28; ef. Ep., 44). Seneca ammonisce il superbo : Pensa che la fortuna può ridurti nella più umile condizione, vivi con gli inferiori come vorresti che chi ti è superiore vivesse con te, usa clemenza, anche affabilità con lo schiavo, consigliati con lui, ammettilo al tuo convito, così lo renderai degno di parteciparvi, se non è tale. Anche fra gli schiavi puoi trovare amici, I padroni debbono cercare di essere piuttosto amati che temuti, come Dio si contenta dell'amore e del culto degli uomini (#p., 47, 11 sgg.). Cicerone aveva giudi- cato ammirabile scuola di fortezza le lotte dei gladia- tori se avvenivano tra colpevoli : Seneca invece le con- danna senza pietà anche in questo caso e a chi gli obbietta che quegli uomini hanno commesso reati e meritano la loro sorte, risponde: E tu, infelice, che cosa hai fatto per assistere a uno spettacolo simile? (Ep., 7, 3 sgg.). Del pari, condanna nel modo più risoluto, riferendosi direttamente a Roma, le guerre e la gloria che si fonda sulle stragi (Zp., 95, 80-31); e contro i costumi contemporanei propugna l'eguaglianza dei doveri dei due coniugi (Ep., 94, 26). 

All’insegnamento dell'uguaglianza di tutti gli nomini e dell'amore universale Seneca collega la teoria, accettata da tutti gli stoici, del cosmopolitismo. Per lui, la patria è il mondo, lo stato è la vera cosa pubblica che include gli Dei e gli uomini, che ha i confini misurati dal corso del sole. Vi è un diritto comune a tutto il genere umano (Ep., 48, 3). 

Panezio e Posidonio avevano conciliato col cosmopolitismo la partecipazione attiva alla vita pubblica negli stati esistenti; Seneca invece, ritornando, al pari degli stoici del tempo suo, alla posizione dei fondatori della scuola, mostra di interessarsene poco, e per gli stessi motivi. Quando ancora godeva del favore di Nerone, egli riconosceva che la pax romana, la salvezza della città, era ormai congiunta indissolubilmente con la sorte dell’imperatore, e ciò implicava che era svanito l'impulso più forte alla partecipazione del cittadino alla attività politica. In seguito, quando dovette nel De otio giustificare il suo ritiro dalla vita pubblica, ricordò che Zenone aveva insegnato che il sapiente parteciperà ad essa se nulla ne lo impedirà e osservò che molte possono essere le cause di quella astensione. Infatti può darsi che lo stato sia troppo corrotto perchè egli possa giovargli ; o che sia dominato dai malvagi nel qual caso non si deve sacrificare inutilmente. Effettivamente non esisterà mai uno stato al quale il sapiente possa accedere; nè Zenone, nè Cleante, nè Crisippo amministrarono mai la: cosa pubblica e nemmeno spinsero altri a far ciò. Con Atenodoro, Seneca ritiene che il privato che educa gli uomini alla virtù non è meno utile allo stato dell’uomo politico, del magistrato, del soldato. Zenone e Cleante con l’opera loro hanno giovato a tutto il genere umano ; se fossero stati statisti o generali avrebbero servito soltanto vina città. 

Considerata con criteri puramente teoretici, la filosofia di Seneca non può essere molto valutata, perchè appare uno Stoicismo eclettico privo di originalità e ricco di incoerenze. Per di più, i problemi originari della fortuna, dei mali della vita, della morte, non trovano soluzione nel suo sistema, e i mezzi migliori che egli offre contro quei terrori sono indipendenti da esso. La fede nell’immortalità rimane sempre una fede e la ere- denza in un Dio personale è in contrasto col panteismo della dottrina. Ma il significato e il valore vitale del- l’opera sua non risiedono nell’elaborazione scientifica di concetti, ma nella visione dolorosa della vita, nel senso amaro dell’universale debolezza e peccabilità degli uomini, nella pietà e nell’amore per tutti, nell’aspirazione a un’esistenza migliore, nella tendenza verso una personalità divina provvidente, benefica, paterna, che si esprimono nelle pagine di Seneca con una convinzione, una sincerità, un’intensità che contrastano con l'enfasi rettorica che appare quando egli si limita a presentare le tesi della sua scuola. Certamente egli si collegava al movimento religioso dell'età sua che, sorto nelle classi inferiori, premeva sempre più sulle superiori; ma nessuno, forse, dei filosofi contemporanei ha vissuto così fortemente quelle sofferenze e provato così intensamente quelle esigenze. A ragione, le prime generazioni cristiane hanno colto nelle parole di Seneca, al disotto delle formule della scuola, irriducibilmente contrastanti con le loro eredenze più care, un’anima in pena che tendeva verso ideali affini, se pur diversi dai loro. Soprattutto, l'insegnamento dell’amore universale, che sarà ripresentato da Marco Aurelio, e la difesa degli umili e degli infelici, che venivano a prendere il posto dell'ideale aristocratico della humamnitas di Cicerone, segnano il punto in cui lo spirito antico più si avvicina alla parola del Vangelo. 

Esercitò un forte influsso sui contemporanei €. Musonio Rufo, di famiglia equestre dell’etrusca Volsini (Bolsena) : dev’essere nato circa il 30 d. C. perchè verso il 65 suscitò per la sua fama di filosofo l’invidia di Nerone. Nel 60 0 poco dopo seguì Rubellio Plauto nell'Asia Minore e lo incoraggiò a togliersi la vita quando l’imperatore lo condannò a morte. Deve essere ritornato a Roma, perchè nel 65-66 ne fu bandito insieme con Cornuto in occasione della congiura di Pisone e confinato nell’isoletta di Gyaros nelle Cicladi, ove per la sua rinomanza attirò uditori da ogni parte. Verosimilmente richiamato a Roma da Galba, negli ultimi giorni di Vitellio si unì ad una ambasceria del Senato presso Antonio Primo per perorare la causa della pace fra i suoi soldati, ma senza successo. Quando Vespasiano assunse il potere, Musonio accusò davanti al Senato P. Egnazio Celere, quale delatore e falso testimonio nel processo di Borea Sorano. Vespasiano lo escluse dalla prima espulsione dei filosofi da Roma (71), ma poi lo esiliò per la seconda volta ; però Tito, che già lo aveva conosciuto, lo richiamò dopo la sua assunzione al trono. In seguito mancano notizie su di lui, ma da una lettera di Plinio il Giovane sembra che nel 101-102 non fosse più in vita. Non risulta che abbia composto e pubblicato seritti, anzi sembra che si sia servito soltanto dell’insegnamento orale, del quale, però, rimangono frammenti abbastanza numerosi. Essi comprendono : 19 brevi apoftegmi conservati da Plutarco, da Aulo Gellio e dallo Stobeo ; 2° altri apoftegmi e trattazioni filosofiche relaivamente ampie raccolti da Epitteto nelsuo insegnamen-È e trasmessi i primi da Arriano, le seconde dallo Stobeo ; 3° esposizioni o lezioni che si trovano nello Stobeo o costituiscono la parte più estesa dei frammenti. È verosimile che provengano da uno scritto di quel Lucio che si è già ricordato e che si deve ritenere la fonte più importante dello Stobeo ; un’altra è Epitteto, cioè Arriano. Sembra che un Pollione (probabilmente Valerio Pollione da Alessandria, vissuto sotto Adriano) abbia composto Memorabili di Musonio, ma non ne restano tracce. È giudicata falsa una lettera di Musonio a un certo Paneratide. Le concordanze che si sono osservate tra i frammenti di Musonio e il Pedagogo di Clemente di Alessandria hanno fatto pensare o alla dipendenza di questo da uno seritto di Lucio o alla derivazione di ambedue da una fonte più antica. Della forte azione di Musonio sui contemporanei sono prova i suoi numerosi scolari, tra i quali si ricordano (oltre al genero Artemidoro, amico e maestro di Plinio il Giovane), i filosofi Epitteto, Dione di Prusa, Eufrate di Tiro e il suo scolaro Timocerate di Eraclea, e insigni romani, come Rubellio Plauto, forse Borea Sorano e Minicio Fundano, Musonio si avvicina ai cinici nell’assegnare alla filosofia finalità radicalmente etico-pratiche, accetta spunti dell’ascetismo neo-pitagorico, ma nel complesso dipende dallo Stoicismo con influssi posidoniani. Nel sno insegnamento non trascurò le esercitazioni logiche e i frammenti toccano argomenti di fisica, ma ciò che vi è detto degli Dei, designati con le denominazioni della religione tradizionale, non supera la sfera del pensiero comune e non ha carattere filosofico determinato : invece riporta allo Stoicismo l'affermazione della necessità universale, che equivale alla teoria del fato. Però l'interesse di Musonio si concentra sulla funzione pratica della filosofia, che è assolutamente necessaria in quanto (secondo la tesi introdotta dai cinici nel I secolo a. C. e poi generalmente accettata) gli uomini sono malati che richiedono una cura continua la quale dev'essere prestata dalla filosofia, che perciò è necessaria a tutti, alle donne non meno che agli uomini : essa però è identificata alla ricerca e alla realizzazione della virtù, per conseguire la quale non vi è necessità di molti discorsi, nè di molte teorie ; inoltre, in essa l'esercizio ha maggiore importanza dell’insegnamento (o del discorso). Siccome la natura ha posto in ogni uomo i germi della virtù, se il discepolo non è stato corrotto, una breve dimostrazione è sufficiente per fargli riconoscere i principi etici giusti. 

Ciò che soprattutto importa è che maestro e discepolo uniformino la loro condotta ai propri principi. Si comprende che Musonio si interessasse in primo luogo della formazione etica degli scolari. 

Nell’insieme, la morale di Musonio si conforma alle dottrine tradizionali della sua scuola. Occorre distinguere ciò che è e ciò che non è in nostro potere: ora da noi dipende soltanto l’uso delle rappresentazioni, cioè l'assenso dato alle opinioni sul bene e sul male, dalle quali è determinata la giusta valutazione delle cose e quindi l'intenzione quale atteggiamento interiore della volontà; in essa, se è retta, consiste la libertà, la virtù, la felicità. Tutto il resto non dipende da noi | e perciò rispetto ad esso, ossia alle cose esterne, dobbiamo rimetterci all’ordine necessario dell'universo e aecettare volentieri ciò che arreca. Soltanto la virtù è bene, soltanto la malvagità è male e ogni altra cosa è indifferente. Però, per rafforzare la volontà, Musonio ‘ riteneva necessario, oltre l'insegnamento e l’esercizio morale, anche l’indurimento fisico, perchè, essendo il corpo uno strumento indispensabile dell’anima, occorre rafforzare ambedue. In generale raccomanda, avvicinandosi al Cinismo, la vita semplice e conforme alla natura e accoglie dal Neo-Pitagorismo il divieto dei cibi carnei. Oltrepassando le opinioni di molti stoici antichi, esige una vita morale severissima, raccomanda il matrimonio, condanna la limitazione delle nascite e l’esposizione dei figli. Nell'insieme, i frammenti di Musonio rivelano un’anima nobile e retta, appassionata per il bene e guidata dal desiderio di educare gli spiriti, ma a queste doti non corrisponde il valore scientifico degli insegnamenti, perchè i suoi pensieri sono molto mediocri e privi di originalità ; inoltre non si può trovare nelle sue parole l’espressione di una visione della vita vi- brante di dolore e di amore simile a quella di Seneca. 

Importanza senza confronto maggiore ha l’opera dell’ultimo dei grandi stoici, l’imperatore Marc'Aurelio, discepolo spirituale di Epitteto. Nacque a Roma sul Celio, il 26 aprile 121 d. C., da M. Annio Vero, discendente da una famiglia originaria della Spagna, che aveva coperto alti uffici, e da Domizia Lucilla, e ricevette i nomi dei due nonni, M. Annio Catilio Severo.

A sei anni fu da Adriano designato a far parte dell’ordine equestre, a otto del collegio dei Sali. Rimasto presto (circa 130) privo del padre, allora pretore, fu adottato dal nonno paterno che gli diede il nome (M. Annio Vero) e gli fece impartire: una larga cultura. (Per volontà del bisnonno materno venne educato in casa). Ebbe allora come maestro di filosofia Diogneto. 

A 12 anni rivestì il costume dei filosofi e volle sottoporsi a privazioni e forme austere di vita che danneggiarono la sua salute originariamente forte. Sembra però che verso quel tempo interrompesse gli studi, per riprenderli in seguito. Adriano, che lo apprezzava assai e che una volta per ischerzo lo chiamò Verissimo, lo fidanzò il 26 aprile 136 alla figlia di L. Ceionio Commodo, che aveva designato suo successore, e morto questo il 1° gennaio 138, adottò Antonino, zio di Marco, a condizione che adottasse a sua volta il nipote e il figlio di Ceionio. Alla morte di Adriano, il 10 luglio, Antonino Pio adottò entrambi e Marco, che prese il nome di M. Elio Aurelio Vero, par- tecipò sempre più al potere imperiale: presto il so- vrano lo indicò suo successore, dandogli il titolo di Ce- sare, nel 138-139 lo nominò questore, nel 140 console, ‘nel 145 gli diede in isposa la figlia Faustina. In quel tempo Marco ritornò agli studi, occupandosi da prima principalmente di rettorica, sotto Frontone per la parte latina e Erode Attico per quella greca; è dubbio se allora abbia avuto l’insegnamento filosofico dello stoico Apollonio, ma la cosa è sicura per quelli del platonico Alessandro, del peripatetico Claudio Severo e per l’am- maestramento del giurista L. Volusio Meciano. Nel 146, Marco, che Frontone avrebbe voluto rivolgere in modo definitivo alla rettorica, si diede invece completamente alla filosofia per impulso di Giunio Rustico, il quale gli fece conoscere l'insegnamento di Epitteto, che lasciò un'impronta incancellabile nel suo spirito. In quel tempo deve avere chiamato presso di sè altri filosofi, gli stoici Claudio Massimo e Cinna Catulo, e il platonico Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco. Marco si sforzò di ap- plicare alla sua vita le norme severe della morale stoica. 

Negli ultimi anni del principato del padre adottivo im- parò a conoscere da vicino la vita pubblica e l’ordina- mento dello stato, formandosi un’esperienza che gli fu preziosa quando, salito al trono, dovette affrontare dif- ficoltà di ogni genere. Antonino, gravemente ammalato, nominò successore Marco, che salito al trono dopo la - sua morte (7 marzo 161) col nome di M. Aurelio An- tonino, volle governare l'impero insieme al fratello adot- tivo, che prese i nomi di Lucio Annio Vero; ma questo non gli fu di aleuna utilità nel governo dello stato, anzi gli arrecò dispiaceri con la sua condotta leggera e dis. soluta, 

Il principato di'Antonino era stato uno dei più tran- quilli e prosperi dell'età imperiale; invece quello del suo successore, pieno di pericoli e di sventure, iniziò la decadenza dello stato romano. Subito la situazione. si presentò minacciosa : inondazioni in Italia, carestia a Roma, agitazioni nella Bretagna, ove i legionari vole- vano eleggere imperatore il proprio comandante, inizio di agitazioni dei Germani, vittoriose campagne militari dei Parti nell’Armenia. Marco Aurelio affrontò energi- camente quest’ultimo pericolo, e inviò rinforzi in Oriente, ove i romani, riconquistata l'Armenia, distrussero le due capitali dei Parti, Seleucia e Ctesifonte; ma una terribile pestilenza impedì che la loro vittoria fosse definitiva e li costrinse a ritirarsi; però poterono consoli- dare le loro posizioni orientali. 

Appena i due imperatori ebbero celebrato il loro trionfo, si presentò un pericolo anche più grave sul Da- nubio, varcato in più punti da genti germaniche e slave, dirette dai Marcomanni e dai Quadi ; esse poi, superate le Alpi, assediarono Aquileia e sconfissero le forze ro- mane inviate contro di loro : intanto altri barbari pene- travano nell’Acaia e nell’Asia Minore e la peste, venuta dall'Oriente, devastava l’Italia. Marco Aurelio, oppo- nendo serenità ed energia a questo cumulo di disastri, prese tutti i provvedimenti che la tragica situazione richiedeva : alla testa di un nuovo esercito i due impe- ratori mossero contro i barbari che, tolto l'assedio da Aquileia, ripassarono le Alpi. Nel 169 Lucio Vero morì di apoplessia mentre ritornava a Roma; Marco Aurelio proseguì per più di cinque anni una guerra asprissima, in cui sconfisse i Marcomanni (172), i Quadi (174), gli Iazigi (175). Avrebbe voluto formare due nuove pro- vince e portare la frontiera ai Carpazi, ma dovette concludere affrettatamente la pace per recarsi in Oriente ove si era proclamato imperatore il legato di Siria, Avi- dio Cassio; trovando fautori in molte province. Marco Aurelio, sebbene l’usurpatore fosse stato ucciso da un centurione prima del suo arrivo in Oriente (175), vi si trattenne per riordinare e pacificare quelle province ; nel viaggio di ritorno, Faustina, che l'aveva accompa- gnato, morì in un villaggio dell'Asia Minore. Egli si trattenne a lungo in Atene, ove fondò quattro pubbliche cattedre di filosofia, affidate ai rappresentanti delle scuole maggiori. Poco dopo il suo ritorno a Roma, do- vette di nuovo recarsi nella zona danubiana per la in- surrezione dei Quadi e dei Marcomanni ; morì il 17 mar- zo 180, a Sirmium, sulla Sava, forse colpito dalla peste, che di nuovo faceva strage, dopo avere designato come successore il figlio Commodo, sebbene ne conoscesse la natura grossolana e malvagia. Nei 19 anni di regno, Marco Aurelio fu pari al suo ufficio di sovrano non sol- tanto come generale, ma anche come legislatore e come amministratore. Egli perfezionò l’opera legislativa dei predecessori e con criteri di umanità mirò a proteggere più che in passato gli schiavi, a tutelare gli orfani, i poveri, le donne, i figli. Cercò di rendere ben determi- nato l'ordinamento amministrativo e fece ogni sforzo per superare le difficoltà delle finanze, senza ridurre le spese di pubblica utilità e di beneficenza. Esercitò con serupolo che fu ritenuto eccessivo il suo ufficio di giudice, tendendo verso l’indulgenza; ma quando lo ere- dette necessario, applicò rigidamente le leggi. Perciò, ritenendo che i cristiani fossero pericolosi per lo stato, prese provvedimenti contro di loro. 

Di Marco Aurelio rimangono in latino lettere a Fron- tone e a Erode Attico (sono apocrife quelle riprodotte dagli Scriptores Historiae Augustae) e frammenti di di- scorsi ; è scritta in greco invece la sua opera principale tà els gavrév, titolo che si traduce con Colloqui con se stesso o con Ricordi o con Pensieri o anche con Note personali; è divisa in 12 libri e contiene aforismi, non teorie organicamente connesse. Il libro I, seritto nella terra dei Quadi, si pone abitualmente dopo il 166 e prima del 176; il libro II, scritto in Carnuntum (Ham- burg, in Ungheria) fra il 170 e il 174; I'VIII, dopo la morte di Vero (169). Però vi è chi ritiene che il libro I sia stato composto per ultimo, che il libro II appartenga agli anni dell’ultima campagna contro i barbari (177- 180) e che gli altri libri ineludano elementi di età di- verse : molte parti proverrebbero dal periodo 170-180, mentre altre sarebbero più antiche o costituirebbero semplici note, sparse qua e là. Vi è chi pensa che i libri II, III e XII formino il nueleo originale dal quale si sarebbe svolta l’opera complessiva. 

1 Pensieri di Marco Aurelio rappresentano un ammonimento che l’imperatore rivolge continuamente a se stesso per affrontare con serenità e forza d’animo le contingenze della vita, per accogliere con spirito tranquillo, anzi lieto, tutto ciò che esse gli possono presentare e per compiere imperturbato tutti i suoi doveri. 

Ora questo appunto fa pensare che egli si sia rivolto alla filosofia, anzi a un determinato sistema, per risol- vere i problemi che la vita gli presentava e per giustifi- care quei valori che si imponevano alla sua coscienza. 

Si tratta quindi di riconoscere quell’atteggiamento spirituale che costituisce il presupposto della sua costruzione filosofica. Ben presto egli deve avere sentito l'esigenza, continuamente espressa nei Pensieri, di rendersi conto a fondo della natura e del valore delle cose con un’analisi implacabile che doveva arrestarsi soltanto davanti alla virtù (cioè ai valori morali). È probabile però che da prima egli non mirasse con quest’analisi a disprezzare i suoi oggetti, come afferma in un pensiero (XI, 2), ma che questo ne fosse un risultato e che soltanto in seguito ne diventasse lo scopo. A ciò si aggiunge che Marco Aurelio si appropria l’intuizione eracliteo-stoica del perenne fluire di tutte le cose, ma per intenderla come una destinazione alla distruzione, come un processo continuo di dissolvimento e di morte degli esseri individuali, risultante nella formazione di altri esseri e di altri avvenimenti uguali ai precedenti. Una simile visione della vita, necessariamente, doveva portare a una posizione simile a quella dell’Eeclesiaste (Vanità delle vanità, tutto è vanità. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole), alla stanchezza, al disgusto di un’esistenza monotona, spregevole, mutevole, inconsistente. Ogni cosa è effimera e spregevole, è fango, è putredine e fumo; ed è inoltre meschina quanto mai se confrontata con l’infinita estensione del tempo, dello spazio, del cielo. 

Da questo punto di vista, appare vuota e sciocca la ricerca della fama e della gloria e insignificante anche la stoltezza e la malvagità dei piccoli esseri umani che lottano e si torturano per nuocersi, senza pensare che fra un istante saranno dissolti in cenere. Questi pen- sieri, però, non sono cosa nuova, perchè si collegano in parte alla predicazione cinica, in parte, e soprattutto, alle intuizioni della religiosità popolare che aveva giu- dicato in modo simile il mondo sublunare e di esse si sono notati gli influssi in Cicerone e anche più in Se- neca. A quelle intuizioni (che ponevano l’anima, di ori- gine celeste, incomparabilmente al di sopra di tutto ciò che fa parte della sfera sotto la luna) riporta anche ciò che Marco Aurelio dice del daîmon interno, sebbene sia dubbio se originariamente l’identificasse alla ragione o al nous. Più propriamente personale, e del pari originaria, appare la sua posizione rispetto alla vita morale. 

Quanto egli racconta nel libro dei Pensieri della sua prima età e della sua educazione mostra che prestissimo deve avere ritenuto supremi i valori etici, e assoluti i suoi doveri di uomo, di romano, di futuro principe, doveri che gli imponevano di agire secondo giustizia e per il bene comune. Ora, fra la convinzione della vanità e della spregiabilità di ogni cosa e quella della imperiosità di quei doveri, esiste non il nesso che collega la visione pessimistica dei dolori della vita all’amore universale, ma un contrasto, o almeno una divergenza. Se non è animato da una fede morale inerollabile che prescinde da ogni giustificazione teoretica, l’uomo che ritiene tutto vano e meschino facilmente si disinteressa della vita e dell’azione, o, al più, si limita a non nuocere, ma difficilmente si induce ad agire energicamente per il bene comune. La filosofia, che per Marco Aurelio è l’unica nostra guida nel turbine della vita (II, 17, 3), doveva fondare l’amore e la cura degli uomini con la loro affinità essenziale ed eliminare lo sconforto e il disgusto suscitati dalla convinzione della vanità universale, mostrando che ogni cosa è governata da una Provvidenza divina saggia e benefica, che tutto destina al bene dell’universo. E questa certezza doveva dargli forza e calma specialmente quando, giunto all’impero, fu costretto ad affrontare le situazioni tragiche che minacciavano di portare alla rovina lo stato e la civiltà che egli aveva l'obbligo di difendere. Appunto per ciò insiste sulla necessità di scegliere fra due ipotesi: o tutto consiste in un cumulo di atomi, mescolati senza ordine e senza scopo, o una provvidenza suprema governa tutte le cose. (Talvolta egli ammette tre possibilità : o l'ordine inflessibile del fato, o una Provvi- denza accessibile alla pietà, o un caos privo di dire- zione, abbandonato al caso ; in altri termini, la neces- sità cieca del fato, la credenza della religione popolare, l’atomismo). Per conto suo si decide per la seconda alternativa, cioè per lo Stoicismo contro l’Epicureismo, mettendo in evidenza l'ordine e l'armonia che l’universo presenta in ogni suo aspetto. E lo Stoicismo, nella forma assunta con Posidonio, gli permette anche di fondare l’amore per tutti gli uomini con la partecipazione delle anime razionali alla ragione universale. 

Però, seguendo l’eclettismo contemporaneo, egli collega allo Stoicismo pensieri attinti ad altre fonti : per non parlare ora di certi spunti scettici e dei motivi cinici che appaiono nel suo disprezzo di tutte le cose umane, basterà ricordare l’influsso di alenne dottrine centrali dell’ Aristotelismo. 

Anche Marco Aurelio ammette la legittimità delle tre discipline filosofiche fondamentali, ma apprezza poco l’analisi dei sillogismi e gli studi meteorologici. Ciò però non significa che egli neghi valore alle ricerche teoretiche, perchè riconosce la necessità di non assentire a rappresentazioni dubbie o false, ritiene che è impossibile diventare esseri morali se non si parte dalle verità che riguardano la natura dell’universo e quella propria dell’uomo, cioè respinge soltanto le sottigliezze della logica e gli studi speciali della scienza della natura, non la teoria della conoscenza, che per lo Stoicismo fa parte | della dialettica, e la metafisica e la teologia incluse nella/ fisica, pur subordinandole a finalità etiche. 

Quanto alle ricerche gnoseologiche i Pensieri si limitano a pochi cenni, in cui risuona una nota scettica: le cose sono talmente velate che a molti filosofi, e non dei minori, sono apparse inafferrabili e agli stoici sembrano difficili da apprendere: ogni nostro assenso è mutevole, perchè non v'è aleun uomo che non muti, 

Ma questo scetticismo, che riguarda il continuo mutare del soggetto e degli oggetti, non impedisce & Marco Aurelio di presentare concezioni metafisiche ben determinate sulla natura dell’universo ; le incertezze si limitano alle ricerche particolari, non si estendono allo studio della realtà essenziale del tutto. In questa parte egli modifica profondamente le dottrine storiche, perchè, mentre ne conserva il panteismo, ne respinge il materialismo, ammettendo, forse per l’azione esercitata su di lui dal peripatetico Claudio Severo, la natura puramente spirituale dell’intelligenza divina e umana. È così portato alle ultime conseguenze il dualismo che Posidonio aveva, se non introdotto, accentuato entro lo Stoicismo. Questa distinzione coincide con l’altra, che appartiene a quella scuola in generale, di materia e di causa, in quanto la seconda è pensata come immateriale. L'universo è un essere vivente e unitario nel quale, come nell’uomo, si distinguono il corpo, la psiche o anima (soffio vitale) e l’intelletto. Quindi è uno il mondo che tutto include, una la Divinità che ovunque si espande, una la sostanza e una la legge, una la ragione comune a tutti gli esseri intelligenti. L'universo è una città di cui partecipano gli Dei e gli uomini. L’intelligenza divina e universale è il logos, la ragione che ovunque si diffonde e che nell’eternità governa il tutto secondo periodi determinati. Spesso Marco Aurelio usa l’espressione sostanza universale per designare la Divinità; ma propriamente si tratta della ragione di quella. 

Antonino parla sia del divino, che chiama anche 'Giove,' che degli dei, ma doveva pensarli, secondo la ‘dottrina stoica, come manifestazioni della prima, sebbene, nel linguaggio, si conformasse alle credenze della eligione tradizionale che onorava con ogni serupolo. ara credeva di avere ricevuto dagli Dei avvisi, comunicazioni, aiuti. La divinità è soprattutto la Prov- vìdenza che tutto dirige. 

Marco Aurelio talvolta lascia in\sospeso se essa agisca caso per caso a proposito del singolo o abbia deciso una volta per sempre su ciò che riguarda l'universo, sicchè quanto si riferisce all’indi- viduo consegue a quella deliberazione iniziale. Abitual- mente, però, ammette la seconda alternativa, perchè parla del fato come della grande causa che è costituita dal nesso di tutte le cause e che proviene dall’impulso primitivo della Provvidenza e della legge universale : anche le opere della fortuna non sono indipendenti dalla natura e fanno parte del tessuto governato dalla Provvidenza, perchè tutto fluisce di là. (Talvolta però la prima è contrapposta alla seconda). Appunto perchè tutto è guidato dalla Provvidenza divina l’universo è perfettamente ordinato e ogni cosa e ogni avvenimento contribuiscono all’armonia e alla perfezione di esso. 

Esiste negli avvenimenti un nesso che non è soltanto razionale, ma anche armonico, perchè ogni cosa coopera a un solo scopo, anche colui che cerca di distruggere ciò che accade, e tutto si attua giustamente, secondo il merito di ogni essere, perchè ciò che gli avviene gli era assegnato dal destino in conformità della sua na- tura. Non si può ammettere che esista alcun male in- giustificato nell’universo, perchè l'intelligenza univer- sale o Dio non ha alcuna ragione di nuocere a un essere qualunque. 

Essa (o gli Dei) si preoccupa del bene del- l'universo ; perciò quello che accade a ogni essere giova al bene del tutto; ma siccome ciò che è o non è utile a questo è pure di vantaggio o di danno a quello, giova a ciascuno ciò che gli arreca la natura universale. Oe- corre quindi comprendere che quelli che appaiono mali non sono tali se si considerano dal punto di vista del tutto : ciò che è turpe e nocivo è una concomitanza del bello e del bene, perchè proviene necessariamente dalla fonte di ogni cosa che opera teleologicamente. Anche ciò che della natura universale sembra guastarsi e ren dersi inutile, viene da essa trasformato in esseri nuovi. 

Tutte le parti dell'universo per necessità periscono, mà ciò non può essere un male per esse, perchè la natura ‘non può avere mirato a nuocere alle proprie parti e nemmeno non essersi resa conto di questo : effettivamente la natura che governa il tutto ama il cambia- mento e trasforma ogni cosa in una simile, affinchè il mondo sia sempre giovane, perchè con questa trasformazione il cosmo si conserva. 

E ciò si applica anche alla storia del cosmo considerato nell'insieme. È quindi con la visione essenzialmente estetica dell'armonia uni- versale, che vengono giustificati le imperfezioni e i mali della realtà fisica. Quanto al male morale (che pure non si può eliminare dal mondo), siecome gli Dei esi- stono e hanno cura delle cose umane, occorre ammet- tere che hanno dato all'uomo il potere di non cadere in quelli che sono veramente mali. L'ordinamento del- . l’umiverso determinato dall’intelligenza universale si ma- nifesta nel fatto che essa ha creato gli esseri superiori come fine di quelli inferiori, e i primi sono stati fatti gli uni per gli altri: ora, gli esseri razionali sono supe- riori agli irrazionali, sicchè gli uomini rappresentano lo scopo della gerarchia cosmica al disotto della Divinità. 

Fra gli esseri dell’universo, il più elevato dopo gli Dei è l’uomo, che riceve da quello i suoi tre costitutori, il corpo, l’anima, o soffio vitale e l’intelletto o hRegemoni- kén. (Talvolta Marco Aurelio distingue soltanto il corpo e l’anima, che è identificata all’intelletto). 

Le percezioni riguardano il corpo, gli impulsi, l’anima, i principi, l’in- telletto. Nella valutazione dei tre costituenti dell'essere umano Marco Aurelio collega alcuni aspetti della teoria aristotelica del vob, con intuizioni di origine posido- niane, forse derivate, almeno in parte, da Epitteto, di cui accentua fortemente il significato religioso e asce- tico. Il corpo e la psiche sono aspramente svalutati : il primo è un finme che continuamente fluisce, qualche cosa facile a imputridire, un cadavere, una cosa spre- .gevole ; il soffio muta continuamente, è un sogno e un vapore. Essi non dipendono da noi, sono nostri soltanto n quanto dobbiamo prendercene cura. È veramente ostro soltanto l’intelletto che è una particella, un ef- vio di quello divino ; esso è (come dice Marco Au- rélio usando un’espressione di Posidonio e di Epitteto) il nostro demone interno o il signore interiore, il Dio in noi, la ragione comune a tutti gli animali intelligenti e quindi a tutti gli uomini: si comprende perciò che Marco Aurelio possa affermare, valendosi di un’espres- sione che riporta al misticismo ascetico della religiosità ellenistico-romana, che la vita, per quel demone, è un esilio in terra straniera. 

Però ciò non significa che egli ammetta l'immortalità dell’anima intellettuale, perchè invece è inclinato a negarla completamente o, se non altro, a limitare assai quella sia pure temporanea so- pravvivenza che la sua scuola ammetteva e che Seneca aveva dipinto con i più smaglianti colori. Parleremo in seguito delle possibilità che egli ammette provvisoria- mente, per mostrare che nemmeno chi le accetta deve temere la morte: quando esprime il proprio pensiero, pensa che tutte le parti che costituiscono l’uomo ritor- neranno a ciò da cui sono uscite per trasformarsi in altre parti dell'universo, in un processo infinito. Non esclude la possibilità che con la morte l’uomo non si estingua subito, ma sia trasferito altrove, cioè che il suo dissolvimento non sia immediato. Ma quando si tratta di determinare meglio la seconda alternativa, Mareo Aurelio, che parla della psyche, non dell’intelletto immateriale, ammette che la sopravvivenza abbia breve durata, perchè le anime, dopo avere emigrato nell’aria, dovranno presto riassorbirsi per conflagrazioni, nel logos spermatikos (ragione seminale o forza generatrice) del- l’universo. Probabilmente pensava che anche il demone dell’uomo dovesse ritornare, o subito o dopo una breve sopravvivenza, alla Divinità da cui era emanato. 

Su questi concetti metafisici e teologici Marco Au- relio fonda la morale, che costituisce l'oggetto continuo delle sue meditazioni, ma è proprio in questa parte che è più difficile coordinare i suoi pensieri, perchè, anche se non presentano incoerenze, spesso offrono soltanto aspetti diversi di una stessa concezione, sicchè è necessario integrarli reciprocamente, Si deve notare però ch la determinazione dei valori etici appartiene a ciò e Marco Aurelio chiama la facoltà dell'opinione, ossia pl giudizio in quanto assenso volontario, che perciò di- ‘ pende da noi. 

Anche per lui, come per gli stoici in gene- rale, ogni essere tende al fine per il quale è stato costituito, in cui consiste il suo bene: così esso segue /sia la natura universale che la propria. Ciò vale anche per il bene, il fine o la felicità dell'uomo, che consistono nel seguire quelle due nature, che coincidono perchè dalla ragione, ingellisenza universale, cioè Dio, deriva quella umana. Quindi per un essere razionale quale è l’uomo seguire la natura o Dio equivale a conformarsi alla ragione (intesa insieme come pensiero e come vo- lontà) e preservarla da deformazioni contrarie alla pro- pria natura razionale. E siccome l’intelletto è il nostro Dio interiore, si può esprimere la stessa norma dicendo che occorre conservare puro il demone interno e seguirlo. 

Ma per un essere razionale quale è l’uomo il bene risiede nell'attività, sicchè seguire la natura o la ragione significa agire in accordo con essa. 

Ciò vuol dire che non vi è bene per l’uomo all’in- fuori della virtù, nè male salvo l’opposto. Nel deter- minare il contenuto dell’azione etica, Marco Aurelio si esprime in modi diversi; ma si tratta di presenta- zioni parziali delle stesse concezioni, che richiedono di essere integrate. In complesso, si può dire che l’ispira- zione religiosa, che appare fortissima nella teoria del demone interno, è lo spirito animatore della sua visione etica. Appunto perchè ciò che gli è proprio è il demone o l'intelletto, che è una particella della Divinità, l’uomo deve più di ogni cosa venerare, obbedire e temere gli Dei, cioè onorare quella totalità razionale di cui partecipa ; questo esige la sua stessa ragione. 

Ma ciò non implica soltanto, come talvolta Marco Aurelio afferma, che la pietà e la venerazione della Divinità siano supe- riori alle azioni giuste ; bensì significa anche che la vita etica puramente umana ha significato religioso, che Lr le colpe sono forme di empietà e quindi tutte le irtù sono aspetti del suo opposto, perchè Dio o la na- tura universale prescrive questa e quindi vieta quella. 

Operando eticamente, gli uomini si rendono simili agli Dei, come questi richiedono. Siceome sono stati generati gli uni per gli altri e partecipano della stessa ragione divina, tutti gli uomini sono esseri sociali, ossia hanno per fine la società, che perciò costituisce il loro bene ; essi sono parenti e affini e come membra di uno stesso corpo, debbono cooperare per il bene comune degli es- À seri. È quindi naturale che Marco Aurelio, che non con- sidera le virtù in modo sistematico, si occupi di preferenza di quelle propriamente sociali, la giustizia e la benevolenza, intesa sia come amore per gli uomini, sia come disposizione a far loro del bene, pure non parlandone sempre nello stesso modo. 

Talvolta, come del resto il pensiero antico tendeva a fare, identifica tutte le virtù alla giustizia, o fa di essa la fonte da cui le altre derivano. In altri casi, però, le distingue e soprattutto parla a parte e a lungo della benevolenza, nei suoi due aspetti. Dell'’amore universale per gli uomini parla con una convinzione e una frequenza che richiamano Seneca e, come in questo, fanno pensare all'insegnamento del Cristianesimo : « Ama il genere umano » è il suo comando (VII, 31, 2; ef. VIII, 26, 2). Ma l’uomo deve sentirsi non una parte, bensì un membro dell'organismo degli esseri razionali, deve amarli di cuore e compren- dere che beneficandoli, fa del bene a se stesso (VII, 13 ; cf. VI, 39). È simile a un membro reciso dal corpo dal quale riceve vita, chi fa qualehe cosa contro il bene comune, chi si separa dalla società numana, e si separa da questa chi si divide anche da un solo uomo. Non dobbiamo avere avversione per alcuno, nemmeno per chi, pure essendo stato per noi cagione di fatiche e do- lori, desidera la nostra morte, perchè ne spera qualche i sollievo (VIII, 43; X, 36, 6). Dobbiamo essere miti e benevoli verso chi ci odia (IX, 27; XI, 13). Anzi, è proprio dell’uomo amare chi l’offende, ricordando che è suo parente, che agisce male involontariamente, per- chè ignora che fra breve entrambi saranno morti, che effettivamente l’offensore non gli ha nociuto, non avendd reso peggiore la sua ragione dominante. 

Per la stessà ragione e perehè noi pure abbiamo errato e perchè l’uomo che agisce male opera necessariamente per la sua na- tura, dobbiamo amare e sopportare tutti gli uomini in generale, anche chi erra, cercando, se possibile, di ammaestrare questo amichevolmente e cortesemente, senza irritarci con lui. Chi agisce male lede se stesso, perchè sì rende malvagio. Ma dobbiamo, non soltanto amare e sopportare gli uomini, ma anche beneficarli ed essere soddisfatti dell’opera nostra, senza aspirare ad una ri- compensa (IV, 3; V, 20, 1; V, 33, 6; VII, 13; VII, 7,3; IX, 42, 5; XI, 4). Anzi, l’uomo dovrebbe benefi- care spontaneamente, come la vite produce i suoi grap- poli (V, 6). In ultimo, il godimento della vita si do- vrebbe porre nel formare un tessuto assolutamente inin- terrotto di azioni buone (XII, 29). 

Soltanto la condotta razionale, cioè sociale, ossia la virtù, costituisce il bene e il suo opposto, il male ; ora, essi sono espressioni della nostra attività, che è l’unica cosa che dipende da noi; infatti, niente può impedirci di essere buoni. La stessa cosa si può esprimere dicendo che nulla può costituire un ostacolo all’intelletto, alla virtù, che dipende da me non far nulla contro il mio Dio interno. Da ciò segue, da una parte, che dobbiamo considerare come un bene (e ricercare) o come un male (e sfuggire) esclusivamente quello che dipende da noi, e ogni altra cosa, ossia ciò che sta in mezzo tra la virtù e il vizio, come indifferente ; dall’altra, che nel nostro interno è la fonte del bene che scorrerà sempre, se sempre sarà scavata. Perciò occorre che l’uomo si ritiri in esso, perchè in nessun altro luogo troverà pace e tranquillità maggiori ; ivi la ragione, non disturbata dalle passioni, è una rocca inespugnabile (IV, 3; VI, 11; VII, 28; VIII, 48). 

La libertà, l'indipendenza, la serena pace del- l’anima svaniscono quando l’uomo accorda valore alle cose esterne che non sono in suo potere. Ora esse non toccano l’anima, ma ne rimangono fuori e possono tur- ‘barla soltanto grazie all'opinione che ce ne formiamo, in quanto riteniamo che siano beni o mali. Esse, come sì è visto, sono indifferenti, non sono nè beni nè mali, perchè possono accadere e appartenere sia ai buoni che ai malvagi e non nuocendo all’intelletto, non vanno contro la natura dell’uomo e non danneggiano la sua vita. Se ci asteniamo dal giudicarle beni o mali possiamo restare impassibili rispetto ad esse e così conseguire la felicità. Propriamente è in sè indifferente per l’anima ciò che non riguarda la sua attività presente : bisogna pensare soltanto a questo, che può essere sempre materia di bene, lasciare il passato a se stesso e affidare il futuro alla Provvidenza. 

Le cose esterne si possono distinguere in quelle ehe ci accadono e in quelle che abitualmente si chiamano così e che si ricereano o sfuggono. Ma se in un senso dobbiamo essere indifferenti rispetto a quello che ci avviene perchè non è nè un bene nè un male, in un altro dobbiamo esserne contenti, perchè ci è stato asse- gnato originariamente dal destino, è stato legato in modo indissolubile al tessuto della nostra esistenza dalla Provvidenza divina che così ha mirato al bene dell’uni- verso e al proprio. Inoltre, ogni cosa che avviene a un uomo si conforma a lui. Anche la morte si deve accet- tare serenamente e di buon grado, senza timore, perchè è un segreto della natura e un’opera sua, ed essendo conforme ad essa, non può essere un male; anzi è uno degli atti della vita e costituisce un riposo dalle agi- tazioni di questa, mentre è una cosa utile all’universo e alla natura. 

Se alcuno chiede come si accordino la giustizia degli Dei e il fatto che gli uomini buoni e pii mudiono per estinguersi completamente, Marco Au- relio risponde che quelli avrebbero ordinato diversa- mente le cose se ciò fosse stato giusto e razionale. Del resto, qualunque concezione filosofica si accetti, la morte non deve incutere timore. Se non esistono che gli atomessa è una disgregazione di questi; se esiste un solo tutto, è o una dispersione dell'essere umano nei suoi elementi, cioè una estinzione, o una emigrazione altrove :/ in generale, o è l’insensibilità, e allora libera l’anima/ dalla sua sottomissione al proprio involuero corporeo, 9 una sensibilità diversa, e in tal caso l’anima si reca ih un luogo che non è certamente privo di Dei. Mai, quindi, vi è ragione di temerla. Per rafforzare questa conclu- sione Marco Aurelio insiste sull’universalità della morte e sulla brevità infinitesima della vita rispetto al tempo illimitato che l’ha preceduta e che le succederà. 

Occorre abbandonare la vita come l’oliva matura cade lodando la terra che l’ha sostenuta e ringraziando l'albero che l’ha sviluppata. 

In conclusione, l’uomo deve conformarsi alla natura dell’universo. « Tutto ciò che è in armonia con te, 0 universo, è in armonia anche con me » (IV, 23). Infatti, è dovere di pietà amare tutto ciò che avviene. Ma anche se non esistesse la Provvidenza l’uomo dovrebbe acco- gliere senza irritazione e senza lamento gli avvenimenti. 

Se tutto si riducesse ad aggruppamenti di atomi veri- ficantisi a caso, sarebbe follia biasimare o i primi o il secondo : e anche se le cose stanno così, io almeno, non voglio procedere a caso e debbo esser lieto se ho in me una ragione direttrice. Se esiste un fato predestinato e ineluttabile, ma non la Provvidenza, è stolto ribellarsi ad esso. 

Quanto a quelle cose che più propriamente si dicono esterne, è ingiusto ed empio ricercarle, perchè sono indifferenti; e Mareo Aurelio applica ottimamente ad esse l’analisi per mostrare che sono, più che indifferenti, meschine, vane e spregevoli e conclude che le cose umane sono fumo e nulla; e di fronte a una vita vuota, senza valore e sempre uguale, si domanda: sino a quando? 

Pure, più forte della stanchezza e del disgusto è la coscienza del dovere che dev'essere compiuto senza preoccupazione di altro (VI, 2 ; VI, 22). E questo dovere è quello, sia dell’uomo, cittadino del mondo (Marco Aurelio ritiene che tutti gli esseri umani, che parteci- pano della stessa ragione e abitano la stessa città, governata da una sola legge, sono concittadini), sia di Antonino, cittadino &i Roma (VI, 44). 

Si può ripetere per Marco Aurelio ciò che s°è detto per Seneca : il suo pensiero, privo di originalità e lacerato da incoerenze in quanto teoria filosofica, appare invece vivo e significativo se è considerato un atteggiamento spirituale di fronte ai problemi della vita. 

Egli cercò nella filosofia stoica una fonte di fiducia, di serenità, di forza, innanzi alle avversità e soprat- tutto all’irrimediabile vanità dell’esistenza, e perciò ri- petè ostinatamente che la Provvidenza divina, sorgente del destino, tutto guida e tutto rivolge al bene dell’universo e del singolo e così espresse l’esigenza profondamente religiosa della sua anima; ma in tal modo, senza riuscire a superare il disgusto e la stanchezza della vita, cioè a raggiungere il suo scopo principale, rese più grave una contraddizione implicita nelle dottrine stoiche. 

Infatti, per queste le cose e gli avvenimenti esterni, indifferenti perchè per sè presi non sono nè veri beni, nè veri mali, appaiono benefici e pregevoli in quanto voluti dal fato divino e provvidenziale; Marco Aurelio aggrava questa contraddizione in senso diverso da Seneca, perchè con la sua analisi spietata li mostra meschini, vani, monotoni, sicchè alla fine conclude che tutta la vita è fumo e nulla e si domanda : fino a quando vivrò? D'altra parte, mentre il suo spirito religioso si sforza di rintracciare ovunque la manifestazione di una Divinità provvidenziale non riesce a calmare il sospetto che l’universo sia governato da una necessità inesorabile, sicchè la lieta e pia sottomissione al volere divino si discolora nell’accettazione dell’inevitabile legge del de- stino. 

Pure, questo stato d’animo lacerato e doloroso, che si nasconde sotto l'apparente calma e serenità dei Pensieri, non intacca la profonda, invincibile fede etica che all'uomo si impone incondizionatamente la legge del dovere : essa gli comanda (e tutta la vita di Marco Aurelio prova che egli ha obbedito sempre a questa norma) di lottare per il bene anche contro il destino : soltanto quando tale conflitto è riuscito vano, l’uomo si piega senza un lamento, non passivamente rassegnato, ma dignitosamente silenzioso, davanti a una forza che lo supera. Ed è notevole il fatto, che mentre le dottrine che insistono sul carattere assoluto del dovere, tendono ad attenuare il valore dell'amore, Marco Aurelio li col- lega indissolubilmente e parla dell'amore per tutti gli uomini, anche per coloro che ci odiano ; dell’obbligo di far del bene ad ognuno senza eccezione, in termini che fanno pensare all'insegnamento del Vangelo. 

Se, come è molto probabile, la basilica di Porta Mag- giore costruita alla metà del I secolo d. C. e scoperta nel 1916, apparteneva a una setta religiosa di neo-pi- tagorici, si deve riconoscere in questo fatto la prova che il movimento iniziato alla fine della Repubblica da Nigidio Figulo aveva trovato continuatori sotto l'Im- pero ; però non si possono determinare in Roma seguaci di esso. Proveniva invece dall’Iberia il neo-pitagorico.

Moderato di Gades (Cadice), parente di Giunio Moderato Columella, l’autore del De re rustica, e vissuto, al pari di lui, nella seconda metà del I secolo d. C. Compose in greco un’opera in undici libri intitolata IIvdayoprxal cyoXxt, di cui rimangono frammenti in Simplicio, in Porfirio e nello Stobeo. Egli affermava che Platone aveva preso dai pitagorici la teoria della materia e ciò ha fatto pensare che mirasse a ridurre alla filosofia dei secondi i fondamenti della metafisica del primo, ma effettiva- mente interpretava nel senso di un platonismo conce- pito in modo monistico le teorie matematiche del Pita- gorismo antico. 

In questo monismo, che va contro alle direttive dualistiche del vero pensiero platonico, si può con lo Zeller riconoscere l’influsso dello Stoicismo. In- fatti Moderato vedeva in quelle dottrine matematiche soltanto un simbolismo destinato a rendere accessibili i primi principi della realtà che non si possono afferrare facilmente col pensiero ed esprimere col discorso, per cui si chiamava uno l’unità, l'identità, l'uguaglianza, la causa dell'armonia e della permanenza di tutte le cose, due l’alterità, la differenza, la divisibilità, il cam- biamento... In tal modo i concetti matematici, perduto il loro carattere scientifico, si riducevano a simboli di entità metafisiche. Per Moderato, al vertice di esse sta l’Uno primitivo, al di là dell’essere o dell’essenza, dal quale proviene ogni grado della realtà. Sotto la prima Unità, o Monade, ve ne è una seconda, l’essere reale o intelligibile, ossia il mondo delle Idee, al quale segue una terza Unità, l’anima, che partecipa del primo Uno e delle Idee. All'ultimo posto, al disotto di questa, è la natura delle cose sensibili, che non partecipa delle realtà ideali, ma è ordinata sul loro modello. 

La ragione originaria (ò Svitog A6yoc), che vuole procedere alla generazione delle cose sensibili, separa da sè la quan- tità privandola di tutte le forme : essa proietta un’ombra che è la materia di tali cose, che viene formata sul mo- dello delle Idee. In questo passaggio graduale dall’ Unità primitiva al mondo materiale degli oggetti sensibili si presenta già il tema fondamentale del Neo-Platonismo ; ma anche in Moderato si rivela quella tendenza eclet- tica che caratterizza tutte le filosofie di questo periodo. 

Come suo scolaro Plutarco ricorda un Lucio ‘Tirreno (cioè etrusco), ma lo fa parlare soltanto di precetti pitagorici, non di teorie religiose o filosofiche. 

Q. Sossio Senecione (n. forse tra il 55 e il 59) visse molto tempo in Grecia ove conobbe Plutarco, probabilmente verso il 98, cioè poco prima di conseguire il consolato (99). Per la parte avuta nella vittoria di Traiano sui Daci, ottenne le insegne del trionfo e il secondo consolato (107). 

Mentre era intimo amico dell’impera- tore aveva relazioni con i più importanti gruppi cultu- rali del tempo suo ed era unito da stretti rapporti con Plinio e anche più con Plutarco, che gli dedicò diverse opere (il De profectibus in virtute, le Quaestiones Convi-. viales e le Vite parallele). Da ciò risulta che, senza essere un pensatore originale, era uomo di non superfigiale . cultura filosofica ; altre indicazioni di Plutarco fanno ritenere che, come lui, fosse un seguace del Platonismo Medio. 

Sebbene avesse avuto per maestro Musonio Rufo e conservasse sempre simpatie per lo Stoicismo è vero- simile che si avvicinasse al Platonismo Medio, al pari del suo amico Plutarco, anche C. Minicio Fundano, sena- tore, console nel 107, poi proconsole d’Asia sotto Adriano, che indirizzò a lui il reseritto sui processi dei cristiani. Persona molto colta, contava numerosi amici ira le più insigni personalità del tempo suo, come Plinio, Tacito, Plutarco. Questo ne fece uno degli interlocutori e il principale espositore del De cohibenda ira; ed è probabile che gli attribuisse pensieri che, in sostanza, corrispondono alle sue convinzioni. Lo Zeller, dalle lodi che M. Fundano rivolgeva a certi precetti di Empedocle, inferisce che tendesse verso qualche specie di Neo-Pitagorismo, ma la cosa è molto discutibile. 

Verso il 150 d. C. dovette vivere €. Giulio Sabino, chiamato da un'iscrizione filosofo platonico. Aderirono al Platonismo Medio nel II secolo Apuleio, Nigrino, Severo, un Lucio, un Censorino. Apuleio, di cui non è sicuro il prenome Lucio, nato quasi certamente a Ma- daura, ora Mdauruch nel dipartimento di Costantina, presumibilmente verso il 125 d. C., apparteneva a una famiglia ricca e distinta. Suo padre era stato uno dei decemviri jure dicendo della sua città. Ricevuto il primo insegnamento a Madaura, si recò a Cartagine per com- piervi studi grammaticali e retorici; e questi ultimi predilesse sempre in seguito. 

Poi partì per Atene, ove coltivò particolarmente la filosofia ; è probabile che là sia stato scolaro del platonico Gaio, perchè le dottrine che espone nel De Platone eiusque dogmate concordano - tanto con quelle del Didaskalikos di Albino (un discepolo di quel maestro) da far pensare all'insegnamento di questo come fonte comune. Apuleio dopo di allora sì professò sempre platonico, ma il suo platonismo era, come quello della sua età in generale, piuttosto eclettico e dominato da interessi mistico-religiosi i quali lo indussero, nel suo soggiorno in Grecia (in cui era dive? nuto padrone della lingua ellenica), a farsi iniziare in numerose religioni dei misteri. Inoltre studiò retorica, poesia, musica, geometria, astronomia e coltivò le scienze naturali, specialmente la storia naturale, e rielaborò in latino le opere di Aristotele e della sua scuola su questi argomenti. Fece lunghi viaggi, specialmente nell'Asia greca, spendendovi larga parte del suo patrimonio. Poi si trattenne a Roma, ove con successo difese cause. 

Dopo il suo ritorno in patria, in un viaggio da Madaura ad Alessandria, si ammalò a Oca (Tripoli) e perciò do- vette trattenervisi : in quel tempo tenne conferenze che ebbero successo e così stabili buoni rapporti con Lolliano Avito allora proconsole d’Africa. In Oca abitava un giovane che Apuleio aveva conosciuto in Atene, Sicinio Ponziano, il figlio maggiore di Pudentilla vedova da quattordici anni di Sicinio Amico, dal quale aveva avuto anche un altro figlio, Sicinio Pudente. Secondo Apuleio, Ponziano lo indusse a sposare la madre, che allora desiderava di rimaritarsi, donna ricca, ma non bella e quarantenne, cioè più anziana di una diecina d’anni del nuovo coniuge. Sebbene Apuleio trattasse i figliastri con molta larghezza, i parenti del primo marito per motivi d’interesse insorsero contro di lui e da prima lo incolparono della morte di Ponziano, avvenuta a Cartagine, ma dovettero abbandonare l'accusa; poi eccitarono il giovanetto Pudente contro il patrigno e insieme lo accusarono di avere con arti magiche indotto Pudentilla a sposarlo. 

Il processo avvenne a Sabratha, al tempo di Antonino Pio (forse nel 158), davanti al nuovo proconsole d’Africa, Claudio Massimo, uno dei maestri di Marco Aurelio e si chiuse con l’assoluzione o almeno col proscioglimento (per non provata reità) di Apuleio, che però dovette lasciare Oca perchè i suoi nemici non disarmavano. In seguito pare che risiedesse a Cartagine o almeno che vi soggiornasse abitualmente : ivi si era acquistato il favore del pubblico che ascoltava le sue conferenze ; era l’oratore ufficiale della città che gli aveva eretto statue e lo aveva nominato sacer- dote della provincia per il culto imperiale. Presumibilmente per la sua volontà, non coprì uffici pubblici. È ignota la data della sua morte (180?). 

Apuleio compose opere assai numerose e svariate, in greco e in latino, ma le prime e molte delle seconde sì sono perdute. Rimangono due opere retoriche, il De magia 0 Pro se de magia e i Florida; un romanzo, le Metamorphoses ; due trattati filosofici sicuri, il De deo Socratis, e il De Platone eiusque dogmate, e due discussi, il Ilepl Epunvetac e il De mundo. De magia è il titolo dell’Apologia, o auto-difesa contro l’aceusa di magia. I Florida sono una specie di antologia di discorsi di Apuleio (composti, pare, sotto M. Aurelio e L. Vero) e contengono ventitrè estratti di lunghezza diversa. Siccome son divisi in quattro libri, seguono il piano di una raccolta di orazioni complete, ripartite ugualmente, fatta dall'autore. 

Non si possono determinare nè il criterio della scelta, nè lo scopo di essa; si ritiene sia l’opera di uno scolaro. Le Metamorphoses, l’opera maggiore di Apuleio, narrano le avventure di un giovane greco, Lucio, che, trasformato in asino per effetto di magia, ridiventa uomo con l’aiuto di Iside, dopo aver man- giato una corona di rose, portata da un sacerdote della dea in una cerimonia in onore di essa. Il romanzo si accorda, nella narrazione principale, con un breve scritto greco, Lucio o l’Asino, attribuito a Luciano : lo stesso argomento poi era trattato nelle perdute Metamorfosi di Lucio di Patre. Però, siccome nello seritto lucianeo il protagonista è chiamato Lucio, alcuni ritengono che lo studio perduto fosse anonimo o portasse un nome falso : sui rapporti fra queste tre composizioni sono state presentate ipotesi assai diverse. Il De deo Socratis, svolgendo cenni platonici, tratta dei demoni, esseri intermediari, fra i quali è posto quello di Socrate. Il De Platone eiusque dogmate è un’introduzione allo studio di Platone che riguarda tutta la fisica, cioè la metafisica e la filosofia della natura (1. I) e l’etica [e la politica] (1. II): manca il terzo libro sulla dialettica, mentre esiste un trattatello di logica formale, il Iepì èpunvetag, che però costituisce un lavoro a sè. Viene attribuito ad Apuleio, ma l’autenticità n'è stata contestata, sebbene in modo non decisivo ; il carattere non platonico, ma aristotelico di esso, si può spiegare con l’eclettismo dell’epoca. 

Del pari non è dimostrato il carattere apocrifo del De mundo, che è una rielaborazione dello scritto pseudo-aristotelico che porta lo stesso titolo, composto probabilmente alla fine del I o all’inizio del II secolo a. C. Apuleio compose molte altre opere ora perdute, che sono menzionate da lui nell’Apologia o da autori posteriori. La prima ricorda seritti naturalistici in greco e in latino, che riguardano soprattutto la zoologia e in modo particolare i pesci. Sono ricordati anche altri scritti scientifici (De arboribus, De re rustica, Medicinalia, Astronomica, De arithmetica, De musica). Apuleio ha composto inoltre discorsi diversi, una traduzione del Fedone, il romanzo Hermagoras di cui rimangono due frammenti, poesie in tutti i generi, Quaestiones conviviales, un De republica : esistono allusioni a un’Epitome historiarum e a un ’Eporixéc, che pare fosse una raccolta di aneddoti amorosi. Si giudicano apocrifi il trattato Asclepius (che fa parte della collezione ermetica) e gli seritti De herbarum virtute, De remediis salutaribus, Physiognomonica. 

È chiaro che Apuleio, che si professava filosofo, in- tendeva per filosofia sia l’attività letteraria e retorica, sia il sapere in generale (umanistico, matematico, na- turalistico, speculativo e religioso) di cui la vera e propria filosofia costituiva soltanto una piecola parte. Certa- mente, per i suoi gusti, le sue consuetudini letterarie e stilistiche, le sue attività di oratore e di maestro di eloquenza, egli fu essenzialmente un retore che si può avvicinare ad altri retori contemporanei, i rappresen- tanti della seconda sofistica greca e autori come Fron- tone nel mondo latino ; ma, come è stato più volte no- tato, si distingue da loro, che erano completamente indifferenti al contenuto della loro virtuosità formale o almeno lo subordinavano completamente ad essa, perchè era animato da un desiderio vivo e sincero di dominare tutto il sapere contemporaneo, sebbene si contentasse di un encielopedismo superficiale, in quanto non approfondiva le questioni trattate e si limitava a giustap- porre, senza rielaborazione personale, ciò che aveva ap‘ scienza contemporanea, che costringe sempre più la preso da altri. 

Non si riconosce però abbastanza che se in Apuleio non esiste un interesse che sia la radice degli altri, vi è però una preoccupazione più forte di © — tutte, quella religiosa, che si colora di misticismo da una parte, di occultismo e di superstizione dall’altra @ che concorda con la tendenza predominante della co- speculazione filosofica ad assumere l'aspetto teologico di una teoria della redenzione e della salvezza. Alla preoccupazione religiosa si subordinano in Apuleio sia le speculazioni filosofiche, sia gli studi scientifici, che allora male si distinguevano dalle discipline occulte e dalla magìa in particolare. Sotto questi aspetti egli si muove, su un piano senza confronto interiore, lungo le direttive di Posidonio (che egli però non mostra di cono- scere), di cui da una parte diluisce le svariate ricerche scientifiche personali in compilazioni enciclopedistiche e, dall’altra sviluppa ed esaspera i germi di misticismo di occultismo e di superstizione. 

Perciò, certi padri della Chiesa (Lattanzio, S. Girolamo, S. Agostino) lo avvicinarono ad un taumaturgo come Apollonio di Tiana e contrapposero l’uno e l’altro a Gesù, e più tardi, l'età medioevale vide in Apuleio un mago. Come si è già accennato, il suo platonismo ha carattere eclettico, perchè avvicina all'insegnamento della scuola platonica teorie di altre fonti (pitagoriche, aristoteliche) e delle religioni dei misteri. Con Platone, Apuleio distin- gue due sostanze o essenze, che unite generano ogni cosa e lo stesso universo : l’una, che è afferrabile soltanto col pensiero, è sempre uguale a se stessa, eterna e vera- mente è; l’altra che può cadere sotto i sensi si deve valutare con l'opinione sensibile e irrazionale, nasce e muore e (si può dire) non esiste veramente. In un testo, la prima essenza include Dio, la materia, le forme delle cose (o Idee) e l’anima, in un altro, che più si conforma a Platone, l’anima non è annoverata fra i primi prin- cipi. 

Dio è incorporeo, uno, immisurabile, è il generatore delle cose, è felice e rende felici, è ottimo, è libero dai vincoli della passività e dell’attività. È ineffabile e a stento può balenare talvolta per un istante ai sapienti, quando sono giunti, nei limiti della possibilità, a separarsi dal corpo. Al disotto della suprema Divi- nità stanno gli altri Dei; quelli visibili (o i corpi ce- lesti) e quelli invisibili, come i dodici dell'Olimpo, esseri animati, incorporei, superiori'a ogni contatto col corpo, senza principio nè fine, buoni per se stessi. 

Non è chiaro il rapporto di questi Dei con l’Iside esaltata nelle Metamorfosi, che chiama se stessa « madre della natura delle cose, signora di tutti gli elementi, progenie iniziale dei secoli, superna dei numi, regina dei mani, prima dei celesti, uniforme aspetto di tutti gli Dei e le Dee», ma che si identifica soltanto con svariate divinità femminili (XI, 5). Come nelle religioni dei misteri in generale, si nota qui la tendenza a ridurre tutto il pantheon pagano a una sola Divinità, pur non negando l’esistenza indipendente di altre personalità divine. Inoltre è oscuro il rapporto tra questa Divinità, che personifica la potenza della natura, e quella suprema e ineffabile. La speculazione filosofica derivata da Platone e l’intuizione religiosa dei misteri, così giustapposte, rimangono divergenti. Delle Idee Apuleio molto inesattamente afferma una volta che sono «non circoseritte, prive di forma, non distinte per aspetto o qualità » (inabsolutae, informes, nulla specie nec qualitatis significatione distinetae : De Plat. ciusque dogm., I, 5); meglio altrove le presenta come forme semplici, eterne, incorporee di tutte le cose (ivi, 6). La materia è increabile e incorruttibile ; essendo grandezza illimitata è infinita. Originariamente informe, ha la capacità di ricevere figure e divisioni e non è nè corporea, nè incorporea. Essa è il principio di tutti i corpi, in quanto Dio, imprimendovi le immagini delle Idee (forme o modelli delle cose), ne ha fatto uscire i quattro elementi, che poi, combinandosi, hanno generato tutti gli altri esseri, animati e inanimati, del mondo. 

Questo ha avuto origine; ma siccome ha per causa Dio, la sua durata è senza termine. Sebbene parli, non dell'anima cosmica, ma di quella celeste, è chiaro che Apuleio ammette con Platone, che essa, che è la fonte di tutte le altre anime (che senza eccezioni sono incor- poree e imperiture), è inclusa nell'universo. Egli la chiama una mente, la dice sapientissima, indicando così che è una sostanza razionale ; e insieme la denomina una virtù (o potenza) generatrice. Tutto ciò che avviene naturalmente, e perciò in modo retto, è governato dalla Provvidenza, che è un pensiero divino che tutela la prosperità di ciò cui si riferisce ; essa si attua per mezzo di quella divina legge che è il fato, col quale coincide, 

Ma non tutto è governato dal fato, perchè vi sono cose che dipendono da noi o dalla fortuna. Degli esseri terrestri il più elevato è l’uomo in cui l’anima è la signora del corpo. Con Platone, vi distingue tre parti : la razionale, l’irascibile e la desiderativa o appetitiva. Non è chiaro se limiti l'immortalità alla prima o la estenda a tutte e tre. Gli Dei e gli uomini sono del pari esseri ani- mati, ma i primi differiscono fortemente dai secondi soprattutto perchè risiedono in un luogo sublime : in- fatti, lontano da noi, conducono una vita perenne e beata, hanno una natura perfetta, mentre gli esseri umani, pure avendo un'anima immortale, sono mortali rispetto al corpo e sono immersi nelle miserie, sicchè la loto vita è tutta un lamento. Siccome gli Dei non possono entrare in rapporto con gli uomini, debbono esistere certe potenze divine intermedie, che risiedono nell’aria, che sta fra l’etere superiore e la nostra infima terra, i quali hanno l’ufficio di rendere noti agli Dei i nostri desideri e i nostri meriti. Chiamati demoni dai Greci, arrecano agli abitanti del cielo preghiere e ri- chieste, a quelli della terra doni e soccorsi. 

I demoni sono come gli uomini, esseri animati, ragionevoli, ma capaci di provare passioni; posseggono la qualità propria di vivere nell’aria e hanno in comune con gli Dei l'immortalità dell’esistenza. Apuleio, nella demonologia largamente sviluppata del De Deo Socratis (che muove da alcuni cenni del Simposio platonico, ma segue le direttive del pensiero di Posidonio) attribuisce ai demoni i miracoli della magia, tutto ciò che fa conoscere il futuro e dalle differenze delle loro predilezioni fa derivare quelle delle istituzioni e delle pratiche religiose. 

Fra i demoni più elevati, che sono liberi da vineoli cor- porei, si trovano quelli che sono testimoni e custodi della vita di ogni uomo, di cui conoscono non soltanto le azioni, ma anche i pensieri: dopo la morte, portano le anime davanti al tribunale che le deve giudicare e con la loro testimonianza ne determinano le sentenze. 

Le anime umane in un certo senso sono chiamate de- moni anche quando sono ineluse nel corpo, in un altro uando ne sono uscite (i Lemwures). 

Meno importante è lo studio dell’etica, del libro II del De Platone, di cui basta ricordare alcuni concetti. 

Ufficio della filosofia morale è insegnare come si possa giungere alla vita beata, cioè al sommo bene (le espressioni sono prese non a Platone, ma alle filosofie ellenistiche). I primi e più elevati beni esistono per sè, mentre gli altri sono tali grazie al sapere di chi ne usa. 

I beni primi sono Dio e quella intelligenza che Platone chiàma vods, di cui però Apuleio nulla dice in seguito ; inoltre, quelli che ne derivano, cioè le virtù dell’anima : la prudenza, la giustizia, la pudicizia (che qui è sosti- tuita alla temperanza), il coraggio. Mentre questi beni sono divini, sono umani quelli che riguardano le comodità del corpo e quelli che si chiamano esterni. I secondi sono beni per i sapienti che usano misura e ragione, mali invece per gli stolti e per coloro che ne ignorano l’uso. A ciò segue l’esame (piuttosto sconnesso) delle virtù e dei vizi che si può omettere, per ricordare che, secondo Apuleio, fine della sapienza è far sì che chi la possiede segua e imiti Dio ; ma per far ciò deve unire l’azione alla conoscenza teoretica, perchè la somma Divinità non si limita a considerare la totalità delle cose, ma anche regge queste con la sua provvidenza. 

Tra- scorsa piamente la vita, l’anima del sapiente risiederà con i beati e si unirà ai cori degli Dei, dei semidei. Lo studio della morale individuale è seguito da quello della politica, in cui Apuleio segue da vicino la Repubblica e le Leggi di Platone. Anche rispetto alla suprema finalità della vita si incontra la divergenza tra la specnlazione filosofica e l’intuizione religiosa dei culti dei mi- steri che si è già osservata sopra. Infatti, mentre nel De Platone... la felicità dovrebbe consistere nel pos- sesso del sommo bene, cioè nella conoscenza di Dio e nella imitazione della sua opera (per quanto è difficile che ciò possa ammettersi quando si ritiene che soltanto in rari istanti può lampeggiare alla mente la visione della più alta Divinità), le cose appaiono completamente diverse nelle Metamorfosi. Qui Iside, che è chiamata la santa e perpetua salvatrice del genere umano, che con- cede un dolce affetto di madre alle sventure dei miseri (e che perciò ocenpandosi delle cose umane, dovrebbe essere soltanto un demone, non una Divinità, anzi quella in cui tutte tendono a risolversi) non soltanto offre a Lucio un porto di riposo al sicuro dai colpi della fortuna, ma fa sì che egli, nel rito iniziatorio, oltrepassato il limite di Proserpina, attraversi le sfere di tutti gli elementi e veda da vicino gli Dei inferi e superi. 

Così egli, superata la morte, nato a nuova vita, diventa l’immagine vivente della divinità solare Osiride. Sic- come si dice che a Iside prestano culto i superi, è difficile ammettere che debba condurre verso la Divinità suprema e ineffabile alla quale le Metamorfosi non accennano affatto. Per complicare le cose, la storia di Amore e Psiche inclusa nel romanzo quasi certamente raffigura le sorti dell'anima che dopo prove dolorose riesce, col favore divino, a conseguire l'immortalità beata: ora, non soltanto vi è incerto il significato di Eros, ma anche vi si attribuisce la salvazione della sua amante all'aiuto di Giove. In complesso, le preoccupazioni religiose rimangono sempre predominanti in Apuleio, ma per la loro natura svariata ed eterogenea, non riescono ad organizzarsi in modo coerente, anzi, si ha l'impressione che l'accento posi piuttosto sulle credenze dei culti dei misteri che sulle speculazioni filosofico- teologiche. Spetterà al Neo-Platonismo compiere ciò .che nei suoi predecessori è soltanto abbozzato. 

Verso la metà del II secolo d. C. deve essere vissuto Nigrino, filosofo platonico, che Luciano dice di aver visitato a Roma nel dialogo omonimo che gli inviò con una dedica. Le affermazioni che gli attribuisce non includono nulla che porti l'impronta di una scuola determinata, ma ciò può dipendere dalla natura dell’argo- mento trattato, le lodi di Atene, messa in contrasto con Roma, che permetteva di condannare la ricerca delle ricchezze e del lusso, ma poco si prestava alla determinazione di una posizione filosofica piuttosto che di un’altra. 

Al Platonismo Medio appartenne anche Severo, vis- suto probabilmente verso la metà del II secolo d. C.: sulla sua vita mancano notizie. Di lui Proclo ricorda un commento al Timeo, ed Eusebio riproduce un lungo frammento Sull’anima, che però poteva far parte sia di quell’opera che di un trattato particolare. Da studi psicologici provengono anche le notizie che di lui ci dà lo Stobeo. Le informazioni che si hanno sulla sua filo- sofia, se non permettono di ricostruirla in modo orga- nico, mostrano che aveva carattere eclettico perchè in- cludeva, con le platoniche, teorie stoiche, peripatetiche e neo-pitagoriche ; ma le seconde imprimevano a quel pensiero una tendenza monistica contrastante col dua- lismo di Platone. Infatti, conformandosi alla teoria stoica delle categorie, Severo considerava come genere sommo, posto sopra l’essere e il divenire, il +{ (qualche cosa), inteso come cò mèv (il tutto). 

Si collega all’ini- ziativa di Posidonio, seguita poi da continuatori sempre più numerosi, lo sforzo di porre fra opposti, termini intermedi. Così, interpretando la teoria platonica del Timeo sulla composizione dell'Anima Cosmica, Severo concepiva questa come una realtà geometrica costituita dal punto indivisibile e dalla estensione divisibile. In tal modo tra la realtà indivisibile'e sempre identica (0 ideale) e quella divisibile che diviene nei corpi (o sen- sibile) di cui parla il Timeo (35 a) erano interposte due realtà matematiche, l'una indivisibile, l’altra divisibile. 

Questo matematismo ha fatto pensare a influssi neo- pitagorici, ma potrebbe derivare dall'ultima filosofia di Platone. La stessa tendenza a cercare intermediari si manifesta nella critica rivolta alla distinzione fatta da Platone di due parti dell'anima, l’una impassibile e l’altra no (veramente egli distingueva la parte razionale e immortale da quella irrazionale e mortale); secondo in tal modo essa anima non sarebbe imperitura, perchè i due elementi opposti si dividerebbero se un terzo non li congiungesse. Ritenendo quella teoria un adattamento alla mentalità comune, sostituì (come prima di lui aveva fatto Posidonio) la dottrina platonica delle parti dell'anima con quella aristotelica delle facoltà o potenze di essa. Come fondamento di tutte le funzioni conoscitive pose il logos. Sulla questione se Platone avesse ammesso o no la perennità del mondo, che era stata risolta in modi opposti, Severo presentò la tesi che esso in senso proprio non ha avuto origine, ma che quello attuale è stato generato : così riprendeva la teoria di un mondo perenne ‘in sè, che però si forma e si di- strugge periodicamente. In complesso, si nota in Se- vero un antecedente significativo del Neo-Platonismo. Sembra che appartenesse al Platonismo Medio un Lucio, di cui si sa soltanto che compose un’ampia eri- tica delle categorie aristoteliche, seguita da Nicostrato (suo contemporaneo, a quanto sembra, fiorito e. 160- 170 d. C.): dall'opera del secondo ha tratto numerosi | frammenti Simplicio. Si ritiene che lo seritto di Nico- | strato, e quindi di Lucio, rappresentasse la corrente ortodossa del Platonismo : la critica più importante ri- volta ad Aristotele era che la sua teoria unitaria delle categorie non rispettava il contrasto della sfera intelli- gibile e di quella sensibile. Le critiche di Nicostrato e. quindi anche di Lucio, occuparono un posto centrale nelle discussioni sulla dottrina aristotelica delle cate- gorie che si svolsero entro il Neo-Platonismo. di Di Censorino, Alessandro d’Afrodisia ricorda e di. seute una teoria dei colori. 

Non si può dire a quale scuola appartenessero Giulio Grecino, dell’ordine senatorio, padre di Agricola, chia- mato da Seneca wir egregius, e Marciano, che Marco Aurelio ricorda fra i suoi maestri. 

Il primo e mandato a morte da Caligola, al quale, a quanto narra Tacito, era venuto in odio perchè emergeva per eloquenza e sapienza (filosofia) : scrisse un’opera di viticultura che servì di fonte a Celso. Contiene notizie che riguardano la storia della filosofia l’opera di Aulo Gellio (n. e. 130 d. C. a Roma? ; m. ?), che ebbe da prima per maestri principali Frontone e Favorino e anche più in Atene il platonico Calvisio Tauro. Conobbe il cinico Peregrino Proteo ed Erode Attico. Ritornato a Roma ebbe l'uffi- cio di giudice nei judicia privati: poi seguì liberamente le sue tendenze letterarie. 

Fin da giovane cercò di rac- cogliere le cose più importanti e più interessanti che aveva letto e mentre soggiornava nell’ Attica incominciò ad attuare il suo progetto nell’opera intitolata Noctes Atticae (pubblicata nel 169 o nel 175), in 20 libri, che, ad eccezione dell'VIII e di varie lacune, ci sono giunti. È una miscellanea che parla di ogni sorta di argomenti e discute questioni di tutti i generi, inclusa la filosofia. 

Aulo Gellio si occupa della vita degli scrittori, cita passi di opere (spesso perdute), tratta di questioni di imitazione, di autenticità, di eritica del testo.

Piuttosto che presentare le questioni in modo sistematico, si compiace di farle trattare da persone che conversano o diseutono. Un Censorino grammatico, autore di un libro De accentibus di cui rimangono due frammenti, compose nel 283 lo seritto De die natali, di svariato contenuto, che include un elenco delle opinioni dei filosofi greci sulla generazione umana e su argomenti affini derivato da Varrone. Si occupò di filosofia Giulia Domna, moglie di Settimio Severo. 

Piuttosto che la filosofia, coltivò gli studi teologici e le antichità religiose Cornelio Labeone, che cercò di far rivivere le antiche credenze del paganesimo interpre- tandole allegoricamente. È incerta la sua cronologia, ma siccome sembra che Arnobio, pure non nominandolo, polemizzi contro di lui e lo consideri come un autore ancora attuale, lo si può collocare nel III secolo. 

Sa- rebbe stato un contemporaneo di Plotino, ma (sebbene annoverasse Platone tra i semidei) non vi è ragione di considerarlo un neo-platonico, come è avvenuto, perchè in ciò che altri autori hanno conservato dei suoi scritti non si incontrano le teorie caratteristiche di quella scuola. Scrisse certamente due opere, De oraculo Apollinis Qlarii, De dis animalibus. 

Sono incerte altre tre : De dis penatibus, Fasti, Disciplina etrusca. Probabilmente il De oraculo esponeva un sistema teologico in cui si affermava la tendenza a identificare diverse grandi divinità e a interpretarle in senso fisico, come realtà naturali fondamentali (sole, luna, terra). Sotto queste divinità maggiori (di selecti) pare stessero esseri divini inferiori (numina), suddivisi in buoni e malvagi, in un grado più basso di essi stavano i semidei e gli eroi. Fra questi e gli uomini si trovano i demoni, pure distinti in buoni e cattivi. Questa distinzione si trova già in Se- nocrate, sicchè non vi è ragione di considerarla neo-pla- tonica. Più verosimile è che la teoria di esseri divini buoni e malvagi riveli in Labeone influssi etruschi. 

Nel De dis animalibus faceva provenire certe figure divine.(come i Penati, i Lari) dalle anime umane; forse le collegava ai demoni. Gli seritti di C. Labeone erano _ importanti soprattutto perchè fondati sullo studio am- pio e profondo delle opinioni di autori più antichi, come © Varrone e Nigidio Figulo, di cui hanno trasmesso la conoscenza agli scrittori cristiani, 

Il Neo-Platonismo, verso il quale confluivano le mag» giori correnti filosofiche e religiose dei primi secoli del- Pera cristiana, iniziato in Alessandria da Ammonio Sacca (circa 175-242), venne fondato come sistema dal suo discepolo Plotino (n. a Licopoli in Egitto circa 203-204, m. 269-270), che già quarantenne si recò a Roma, ove per ventisei anni insegnò con molto successo e poi, gravemente ammalato, si trasferì nella Campania, ove chiuse la vita. 

Questo indirizzo, che per secoli costituì la filosofia del paganesimo declinante, assunse aspetti diversi nelle scuole che si costituirono in vari centriz Porfirio di Tiro, il maggiore degli scolari di Plotino, vissuto lungamente in Roma e in Sicilia, fu maestro di Giamblico, fondatore della scuola siriaca essenzialmente teosofica e teurgica, alla quale si collegò strettamente quella di Pergamo, cui appartennero Giuliano l’ Apostata e Sallustio. 

Giamblico, sotto diversi rispetti, fu seguito anche dalla scuola di Atene, che però diede maggior posto alla speculazione metafisica e commentò intensa- mente le opere platoniche e soprattutto aristoteliche. Questa scuola, che ha il maggior rappresentante in Proclo, venne chiusa al tempo di Damascio e Simplicio da Giustiniano che vietò che in Atene si inse- gnasse filosofia. 

Collegata con quella di Atene era la scuola di Alessandria, che prediligeva l’esegesi plato- nica e aristotelica, ma coltivava, invece delle specula- zioni metafisiche e del misticismo religioso, le ricerche matematiche e naturalistiche. Sotto questi rispetti le sì avvicinano i neo-platonici occidentali. 

Il Neo-Pla- tonismo trovò i suoi seguaci più significativi e più nu- merosi, non nell’Occidente latino, ma nell’Oriente ellenico. Scolaro di Ammonio Sacca fu Antonino che, al pari del suo condiscepolo Longino, sostenne contro Plo- tino che le Idee esistono fuori dell’Intelletto (univer- sale). Amelio Gentiliano, nato in Etruria, fu da prima discepolo di un Lisimaco (probabilmente lo stoico); ma in seguito si recò da Plotino, di cui seguì l’ine segnamento sino al 269, nel quale anno si trasferì in Apamea, ove dovette risiedere a lungo, perchè fu de- nominato Apameo. Con Porfirio, è l’unico discepolo di Plotino di cui risulti la produzione scientifica. Pubblicò opere numerose e prolisse, scritte con esposizione ornata. 

Raccolse le lezioni di Plotino in 100 libri, lo difese dal- l'accusa di essere stato un plagiatore di Numenio (un neo-pitagorico della seconda metà del II secolo d. C.) in un’opera dedicata a Porfirio sulle differenze tra l’uno e l’altro, e in due seritti ribattò le eritiche che questo aveva rivolto al maestro ; trattò del carattere della filo» sofia di esso in una lettera indirizzata a Longino. 

Inoltre compose un’opera in quaranta libri contro un oracolo attribuito da autori cristiani allo pseudo-Zostriano e diede forma scritta a quasi tutti gl’insegnamenti di Numenio che, inoltre, riassunse e imparò a memoria : si discute se abbia composto commenti al Timeo e alla Repubblica di Platone. In complesso, era uno serittore privo di originalità, che seguiva da vicino le orme di Plotino, ma non penetrava nel suo pensiero più profondo: e ne collegava gl’insesnamenti con la mistica numerica del Neo-Pitagorismo e con dottrine di Numenio. 

Da questo deve aver preso la partizione dell’Intelletto in tre Demiurghi ; per contro, si opponeva alla distinzione fatta da Plotino fra le anime particolari e l’universale e considerava le prime come diversi modi di presentarsi della seconda. Anche nella sua mistica numerica e nelle accentuate tendenze superstiziose si allontanava assai da Plotino. 

Secondo Porfirio, ascoltarono questo molti senatori e fra essi si occuparono di filosofia principal- mente Marcello Oronzio, Sabinillo (cons. 366) e Ro- gaziano. 

Quest'ultimo, meritandosi i più vivi elogi del maestro, abbandonò l’ufficio di pretore, rinunciò ai suoi averi, mandò liberi i suoi schiavi e si recò ad abitare presso amici, digiunando un giorno su due. Particolare riverenza per Plotino, sebbene seguisse la carriera pub- blica, provava Castricio Firmo, che si era affezionato a Porfirio come un fratello: questo gl’indirizzò il trattato Sull’astinenza quando, dopo la morte del maestro, Ca- stricio abbandonò il regime vegetariano. 

Assai devote a Plotino e affezionate alla filosofia erano anche alcune donne, fra le quali Gemina nella cui casa abitava, e la figlia di lei che portava lo stesso nome. L'imperatore Gallieno e la moglie sua Salonina onoravano assai il filosofo che, se non fosse intervenuta l’azione ostile di persone malevole della corte, avrebbe ottenuto che venisse restaurata una città distrutta della Campania che avrebbe ricevuto il nome di Platonopoli e sarebbe stata abitata da filosofi che avessero obbedito alle leggi di Platone. 

Fra i discepoli di Porfirio (che gli dedicò la Zntrodu- zione alle Categorie e altri scritti) è ricordato il romano Crisaorio, che secondo alcune testimonianze era senatore. La personalità più notevole dei neo-platonici romani è quella dell’imperatore Giuliano (Flavio Claudio), che però interessa la storia politica e della religione più di quella della filosofia. Nato a Costantinopoli nel 311 d. C. da Giulio Costanzo, figlio di Costanzo Cloro, rimase pre- stissimo orfano della madre Basilissa, poi, nei massacri che, all’ascesa al trono dei figli di Costantino, spensero tutti i discendenti di Costanzo Cloro ad eccezione di lui e del fratello maggiore Gallo, perdette il padre e un fratellastro, Giuliano da prima fu inviato a Nicomedia, poi, col fratello Gallo, venne relegato per sei anni nella villa di Macellum, in Cappadocia. 

In questo tempo coltivò lo studio della letteratura classica e della religione. Co- stanzo II, che non aveva eredi ed era in contrasto col fratello Costante, nel 347 chiamò a Costantinopoli Gallo per prepararlo alla successione e dopo avergli af- fidato il governo dell’Oriente, nel 351, rimasto unico capo di tutto l'impero, gli conferì il titolo di Cesare e gli diede in moglie la sorella Costanza. Giuliano proseguì i suoi studi a Costantinopoli e a Nicomedia e, ottenuto il permesso di viaggiare, potè conoscere i maggiori di- scepoli di Giamblico, subendo soprattutto l’influsso di Massimo di Efeso, che era essenzialmente un teurgo. 

Così, a vent’anni, Giuliano, educato nel Cristianesimo, se ne allontanò per abbracciare una dottrina filosofica religiosa che fondava e giustificava il politeismo pagano. Nel 354, Costanzo II fece uecidere Gallo, che aveva eccitato sempre più i suoi sospetti e fece trattenere a Milano Giuliano, che, grazie alla protezione del. l'imperatrice Eusebia, ebbe il permesso di recarsi a Costantinopoli, ove però era sospettato dal sovrano e insidiato da cortigiani ostili. 

Per un nuovo intervento di Eusebia gli giunse l'ordine di dimorare in Atene (354), ove si immerse negli studi filosofici. Alla fine del 356, l’imperatore, che non aveva eredi, lo richiamò a eorte, lo nominò Cesare, lo sposò alla sorella Elena e gli affidò l’incarico di ristabilire l'ordine nelle Gallie, minacciate dai Germani e presidiate da truppe infide. Giuliano (che aveva ricevuto le insegne consolari il 19 gennaio 356) riuscì ad assicurarsi l'affetto dei soldati e a riportare importanti successi sui Franchi e gli Ale- manni (356-358). Costanzo II, che lo temeva, gli ordinò di inviare in Oriente, contro la Persia, le migliori le- gioni galliche, ma queste si ribellarono e proclamarono imperatore Giuliano, che finì per accettare la nomina (359). 

Dopo inutili trattative, si difese dalle accuse ri- voltegli dall'imperatore con lettere indirizzate al Se- nato di Roma, agli Ateniesi, agli Spartani e ai Corinzi e mosse contro il cugino, che, mentre cercava di chin- dergli la strada dell'Oriente, morì improvvisamente de- signandolo suo suecessore. Giuliano, entrato trionfal- mente a Costantinopoli alla fine del 361, gli rese solenni ‘ onori e l’apoteosi; ma se ne rispettò la memoria, cercò di colpire i suoi cortigiani e consiglieri. 

Nello stesso tempo (mentre sul modello di Marco Aurelio, conduceva vita severa e rigida e lavorava in modo assiduo per lo stato e per gli studi) riduceva il numero dei funzionari della corte, la liberava dal lusso e dalle mollezze che vi dominavano, affidava gli uffici a uomini insigni per valore intellettuale e morale, intraprendeva riforme am- ministrative, giudiziarie e finanziarie. Appena salito al trono stabilì la restaurazione della religione e del culto del paganesimo al quale in segreto era stato devoto da molti anni, sperando così di far risorgere la grandezza dell'antichità greca e romana. Quando ancora sì trovava in Gallia, aveva proclamato la tolleranza verso i cristia- ni, ma la lotta in difesa del paganesimo mise capo alla persecuzione. 

Se alcuni incidenti di violenza pagana, che l’imperatore non seppe reprimere, mon corrispon- devano alle sue volontà, la posizione privilegiata che egli riservava alla religione pagana (nei suoi miti ve- deva verità rivelate dagli Dei), la riorganizzazione del suo culto, sul modello cristiano, implicavano la sua vit- toria sul Cristianesimo, che Giuliano si sforzò di indebo- lire, escludendo i suoi seguaci dai pubblici uffici e, s0- prattutto, dall’insegnamento. 

Se così suscitò l’opposizione dei cristiani, non riuscì a infondere nuova vita al pagane- simo, i cui fautori diedero prova di fiacchezza e di man- canza di entusiasmo. Mentre svolgeva la sua lotta antieri- stiana, Giuliano preparava, prima a Costantinopoli, poi ad Antiochia la campagna (362-363) contro il re di Persia Sapore II. 

Ottenne alcuni successi, ma per le difficoltà del terreno fu costretto a ritirarsi e in uno scontro vit- torioso col nemico venne mortalmente colpito con una freccia. 

Impassibile davanti alla morte, spirò poco dopo, a trentadue anni (26 giugno 363). Soltanto in uno serit- tore cristiano del V secolo, Teodoreto, appare ‘per la prima volta la leggenda che spirando esclamasse : « Hai vinto, o Galileo!». Il suo cadavere fu riportato a Tarso. Giuliano serisse in greco opere in gran parte conser- vate. Ci restano Orazioni (I-VIII), la Lettera agli Ate- niesi, la Lettera al filosofo Temistio, I Cesari o La festa dei Saturnali o il Banchetto, il Misopogon, numerose lettere e aleune leggi : inoltre, numerosi frammenti, tra i quali sono particolarmente importanti quelli di una opera "Contro i Cristiani" (conservati nella confutazione fattane da $. Cirillo d’Alessadria) e un frammento di un’epistola a un sacerdote, Si sono perduti un libro Sulla battaglia di Strasburgo e le Lettere ai Corinti, ai Lacedemoni e al Senato di Roma. 

Sono infondate le sup- posizioni rispetto ad altri scritti perduti. L'ordinamento eronologico che appare preferibile, in complesso, è (un po modificato) quello del Bidez. Orazioni I, III, Ik; Libro sulla battaglia di Strasburgo ; Or. VIII (seritti nelle Gallie) ; Lettere agli Ateniesi, ai Corinti, ai Lace- demoni, al Senato di Roma, al filosofo Temistio (seritte prima dell'entrata a Costantinopoli); Or. VII, V, VI (o VII, VI, V, scritte a Costantinopoli) ; Or. IV; I Cesari, Misopogon; Frammenti da un’epistola ; Contro î Cristiani (scritti in Antiochia). Secondo alcuni, I Ce- sari furono composti a Costantinopoli. Le Or. I e III (Panegirici di Costanzo II e di Eusebia) debbono essere State composte nelle Gallie (dicembre 355-giugno 356). L’Or. II (sulle imprese di Costanzo o sulla monarchia, scritta per dissipare presumibili sospetti di questo, nel. l'inverno 358-359) ha per vero oggetto la rappresenta zione e l’esaltazione del sovrano ideale; vi appaiono già alcuni pensieri centrali della dottrina di Giuliano. 

Il libro Sulla battaglia di Strasburgo narrava anche gli antecedenti di essa. L’Or. VIII, seritta da Giuliano per consolarsi della partenza del suo questore e amico Sallustio (Saturnino Secondo Saluzio 0 Salustio) è anche un protrettico al partente, che egli poi nominò prae- fectus praetorio Orientis, alla fine del 361. Giuliano lo dice greco. È stato identificato con l’autore dello scritto Sugli Dei e sul mondo (forse l'estratto di un’opera più ampia), che è stato chiamato un catechismo della reli- gione pagana nell’interpretazione del Neo-Platonismo ; probabilmente mirava a favorire e a diffondere l’azione religiosa di Giuliano. Nell’Or. VIII si è rilevato l’in- flusso di Dione Crisostomo. Le quattro Lettere agli Ate- niesi ecc. appartengono all'autunno 361. 

La Lettera al filosofo Temistio presenta di nuovo le teorie politiche di Giuliano che ora, imperatore, cercò di attuare. 

Le Or. VII e VI (Al cinico Eraclio [dicembre 361-giugno 362] e Contro i Cinici ignoranti) (maggio-giugno 362) sono una polemica contro i neo-cinici, affini ai cristiani, ai quali vengono contrapposti gli antichi rappresentanti del cinismo autentico. L’Or. VII è rivolta contro Era- clio che in una pubblica lettera aveva satireggiato Giu- liano (almeno così egli riteneva) e in un mito aveva parlato irriverentemente degli Dei; vi si tratta pure del modo in cui i miti debbono essere presentati. Anche in questo scritto si è riconosciuto l’intlusso di Dione Crisostomo. La polemica contro i nuovi cinici è prose- guita nell’Or. VI, in cui è difeso Diogene contro uno di loro che lo aveva diffamato. L’Or. V (AWla Dea Madre), che si collega strettamente alla IV (al Re Elios), in quanto insieme includono il nueleo della teologia di Giuliano, fu scritta nel 362 (principio del giugno) e contiene prin- cipalmente l’interpretazione, piuttosto confusa e oscura, del mito di Cibele e di Attis. La IV, scritta per il natale del Dio (25 dicembre, verso la fine del 362) che è l’opera filosoficamente più importante di Giuliano, è però as- sai oscura e difficile. 7 Cesari (scritti alla fine di dicem- bre 362, tra le due Or. precedenti) trattano di un ban- chetto che Romolo Quirino offre agli Dei e agli impera- tori divinizzati'; ma prima sono sottoposti a un giudizio. 

Il primo posto spetta a Marc'Aurelio Antonino.

Dopo di lui vengono Alessandro e Traiano. 

In complesso, l’autore giudica poco favorevolmente i suoi predecessori. 

Il Misopogon, che riprende certi motivi tradizionali, è in apparenza un’autosatira di Giuliano, ma nel fatto è rivolta contro la popolazione di Antiochia (da tempo famosa per la sua frivolezza) che lo aveva schernito per i suoi costumi austeri ed aveva accolto freddamente la sua restaurazione religiosa. Allo stesso periodo appartiene il Frammento di un’epistola, rivolto a un sacerdote, in cui è esposto il programma della con- dotta del clero pagano, secondo criteri derivati dal Cristianesimo. L’ultima opera di Giuliano (giugno 362- marzo 363) è lo scritto Contro è Cristiani. ID 1. I trattava dell'origine dell'idea di Dio, delle concezioni della Di- vinità dei greci, degli Ebrei e dei Cristiani ; il II con- teneva una critica dei Vangeli: del III quasi nulla è rimasto. Pure valendosi della polemica antieristiana dei ‘al Milite F, «è rosati Pr Tn been Len (SR e ili atte predecessori (Celso, Porfirio), Giuliano, per l’avversione che provava per il Cristianesimo, impresse carattere per- sonale allo seritto, in cui organizzò sinteticamente i motivi che lo allontanavano da esso: sono notevoli la conoscenza della Bibbia e delle discussioni teologiche contemporanee e l'abilità della critica. Egli da una parte insiste sul concetto che nella Bibbia manca ogni nesso con l’insegnamento cristiano, dall'altra sulla tesi che i cristiani, che riconoscono e adorano la Divinità parti- colaristica di un piccolo popolo, non possono pretendere di fondare una religione universale. Gli scritti filosofi- camente più importanti sono le Orazioni IV e V e poi quelle VI e VII; le teorie politiche di Giuliano sono esposte nell’Or. II e nella Lettera a T'emistio. 

Ma in com- plesso il suo pensiero ha carattere ben più teologico che filosofico ; in ciò egli segue e accentua l’indirizzo di Giamblico. 

Egli espone i dogmi di una religione che gli Dei, o i demoni, o spiriti superiori ispirati da loro (i maggiori poeti e filosofi) hanno insegnato agli uomini nella forma del mito, che include verità supreme che debbono essere spogliate dal loro involuero figurativo per mezzo di un’interpretazione allegorica, di cui egli dà un esempio particolare nel Discorso alla Dea: Madre.‘ Gli aspetti irrazionali o immorali dei miti servono a ecci- tare l’intelligenza a non fermarsi, ma a ricercare il loro . significato segreto, mentre gli uomini comuni traggono sufficiente vantaggio dai loro simboli. 

Il primo principio è chiamato da Giuliano l’Uno, il Sovraintelligibile, l’Idea degli esseri, il Bene. Seguendo Giamblico, che nell’Intelletto di Plotino aveva distinto il mondo intelligibile da quello intellettuale (cioè le Idee dalle attività pensanti), Giuliano fa provenire dall’Uno gli Dei intelligibili (e da prima Elios), che stanno al disopra di quelli intellettuali ; sotto a questi è il mondo sensibile che include le Divinità visibili, gli astri. In tutte e tre queste sfere il posto centrale è assegnato a Elios, che compie l'ufficio di mediatore, ossia è prin- cipio di unità, di ordine e di armonia, poichè collega il mondo intelligibile col sensibile, nel quale è principio di generazione e di vita, come è fonte di ogni per- fezione in quello intellettuale. È così sviluppato un tema posidoniano, che era stato ripreso dal pensiero poste- riore, specialmente dal Platonismo Medio e dal Neo- Platonismo. Giuliano collega poi questo col culto so- lare e specialmente con la religione di Mitra, allora dif- fusissima, ai cui misteri era stato iniziato, in quanto presenta Elios soprattutto sotto l’aspetto del Dio per- siano. 

Egli cerca di conciliare il monoteismo del culto solare col politeismo pagano valendosi del sineretismo caro ai suoi contemporanei ; in quanto pensa le Divi- nità di questo come forze o manifestazioni di Elios- Mitra, che si rivela anche in esseri posti sotto di esse, gli angeli del sole, i demoni e gli eroi. Come in Posidonio e nelle dottrine religiose e filosofiche posteriori, nel- l’uomo l’anima divina e immortale, che proviene dal cielo, è legata al corpo perituro e oscuro, col quale è continuamente in lotta. Essa deve prepararsi con la continua purificazione a liberarsi dai vincoli del senso per risalire alla sua antica sede, senza essere costretta a subire nuove incarnazioni. 

Ad aspirazioni ideali elevate si mescola, come nel Neo-Platonismo, anzi nelle opi- nioni filosofiche e religiose di quell’età in generale, la tendenza verso la magia e le scienze occulte, che fa ac- cogliere senza esitazione la credenza nei più strani pro- digi e in tutti i miracoli possibili. Per ciò che riguarda la condotta nella vita comune è notevole la simpatia per il Cinismo antico e autentico, che, se purificato dai suoi caratteri irreligiosi, può, secondo Giuliano, essere accettato da tutti gl’indirizzi filosofici degni di questo nome ; per lui la filosofia è essenzialmente una, e le dottrine delle diverse scuole, se rettamente intese, coincidono nei loro concetti centrali e nei loro scopi. 

Ma in Giuliano non appare più lo sforzo della contemplazione. profonda che culmina nell’unione estatica col primo principio (che era il vero fine della filosofia di Plotino).

In Giuliano predomina l’aspirazione al ritorno del. l’anima al cielo e al mondo intelligibile, che ha per condizione la conoscenza di verità divinamente rivelate. 

Si denominano neo-platonici dell'Occidente romano, pur riconoscendo che almeno alcuni di essi sono piut- tosto platonici che altro, diversi scrittori degli ultimi secoli dell'Impero e dell'inizio del Medio Evo, che effet- tivamente hanno in comune soltanto il carattere eru- dito delle loro ricerche e che, ad eccezione di Boezio, sono ben più traduttori e compilatori che filosofi. È certo però che in quel gruppo si trovano anche alcuni _neo-pitagorici; perciò occorre considerarli separata- "mente menzionando in seguito sia i rappresentanti di scuole diverse dalle ricordate, sia uomini di cui si ignora l'indirizzo seguito. Quanto a Boezio, occupa un posto & sè. 

Aderì al Neo-Platonismo C. Mario Vittorino, di origine africana, che al tempo di Costanzo (337-361), quando nell’ Urbe, come attesta Sant’ Agostino, la scuola di Plotino fioriva e contava numerosi e valenti discepoli, insegnò retorica a Roma con grande suc- cesso : infatti trovò molti discepoli nelle classi su- periori della cittadinanza e fu onorato con l'erezione di una statua nel Foro Traiano. 

Compose seritti retorici, grammaticali, metrici (l'Ars grammatica, salvo pochi preliminari grammaticali) e un trattato di metrica ; non sono suoi due brevi scritti scolastici : De ratione metro- rum, De finalibus metrorum); commentò il De inven- tione di Cicerone, diffondendosi in digressioni di carat- ‘tere filosofico, i Topica e gli scritti filosofici dello stesso autore. Di Aristotele tradusse e commentò le Categorie, e tradusse il II. #punvelac; scrisse anche una versione dell’Isagoge di Porfirio e di altre opere neo-platoniche. Inoltre compose due seritti logici (De definitionibus, De syllogismis hypotheticis). 

Ci restano soltanto 1 Ars grammatica, il commento al De inventione e il De defi- nitionibus ; la traduzione dell’Isagoge può ricostruirsi in larga misura per mezzo del commento che Boezio scrisse a quell’epoca, seguendo la versione di Vittorino. 

Verso il 357, per motivi piuttosto intellettuali che strettamente religiosi egli (in cui le preoccupazioni filosofiche, che appaiono anche nel commento al De ‘inventione, furono sempre il motivo direttore del pensiero) si con- vertì al Cristianesimo e perciò nel 362 fu obbligato dalla legge di Giuliano a chiudere la sua scuola ; allora approfondì i suoi studi religiosi e compose numerose opere teologiche, riguardanti principalmente la que- stione della Trinità divina, e commenti alle lettere di S. Paolo ; ma in questi seritti, di cui è criticata l'oscurità, è difficile scorgere un pensiero unitario e organico. 

Seb- bene includano dottrine neo-platoniche, appartengono propriamente alla storia della filosofia cristiana. Mario Vittorino agì sul pensiero del suo discepolo Sant'Agostino facendogli conoscere le dottrine del Neo-Platonismo © con la versione dell'Isagoge di Porfirio fece sì che l’at- tenzione degli scolastici fosse attirata dal problema; degli universali. 

Probabilmente aderì al Neo-Platonismo Nettio Agorio Pretestato, che coprì diversi uffici importanti: fu se- natore, questore, pretore, corrector (governatore) della Tuscia e dell'Umbria, consolare della Lusitania, pro- console dell’Acaia (sotto Giuliano), prefetto della capitale (367-368), due volte praefectus praetorio dell’Italia e dell’Illirico (383-384), designato console per il 385; però morì nel 384. Amico dell’oratore Simmaco e ostile al Cristianesimo, ebbe cariche sacerdotali in numerosi culti pagani, anche orientali. Questo fatto e il favore di cui godeva presso Giuliano, fanno pensare che gli appartenga la teologia monoteistica derivata da Giamblico che gli è attribuita da Macrobio nei Sa- turnalia, in cui tutte le Divinità sono intese come nomi dati alle diverse potenze e ai diversi effetti del sole, il quale è anche la forza che, dominando la materia dell'universo, forma tutti i corpi; è anche probabile che, come il suo imperatore, fondasse tale dottrina sui principi neo-platonici. 

Tradusse in latino la para- frasi degli Analitici aristotelici composta da Temistio e forse redasse lo seritto De decem categoriis che porta il nome di Sant'Agostino. $i occupò della correzione di , antichi autori e scrisse discorsi; ma dell’opera sua re- Stano soltanto frammenti, di cui, del resto, è dubbia l'appartenenza. Aderì al Neo-Platonismo di Plotino e di Porfirio, Ambrosio Macrobio Teodosio (n. e. 360), che si deve identificare al Macrobio che nel 390-391 fu prae- fectus praetorio Hispaniarum, nel 410 proconsole d’A- frica, nel 422 praepositus sacri cubiculi (gran ciambellano). 

È ignota la sua patria; si è pensato che fosse africano. 

Certamente doveva essere legato da stretti rap- porti alla famiglia dell’oratore Simmaco, a un figlio o nipote del quale dedicò uno scritto grammaticale. $i convertì al Cristianesimo in età avanzata, dopo aver seritto le sue due opere maggiori, il Commento al Sogno di Scipione di Cicerone, che ci è giunto intero, e i Satur- nalia, lacunosi. Dallo seritto grammaticale De differen- tiis et societatibus graeci latin ique verbi (Delle differenze e concordanze del verbo greco e del latino), del quale re- stano soltanto estratti, nulla può risultare sull’argo- mento. 

Nel Commento, dedicato al figlio Eustachio, in cui cerca d’interpretare in senso neo-platonico lo seritto di Cicerone, accumula molta erudizione e perciò spesso sì occupa di argomenti che poco hanno da fare col suo oggetto. 

I frequenti riferimenti al Timeo e le lodi del Neo-Platonismo, (per es., Plotino è chiamato, al pari di Platone, un princeps della filosofia) hanno fatto supporre che Macrobio si sia servito di un commento neo-platonico a quel dialogo, probabilmente di quello « di Porfirio, derivato in ultimo dal commento di Posido- nio ; si è anche pensato a una fonte latina intermedia e sulla questione sono state presentate svariate ipotesi. In ogni caso, anche se non si giunge a considerare Macrobio come un semplice trascrittore di una 0 due opere altrui, che non mette nulla di suo, si può sospettare che non abbia letto i numerosi autori che cita, Posteriori al Commento sembrano i Saturnali in 7 libri (scritti verso il 395, prima della pubblicazione del commento virgiliano di Servio), pure dedicati al figlio Eustachio, al quale volle presentare i risultati dei suoi studi di au- tori greci e latini, di cui generalmente riprodusse le parole. 

Però cercò di organizzare tali temi fingendo di riprodurre le conversazioni che, durante banchetti fatti in occasione delle feste dei Saturnali, avevano tenuto persone insigni per cultura su argomenti svariatissimi. Quest'opera, che costituisce l’ultima espressione del ge- nere letterario dei Simposi iniziato da Platone, contiene materiali molto diversi, sia per il significato delle que- stioni trattate, che per l’importanza delle notizie ri- ferite. Cita numerose fonti, ma non è sicuro che le co- nosca direttamente tutte, tanto più che non nomina quelle di cui deve essersi servito più largamente, Plu- tarco (Questioni conviviali) e Aulo Gellio. 

I libri più significativi sono quelli ITI-VI, che riguar- dano Virgilio, di cui si esalta il valore poetico e la uni- versale e profonda sapienza su ogni argomento. Le dot- trine filosofiche che Macrobio espone nel Commento si conformano al Neo-Platonismo di Plotino. Dio o il Bene, causa prima e origine di tutti gli esseri, che trascende il pensiero e il linguaggio umano, erea l’intelletto (vods o mens) che include in sè le Idee o i modelli originali delle cose. 

L’intelletto è poi identificato alla monade o unità prima pensata col Neo-Pitagorismo, non come numero, ma come la sorgente e l’origine dei numeri. L’intelletto, a sua volta, genera l’anima cosmica (iden- tificata a Giove), che è principio di vita per tutte le cose corporee che essa forma imprimendo nella materia l’immagine delle Idee. 

Così una sola luce divina illumina tutte le cose, connesse tra loro da vincoli reciproci e ininterrotti. Nei corpi del cielo e delle stelle il prin- cipio animatore è una pura attività razionale ; nel- l’uomo ad essa si uniscono la sensitiva e la vegetativa, che sole si trovano negli esseri inferiori. Rispetto alla esistenza dell'anima prima e dopo la sua unione col corpo, alla sua discesa dal cielo e alla ascesa ad esso, È pp alla reminiscenza, alla sorte che l’attende dopo la morte.

Macrobio si conforma alle dottrine che il Neo-Platonismo aveva derivato dalla tradizione pitagorico-pla- tonica e che appartenevano al patrimonio comune della coscienza religiosa dell’età sua. Anche per lui il corpo è un sepolero dell'anima, sicchè la filosofia deve inse- gnare all'uomo a liberare l’una dai vincoli dell’altro: perciò, riprendendo la teoria plotiniana delle virtù, egli pone su quelle politiche (dell’uomo nella vita so- ciale) le purgative, che lo purificano dal contagio del % corpo, che sono proprie di chi vuole immergersi nella contemplazione filosofica, quelle di chi ha raggiunto tale scopo, liberandosi completamente dalle passioni @ al di sopra di tutte, le virtù contemplative dell’intelletto. Il Commento ha così trasmesso al pensiero medioevale | la conoscenza di numerose teorie platoniche e neo-pla- toniche, fra le quali ha particolare importanza l’identi- ficazione delle Idee a pensieri divini. ‘ 

Neo-platonico era pure Eutropio (discendente dalla famiglia dei Sabini, che aveva contato tra i suoi mem- bri molti senatori), un gallo del 59 secolo che ebbe l’uf- ficio di praefectus praetorio. 

Forse fu platonico Flavio Mallio Teodoro, nato da ignota famiglia ligure: Sant’ Agostino, che nel 386 gli de- dicò il De beata vita, dice che conosceva bene Platone, Dopo essere stato per qualche tempo avvocato, poi go- o vernatore in Africa e consolare della Macedonia e aver coperto vari uffici a corte, fu praefectus praetorio delle Gallie (382-383). 

Negli anni successivi si occupò del- l’amministrazione dei propri beni e di studi filosofici e astronomici e scrisse dialoghi su questi argomenti, Stilieone lo nominò praefectus praetorio per l’Italia, l’Illirico e l'Africa (397 sgg.); mentre conferiva questo ufficio ebbe il consolato (399) e in quell'occasione Clau-. diano gli dedicò un panegirico. Dal 13 settembre 408 al 15 gennaio 409 fu praefectus praetorio d’Italia. 

Di resta un breve scritto De metris, mentre si sono perduti altri lavori, tra i quali un De natura rerum. ) Caleidio (Calcidius o Chalcidius), che tradusse e come mentò il Zimeo di Platone tino a 53 e. per impulso di un Osio al quale con una lettera dedicò l’opera sua, è un platonico con forti tendenze eclettiche. Secondo la tradizione manoscritta si dovrebbe identificare il dedi- catorio del lavoro a quell’Osius o Hosius che dal 295 fino alla morte fu vescovo'di Cordova e prese parte ai concili di Nicea (325) e di Sardica (343) : nella stessa e- poca sarebbe vissuto Caleidio, che viene detto diacono o arcidiacono di quella diocesi. In ogni modo è molto yerosimile che fosse cristiano, perchè nel Commento mo- stra di conoscere bene la Bibbia che ritiene ispirata da Dio, cita Origene e accenna a credenze della nuova religione. Il Commento di Caleidio deriva in ultimo da quello di Posidonio, mediato però da uno del peripatetico Adrasto d’Afrodisia (inizio del 2° secolo a. C.) per la parte matematica, astronomica e musicale e da uno di mn seguace del Platonismo Medio, dal quale sembra provenire anche lo pseudo-plutarcheo De fato. 

Non è escluso, anzi, che il secondo commento sia stato l’unica fonte di Caleidio che si sarebbe limitato a tradurlo con poche modificazioni. Egli sopra tutti i filosofi ammira Platone, di cui cita passi di diversi dialoghi; inoltre men- ziona molti altri autori (stoici, neo-pitagorici, Filone d'Alessandria, Numenio), che probabilmente conosce soltanto indirettamente. Queste citazioni svariate sono l’espressione estrema del suo eclettismo a base plato- nica. Col maestro, parla di tre principi delle cose, Dio, il modello (cioè le Idee) e la materia : in ciò si accorda con Albino, col quale riduce le Idee a pensieri divini. 

Con lo Stoicismo identifica Dio al principio attivo, la materia al passivo. 

Però, mentre fa di questa un prin- cipio originario e sostiene che il mondo non è stato creato nel tempo, Caleidio si sforza di accordarsi con la Bibbia, affermando che in questi argomenti l'origine di cui si parla non ha carattere cronologico, ma designa una dipendenza. Si esprime quindi in modo improprio quando ammette l'eternità dell’origine delle cose e della materia. Da questa, in cui Dio ha impresso le immagini delle Idee, sono provenuti i corpi. 

Mentre in questa parte, in complesso, predomina il pensiero di Platone, nello studio delle potenze divine si presentano dottrine del Platonismo Medio, che preparano quelle neo-pla- toniche, ma in alcuni punti essenziali ne differiscono fortemente. Al vertice sta il Dio supremo o il Sommo Bene, che, con Platone, è posto sopra ogni sostanza e dichiarato superiore all’intelletto e ineffabile. Al disotto di esso sta il secondo Dio, la Provvidenza, identificata | al vobis, che è la volontà e insieme lV’eterno atto della mente divina. 

Le cose divine intelligibili e quelle pros- sime ad esse, sottostanno soltanto alla Provvidenza, le naturali e corporee sono soggette al fato, o serie delle cause, che deriva dalla prima ed è una legge divina promulgata per reggere ogni cosa. Di questa legge è custode la terza Divinità, Anima Cosmica, che Cal- cidio chiama la seconda mente o il secondo intelletto. 

Questa tripartizione della Divinità (che è completamente antieristiana) riprende uno schema di Albino esi allontana dal Neo-Platonismo perchè non denomina Uno il primo principio, gli attribuisce la volontà che Plotino gli nega e non parla della derivazione della materia nei ter- mini caratteristici di quel sistema. 

La teoria della Provvi- denza e del fato (affine a quella dell’opera pseudo-plu- tarchea) sembra pure attinta a una fonte medio-plato- nica. Le teorie sui demoni e sul destino delle anime dopo la morte concordano con quelle della scuola platonica © di Posidonio. In complesso Caleidio giustappone teorie svariate senza riorganizzarle, e non si accorge che al- cune di esse sono inconciliabili colla sua fede religiosa. 

La sua opera, però, sebbene priva di ogni originalità, fu | l’unica via di accesso alla filosofia platonica di cui sino al secolo 12° potè disporre il Medioevo e costituì per esso una delle fonti maggiori della storia del pensiero antico. 

Visse nel 5° secolo il platonico Polemio, filosofo, oratore, poeta e buon conoscitore delle scienze mate- matiche e astronomiche. Discendeva da famiglia insigne e contava. fra gli antenati î Corneli e lo storico Tacito ; fu praefectus praetorio delle Gallie. 

EA Si possono collegare al Neo-Pitagorismo Favonio Fulogio e Marziano Capella. Il primo, cartaginese, pre- sumibilmente cristiano, ebbe come maestro di retorica sant'Agostino, dal quale risulta che esercitava quell’arte in Africa (dal 384 al 388). Dedicò la sua breve opera 

Disputatio de sommio Scipionis & Superio, consolare della provincia di Bizacena. Quello scritto in ultimo deve derivare dal commento posidoniano al 'imeo, mediato da Varrone, al quale si ritengono attinte le fonti citate, che sono soprattutto greche. 

La prima parte dello scritto presenta la teoria dei numeri essenza delle cose e tratta del significato simbolico di essi, dall’1 al 9; la seconda si occupa dell’armonia delle sfere. Queste teorie sono pitagoriche in generale ; ma il Neo-Pitago- rismo appare in ciò che Favonio dice della monade, in cui espone in modo poco chiaro una teoria monistica che deriva da essa ogni realtà. 

Il numero è eterno, in- telligibile, incorruttibile, e include con la potenza tutto ciò che è; ma inteso in senso proprio è una pluralità unificata e divisibile e perciò comincia con la diade ; invece la monade, l’unità assoluta e indivisibile e iden- tica a Dio, è il seme e l’inizio dei numeri. Questi poi sì distinguono dalle cose corporee numerabili che sono ac- cidenti e sostrati dei primi, che sono riducibili alla mo- nade. Però le cose numerabili non sono altro che tale unità assoluta, che è prima, entro e dopo tutte le cose. 

Infatti ogni quantità proviene dall’uno e in esso mette capo ed esso permane immutabile quando periscono le altre cose che possono accoglierlo in sè. 

Marziano Minneo Felice Capella, africano di Carta- gine, di religione pagana, scrive il "De nuptiis Philologiae et Mercurii" in nove libri. 

Il titolo dell’opera (che è una mescolanza di prosa e di versi e perciò è simile a una satira menippea), si applica propriamente ai due primi libri introduttivi, in cui si parla delle nozze del Dio dell'attività intellettuale (Mercurio = Hermes) con la personificazione della erudizione enciclopedica. 

Principale fonte di questi libri si ritengono gli scritti teologici di Varrone, mediati probabilmente da | Cornelio Labeone. 

Il contenuto vero dell’opera, che è un'enciclopedia, è costituito dai libri III-IX, in cui, sono trattate le sette arti liberali considerate dall'autore (grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica, astronomia e musica), presentate come donne che accompagnano la Filologia. 

Marziano ricorda altre due discipline incluse da Varrone nella sua enciclopedia (medicina è architettura), ma non vuole considerarle.

Può darsi non sia stato il primo a procedere così, ma è probabile che da lui il Medio Evo abbia preso la distinzione delle arti del trivium e del quadrivium. 

Marziano deve avere preso a modello l'enciclopedia varroniana, che gli è anche servita sino a un certo punto come fonte; ma è probabile che abbia attinto principalmente a lavori spe- ciali più tardi. Sebbene sia una compilazione priva di valore intrinseco e piena di cose male intese e anche di contraddizioni, l’opera di Marziano fu studiata appas- sionatamente nel Medio Evo che l’usò anche come testo scolastico, la commentò e la tradusse. 

Per la storia della filosofia hanno importanza, più della trattazione della dialettica (1. IV), ciò che dice il libro VII (De arithmetica) sulla sacra monade, identificata a Giove e quali- ficata altrove pater ultra mundaniis. 

Essa è il padre di ogni essere, è il seme degli altri numeri e da essa sono.procreate tutte le altre cose. La monade è prima che siano le cose esistenti e permane quando esse si distruggono, perciò deve essere eterna. 

È così presentato un monismo che dalla forza causatrice di quella realtà ideale e in- telligibile, fa provenire sia i puri numeri che gli esseri numerabili che si collegano a quelli. In tal modo dal- l’unità prima sono generate la diade, che è riferita alla materia procreante, e la triade che conviene alle forme ideali e all'anima (in quanto, secondo Platone, include tre parti); e dalla diade provengono gli elementi che in- sieme costituiscono il mondo, che come tale ha per nu- mero il cinque. Questa derivazione dall'unità è molto confusa, ma si collega evidentemente alle teorie del- Neo-Pitagorismo. 4 

Di altri filosofi si hanno, in generale, scarse notizie. Giuliano ricorda come suo contemporaneo il cinico Se- reniano. 

Eustazio, che figura tra gli interlocutori dei Saturnali di Macrobio (in cui parla delle conoscenze filosofiche di Virgilio), dovette vivere nella seconda metà del 4° secolo. 

Secondo Macrobio univa in sè il sapere di Carneade (neo-accademico), di Diogene (stoico) e di Critolao (peripatetico) ; aveva conosciuto tutte le scuole, ma seguiva la più credibile : ciò fa pensare che aderisse al probabilismo di Carneade. 

Di altri filosofi che ricorderemo si ignora la scuola. 

Un Albino, di cui Boezio menziona seritti di geometria e di dialettica, forse è identico a quel Ceionio Rufio Albino che fu console nel 335 e prefetto della capitale dal 30 dicembre 335 al 9 marzo 337. Filosofo era Baraco (Barachus), che si reca da Roma nelle Gallie. 

Virio Nicomaco Flaviano (n. e. nel 334, m. nel 394), figlio di un canosino, fu questore, pretore, venne accolto nel collegio dei pontefici e nominato consolare della Sicilia. Forse perchè pagano, soltanto nel 376 conseguì il vicariato d'Africa. 

Cadde in disgrazia presso Graziano, ma la sua ampia erudizione gli arrecò il fa- vore di Teodosio, che dopo avergli concesso importanti uffici a corte, lo nominò praefectus praetorio dell’Italia, dell’Ilirico e dell’Africa, poi, dopo un periodo di eclissi, ebbe di nuovo quella prefettura.

Tale ufficio gli fu conferito per la terza volta dall’usurpatore Eugenio, che lo nominò console per il 394. Flaviano sperava di potere abbattere il Cristianesimo con la vittoria di Eugenio e si uccise quando questo fu sconfitto da Teodosio che, in considerazione della sua fama letteraria, ne deplorò la morte in Senato. 

Godeva autorità soprat- tutto nella scienza augurale e nell'arte mantica in ge- nerale; Macrobio nei Saturnali gli assegnò l’ufficio di interprete della teologia virgiliana. Studioso di filoso- fia e amico di Eustazio, pubblicò un libro De dogmatibus philosophorum, tradusse la vita di Apollonio di Tiana di Filostrato, compose uno scritto grammaticale De consensu mominum et verborum. Ottenne fama soprat- tutto con una grande opera storica, gli Annales, dedi- cata a Teodosio nel 383. 

Eusebio, maestro di Sidonio Apollinare, che parlava ai suoi scolari di Platone e di Aristotele, forse è identico a un Eusebio che viveva nelle Gallie.

Altro suo scolaro fu Probo, figlio di Magno (cons. 460), che secondo il suo condiscepolo Sidonio si occupava intensamente di filosofia e principalmente della logica aristotelica ; anche in seguito continuò a coltivare gli studi. 

Tullio Marcello di Cartagine scrisse sette libri sui sillogismi categorici e ipotetici.

Alcuni serittori che non si occuparono in modo par- ticolare di filosofia, mostrarono di interessarsene : così fece Giulio Firmico Materno, siciliano, senatore, wir consularis, che, stancatosi presto dell'avvocatura, si de« dicò agli studi. 

Per le insistenze di Lalliano Mavorzio, che lo aveva accolto molto amichevolmente quando era governatore della Campania, pubblicò fra il 334 e il 337, per mantenere la promessa che aveva fatto in quell'occasione, un’opera di astrologia, Mathesis, in otto libri, dedicata al sno protettore, allora proconsole d’A- frica : è il più ampio trattato di quella materia che l’antichità abbia trasmesso. 

Il libro I è un’introduzione in cui l'astrologia è difesa dalle critiche dei neo-accade- mici e principalmente di Carneade. 

L’autore riconosce la difficoltà delle predizioni astrologiche, che spiega platonicamente con la debolezza della natura umana in cui lo spirito è legato al corpo terreno, ma se esso si libera dai vincoli di questo ed è consapevole della sua origine celeste, facilmente, con la divina ricerca della mente, consegue risultati difficili ed ardui. Firmico esalta la grandezza di quello spirito, parla della sua affinità con l’anima e l’intelletto delle stelle e accenna alla teo- ria della reminiscenza. Fonti di questi pensieri si consi- derano Posidonio e Cicerone; dal primo, e forse anche da Porfirio, può derivare altresì la discesa e l’ascesa delle anime. 

Considerando i rapporti fra l’azione dei cieli e la volontà umana, Firmico afferma che le stelle sono causa delle nostre passioni e dei nostri impulsi malvagi, ma che il nostro spirito per la sua origine di- vina può sottrarsi al loro potere; anche queste tesi concordano, oltre che col Neo-Platonismo, con lo Stoi- cismo posidoniano. I libri II-VIII trattano dell’astro- logia propriamente detta. 

Firmico esige dai cultori di essa una condotta morale retta e pura e vieta loro di occuparsi di ciò che riguarda l’imperatore, perchè, es- sendo una Divinità, non è sottoposto alle stelle. In quest'opera, che offre una testimonianza importante del timore che nell’età dell’antore il potere dei cieli incuteva anche alle classi superiori, appaiono influssi stoici, in generale ma non sempre posidoniani, piuttosto che spe- cificamente neo-platonici e se in certi punti l’intonazione religiosa e mistica concorda con lo spirito di questa scuola, si deve anche pensare al carattere generale della filosofia contemporanea. 

Nell'insieme, Firmico non può considerarsi il seguace di alcun indirizzo determinato. 

Egli si convertì poi al cristianesimo e serisse fra il 346 (?) e il 350 il De errore profanarum religionum, che è una violenta polemica contro il paganesimo di cui chiede la distruzione dagli imperatori Costazio e Costante. 

Servio nei Saturnali di Macrobio, rivolti alla glorificazione di Virgilio, appare uno degli interlocutori; signora la sua patria, ma è certo che la sua attività letteraria e didattica ebbe per sede Roma. 

Predilesse Virgilio, che esalta come il maestro di ogni sapere e che commentò in un’o- pera (composta dopo il 395; forse tra quest'anno e il 410) di cui rimangono due redazioni. 

La più breve sembra tramandare lo scritto autentico di Servio, mentre la più ampia (Servius auctus o plenior o Scholia Danielis, dal P. Daniel, che la pubblicò nel 1603) pare de- rivata dalla prima e da una riduzione del commento di Elio Donato. 

Si discute se gli appartengano l’Expla- natio dell'Arte Grammaticale dello stesso Donato e tre scritti di metrica. 

Il Commento include non poche dot: trine di carattere filosofico, che però provengono dalle fonti usate da Servio. Si è voluto fare di lui un seguace del Neo-Platonismo, ma da una parte non è lecito attri- buirgli una teoria filosofica organica e dall’altra le pro- posizioni che dovrebbero provenire da quella scuola non sono proprie di essa, perchè appartengono al Platonismo in generale, a Posidonio, o anche alle credenze mistico- religiose di quell’età (natura divina dell'anima, immor- talità di essa quale principio di movimento, sue trasmi- grazioni, suoi destini dopo la morte, teoria delle sfere). 

Quando, oltre alle tre anime, vegetativa, sensitiva e ra- zionale, ne ammette anche una quarta, la vitale, princi- pio di movimento, si allontana dalle teorie tradizionali inelusa la neo-platonica. Quando afferma che nulla esi- ste salvo i quattro elementi e Dio, che è uno spirito (o una mente, o un'anima) il quale, infuso in essa, genera ogni cosa, sicchè uguale è la natura di tutte, ae- cetta in complesso la cosmologia stoica esposta da Vir- gilio, che però cerca di liberare dal suo materialismo originario. 

Del resto, esplicitamente loda gli stoici (et nimiae virtutis sunt, et cultores deorum), che contrappone agli epieurei che critica spesso. 

In Servio mancano un pensiero coerente e un indirizzo preciso, sebbene si af- fermino in lui le tendenze religiose e mistiche dell’età sua. Si può ricordare infine che si occupò di letteratura antica e di filosofi platoniea Teodato, figlio della sorella di Teodorico, che fu re degli Ostrogoti in Italia, dalla fine del 535 al principio del 536. Così il pensiero greco, nella sua veste latina, entrava da dominatore nella mente dei sovrani barbari. 

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Sebbene appartenga cronologicamente al Medio Evo, Anicio Manlio Severino Boezio si collega sotto importanti rispetti al pensiero antico, di cui appare l’ultimo rappresentante. 

Nacque dalla famiglia degli Anici, ricca e distinta. 

Perdette presto il padre, FI. Anicio Manlio Boezio, ma nella sua prima età fu curato da uomini insigni, particolarmente da Q. Amelio Memmio Simmaco, suo cognato (discendente dall’oratore e console, prefetto di Roma, sotto Teodorico, re degli Ostrogoti, princeps senatus nel 524), che lo fidanzò alla figlia Rusticiana. 

Boezio si acquistò fama col suo sapere che attirò su di lui l’attenzione di Teodorico, che gli conferì incarichi e uffici importanti, Nel 510 era console senza collega, nel 522 i suoi figli ancora fanciulli conse- guirono il consolato ; nel settembre di quell’anno fu magister officiorum; però, come in generale il Senato romano al quale apparteneva, e i romani, era ostile al governo goto. Boezio, per mezzo di false testimonianze, fu involto in un processo di alto tradimento contro il sovrano, per intese con l’imperatore d’Oriente e accusato anche di sacrilegio. 

Venne dapprima rinchiuso in agro Calventiano (pare vicino a Pavia) ove scrisse il De consolatione philosophiae ; poi, probabilmente, incarcerato nella torre del Battistero di Pavia. Condannato a morte senza essere stato ascoltato, fu, secondo una tradizione, torturato e giustiziato nel suo carcere ; secondo un’altra a Calvenzano (524 o 525). Il suo corpo, sepolto da prima nell'antica cattedrale pavese, venne poi tra- sportato in S. Pietro in Ciel d’oro ove ancora riposa. 

La leggenda popolare lo ha rappresentato come un martire della fede cattolica, vittima dell’arianesimo goto. 

La fede di Boezio si è dubitato lungamente, anche perchè si è messa in dubbio l'autenticità dei smoi scritti teologici; quanto ai contrasti che si sono voluti porre tra certe sue teorie filosofiche e le credenze cristiane, non hanno il significato che è stato loro attribuito, ® in vari casi, si incontrano in altri serittori del periodo patristico. 3 

Boezio si assegnò il compito di far conoscere ai smoi connazionali le opere di Platone e di Aristotele, di eui voleva mostrare (al pari dei neo-platonici) l'accordo rispetto ai problemi filosofici fondamentali, ma riuscì 2 realizzare il suo progetto soltanto per l'organo aristotelico. 

Però si occupò anche di alcune opere di Cicerone e di Porfirio e di scienze matematiche, che considerava UN presupposto necessario della ricerca filosofica. 

Rimangono i due manuali giovanili, De Institutione Arithmetica libri duo, elaborazione abbreviata di Nicomaco di Gerasa, e De Institutione Musica libri quinque (1acu- noso), in cui Boezio si vale di fonti greche, soprattutto di Nicomaco, di Euclide e di Claudio Tolomeo. Restano frammenti della sua geometria (versione di Euclide) : quella in due libri che porta il suo nome è apoerifa. 

Una antica testimonianza afferma che serisse di astr0- nomia e di meccanica, ma queste opere si sono pert- dute. 

Gli scritti, molto più numerosi, che riguardamo la logica si dividono in traduzioni, commenti e opere originali. 

Boezio traduce l’Isagoge (Introduzione) di Porfirio alle Categorie di Aristotele e diversi seritti logici di questo : le Categorie, il De interpretatione, i due Analitici, i Topici, probabilmente gli Elenchi sofistici (egli stesso ricorda le versioni dei Primi Analitici e dei Topict). 

Però studi recenti fanno ritenere che la versione delle Categorie che porta il suo nome appartenga a uno s©0- lastico dell'XI secolo e che quella originaria si deb®b® riconoscere in una anonima nei manoscritti. 

Certamente non gli appartengono le traduzioni dei due analita0, dei Topici e degli Elenchi sofistici che gli sono attribuite e che sono invece di Jacopo da Venezia (1128). Nel secolo XIII si ricordano altre versioni boeziane di Aristotele [del De anima, della Fisica, della Metafisica]; ma si ignora se fossero sue). Boezio compose due commenti per l’Isagoge di Porfirio ; uno, in due libri, più elementare, serittoin forma dialogica è condotto sulla versione di Mario Vittorino ; l’altro, più approfondito in cinque libri, in forma sistematica (composto prima del 510), inelude la traduzione dell'autore. In questi due commenti Boezio si servì di quelli di autori neo-platonici. Il commento alle Categorie in quattro libri fu seritto nell’anno del consolato. 

Anche per il "De interpretatione" Boezio scrive due commenti.

Il primo, in due libri, è destinato ai principianti.

Il secondo in sei, è molto più esteso e costituisce l’opera logica più importante dell'autore, che si è servito principalmente di Siriano e di Porfirio. 

Boezio compose anche un commento ai Y'opiei di Cicerone, che però manca dell’ultima parte. 

Scritti logici originali sono i seguenti: 

"Introductio ad categoricos syllogismos"

"De syllogismo categorico"

"De syllogismo hypothetico"

"De divisione"

"De differentiis topicis"

Boezio lavora di suo specialmente nel "De sillogismo hypothetico," in due libri, perchè le fonti precedenti gli davano ben poco aiuto. 

Il "De definitione" che gli è attribuito spetta a Mario Vittorino. 

Il "De unitate," che pure portava il suo nome, è di Domenico Gundisalvi.

Alcuni scritti che pare abbia composto si sono perduti ("Sulla fisica," "Categorica institutio," "De ordine peripateticae disciplinae," "Questioni sulle categorie," un compendio del "De interpretatione."

Oltre alle versioni perdute di seritti aristotelici già ricordate, sembra perduto anche un Commento agli analitici. 

Si è molto contestata l’autenticità di alcuni trattati teologici che portano il nome di Boezio (De sancta Trinitate. De persona et duabus ‘naturis in Ohristo contra Eutychen et Nestorium. Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur. Quomodo substantiae in se quod sint bonae sint, cum non sint substantialia bona [o Liber de Hebdomadibus]. De fide christiana); ma ormai per i primi quattro sono cessati i dubbi. Generalmente si ritiene apocrifo il De fide catholica, che però trova difensori. Questi scritti si assegnano agli ultimi anni di Boezio e la loro autenticità è prova del suo eristianesimo. 

Mentre negli scritti ricordati è usato uno stile tecnico, carattere letterario ha quello dell’ultima opera boeziana, il De consolatione philosophiae, in cinque libri, composta da Boezio mentre era tenuto in custodia a Calvenzano. 

In questo scritto, misto di prosa e di versi sul genere delle Menippee, la filosofia appare a Boezio e, «dopo averlo indotto a narrare la storia delle sue sventure, cerca di confortarlo coi luoghi comuni dei protrettici ; poi gli mostra che ogni cosa è governata dalla Provvi- denza a fini buoni, sicchè l’uomo deve sperare in Dio e rivolgergli preghiere, perchè conduce tutta la sua vita sotto i suoi occhi. 

Sebbene il De consolatione non con- tenga teorie effettivamente inconciliabili con la fede cristiana, anzi si possa accordare completamente con essa, non accenna all'insegnamento del Vangelo; ma ciò non prova che Boezio non fosse sinceramente eri- stiano, perchè in quello scritto voleva trattare le que- stioni coi soli mezzi offerti dalla filosofia. 

La "Consolatione" appartiene al genere consolatorio iniziato da Aristotele col Protrettico e introdotto nella letteratura romana da Cicerone con l’Ortensio. In parte dipende dall'opera aristotelica e inoltre da Posidonio ; questi influssi si ritengono mediati da qualche fonte più recente, che' però non si dovrebbe ricercare, come si era pensato, nello seritto di Cicerone. 

Il pensiero di Boezio presenta due aspetti, filosofico l’uno, teologico l’altro (per brevità si denomina teologia quella che parte dalla rivelazione) ; per l’una appartiene al mondo antico, per l’altra al cristiano, perciò è stato chiamato sia l’ultimo dei filosofi romani, sia il precur- sore degli scolastici. 

Occorre però non dimenticare che le concezioni filosofiche di Boezio si debbono ricercare, oltrechè nella Consolazione, anche negli seritti teologici, 

In ogni modo è certo che, precorrendo la Scolastica, egli distingue recisamente le sfere della conoscenza na- turale, cioè della filosofia, da quella della fede ossia dalla teologia, pure assegnando alla prima l’ufficio di inter- pretare il dogma (che essa deve accogliere dalla seconda) e di mostrare che è in accordo con le esigenze della ragione. 

Nella sfera propriamente filosofica, Boezio si dichiara platonico, ma in realtà egli dipende da Aristotele anche più che da Platone e accetta dottrine medio e neo-platoniche e stoiche, sicchè espone una dottrina aristotelico-platonica (del resto mirava a dimostral'accordo sostanziale delle die filosofie) con carattere eclettico. 

Occorre osservare che l’interpretazione ne è resa difficile dal diverso significato che egli attribuisce alle stesse parole anche se designano concetti fonda- mentali. 

Nella divisione delle discipline filosofiche di carattere teoretico (che distingue da quella pratica), Boezio riprende l'insegnamento di Aristotele e lo tra- smette alla Scolastica. La fisica ha per oggetto esseri individuali risultanti di forma e di materia e in movi- mento ; la matematica fa astrazione dalla materia di talî esseri e ne considera soltanto le forme, che sono immobili ; la teologia (modernamente la metafisica) ri- guarda l’Essere Divino, pura forma separata da ogni materia e immobile. Questa divisione include alcune delle dottrine più importanti di Boezio, soprattutto le concezioni aristoteliche di forma e di materia, che egli accetta senza discussione; del resto, spesso procede nello stesso modo anche perchè accoglie come nozioni comuni (o assiomi) le proposizioni che, a suo parere, sono ammesse e principalmente dai docti. L'interesse di Boezio si concentra sulla metafisica, perchè il cuore della sna dottrina è il concetto di Dio. Stando, come egli afferma, alla concezione comune degli uomini (secondo la quale nulla si può pensare che sia migliore di Dio), Boezio identifica questo al Sommo Bene, o alla per- fezione, o alla felicità. 

Tale identificazione era stata fatta, prima che dal Neo-Platonismo, da Teofrasto, che vo e ‘ afferma che ogni altro essere (essenza) proviene dalla aveva inteso l’Idea del Bene come la Divinità, Il Sommo Bene è poi identificato all’Uno. È così ripresa una teoria dell'ultima filosofia di Platone e del Neo-Platonismo, ima Boezio cerca di giustificarla a modo suo. In ogni modo egli intende Dio non come il primo principio impersonale del Neo-Platonismo, ma come una perso- nalità attiva, che si avvicina al Demiurgo del “'imeo (altre affinità si vedranno poi), dal quale però differisce perchè ha le Idee non sopra di sè, ma nella propria mentè. Platonica è pure l'affermazione che l'eternità propria di Dio è un presente immutabile : in esso Dio contempla con una visione semplice e indivisibile tutto ciò che fu, è e sarà. Per provare l’esistenza di Dio, Boezio ado- pera vari argomenti, che derivati da fonti più antiche, dovevano essere ripresi anche in seguito, specialmente dagli scolastici. 

Uno, derivato essenzialmente dallo seritto giovanile Sulla filosofia di Aristotele afferma che se esistono gradi di bontà nelle cose, deve esistere un bene sommo, cioè Dio. Un altro, che pure si trova nello stesso seritto aristotelico e che è stato spesso ripreso in seguito, prova la esistenza di esso per mezzo dell’ordine unitario dell'universo. Egli accenna anche all'argomento, di ori- gine aristotelica, che stabilisce la necessità di porre la prima sorgente di ogni mutazione e di ogni movimento in un motore immobile. Sotto questo aspetto il Dio di Boezio ha caratteri aristotelici, Dio è pura forma senza materia, ossia è il puro essere in quanto essenza (infatti, esse, salvo nel secondo Commento a Porfirio, in cui de- signa l’esistenza, equivale all'essenza). te è l’unica vera forma e non è un’immagine di essa. È chiaro che così è ripresa la teoria platonica che vede nelle cose soltanto le immagini delle Idee ; quindi quando Boezio forma o essenza divina, vuol dire che nelle cose diverse da Dio si trovano i riflessi di quelle essenze che si rac- colgono in unità semplice e indivisibile nel loro prin- cipio. 

Perciò egli può parlare del fluire di ogni altro essere da Dio e della partecipazione di questo da parte di quello, senza intendere tali espressioni nel senso di quel panteismo che esplicitamente condanna. Egli può infatti sostenere che la Divinità non può espandersi nelle cose esterne nè accogliere in sè alcuna di esse, perchè le essenze 0 forme di queste sono soltanto immagini di quelle che costituiseono la prima. 

Le cosidette forme di cui parla Boezio sono gli universali (generi e specie) di cui si occupa nei due Commenti a Porfirio. 

Nel se- condo, che è molto più importante, non si pronuncia tra Platone, che aveva ammesso l’esistenza di universali (Idee) fuori delle cose e di Aristotele, che aveva insegnato che essi esistono soltanto in queste, sebbene in complesso mostri di preferire la soluzione aristotelica, che espone anche nelle opere posteriori. 

Però negli esseri individuali egli ritiene esistere non le forme vere e proprie (come Aristotele), bensì imitazioni di esse. 

Le differenze degli esseri individuali diversi da Dio dipendono dai loro accidenti, determinati dalla materia, che in essi è sempre unita alla forma. 

Ma, come si è visto, Boezio parla di tale unione per gli esseri corporei : inol- tre egli afferma che quelli incorporei non hanno un fon- damento nella materia. 

Non si vede quindi come possa ammetterne altri oltre Dio, e ritenere che sono incorporei Dio e l’anima e, come si vedrà, altri esseri. L’azio- ne creatrice di Dio, padre di tutte le cose, consiste dunque nell’imprimere le immagini delle forme nella materia, portando così all'esistenza gli esseri individuali. Siccome Boezio non dice che abbia creato la materia dal nulla, pare che la consideri inereata ; e con ciò si accorda il fatto che sembra ammettere che il mondo non abbia avuto un principio nel tempo, ossia che, pure non es- sendo eterno, sia perpetuo. Quanto agli esseri spirituali di cui Boezio parla (l’Anima Cosmica, la Natura, gli spiriti motori delle stelle, gli angeli, i demoni, le anime umane), presenta difficoltà l’esistenza di quelli che, come gli angeli, probabilmente i demoni, certamente . le anime degli uomini che sono immortali, nella vita che precedeva questa e in quella che la seguirà, sono pensati privi di corpo e quindi di materia. In ogni modo, queste concezioni di Boezio si conformano alle opinioni dominanti nell'età sua e ad esse e a quelle di Platone, corrisponde il cenno che riguarda le pene dei malvagi dopo la morte. 

Come il Demiurgo platonico, il Dio di Boezio ha per la sua bontà creato il mondo e ha cercato di renderlo bello come il modello che ne aveva in mente ; egli governa con la bontà tutte le cose che volentieri gli obbediscono e sono rivolte al bene, perchè, essendo ereate da Lui, sono buone. Dio, sebbene onnipotente, non può fare il male, che perciò è un nulla (nihil est quod ille [Deus] non possit... malum igitur nihil est, cum id facere ille non possit). Dio tutto governa con una legge perpetua e immutabile che è, secondo il modo in cui viene considerata, la Provvidenza o il fato. 

La prima, che si identifica con la ragione divina, è l’ordinamento delle cose nella sua unità semplice ; il secondo è l’esplicazione nel tempo di quell’ordinamento (in quan- to inerente alle cose particolari in mutamento e in suc- cessione) nella molteplicità delle sue determinazioni, Per- ciò il fato non può mai venire in contrasto con la Provvi- denza, da cui dipende ; e mentre tutto ciò che sottostà al fato obbedisce alla Provvidenza, aleune cose che sono rette da questa (quelle cioè che più si avvicinano alla semplicità e alla immutabilità divina) superano il domi- nio di quello, che però tutto governa nei cieli e in terra e costringe nel nesso indissolubile delle cause anche le azioni e le fortune degli uomini. Non esiste il caso, che questi, nella loro ignoranza delle cose, ritengono gover- nare il mondo. 

L’accentuazione della Provvidenza e del fato rivela influssi stoici, la loro distinzione riporta a teorie del Platonismo Medio (Pseudo-Plutarco, De jato) e ai loro sviluppi neo-platonici. La Provvidenza divina, che è prescienza del futuro, non esclude la li- bertà del volere che appartiene necessariamente a ogni natura razionale e che è tanto maggiore quanto più l’anima s'immerge nella contemplazione di Dio, tanto minore quanto più si lega al corpo e si annulla quando sì abbandoni ai vizi. 

Per la sua debolezza, la nostra mente non riesce a comprendere che quella di Dio, che “ per la sua eternità immutabile contempla ogni cosa in un presente indivisibile, possa conoscere in modo neces- sario (come è tutto ciò che avviene quando avviene) anche ciò che è contingente e abbracciare con una sola visione quanto per noi si svolge nel tempo sénza privare della loro libertà le azioni umane, nello stesso modo che un uomo, che vede altri agire, non rende così necessari i suoi atti. Questa teoria, che riprende pensieri di Pro- celo e che ha avuto lunghi sviluppi fra gli scolastici, trascura il punto decisivo che per Boezio la Provvidenza è essenzialmente l’ordine necessario e immuta- bile delle cose tutte, e quindi anche delle azioni umane, 

Si pensa che la vita degli uomini sia governata dal caso, perchè l’esperienza mostra che spesso i buoni sono infelici e i malvagi felici e ciò non sarebbe possibile se la Provvidenza governasse il mondo ; ma questa convinzione proviene da una errata visione delle cose. 

Per desiderio naturale tutti gli uomini aspirano alla felicità, ossia al sommo bene, che include tutti gli altri, quel bene oltre il quale nulla si può ricercare; ma come si è visto, esso si identifica a Dio, in cui risiede la felicità, perciò gli uomini la conseguono partecipando di Lui e così assomigliandogli. Ora, conseguendo il bene che desiderano, gli uomini diventano buoni, quindi sono felici e la stessa bontà è il loro premio, siechè sono sempre ricompensati, mentre i malvagi, che non conseguono il bene cui aspirano, sono infelici e sono sempre puniti, perchè la pravità costituisce la loro pena. Non sono uomini, ma bestie e, avendo perduto la loro natura essen- ziale, non sono affatto. 

Riprendendo motivi del Gorgia platonico Boezio sostiene che i malvagi non sono potenti, ma deboli, perchè la capacità di fare il male è impotenza, che tanto più sono infelici quanto più conseguono ciò che desiderano e che infelicissimi sono coloro che rimangono impuniti delle loro colpe. Occorre non odiarli, ma compiangerli, perchè la loro mente è colpita dalla peggiore delle ma- lattie, la malvagità. Per convincersi che i lamenti che si fanno sull’immeritata sorte degli uomini, sono ingiu- stificati, occorre anche ricordare ehe la fortuna è instabile per natura, sicchè bisogna diffidare di essa, com- prendere che i suoi doni non rendono buoni gli uomini e che le cose esterne non sono veri beni e non rendono l’uomo felice (Boezio si diffonde molto su questa tesi, resa popolare dallo Stoicismo). 

Si aggiunga che la fortuna avversa è utile all'uomo, perchè la rivela nella sua natura instabile e gli fa distinguere i veri amici, che per la debolezza della nostra mente male possiamo giu- dicare chi sia buono, chi malvagio, che Dio sapiente- mente assegna all’uno e all’altro ciò che più gli conviene, che quelle che riteniamo ingiustizie del fato sono condi- zioni necessarie del bene di ciascuno, che Dio può va- lersi del male per il bene. In conclusione, ogni fortuna è buona; tutto è bene per i buoni, è male per i mal- vagi. 

L'uomo quindi deve confidare in Dio e rivolgersi a Lui con preghiere, combattere i vizi ed esercitare le virtù. In questa teodicea boeziana abbiamo ricordato rapporti con Platone e con lo Stoicismo ; nell’insieme, si avvicina fortemente a quello di Proclo. 

L’influsso esercitato da Boezio sul pensiero medioevale e vastissimo e profondissimo, tanto che si è potuto dire che la sua autorità è stata pari a quella di Aristotele e d'Agostino. 

A Boezio principalmente la scolastica si rivolge per conoscere le scienze matematiche dell’antichità. 

Ha attinto alle traduzioni di Boezio e ai suoi commenti la conoscenza della logica e agli altri suoi scritti quella di alcune tesi essenziali del liceo, tesi che talvolta determinano importanti sviluppi da parte dei maggiori scolastici, non tutti interpreti fedeli del suo pensiero. 

Inoltre Boezio fatto conoscere dottrine significative degl'academici e dei filosofi del portico. 

Come traduttore e come commentatore ha offerto agli scolastici modelli che sono stati imitati; come scrittore, ha iniziato la formazione della terminologia filosofica latina. Il suo Commento di Porfirio ha dato lo spunto alle discussioni sugli universali. Numerosi scolastici (e fra essi alcuni dei maggiori, come Giovanni Friugena e S. Tommaso) hanno commentato i suoi trattati teologici e, anche più numerosi commentatori ha avuto il De consolatione (per es. Giovanni Eriugena, Guglielmo di Conches, Pietro di Ailly...). 

Quest'opera fu tradotta nelle lingue di quasi tutti i popoli civili. 

Il re Alfredo d'Inghilterra ne scrisse una versione in anglosassone, Notker Labeone di S. Gallo (m. 1022), in tedesco, Giovanni di Meung in francese, Massimo di Planudes in greco. 

Ne esiste anche una traduzione in ebraico. 

Un ignoto pisano nell’inizio del secolo XIV e Alberto della Piagentina, detto Alberto Fiorentino, la volsero in italiano, seguiti poi da A. Tanzo e da B. Varchi e da altri. 

Il Leibniz la parafrasea brevemente in francese. 

L’opera boeziana trova nel Medio Evo numerosi imitatori’ (per es. Pietro da Campostella, Arrigo da Settimello, Albertano da Brescia, Giovanni da Tambach, Matteo di Cracovia, Giovanni Gerson). 

Per secoli, molte anime afflitte si rivolsero per conforto allo scritto boeziano.

Basterà ricordare il Convivio d'Alighieri (II, 12 [13], 2). 

In seguito però la produzione complessiva di Boezio perde importanza e conserva soltanto valore storico. 

Non occorre più volgersi ai suoi scritti per conoscere Aristotele; e per non parlare delle opere teologiche, dominate più da interessi dialettici che da altro, la stessa Consolatione e troppo ricca di rettorica e di luoghi comuni per attirare un interesse vivo. 

Effettivamente mancano a Boezio il senso intenso del dolore e della miseria degli uomini e l’esigenza viva dell’amore universale che caratterizzano i maggiori stoici dell’età imperiale.

Soprattutto non è traccia in lui della consapevolezza tragica del male e del peccato e della rovente passione religiosa d'Agostino, che nelle condizioni in cui era Boezio quando scrive la Consolatione - non avrebbe nemmeno un istante pensato a cercare conforto nelle fredde dottrine filosofiche dell’antichità. 

La filosofia di BOEZIO, priva di esigenze critiche e di pensieri originali, cerca di collegare motivi attinti a fonti diverse in un insieme che possa accordarsi con la rivelazione galilea.

Ma Boezio non riesce a fondere davvero gli elementi che adopera e ad animarli di vita nuova. 

È innegabile però che a differenza dei suoi predecessori, Boezio si è interessato soprattutto dei maggiori pensatori del passato, Platone e Aristotele, e ha sentito il bisogno di affrontare alcuni dei più importanti e ardui problemi della filosofia che prima di lui non erano stati trattati nel mondo latino. 

Chi, occupandosi della filosofia romana, si limiti, come di solito avviene, a considerarne i rappresentanti maggiori, è portato a giudicarla una semplice deriva- zione della greca 0, al più, quasi un innesto di un germe di questa sul tronco latino che vi ha impresso il carattere proprio di una accentuata praticità. 

La mentalità romana, si afferma, non possedeva vere attitudini filosofiche ; perciò nell’Urbe e nel mondo latino la filosofia rimase sempre una pianta esotica, un oggetto di lusso, che poteva attirare la curiosità di alcuni individui e anche di ristretti circoli intellettuali, ma non doveva mai penetrare molto a fondo nella cultura e nella vita. 

Però questo giudizio non appare più giustificato, quando da una parte si osservano da vicino le condizioni storiche dello svolgimento della filosofia romana e dall'altra tutti i cultori delle ricerche filosofiche del mondo latino. 

Come si è osservato, lo spirito romano da prima si è rivolto alla speculazione greca perchè questa corrispondeva alle sue intime esigenze e in seguito si è venuto svolgendo parallelamente ad essa, perchè era dominato dalle stesse preoccupazioni che si imponevano a questa. 

Se poi si tiene conto di tutti coloro che nel mondo romano si sono oceupati di filosofia.

I veri e propri filosofi, maggiori e minori, gli studiosi di discipline diverse che nelle loro opere mostrano di aver subito l'influsso di essa, gli uomini che, pur non avendo esplicato attività letteraria, hanno provato interesse per tali ricerche, si deve rico- noscere (se arbitrariamente non si nega carattere filosofico a tutte le ricerche che oltrepassano i limiti della gnoseologia e della metafisica) che a Roma, la filosofia trovato cultori tanto numerosi da infirmare la validità delle opinioni correnti. 

Si può dire che in pochi periodi storici ha suscitato un interesse così vasto e così vivo.

Ora, ciò non sarebbe stato possibile se non avesse risposto a esigenze profonde e sinceramente sentite. 

E questo non è tutto. 

Roma presenta un fatto unico nella storia d'Occidente, cioè, che salvo rarissime eccezioni, i cultori della filosofia sono stati uomini d’azione che hanno partecipato come militari, statisti, amministratori (senatori, questori, pretori, consoli, più tardi funzionari e consìglieri degli imperatori) alla vita dello stato, e a tale fatto se ne collega un altro, che coloro che hanno composto scritti filosofici, hanno quasi sempre coltivato altre discipline, letterarie, scientifiche, tecniche. 

Da tutto ciò risulta che la filosofia, da una parte ha permeato di sè tutta la cultura romana, dall’altra che è penetrata bene addentro nella vita, alla quale si è strettamente congiunta. 

Queste osservazioni permettono di valutare equamente l'ufficio compiuto dalla filosofia romana nella storia dell'umanità. 

Considerata sotto l’aspetto rigorosamente teoretico, la filosofia romana non presenta nè grandiosi sistemi concettuali, nè pensieri nuovi e originali.

Ma le stesse cose debbono ripetersi per quella ellena, dall’inizio dell’età ellenistica sino alla fine dell'antichita, con due eccezioni: da una parte la costruzione di Plotino -- che del resto rimane eclettica e deve il segreto del suo fascino soprattutto all’intensa vita spirituale che la pervade -- dall'altra, la eritica gnoseologica della scepsi.

E ingiusto limitarsi a giudizi di tal genere e non considerare che la filosofia romana possede altri significati e ha compiuto altre e importantissime funzioni e, prima di tutto, una grandiosa funzione culturale. 

Esso infatti fa penetrare nel mondo nell'occidente la conoscenza della filosofia e fa sì che tutti gli spiriti non volgari senteno forte e viva l’esigenza di non rimanere chiusi alla sua voce.

Si può dire che, più o meno, tutti romani colti si occupano di studi filosofici. 

Più tardi, nell’età medioevale la filosofia e conosciuta in lingua latina che rimane la principale fonte anche quando i testi aristotelici furono noti in versioni dirette.

Basta ricordare l’interesse provato dagli uomini del Rinascimento, dal Petrarca in poi, per Cicerone. 

Si può aggiungere che nell’età moderna numerosi uomini colti, ma non dotti di professione, hanno notizia della filosofia soltanto attraverso i romani. 

Inoltre, questi ci fanno conoscere non poche dottrine di cui sono sparite le esposizioni originali. 

E non si deve tacere che dalle dottrine filosofiche che i romani hanno attinto al Portico, i giuristi romani derivano la concezione di un diritto naturale e razionale, ugualmente valido per tutti gl'uomini.

Ma anche più importante è un’altra funzione compiuta dai filosofi romani: quella di avere elaborato due visioni della vita e dei suoi ideali che hanno esercitato attraverso i secoli un’azione che ancora non è finita. 

Per i romani, la filosofia e soprattutto guida e maestra di condotta, ciò spiega perchè la determinazione dell’ideale della vita dovesse interessarli tanto fortemente. 

Cicerone costrusce l’ideale aristocratico dell’"humanitas," intesa come libera e armonica formazione di una personalità superiore. 

Ma, di fronte agli sconvolgimenti e alle crisi dell'età successive, l'ideale dell'"humanitas" cede il posto all’altro, dell'amore (caritas) universale per tutti gl'uomini, tutti uguali per natura, tutti *infelici* e destinati a un inevitabile dissolvimento.

Nel Rinascimento, l’ideale dell’"humanitas" risorse e domina di nuovo gli spiriti superiori.

Però, sul piano puramente umano, fra i due ideali di "humanitas" e "caritas" sorge un conflitto tra individualismo e universalismo, contrasto che cessare soltanto quando si affermerà che l’amore per tutti gl'uomini implica l’esigenza che a ciascuno di loro siano dati i mezzi per svolgersi liberamente come personalità autonoma. 

Una filosofia come la romana, che ha elaborato tali due ideali di vita della "humanitas" e della "caritas" universale, ha scritto nella storia dell'umanità pagine che e leggerezza o peggio non apprezzare degnamente. 

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